LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (6)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (6)

LA GRAN BESTIA SVELATA AI GIOVANI

dal Padre F. MARTINENGO (Prete delle Missioni

SESTA EDIZIONE – TORINO I88O

Tip. E Libr. SALESIANA

XI.

SANTA AMBIZIONE.

Abbiam veduto a che riducesi il mondo: il mondo che ride e schernisce: a una serqua d’arfasatti senza testa né cuore, dei quali l’uom savio non cerca, ma teme anzi l’applauso; e ha ragione. Io amo d’esser tenuto galantuomo; ma non vorrei, per tutto l’oro del mondo, che mel dicesse un ladro. Dunque si può cercare la stima? si può aver dell’ambizione?…. Sì, cari giovani, consolatevi; quest’innato, questo inquieto desiderio che dentro vi fruga, di farvi conoscere, stimare, voler bene, non è altrimenti peccato; anzi vi servirà d’un potentissimo stimolo al bene, d’un mezzo efficacissimo a farvi uomini veri, ove voi sappiate dirizzarlo a buon fine. Curam habe de bono nomine; ci dice lo Spirito Santo. Ora il buon nome (ponete mente) lo danno i buoni, e se lo danno i buoni non può essere che bene, e a loro, non ai tristi, dovete domandarlo. Io lo domando a voi, miei cari giovani, che siete buoni, o almeno avete un gran desiderio di diventarlo; e lo dimando, perché so, che se per mia disgrazia non avessi presso voi nome e stima di galantuomo, d’un uomo che vuole e cerca sinceramente il vostro bene, ben poco potrei farvene. Disistimato, disamato da voi… romperei la penna, straccerei questa carta, e invece di scrivere per voi, come faccio, come ho fatto le volte che, ho potuto in mia vita, come farò finch’io campi; andrei a nascondermi in un bosco, o a seppellirmi in una caverna. Tant’è, l’uomo che non gode buona stima, dicesse anche le cose più belle, e più, sante di questo mondo, non farà buon frutto giammai, anzi il darà talvolta cattivo. Mettetemi in bocca ad uno, che sia in voce di gran bevitore, il panegirico della sobrietà. Che vi diventa egli mai? Uno scherno. – Fissiamoci dunque qui. Voi potete, anzi dovete cercar di piacere; d’essere stimati ed amati: ma da chi? L’abbiam detto: dai buoni. E come dai buoni non si può ottenere stima ed affetto che per la virtù, dovete adoperarvi con ogni sforzo sinceramente virtuosi. –  Ma e chi sono codesti buoni, ai quali devo piacere? Prima di tutto, m’immagino, i vostri cari parenti. Oh sicuramente vostro padre; vostra madre son buoni, è buoni vi desiderano al par di loro; di più, a’ vostri parenti, dopo Dio, dovete l’esistenza: – Ricordati, o giovinetto, dice lo Spirito Santo, che gli è per essi che tu ci sei nato al mondo; e trattali con l’amore ch’eglino hanno trattato te. — Inoltre vostro padre lavora e stenta, chi sa quanto! Per voi ogni fatica gli par leggera pur di mettervi all’onore del mondo. Vostra madre poi, ah! la vostra cara madre che cuore ha per voi! Che pene ha sostenute ed è tuttor pronta a sostenere per amor vostro!.. Eravate bambini, deboli, miserabili, bisognosi di tutto..  senza di lei, del suo amore, delle sue cure, sareste morti mille volte. Le notti d’inverno vi sentiva piangere nel sonno, balzava dal letto, vi levava soavemente dalla cuna, vi racchetava al suo seno. Infermicci, vegliava accanto al letticello le lunghe ore, dimentica di sé, del suo cibo, del suo riposo. Quante volte pianse un amarissimo pianto, e quando, ancor pargoletto, la vostra fragile vita versava in qualche pericolo, e quando, fatto grandicello, incominciavate ad amareggiarle il cuore… Ah maledetto quel figliuolo (dice Iddio) che contrista cd esaspera il cuor di sua madre. E vi esorta ad ogni tratto nei libri della Sapienza: — Figlio, non dimenticare i gemiti di tua madre, — Figlio, ascolta tuo padre che ti ha generato, e tua madre guardati, dal disprezzarla, quando sarà curva per la vecchiaia. — Figlio, compatisci alla vecchiezza dei tuoi genitori, e non contristarli, finché il Signore te li conserva in vita: e se anche s’indebolisce loro il lume dell’intelletto, abbine pietà, e guardati, tu forte e giovane, dall’averli in dispregio. — Figlio, ricordati in fatti e in parole, con ogni pazienza, d’onorare i tuoi parenti, acciocché scenda sul. tuo capo la benedizione del cielo. –  Amarli dunque i genitori e servirli con rispetto e con la santa ambizione, ch’ei possano dir sempre di voi: — che anima buona! che bel cuore! che caro figliuolo!— E l’istessa testimonianza rendano di voi gli altri parenti vostri, fratelli, sorelle, cugini, conoscenti, amici di voi e della vostra famiglia. – Ricordo; da ragazzo, ero un frugolo bell’e buono… Ma che dissi, bell’e buono? Anzi brutto e cattivo, per mia disgrazia: brutto e cattivo dell’anima, che sovente disobbedivo a’ miei ottimi genitori, astiavo i fratelli, e persino quell’anima bella della mia unica sorellina….. quante volte ebbe a piangere della mia cattiveria! Basta, che a quattordici anni Dio buono mi toccò il cuore; Dio e la Madonna santissima, della quale, benché così cattivaccio, ero sempre stato devoto. Cambiai come da notte a giorno, divenni pio, docile, mansueto come un agnello: fu un miracolo, un gran miracolo, ch’io non capisco ancora adesso come accadesse in me; ma un miracolo, che mi rese felice. Prima in uggia a tutti, sempre triste, sempre pieno d’un umor nero… Ora invece, amato, carezzato; ben voluto dalla famiglia; dagli amici, da tutte le buone persone di nostra conoscenza. Insomma, la mia divenne in breve una vita d’angelo; così dolce e tranquilla, che anche ora, quasi vecchio, m’intenerisco a ricordarla, e il cuore mi si empie di dolcissime lagrime. — Felici voi, o giovinetti, e nell’istesso modo cercherete piacere a’ vostri cari parenti… E non solo a’ vostri parenti, non solo a quanti buoni vi conoscono, ma piacerete anche a voi stessi. E anche questo piacere a sé può desiderarsi, o miei giovanetti, può cercarsi; che anche questa, se ben s’intenda, è una santa ambizione, l’ambizione, dico, della buona coscienza. – Racconta Orazio d’un ricco avarone Ateniese, che beffato ed esecrato da tutta la città per la sua maledetta avarizia, se ne consolava così: — Il popolo mi fa le fischiate… Che mi fa a me? Io mi batto le mani e m’ applaudo da me stesso, appena entrato in casa, ed aperto lo scrigno, vi contemplo il mio oro. — Giovani miei, facciamo nel bene quello, che questo miserabile, e con lui quanti si lasciano dominare alle passioni, fanno pel male. Quanti disgraziati, per isfogare una turpe passione e piacere a se stessi nel male, sprezzano e sacrificano l’onore, la stima dei buoni! E noi, per seguire la virtù e farci uomini veri, non sacrificheremo volentieri l’onore, la stima dei malvagi? Diciamo dunque anche noi: mi scherniscano pure i malvagi; mi applaudiranno i buoni, mi applaudirò io da me stesso tutte le volte che, entrando nel segreto stanziolino della mia coscienza, sentirò di poter dire: ho fatto il dovere, ho operato da uomo, e da Cristiano: Ma l’ambizione più nobile e più santa, la soddisfazione più intera non istà ancor qui, miei cari giovanetti. Al di sopra dell’occhio umano, al di sopra immensamente di noi, sta aperto un altro occhio, un occhio che tutto vede, tutto scopre, fin l’intimo dei cuori; dico, l’occhio di Dio. Piacere a Dio! essere approvati, lodati da Dio! Può elevarsi più alto la nostra ambizione? Dio mio! mia vita, mia gioia, mio tutto!… Ah! s’io riesco a piacervi! … le parole, i giudizi degli uomini più non saranno per me che il ronzio di un insetto, che lievemente volando, s’ appressa un istante all’orecchio e sì dilegua. — Tant’è, miei cari giovani; l’uomo vero, l’uomo provato, l’uomo perfetto è l’uomo cui Dio approva e commenda: vel – dice s. Paolo – ille probatus est, quem Deus commendat. Chi non sente questa santa ambizione della lode di Dio, chi ad essa sostituisce la misera, la gretta ambizione delle lodi degli uomini, non sarà uomo, no, non sarà uomo mai.

XII.

IL SERRAGLIO DELLE BESTIE FEROCI.

— Babbo; non andiamo a vedere il serraglio delle bestie feroci? — Oggi no: andremo dimani, se mi starete buonini. E noi cheti, mansi, obbedienti come agnelletti; tanta era la voglia di veder quelle bestie! Al dimani s’andò. Pagati trenta centesimi per testa, ed entrati nello steccato, eccoci davanti una lunga fila di gabbioni ferrati pieni di fiere orribili e diverse, e noi muti col batticuore a guardare, a guardare….. Nel gabbione di mezzo, il più grande di tutti, c’era una fiera dal pel biondo, dalla lunga giubba, che stava accovacciata guatandoci con du’ occhi lustri che parevano ardenti carboni — Quello è il leone— ci disse il babbo. E di li a poco ecco entrar per di dietro in quella gabbia una donna vestita di nero, mandargli un grido acuto, e il leone levarsi, girare irrequieto per la gabbia, menar la coda sui fianchi… e la donna a palparlo, carezzargli la giubba, finché ammansatolo alquanto, l’accosciò allora ponendogli il sinistro braccio sul collo, come per abbracciarlo, e abbandonando sui lunghi velli quella sua faccia pallida e delicata, quasi in atto di pigliar sonno sur un soffice guanciale, la vidi levar la destra armata d’una pistola, e spararla all’orecchio della fiera, che rispose con un sordo ruggito. Io tremava a verga, parendomi ad ogni istante veder 1° belva voltar la testa e piantare i denti nel collo della sua importuna provocatrice; ché quand’ella uscì sana e salva dalla gabbia, mandai un gran respiro. Il leone s’ebbe in premio della sua pazienza, un pezzo di carne, e s’accosciò nell’angolo più riposto e cominciò a mangiarsela a suo agio. –  Dopo il leone la tigre. La tigre non istava mai ferma, sempre su e giù per la sua gabbia; ma quando il custode le gettò anche a lei un brano di carne, lo pigliò in aria cogli artigli e in un attimo la divorò; indi s’accovacciò come il gatto quando fa la digestione. Dalla tigre si passò alla pantera, dalla pantera all’Orso dall’orso allo sciacallo, al lupo e a non so quanti altri animali; finché terminato il bestiale spettacolo s’uscì. La sera, come tutto quel di e gli altri appresso, non si faceva che parlar delle bestie; il babbo c’interruppe i discorsi con questa dimanda: — Orsù! Chi sa dirmi di voi, tra tante bestie qual è la peggiore? — Qui una gran disputa. Peppuccio teneva pel leone; la mole del corpo ed i ruggiti lo avevano atterrito; ma la Rosina: — Se fosse peggiore il leone (diceva), quella signorina non gli sarebbe entrata nella gabbia e fargli tanti scherzi. Io per me, più cattiva stimo la tigre. – Giulietto stava per la pantera, perché sempre inquieta, sempre in moto, faceva persin dei salti per la gabbia, e addentava le sbarre. Quanto a me, pensavo colla sorella. Ma il babbo, lasciatici dire un buon tratto: — Nessuno ci ha indovinato. Leone, tigre, pantera, tutte bestie più o meno feroci, non ci ha dubbio; ma pure terribilmente belle a vedersi. Togliete invece l’orso: l’orso è feroce insieme e schifoso. — Oh! (fece la Rosina) quel bestione nero dal pelo lungo che stavasi raggomitolato in un angolo cogli socchiusi come se dormisse? — Appunto quello. L’orso, vedete, è feroce più dell’istesso leone; ché se trova l’uomo in un bosco, lo strozza anche senza aver fame, ne lascia il cadavere insanguinato per terra, e via. Ha poi un aspetto così ributtante!… – È vero, è vero (si rispose tutti una voce). Il babbo ha ragione; l’orso è tra tutte quelle bestie la peggiore. – Veniamo era a noi. Quel che il mio buon babbo, giudicava dell’orso, possiam noi dirlo, mi pare, dell’umano rispetto. Molti animali, notate, ci son dati a simboli assai espressivi dei vizi e delle passioni degli uomini. Vel dice Esopo colle sue immortali favolette, vel conferma Dante colla nota allegoria delle tre fiere, ch’ei pose come dire sul limitare del gran poema a simbolo della lussuria, della superbia e dell’avarizia. – Or dico, che come, tra le fiere l’orso fu giudicato più cattivo; perché  feroce e schifoso ad un tempo, così tra le passioni più trista può, dirsi quella dell’umano rispetto, perché al danno dell’altre congiunge una schifezza tutta sua propria. Che è infatti il lasciarsi dominare dall’umano rispetto, se non un renderci vilissimi schiavi degli uomini? E di che uomini, l’abbiam veduto!.. Pensar coll’altrui testa, parlare coll’altrui lingua, muoversi al cenno d’altri, volgersi a destra, a sinistra, secondo il vento che spira a guisa di banderuole… Oh le banderuole! Si può dire ormai, come delle stelle la scrittura: numera si potes! Le conti chi può. Chi ce lo avesse detto tanti anni fa! s’era cominciato colle bandiere per finire colle banderuole; e così la libertà che ci gridavano a squarciagola, doveva far capo alla più triste servitù. – Cari giovani, non vi meravigliate; tutto il mondo ormai, dall’alto al basso va così; e se dovesse aprirvi ancora una volta la mia lanterna magica! … Ma l’è un ordigno alquanto pericoloso la mia lanterna; lasciamola lì.  Basta quel poco che ci avete veduto, bastano i fatti e le ragioni onde è pieno questo scritto, per farvi chiaro che l’umano rispetto è il vizio dei vigliacchi, e se si avesse a dargli, come sel meritan tutti, il nome d’una bestia, non leone, non tigre, non leopardo vorrebbe chiamarsi ma orso, orso schifoso ad un tempo e feroce… –  E dello schifoso penso che vi siete ormai capacitati abbastanza: ché più volte, nel parlarvi, ho veduto corrugarsi la vostra fronte, ed infiammarsi gli occhi d’un generoso, d’un santo disdegno.. Bravi miei giovani! Lasciate che v’abbracci e dica a ciascuno con Dante: Benedetta colei che in te s’incinse! Ma quant’è alla ferocia, temo sia accaduto a voi come a me, come ai miei fratellini, che veduto l’orso, se fummo, pronti a ravvisarne a bella prima la schifezza, non così la fercia, che non avremmo a pezza avvertita, se il babbo non ce ne avesse persuasi. E invero, parrebbe in sulle prime che da ben altre fiere debbano venire al mondo i danni peggiori: la superbia, l’ira, l’ambizione non fecero tristi i popoli? non allagarono di sangue la terra?… Vero, miei giovani: ma ancor di peggio fece e fa tuttavia l’umano rispetto. Un respiro e vel provo.

XIII.

LA FEROCIA DELL’ORSO.

Già vi ho detto dell’empietà di Arrigo VIII d’Inghilterra, e vi ho pur detto che quando gli saltò il ticchio di farsi papa, il Parlamento preso d’un vilissimo umano rispetto, non ebbe fiato a contradirgli: vocem præclusit metus, come dice Fedro delle rane. La paura chiuse la bocca a tutti, s’alzarono dai lor seggi, si inchinarono al potente scellerato, e sancirono l’empia legge che doveva empire il nobile ed infelice loro paese di lutto, di proscrizioni, di sangue, e strapparlo alle braccia materne della cattolica Chiesa, con rovine dell’anime immensa! … Oh se quei signori non si lasciavano dominare dall’umano rispetto! Oh se invece d’un Tommaso Moro eran cento!… Infinito sarei se tutte volessi narrarvi le stragi e i danni incalcolabili prodotti al mondo dall’umano rispetto. Sarebbe un vero saccheggio della storia. Per non entrare nell’un via uno, mi starò contento a pochi altri fatti, e questi tolti dalla storia che meglio conoscete, dico la storia sacra. Cari giovani, è una grande storia questa, la storia delle storie, la più vera, la più santa, la più istruttiva e vantaggiosa di tutte. Affrettatevi a leggerla e a studiarla per bene, prima che i nostri padroni ve la strappino di mano. – Tutti i guai di questo mondo ci vennero, chi nol sa? dal peccato originale. Or ponete mente, o giovinetti: a quel gran peccato non tanto concorse la gola, la vanità, la maledetta superbia, quanto umano rispetto. Vi parrà nuova questa proposizione, ma ponete mente al mio discorso, e ve ne capaciterete d’ avanzo. – Il peccato d’Eva, da per se solo non ci avrebbe perduti; per trarre in rovina il genere umano, ci voleva l’uomo, ci voleva il re del creato, il capo dell’umana famiglia. Or perché credete voi che Adamo peccasse? Forse pel gusto d’un pomo? O forse per superbia di diventar simile a Dio? La superbia ci sarà entrata per qualche cosa, non sì nega: ma a me sa strano, che l’uomo, d’intelligenza più elevata, di senno più maturo, abbia potuto darsi ad intendere con un morsello di pomo diventar Dio. — Ma perché adunque peccò? — E nol capite? Fu l’amore, fu il rispetto della sua donna, fu il timor di disgustarla, di perderla, che gli fe’ velo di giudizio. Eva porgevagli il pomo, dicevagli: to, mangia; e lo guardava con due occhi supplichevoli .. Forse Adamo da principio inorridì, resistette; Eva travide l’abisso in che s’era gettata, e cominciò a piangere … era la prima volta che Adamo vedeva piangere la cara compagna; il suo cuore ne fu turbato, commosso, e per non crescerle afflizione, per non dividere i propri destini da quelli di lei, preferì l’essere compagno nella colpa, al dolore d’ una separazione. Ributtarla, lasciarla sola nel suo peccato, sola nell’immensa sciagura … Ah l’amò troppo quella sua Eva, la amò, la rispettò più di Dio: ecco il suo peccato. – E qui badate, cari giovani; se alcuno venisse a dirvi ch’io stiracchio la Scrittura, ch’io fabbrico castelli in aria, rispondetegli a mio nome, che io ho buon fondamento a fabbricare; ho s. Paolo che laddove parla della soggezione che avere all’uomo la donna (I, Timot. II, 13-14) dice così: — Adamo non fu dotto; ma la donna sedotta prevaricò.  — Intorno alle quali parole s. Agostino (Gen. XI) paragonando la prevaricazione di Salomone con quella di Adamo, dice così: — È egli forse da credere, che un uomo di tanta sapienza, qual fu Salomone, credesse che a qualche cosa potesse esser utile il culto degli idoli? No certamente: ma non seppe resistere all’amor delle donne, che a tal disordine il trascinavano … Nella tal guisa (attenti! viene il buono) nella stessa guisa Adamo, dopo che la donna ingannata mangiò del frutto vietato e a lui ne diede, perché ne mangiasse, non volle affliggerla. Fece adunque quel che fece, non già vinto dalla concupiscenza; ma da quell’amichevole benevolenza, per cui accade sovente che Dio s’offenda, perché chi eravi amico non vi diventi nemico. — E il Martini nelle note a quel passo della Genesi: — dice d’Adamo, che sebbene egli non credesse al serpente, non ebbe coraggio (ecco la viltà dell’umano rispetto!) di resistere all’esempio e alle lusinghe della compagna, da cui si lasciò pervertire; egli, che essendo più saggio e perfetto di lei, doveva essere sua scorta e suo consiglio. – E così ecco provato che l’umano rispetto ebbe sua parte, e non piccola, nel peccato d’Adamo: che quindi l’umano rispetto aprì al mondo la fonte di tutti i mali. Che ne dite, giovani miei? Questo è ben altro ch’esser leone, orso, tigre e pantera! Che se dai principii dell’ antico Testamento facciamo un salto al nuovo, vedrete ancor di peggio, vedrete.