SANTO NATALE – TERZA MESSA DURANTE IL GIORNO (2022)

SANTO NATALE – TERZA MESSA DURANTE IL GIORNO (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Staz. a S. Maria Maggiore

In principio era il Verbo, e il Verbo era con Dio. Tutte le cose sono state fatte da Lui» (Vang.). « Tu, o Signore, in principio hai creato la terra: i cieli sono opera delle tue mani » (Ep.). « Tuoi sono i cieli e la terra, sei tu che hai creato l’Universo e tutto ciò che contiene » (Off.). L’uomo, che è stato creato da Dio, da Lui sarà ristabilito nella primitiva dignità. Così «il Verbo Si fece carne ed abitò fra noi» (Vang.). « Iddio, in questi ultimi tempi (cioè nei giorni messianici) ci ha parlato nella persona del Figlio, che è lo splendore della sua gloria » (Ep.). – Così la Chiesa canta oggi che una gran luce è discesa sulla terra (Allel.). Questa luce ha brillato nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta, perché il Verbo è venuto nel mondo, ma i suoi non l’hanno ricevuto. A quelli invece che l’hanno accolto ha dato il potere di divenire figli di Dio (Vang.). « È infatti per liberarci dalla schiavitù del peccato, per purificarci dalle nostre colpe (Secr.) e per farci nascere alla vita divina (Postc.) che l’Unigenito di Dio è nato secondo la carne » (Ep.). – Più di settecento anni prima di questa nascita, Isaia esaltava già la potenza dell’Uomo-Dio. « Un bambino ci è nato, egli porterà i segni della sua regalità ». E i prodigi ch’Egli operò sono raffigurati in quelli che Dio fece quando liberò gli Israeliti dalla schiavitù d’Egitto (Vers. dell. Intr.). Così, oggi come allora, «tutti i confini della terra sono testimoni della salvezza che Dio operò per il suo popolo » (Grad. Comm.). La salvezza che Cristo ha realizzato nel suo primo avvento, la compirà alla fine dei tempi. « Dopo che Gesù ebbe operato la purificazione dai peccati, spiega l’Apostolo Paolo, salì in Cielo, dove è assiso alla destra della Maestà divina » (Ep.). La sua umanità glorificata partecipa dunque del trono dell’Eterno: «Il tuo trono, o Dio, è nei secoli dei secoli: scettro del tuo regno è uno scettro di giustizia » (Ep.) o le basi del tuo trono » (Offert.). « E un giorno, dice S. Luca, il Figlio dell’Uomo verrà nella sua gloria e in quella del Padre e degli Angeli suoi a rendere a ciascuno secondo le proprie opere ». Quando Dio manderà di nuovo (cioè alla fine del mondo) il suo Primogenito sulla terra dirà: « tutti gli Angeli lo adorino » (Ep.). E ci sarà allora una trasformazione di tutte le creature, perché il Figlio di Dio, che non muta, rinnoverà le creature come si fa di un vestito vecchio (Ep.). E l’Apostolo in una settima citazione delle Sacre Scritture, che segue quelle che troviamo oggi nell’Epistola, aggiunge che « Iddio farà allora dei nemici di Cristo uno sgabello ai suoi piedi ». Sarà il trionfo finale del Verbo incarnato che punirà, nella sua seconda venuta quelli che non l’avranno accolto nella prima; mentre farà partecipi della sua immortalità quelli che saranno nati da Dio, avendo questi accolto con fede e con amore il Verbo incarnato, come lo hanno accolto i Re Magi, venuti da lontano per adorarlo (Vangelo dell’Epifania, letto come ultimo Vang.). Ed essendo Gesù presente anche nell’Eucaristia come lo era a Betlemme, adoriamolo sull’Altare, vera mangiatoia dove si trovò il Bambino Gesù, perché  in questo tempo di Natale la liturgia, grazie al Messale, ci rappresenta  l’Ostia nel quadro di Betlemme. È nella gran Chiesa della Vergine, che a Roma rappresenta Betlemme, che si celebra la Messa del giorno di Natale, come si è celebrata quella di mezzanotte.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Isa IX: 6
Puer natus est nobis, et fílius datus est nobis: cujus impérium super húmerum ejus: et vocábitur nomen ejus magni consílii Angelus.

[Ci è nato un Bambino e ci è stato dato un Figlio, il cui impero poggia sugli omeri suoi: il suo nome sarà Angelo del buon consiglio.]

Ps XCVII
Cantáte Dómino cánticum novum, quia mirabília fecit.

[Cantate al Signore un cantico nuovo: poiché ha fatto cose mirabili.]
V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sǽcula sæculórum. Amen.
Puer natus est nobis, et fílius datus est nobis: cujus impérium super húmerum ejus: et vocábitur nomen ejus magni consílii Angelus.

[Ci è nato un Bambino e ci è stato dato un Figlio, il cui impero poggia sugli omeri suoi: il suo nome sarà Angelo del buon consiglio.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Concéde, quǽsumus, omnípotens Deus: ut nos Unigéniti tui nova per carnem Natívitas líberet; quos sub peccáti jugo vetústa sérvitus tenet. P
er eúndem ….

[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che la nuova nascita secondo la carne del tuo Unigenito, liberi noi, che l’antica schiavitù tiene sotto il gioco del peccato]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebrǽos.
Hebr 1:1-12

Multifáriam, multísque modis olim Deus loquens pátribus in Prophétis: novíssime diébus istis locútus est nobis in Fílio, quem constítuit herédem universórum, per quem fecit et sǽcula: qui cum sit splendor glóriæ, et figúra substántia? ejus, portánsque ómnia verbo virtútis suæ, purgatiónem peccatórum fáciens, sedet ad déxteram majestátis in excélsis: tanto mélior Angelis efféctus, quanto differéntius præ illis nomen hereditávit. Cui enim dixit aliquándo Angelórum: Fílius meus es tu, ego hódie génui te? Et rursum: Ego ero illi in patrem, et ipse erit mihi in fílium? Et cum íterum introdúcit Primogénitum in orbem terræ, dicit: Et adórent eum omnes Angeli Dei. Et ad Angelos quidem dicit: Qui facit Angelos suos spíritus, et minístros suos flammam ignis. Ad Fílium autem: Thronus tuus, Deus, in sǽculum sǽculi: virga æquitátis, virga regni tui. Dilexísti justítiam et odísti iniquitátem: proptérea unxit te Deus, Deus tuus, óleo exsultatiónis præ particípibus tuis. Et: Tu in princípio, Dómine, terram fundásti: et ópera mánuum tuárum sunt cœli. Ipsi períbunt, tu autem permanébis; et omnes ut vestiméntum veteráscent: et velut amíctum mutábis eos, et mutabúntur: tu autem idem ipse es, et anni tui non defícient.

[Iddio, che nei tempi antichi aveva parlato a più riprese e in molte maniere ai nostri padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi tempi ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che costituì erede di tutte le cose, mediante il quale ha anche creato il mondo. Questo Figlio è l’irradiazione e l’immagine della sua gloria, è l’impronta della sua sostanza e tutte le cose sostenta con la sua potente parola; Egli, dopo averci purificati dai peccati, si è assiso alla destra della divina maestà nell’alto dei cieli: fatto di tanto superiore agli Àngeli, quanto è più eccellente del loro il nome da Lui avuto. Infatti: a quale mai degli Àngeli Dio ha detto: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato? e ancora: Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio? E di nuovo, quando introduce il primogénito nel mondo, dice: Lo adòrino tutti gli Àngeli di Dio. Quanto poi agli Àngeli, Egli dice: Colui che fa suoi messaggeri gli spiriti, e suoi ministri le fiamme di fuoco. Al suo Figlio invece dice: Il tuo trono, o Dio, sussiste nei sécoli del sécoli, lo scettro del tuo regno è scettro di equità: tu hai amato la giustizia e odiato l’iniquità, perciò ti unse il Signore Dio tuo con olio di letizia sopra i tuoi colleghi. E ancora: Fin da principio, o Signore, tu fondasti la terra, e i cieli sono opera delle tue mani: essi periranno ma tu rimani, e tutti invecchieranno come un vestito, e tu li muterai come un mantello, ed essi cambieranno, tu invece rimani sempre lo stesso e gli anni tuoi non verranno meno.]

Graduale


Ps XCVII: 3; 2
Vidérunt omnes fines terræ salutare Dei nostri: jubiláte Deo, omnis terra.

[Tutti i confini della terra vídero la salvezza del nostro Dio: tutta la terra acclàmi a Dio.]

V. Notum fecit Dominus salutare suum: ante conspéctum géntium revelávit justitiam suam. Allelúja, allelúja.

[V. Il Signore ci fece conoscere la sua salvezza: agli occhi delle genti rivelò la sua giustizia. Allelúia, allelúia.]


V. Dies sanctificátus illúxit nobis: veníte, gentes, et adoráte Dóminum: quia hódie descéndit lux magna super terram. Allelúja.

[V. Un giorno sacro ci ha illuminati: venite, genti, e adorate il Signore: perché oggi discende gran luce sopra la terra. Allelúia.]

Evangelium
Initium sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Glória tibi, Dómine.
Joann 1:1-14
In princípio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum. Hoc erat in princípio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt: et sine ipso factum est nihil, quod factum est: in ipso vita erat, et vita erat lux hóminum: et lux in ténebris lucet, et ténebræ eam non comprehendérunt. Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Joánnes. Hic venit in testimónium, ut testimónium perhibéret de lúmine, ut omnes créderent per illum. Non erat ille lux, sed ut testimónium perhibéret de lúmine. Erat lux vera, quæ illúminat omnem hóminem veniéntem in hunc mundum. In mundo erat, et mundus per ipsum factus est, et mundus eum non cognóvit. In própria venit, et sui eum non recepérunt. Quotquot autem recepérunt eum, dedit eis potestátem fílios Dei fíeri, his, qui credunt in nómine ejus: qui non ex sanguínibus, neque ex voluntáte carnis, neque ex voluntáte viri, sed ex Deo nati sunt. Hic genuflectitur Et Verbum caro factum est, et habitávit in nobis: et vídimus glóriam ejus, glóriam quasi Unigéniti a Patre, plenum grátiæ et veritátis.

[In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che è fatto. In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. E la luce splende tra le tenebre e le tenebre non l’hanno accolta. Ci fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. Questi venne come testimonio, per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce, ma era per rendere testimonianza alla luce. Era la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di Lui, e il mondo non lo conobbe. Venne nella sua casa, e i suoi non lo accolsero. Ma a quanti lo accolsero diede il potere di diventare figli di Dio: a loro che credono nel suo nome: i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono nati. Genuflettiamo E il Verbo si fece carne Ci alziamo, e abitò tra noi: e noi abbiamo visto la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità..]

Omelia

(Mons. G. Bonomelli: Misteri cristiani, vol. I – tipog. Queriniana, Brescia, 1894)

Chi è Gesù Cristo?

Tra i vari popoli, quasi ultimo, è il popolo di Giuda; e piccola borgata di Giuda è Betlemme; e a Betlemme, la più miserabile capanna, o piuttosto, la più squallida grotta è quella dove oggi si è ricoverata una verginella ignota in tutto Israele: e questa verginella oggi ci ha largito un pargolo. Gli angeli ne annunziano il nascimento cantando: — gloria a Dio ne’ cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà —. E come ciò, o carissimi? Colui che tiene il vertice degli esseri, l’Essere primo, l’Essere infinito, che crea e lancia negli spazii immensurabili del cielo, quasi fossero minutissima polvere d’oro e d’argento, innumerevoli astri, discende su questa povera aiuola della terra, si impiccolisce a Betlemme, si nasconde in una grotta, si fa bambino, l’ultimo dei bambini d’Israele, perché io credo che nessuno di loro fosse nato in una grotta. Sì, alla vista di tanta umiliazione comprendo come la ragione umana orgogliosa si sdegni e gridi coll’antico Marcione «Aufer a nobis pannos et dura præsepia — Levaci dinnanzi queste fasce e questa dure mangiatoia »: tutto ciò è indegno di Dio, Creatore e Signore dell’universo. Ma la fede a sua volta con voce ancora più alta grida « Et Verbum caro factum est ». Colui, che è primo, conveniva che fosse anche l’ultimo « Primus et novissimus ». Colui che è l’alfa doveva essere l’omega « Alfa et Omega ». Il principio era mestieri diventasse anche fine « principium et finis »; perché tutto per lui fosse compiuto « ut impleret omnia ». Vi è una legge sovrana in cielo e in terra ed è questa – Chi si abbassa sarà esaltato – Dio solleva gli umili – e Dio, che l’ha stabilita, l’applica a se stesso. Egli, il Sommo, l’Infinito, che i cieli non comprendono, scende giù giù per la scala degli esseri usciti dalla sua mano creatrice: come raggio di luce attraversa le Gerarchie celesti: – può scendere ancora e scende: attraversa tutti i soli e gli astri, centri di luce – : può scendere ancora e scende: scende fin su questa terra, priva di luce propria, quasi ultimo lembo del creato. Su questa terra esiste un essere, spirito nella parte più nobile, materia nella parte men nobile: in questa si appuntano pressoché tutti gli elementi corporei e vengono a contatto immediato collo spirito. Egli, che sta sopra tutte le cose e tutte le crea, le conserva e le governa, discende sin qui, unisce a sé questo spirito, e con esso unisce a sé questo corpo, ultima eco e quasi sfumatura dell’essere, per rifar poi la via e risalire la scala percorsa, trascinandosi dietro l’universo tutto, corpi, anime e Angeli e tutto riconducendo ai piedi di Dio. — Come raggio, direbbe il principe de’ poeti, che ritorna: Dritto pur su al principio, onde si parte. Chi vuol tirare a sé una cosa la piglia pel lembo estremo; chi con una leva vuol sollevare un corpo, punta la leva sopra un piccolo punto e al lato estremo del corpo che vuol sollevare. È ciò che fece il Verbo divino, collocandosi su questo punto minimo del creato, pigliando l’uomo, spirito e corpo, per sollevare con esso il tutto al di sopra degli altri e il tutto ricondurre a Dio. Eccolo, fratelli, questo Primo ed Ultimo, questo Alfa ed Omega, questo Principio e Fine, questo Dio ed Uomo; vedetelo quasto pargolo fra le braccia d’un’umile verginella, in una stalla, nel cuor della notte, tremante del freddo, egli che è la Luce eterna, che infiamma i Serafini!

O Figlio, o Tu, cui genera / L’Eterno eterno seco / Qual ti può dir de’ secoli / Tu cominciasti meco? – Nel tuo annientamento, o Figlio di Dio, o Salvatore del mondo, o Dio-Uomo, prostrato nella polvere, ti riconosco e ti adoro e ti chiedo perdono, se oggi, dinanzi a questo popolo devoto, oserò fissare l’occhio nel mistero dei misteri, nelle nozze ineffabili della divina ed umana natura nell’unità della tua adorabile Persona. — Vi ho annunziato l’assunto che imprendo a trattare. – A chi, rischiarato dalla fede, contempla e studia Gesù Cristo necessariamente si affacciano tre termini distinti, ma tra loro inseparabili e sono: 1° Dio, o più propriamente la seconda Persona dell’augusta Trinità, il Verbo del Padre, che assume l’umana natura; 2° l’umana natura istessa dal Verbo divino assunta; 3° il modo, con cui fu assunta, che è quanto dire il vincolo, che unisce l’umana natura al Figlio di Dio. Pelago sterminato, sparso, di scogli, che devo percorrere sopra fragile navicella; buon per me e per voi, che in alto, sopra i nostri capi, splende l’astro della fede, che mai non si eclissa, né vela: fissi gli occhi in quell’astro, spieghiamo arditamente le nostre vele. – Il primo termine, che in Gesù Cristo ci si presenta, è il Verbo divino, il Figlio dell’Eterno. Ebbene: chi è desso? Formidabile domanda, a cui rispondo, condensando in poche parole l’insegnamento della fede e le ultime deduzioni della stessa umana ragione. Parlando di Dio, se vogliamo intendere qualche cosa, conviene tener sempre l’occhio sulla sua immagine più bella, più perfetta, a noi più vicina, che è l’uomo, che siamo noi stessi. Fermiamo adunque l’occhio della mente ciascuno sopra se stesso. La prima cosa che in noi si offre allo sguardo, è il corpo co’ suoi sensi; non curiamoci di esso; perché non è che l’involucro d’un’altra sostanza incomparabilmente più nobile, che dicesi anima. Valichiamo la soglia dell’anima, penetriamo in questo santuario; ne’ suoi recessi misteriosi; spingiamoci fin là dove nasce e brilla il pensiero. Che è desso? È una emanazione perenne dell’anima, è figlio della mente e ci presenta l’immagine di essa e di tutto ciò che essa pensa; è lo specchio fedele, in cui l’una dopo l’altra passano le immagini di tutte le cose che esistono nel mondo visibile e nel mondo invisibile. Questo pensiero è distinto dall’anima, che lo genera da sé, che lo produce senza fatica, senza separazione, che è dentro di essa e fuori di essa, e che con essa forma una sola cosa tantoché essa dice con verità: Io penso; io e il mio pensiero sono una cosa sola e nessuna forza potrà disgiungerlo da me. L’anima si vede, si contempla nel suo pensiero, tutta in esso si attua, ed esso la dice tutta qual è. L’anima nostra, o fratelli, produce da sé innumerevoli pensieri; chi li potrebbe contare? Chi potrebbe dire: questo è l’ultimo de’ suoi pensieri e qui si esaurisce la sua fecondità? Questa molteplicità inesauribile dei pensieri dell’anima nostra se mostra la sua fecondità, mostra pure la sua debolezza. Perocché quanto più un essere riduce all’unità le sue forze e concentra la sua attività e tanto più esso è perfetto. L’uomo di genio in un lampo abbraccia le cose più disparate e ne conosce i rapporti: egli non va passo passo, di ragionamento in ragionamento, deducendo o inducendo: guarda e giudica con occhio sicuro. Più, l’uomo ha la mente acuta e pronta e più abbrevia, condensa i suoi pensieri e si accosta all’uno: più l’ha fiacca e pigra e più è lento il suo cammino e più numerosi sono i passi, ossia i suoi pensieri: il numero supplisce necessariamente il difetto di intensità. Se noi potessimo con pochissimi pensieri, anzi con un solo pensiero comprendere tutte le cose che comprendiamo con tanti pensieri, non saremmo noi più perfetti? La condizione di colui, che con un solo salto rapidissimo dalle vette dell’Alpi passasse sulla vetta dell’Himalaia non sarebbe immensamente migliore di colui, che tutto quello spazio dovesse valicare passo a passo? Ebbene: Dio, perché infinita perfezione, riduce tutti i suoi atti interni all’unità massima: ha un solo pensiero, eterno, infinito, immutabile, sostanziale, che comprende, con somma perfezione, tutti i pensieri, tutte le cognizioni, sempre in atto: è il figlio della sua mente, il suo Verbo, che emana dalla sua sostanza, tutta la esprime e tutto dice ciò che è fuori di essa. È un solo Pensiero semplicissimo e non può essere che un solo, perché  tutti li contiene e a tutti basta. Volete conoscere più chiaramente questo mistero dell’uomo e di Dio? Seguitemi colla vostra mente. Schieratevi intorno tutte le opere, poniamo, uscite dalla mano di Michelangelo, tutte le figure effigiate da Raffaello: vedete questo tempio magnifico con tutte le sue parti massime e minime; tutte queste opere, queste figure, questo tempio, prima di esistere, erano in tutti i loro più minuti Particolari nella mente, nel pensiero di Michelangelo, di Raffaello, dell’architetto costruttore. Chi ne può dubitare? come vi erano? Vi erano tutte in un solo Punto, e insieme distintissime, ben più perfettamente che non sia l’albero nel suo seme. E in quanto erano nella loro mente, erano invisibili e formavano colla mente una sola cosa; ed anche dopo che furono esternamente attuate non cessarono d’essere nella mente, che le ideava. Tutto questo è d’una evidenza incontestabile. Ora a noi, o fratelli carissimi. Girate il Vostro sguardo sulla terra tutta quanta; penetrate nelle sue viscere e negli abissi del mondo: scorrete col pensiero le Creature tutte, dal sottile filo d’erba, che spunta sul prato, alla quercia annosa che sfida le procelle: dai microbi che a mille e a mille navigano in una gocciola d’acqua, all’aquila che spazia nei campi de’ cieli: ricordate i milione i miliardi di esseri viventi nell’aria, nell’acqua, nel seno della terra: pensate al loro organismo invisibile all’occhio nudo eppure in ogni parte perfettissimo: pensate che quello che vediamo sulla terra non è la milionesima parte di ciò che deve essere se minato nei tanti e sì vasti mondi dell’universo creato. Non basta: pensate ai miliardi di uomini che furono e saranno sulla terra, alla fecondità della intelligenza loro: pensate ai miliardi di spiriti angelici e a tutti i pensieri che sgorgano dalla loro intelligenza come raggi dal sole: pensate a tutti i corpi, a tutte le anime, a tutti gli spiriti, che esistono ed esisteranno, a tutto ciò che fecero e faranno. Quanta grandezza! Qual ordine! Quali armonie! Quali bellezze! La mente rimane attonita, oppressa, schiacciata. Tutto questo, o fratelli carissimi, prima di svolgersi per l’universo, dov’era? Tutte queste creature, ciascuna delle quali è una meraviglia di perfezione e bellezza, con tutte le loro forze e proporzioni stupende erano e sono tutte senza eccezione nella Mente divina; Essa le contiene tutte in sé quali sono e con una perfezione ineffabile ridotte nella sua mente ad una sovrana unità. E non dimenticate che quella Mente, quel Pensiero infinito ed eterno potrebbe produrre altri esseri senza numero, belli e più belli dei creati, che conosciamo. Ecco chi è il Figlio di Dio, il Verbo del Padre; Esso il Candore dell’eterna luce, lo Specchio della sua bontà, l’Immagine vera e reale, lo Splendore della sostanza di Lui; Egli è quell’unico, eterno e semplicissimo atto con cui Dio pensa se stesso e tutte le cose, che ha creato e può creare. Ma di questo Verbo Divino ragionerò più distesamente più innanzi, allorché verremo considerando il mistero della Santa Trinità. – Ora che alcun poco sapete chi sia il Verbo Divino, che. assume, è da vedere qual sia la natura umana che è assunta. L’uomo perfetto consta delle due sostanze, anima e corpo, come insegna la filosofia. L’anima, perché più simile a Dio, a Lui si unisce meglio del corpo e in ordine, non di tempo, ma di dignità e di causa, è assunta prima del corpo; come insegna S. Tommaso. Dio – Trinità, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, con un atto eterno, semplicissimo della mente concepisce un’anima umana la più perfetta, che a lui sia possibile, e concependola, coll’atto eterno e semplicissimo della sua volontà la crea dal nulla. In quest’anima, supremo capolavoro della sapienza e potenza creatrice, brilla in tutto il suo fulgore l’intelligenza, quale si convien la sua perfezione. Congiunta a questa intelligenza sovrana svolgesi la volontà, degna esecutrice della intelligenza: volontà sì alta, sì retta, che non può volere che il bene. Mentre Dio crea quest’anima forma un corpo che le deve essere degno compagno: e perché sia degno compagno di tant’anima, non vuole che uomo vi abbia parte alcuna. Egli stesso, Dio-Trinità, Causa d’ogni causa, coll’infinita sua virtù, immediatamente nel seno d’una vergine, preservata da ogni infezione di colpa, forma un corpo d’una perfezione quale era possibile a Lui onnipotente. E questo corpo, che dovette essere un miracolo di proporzioni e di bellezza, congiunge all’anima, che lo informa, lo fa suo. Fra quest’anima e questo corpo non vi è nulla di mezzo, non forma subalterna, non anima vegetativa, non anima sensitiva: È l’anima umana, razionale, creata da Dio, ed unita al corpo forma una sola natura. Queste corpo non discende di cielo, non è formato d’altra sostanza qualsiasi: esso non era che un germe rudimentale, che da Adamo, passando di generazione in generazione, pervenne nella Vergine e in Ella per virtù divina fiorì corpo perfetto, abitacolo degno di quell’anima che verrà disposata al Verbo divino – Et Verbum caro factum est -. Fratelli carissimi! Abbiamo un’anima, adorna di tutte le sue doti e potenze, intelligenza, volontà, libertà in sommo grado: abbiamo un corpo egualmente fornito di tutte le qualità più perfette, opera immediata di Dio: abbiamo l’unione di quest’anima e di questo corpo, compiutasi nell’istante medesimo, in cui quella creata e questo formato: che avveniva in quell’istante medesimo? Quali rapporti si stabilivano tra questa natura umana e la Persona del Figlio di Dio? Mi tarda di dirvelo, perché ogni indugio mi fa temere che voi possiate immaginare la natura umana già esistente prima della sua unione col Verbo divino e perciò abbrevio e quasi tronco a mezzo a mezzo la seconda parte del mio assunto per passare alla terza, che la compie e la spiega. Vi domando tutta l’attenzione perché si tratta di vedere, per quanto è dato a noi, il nodo, che congiunge le sue nature. Per aiutare la nostra povera mente, ritorniamo all’uomo, all’immagine più viva di Dio sulla terra, seguendo la via segnata da S. Agostino e da S. Fulgenzio. – Uomo, entra ancora in te: ferma l’occhio sulla punta dello Spirito, dove si genera il pensiero. Forma un pensiero, un’idea qualunque, poniamo l’idea della luce. Questa idea della luce è lì nella tua mente, distinta dall’anima tua, da te, che la vagheggi: nessuno la vede, non la può nemmeno sospettare. Tu puoi tenerla entro te stesso; nessuno ti costringe a manifestarla. Tu liberamente, come e quando vuoi, pronunci la parola luce. Che è avvenuto? L’idea della luce rimane ancora tutta intera nella tua mente e nello stesso tempo essa si è in modo per noi inesplicabile congiunta col suono della tua voce, ed è uscita, ed io l’ho udita, ho pensato alla luce come te ed ho conosciuto il tuo pensiero. Vedi, l’idea della luce non si è partita dalla tua mente, che l’ha generata; si è come incarnata nel suono, divenuto suo involucro ed è rimasta dentro, si è fatta conoscere e non si è mutata, è diventata sensibile ed è ancora invisibile ed è ancora invisibile; il suono, in cui si chiude, è ristretto, si scioglie, ma l’idea non è ristretta, né si scioglie. Similmente il Verbo, Idea sostanziale del Padre, resta sempre in Lu, eppure Esso assume l’umana natura e si fa conoscere agli uomini: Egli, invisibile in sé, diventa visibile nella natura assunta: Egli è immutabile, infinito in sé, e diventa mutabile, finito in quanto si unisce all’umana natura: Egli è nel seno del Padre e nel seno della madre e un solo in lui come un solo nella natura che prende. Pensaci, o uomo; e in qualche modo comprenderai come avvenne l’unione fra le due nature. – Ma proseguiamo e svolgiamo più ampiamente il mistero. Vedete un ferro: ponetelo in un fuoco ardente: si arrossa, si infuoca: non vi è punto di quel ferro che non sia penetrato e investito dal fuoco; fuoco e ferro formano per poco una cosa sola. È questa l’unione del Verbo divino coll’umana natura? No: questa è unione accidentale, temporaria, cresce, scema e cessa: quella, compiutasi in un istante, durerà eterna e sempre eguale. L’unione delle sostanze tra loro diverse è tanto più intima e perfetta quanto più nobile e perfetta è la loro natura: qual natura più perfetta della natura divina e della natura umana assunta dal Verbo e perciò quale unione di quella maggiore? Vedete quest’albero: esso ha le radici, il tronco, i rami, le foglie: attraverso ai suoi innumerevoli e sottilissimi filamenti filtra l’umore e con esso la vita, che si spande con equa misura in tutte le parti anche minime ed invisibili: il succo vitale e la pianta sono distinti tra loro, ma pure formano una sola cosa tantoché voi dite: Eccovi una pianta. È tale l’unione delle due nature in Gesù Cristo? No: bisogna salire più alto. Vedete la mente umana: essa è fatta per la verità, che è l’oggetto suo naturale. Allorché la verità si presenta alla mente, questa l’afferra, la fa sua e in essa si riposa. Tra la verità e la mente si forma un connubio mirabile; tantoché l’una è nell’altra e l’unione è massima. È tale l’unione tra l’umana e la divina natura in Gesù Cristo? No: quella non è unione di due nature, non costituisce una sola persona e il vincolo si può rallentare e sciogliere. Quante volte la verità si separa dalla mente! Dio nelle anime sue più elette versa senza misura la luce della verità e l’effluvio della sua grazia: quella investe la mente e l’avvolge negli splendori della verità come il sole investe e fa lucida la nube, su cui vibra i suoi raggi; questo penetra e trasforma la volontà, la eleva, la feconda e la rende atta alle opere più sublimi ed eroiche. Supponete che questa luce e questo effluvio della grazia divina versata in un’anima cresca, cresca sempre: supponete che tutte le grazie concesse agli Angeli, ai Patriarchi, ai Profeti, agli Apostoli, alla stessa Madre di Dio, sia unita a fusa insieme in una sola grazia; supponete che questa grazia sia raddoppiata, centuplicata mille volte, mille milioni di volte e poi versatela tutta in un’anima sola. Grande Iddio! Qual miracolo di santità e di perfezione! Quest’anima deve possedere tutti i tesori della scienza, della virtù e della santità: contemplandola, per poco noi vediamo dileguarsi in lei tutto ciò che è umano e creato e non apparisce che il divino: l’essere suo ci sembra meno di un impercettibile atomo travolto nei vortici luminosi dell’astro del giorno. È questa; o fratelli, l unione della divina e umana natura nel Figlio di Maria? No, no: se fosse questo Gesù Cristo sarebbe sempre un santo, il sommo dei santi, un prodigio di virtù e perfezione, ma sarebbe sempre un uomo, un semplice uomo, mentre la fede ci grida, ch’Egli è Dio. Non sarebbe il Verbo che si fa uomo, ma l’uomo che si solleva e si avvicina a Dio. L’elemento primo intorno a cui si condensa tutto questo oceano di luce e di perfezioni sarebbe l’uomo e Cristo non sarebbe che un uomo. – Quale dunque è codesta unione? Forseché la natura umana si perde tutta nella divina, come una goccia di latte si perde nel mare, o come una stilla di rugiada è bevuta dal sole? Ma allora l’essenza divina acquisterebbe alcunché e si muterebbe; allora la natura umana sarebbe annientata e non avremmo l’unione delle due nature, ma sì il cessamento d’una di esse e l’incarnazione e la riparazione nostra resa impossibile. – Ma dunque dimmi, o fede, come posso io concepire l’unione dell’umana e della divina natura nel mio Salvatore, Gesù Cristo? Parla, ch’io ti ascolto riverente. Apro un libro, che mi mette tra mano la Chiesa: trovo il simbolo di S. Atanasio, lo scorro e leggo tra le altre queste parole: « Come ragionevole l’anima e il corpo è un solo uomo, così Dio e l’uomo è un solo Cristo – Sicut anima rationalis et caro unus est homo, ita Deus et homo unus est Christus ». Il simbolo della fede per farci pur comprendere alcunche dell’inarrivabile mistero ci riconduce all’uomo, immagine imperfetta sì, ma sempre la più bella dei due grandi misteri della Trinità e della Incarnazione. O uomo, fissa ancora l’occhio della mente sopra te stesso e nell’essere tuo scorgi adombrato il mistero dell’unione dell’umana colla divina natura di Cristo. Tu hai un corpo: in esso tu vedi, odi, gusti, tocchi altri corpi e senti: per esso tu fai conoscere i tuoi pensieri e i tuoi affetti e per esso conosci tutto ciò che avviene fuori di te. Questo corpo occupa un piccolo spazio, ha mille bisogni di cibo e di bevanda; ha bisogno di coprirsi, di difendersi dal freddo e dal caldo. Tu hai un’anima: essa ragiona e discute, giudica, vuole, approva, disapprova, ama, odia, non ha bisogno di cibo e di bevanda, ma ha fame e sete inestinguibile del vero, del bello, del bene: il corpo tuo si muta ogni giorno e in pochi anni del corpo d’oggi tu non serberai più un solo atomo; l’anima tua, nella sua sostanza, è oggi quel che era dieci, trenta, cinquant’anni or sono. L’anima tua e il tuo corpo sono due sostanze differentissime; questo è fitto qui sulla terra, in un punto della terra; quella spazia dove vuole nei campi del cielo, sulla distesa immensa de’ mari e nei campi ben più vasti del vero. Tu hai il corpo, tu hai l’anima; dimmi: sei tu un solo? Sei tu due? Tu mi rispondi prontamente: Io, io sono un solo, un solo uomo; io sono nel corpo, e vedo, odo, parlo, mangio, bevo, lavoro: io sono nell’anima e intendo, ragiono, voglio, distinguo il vero dal falso, il bene dal male: io sono composto e semplice, visibile e invisibile, limitato in un punto dello spazio e illimitato, sono mortale e immortale; io sono corpo e spirito, e sono un solo, indivisibile io – Anima et caro unus est homo -. L’anima mia tutto pervade il mio corpo, lo avviva, lo muove, lo informa, è tutta in ogni suo punto, lo fa sussistere, ordinando e svolgendo le sue membra, disponendo il suo meccanismo ammirabile e imprigionando in esso tutti gli elementi più disparati, che senza la sua presenza ed energia, quasi sudditi impazienti di freno, fuggirebbero. Tu, uomo, sei dunque un solo io in due sostanze affatto differenti, tutto nell’una e tutto nell’altra e ciò in modo stabile sicché nessuno mai potrà persuaderti che in te esiste un doppio io, una doppia persona, perché hai una doppia sostanza. A chi volesse persuadertelo, tu risponderesti sempre: Io sono un solo to e ne ho la più assoluta e più incrollabile certezza. – Eccoti, uomo, in te stesso una immagine del mistero che oggi celebriamo e adoriamo compiuto in Gesù Cristo. Il Verbo divino, con un atto comune al Padre e allo Spirito Santo, crea dal nulla un’anima, fornita della propria intelligenza, della propria volontà e libertà in tal grado di perfezione, che trascende ogni umano e angelico comprendimento; nello stesso istante per virtù sua forma nel grembo della Vergine un corpo egualmente perfetto e l’unisce all’anima e nel momento stesso, il Verbo piglia pieno possesso di quest’anima e di questo corpo, li fa suoi e dice: – Sono miei! Questa è l’anima mia; questo è il mio corpo, ed io, che sono Dio col Padre e collo Spirito Santo, ora sono anche uomo, vero Dio e vero uomo, un solo io: io Figlio dell’Eterno, io Figlio di Maria! – Ciò che soprattutto in questo mistero vuolsi accuratamente tener sempre innanzi agli occhi della mente è di non dare esistenza all’anima e al corpo di Cristo prima della loro unione colla Persona del Verbo: dobbiamo attenerci serupolosamente a questa formula di S. Leone. « Il Verbo creò l’anima e formò il corpo nello assumerli, e li assunse, creandoli ». Se l’anima e il corpo di Cristo avessero avuto l’esistenza un istante solo prima dell’unione, era inevitabile l’esistenza della persona umana e Cristo sarebbe stato un uomo congiunto a Dio, non mai l’Uomo-Dio: sarebbe stato un uomo, che si solleva fino a Dio, non mai Dio che si fa uomo; la persona umana sarebbe stata coperta, avvolta negli splendori del Verbo, ma non avrebbe mai potuto dire: Io e il Padre siamo una cosa sola. (Giovanni, X, 30). Era necessario che il Verbo, se mi è lecito il dir così, che il Verbo prevenisse lo sviluppo naturale della persona umana nell’assunta natura, ne pigliasse il posto, congiungendo le due nature nella propria Persona in guisa ch’Egli fosse Dio, e insieme Uomo, come noi siamo corporei e spirituali, mortali e immortali nelle due sostanze, onde risulta la nostra natura – Sicut anima rationalis unus est homo, ita Deus et homo unus est Christus. La radice del corpo è l’anima ragionevole; la radice dell’anima ragionevole in Cristo è la Persona divina del Verbo, che corpo ed anima compenetra e possiede e dice: – Io sono Dio: io sono Uomo! – Mistero d’unione, che non ha l’uguale né in terra né in cielo, che riempie di stupore i celesti e nel quale si imperniano i misteri della fede e che, incomprensibile in se stesso, irradia della sua luce infinita tutte le opere di Dio. – Riverenti raccogliamo ancora per pochi istanti gli sguardi della nostra fede sopra l’Homo-Dio, che ci sta dinanzi. L’unica Persona divina del Verbo, che rinserra in sé le due nature, versa senza misura l’oceano delle sue ricchezze nella natura assunta tantoché in quell’istante, in cui la tocca, la stringe a sé e la fa sua, ne è ripiena e riboccante per modo, che più non né potrà avere giammai. La perfezione dell’anima di Cristo non potrà mai per volgere di secoli crescere d’un apice: tutta la sua capacità è svolta e ricolma. La sua intelligenza nell’atto dell’unione vede tutto, comprende tutto e si affisa immediatamente nel mare della divina essenza e d’essa si bea. La nostra mente nel conoscimento della verità cammina lentamente e monta con fatica la scala della scienza un gradino dopo l’altro; la intelligenza di Cristo la sale tutta in un lampo; non un dubbio, non un punto oscuro, non un progresso, non una deduzione, non una nuova scoperta; — in un baleno ha conosciuto tutto ciò che le era possibile conoscere: in essa non è rimasto un punto, un solo filo in potenza, che attende il momento di passare all’atto. Similmente la volontà dell’anima di Cristo nell’istante dell’unione tutte sviluppò le ineffabili sue energie e toccò il vertice possibile d’ogni virtù e santità, togliendole di poter salire più alto, poiché non esiste maggiore altezza. Una comparazione aiuterà la vostra mente a concepire tanto mistero di perfezione. Voi tenete sulla palma della mano un piccolo seme, ponete d’un cedro del Libano. In quel seme sì piccolo si racchiude certamente l’albero magnifico, che un dì giganteggerà su quella vetta superba; ma quanti anni, quanti secoli dovranno trascorrere prima che tutte si svolgano le forze che si contengono nel seme! Quante volte si rinnoveranno le sue foglie e i suoi fiori! Quanta luce e rugiada dovrà bere, quanti umori succhierà dalla terra! Chi di noi può conoscere e determinare tutte le sue evoluzioni, cominciando dal momento, in cui fu affidato alla terra, fino a quello, in cui compie l’ultimo sviluppo della sua potenza? Non è egli vero, che Dio onnipotente, abbreviando il lungo e penoso lavoro della natura, avrebbe potuto in un istante solo sviluppare tutta la potenza di quel tenue seme e trasformarlo nell’albero perfetto, che è l’orgoglio del Libano? Chi ne dubita? Ebbene ciò avvenne nell’anima di Cristo in quel punto ch’essa facea il suo connubio col Verbo: la sua intelligenza e la sua volontà in un attimo fiorirono, fruttificarono, svolsero tutte le loro forze sotto l’azione diretta della Persona divina, e l’una e l’altra nella visione beatifica e nell’immediata unione raggiunsero il termine ultimo di ogni perfezione. Tutte le azioni di questa intelligenza e di questa volontà, che sono e rimangono sempre umane,  diventano divine, perché è sempre la Persona divina, che le muove e governa. Il corpo, strumento dell’anima, riceve anch’esso per mezzo dell’anima l’azione immediata del Verbo divino e, benché soggetto alle debolezze proprie dell’essere suo, è corpo del Verbo e gli atti suoi anche minimi sono fatti propri del Verbo e rigorosamente sono divino – umani. E poiché il valore e il merito delle azioni dipendono necessariamente dalla persona operante e la persona operante nell’umana natura di Cristo è il Verbo, il valore e il merito di essa è divino ed infinito. Ogni atto di questo pargolo benedetto, ogni palpito del suo cuore, ogni suo sospiro, ogni sua lagrima basta ad espiare tutte le colpe dei figli di Adamo e rende a Dio un onore degno di Lui. – O Verbo divino, che tutta esprimete la divina essenza e che siete l’archetipo sovrano di tutte le cose! Noi vi abbiamo contemplato e adorato nel seno del Padre vostro! Oggi vi contempliamo ed adoriamo nella povera nostra natura, che vi degnaste di sposare alla vostra! Voi siete vero Dio, voi siete vero Uomo, un solo Cristo! Noi vi adoriamo sulla terra come gli Angeli e i beati vi adorano in cielo, o benedetto nei secoli dei secoli. Amen

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Ps LXXXVIII: 12; 15
Tui sunt cœli et tua est terra: orbem terrárum et plenitúdinem ejus tu fundásti: justítia et judícium præparátio sedis tuæ.

[Tuoi sono i cieli, e tua è la terra: tu hai fondato il mondo e quanto vi si contiene: giustizia ed equità sono le basi del tuo trono.]

Secreta

Obláta, Dómine, múnera, nova Unigéniti tui Nativitáte sanctífica: nosque a peccatórum nostrórum máculis emúnda. Per eundem …

[Santifica, o Signore, con la nuova nascita del tuo Unigénito, i doni offerti, e puríficaci dalle macchie dei nostri peccati.]

Præfatio de Nativitate Domini

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Quia per incarnáti Verbi mystérium nova mentis nostræ óculis lux tuæ claritátis infúlsit: ut, dum visibíliter Deum cognóscimus, per hunc in invisibílium amorem rapiámur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cæléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes.

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Poiché mediante il mistero del Verbo incarnato rifulse alla nostra mente un nuovo raggio del tuo splendore, cosí che mentre visibilmente conosciamo Dio, per esso veniamo rapiti all’amore delle cose invisibili. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:

Santo, Santo, Santo il Signore Dio degli eserciti, i cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nell’alto dei cieli.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCVII: 3
Vidérunt omnes fines terræ salutáre Dei nostri.

[Tutti i confini della terra hanno visto la salvezza del nostro Dio.]

Postcommunio

Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut natus hódie Salvátor mundi, sicut divínæ nobis generatiónis est auctor; ita et immortalitátis sit ipse largítor:
Qui tecum vivit et regnat ….

[Fa’, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che il Salvatore del mondo, oggi nato, come è l’autore della nostra divina rigenerazione, così ci sia anche datore dell’immortalità.
Lui che è Dio, e vive e regna con te,…. ]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

SANTO NATALE (2022) – MESSA ALL’AURORA

SANTO NATALE – (2022) SECONDA MESSA ALL’AURORA

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Anastasia.

La Messa Dell’Aurora si celebrava a Roma nell’antichissima chiesa di S. Anastasia. La sua posizione ai piedi del Palatino, dov’era la residenza dei Cesari, ne faceva la Chiesa degli alti funzionari della Corte. Il nome di S. Anastasia è inserito al Canone della Messa. Santa Anastasia, di cui oggi si fa memoria, è la celebre martire di Sirmio. – La liturgia della Messa ci fa salutare « con gioia il santo Re che viene » (Com.) « il Signore che è nato per noi » (Intr.), « il Bambino adagiato nella mangiatoia » (Vang.). Ci dice che « colui che è nato uomo in questo giorno, si è rivelato anche ai nostri occhi come Dio » (Secr.). Perchè Egli è « il Verbo fatto carne (Or.) si chiama Dio (Intr.) ed « esiste sino dall’eternità » (Off.). E, se Egli viene, è per salvarci (Ep. Com.) e « per farci eredi della vita eterna » (Ep.) della quale noi godremo nel cielo, quando questo Principe della pace, tornerà alla fine del mondo rivestito di forza» (V. dell’ Intr., Alleluia) e in tutto lo splendore della sua Maestà. Allora « il Re dei cieli, che s’è degnato nascere per noi da una Vergine per richiamare al Regno celeste l’uomo che ne era decaduto» (1° resp.)» regnerà per sempre «(Intr.)sugli uomini di buona volontà (Gloria) che lo avranno accolto con fede e amore al tempo della sua prima venuta. Le feste di Natale hanno dunque lo scopo di prepararci al 2° Avvento « giustificandoci per la grazia di Gesù Cristo » (Ep.) « distruggendo in noi il vecchio uomo » (Postcom.) « conferendoci ciò che è divino » (Secr.) e aiutandoci « a fare risplendere nelle nostre opere ciò che per la fede brilla nelle nostre anime » (Or.). – Con i pastori, ai quali il Signore manifesta l’Incarnazione del Suo Figlio, « affrettiamoci di andare» (Vang.) ad adorare all’Altare, che è il vero presepe, il Verbo, nato nell’eternità dal Suo Padre celeste, nato da Maria sopra la terra, e che deve nascere sempre più colla grazia nelle nostre anime, in attesa che ci faccia nascere alla vita gloriosa nel cielo.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Is IX:2 et 6.
Lux fulgébit hódie super nos: quia natus est nobis Dóminus: et vocábitur Admirábilis, Deus, Princeps pacis, Pater futúri sǽculi: cujus regni non erit finis.

La luce splenderà oggi su di noi: poiché ci è nato il Signore: e si chiamerà Ammirabile, Dio, Principe della pace, Padre per sempre: e il suo regno non avrà fine.]

Ps XCII:1
Dominus regnávit, decorem indutus est: indutus est Dominus fortitudinem, et præcínxit se.

[Il Signore regna, si ammanta di maestà: Il Signore si ammanta di fortezza, e si cinge di potenza.]

Lux fulgébit hódie super nos: quia natus est nobis Dóminus: et vocábitur Admirábilis, Deus, Princeps pacis, Pater futúri sǽculi: cujus regni non erit finis.

[La luce splenderà oggi su di noi: poiché ci è nato il Signore: e si chiamerà Ammirabile, Dio, Principe della pace, Padre per sempre: e il suo regno non avrà fine.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Da nobis, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, qui nova incarnáti Verbi tui luce perfúndimur; hoc in nostro respléndeat ópere, quod per fidem fulget in mente.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente: che, essendo inondati dalla nuova luce del Tuo Verbo incarnato, risplenda nelle nostre opere ciò che per virtù della fede brilla nella nostra mente.]

Orémus.
Pro S. Anastasiæ Mart:
Da, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, qui beátæ Anastásiæ Mártyris tuæ sollémnia cólimus; ejus apud te patrocínia sentiámus.

[ Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente: che, celebrando la solennità della Tua Martire Anastasia, possiamo godere presso di Te il beneficio del suo patrocinio.]

Lectio

Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Titum.
Tit III: 4-7
Caríssime: Appáruit benígnitas et humánitas Salvatóris nostri Dei: non ex opéribus justítiæ, quæ fécimus nos, sed secúndum suam misericórdiam salvos nos fecit per lavácrum regeneratiónis et renovatiónis Spíritus Sancti, quem effúdit in nos abúnde per Jesum Christum, Salvatorem nostrum: ut, justificáti grátia ipsíus, herédes simus secúndum spem vitæ ætérnæ: in Christo Jesu, Dómino nostro.

[Carissimo: Apparsa la bontà e l’umanità del Salvatore, nostro Dio: Egli ci salvò non già in ragione delle opere di giustizia fatte da noi, ma per la Sua misericordia: col lavacro di rigenerazione e il rinnovamento dello Spirito Santo, diffuso largamente su di noi per i meriti di Gesù Cristo, nostro Salvatore: affinché, giustificati per la Sua grazia, divenissimo eredi, in speranza, della vita eterna: in Cristo Gesù, Signore nostro.]

Graduale

Ps CXVII: 26; 27; 23
Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: Deus Dóminus, et illúxit nobis.

[Benedetto Colui che viene nel nome del Signore: Il Signore è Dio e ci ha illuminati.]

V. A Dómino factum est istud: et est mirábile in óculis nostris. Allelúja, allelúja

V. Questa è opera del signore: ed è mirabile ai nostri occhi. Allelúia, allelúia

Ps XCII: 1
V. Dóminus regnávit, decórem índuit: índuit Dóminus fortitúdinem, et præcínxit se virtúte. Allelúja.

[V. Il Signore regna, si ammanta di maestà: Il Signore si ammanta di fortezza, e si cinge di potenza. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
S. Luc II:15-20
In illo témpore: Pastóres loquebántur ad ínvicem: Transeámus usque Béthlehem, et videámus hoc verbum, quod factum est, quod Dóminus osténdit nobis. Et venérunt festinántes: et invenérunt Maríam et Joseph. et Infántem pósitum in præsépio. Vidéntes autem cognovérunt de verbo, quod dictum erat illis de Púero hoc. Et omnes, qui audiérunt, miráti sunt: et de his, quæ dicta erant a pastóribus ad ipsos. María autem conservábat ómnia verba hæc, cónferens in corde suo. Et revérsi sunt pastóres, glorificántes et laudántes Deum in ómnibus, quæ audíerant et víderant, sicut dictum est ad illos.

[In quel tempo: I pastori presero a dire tra loro: Andiamo sino a Betlemme a vedere quello che è accaduto, come il Signore ci ha reso noto. E andati con prontezza, trovarono Maria, e Giuseppe, e il bambino giacente nella mangiatoia. Dopo aver visto, raccontarono quanto era stato detto loro di quel bambino. Coloro che li udirono rimasero meravigliati di ciò che i pastori avevano detto. Intanto Maria riteneva tutte queste cose, meditandole in cuor suo. E i pastori se ne ritornarono glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e veduto, come era stato loro detto.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

IL MISTERO DEL SANTO NATALE

La notte tenebrosa gravava come una lunga maledizione sul mondo assopito nel sonno. Tutti dormivano: si dormiva a Roma, si dormiva a Gerusalemme, si dormiva a Betlem, dove una moltitudine era accorsa da ogni villaggio per dare il nome al censimento di Cesare Augusto. Solo qualche pastore vegliava nei dintorni, accanto a fuochi morenti, mentre custodiva il gregge. – Ed ecco squarciarsi l’oscurità e sfociare giù dall’alto fiumi di luce e tutto il cielo ardere come una fiamma e sopra i paesi assonnati passare cori invisibili, cantando parole non mai udite sopra la terra: « Gloria a Dio nei cieli più alti; pace agli uomini di buona volontà ». Balzarono attoniti i pastori vigili presso il loro branco di pecore ed una luce li investì. Nella luce videro l’Angelo fulgidissimo del Signore. Si spaventarono; ma l’Angelo disse loro: « Non temete: è una gioia grande per voi e per tutti, che noi portiamo: è nato il Salvatore ». Dunque, il tempo di piangere era finito, la maledizione era passata, la schiavitù del demonio era infranta. – « Gioia grande!» diceva l’Angelo ai pastori prostrati nella luce celeste. « Gioia grande: è nato nella città di Davide Cristo Signore. Vi dò un segno per trovarlo: vedrete un bambino involto in pochi panni, adagiato in una greppia ». Come gli Angeli sparirono, i pastori si guardarono l’un l’altro muti, poi dissero: « Andiamo a Betlem, e vedremo ». Transeamus usque in Betlehem et videamus. Lasciarono le pecore a ruminare sotto la rugiada presso i fuochi ormai spenti,e corsero.Lasciamo ogni altra cura anche noi e corriamo dietro a loro col cuore pienodi fede, col cuore pieno di gioia.Giungono, ansimanti. Et venerunt festinantes. Trovano Maria, trovano Giuseppee, in una greppia, un Bambino. Gioia grande! Dio si è fatto bambino. La divinitàofferta e l’umanità peccatrice si sono abbracciate nel corpicino di Gesù Cristo. Gaudium magnum.Adoriamo anche noi il Bambino e pensiamo:Il padrone del mondo s’è fatto povero, senza casa, senza culla.Il forte, il Dio delle armate, s’è fatto debole e infermo.L’infinito, per il quale son troppo piccoli i cieli, è raccolto in una greppia.Chi ha dato alla terra la virtù di produrre il pane, e alle piante la virtù di produrrefrutti, patisce la fame.Il regolatore delle stagioni e del freddo nasce d’inverno, intirizzito dall’ariarigida.  Quelle piccole mani arrossate dalla gelida notte hanno sollevato nei cieli il sole, la luna e tutte le stelle. Ed è per noi, sapete che Dio s’è reso così; per noi Propter nos egenus factus est, cum esset dives (II Cor., VIII, 9). S’è reso così perché noi gli volessimo bene: è il pensiero di S. Pier Crisologo: « sic nasci voluit qui voluit amari ». S’è reso così perché l’imitatissimo: è il pensiero di Tertulliano: « ut homo divine agere doceretur ».Allora diciamogli, con le lacrime agli occhi: « Bambino Gesù! noi ti ameremo,noi ti imiteremo ».NOI TI AMEREMOElena imperatrice, la madre di Costantino il grande, aveva avuto da Dio labella missione di ritornare al culto dei fedeli i luoghi santificati dalla vita e dallamorte di Nostro Signore.Quando arrivò a Betlem ed entrò nella grotta della santa nascita, emise ungrido d’indignazione. Quel luogo santo era stata profanato: al posto della greppialà dove Cristo aveva vagito per la nostra salvezza s’ergeva la statua infamedi Adone.L’imperatore Adriano, acre nemico di nostra fede, con un gusto diabolico l’avevaeretta là, perché il demonio ridesse dove Cristo aveva pianto.La pia regina, con le lacrime, comandò che abbattessero quel diabolico simulacro;ed ella stessa, con le sue mani, godeva di frantumarlo. Poi vi fè edificareun sontuosissimo tempio, che custodisse quell’umile posto, scelto da Dio per venireal mondo. –  È Natale: Dio nasce nei cuori. E c’è forse qualcuno che nel suo cuore, nelluogo dove Cristo deve nascere tien eretto il simulacro del demonio, il peccato?Alessandro il Macedone per conquistarsi l’animo dei Persiani, ha voluto vestirsicome loro, imitare in tutto quelle barbare costumanze; Dio per conquistare ilnostro cuore, per farsi amare dagli uomini si è fatto uomo in tutto come noi: habitu inventus ut homo; ha voluto patire come noi e più di noi, e noi non gli vogliamobene? Noi daremo il nostro cuore al demonio, ma non a lui?Nessuno sarà così pazzo e crudele da far questo. Come Elena regina frantumiamoil peccato dentro di noi, ed una bella confessione purifichi l’anima nostra,e la nascita di Cristo segni il principio di una nuova vita d’amore, di preghiera,di purezza.« Bambino Gesù! » diciamogli sinceramente « io t’amo ».Se la nostra vita passata ci dicesse che queste parole sono una bugia, perchénon siamo capaci d’amarlo con le opere, diciamogli così: « Bambino Gesù, se nonti amo, desidero però d’amarti assai ». E se anche questo non fosse vero, perché  il nostro cuore è più attaccato alla roba di questo mondo che al Signore, diciamoglialmeno: « Bambino Gesù! mi piacerebbe tanto desiderare d’amarti ».NOI TI IMITEREMO.A Giovanni II, re di Portogallo, annunciarono che stava male un servo, a luitanto caro.Il re si turbò, poi volle egli stesso scendere dal suo palazzo nella casa del servo.Nel varcare la soglia dell’ammalato, chiese, come si suole, dello stato dell’infermo.Gli risposero che il male era gravissimo, ma il peggio era che l’ammalato non silasciava indurre a prendere medicine.Quel mattino stesso i medici gli avevano imposto una medicina amara ma tanto salutare. La prese nelle sue mani, e senza indugio, egli stesso ne bevve parecchi lunghisorsi. Poi, accostandola alla bocca del malato gli disse: «Io il re, sanissimo, ho preso quest’amara bevanda solo per tuo amore, e tu, il servo, ammalato, non prenderai questo poco che resta per amor mio e per tua salute? ».  Il vassallo tese di slancio le mani verso la medicina, e disse: « Datemele: ora la berrei d’un fiato, foss’anche tossico ». Noi siamo servi ammalati: ammalati di superbia perché ci crediamo un gran che e siamo niente; ammalati di collera perché non vogliamo dimenticare e perdonare le offese; ammalati d’avarizia perché non pensiamo che a roba e a danaro; ammalati nella mente, nel cuore di pensieri e di desideri cattivi. È necessaria la medicina amara dell’umiliazione, della povertà, della mortificazione. Il nostro re, il Bambino Gesù, oggi è venuto a trovarci in casa nostra e ce ne dà l’esempio. Egli santissimo Dio, s’è fatto umile nel presepio, povero in una stalla, mortificato dal freddo. E noi non vorremmo portare la nostra croce? Ci lamenteremo ancora della Provvidenza? – Simone Maccabeo, una notte che conduceva l’armata contro i nemici, si trovò la strada tagliata da un torrente gonfio per le piogge recenti. I soldati s’arrestarono, poiché nessuno osava guardare in quel posto. Simone non fece parola, slanciò il cavallo nell’acqua e passò per il primo: transfretavit primus (I Macc., XVI, 6). Tutti allora gli andarono dietro. Ebbene: il nostro capitano Gesù oggi, per il primo, si slancia attraverso il torrente del dolore, della povertà, della mortificazione: a noi non resta che andargli dietro. Bambino Gesù! noi ti imiteremo. Disse l’Angelo ai pastori: « Evangelizo vobis gaudium magnum ». Vi porto una gioia grande. Lungi da noi, dunque, ogni pensiero di tristezza. Che cosa possiamo temere se il Verbo si è fatto carne, se Dio s’è fatto bambino? Quando Dio è con noi, chi può essere contro di noi? Gioia grande! – Il capitano Alfonso d’Albuquerque fu sorpreso da una procella furiosa, in mezzo al mare. La povera nave flagellata dalle onde rabbiose, squassata dal vento, cigolava in ogni connessura quasi volesse sfasciarsi. Le nubi basse e cupe avevano fatto l’oscurità sull’acque; i lampi guizzavano in quella tenebra con un bagliore di sangue. Le donne urlavano; perfino i vecchi marinai piangevano di paura. Il capitano, pazzo dal terrore, strappò dal seno d’una madre un bambino di pochi mesi, salì sulla tolda in alto, e protese verso la rabbia delle nubi quella fragile creaturina: «E se, — diceva — siam tutti peccatori, questo bimbo, o Dio, risparmialo perché è senza peccati ». Subito tacque il vento, si chetò l’acqua, s’aperse il cielo: e attraverso lo squarcio d’una nube discese l’arcobaleno. – Nelle disgrazie della vita, nelle tentazioni, nell’ora della morte e nel giorno del giudizio, quando intorno alla navicella della nostra anima sarà come una fragorosa burrasca, ricordiamoci di questo Bambino che oggi c’è dato, che oggi per noi è nato; innalziamolo a Dio e si farà la pace e la gioia intorno a noi. Tra pochi istanti, quando la Messa sarà all’elevazione, io stesso tra le mie mani prenderò Gesù Bambino ed elevandolo verso il cielo, mi ricorderò delle parole di Alfonso d’Albuquerque: « Se tutti noi siamo peccatori, o Dio, questo Bambino risparmialo perché è senza peccati! ». Per la sua innocenza noi tutti saremo salvati. – – Da Nazareth, dove avevano messo su casa, il censimento di Cesare Augusto obbligò Giuseppe e Maria a recarsi fino a Betlemme città dei loro antenati. Per tal modo mentre il padrone dell’Impero col suo decreto metteva in moto umili persone, inconsapevolmente dava compimento alla profezia che annunciava Betlemme come luogo di nascita per il Messia. « Che fate voi principe del mondo! Credeste d’agire secondo le vostre voglie e finite per eseguire i disegni di Uno che è sopra di voi » (BOSSUET). – Quattro giorni viaggiarono i due pellegrini: e si era nella stagione delle piogge e le condizioni della Vergine estremamente delicate. A Betlem, gremita di forestieri accorsi per farsi iscrivere, non trovarono alloggio conveniente; neppure all’albergo. Sicché, quando fredda fredda discese la sera, Giuseppe e Maria andarono a ripararsi in una grotta dove gli uomini del paese cacciavano il bestiame e qualche volta essi pure pernottavano. Unico arnese vi era una mangiatoia per i foraggi e biadumi degli animali. In questa stalla, nel cuor della notte, nacque il Figlio di Dio, Salvatore del mondo. Sua Madre, la sempre Vergine, lo prese nelle sue mani, lo ravvolse in pannicelli, e lo accomodò nella mangiatoia. Di lì, come da un trono prescelto, cominciò a regnare il Signore dei potenti, il Re dei re. E vagiva, con un filo di fiato. E non seppe ch’Egli era nato, Erode il feroce Iduneo che abitava in una fortezza non lontano dalla grotta, e che forse in quell’ora adagiato fra gli ori e la porpora accoglieva gli omaggi de’ suoi cortigiani o si assideva al banchetto sontuose di un festino notturno. E non lo seppe neanche Cesare Augusto: eppure il Dio dei Cieli era nato suddito del suo impero. Invece lo seppero alcuni poveri e buoni pastori che vegliavano a custodia della greggia. Un’improvvisa luce sbocciò davanti ad essi sbalorditi ed un Angelo disse loro: « Non temete, che vi annunzio una gran gioia: è nato il Salvatore. Eccovi il segno per riconoscerlo: troverete un bambino avvolto in panni e posto in una mangiatoia ». In quel momento sulla terra oscura ed ignara, i cieli parvero spalancarsi; stormi innumerevoli d’Angeli trasvolarono lasciando indietro un canto di speranza: « Gloria a Dio! Pace agli uomini! ». Quando disparvero e la notte si ricompose nel silenzio e nelle tenebre, i pastori rinvenuti un poco dalla stupefazione dissero: « Corriamo a Betlemme, e vedremo ciò che il Signore ci ha fatto conoscere ». Vi giunsero in fretta, verificarono il segno preannunciato dall’Angelo, e adorarono Dio in quella creaturina di carne, messa è in un greppia, come un oggetto di rifiuto. Cristiani! l’eco del canto angelico ripassa ancora sulle nostre anime, sulle nostre case, sulle nostre chiese: «A Dio gloria, agli uomini pace ». È vero che il fatto della nascita di Gesù dal seno verginale di Maria, avvenuto una volta per sempre venti secoli or sono, più non si ripete. Ma gli effetti di quella nascita, i suoi frutti di grazia e di vita, come un fiume celeste, ancora inondano la terra: oggi specialmente passano accanto a noi. Apriamo i cuori ad accoglierli! Quelli che come Erode si ostinano nelle loro passioni di egoismo e nelle abitudini sensuali, quelli che come Augusto si abbandonano a sogni d’orgoglio e a bremosie di possedere, non sentiranno nel loro animo che è nato il Salvatore. Beati quelli che, come i pastori dalla semplice vita, deposta ogni ingombrante preoccupazione terrena, accorreranno alla culla divina e gusteranno i frutti del santo Natale. Tre sono i principali frutti del ministero che celebriamo:

1) comprendere il sentimento che faceva palpitare il cuore al celeste Bambino: l’Amore;

2) raccogliere dal suo esempio l’insegnamento che illumina ogni uomo che viene al mondo: la Verità;

3) attingere alla sorgente che nascendo ha dischiuso per noi: la Vita divina della Grazia.

Insomma, ciò che provarono e videro allora i pastori, noi dobbiamo provarlo e vederlo ora: l’Amore, la Verità, Dio che si fece carne e s’attendò tra noi. – È APPARSO L’AMORE. Dopo il peccato una profonda separazione distaccò l’uomo da Dio. Se Dio parlava, la sua voce faceva tramortire di spavento. « Udii la tua voce — balbettava Adamo — e per la paura mi sono nascosto » (Gen., III, 10). Se Dio s’avvicinava alle punte della terra, i tuoni e le folgori lo avvolgevano. Il popolo atterrito alle falde dei Sinai, supplicava Mosè: « Parla tu a noi; ma non ci parli il Signore, perché morremmo » (Es., XX, 19). Gli uomini sentivano d’essere sotto una maledizione e di non poter pensare a Dio se non con terrore. « Le nubi e le tempeste gli stanno intorno; l’incendio lo precede ad abbruciare i suoi nemici. S’egli guarda, la terra sussulta; s’egli guarda, i monti si struggono come fossero di cera » (Ps., XCVI, 2-5). – E sarebbe stato sempre così, perché l’uomo solo doveva riparare, e l’uomo da solo non poteva. Infatti « qual mai tra i nati all’odio, qual era mai persona che al Santo inaccessibile potesse dire: « perdona? » (MANZONI). – Ma un amore infinito, incomprensibile, spinse il Figlio di Dio a prendere la nostra carne umana, che era condannata e che trascinava a morte. Eppure alla morte Egli innocente non doveva nulla. Egli onnipotente avrebbe potuto sottrarsi. Ma non l’ha fatto. E nasce un bambino appunto per morire d’amore e liberarci dal terrore. Perciò dissero gli Angeli ai pastori: « Non temete più… È nato il Salvatore e lo troverete bambino in fasce ». – Sentite. Un antico capitano di nome Temistocle, fuggiasco e sfinito, fu costretto ad approdare alla terra d’un re che aveva un giorno offeso e da cui era ricercato a morte. Folle di spavento entrò nella reggia e corse a nascondersi in una sala. Ecco un rumore dietro a lui: si voltò disperato e deciso a lasciarsi uccidere. Vide un bambino, incerto sui suoi passi, che lo guardava, e gli sorrideva e gli tendeva le manine bianche…: era il figlio del re. Temistocle non seppe resistere allo spettacolo inatteso di quella innocenza: lo prese tra le sue braccia e cominciò a tremare e a piangere. Così, in quest’atteggiamento lo sorprese il re. Come l’ira del re avrebbe potuto colpire, se tra la punta della spada e il nemico c’era di mezzo il suo bambino? Il monarca adunque ripose la spada, e corse ad abbracciare il suo piccolo: ma stretto a lui, fatto quasi una sol cosa con lui, era il colpevole. Non poté disgiungerlo, e se li strinse entrambi al suo cuore confondendoli in un unico amore. O uomo, — grida S. Bernardo, — perché paventi? Perché temi davanti al Signore che viene? Non disperarti, non fuggire! Rivolgiti e guarda: è un Bambino che ancora non sa parlare, che ancora, non sa camminare, solo già sa piangere d’amore (Migne, P. L., «In Nativ. Dom. », Sermo I, 3). Detestando sinceramente le nostre colpe, abbracciamo il piccolo Gesù che nasce per noi; con la fede aderiamo a Lui fino a far con Lui una cosa sola. Se Dio vorrà poi giudicarci a morte, noi gli diremo: « Signore fra me e il tuo giudizio, io metto in mezzo quest’innocente creaturina, che è tuo Figlio ». – È APPARSA LA VERITÀ. Pochi anni prima che nascesse Gesù, Ottaviano il futuro padrone del mondo che avrebbe ordinato il censimento, prima di salir sulle navi e muovere a battaglia incontrò un asinaio col suo somaro; la bestia si chiamava Vittorioso. Dopo la battaglia l’imperatore fece innalzare nel tempio una statua di bronzo a quell’asino perché fosse adorato in ricordo della sua vittoria. Quanta superstizione e quanta immersione nella materia vi era negli uomini anche tra le persone più cospicue e civili, perfino nello stesso Imperatore. Il demonio che si faceva adorare negli idoli, traviava l’umanità proponendole come supremo bene il piacere dei sensi, gli onori umani, il possesso del danaro e della roba. – Ma la divina Sapienza si fece carne, e pose la cattedra in una mangiatoia: di lì la Verità illumina ogni uomo che viene al mondo. Alla sensualità il Bambino Gesù oppone l’esempio delle sue sofferenze. Soffre nel corpo il rigore della notte, l’ispidità di quella strana cuna; soffre nell’anima per i nostri peccati, i quali già cominciano a strappargli dagli occhi le lacrime e poi gli strapperanno dalle vene tutto il sangue. – All’orgoglio il Bambino Gesù oppone l’esempio della sua umiliazione. L’uomo vuol sempre apparire da più di quello che è fino a ribellarsi a Dio, e anteporre il suo capriccio al comandamento dell’Eterno. Gesù, vero Dio, si nascose nella natura umana, si annientò facendosi come uno di noi. Gesù, immenso, Dio, che i cieli non possono contenere si restrinse in piccole membra ad avvolgere le quali bastarono pochi decimetri di fasce. Gesù, eterno Dio, che vive nei secoli apparve fragile creatura di poche ore. Gesù l’onnipotente Dio che guida gli astri, sostiene l’universo, giudica i vivi ed i morti, s’abbandonò incapace di reggersi nelle mani di Giuseppe e di Maria, si lasciò prendere e portare dovunque desiderassero, sempre a loro sottomesso. – All’avarizia il Bambino Gesù oppone l’esempio della sua povertà. La bramosia di possedere muove quaggiù individui e popoli, ma il Figlio di Dio nascendo ci ha disillusi, insegnandoci che ogni cosa terrena è una fugace bagatella. Il re dei secoli infatti non volle un palazzo, neppure una camera affittata nell’albergo, neppure una cuna: gli è bastato una mangiatoia e pochi pannicelli. È apparsa dunque la Verità in forma visibile per entusiasmarci dei beni invisibili. I poveri e gli umili non devono più lagnarsi del loro stato che tanto somiglia al suo; i ricchi e i fortunati devono preoccuparsi di aiutare i bisognosi, altrimenti non assomiglieranno mai a Lui, che «da ricco che era, si è fatto per noi povero » (II Cor., VIII, 9). – È APPARSO DIO. Che mirabile scambio è mai avvenuto tra la divinità e l’umanità nel Santo Natale! 1) Dio è apparso in mezzo a noi, si è fatto uomo. Noi gli abbiamo prestata la nostra natura. Contemplate il celeste Bambino, ci sono in Lui due vite: quella di Dio e quella d’uomo. Come uomo giace sul fieno, come Dio regna nei cieli e giudica le anime che compariscono davanti a lui. Jacet in præsepio, et in cælis regnat. Badiamo bene di non macchiare coi peccati quella natura umana che Egli s’è degnato di prendere in prestito da noi. 2) Dio è apparso in mezzo a noi, si è fatto uomo perché l’uomo si facesse Dio. Nascendo Egli ci ha fatto partecipare alla sua natura divina. Considerate, Cristiani, la nostra realtà: ci sono in noi due vite. L’una naturale che ci fu data attraverso l’opera dei nostri genitori; l’altra soprannaturale, divina, che ci fu comunicata nelle acque del battesimo. Non siamo appena figli d’uomini, ma siamo anche figli di Dio, fratelli di Gesù Bambino, degni di godere in paradiso la sua stessa beatitudine e la sua stessa gloria. Di queste due vite, è quella divina che deve dominare in noi, benché noi non la vediamo. Anche in Gesù Bambino la sua vita divina era nascosta, sembrava soltanto un fanciullo come tutti gli altri. Ma un giorno Cristo apparirà nella sua gloria, e noi appariremo con Lui nella nostra realtà divina se non l’avremo soffocata nei peccati. Bisogna finirla una buona volta con tutto ciò che distrugge e intisichisce la vita divina in noi: cioè coi peccati, cogli affetti illeciti alle creature, con le preoccupazioni sregolate per le cose che passano, coi meschini desideri del nostro orgoglio! – Nell’anno 135 l’imperatore Adriano, con empio proposito, profanò la grotta della santa nascita collocandovi la statua di Adone, l’impudico idolo dei pagani. Dove Cristo infante aveva vagito per la salvezza nostra, ivi era tornata a dominare l’immagine della perdizione. Ma più vergognosa profanazione avviene nel cuore di molti Cristiani, nei quali Dio s’è degnato di nascere colla sua grazia, e dai quali è poi discacciato orrendamente e sostituito dalle più basse passioni. –  Sarebbe ingratitudine concludere senza un pensiero amoroso a Colei che fu degna di donarci il Bambino Redentore. Tra i ricordi che della sua infanzia S. Bernardo raccontava, il più dolce era questo. Era giunta la vigilia del Natale, attesa con quel fascino che solo sanno i fanciulli dall’anima bianca. Egli volle ad ogni costo che i suoi lo prendessero seco alla Messa di mezzanotte. Ma quando fu nella chiesa, cullato dal mormorio delle preghiere, avvolto nel tepore della folla, tardando la Messa ad uscire, vinto dal sonno s’addormentò. «Nel sonno vide attraversare i cieli la Vergine Maria che teneva stretto al seno il bellissimo Bambino, appena nato. Con materna mossa curvata su di lui, diceva: « Guarda fra quella gente il mio piccolo Bernardo! ». Il Bambino aprì le palpebre, girò gli occhi, e lo vide. Si sorrisero scambievolmente. O dolce, o santa Madre, quella parola che un giorno dicesti per S. Bernardo, ripetila al tuo Bambino, oggi, anche per noi! Digli che ci guardi. Digli che tu lo rivestisti di poveri panni, perché Egli rivestisse noi con la gloria dell’immortalità. Digli che lo ponesti nell’angusta mangiatoia, perché Egli collocasse noi nella reggia dei cieli immensa. Digli che tu lo adagiasti fra il fiato di due animali, perché Egli sollevasse noi tra il canto degli Angeli.

Se così gli dici, così sarà.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XCII:1-2
Deus firmávit orbem terræ, qui non commovébitur: paráta sedes tua, Deus, ex tunc, a sǽculo tu es.

[Iddio ha consolidato la terra, che non vacillerà: il Tuo trono, o Dio, è stabile, fin dal principio, fin dall’eternità Tu sei.]

Secreta

Múnera nostra, quǽsumus, Dómine, Nativitátis hodiérnæ mystériis apta provéniant, et pacem nobis semper infúndant: ut, sicut homo génitus idem refúlsit et Deus, sic nobis hæc terréna substántia cónferat, quod divínum est.

[Le nostre offerte, o Signore, riescano atte ai misteri dell’odierna Natività e ci infondano pace duratura: affinché, come il Tuo Figlio nascendo uomo rifulse quale Dio, così queste offerte terrene conferiscano a noi ciò che è divino.]

Pro S. Anastasia.

Acipe, quǽsumus, Dómine, múnera dignánter obláta: et, beátæ Anastásiæ Mártyris tuæ suffragántibus méritis, ad nostræ salútis auxílium proveníre concéde.
[O Signore, Te ne preghiamo, accogli favorevolmente i doni offerti: e concedi che, per i meriti della beata Anastasia, Martire Tua, giovino a soccorso della nostra salvezza.]

Prefatio

de Nativitate Domini


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Quia per incarnáti Verbi mystérium nova mentis nostræ óculis lux tuæ claritátis infúlsit: ut, dum visibíliter Deum cognóscimus, per hunc in invisibílium amorem rapiámur. Et ideo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes: Sanctus …

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Poiché mediante il mistero del Verbo incarnato rifulse alla nostra mente un nuovo raggio del tuo splendore, cosí che mentre visibilmente conosciamo Dio, per esso veniamo rapiti all’amore delle cose invisibili. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Zach IX:9
Exsúlta, fília Sion, lauda, fília Jerúsalem: ecce, Rex tuus venit sanctus et Salvátor mundi

[Esulta, o figlia di Sion, giubila, o figlia di Gerusalemme: ecco che viene il tuo Re santo, il Salvatore del mondo.]

Postcommunio

Orémus.
Hujus nos, Dómine, sacraménti semper nóvitas natális instáuret: cujus Natívitas singuláris humánam réppulit vetustátem.

[Ci restauri sempre, o Signore, la rinnovata celebrazione del Natale di Colui la cui nascita singolare scacciò l’umana decrepitezza.]

Orémus.
Pro S. Anastasia.
Satiásti, Dómine, famíliam tuam munéribus sacris: ejus, quǽsumus, semper interventióne nos réfove, cujus sollémnia celebrámus.

[Hai saziato, o Signore, la tua famiglia con i sacri doni: confortaci sempre, Te ne preghiamo, mediante l’intercessione della Santa di cui celebriamo la festa.]

PREGHIERE LEONINE

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

PRIMA MESSA DEL SANTO NATALE – DURANTE LA NOTTE (2022)

PRIMA MESSA del SANTO NATALE DURANTE L A NOTTE. (2022)

Doppio di I cl. con ottava privileg. di III ord. – Paramenti bianchi.

Stazione a S. Maria Maggiore all’altare del Presepe.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Il Verbo, generato nell’eternità del Padre, (Com. Grad.) ha elevato fino all’unione personale con sé il frutto benedetto del seno verginale di Maria, ciò che significa che la natura umana e la natura divina sono legate in Gesù nell’unità di una sola Persona, che è la seconda Persona della SS. Trinità. E, come quando si parla di figliolanza, è la persona che si designa, si deve dire che Gesù è il Figlio di Dio perché la sua persona è divina; è il Verbo incarnato. Perciò Maria è la Madre di Dio; non perché essa abbia generato il Verbo, ma perché ha generato l’umanità che il Verbo si è unito nel mistero dell’Incarnazione; mistero di cui la nascita di Gesù a Betlemme fu la prima manifestazione al mondo. Si comprende allora perché la Chiesa canti ogni anno a Natale: « Puer natus est nobis et Filius datus est nobis»; un fanciullo è nato per noi, un figlio ci viene dato, (Intr., Allei.). Questo Figlio è il Verbo incarnato, generato come Dio dal Padre nel giorno dell’eternità: Ego hodie genui te, e che Dio genera come uomo nel giorno dell’Incarnazione: Ego hodie genui te; perché con l’assunzione della sua umanità in Dio « assumptione humanitatis in Deum » (Simbolo di S. Atanasio), il Figlio di Maria è nato alla vita divina, ed ha Dio stesso per Padre, perché Egli è unito ipostaticamente a Dio Figlio. – «Con grande amore, dice S. Leone, il Verbo incarnato ha ingaggiato la lotta contro satana per salvarci, perché l’onnipotente Signore ha combattuto con il crudelissimo nemico non nella maestà di Dio, ma nella debolezza della nostra carne » (5a Lez.). E la vittoria che ha riportato, malgrado la sua debolezza, mostra che Egli è Dio. – Fu nel mezzo della notte, che Maria mise al mondo il Figlio primogenito e lo depose in una mangiatoia. Cosi la Messa si celebra a mezzanotte nella Basilica di S. Maria Maggiore, dove si conservano le reliquie della mangiatoia. – Questa nascita in piena notte è simbolica. È il « Dio da Dio, luce da luce » (Credo) che disperde le tenebre del peccato. « Gesù è la vera luce che viene a illuminare il mondo immerso nelle tenebre » (Or.). «Col Mistero dell’Incarnazione del Verbo, dice il Prefazio, un nuovo raggio di splendore del Padre ha brillato agli occhi della nostra anima, perché, mentre conosciamo Iddio sotto una forma visibile, possiamo esser tratti da Lui all’amore delle cose invisibili ». « La bontà del nostro Dio Salvatore si è dunque manifestata a tutti gli uomini per insegnarci a rinunciate alle cupidigie umane, per redimerci da ogni bassezza e per fare di noi un popolo gradito, e fervente di buone opere» (Ep.). «Si è fatto simile a noi perché noi diventiamo simili a Lui (Secr.) e perché dietro il suo esempio possiamo condurre una vita santa » (Postcom.). « È cosi che vivremo in questo mondo con temperanza, giustizia e pietà, attendendo la lieta speranza e l’avvento della gloria del nostro grande Iddio Salvatore e nostro Gesù Cristo » (Ep.). Come durante l’Avvento, la prima venuta di Gesù ci prepara dunque alla seconda.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps II:7.
Dóminus dixit ad me: Fílius meus es tu, ego hódie génui te

(Il Signore disse a me: tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato).
Ps II:1
Quare fremuérunt gentes: et pópuli meditáti sunt inánia?

[Perché si agitano le genti: e i popoli ordiscono vani disegni?]

Dóminus dixit ad me: Fílius meus es tu, ego hódie génui te.

[Il Signore disse a me: tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, qui hanc sacratíssimam noctem veri lúminis fecísti illustratióne claréscere: da, quǽsumus; ut, cujus lucis mystéria in terra cognóvimus, ejus quoque gáudiis in coælo perfruámur:

[O Dio, che questa notta sacratissima hai rischiarato coi fulgori della vera Luce, concedici, Te ne preghiamo, che di Colui del quale abbiamo conosciuto in terra i misteriosi splendori, partecipiamo pure i gaudii in cielo:]

Lectio

Léctio Epístolæ beati Pauli Apóstoli ad Titum
Tit II: 11-15
Caríssime: Appáruit grátia Dei Salvatóris nostri ómnibus homínibus, erúdiens nos, ut, abnegántes impietátem et sæculária desidéria, sóbrie et juste et pie vivámus in hoc sǽculo, exspectántes beátam spem et advéntum glóriæ magni Dei et Salvatóris nostri Jesu Christi: qui dedit semetípsum pro nobis: ut nos redímeret ab omni iniquitáte, et mundáret sibi pópulum acceptábilem, sectatórem bonórum óperum. Hæc lóquere et exhortáre: in Christo Jesu, Dómino nostro.

[Carissimo: La grazia salvatrice di Dio si è manifestata per tutti gli uomini e ci ha insegnato a rinnegare l’empietà e le mondane cupidigie, e a vivere in questo mondo con temperanza, giustizia e pietà, aspettando la lieta speranza e la manifestazione gloriosa del nostro grande Iddio e Salvatore nostro Gesù Cristo. Egli ha dato sé stesso per noi, a fine di riscattarci da ogni iniquità, e purificare per sé un popolo suo proprio, zelante per buone opere. Insegna queste cose e raccomandale: in nome del Cristo Gesù, Signore nostro.]

Aspirazione. Siate benedetto, o mio divin Salvatore, che vi siete degnato di scendere dal cielo e rivestirvi di nostra carne mortale, per venire ad insegnarmi il cammino giustizia! Riconoscente a sì grande amore e per  profittare di un sì gran benefizio, rinunzio ad ogni empietà e ad ogni inimicizia, ai piaceri della carne ed a tutte le azioni, parole, pensieri che potessero dispiacervi, e prometto fermamente di vivere con temperanza, giustizia e pietà. Deh! la vostra grazia, o mio Dio, mi renda fedele ai disegni che essa m’ispira! (Goffinè: Manuale per la santif. della Domenica, etc …)

Graduale

Ps CIX:3; 1
Tecum princípium in die virtútis tuæ: in splendóribus Sanctórum, ex útero ante lucíferum génui te.
[Con te è il principato dal giorno della tua nascita: nello splendore dei santi, dal mio seno ti ho generato, prima della stella del mattino.]

V. Dixit Dóminus Dómino meo: Sede a dextris meis: donec ponam inimícos tuos, scabéllum pedum tuórum. Allelúja, allelúja.

[V. Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra: finché ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi. Allelúia, allelúia.]

Ps II:7
V. Dóminus dixit ad me: Fílius meus es tu, ego hódie génui te. Allelúja.

[V. Il Signore disse a me: tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secundum Lucam
Luc 2:1-14
In illo témpore: Exiit edíctum a Cæsare Augústo, ut describerétur univérsus orbis. Hæc descríptio prima facta est a præside Sýriæ Cyríno: et ibant omnes ut profiteréntur sínguli in suam civitátem. Ascéndit autem et Joseph a Galilæa de civitáte Názareth, in Judæam in civitátem David, quæ vocatur Béthlehem: eo quod esset de domo et fámilia David, ut profiterétur cum María desponsáta sibi uxóre prægnánte. Factum est autem, cum essent ibi, impléti sunt dies, ut páreret. Et péperit fílium suum primogénitum, et pannis eum invólvit, et reclinávit eum in præsépio: quia non erat eis locus in diversório. Et pastóres erant in regióne eádem vigilántes, et custodiéntes vigílias noctis super gregem suum. Et ecce, Angelus Dómini stetit juxta illos, et cláritas Dei circumfúlsit illos, et timuérunt timóre magno. Et dixit illis Angelus: Nolíte timére: ecce enim, evangelízo vobis gáudium magnum, quod erit omni pópulo: quia natus est vobis hódie Salvátor, qui est Christus Dóminus, in civitáte David. Et hoc vobis signum: Inveniétis infántem pannis involútum, et pósitum in præsépio. Et súbito facta est cum Angelo multitúdo milítiæ coeléstis, laudántium Deum et dicéntium: Glória in altíssimis Deo, et in terra pax hóminibus bonæ voluntátis.

[In quel tempo: Uscì un editto di Cesare Augusto che ordinava di fare il censimento di tutto l’impero. Questo primo censimento fu fatto mentre Quirino era preside della Siria. Recandosi ognuno a dare il nome nella propria città, anche Giuseppe, appartenente al casato ed alla famiglia di Davide, andò da Nazareth di Galilea alla città di Davide chiamata Betlemme, in Giudea, per farsi iscrivere con Maria sua sposa, ch’era incinta. E avvenne che mentre si trovavano lì, si compì per lei il tempo del parto; e partorì il suo figlio primogenito, lo fasciò e lo pose in una mangiatoia, perché non avevano trovato posto nell’albergo. Nello stesso paese c’erano dei pastori che pernottavano all’aperto e facevano la guardia al loro gregge. Ed ecco apparire innanzi ad essi un Angelo del Signore e la gloria del Signore circondarli di luce, sicché sbigottirono per il gran timore. L’Angelo disse loro: Non temete, perché annuncio per voi e per tutto il popolo un grande gaudio: infatti oggi nella città di Davide è nato un Salvatore, che è il Cristo Signore. Questo sia per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, giacente in una mangiatoia. E d’un tratto si raccolse presso l’Angelo una schiera della Milizia celeste che lodava Iddio, dicendo: Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA SANTA NOTTE

La notte tenebrosa gravava come una lunga maledizione sul mondo assopito nel sonno. Tutti dormivano: si dormiva a Roma, si dormiva a Gerusalemme, si dormiva a Betlem, dove una moltitudine era accorsa da ogni villaggio per dare il nome al censimento di Cesare Augusto. Solo qualche pastore vegliava nei dintorni, accanto a fuochi morenti, mentre custodiva il gregge. – Ed ecco squarciarsi l’oscurità e sfociare giù dall’alto fiumi di luce e tutto il cielo ardere come una fiamma e sopra i paesi assonnati passare cori invisibili, cantando parole non mai udite sopra la terra: « Gloria a Dio nei cieli più alti; pace agli uomini di buona volontà ». Balzarono attoniti i pastori vigili presso il loro branco di pecore ed una luce li investì. Nella luce videro l’Angelo fulgidissimo del Signore. Si spaventarono; ma l’Angelo disse loro: « Non temete: è una gioia grande per voi e per tutti, che noi portiamo: è nato il Salvatore ». Dunque, il tempo di piangere era finito, la maledizione era passata, la schiavitù del demonio era infranta. – « Gioia grande!» diceva l’Angelo ai pastori prostrati nella luce celeste. « Gioia grande: è nato nella città di Davide Cristo Signore. Vi dò un segno per trovarlo: vedrete un bambino involto in pochi panni, adagiato in una greppia ». Come gli Angeli sparirono, i pastori si guardarono l’un l’altro muti, poi dissero: « Andiamo a Betlem, e vedremo ». Transeamus usque in Betlehem et videamus. Lasciarono le pecore a ruminare sotto la rugiada presso i fuochi ormai spenti,e corsero.Lasciamo ogni altra cura anche noi e corriamo dietro a loro col cuore pienodi fede, col cuore pieno di gioia.Giungono, ansimanti. Et venerunt festinantes. Trovano Maria, trovano Giuseppee, in una greppia, un Bambino. Gioia grande! Dio si è fatto bambino. La divinitàofferta e l’umanità peccatrice si sono abbracciate nel corpicino di Gesù Cristo. Gaudium magnum.Adoriamo anche noi il Bambino e pensiamo:Il padrone del mondo s’è fatto povero, senza casa, senza culla.Il forte, il Dio delle armate, s’è fatto debole e infermo.L’infinito, per il quale son troppo piccoli i cieli, è raccolto in una greppia.Chi ha dato alla terra la virtù di produrre il pane, e alle piante la virtù di produrrefrutti, patisce la fame.Il regolatore delle stagioni e del freddo nasce d’inverno, intirizzito dall’ariarigida.  Quelle piccole mani arrossate dalla gelida notte hanno sollevato nei cieli il sole, la luna e tutte le stelle. Ed è per noi, sapete che Dio s’è reso così; per noi Propter nos egenus factus est, cum esset dives (II Cor., VIII, 9). S’è reso così perché noi gli volessimo bene: è il pensiero di S. Pier Crisologo: « sic nasci voluit qui voluit amari ». S’è reso così perché l’imitatissimo: è il pensiero di Tertulliano: « ut homo divine agere doceretur ».Allora diciamogli, con le lacrime agli occhi: « Bambino Gesù! noi ti ameremo,noi ti imiteremo ».NOI TI AMEREMOElena imperatrice, la madre di Costantino il grande, aveva avuto da Dio labella missione di ritornare al culto dei fedeli i luoghi santificati dalla vita e dallamorte di Nostro Signore.Quando arrivò a Betlem ed entrò nella grotta della santa nascita, emise ungrido d’indignazione. Quel luogo santo era stata profanato: al posto della greppialà dove Cristo aveva vagito per la nostra salvezza s’ergeva la statua infamedi Adone.L’imperatore Adriano, acre nemico di nostra fede, con un gusto diabolico l’avevaeretta là, perché il demonio ridesse dove Cristo aveva pianto.La pia regina, con le lacrime, comandò che abbattessero quel diabolico simulacro;ed ella stessa, con le sue mani, godeva di frantumarlo. Poi vi fè edificareun sontuosissimo tempio, che custodisse quell’umile posto, scelto da Dio per venireal mondo. –  È Natale: Dio nasce nei cuori. E c’è forse qualcuno che nel suo cuore, nelluogo dove Cristo deve nascere tien eretto il simulacro del demonio, il peccato?Alessandro il Macedone per conquistarsi l’animo dei Persiani, ha voluto vestirsicome loro, imitare in tutto quelle barbare costumanze; Dio per conquistare ilnostro cuore, per farsi amare dagli uomini si è fatto uomo in tutto come noi: habitu inventus ut homo; ha voluto patire come noi e più di noi, e noi non gli vogliamobene? Noi daremo il nostro cuore al demonio, ma non a lui?Nessuno sarà così pazzo e crudele da far questo. Come Elena regina frantumiamoil peccato dentro di noi, ed una bella confessione purifichi l’anima nostra,e la nascita di Cristo segni il principio di una nuova vita d’amore, di preghiera,di purezza.« Bambino Gesù! » diciamogli sinceramente « io t’amo ».Se la nostra vita passata ci dicesse che queste parole sono una bugia, perchénon siamo capaci d’amarlo con le opere, diciamogli così: « Bambino Gesù, se nonti amo, desidero però d’amarti assai ». E se anche questo non fosse vero, perché  il nostro cuore è più attaccato alla roba di questo mondo che al Signore, diciamoglialmeno: « Bambino Gesù! mi piacerebbe tanto desiderare d’amarti ».NOI TI IMITEREMO.A Giovanni II, re di Portogallo, annunciarono che stava male un servo, a luitanto caro.Il re si turbò, poi volle egli stesso scendere dal suo palazzo nella casa del servo.Nel varcare la soglia dell’ammalato, chiese, come si suole, dello stato dell’infermo.Gli risposero che il male era gravissimo, ma il peggio era che l’ammalato non silasciava indurre a prendere medicine.Quel mattino stesso i medici gli avevano imposto una medicina amara ma tanto salutare. La prese nelle sue mani, e senza indugio, egli stesso ne bevve parecchi lunghisorsi. Poi, accostandola alla bocca del malato gli disse: «Io il re, sanissimo, ho preso quest’amara bevanda solo per tuo amore, e tu, il servo, ammalato, non prenderai questo poco che resta per amor mio e per tua salute? ».  Il vassallo tese di slancio le mani verso la medicina, e disse: « Datemele: ora la berrei d’un fiato, foss’anche tossico ». Noi siamo servi ammalati: ammalati di superbia perché ci crediamo un gran che e siamo niente; ammalati di collera perché non vogliamo dimenticare e perdonare le offese; ammalati d’avarizia perché non pensiamo che a roba e a danaro; ammalati nella mente, nel cuore di pensieri e di desideri cattivi. È necessaria la medicina amara dell’umiliazione, della povertà, della mortificazione. Il nostro re, il Bambino Gesù, oggi è venuto a trovarci in casa nostra e ce ne dà l’esempio. Egli santissimo Dio, s’è fatto umile nel presepio, povero in una stalla, mortificato dal freddo. E noi non vorremmo portare la nostra croce? Ci lamenteremo ancora della Provvidenza? – Simone Maccabeo, una notte che conduceva l’armata contro i nemici, si trovò la strada tagliata da un torrente gonfio per le piogge recenti. I soldati s’arrestarono, poiché nessuno osava guardare in quel posto. Simone non fece parola, slanciò il cavallo nell’acqua e passò per il primo: transfretavit primus (I Macc., XVI, 6). Tutti allora gli andarono dietro. Ebbene: il nostro capitano Gesù oggi, per il primo, si slancia attraverso il torrente del dolore, della povertà, della mortificazione: a noi non resta che andargli dietro. Bambino Gesù! noi ti imiteremo. Disse l’Angelo ai pastori: « Evangelizo vobis gaudium magnum ». Vi porto una gioia grande. Lungi da noi, dunque, ogni pensiero di tristezza. Che cosa possiamo temere se il Verbo si è fatto carne, se Dio s’è fatto bambino? Quando Dio è con noi, chi può essere contro di noi? Gioia grande! – Il capitano Alfonso d’Albuquerque fu sorpreso da una procella furiosa, in mezzo al mare. La povera nave flagellata dalle onde rabbiose, squassata dal vento, cigolava in ogni connessura quasi volesse sfasciarsi. Le nubi basse e cupe avevano fatto l’oscurità sull’acque; i lampi guizzavano in quella tenebra con un bagliore di sangue. Le donne urlavano; perfino i vecchi marinai piangevano di paura. Il capitano, pazzo dal terrore, strappò dal seno d’una madre un bambino di pochi mesi, salì sulla tolda in alto, e protese verso la rabbia delle nubi quella fragile creaturina: «E se, — diceva — siam tutti peccatori, questo bimbo, o Dio, risparmialo perché è senza peccati ». Subito tacque il vento, si chetò l’acqua, s’aperse il cielo: e attraverso lo squarcio d’una nube discese l’arcobaleno. – Nelle disgrazie della vita, nelle tentazioni, nell’ora della morte e nel giorno del giudizio, quando intorno alla navicella della nostra anima sarà come una fragorosa burrasca, ricordiamoci di questo Bambino che oggi c’è dato, che oggi per noi è nato; innalziamolo a Dio e si farà la pace e la gioia intorno a noi. Tra pochi istanti, quando la Messa sarà all’elevazione, io stesso tra le mie mani prenderò Gesù Bambino ed elevandolo verso il cielo, mi ricorderò delle parole di Alfonso d’Albuquerque: « Se tutti noi siamo peccatori, o Dio, questo Bambino risparmialo perché è senza peccati! ». \\Per la sua innocenza noi tutti saremo salvati.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XCV: 11:13
Læténtur cæli et exsúltet terra ante fáciem Dómini: quóniam venit.

[Si allietino i cieli, ed esulti la terra al cospetto del Signore: poiché Egli è venuto.]

Secreta

Acépta tibi sit, Dómine, quǽsumus, hodiérnæ festivitátis oblátio: ut, tua gratia largiénte, per hæc sacrosáncta commércia, in illíus inveniámur forma, in quo tecum est nostra substántia:

[Ti sia gradita, o Signore, Te ne preghiamo, l’offerta dell’odierna solennità: affinché, aiutati dalla tua grazia, mediante questi sacrosanti scambi, siamo ritrovati conformi a Colui nel quale la nostra sostanza è unita alla Tua:]

Prefatio de Nativitate Domini

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Quia per incarnáti Verbi mystérium nova mentis nostræ óculis lux tuæ claritátis infúlsit: ut, dum visibíliter Deum cognóscimus, per hunc in invisibílium amorem rapiámur. Et ideo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes: Sanctus …

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Poiché mediante il mistero del Verbo incarnato rifulse alla nostra mente un nuovo raggio del tuo splendore, cosí che mentre visibilmente conosciamo Dio, per esso veniamo rapiti all’amore delle cose invisibili. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CIX:3
In splendóribus Sanctórum, ex útero ante lucíferum génui te.

[Nello splendore dei santi, dal mio seno ti ho generato, prima della stella del mattino.]

Postcommunio

Orémus.
Da nobis, quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, qui Nativitátem Dómini nostri Jesu Christi mystériis nos frequentáre gaudémus; dignis conversatiónibus ad ejus mereámur perveníre consórtium:

[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore Dio nostro, che celebrando con giubilo, mediante questi sacri misteri, la nascita del Signore nostro Gesù Cristo, meritiamo con una vita santa di pervenire al suo consorzio:]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (233)

LO SCUDO DELLA FEDE (233)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (5)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

LA MESSA

PARTE I

LA PREPARAZIONE

CAPO III

ART. III.

La Preghiera.

E che cosa è la preghiera? Pregare vuol dire, creati che siamo da Dio, circondati da tutti suoi benefici, con tutti ì nostri bisogni, gettarci in braccio al padre di tutti i beni, e gridargli in seno: « Gran Dio! provvedetecì Voi nella vostra bontà ». Pregare vuol dire, creati che siamo pel paradiso, e caduti in terra in queste miserie, guardare il cielo esclamando: « Signore! non ci possiamo arrivare! » pregare vuol dire con tante colpe sull’anima, sopra l’abisso di una eternità Spaventosa, e lì lì per precipitarvi, mettere un grido atterriti; « buon Dio della. misericorda! Salvateci Voi; o che noi siamo dannati! » pregare vuol dire: con tante piaghe, che ci straziano il cuore, (e tristo chi non le sente; egli sta mal di morte!) gettarsi ai piedi del gran medico delle anime, e gridar con gemiti: « Caro Gesù! pioveteci dalle vostre piaghe sulle piaghe nostre il balsamo del vostro Sangue, o che noi moriamo di mala morte! » – Sì, sì, l’intendiamo! Pregare vuol dire, gettarci ai piedi del Crocefisso, (e guardiamo bene che dai piedi al cuore la distanza è poca cosa: e vogliamo dire che quando ci gettiamo ai piedi di Gesù, Gesù ci accoglie in cuore); e noi possiamo dal seno di Gesù gridar forte: « O Signore della pietà! Il Cuore squarciato di Gesù Cristo vi dice tutti ì nostri bisogni. » In somma tutti i beni vengono da Dio: e noi dobbiamo tutto domandar a Dio e rendergli omaggio di tutto: così la preghiera è il cantico della creazione. Dio creava le stelle, la terra, le piante, gli animali. Erano queste le grandi e belle cose; ma non lo benedicevano: creò noi uomini, che partecipiamo di tutto. Noi siamo di terra colla terra, vegetanti colle piante, animati cogli animali; a capo di tutte queste cose create, se l’universo è come un grande edificio, noi uomini siamo come la statua che lo coroniamo, e dobbiamo le palme levare al cielo: se l’universo è come una piramide, noi uomini siamo come la fiammella in cima, che si slancia verso del Cielo: noi dobbiamo dunque nel visibilio di tutte le cose lodare Dio a nome di tutte, unire i nostri voti ai profumi dei fiori, i nostri cantici ai canti degli augelletti, i nostri gemiti al grido degli animali, accordare le nostre voci all’armonia dell’universo, che è l’inno sublime che tutte le creature intonano al Padre e Signore del tutto. – Noi poi che collocati in cima alle creature del mondo della materia, con quest’anima nostra apparteniamo anche al mondo degli spiriti, candidati del cielo, di qui dalla terra dobbiamo far eco al cantico degl’immortali al paradiso (Illi canentes iungimuralmæ Sionis æmuli. L’inno della Chiesa). Siamo dunque noi l’anello che unisce il Cielo colla terra: e così l’uomo che non prega rompe quest’armonia dell’universo, turba l’ordine della creazione, è un fuor d’opera, ed è come un mostro disordinato. – Gli uomini di tutte le nazioni sparse sull’orbe hanno sempre sentita questa necessità di pregare. Girisi pur la terra, diceva Plutarco storico, filosofo pagano antico, (e lo possiamo ripetere noi moderni, che con tanta facilità facciamo il giro del mondo), girisi pure la terra; ci è dato trovar gente d’ogni colore, nazioni senza codici, senza città, senza case; ma dove troviamo un gruppo di uomini, là troviamo in mezzo di loro un altare; un segno della preghiera. pigliamo scandalo dalla apparente incredulità dei nostri di: non è questo stato normale della società; è come uno stato morboso, di cui è cagione il veleno del razionalismo, che tradotto in pratica, getta le nazioni in uno stato d’orgasmo, nel vortice delle rivoluzioni; e questi che si dan del fiero di non curarsi di Dio, non sono poi il genere umano, no! ne sono la minima porzione. Poiché anche ai dì nostri la donna, il fanciullo, il popolo, ed in certe ore!… fino gli empi solidari; l’umanità insomma lascia cinguettare gl’increduli, ma prega pur sempre! – A farla intendere alla filosofia beffarda, Dio faceva dare la lezione da un fanciullo. Il filosofo Sintennis, quando nel secolo passato la filosofia bugiarda asseriva che il popolo prega Dio, perché il prete ne ha inventata l’idea, pigliò a farne prova un bimbo appena divezzato dal latte. Bisogna dire che quel bimbo non avesse la mamma, perché la mamma anche turca parla col bambino di Dio; la madre, quando bacia il bambino stretto al seno con quel bacio calcato vuol dire: « vita mia, ti voglio tutto il bene per sempre! » lo vuol beato col Sommo Bane! Così il bacio della madre è come il primo sacramento nell’ordine naturale, poiché è un segno sensibile del desiderio di aver il bimbo felice in Dio. Sintennis portò quel bambino in una sua villeggiatura; prese ad educarlo da solo, e guardò ben che non parlasse con altri, né gli cadesse mai sott’occhi il nome di Dio. Il fanciullo veniva su svegliatello, e Sintennis diceva forse in cuor già: « a momenti io presento all’Accademia di Parigi un giovane uomo, che non ha mai sognato che Dio vi sia. » Un bel dì passeggiava il filosofo nel boschetto, quando scorge il giovinetto a scendere giù nel giardino, e gir sulla vetta di un monticello, che s’innalzava sulla riva di un piccolo lago, nel cui quieto cristallo sì specchiava il cielo color di rosa. Era l’ora quando gli augelletti salutano col canto il sule che nasce; era l’ora quando i fiorellini aprono le loro boccucce ridenti di rugiada, e mandano profumi al cielo; ed il sole sorgeva incoronato di raggi nello splendore dell’aurora. Il giovinetto si volge al sole d’oriente: O Sole, esclama, oh quanto sei tu bello! quanto ti ha fatto grande e splendido il Creatore del tutto, a cui obbedisci nella tua carriera! 0 sole, lo vedi, lo conosci tu il creator del tutto? Se tu lo vedi, digli, che vorrei conoscerlo anch’io; digli che gli voglio bene: se tu lo vedi, stampagli sull’eterna fronte a mio nome un bacio. » Così espandendosi quel cuor ingenuo sì baciava la mano, e mandava al sole i baci da dare a Dio…. Sintennis, come da sonno riscosso, corre sul monte, ed abbraccia il giovinetto, e tutto tremante gli dice: « e chi ti ha detto che vi sia il Creatore?… Chi me l’ha detto? risponde il giovine; me l’ha detto questo sole; ché non siete voi che lo gettaste lassù nel cielo; siete troppo piccino!… Chi me l’ha detto? queste erbe; ché non siete voi sotto terra, che col vostro dito le fate spuntare! Chi me l’ha detto? questo cuore me lo dice, che batte; e non siete voi, né io, che lo facciamo battere! » Sì, sì, esclama allor ricreduto Sintennis, la preghiera a Dio è un bisogno del cuore umano. Cade qui una osservazione mortificante pei meschini, che vantansi intrepidi di non aver questo bisogno: ed è quel fanciullo, benché disgraziato di non aver avuto la madre, né il prete che gli parlasse di Dio, fu fortunato almeno di non aver avuto un corrotto, che gli guastasse il cuore: perché quando il cuor è corrotto, n’esce una nebbia fetente, che oscura la mente da non pensar più a Dio! – Se la preghiera è un bisogno per tutti, per noi Cristiani, raccolti sotto l’ali della misericordia di Dio, l’orazione è il grido dei figliuoli al gran Padre della bontà, è il gemito dei nostri cuori sconsolati di averlo offeso, è il sospiro dell’anime innamorate dello Sposo celeste, è uno slancio delle nostre persone al sommo nostro bene, che è Dio. Poi in mezzo a tanti pericoli è l’arma a poterci difendere (S. Ambr. In obitu Valen). Formiamo in terra il regno di Dio, e la città dei Santi? La preghiera è il muro che ci mette al sicuro (Io. Gr. De orand. Deum. L. l). Al Cielo in Dio è il nostro destino? La preghiera è la scala (S. August. Sermon. 22 al frat. eremit.) a poterci elevare, è l’ala a volarvi speditamente (S. Greg. Naz. De Orat. S. Alfons., s. Joan. Gris.). Diremo tutto in breve che per noi pregare vuol dire UNIRCI COL CUORE IN GESU’, E GRIDARE: O PADRE, IL CUORE SQUARCIATO DI GESU’ VI DICE TUTTI I NOSTRI BISOGNI.

La Preghiera in comune.

Per questo da buona madre la Chiesa ci vorrebbe sempre intorno a sé con Gesù a dirgli tutti i nostri bisogni e le tenerezze nostre, e cogli omaggi delle nostre preghiere ad immagine in terra del beato regno dell’eternità. Poiché che cosa fanno i beati in paradiso? Assistono, risponde s. Ambrogio indivisibilmente alla presenza di Dio: e Dio, irraggiandoli coi celesti fulgori dell’esser suo divino, li comprende, gli assorbe, gli accende di carità: ed essi in quell’incendio ardono di prezioso timiama spirituale, adorando, e pregando sempre. E che facciamo noi pure quando preghiamo nella chiesa? Associati all’immortal adunanza di quei beati, e già col cuore cittadini della celeste Gerusalemme, illuminati per la fede della verità, ch’è la luce del cielo, mentre lo Spirito del Signore spira gli inenarrabili gemiti della preghiera in noi; poi con essa, sull’ali del Divino Amore, tra le braccia della madre nel Cuor di Gesù, con confidente abbandono versiamo il cuor nostro nel cuore di Dio. Dunque l’orazione è l’accompagnamento necessario del Sacrifizio, culto accettevole, che santifica le anime, e, poco men che non diciamo, le india. Così elevati in seno a Dio possiamo tutto ottenere; tale è la potenza della preghiera.

La potenza della Preghiera.

Ci assicura Gesù che potremo coll’orazione tutto il bene ottenere. Domandate, e riceverete; cercate, e troverete; battete alla porta, e vi sarà aperta: e in tanti luoghi dell’Evangelio pare che ci dica: « pigliate coraggio, o miei figliuoli, lassù nel Cielo abbiamo il Padre della bontà, ch’è nostro: ed oh se vi ama! Egli è, che mi ha mandato per salvare le vostre persone! e questo quando ancor gli eravate nemici; pensate: che vi potrà mai negare il Padre di tutti i beni ora che gli siete figli? Io son qui, non vi abbandono, prego Io con voi, faccio con voi causa comune. È da piangere di consolazione nel sentire come l’ha studiata bene nel suo amore per confortarci a tutto aspettare dal Padre celeste. Ecché? dice Gesù; se venisse pur in sulla mezzanotte alcuno a bussare, e sotto la finestra gridasse: amico! mi giunge or ora da lunga via un amico: ed io non ho un pane da mettergli innanzi; deh imprestamene qualcheduno da apporgli! Voi gli direste: ma la mala creanza di disturbarmi a quest’ora! Vedi: io, i figli, i servi, siam già coricati….. Ma egli batte ancora alla porta: amico, non negarmi un po’ di pane per carità! Se non fosse per altro, almen per togliervi quell’importuno, voi vi levereste da letto, e non pur del poco pane, ma lo vorreste fornir di tutto. E voi non siete poi tanto buoni! Pensate, che non vorrà fare il Padre nostro divino! » Ah! Stiamo alla parola di Gesù; che Gesù sel conosce bene il Padre suo. Tra Padre e Figlio se l’intendono divinamente, e dispongono salvarci, se noi vogliamo pregare. Egli è Dio, che ha dato alla preghiera tale potenza, fino sopra di noi, che siamo cattivi (S, Luc. XI), da non resistere contro i più deboli. Difatti pensiamo, se un povero insettuccio per terra, nell’atto che poi stiamo per schiacciarlo col piede, ci potesse pregare, è dirci: abbiate compassione di me, per carità, lasciatemi la vita, è questo tutto il mio bene… vivere qualche giorno qui…, poiché io non aspetto altra vita; mettete il piede da un’altra parte; a voi non vien alcun vantaggio dallo schiacciarmi: e chi di noi non risparmierebbe l’insetto? Ebbene, noi siamo come poveri insettucci nella polvere innanzi a Dio, e se grideremo, piangeremo pregando sempre, noi faremo sforzo al suo cuore paterno. – Non ci resta adunque, che pigliarci sul cuore Gesù e star sempre con Gesù sulle braccia. Quando una poverina di madre, nella miseria di ogni cosa, vede il bambino, che le muore di fame; ella piglia il bambino delle viscere sue, e se lo reca alla porta del ricco, che conosce di cuor buono, e sta fuori in una brezza fredda, che le taglia la vita, il bambino le piange sul petto. L’uom del buon cuore sente un bambino che piange alla porta, apre subito l’uscio, e vede il meschinello, che si consuma: le braccioline che cadono giù, gli occhietti annebbiati, quelle povere ossicine in quei cenci; non pure egli di buon cuore: ma qualunque avesse un boccone di pane, se lo torrebbe di bocca per darlo al meschinello. Pensiamo adesso che non vuol fare con noi il buon Dio, quando sente noi, o meglio il Figliuol suo tra le braccia di noi, gemere in basso in questa povera terra tra le fasce o le miserie della nostra umanità, e battere alla porta, o meglio battere colla sua parola al suo cuore paterno! Oh Padre, oh Padre! il Figliuolo gli grida di fuori…. Oh se la conosce il Padre la voce! è il gemito della parola, che gli è uscita dal seno eterno!…. Sì, v’ha da ascoltare, vorremmo dire, per forza! – Non ci resta adunque altro che pigliar sul cuore nostro Gesù qui nel Sacramento sulla porta del cielo, e mostrarlo Bambino, che vagisce tra le fasce, che sono le angustie della povera umanità; o presentarlo tutto bagnato di sangue con affannoso lamento in passione con le sue piaghe e le nostre miserie; o colle braccia elevate additarlo in Cielo e in gloria col cuor, che palpita qui sul nostro cuore! Grande Iddio! noi vogliamo giurare che possiamo con Gesù tutto ottenere. Comprendiamo adesso un mistero! Quando Gesù tutto bagnato di sudore di sangue, col tremito dell’agonia, tirossi gli Apostoli appresso, stampava loro sul cuore sopra morte, diremmo, il suo avviso più caro, diceva: « pregate, pregate sempre, » e subito allora si avviava a morire: voleva dire, che andava sulla Croce a tutto ottenerci! – Bene dunque mentre il Sacerdote si accinge a rinnovare il sacrifizio di Gesù Cristo, rapito nel pensiero della bontà di Dio, in mezzo all’altare, in sulle prime non sa far altro che esclamare: « Kyrie! Kyrie! Signore! Signore!… » ed assorto nel Signore della misericordia, sentendo il peso delle umane miserie, grida subito: « abbiate pietà, eleison! eleison! » – Poi tutto giubilo per l’ottenuta pietà: « Gloria in excelsis, gloria a Dio, esclama, negli altissimi Cieli. » Quindi pare che dal seno di Dio corra in seno al popolo a comunicargli le sue grazie, esclamando: « Dominus vobiscum.- » Poi ancora abbracciato col popolo, o meglio coi figliuoli suoi e figliuoli di Dio, grida: « preghiamo confidenti insieme con Gesù: Oremus…. per Dominum nostrum Jesum Christum. » I quali devotissimi slanci del cuore della Chiesa noi ci faremo ad esporre.

Kyrie eleison.

Il Sacerdote, quando tutti sono all’ordine, portando sempre sul cuore il peso de’ peccati propri e di quelli del popolo, venuto in mezzo all’altare, colle mani giunte innanzi al Crocefisso, par che voglia dire: figliuoli, ecco l’opera dei nostri peccati; il Figliuol di Dio ha dovuto morire per salvarci!!! Grande Iddio, poi esclama, abbiate pietà di noi: Kyrie eleison: » Gesù Cristo tocca a voi coprire colle vostre piaghe le nostre miserie e guarire le nostre infermità! Christe eleison. » Il popolo risponde: Signore, pietà e misericordia! Le parole Kyrie eleison sono voci greche. La Chiesa conserva (Ben. XIV, lib. 2, cap. 4, n. 7 De sac. Miss.) ne’ suoi riti alcune parole ebraiche, Amen, Alleluia, ecc. ed alcune greche, come questa Kyrie eleison; e questa pratica significa, che è sempre una e la medesima Chiesa quella, che fu radunata prima dai Giudei, dai Greci e dai Latini, finalmente da tutti i popoli della grande umana famiglia. Si cantano queste preghiere nove volte da questo coro terrestre, per corrispondere in qualche modo ai nove ordini o cori degli Angeli in Paradiso. Si grida in esse tre volte al Padre, tre volte al Figlio, tre volte allo Spirito Santo per confessare l’augusto mistero delle tre Persone divine in un solo Dio. S. Tommaso (In 3, p. q. 85, a. 4) osserva, che, invochiamo le Persone della SS. Trinità tre volte per ogni Persona, per indicare, che una Persona è colle due altre indivisibile: e per invocare un rimedio alla triplice nostra miseria, la miseria della ignoranza, la miseria della colpa, e la miseria della pena; tre volte al Padre, adorando nel divin Padre il Figliuolo, e lo Spirito Santo; tre volte al Figlio, adorando nel Figliuolo il Padre e lo Spirito Santo; tre volte allo Spirito Santo, adorando nello Spirito Santo il Padre ed il Figliuolo. Così mentre il Cristiano s’innalza a contemplare colla fede nell’augusto Mistero ì segreti della vita interiore di Dio, e beve, dirò così, un saggio della Divinità, mentre porta seco in quell’altezza di contemplazione l’immagine di Dio stesso nell’anima sua, e la mostra colle piaghe, che noi le abbiamo fatto, grida confidente: Kyrie, Kyrie eleison. » Grande Iddio, abbiate pietà! « ristorate questa povera immagine vostra, figlia del tro amore. » Notiamo ancora, che, invocando il Padre, ed invocando lo Spirito santo, li chiamiamo Kyrie cioè Signore. Ma parlando col Figlio lasciamo questo sublime titolo, e lo chiamiamo nostro Re e nostro Pontefice. Quasi si dicesse, secondo l’osservazione di S. Tommaso: » con Voi, o divin Figliuolo, parleremo con maggior confidenza, perché in seno alla vostra divinità noi scorgiamo qualche cosa del nostro. Voi siete, è vero, grande, Consostanziale Verbo divino: ma siete pur nostro fratello, e Sopra di Voi, che siete nostro, noi appoggiamo tutte le nostre speranze; ah! vedete in questa povera umana natura consorella della vostra in paradiso, quante miserie! Deh! finché non ci ristoriate col vostro sangue, noi grideremo sempre: pietà, o Signore, Kyrie, Christe, eleison. – Ora che conosciamo il perché si replichi tante volte questa preghiera, anche noi prostrati a piedi della Croce intorno al Sacerdote dobbiamo, a sfogo di compunzione del cuore, gemere in unione di spirito con quegli antichi padri nostri, da cui abbiamo questo tenerissimo rito ereditato, i quali prolungavano (Marteny De aut. Voelles rit. lib. 1, cap. 4, a. 3) questo grido di pietà, finché il sacerdote non lo faceva cessare. – A quei tempi, quando il Sacerdote cominciava sull’altare ad esclamare: « Kyrie eleison, Signore pietà; » a quel grido da una parte del coro si rispondeva gemendo: « Ah! sì, o Signore, pietà, » dall’altra si ripeteva, misericordia, o Signore! » Quei buoni dovevano l’un l’altro guardarsi a quel lamento, che faceva sentire più vive a ciascuno le proprie e le comuni necessità; e, tocchi tutti i più vivamente, gridavano ancor più forte: « Misericordia, o Signore, misericordia! » – A noi par di assistere alla Messa ancor nei sotterranei delle catacombe con quei cari fratelli destinati alla morte; quando il fondo della grotta, in cui mettevano cento viottoli della città dei morti per Dio, il Sacerdote dai piè della Croce metteva il gemito: « Kyrie eleison, gran Dio, misericordia! » e i fedeli più vicini s’udivano ripetere gemendo: « misericordia » e gli altri più discosti dispersi in quegli antri gridare anch’essi: « Signore! misericordia, misericordia! » In tutti quegli anditi e buchi, diffondendosi in quel labirinto di mille sepolcri, tra quei morti e vivi santi, quel gemito pareva andasse morendo e confondersi nell’abisso dell’eternità. Più che pregare era un gemere di tutti, che si volgeva in acute strida d’inconsolabile dolore di quei compunti, che contemplavano sulla croce l’opera dei loro peccati! –  Ecco il perché nel sacro rito ancor oggi, quando si canta il Kyrie dall’una e dall’altra parte del coro si ripete Kyrie; quasi con una coral gara di farsi sentire di più; ed ecco il perché ancor adesso, cantandosi l’ultimo Kyrie, s’alza più forte la voce; ed il canto allora volge allo strido, per significare quel gemito universale cresciuto fuor di misura, in che si sfogava quel popolo santo compenetrato dalle cattoliche verità, che dinnanzi alla Croce colle proprie colpe ricordava la meraviglia della bontà di Dio. Erano le strida di poveri figli, che colla coscienza dei meritati castighi, abbracciati alla croce, mostravano sopra di essa chi per loro pagò! – Anche noi gridiamo: « Kyrie, Padre Santo, misericordia; Voi, che ci avete dato il Figliuol vostro per salvatore; Christe, misericordia, Voi, Gesù Cristo, Figliuol di Dio fatto uomo, che siete morto in croce per noi: Kyrie, Spirito Santo, misericordia, Voi, che operaste il mistero dall’Amore divino, coronate l’opera della misericordia vostra; » e, benché lontani dal fervore dei santi, allarghiamo il cuore a tutto sperare da Dio con noi. Gridiamo, gridiamo arditamente fino all’importunità; e possiamo dirgli: « Signore, anche il povero cieco (S. Luc. XVIII) gridava forte, quando Voi passavate a lui davanti, il perché la gente della turba lo garriva di quel suo noioso strillare; ma ei gridava più forte, seduto là sulla terra: e Voi a quelle grida importune rispondeste col dargli la vista. » Abbiamo inteso: noi non cesseremo di gridare, finché non ci abbiate esauditi: noi ci rammentiamo pur anche di quella, che la gente del mondo avrebbe detto imprudente Cananea (S. Matt. XV, 22), che gettatasi in ginocchio, vi tendeva le mani: e, « Signore esclamava, mi dovete guarir la figliuola: » e Voi faceste mostra di ributtare la preghiera, tirando innanzi, quasi negaste far grazia. Ma si! ella vi tenne dietro con insistenza a tutte prove. « Me la dovete guarire, gridava forte, me la dovete guarire! » Voi foste allora dal vostro cuore obbligato ad esaudirla. La Chiesa ha imparato da lei; prega; scongiura; piange nel Kyrie, ed in mezzo a questi accenti di compunzione, tra le grida ed il pianto universale il Sacerdote nell’altare accenna al Crocefisso; e par che dica: « Su via, calmatevi, pigliate cuore, vedete qui il Figliuol di Dio in croce colle braccia larghe per voi! E che poteva fare di più per mostrarci che ci vuole salvi? » Qui con un confidente abbandono allarga le braccia, stende le mani, come se volesse accogliere l’abbondanza della misericordia di Dio, per la quale guadagniamo di più, che non abbiamo per la colpa perduto. Anzi fra i trasporti della vivissima gratitudine, dai gemiti del dolore pare, che trapassi in tale eccesso di giubilo, che giunga sino ad esclamare con la Chiesa (Vedi la benedizione del Cereo Pasq. nel Sabbato Santo): « Oh fortunate anche le colpe nostre, che tale si meritarono e così gran Redentore! » – Nel bisogno di esilarare lo spirito esterrefatto, che vorrebbe, e non sa dire, perché non trova parola umana per ringraziare il Signore, egli prende in prestito il cantico degli angioli, ed esclama con essi: « Gloria a Dio nell’eccelso de’ Cieli. »

Gloria in excelsis Deo.

Noi su cantiamo redenti appiè della Croce questo inno, che gli Angeli cantarono nella notte più avventurata per questa povera terra, nella stalletta di Betlemme intorno al Bambino Gesù appena nato: e che i fedeli solleva, e rincora colla speranza del paradiso. « Gloria » (dicevano essi; e con essi ripete il Sacerdote, alzando gli occhi, le mani e il cuore), « Gloria a Dio nel più alto de’ Cieli, e pace in terra agli uomini di buon volere. Noi vi lodiamo e benediciamo, noi vi adoriamo, e vi rendiamo gloria, o Signore, ecc. ecc. » Questi sono accenti, che scoppiano interrotti da troppo gran piena di affetti. – Somigliante ai profeti d’Israello il Sacerdote rapito in santo entusiasmo d’amore, compreso da un fuoco divino consuma gli spazi del tempo, vola dell’animo dall’altare al presepio, dal presepio al cielo, e tra il cielo e la terra elevato, intuona « Gloria » cogli Angeli in cielo, a cui fan eco gli uomini in terra; e canta insieme sì veramente il cantico nuovo! Ben il profeta Ezecchiello udì esterrefatto in paradiso le legioni degli Angeli, che cantavano: « Gloria a Dio, all’Eterno, al Santissimo, al Signore degli eserciti; » ma quando essi videro l’Eterno Iddio fatto Bambino, in quella greppia, in sulla paglia, e lo adoravano; allora tremanti di tenerezza si dovettero abbracciare fra loro quei beati, ed accennandolo lì in basso, nato per noi, all’immortal cantico della gloria di Dio in cielo dovettero aggiungere l’inno di pace agli uomini sulla terra. Scendevano in fatto gli Angeli a cantare « pace in terra agli uomini di buona volontà! » –  Prosegue poi il cantico, che noi qui cerchiamo di spiegare. Continua adunque: « Ah! Signore, rendiam grazie a Voi per la vostra gloria ecc. ecc. » Voi grande Iddio, Signor dell’universo, re dei Cieli! Ah! Voi, Dio onnipotente, Voi ci siete Padre? Santa Fede! Vi abbiamo conosciuto per tale dall’ora, che ci vedemmo innanzi il vostro Figlio, fattosi per noi nostro fratello. Vi rendiamo grazie adunque per la grande gloria, che per noi sì volge in infinita misericordia (Ben. XIV. De sac. Miss. lib. 2, cap. IV, n. 17). « Ah! Divin Figliuolo unigenito, Gesù Cristo, Signore nostro, Agnello di Dio, Figliuolo del Padre, che togliete i peccati degli uomini, abbiate di noi pietà. Voi che togliete i peccati del mondo accogliete le nostre suppliche ecc. ecc. » Voi ci avete comprati col vostro Sangue, o grande Iddio, che state qui sulla Croce agnello sacrificato innanzi al Padre vostro. Ora intendiamo che avremo pace col Cielo, poiché abbiamo di che pagare i debiti nostri col sacrifizio vostro. Compite adunque l’opera della vostra misericordia, togliete i peccati del mondo. –  « Voi che sedete alla destra del Padre, abbiate di noi pietà ecc. ecc. » Verbo eterno, alla destra del Padre con Voi avete pure sollevato in seno al Padre la vostra umanità, avete portato in Voi quelle piaghe, che gridano per noi pietà! Aprite le viscere della vostra misericordia divina con noi che tutto osiamo aspettarci da Voi, c il solo Santo, il solo Padrone di tutto, il solo Altissimo Gesù Cristo, col Santo Spirito nella gloria Dio Padre. Amen. È così, o Signore, e noi siamo già di tutto lo speranze in voi confortati. – Ma la Chiesa ha i suoi giorni di rammarico, e di dolore, che ella consacra a piangere sugli infelici, che, abbandonato Dio, fonte solo di vera felicità, si dànno in braccio al peccato, e trovano la miseria, e poi la disperazione e la morte eterna. Povera madre! invano per alcuni de’ suoi figliuoli ancora sospira la pace annunciata dagli Angiolì; invano la prega per tutti gli uomini, perché non tutti sono di buona volontà! I peccati, adunque tolgono quel beato accordo tra il cielo e la terra che Gesù ristabiliva col suo nascere al mondo, e fanno della terra un luogo d’esilio e di maledizione. Allorché gli Israeliti prigionieri in Babilonia, stanchi delle schiave fatiche, sedevano desolati la sera sulle rive dell’Eufrate, e cogli occhi al cielo contemplavano muti la luna, e la invidiavano, ché di là ella almeno potesse riflettere un mesto raggio sulle rovine della cara Gerusalemme; quando i loro padroni andavano ad essi dicendo: « Su via rallegrateci con uno di quei cantici di Sion, che voi dovete cantare così bene: fateci sentire i belli inni delle vostre solennità; » essi accorati di cupa tristezza in quella misera schiavitù, mentre invece del canto usciva loro di gola un angoscioso sospiro, chinando lo sguardo sulla terra straniera, la bagnavan di lacrime! (Canon. Hi duc. de consecrat. Dist. 1). Così pure la Chiesa in queI giorni, in cui ella piange in modo particolare i peccati degli uomini, nega ai suoi figli di cantare in giocondità l’inno degli Angioli, per far intendere che mal s’addice alla terra, finché è insozzata di peccati, il cantico del paradiso. Per questa ragione non si canta il Gloria dalla domenica di Settuagesima fino alla Pasqua, e nel tempo dell’Avvento, (tranne nelle feste particolari, che corrono in questi tempi); come pure non si canta nella Messa pei defunti, perché ancora non hanno pace quelle anime benedette, e sospirano nell’esilio la gloria, che le aspetta. – Crediamo bene anche di avvertire che il Gloria in excelsis si cantava dai catecumeni, perché intendesserola grande loro ventura di rinascere figliuolidi Dio con Gesù Cristo nel santo Battesimo.Essi uscivano dal Battesimo vestiti di bianco, coigigli sulla fronte, colla candela accesa in mano,e cantavano la gloria di Dio e la consolazione diessere rinati a vita eterna. Pigliamo animo noi,e col Sacerdote innalziamo gli occhi al cielo, confortandocicol pensiero che là abbiamo un Padrein Dio, che ci ama come figliuoli, un Redentoreche ci salva, uno Spirito santificatore, amor sostanzialedel Padre e del Figlio, che ci vuole beatiin seno a Dio. E coll’anima così elevata « è là,diciamo, la patria nostra! » Apriamo i nostri cuoridavanti al Padre delle misericordie, acciocché Eglici piova di cielo lacrime di contrizione; diamocitutti in mano al Signore nostro, offrendo la vitanostra temporale tutta sacra a sua gloria per l’acquistodell’eterna. Oh sì, dai pié della croce, mostrandoGesù quasi agnello sacrificato sopra di essa,possiamo bene guardare lassù, pieni di speranzadel paradiso! Sarà questa la disposizione più conveniente,con cui da questa terra sì bassa potremocantare l’inno cogli Angioli in cielo. – Nelle Messe dei sabati avanti le domeniche diPasqua e di Pentecoste si amministravasolennemente il Battesimo, uscendo dal sacro fonte i novelli rigenerati, intonavano il cantico « Gloria. » Allora suonavansi le campane a giubilo, come ancora adesso si pratica per festeggiare la loro mistica risurrezione dalla morte alla vita eterna; anche per proclamare la gloria del trionfatore della morte, e la discesa dello Spirito Santo, che infuse la vita alla Chiesa novella.

DISCORSO SUL SEGRETO DELLA FRANCO-MASSONERIA (1)

DISCORSO SUL SEGRETO DELLA FRANCO MASSONERIA (1)

DI MONSIGNOR AMAND JOSEPH FAVA

VESCOVO DI GRENOBLE
 

LIBRERIA OUDIN, EDITORE

PARIS, 51 RUE BONAPARTE, 51- POITIERS 4, RUE DE L’ ÉPERON

-1882-

DISCORSO SUL SEGRETO DELLA MASSONERIA

In tutto il mondo esiste una società che è chiamata Massoneria. È stato possibile discutere la sua origine e il fine che si propone, ma non è possibile negarne l’esistenza, poiché questa società si mostra a tutti gli occhi, parla, agisce e si afferma essa stessa tra i vari popoli della terra. Si chiama società segreta perché i suoi membri si riuniscono in segreto in locali chiamati logge, il cui ingresso è vietato ai profani, cioè a coloro che non sono massoni. Le loro risoluzioni devono rimanere sconosciute al pubblico, la legge del silenzio è imposta a ciascun membro, sotto il più terribile giuramento e le più gravi sanzioni, compresa la morte, secondo la gravità del caso: guai al massone che dimentica il suo dovere! Nulla può salvarlo dalla punizione della sua colpa. Tuttavia, se la Massoneria è una società segreta, non è sconosciuta. Un uomo può nascondere i suoi pensieri, vivere in solitudine e nascondere il segreto della sua vita intima, senza però rimanere sconosciuto ai suoi simili, se vive in mezzo a loro. – Allo stesso modo, la Massoneria può voler nascondere alla nostra conoscenza le sue riunioni, le sue decisioni, la sua azione e il suo scopo: sappiamo della sua esistenza; occhi attenti la seguono lungo i suoi percorsi, per quanto oscuri possano essere, e le sue azioni rivelano il fine che si propone, come i frutti rivelano l’albero. Ecco perché ci si deve stupire nel vedere certi autori affermare che l’origine della Massoneria si perda nella notte dei tempi. Ovviamente, quando questa società ha cominciato ad esistere, è stata vista e la storia, attenta a registrare fatti di questa natura, si è preoccupata di parlarne. Un singolo uomo, che vive tra i suoi simili, non può passare inosservato: come potrebbe allora un’intera associazione sfuggire agli occhi e alla curiosità del mondo? Desiderosi di vederci chiaro, abbiamo interrogato i secoli passati. Durante il percorso, ci siamo imbattuti in molte società di muratori. Ce n’erano alla Torre di Babele, alle Piramidi, al Tempio di Salomone, al Secondo Tempio e altrove. Ne abbiamo trovati anche al soldo di Giuliano l’Apostata, che voleva ricostruire il tempio di Gerusalemme per dare una smentita alla parola di Gesù Cristo, che aveva annunciato la rovina assoluta di questo edificio. In seguito, si presentarono gli architetti ed i muratori, conosciuti come Lodgers of the Good Lord; essi erano ancora dei lavoratori edili. È stato affermato che i Cavalieri Templari hanno dato origine alla Massoneria; ciò che è certo è che l’Ordine dei Cavalieri Templari fu abolito nel 1312 e che tutti i suoi membri si dispersero ben presto… La storia non ci mostra alcuna associazione formata dalle loro macerie, e passarono diversi secoli, dopo la loro esecuzione o la loro fuga, senza che la Massoneria apparisse. Il primo documento storico che ne parla, senza avere alcun legame con il suddetto Ordine, è noto con il titolo di: Carta di Colonia, 1535. Leggendo questo documento, il cui originale si trova negli archivi della Casa Madre di Amsterdam, con diciannove firme in calce, che non hanno impedito agli storici di metterne ripetutamente in dubbio l’autenticità, si capisce, a prima vista, che è opera di massoni, che hanno dogmatizzato e costruito allo stesso tempo. Diciamo che questa società ha lanciato nel mondo europeo l’idea della Massoneria, con i suoi tre gradi fondamentali, apprendista, compagno e maestro; poi due gradi superiori e un capo supremo a cui tutti obbediscono. Secondo questa Carta, l’associazione risale al XV secolo, perché in uno dei suoi “considerando” si legge: « Nulla ci indica che la nostra associazione fosse conosciuta prima del 1440 dopo la nascita di Cristo, sotto un’altra denominazione rispetto a quella dei F.F. di Giovanni; è allora, secondo quanto ci è parso, che ha cominciato a prendere il nome di confraternita dei Massoni, soprattutto a Valenciennes, nelle Fiandre, perché a quell’epoca si cominciava con le cure ed i soccorsi dei F. :. Mass. :. di quest’ordine di costruttori, in alcune zone dell’Hainaut, degli ospizi per curare i poveri che allora erano affetti dall’infiammazione artrosica chiamata: malattia di Sant’Antonio ». Inoltre, questa stessa Carta dimostra che l’associazione di cui parla non è quella di oggi. Infatti, quest’ultima ha come carattere speciale l’odio per Gesù Cristo, mentre l’altra ammetteva come membri solo i Cristiani; ne è testimonianza il seguente “considerando”: « Sebbene nel concedere i nostri benefici non dovremmo in alcun modo preoccuparci della Religione o della Patria, tuttavia ci è sembrato necessario e prudente ricevere nel nostro ordine solo coloro che, nel mondo profano o non illuminato, professino la Religione cristiana ». Così, la Carta di Colonia, autentica o meno, scritta per amore della causa o secondo verità, non ci mostra ancora la Massoneria come la conosciamo. A partire dal 1545 la questione si fa più chiara e sono numerosi i documenti storici che stabiliscono definitivamente la culla della Massoneria a Vicenza, vicino a Venezia, in Italia. – In questo discorso, rivolto ai nostri lettori e diviso in due parti, dimostreremo: 1° che il segreto della Massoneria, fondata da Fausto Socino, consiste nel progetto concepito a Vicenza, e successivamente sviluppato, di distruggere il Cristianesimo e sostituirlo con il razionalismo. Dopo aver illustrato il fondatore della setta massonica o sociniana, parleremo di Cromwell, il quale la accolse e la naturalizzò in Inghilterra; Ashmole, che le diede il suo intelligente e potente sostegno in quel Paese; e Voltaire, che la rese così potente in Francia, di concerto con i filosofi suoi ammiratori e suoi schiavi. In Germania, studieremo Adam Weishaupt, fondatore dell’Illuminismo tedesco, un settario senza pari ed il più profondo di tutti i cospiratori, come dice M. Louis Blanc. Seguiremo poi la Massoneria in Italia, dove nacque e morì il famoso Cagliostro, autore del Rito di Misraïm, o Rito Egiziano, personaggio singolare e mago di alta scuola, che affascinò tutta l’Europa. Da lì andremo in Spagna, Portogallo, Napoli, dove i D’Aranda, i Pombal, i Tannucci, uniti a Choiseul, eseguirono sulla Compagnia di Gesù i crudeli decreti delle logge massoniche, e ovunque vedremo che il segreto della Massoneria consiste nel progetto di rovinare assolutamente il Regno di Gesù Cristo sulla terra, di distruggere il Cristianesimo fino alle sue radici, per mettere al suo posto il razionalismo, che trionferà, un giorno, in Francia, sotto il nome di: Dea ragione. – Questo trionfo lo vedremo nella grande Rivoluzione francese, preparata per cinquant’anni da Voltaire e dai suoi amici, che accesero un fuoco in Europa la cui fiamma si diffuse in tutto il mondo. Dopo la caduta di Napoleone I, abbandonato e tradito dalle logge che si erano servite di lui per far progredire più rapidamente e più sicuramente la loro opera, seguiremo la Massoneria in Francia sotto Luigi Filippo, la Repubblica del 1848 e l’Impero. Ovunque la troveremo con il suo carattere anticristiano, in patria e all’estero. Se potessimo dubitarne, c’è la parola dei Romani Pontefici, Pio IX e Leone XIII, con un’autorità sempre rispettata dai Cattolici, ma purtroppo poco compresa e non sufficientemente obbedita. Questa sarà, in sintesi, la prima parte di questo piccolo lavoro. – Nella seconda parte:

1. mostreremo che il progetto di distruggere il Cristianesimo non è nuovo, che è stato concepito molto tempo fa, subito dopo la nascita di Gesù Cristo. Dopo aver descritto brevemente i tentativi fatti per raggiungere questo obiettivo, parleremo dell’epidemia di paganesimo che attraversò l’Europa nel XII secolo, penetrò profondamente nella società cristiana nei secoli successivi, ispirò Socino, fondatore dell’eresia massonica, con le quale essa si è perpetuata fino ai nostri giorni.

2. Mostreremo la sorte riservata a questo errore;

3. Dimostreremo che il progetto della Massoneria è ostile alla libertà religiosa, impropriamente chiamato libertà di coscienza;

4. Dimostreremo che il progetto della Massoneria è ostile ai buoni costumi;

5° è antisociale;

6° è antifrancese;

7° infine, è antiumanitario e insensato.

Aggiungeremo a questo studio alcune conclusioni in cui indicheremo i nostri timori, le nostre speranze ed alcune risoluzioni da prendere. Questo lavoro non è stato fatto in odio ai massoni, fratelli fuorviati che Dio ci comanda di amare e che noi amiamo, ma per amore della verità e per avversione all’errore:

Chi ama Dio, dice la Scrittura, deve odiare il male.

Abbiamo già parlato più volte della Franco-Massoneria. In questo volumetto, abbiamo cercato di riassumere la questione, aggiungendo nuovi approfondimenti, in modo da mettere nelle mani di tutti coloro che sanno leggere, una sintesi dottrinale della Massoneria, così poco conosciuta, anche dai suoi seguaci, scriveva lo stesso illustre massone Ragon. Che Dio benedica queste rapide pagine e che i lettori le accoglieranno benevolmente!

PRIMA PARTE

IL SEGRETO DELLA FRANCO-MASSONNERIA CONSISTE NEL DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO E SOSTITUIRLO CON IL RAZIONALISMO.

Lelio Socino, zio di Fausto ed ispiratore della setta massonica.

Fausto Socino fondatore della Franco-Massoneria.

FAUSTO Socino nacque a Siena nel 1539. Apparteneva alla famiglia dei Sozzini – Socini – che ha dato i natali ai più grandi eresiarchi d’Italia. Come molti dei suoi parenti, Fausto Socino fu ammaestrato in tenera età dalle lettere dello zio, Lelio Socino, autore della setta sociniana o, se si vuole, restauratore della setta ariana. Per evitare la persecuzione dell’lnquisizione, egli si ritirò in Francia: un’ulteriore prova che è a questo tribunale che l’Italia e la Spagna devono la tranquillità di cui hanno goduto, mentre lo stato politico e religioso del resto d’Europa era scosso dalle nuove sette. « Quando era a Lione, a soli vent’anni, venne a sapere della morte dello zio e andò a ritirare le sue carte a Zurigo. » Cosa contenevano questi documenti? Feller ci dice nell’articolo che dedica a Socino Lélio nel suo Dictionnaire historique: « Questi assistette ad una conferenza tenuta a Vicenza nel 1547, nella quale fu decisa la distruzione del Cristianesimo; egli concentrò i suoi sforzi nel rinnovare l’arianesimo e nel minare la Religione alle sue fondamenta, attaccando la Trinità e l’Incarnazione. » – Lo stesso autore, parlando di Ochin, che aveva anch’egli partecipato alla suddetta conferenza, si esprime nei seguenti termini: In questa assemblea di Vicenza, si è concordato il mezzo per distruggere la Religione di Gesù Cristo, formando una società che, con il suo progressivo successo, ha portato, nel secolo XVIII, ad un’apostasia quasi generale. Quando la Repubblica di Venezia, fu informata di questa congiura, fece sequestrare Giulio Trevisan e Francesco di Rugo, che furono eliminati, Ochin salpò con gli altri: la società così dispersa divenne solo più pericolosa, ed è quella che si conosce oggi con il nome di Franco-Massoneria ». Vedi “Le Voile levé“, ecc. (Edizione del 1821-Lione). L’autore di quest’opera è l’abbate Lefranc, caduto sotto la scure degli assassini a Parigi il 2 settembre 1792. Ecco cosa dice nell’opera citata, “Il velo scoperto per i curiosi, o storia della Franco-Massoneria dalle origini fino ai nostri giorni”: “Vicenza fu la culla della Massoneria creata nel 1546. È in questa società di atei e deisti, che si erano riuniti per discutere di questioni della Religione e che dividevano la Germania in un gran numero di sette e di partiti, ove furono gettate le basi della Massoneria; è in questa famosa accademia che le difficoltà che riguardavano i misteri della Religione cristiana furono considerate come punti di dottrina che appartenevano alla filosofia dei Greci e non alla fede.  « Queste decisioni giunsero all’attenzione della Repubblica di Venezia e ben presto gli autori vennero perseguiti con la massima severità. Giulio Trevisan e Francesco di Rugo furono arrestati e le loro azioni furono messe a tacere. Bernardin, Ochin, Lelio Socino, Peruta, Gentilis, Jacques Ghiari, François Lenoir, Dario Socino, Alicas e l’abate Léonard si dispersero ovunque fosse loro possibile; e questa dispersione fu una delle cause che contribuì alla diffusione della loro dottrina in varie parti d’Europa. Lelio Socino, dopo essersi fatto un nome famoso tra i principali capi degli eretici che stavano mettendo a ferro e fuoco la Germania, morì a Zurigo, con la fama di aver attaccato con forza la verità del mistero della Santa Trinità, quella dell’Incarnazione, l’esistenza del peccato originale e la necessità della grazia di Gesù Cristo.  « Lelio Socino – ripetiamo – lasciò in Fausto Socino, suo nipote, un abile difensore delle sue opinioni; ed è ai suoi talenti, alla sua scienza, alla sua instancabile attività ed alla protezione dei principi che seppe portare dalla sua parte, che la Massoneria deve la sua origine, i suoi primi stabilimenti e l’insieme dei principii che sono alla base della sua dottrina. « Fausto Socino trovò molte opposizioni da superare onde far adottare la sua dottrina tra i settari della Germania; ma il suo carattere flessibile, la sua eloquenza, le sue risorse, e soprattutto l’obiettivo che manifestava di dichiarare guerra alla Chiesa Romana e distruggerla, gli attirarono molti sostenitori. Il suo successo fu così rapido che, sebbene Lutero e Calvino avessero attaccato la Chiesa Romana con la violenza più oltraggiosa, Socino li superò di gran lunga. L’epitaffio sulla sua tomba a Luclavic recita così: Tota licet Babylon destruxit tecta Lutherus, muros Calvinus, sed fundamenta Socinus. Il che significa che, se Lutero aveva distrutto il tetto della Chiesa Cattolica, chiamata Babilonia, se Calvino ne aveva rovinato le mura, Socino poteva vantarsi di averla abbattuta sino alle fondamenta. – Le prodezze di questi settari contro la Chiesa Romana erano rappresentate in caricature tanto indecenti piuttosto che gloriose per ciascun partito; va infatti notato che la Germania era piena di stampe di ogni tipo, in cui ciascun partito rivendicava la gloria di aver fatto più danni alla Chiesa.  – Ma è certo che nessuno dei settari concepì un piano così vasto, così empio, come quello che Socino formò contro la Chiesa; egli non solo cercò di rovesciarla e distruggerla, ma si impegnò, inoltre, a erigere un nuovo tempio, nel quale si proponeva di portare tutti i settari, unendo tutti i partiti, ammettendo tutti gli errori, facendo un insieme mostruoso di principi contraddittori; Infatti, sacrificò tutto alla gloria di unire tutte le sette, per fondare una nuova chiesa al posto di quella di Gesù Cristo, che ne faceva un punto capitale di abbattere, per tagliare la fede nei misteri, l’uso dei Sacramenti, i terrori di un’altra vita, che sono così opprimenti per i malvagi.  « Questo grande progetto di costruire un nuovo tempio, di fondare una nuova religione, diede motivo ai discepoli di Socino di armarsi di grembiuli, martelli, squadre, assi, cazzuole e tavole da disegno, come se volessero usarli nella costruzione del nuovo tempio che il loro capo aveva progettato; ma, in verità, sono solo chincaglieria, oggetti di rappresentanza che servono da ornamenti, piuttosto che strumenti utili per la costruzione.  « L’idea di un nuovo tempio va intesa come un nuovo sistema di religione concepito da Socino e alla cui realizzazione tutti i suoi seguaci promettono di lavorare. Questo sistema non ha alcuna somiglianza con il piano della Religione Cattolica, stabilito da Gesù Cristo; è addirittura diametralmente opposto ad esso, e tutte le parti tendono solo a mettere in ridicolo i dogmi e le verità professate nella Chiesa che non sono in accordo con l’orgoglio della ragione e la corruzione del cuore. Questo fu l’unico modo che Socino trovò per unire tutte le sette che si erano formate in Germania; ed è il segreto che i massoni utilizzano oggi per popolare le loro logge con uomini di tutte le religioni, partiti e sistemi.  « Essi seguono esattamente il piano che Socino aveva prescritto a se stesso di associare studiosi, filosofi, deisti, ricchi, uomini, in una parola, in grado di sostenere la loro società, con tutte le risorse in loro possesso; e mantengono la massima segretezza all’esterno sui loro misteri: similmente Socino, apprese  per esperienza quanto dovesse essere dispendioso il riuscire nella sua impresa. Il rumore delle sue opinioni lo costrinse a lasciare la Svizzera nel 1579, per recarsi in Transilvania e da lì in Polonia. In questo regno trovò le sette dei Trinitari e degli Antitrinitari divise tra loro. Da abile condottiero, cominciò a insinuarsi abilmente nelle menti di tutti coloro che desiderava conquistare; nutriva un’eguale stima per tutte le sette; approvava vivamente le imprese di Lutero e di Calvino contro la Corte romana; aggiungeva persino che non avevano dato il tocco finale alla distruzione di Babilonia, della quale era necessario strappare le fondamenta per costruire, sulle sue rovine, il vero tempio.  « Il suo comportamento fu in linea con i suoi piani. Affinché il suo lavoro potesse progredire senza ostacoli, prescrisse sulla sua impresa un profondo silenzio, come i massoni prescrivono nelle loro logge in materia di religione, per non incorrere in alcuna contraddizione nella spiegazione dei simboli religiosi di cui le loro logge sono piene; per cui fanno voto di non parlare mai davanti ai profani di ciò che avviene nella loggia, per non divulgare una dottrina che può essere perpetuata solo sotto un velo misterioso. Per legare maggiormente i suoi seguaci, Socino voleva che si chiamassero fratelli e che provassero gli stessi sentimenti. Da ciò derivarono i nomi che i sociniani portarono successivamente di Fratelli Uniti, Fratelli Polacchi, Fratelli Moravi, Frey-Maurur, Fratelli della Congregazione, Liberi Muratori, Freys-Maçons, Liberi Muratori, Free- Maçons, ecc. Tra loro si trattano sempre come fratelli ed hanno gli uni per gli altri l’amicizia più affettata  « In questo modo, Socino riuscì a riunire tutte le sette degli anabattisti, degli unitari e dei trinitari, e sapeva come gestirle. Gli fu permesso di predicare e scrivere la sua dottrina; produsse catechismi e libri, ed avrebbe pervertito tutti i Cattolici in Polonia in breve tempo, se la Dieta di Varsavia non lo avesse impedito. In effetti, non c’è mai stata dottrina che si opponeva al dogma cattolico più di quella di Socino: come gli Unitari, egli rigettava dalla religione tutto ciò che avesse l’aria di essere un mistero; secondo lui, Gesù Cristo era il figlio di Dio solo per adozione e per le prerogative che Dio gli aveva accordato di essere nostro mediatore, nostro sacerdote, nostro pontefice, benché fosse solo un uomo. Secondo Socino e gli unitari, lo Spirito Santo non è Dio; e lungi dall’ammettere tre Persone in Dio, non ne voleva che una sola che fosse Dio. Considerava come fantasticherie il mistero dell’Incarnazione, la reale presenza di Gesù Cristo nell’Eucaristia, l’esistenza del peccato originale, la necessità della grazia santificante. Per lui, i Sacramenti erano pure cerimonie istituite per sostenere la Religione del popolo. La Tradizione apostolica non era, ai suoi occhi, una regola di fede; non riconosceva l’autorità della Chiesa di interpretare le Sacre Scritture. In una parola, la dottrina di Socino è contenuta in duecentoventinove articoli che hanno tutti per oggetto di rovesciare la dottrina di Gesù-Cristo. – L’Abbé Lefranc ha attinto le sue informazioni da una buona fonte, perché è in perfetto accordo con lo storico Cesare Cantù, che conosce così bene la storia dell’Italia, il suo Paese, e così ben informato sulla vita di Socino. « Nipote e discepolo di Lélio – egli dice – nacque a Siena, il 5 dicembre 1539; piacevole scrittore, facile interlocutore, distinto nelle maniere, studiò giurisprudenza e poi le scienze a Lione. Venuto a conoscenza della morte dello zio, corse in Polonia per raccogliere i libri del defunto, e là venne accolto come un profeta destinato a dare il tocco finale alla dottrina ariana. Per il momento, tornò in patria e per dodici anni ricoprì onorevoli incarichi presso la Corte di Firenze; poi, quando i suoi genitori furono perseguitati, trasferì la sua residenza a Bale, nel in 1574, nonostante gli sforzi del Granduca che cercava di dissuaderlo. Egli si mise a studiare la teologia e la ricondusse ad un significato opposto a quello che gli si dava ordinariamente; pubblicò opere anonime, come ad esempio il trattato di Jesu “Servatore”; ma, avendo avuto un litigio con Francesco Pucci, nel 1578, dovette lasciare Bale. Fausto fu così chiamato in Transilvania ed in Polonia, dove l’eresia antitrinitarista aveva messo radici ». « La sua presenza – continua Cesare Cantù – gettò un nuovo elemento di confusione tra le numerose sette di quel paese, portando alla luce un nuovo “simbolo”, estratto ,dalle carte dello zio, un simbolo che si differenziava per aspetti essenziali da quello degli unitari polacchi. Secondo questi numerosi scritti, Lutero e Calvino erano benemeriti, ma tuttavia, i loro meriti non sono stati soddisfacenti, poiché era necessario, a suo avviso, liberare la fede da qualsiasi dogma che superi la ragione… Fausto Socino fu quindi un vero e proprio eresiarca, un eresiarca ben caratterizzato, poiché, nel proclamare i diritti della ragione, non rispettava alcun limite. Lutero e gli altri avevano secolarizzato la Religione, egli secolarizzò Dio; se non osò bandire il soprasensibile, egli negò tutti i dogmi, condusse all’incredulità, ed è stato il padre del razionalismo, che è l’eresia del nostro tempo. Egli insegnava anche degli errori sociali: esagerando la dottrina della misericordia evangelica e del perdono, negava non solo la legittimità della guerra, ma anche quella di ogni autorità repressiva… Questa dottrina fu sostenuta dai suoi seguaci, che ne estesero le conseguenze fino al punto di negare il diritto penale, ed in particolare la pena di morte… In realtà, la Riforma era riuscita solo a strappare le anime al Papa per darle o ad un re, o ad un concistoro o ad un pastore. Solo il socinianesimo impiantò l’autonomia della ragione; è da esso che emersero i Cartesio, Spinoza, Bayle, Hume, Kant, Lessing, Hegel, Bauer, Feuerbash. Strauss e i suoi seguaci, negando il Cristo positivo e sostituendolo con un ideale di Cristo, hanno solo aggiunto al piano sociniano l’elaborazione scientifica, che è il segno distintivo dell’età moderna: le bestemmie arcadiche di Renan e le proposte dell’incrocio di Bianchi-Giovani e diversi italiani non hanno altre origini. Sono loro che hanno soppresso in un sol colpo la questione suprema, la chiave di volta della storia, quelle della vita, della morte, del futuro, dell’intelligenza del mondo misterioso ». Così parla Cesare Cantù. È quindi evidente a chiunque sappia leggere che il socinianesimo è figlio della Riforma protestante e Socino il fondatore della setta massonica: il Socinianesimo e la Massoneria sono una stessa cosa. – « Il sociniani – dice ancora Cesare Cantù – in quanto discepoli di Lutero, si sono proclamati i restauratori del Cristianesimo primitivo, solo perché prendevano le Sacre Scritture come unica regola della fede e la misura delle loro azioni. Lutero, eliminando dalla Bibbia ciò che non era di suo gradimento, conservò i dogmi della Trinità, del peccato originale, dell’Incarnazione e della divinità di Cristo, il battesimo ed una sorta di Eucaristia. Socino soppresse tutto. Il luteranesimo aveva dato la preponderanza all’elemento divino, il socinianesimo all’elemento umano; i riformati esagerarono il dogma del peccato ereditario, i sociniani non lo riconobbero. Secondo quelli, solo Dio opera la giustificazione, e l’uomo resta del tutto passivo. Secondo quest’altri, l’uomo è il solo ad agire, egli si eleva e si perfeziona, senza che Dio faccia nient’altro che rivelargli la sua dottrina. Per i protestanti, il Salvatore divino è venuto sulla terra per riscattarci con il suo Sacrificio; per i sociniani è un uomo che è stato mandato sulla terra per dare all’umanità una nuova dottrina e per mostrare loro il modello da imitare. I protestanti, confidando interamente nella grazia, disprezzano la ragione; i sociniani proclamano che la ragione e i suoi diritti sono al di sopra di ogni mistero e che solo essa è in grado di dissipare le fitte nubi che avvolgono le Sante Scritture.  « I protestanti (dice Gioberti) hanno preso dalle opere dei pagani gli accessori e l’eloquenza; i sociniani ne hanno sostanzialmente rinnovato le tendenze, lo spirito e le dottrine. Rifiutando l’ideale sovraintelligibile e la rivelazione, essi oscurano l’intelligibile a forza di logica, la privano di quella purezza e di quella perfezione che abbondano nei precetti del Vangelo; riducono la sapienza di Cristo alle anguste proporzioni di quella di Socrate e di Platone; all’idea luminosa ed armoniosa del Cristianesimo Cattolico, sostituiscono l’idea zoppicante e nebulosa della filosofia pagana. Essi conservano solo in apparenza le verità soprarazionale della Rivelazione al fine di stabilire un’apparente armonia tra l’aristocrazia sociniana e la moltitudine, e per formare una dottrina exoterica ad uso esclusivo del volgo ». – Per riassumere la questione, diciamo che dopo aver potuto predicare la sua dottrina liberamente, moltiplicare i suoi adepti, tenere le sue assemblee, organizzare la sua società segreta e simbolica, riversare l’errore nel seno della sfortunata Polonia, Fausto Socino, aiutato da Sigismondo-Augusto, che aveva garantito la libertà di coscienza a tutti i nemici del Papato, poteva applaudire se stesso per aver portato a termine il suo piano, accordando l’eresia all’azione, cioè fino alla perdita di anime e alla rovina di uno o più Paesi, ma mai fino al punto di distruggere il Cristianesimo, divino ed immortale nella sua natura. « Tuttavia, Fausto Socino ha dovuto affrontare gravi contraddizioni, a proposito delle sue dottrine – dice Cesare Cantù. Protetto da alcuni grandi personaggi, sposò Agnese, una giovane ragazza di buona famiglia, che perse nel 1587. I suoi oppositori eccitarono contro di lui il popolo di Varsavia, che lo trascinò per le strade della città. Egli riuscì a fuggire con grande difficoltà a questi maltrattamenti, e si ritirò in un oscuro villaggio, dove morì il 3 marzo 1604 ». « La setta sociniana – aggiunge Feller – ben lungi dal morire o dall’indebolirsi alla morte del suo leader, divenne considerevole grazie al gran numero di personaggi di qualità e di sapienti che ne adottarono i principii. I sociniani erano abbastanza potenti da ottenere nelle diete della Polonia la libertà di coscienza; ma diversi eccessi che commisero contro la religione di Stato, li fecero scacciare definitivamente nel 1658. Le ceneri di Socino vennero dissotterrate, portate ai confini della Piccola Tartaria, e poi messe in un cannone che le inviò nella terra degli infedeli. » – « A Siena, dove la famiglia dei Socino si era distinta, fin dai tempi più remoti, per le cariche che i suoi membri avevano ricoperto, così come per la loro sapienza –  scrive Cesare Cantù – abbiamo ricercato attentamente alcuni dei loro ricordi, ma di loro, ma non ne è rimasto quasi nessuno. Si dice soltanto che la villa di Scopeto appartenesse a questa famiglia. Fino a qualche anno fa, c’era un grande albero sotto il cui riparo, secondo la tradizione, i religiosi tenevano le loro assemblee; così fu abbattuto per ordine della pia signora a cui apparteneva. » – Gli storici concordano sulla vita e sulla dottrina di Fausto Socino. Alle testimonianze già citate vogliamo solo aggiungere le parole di un noto teologo: Bergier.  « Fu intorno all’anno 1579 – dice l’autore del Dizionario di Teologia – che Fausto Socino, nipote ed erede dei sentimenti di Lélio Socino, arrivò in Polonia. Trovò gli spiriti divisi in tante sette quanti erano i dottori: tutte queste cosiddette chiese erano unite in un solo punto, cioè l’avversione al dogma della divinità di Gesù Cristo. A forza di dispute, scritti, gentilezze e flessibilità, Socino riuscì a riunirli e a portarli più o meno alla stessa opinione, almeno esteriormente; divenne così il principale leader di questo gregge che ha conservato il suo nome. Morì nel 1604. » Dopo aver esposto a lungo la dottrina sociniana, lo stesso autore aggiunge: « Inoltre vediamo dagli scritti dei deisti moderni che essi hanno preso dai sociniani la maggior parte delle loro obiezioni contro i dogmi che noi sosteniamo essere rivelati, così come i sociniani hanno preso in prestito i loro principi e la maggior parte dei loro dogmi dai protestanti. Così, mentre i primi non rifiutano di riconoscerli come loro maestri, i protestanti hanno una cattiva disposizione nel voler riconoscere i sociniani come loro discepoli. Ma abbiamo dimostrato altrove che il deismo stesso è un sistema incoerente in cui un raziocinante non può rimanere saldo; ché di conseguenza in conseguenza è presto portato all’ateismo, al materialismo ed infine al pirronismo assoluto, l’ultimo termine dell’incredulità. Ne siamo convinti non solo dagli argomenti che i materialisti hanno opposto ai deisti, ma anche dal fatto che i nostri più famosi miscredenti, dopo aver predicato il deismo per qualche tempo, sono arrivati ad insegnare essenzialmente il materialismo. Nulla dimostra meglio la connessione delle verità che compongono la Religione cristiana dei Cattolici, della catena di errori in cui cadono necessariamente tutti coloro che si allontanano dal principio su cui si fonda questa Religione divina ».

DISCORSO SUL SEGRETO DELLA FRANCO-MASSONERIA (2)

FAR FRUTTI DEGNI DI PENITENZA

FRUTTI DEGNI DI PENITENZA

(Da un’omelia di p. Francesco Maria Zoppi  sulle parole di S. Giovanni Battista “facite ergo fructos” in Ev. S. Luca III, 8; in Omelie, prediche sermoni. – Milano, 1841)

Prendendo Giovanni il figliuolo di Zaccaria a preparare le strade al venturo Messia, ad appianarle e raddrizzarle in compimento della profezia di Isaia, a disporre cioè gli uomini tutti a ricevere con un cuore umile, retto e mansueto il loro Salvatore; non fa altro che gridare e nel deserto e per tutto il paese che circonda il Giordano, la penitenza per la remissione de peccati, giusta l’ordine del Signore: Fauctum est verbum Domini super Joannem Zachariæ filium, in deserto: et venit in omnem regionem Jordanis prædicans baptismum pœnitentiæ in remissionem peccatorum. Questo è l’unico argomento di tutta la sua predicazione. E ben di leggieri potremmo da ciò solo argomentare di quanta importanza sia la virtù che predica. Ma egli stesso non esorta o consiglia solo a praticarla, ma il comanda apertamente? Facite ergo fructus dignos pœnitentiæ: e sì la reputa necessaria e indispensabile, che dichiara vana la confidenza in altro merito benché singolarare, in altro protettore, benché il più potente: Ne cœperitis dicere, Patrem habemus Abraham. Né si accontenta egli di una penitenza qualunque, ma esige una penitenza, che renda de’ frutti buoni, che si mostri ne’ fatti, che risponda il più che sia possibile al numero e al peso delle colpe, alla forza degli abiti malvagi inveterati; alla misura della collera provocata e della irritata giustizia di Dio: Fructus dignos pœnitentiæ: Vuole finalmente che la penitenza sia altrettanto pronta, quanto perfetta ed efficace; non accorda un sol momento di indugio, ed assomigliando coloro che non fanno compiuta penitenza ad alberi i quali, non dando alcun buon frutto, si tagliano e si gettano nel fuoco, intima loro che la scure è già levata sopra la loro radice, e che loro è imminente il taglio fatale: Jam securis ad radicem arborum posita est. – Cose tutte son queste che io vi ho già fatto rimarcare; allorché presi a spiegarvi questa prima predica del santo Precursore registrata nell’odierno. Vangelo, esortandovi io pure caldamente ed anche in nome di Dio altamente comandandovi di fare penitenza. Ma lo avrò io fatto con qualche profitto? Posso io lusingarmi d’averne riportato tanto da ascoltatori cristiani, quanto egli ne l’importò da ascoltatori pagani? Questo è invero il fine a cui ardentemente aspiro, o miei devoti, né so bramare compenso più consolante per qualunque mio ministero. Poiché adunque il santo Precursore vi fu già maestro della necessità, perfezione e prontezza onde si deve praticare la penitenza; gli ascoltatori di lui sianvi oggi maestri della docilità di mente e di cuore; onde dovete prestarvi alla voce di chi ve la predica e ve la comanda. Anche a’ Giudei era stata predicata da’ profeti la penitenza: ma ben di raro avevano essi ascoltate di queste prediche: si era da qualcuno di loro anche praticata, ma ben da pochi. Quindi novello quasi e certamente duro doveva sembrar loro il sermone, che lor tenne sulla penitenza Giovanni Battista; e sì che il santo predicatore non usò, come sogliono fare gli oratori; né di arte per persuaderlo, né di grazie per raddolcirlo anzi pare che li rimbrottasse ben aspramente allorché, secondando l’impeto del suo zelo, diceva loro liberamente: o razza di vipere, chi vi ha insegnato a fuggire lo sdegno del Signore che vi sovrasta? Fate adunque frutti degni di penitenza: Genimina viperarum, quis ostendit vobis fugere a ventura ira? Facite ergo fructus dignos pœnitentiæ. – Nondimeno qual breccia fece sull’animo loro questo parlare? Lo hanno appena ascoltato che gli si affollarono all’intorno per essere da lui battezzati, e sollecitamente lo interrogarono, Che cosa adunque abbiamo a fare? Quid ergo faciemus? Come se volessero dire: Sì, che temiamo la collera del Signore; ed Egli il sa, se noi bramiamo di fuggirla: diteci solo che cosa abbiamo a fare, ed eccoci pronti ad obbedirvi: Quid ergo faciemus? E non fu soltanto taluno di cuore o tenero o timido, che parlasse così; no, ma fu tutta la turba degli ascoltatori: Interrogabant cum turbæ dicentes, Quid ergo feciemus? Ma furono i finanzieri, avvezzi alle animosità ed alleestorsioni: Venerunt et publicani ut baptizarentur, et dixerunt ad illum, Magister, quid faciemus? Ma furono gli stessisoldati, che sogliono avere il cuore incallito dal frequentemirare ed esercitare le stragi: interrogabant eum et milites dicentes, Quid faciemus et nos? – Qual consolazione pel santo Precursore al vedere turbe intere cangiate quasi in altrettanti suoi figliuoli, che non attendevano se son i cenni di lui per onorarli ed eseguirli prontamente? al vedere uomini per condizione i più duri ed i più fieri, resi dalle sue parole più docili e mansueti degli agnelli, al vederli tutti avidi di sapere e di intraprendere un genere di vita poco conosciuto, meno praticato, austero, ripugnante alla corrotta loro natura, e molto più alle passioni signore già dei loro cuori? – Toccò pure simile consolazione ne’ primi giorni della Chiesa al principe degli Apostoli, a suoi colleghi, e di tempo in tempo a qualcuno de’ suoi successori. Ma avviene mai, che tocchi a qualcuno de’ sacri predicatori della penitenza a’ nostri giorni? Eppure parliamo a Cristiani ben educati, e parliamo di una virtù la più celebrata non meno dalla bocca di chi l’ha predicata, che dall’esempio di chi l’ha praticata; e ne parliamo colle maniere più dolci e le più atte a nasconderne od a toglierne le asprezze. Ma sospendiamo per poco i rimproveri, mentre io amo per ora che gli ascoltatori di Giovanni ci siano piuttosto maestri che censori. – Che cosa ci insegnano adunque colla sollecita domanda, che gli uni dopo gli altri si affrettano di fare al novello loro predicatore, dicendo questi, Che cosa dunque abbiamo a fare? Quid ergo faciemus? e tosto ripigliando quelli, È noi che cosa abbiamo a fare? Quid faciemus et nos? Come meglio potremmo conoscere, che tutti erano veramente tocchi da Dio; e che per loro era giunto il tempo della misericordia? E da chi meglio potremmo apprendere, quale debba essere lo spirito di un vero penitente? Io vi scorgo qui primieramente uno spirito umile, che o rinunziando ai propri lumi, o non fidandosene, o dandosi anche per cieco, si abbandona interamente ai lumi ed alla guida altrui. – Eccoci il primo importante ammaestramento che ci danno codesti veri penitenti, d’essere cioè docili di mente ai giudizi ed alle istruzioni de nostri direttori, scelti che li abbiamo secondo il voler di Dio, illuminati, saggi, disinteressati. E per verità non sono eglino per una parte da Dio destinati pel carattere della loro vocazione ad illuminare il mondo? Voi siete la luce del mondo, dice loro Gesù Cristo: vos estis lux mundi. E non dobbiamo noi credere che Dio sparga sopradi loro questa luce, perché essi la diffondano in quelli chesono da loro diretti; e che più copiosa e più splendida lasparga, dove più dense sono le tenebre che hanno a diradare,dove più scabrosi e più difficili sono i casi a cui devonoprovvedere? Non dobbiamo noi credere, che, non avendoeglino verun interesse di ingannare, avendo anzi tutto il doveree l’interesse di guidare rettamente per non rendersi appressoDio colpevoli delle loro direzioni, delle quali sonopresso Lui responsali, siano imparziali e giusti i loro documentied i loro giudizj?Dall’altra parte per quanto illuminati si credano i penitenti,devono pur confessare di non esserlo per l’ordinario tantoquanto il dev’essere chi è da Dio posto sul candeliere, e daLui trascelto ad essere dottore in Israele. Quanto è facileinoltre che parziali siano. questi giudici che giudicano incausa propria? Quanto è facile che ne’ loro esami e nelle loro sentenze non abbia qualche parte il loro amor proprio;benché si propongano di sorvegliare sopra di lui e di contrariarlo?Quanto è da temere che quelle passioni stesse chehanno gettato tante volte il loro spirito nel bujo della notte,benché siano ora da loro castigate e frenate, non oscurinoalquanto ancora i lumi della ragione e della fede? Quantoèda temere che non si prendano i falsi lumi per veri, lelucciole notturne per ardenti lucerne, e le immagini d’una riscaldatafantasia per divine illustrazioni, e per sante ispirazionile suggestioni affatto umane? Siccome adunque sarebbetemerità il volersi dirigere secondo i propri lumi scarsi edincerti; così diviene necessario che i penitenti, pronti a volersottomettere pienamente il loro giudizio a quello del direttore,e ricevere da lui la legge; si gettino nelle braccia dilui e a lui domandino umilmente; Che cosa abbiamo a fare: Quid faciemus?Ma, mentre predichiamo la penitenza, abbiamo noi la bellasorte di piegare e guadagnarci per egual maniera le menti de’nostri ascoltatori? Accade pur talvolta che il Signore benedicele fatiche del nostro ministero, e ci conduce ai piedi qualchenostro ascoltatore, tocco dalle nostre parole, o a dir megliodalla grazia divina. Ma depone poi egli sempre a’ nostri pieditutti i suoi pregiudizi? Al che spesso dobbiamo col più vivonostro rammarico persuaderci, che molti penitenti siano guidatia noi piuttosto da un timor vano e passeggero, che da unsincero pentimento, perciò appunto che ci spiegano prevenzionitroppo favorevoli alle particolari loro opinioni, e ideefalse e sinistre del nostro ministero! Ah che spesso dobbiamoaccorgerci, che non si presentano a noi come a loro giudici,ma tutt’al più ci reputano loro consiglieri, riservandosi inoltreil pieno arbitrio di accettare e rifiutare a loro piacere inostri consigli! Ah che spesso ci tengono al confessionaleun linguaggio, che forse non ardirebbero di tenerci in casa,o nella conversazione, dove fossero da altre persone prudentiascoltati; e chiunque li ascoltasse, non li direbbe già ammalati,che si mettono nelle mani del medico per essere da luiguariti, ma medici che sono a consulta con altri medici!O se pure alle prime ci danno la consolazione di vederliavanti noi genuflessi a chiederci nell’aria la più umile, Checosa abbiamo a fare: Quid faciemus? e mostrano di abbandonarsi ciecamente alle nostre direzioni, e ci pregano a consigliarli non solo, ma a non risparmiare loro i comandi, eci protestano di voler fedelmente attenersi a quanto loro prescriveremo; sono poi senza alcuna loro replica le nostre ammonizioni, i nostri suggerimenti, gli stessi nostri. Comandi? Quante volte un momento dopo li sottopongono al sindacatodelle loro passioni? Quante volte ci sentiamo rispondere, chei nostri consigli non sono atti alla loro indole e condizione,e che le nostre medicine non sono fatte per la loro malattiae pel loro temperamento? Quante volte dobbiamo argomentaredalle loro risposte, che ci hanno in conto di direttori oignoranti o rigidi o scrupolosi? Quante volte la voglionocon noi disputare nel tribunale di penitenza, quasi fosseroin un contraddittorio innanzi ad un tribunale umano? Voilo sapete, o Signore, qual pericolo corre talvolta la pazienzae la prudenza de’ vostri ministri posta da costoro a cimento,se non fosse sostenuta dalla vostra divina grazia; e da quelluogo ove non dovremmo che porgervi ringraziamenti perle vittorie riportate sugli ammolliti loro cuori, voi il sapetequante preghiere vi mandiamo perché rompiate la pertinaciadelle caparbie loro menti.Tuttavia, non è così frequente il caso di chi porta al tribunaledi penitenza una cervice sì dura quanto di chi vireca un cuore incirconciso. E che razza di penitenti sono quelli che, quantunque siano docili di mente, nol sono di cuore? La docilità del cuore è tanto essenziale al penitente, che senza di essa ogni altra dimostrazione di pentimento è finta e bugiarda; e questo è il secondo e più importante ammaestramento che ci danno gli ascoltatori di Giovanni Battista coll’offerirglisi pronti a fare tutto quanto avrebbe loro ordinato, dicendo tutti e quasi a gara richiedendo, Che cosa abbiamo a fare: Quid faciemus? – Come infatti si potrebbe dire che un penitente sia veramente convertito di cuore, se pretendesse ancora regolarsi secondo i suoi voleri? Per qual altra via si è egli reso colpevole, se non col ripugnare alla volontà di Dio per fare la propria? Per qual altra via adunque potrà egli dimostrarsi veramente pentito delle sue colpe, se non col negare pienamente la propria volontà per fare in tutto quella di Dio? Ciò costa, ciò è amaro, ma sana. Altrimenti che direste voi di un ammalato; che ricusasse di ricevere le medicine certamente efficaci per guarirlo? Costui, direste, ama di restar ammalato. Chi ama veramente di guarire, non v’ha medicina benché amarissima che non sia disposto a ricevere. Che direste se un reo di morte non volesse dare al giudice la soddisfazione che gli impone a sconto del delitto e a scampo della morte? Non è vero, direste, che a costui dolga veramente di aver commessi i suoi misfatti: chi vuole davvero placare la giustizia e conseguire perdono, non v’ha pena anche grave che non sia pronto a sopportare. – Sia dunque duro quanto si voglia il comando che vi fa un direttore discreto e prudente che vi conosce per ogni riguardo appieno, sia aspra quanto più il possa essere la penitenza che vi ingiunge; qual ragione potete addurre a dispensarvene? Se dite che le prescrizioni di lui non vi sembrano necessarie, o in tutto conformi al volere di Dio, voi mostrate ben poco docilità di mente: se dite che troppo ripugnano alla vostra volontà, voi mostrate ben poca docilità di cuore: se per l’una e per l’altra pretesa vostra ragione ricusate di obbedire: al comando e di compiere la penitenza, voi mostrate di non avere un pentimento verace delle vostre colpe. – Eppure troviamo tutta la docilità ne’ nostri penitenti, finché non ingiungiamo loro che la recita di alcuni Pater o del piccolo Rosario, o di altre brevi orazioni; ma sono pur pochi quelli che, disposti a fare ogni cosa per espiare i loro peccati, ci dicano come conviene, e coll’animo col quale il dicevano i penitenti del santo Precursore, Che cosa fa bisogno che noi facciamo? Siamo pronti a tutto: Quid ergo faciemus? O per lo meno sono ben pochi che pur dicendolo, e avendo anche in animo di farlo, siano poi fedeli, fermi e  costanti nell’adempirlo. Oh strano rovescio di cose! – Succede pur troppo nel tribunale di penitenza ciò che forse non succede mai ne’ tribunali profani, che il colpevole cioè, anziché chinare il capo sotto gli ordini del giudice, e dimandargli, Che cosa devo io fare? pretenda che il giudice assecondi il genio di lui, e gli dica, Che cosa volete voi fare? Se non sono queste le parole, questa è certamente la disposizione dell’animo di coloro che per propri direttori sì scelgono, a bello studio de maestri di una morale facile ed arrendevole, i quali sogliono mettere de capezzali sotto il capo e de cuscinetti sotto ogni gomito de loro penitenti, per valermi delle immagini del profeta Ezechiele; di coloro che a forza di eccezioni forse immaginarie, di scuse chi sa se veraci, e di pretesti mendicati, cercano di sottrarsi dalla severità del santo Vangelo, e di entrare quasi col sacro ministro in umani accomodamenti; di coloro i quali, perché il medico spirituale trova necessario di adoperare nelle loro invecchiate ed incancrenite loro piaghe il ferro o il fuoco a prevenire un guasto maggiore ed una certa morte, partono da lui disgustati, né più ritornano a lui. – Ma succede ancor. di peggio. V’hanno pur di quelli che, invece di chiedere con sommessione al sacro giudice, Che cosa abbiamo a fare: Quid ergo fuciemus? replicano col fatto, e talvolta anche in faccia al comando di lui, No, nol voglio fare; e tanto ardire spiegano avanti il giudice eterno Gesù Cristo, quanto non ne spiegherebbe mai colpevole qualunque avanti un giudice umano. E non sarà già che rispondano così perché li carichiamo di troppo rigida penitenza. Così rispondono quando pure li vogliamo richiamare al solo e preciso loro dovere; quando, esigiamo da’ Cristiani penitenti nulla più di quanto esigesse il santo, Precursore da’ Giudei, da’ pubblicani, da’ soldati. Che cosa rispose egli alla premurosa domanda che gli fecero le turbe? Chi ha due vesti, una ne dia a chi n’è senza, e lo stesso faccia chi ha da mangiare: Qui habet. Duas tunicas, det non habenti, et qui habet escas, similiter faciat. Ora si provi un ministro del Signore di ordinare a certiricchi o avari od inumani; che facciano limosina, che vestanoil nudo con qualcuna delle vesti onde vanno piene le loroguardarobe, che ristorino il famelico con qualche vivandaond’è copiosamente imbandita la loro mensa; certo che costuinon sarà più il loro confessore.Che cosa rispose il santo Precursore ai pubblicani? Non esigetedi più di quello che vi è stato stabilito: Nihil amplius quam quod constitutum est vobis, faciatis. Ebbene ordini ilconfessore a certi genitori, padroni o superiori di usare carità.discrezione nel comandare ai loro figliuoli, servitori osubalterni, e di non imporre loro più di quanto possanoportare le loro spalle. Forse non replicano parola, ma giuntia casa, proseguono a comandare a bacchetta come prima, ed a misurare gli ordini loro non dalle forze altrui, ma dalleindiscrete loto voglie.Che cosa rispose finalmente il santo Precursore ai soldati? Non togliete cosa per forza né con frode ad alcuno, e contentatevidella vostra paga: Neminem concutiatis, neque, calumniam faciatis; sed contenti estote stipendiis vestris. Oracomandi il confessore al negoziante ed al padron di bottega dinon commettere usure ed estorsioni, e di moderare i suoi guadagnie i suoi desiderj tra i limiti della giustizia e dell’onestà.Forse il promette, ma, tornato appena al negozio od alla bottega,seguita ad abusare della semplicità e della buona fededegli avventori, e a cavar loro la pelle come prima. E voiben vedete che codeste non sono penitenze o arbitrarie otroppo severe che loro impongono i confessori, ma indispensabiliobbligazioni che già sono tenuti di adempiere. Ah mieicari, non potrebbe dirsi perciò a ragione, che l’indocilità. de’penitenti sia una delle cause principali degli ostinati mali ondeil Signore ci castiga a’ nostri giorni, e ci manifesta ognora lasua collera?Siate adunque docili di mente e di cuore nell’attendere umilmenteil giudizio, e nel compiere esattamente il comando de’vostri direttori e dove aspre e dure vi sembrino le penitenzeche vi ingiungono, misurate solo, se il potete, l’onta che voifaceste al Signore, e poi ditemi, se v’ha penitenza che possiatericusare. Chi vi ha insegnato a fuggire altrimenti la colleradi Dio? Aspre penitenze appunto vi vogliono ad allontanarla,così, interpretando le parole del santo Precursore, diceva sanBernardo, co’ sentimenti. del reale Profeta, a’ suoi tempi noncertamente peggiori de’ nostri: Apprehendite disciplinam, ne quando irascatur Dominus; immaginatevi poi se vi voglia dimeno per placarla. Sia dunque il vostro direttore che vi percuota,sia Dio stesso, sopportate la verga che corregge, perché  non abbiate a sentire il martello che stritola: Sustinete Virgam corripientem, ne sentiatis malleum conterentem.

SAN TOMMASO APOSTOLO

S. TOMMASO

(Otto Hophan: Gli APOSTOLI – MRIETTI ED. 1951)

Tommaso è l’apostolo, cui facciamo torto, perché tutte le volte che ripetiamo il suo nome, forte o piano, aggiungiamo: « l’incredulo »; l’« incredulo Tommaso » è divenuto proverbiale, come se tutto l’essere di questo Apostolo, quasi come  per Giuda il traditore, si riducesse al suo peccato, alla sua « incredulità »; il rinnegamento di Pietro non fu meno riprovevole del dubbio di Tommaso; ma chi mai, che sia ragionevole, riduce Pietro al suo peccato? Pietro fu ben di più, e anche Tommaso è molto di più che non il suo peccato soltanto. Il povero Tommaso è stato persino proposto quale patrono e precursore di tutti gli « increduli, dubbiosi, cavillatori e teste leggere »; e questo è un grave torto che si fa a un uomo, cui la vita era amara anche senza di questo apprezzamento e che inoltre dovette tanto soffrire solo per nostro vantaggio. Lo scetticismo infatti e l’incredulità di Tommaso non hanno nulla a che fare con quell’atteggiamento tanto borioso e altrettanto sciocco, che pretende di citare dinanzi al tribunale della sua misera ragione Iddio e i suoi Misteri per la smania di trovar da ridire persino intorno all’Altissimo; 1’« incredulità » del nostro Apostolo è una conseguenza del dolore e fu trasformata in benedizione; come ogni altro peccato, bisogna considerarla insieme alla sua dolorosa radice e al coronamento della misericordia di Dio; solo così la possiamo valutare giustamente.

LO SCETTICO

Il nome stesso di Tommaso ha dato motivo a un giudizio meno lusinghiero di lui; l’Evangelista Giovanni di fatto gli aggiunge in due passi il soprannome « Didimo », che alla lettera significa « il duplice », ma in senso più largo « il gemello »; ora qualcuno ha tentato di attribuire a questo termine il senso di « discorde », quasi di schizofrenico, ch’è un’interpretazione del tutto infondata ed è respinta dalla esegesi biblica prudente; perché Giovanni nient’altro intende, che fornire ai lettori greci del suo Vangelo l’interpretazione del nome aramaico « Tommaso », che nella greca ha per corrispondente « Didimo, gemello ». Una leggenda indiscreta e pettegola credette d’aver individuato il compagno nel seno materno di Tommaso nel fratello gemello Eleazaro o nella sorella gemella Lisia; gli Atti di Tommaso apocrifi vanno anche più oltre: Cristo stesso sarebbe stato il fratello gemello, e Tommaso gli sarebbe stato tanto somigliante, che veniva scambiato con Lui spesso: Tommaso era creduto Cristo e Cristo era creduto Tommaso. Forse questa maligna leggenda si riconnette con la tradizione della chiesa di Edessa, secondo la quale il vero nome dell’apostolo Tommaso sarebbe stato « Giuda », detto pure Tommaso, cioè Didimo, Gemello; questo fatto condusse allo scambio con l’apostolo Giuda Taddeo, che senza dubbio, come a suo luogo sarà detto, era un « Fratello », ossia un cugino del Signore; la leggenda, con tutta sicurezza, fece di Giuda un Tommaso, un fratello e anzi un fratello gemello del Signore. Intorno alla origine dell’apostolo Tommaso, ai suoi genitori e alla sua vita precedente la chiamata del Signore non abbiamo dalla Sacra Scrittura nessun ragguaglio; è il primo dei Dodici, che, per così dire, entra nel Vangelo inosservato, egli è in testa agli Apostoli silenziosi o quasi muti; il suo nome comincia a splendere solo nei cataloghi degli Apostoli, come un raggio di sole sul limitare della foresta, cui finora non s’era fatta attenzione, senza che mai nell’intervallo precedente si faccia menzione di lui, a differenza dei primi sette colleghi. La leggenda fa di Tommaso un architetto e l’arte, sin dal secolo decimoterzo, gli ha messo in mano la squadra, come a patrono dell’ingegneria; ma secondo un accenno del Vangelo Tommaso era pescatore, non sembra quale padrone, come Pietro e Andrea e i figli di Zebedeo, ma piuttosto in qualità di garzone; questa ipotesi s’accorda con delle informazioni antiche, che fanno discendere Tommaso da genitori poveri e meschini della tribù di Giuda o di Issacar. A queste condizioni di vita misera e stentata risale forse la sua indole inceppata, incerta e oppressa. Perché egli nel Vangelo appare chiaramente un melanconico; Giovanni, fine ritrattista nonostante tutta la sua sublimità, riferisce in tre passi poche parole di Tommaso, ma essenziali; si danno pure talora delle espressioni, che, per quanto brevi e laconiche, fanno passare dinanzi alla mente in un baleno l’intera figura d’un individuo. I Sinottici ricordano Tommaso unicamente nei cataloghi degli Apostoli, all’ottavo posto Marco e Luca, al settimo Matteo; nel Canone della Messa e nelle Litanie dei Santi, persino anzi negli Atti degli Apostoli egli non viene dopo i colleghi Filippo, Bartolomeo e Matteo, che nei Vangeli lo precedono, ma prima di loro, quale qualificato ed importante teste della risurrezione. Tommaso però, nonostante questi compagni d’apostolato a destra e a sinistra, ci lascia l’impressione d’essere in qualche modo solo e sperduto nella serie dei Dodici, enumerati nei cataloghi; se si paragonava con gli altri, come amano fare i melanconici, si vedeva inferiore e l’ultimo di tutti; non avevano tutti gli altri preminenze e privilegi, ch’egli non aveva? Pietro era il primo nel potere, Giovanni il primo nell’amore, Andrea e Giacomo potevano fruire del sole delle prerogative dei loro grandi fratelli, Filippo aveva il suo allegro amico Bartolomeo e Bartolomeo aveva il suo Filippo, Matteo era una persona esperta e ricca, mentre Giacomo Minore, Taddeo e Simone erano fratelli di Gesù, come scriveremo a suo luogo; è vero che questi ultimi venivano dopo di lui, Tommaso, ma questo era dovuto solamente alla nobile delicatezza del Signore, che ai suoi parenti aveva assegnato gli ultimi posti; infine Giuda Iscariote, il collega incomodo e quasi malsicuro, godette tuttavia la fiducia, in vista della quale poté tener la cassa; solo Tommaso dunque se ne sta senza titoli e rapporti d’intimità, solitario, ultimo di tutti. Queste nostre supposizioni — non pretendono essere di più — non saranno giudicate infondate, se i testi evangelici, riferentisi a Tommaso, vengono considerati in tutta la loro portata. Tommaso compare la prima volta in precedenza alla risurrezione di Lazzaro, poche settimane prima della passione del Signore. Maria e Marta, le sorelle addolorate di Lazzaro, di lassù a Betania avevan inviato a Gesù un corriere, perché in quel tempo, dinanzi alle intenzioni omicide dei suoi nemici, Egli si era ritirato nella regione della Perea. Quand’ebbe appreso della grave malattia di Lazzaro, Egli diede l’oscura e misteriosa risposta: « Questa malattia non conduce alla morte, ma serve alla glorificazione di Dio; il Figlio di Dio sarà glorificato per essa »; soltanto due giorni dopo disse ai suoi Discepoli: « Andiamo di nuovo in Giudea! »; i Discepoli, costernati e impauriti fino nel fondo dell’animo, Gli opposero: « Maestro, appena ora i Giudei volevano lapidarti, e Tu vuoi andar là nuovamente? »; quando parlò loro del « sonno » di Lazzaro, essi non badarono volutamente al vero senso di quella parola per potervisi aggrappare avidamente: « Signore, se dorme, guarirà nuovamente »; nonostante però questo affannoso sotterfugio, Gesù rimase fermo nella sua decisione di mettersi in quel viaggio pericoloso, che doveva farGli incontrare la morte. Fu Tommaso, che in quel momento gridò, triste e fedele insieme, agli Apostoli suoi compagni: « Andiamo insieme e moriamo con Lui! ». Uscita piena di malinconia e di amore! Egli, melanconico com’era, s’era già immaginate le ultime vicende e le vedeva certamente oscure; non fa accettare a se stesso nessuna consolante bugia né si lascia illudere, come gli altri, da palme e da osanna; egli vede arrivare ore nere, nerissime; qualora però il Signore, nonostante tutti i moniti dei suoi Discepoli, voglia avviarsi alla sua fine, questo non Gli deve capitare da solo; noi, noi tutti andiamo con Lui e con Lui moriamo! Pietro, dopo il primo annunzio della passione, nella sua impetuosità, aveva gridato ben diversamente per un timore nei riguardi del Maestro e… di se stesso: « Lungi da Te, o Signore! Questo non Ti deve accadere! ». La parola di Tommaso è più matura, più grave, come una spiga che abbandonandosi si piega verso il suolo, dal quale è cresciuta. Nel quadro dell’ultima Cena di Leonardo da Vinci Tommaso, il secondo a sinistra di Cristo, Lo assicura con forza e quasi minaccioso della sua fedeltà. L’evangelista Giovanni riferisce anche la seconda espressione di Tommaso, melanconica quanto la prima, ch’egli disse nel Cenacolo. In quell’ora dolorosa il Signore era tutto intento ad aiutare i suoi Discepoli a togliersi dal proprio cuore mortalmente triste, inconsolabile per il dolore della separazione; e la prima consolazione, ch’Egli offrì loro, fu l’arrivederci nella sua gloria presso il Padre: « Il vostro cuore non tema! Credete in Dio e credete in Me! Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore; se così non fosse, ve l’avrei detto. Io vi vado per preparare a voi un posto; quando vi sia andato e abbia preparato un posto per voi, allora torno di nuovo e vi prendo con Me, perché anche voi siate dove sono Io ». Per richiamarli ai suoi precedenti discorsi e insieme per invitarli a uscire dall’opprimente silenzio, entrando in colloquio con Lui, Egli dice ancora quasi incidentalmente: « Dove Io vado voi lo sapete, e anche la via sapete »; e non vi fu nessuno che replicasse parola; solo Tommaso, in preda a desolazione commovente, confessò: « Signore, noi non sappiamo dove Tu vada, e come possiamo conoscere la via? ». Dice bene « noi », perché è sicuro che nemmeno gli altri avevano investigate le vie e le mete del Signore, « le sue vie sono ininvestigabili! », ma gli altri non ebbero la franchezza di aprire dinanzi a tutti la loro interna incertezza; Tommaso invece, che soffriva più di tutti per la gravità della situazione, non trattenne la sua domanda, ma con franchezza pose lealmente la sua anima straziata dinanzi al Signore. E Gesù, con grande comprensione per l’intimo tormento del suo Apostolo, gli disse una parola, che è fra le più regali di tutto il Vangelo, perché consentiva al riflessivo e sofistico Tommaso di dare uno sguardo nelle profondità del Maestro e anzi negli abissi dello stesso Iddio Trino, oscuri per la troppa luce: « Gesù gli rispose: “Io sono la via e la verità e la vita. Nessuno va al Padre se non per Me. Se voi Mi conosceste, conoscereste anche il Padre mio. Da questo momento Lo conoscete, L’avete anzi già visto” ». Questo splendido sguardo sulla nostra eterna dimora familiare col Padre e col Figlio e sulla via che ad essa conduce, che è Cristo, noi lo dobbiamo al tormento e alla domanda di Tommaso. Ma egli, per la sua indole e a salvezza di tutti, ha patito un’altra volta e ancor più dolorosamente nel tormento del suo dubbio, mentre risuonava giulivo l’Alleluia della prima settimana pasquale. – Tommaso, più d’ogni altro Apostolo all’infuori di… Giuda, aveva previsto il Venerdì Santo con chiarezza inesorabile; nelle profondità del loro cuore fondamentalmente diverso, tutti e due, il melanconico e il traditore, sapevano della sorte, che s’avvicinava al Signore; ma in una piega di quel cuore Tommaso — ah, Giuda stesso forse! — sperava che il Signore avesse il dominio della difficile situazione e la cambiasse; quando però la passione del Signore, come una catastrofe della natura, prese irrefrenabile il suo corso, e si succedettero cattura, condanna, crocifissione e morte, Tommaso fu schiacciato dal peso della realtà; questo per lui era troppo; da questo colpo non si rialzerà più. – Il Venerdì Santo aveva scosso anche gli altri Apostoli. Gli increduli veramente sostengono che essi, per un’intima speranza, erano febbricitanti nell’attesa della risurrezione, tanto che finirono per crearsene la persuasione; frattanto le relazioni evangeliche dimostrano inequivocabilmente che gli Apostoli non avevano della resurrezione nemmeno l’idea, tanto meno potevano nutrirne la speranza; alla  fine essi si arresero non ai sogni, ma unicamente ai fatti. Quando Maddalena gridò loro il primo messaggio pasquale, li incontrò « compagni afflitti e piangenti; quand’essi udirono ch’Egli vive ed è apparso a lei, non credettero » ; disorientati e tristi erano pure i discepoli, che andavano in Emmaus; anzi, quando il Signore stesso la sera di Pasqua irruppe come sole nella sala, persino in quel momento « credettero per l’angoscia e lo spavento di vedere uno spirito. Allora Egli disse a loro: “Perché siete così sbigottiti e per qual motivo pensieri sorgono nei vostri cuori?” ». In quell’ora del primo incontro con tutti, il Signore di sua iniziativa aveva concesso la prova palpabile, che poi avrebbe desiderato tanto anche Tommaso: « Guardate le mie mani e i miei piedi! Sono proprio Io; palpateMi e vedete! Uno spirito non ha carne né ossa, come vedete in Me ». Allora soltanto, come su monti dopo una notte di paurosi temporali, il Sole pasquale si levò su quegli uomini, persino in quel momento timidi e tremanti, come la prima luce dorata, che piove sulle nostre vette, quasi tutto quello che osservavano fosse troppo bello per esser vero: « Per la gioia non potevan ancor credere, ma solo stupivano », finché « Egli mangiò dinanzi ai loro occhi ». – Fatalità volle, si direbbe quasi, che Tommaso, proprio Tommaso, che aveva bisogno della Pasqua con più urgenza di tutti gli altri, non avesse a godere di quella prima ora del tripudio pasquale: « Tommaso non era con loro quando venne Gesù ». Ma perché no? solo per caso? Giovanni tace, e certo per sommo di delicatezza, che il povero, perplesso ed esacerbato collega era sul punto di ritirarsi dal loro gruppo; ché la sua speranza era stata lacerata e la sua fiducia delusa troppo crudelmente; che sta a cercare ancora nel gruppo dei delusi come lui? Quando gli altri andarono con fraterna bontà e in pienezza di gaudio a riferirgli, nella sua pericolosa solitudine, l’Alleluia: « Abbiamo visto il Signore», egli ne fu amareggiato; non era disposto a credere al loro messaggio così, per sentito dire; si è già proposto come norma, di non cadervi più dentro; del resto, se il Signore è veramente risorto, perché è apparso a tutti gli altri e solamente a lui no? non lo meritava quanto gli altri? Era l’ultimo degli Apostoli, sta bene, ma tuttavia era sempre uno dei Dodici; se al Signore non importa più di Tommaso, a che pro allora credere? E a questa maniera il poveretto passava di palo in frasca, avviluppandosi sempre più nel dubbio, nel rancore e nell’amarezza. Una cosa, un’unica cosa ammette ancora: « Se non vedo nelle sue mani il livido dei chiodi » — e frattanto dentro di sé va formulando la riserva: « vedere » soltanto non è ancora sicuro, perchè vedere può ingannare —, « se non posso mettere il mio dito nel posto dei chiodi e la mia mano sul suo fianco, non credo ». – Per la gioia pasquale degli Apostoli Tommaso era come un’ombra densa: se lo minacciasse una sorte simile a quella di Giuda? S’adoprarono per strappare il pericolante dall’abisso dell’incredulità; andò il buon Pietro e gli raccontò cento volte quello, ch’era avvenuto il dì di Pasqua; anzi per far animo al poveretto, gli confessò il peccato del proprio rinnegamento; andò Andrea, andò Giovanni, andarono a lui i discepoli di Emmaus, andarono le pie donne. Invano! A tutti egli oppose la sua ostinata condizione per dare la sua adesione. Alla fine, spossato, accondiscese almeno a non allontanarsi per allora dalla comunità, ché il Signore alla comunità s’era pur fatto vedere; però sedeva fra gli Undici come un assente; la gioia degli altri lo turbava, si sentiva straziato. In tali condizioni nessuno più poteva soccorrere, se non il Signore soltanto! La salvezza di Tommaso dipendeva unicamente dalla sua misericordia; la festa del nostro Apostolo viene celebrata nel giorno più corto dell’anno, quando il sole sta al suo punto più basso: anche nella sua anima stette il Sole tanto in basso, che egli riteneva non dovesse più levarsi. – « La pace sia con voi! »: fu come il canto d’un organo nella sala chiusa degli Undici. Il Signore! Veramente il Signore! Lui solo può entrare nelle sale e nelle anime chiuse. Era venuto per Tommaso; perché Egli è il buon pastore, che corre dietro alla pecorella smarrita finché non la ritrovi, e un Apostolo è in tanta dignità che per lui Egli si fa persino visibile e palpabile; aveva già rintracciato Pietro nel suo peccato e l’aveva ricondotto a Sé; Tommaso non è da meno dinanzi a Lui; lo va dunque a prendere nella pena dell’astio e del dubbio per condurlo al focolare della sua pace. E Gesù riprende sulle sue labbra, parola per parola, quella caparbia condizione richiesta da Tommaso per poter prestar fede: « Metti il tuo dito qui e vedi le mie mani! Stendi la tua mano e mettila sul mio fianco! »; e anche il biasimo suona come un balsamo: « Non essere incredulo, o Tommaso, ma credente », « fidelis — fedele », come con maggior profondità dicono il testo greco e latino. La sala era dominata da un grave silenzio; sembrava che non vi ci si trovassero che Gesù e Tommaso soltanto; mai la realtà divina e il dubbio umano stettero così vicini, faccia a faccia, l’una di fronte all’altro come qui: Tommaso, il povero rappresentante del dubbio, deve ora vedere e toccare a tranquillizzazione di tutti gli scettici. Egli vide il corpo luminoso; vide le rosse cicatrici delle ferite, come rose fiorenti, nel centro delle mani; vide la ferita del fianco, la porta aperta che mette nel Cuore di Dio; vide il Cuore palpitante, che, come acceso rubino, riluceva dietro a quella ferita tremendamente preziosa. Ne aveva abbastanza; non desiderò più di palpare quello che aveva visto; vinto dalla realtà e più ancora dalla carità del Signore, che è la suprema realtà, Tommaso si gettò a terra singhiozzando e abbandonò al Signore le profondità del suo spirito, tutti i lamenti non proferiti, tutte le questioni non sciolte, tutte le brame non saziate: « Mio Signore e mio Dio! Mio Signore e mio Dio! ». Nessuno degli Apostoli finora aveva chiamato il Signore « Iddio » così chiaramente, nemmeno Pietro nella sua professione a Cesarea di Filippo; il dubbioso e sofferente Tommaso fu il primo di tutti a fissare Cristo nel diadema della sua divinità; ed era stato precisamente il suo bisogno, che l’aveva condotto al Signore e a Dio, al « suo Signore, al suo Dio ». – L’evangelista Giovanni intendeva di concludere il suo Vangelo con l’episodio di Tommaso; quello ch’egli riferisce dopo nel capitolo ventunesimo: l’apparizione di Gesù al lago di Tiberiade, è solo un complemento, che aggiunse più tardi; la parola conclusiva, che Gesù disse a Tommaso, doveva riecheggiare nei lunghi millenni della fede, in quel momento al loro inizio, come un « Amen » vigoroso, riepilogante il Vangelo intero: « Perché Mi hai visto, Tommaso, tu credi. Beati coloro, che non vedono e però credono ». Questo non vedere e tuttavia credere è un atto umanamente e divinamente così sublime, che Pietro nella sua prima lettera gli rende apertamente omaggio: « Voi L’amate (Gesù Cristo), sebbene non L’abbiate visto; credete in Lui, sebbene non L’abbiate sotto gli occhi. Per questo esulterete di gioia inesprimibile e gloriosa, se raggiungete lo scopo della vostra fede, la salvezza delle anime » 13. Tommaso, che credette solo per aver visto, fu dal Signore chiamato per rassodare nella fede tutti coloro, che credono, sebbene non veggano; fu dunque disposizione provvidenziale, non fatalità, ch’egli la prima sera di Pasqua non fosse con gli altri; il suo dubbio doveva prevenire il nostro; nella sua incertezza doveva trovare base inconcussa la nostra sicurezza; egli passò vicino vicino all’infelicità, perché noi fossimo beati della nostra fede. Noi quindi dobbiamo un grazie cordiale all’« incredulo » Tommaso: egli ha sofferto il dubbio, uno dei tormenti più spaventosi dello spirito umano, per nostro vantaggio; la sua ferita doveva servire alla nostra salute. Tommaso è davvero « Didimo », un duplice, un gemello, perché con la sua fede ebbe i suoi natali anche la nostra. Vorremmo dirla un’amabile ironia quella del 21 dicembre, quando, pochi giorni prima di Natale, la Liturgia previene il presepio di Betlem colla festa di Tommaso e presenta al Bambino il Santo irremovibile. Ivi, ai piedi del Bambino divino, egli recita per i sofistici e i melanconici di tutti i tempi la sua profonda e insieme infantile preghierina: « Mio Signore e mio Dio! Mio Signore e mio Dio! ».

L’APOSTOLO

Gli Scritti Sacri non forniscono nessuna notizia intorno alle ulteriori vicende della vita di Tommaso; gli Atti degli Apostoli, ad esempio, non hanno conservata nessuna parola di lui, non ci informano di alcuna lettera sua. Ma potrebbe egli accomiatarsi dal Nuovo Testamento in modo più bello che con la sua professione nel Signore e Dio Gesù Cristo? Le notizie della tradizione ci indirizzano tutte verso oriente, verso la terra del sole levante, anzi nella leggenda siriaca e armena egli appare quale Apostolo principale dell’Oriente. Le antiche informazioni, capeggiate dallo stesso Origene (+ 253), parlano d’una attività apostolica di Tommaso fra i Parti; vengono ricordati pure i popoli dei Medi, Persiani, Ircani e Bactriani, che abitavano i territori degli odierni Iran, Irak, Afganistan e Belucistan; una leggenda deliziosamente ingenua dice che Tommaso incontrò fra i Persiani gli stessi Maghi, che un dì avevano reso omaggio al Bimbo di Betlem, e amministrò loro il battesimo. – La leggenda, secondo la quale Tommaso si sarebbe spinto ancor più innanzi, sino cioè alla vera India odierna, ebbe a suo favore anche scrittori cattolici solo dalla metà del secolo quarto; questa notizia non è in sé inconciliabile con le più antiche; nell’India stessa è sopravvissuta sino ad oggi l’opinione che Tommaso giungesse nella regione per la « via di seta », attraverso cioè la Persia e il Tibet. Quasi negli stessi anni, molti fuggitivi giudeocristiani sarebbero arrivati per via di mare in Cochin, dove il nostro Apostolo avrebbe faticato, finché più tardi si sarebbe inoltrato nel Travancore. Una antica tradizione siriaca chiama Tommaso « guida e maestro della Chiesa dell’India, ch’egli fondò e resse ». I così detti « Cristiani di Tommaso », che sono sopravvissuti sino al nostro tempo nella costa del Malabar — quelli uniti a Roma ascendevano nel 1937 a 700.000 credenti —, vedono in questo Apostolo il loro padre spirituale. Nonostante però tutti questi indizi, che pur meritano considerazione, la scienza cristiana trova difficoltà ad ammettere come efficaci le prove, che si adducono a favore d’un’attività di Tommaso nell’India. V’è anche un’altra opinione, secondo la quale egli avrebbe predicato il Vangelo addirittura in Cina; ma neppure questa si può dimostrare storicamente vera. Ancor più incerte e in gran parte fantastiche sono le informazioni sull’attività apostolica di Tommaso, che rigurgitano di miracoli; forse nessun altro Apostolo è stato quanto lui, l’« incredulo », soffocato dalla esuberanza della leggenda. Tutte queste notizie leggendarie dipendono dagli « Atti di Tommaso » apocrifi, che furono scritti nella prima metà del secolo terzo in ambienti gnostici, probabilmente a Edessa, e ben presto furono rielaborati da un cattolico siriaco o greco. Il loro contenuto in breve è il seguente: nella spartizione del mondo fra gli Apostoli, Tommaso tirò la sorte per l’India, ma per un sentimento di paura si rifiutò d’andarvi; per questo è venduto dal Signore stesso come schiavo al commerciante indiano Abbanes, che per incarico del suo re Gundaphar — alcune monete ritrovate attestano che un re indiano di nome Gundaphar fra gli anni 20-50 dopo Cristo è storicamente esistito — cerca un architetto. Tommaso, insieme con Abbanes, s’incammina silenzioso per il viaggio in India; il re accorda piena fiducia allo sconosciuto « architetto » e mette a sua disposizione enormi ricchezze per la costruzione del palazzo reale; l’Apostolo dispensa queste somme, fissate per la costruzione, ai poveri, con la motivazione che facendo così egli costruiva al re un palazzo in Cielo. Il principe inviperisce; ma gli appare il fratello defunto che lo rassicura della verità e della magnificenza di quel palazzo all’al di là, costruitogli da Tommaso; il re e suo fratello, risorto a nuova vita, si fanno battezzare. Tommaso s’inoltra nel regno vicino, dove induce parecchie donne di stirpe principesca a eleggere la verginità anziché il matrimonio — idee gnostiche, ostili al corpo e al matrimonio fanno spesso capolino proprio negli Atti di Tommaso —; per questo il re Mazdai ordina a quattro soldati di infilzarlo nello spiedo. La morte di spiedo sarebbe sino ad oggi una punizione per i delitti politici secondo la costituzione del Siam. Come luogo della morte, la tradizione ricorda « Kalamina », località, che sino ad oggi non si è potuta identificare con certezza; forse è in relazione col grande « monte di Tommaso » presso Mailapur, sul quale nel 1547 fu costruita una chiesa in onore dell’Apostolo Tommaso, supponendolo il luogo della sua morte; sull’altare si trova la croce di pietra di Tommaso, con iscrizioni del sesto, settimo e ottavo secolo. – È difficile sceverare nella leggenda di Tommaso la verità dalla finzione. Verso la metà del secondo secolo lo gnostico Eracleone afferma che l’Apostolo morì di morte naturale. La chiesa di Edessa si gloria del suo sepolcro, che in una predica il Crisostomo enumera fra i quattro sepolcri conosciuti degli Apostoli; la leggenda indiana cerca di andare incontro a questo dato, mentre riferisce che la maggior parte delle reliquie di Tommaso fu trasportata a Edessa nel secolo terzo; nel 1258 sarebbero passate da Edessa nell’isola greca di Chios e di qui, più tardi, a Ortona, dove attualmente sono onorate. All’Apostolo Tommaso vengono anche attribuiti diversi scritti, che però sono tutti apocrifi. Un « vangelo di Tommaso », ch’era sorto in ambienti di gnostici Naasseni, andò perduto; frammenti di quest’opera gnostica più estesa si trovano probabilmente nell’odierno « vangelo di Tommaso », che riferisce numerose leggende intorno all’infanzia di Gesù con profusione di chiacchiere: il bambino Gesù, ad esempio, in giorno di sabato, avrebbe plasmato degli uccellini di creta; al richiamo fatto da un giudeo a Giuseppe per l’infrazione del riposo sabbatico, il divino Infante avrebbe battute le mani e gli uccellini di creta se ne sarebbero volati via. L’unico pregio di questa e simili favole per il nostro tempo sta nel fatto, che, confrontate con i Vangeli genuini — si pensi, ad esempio, alla storia dell’infanzia di Gesù in quello di Luca —, ne mettono in risalto la dignitosa serietà. – Al nostro Apostolo risalirebbe pure un’« Apocalisse » dal titolo: « Lettera di nostro Signore Gesù Cristo al discepolo Tommaso ». Questo scritto, che è già stato condannato dal Papa Gelasio I alla fine del quinto secolo, va ciarlando sugli orrori degli ultimi sette giorni prima dell’ultimo giudizio, tre dei quali sarebbero dominati dalle tenebre. Tommaso viene pure messo in relazione con la leggendaria lettera del Signore al re di Edessa Abgar: quella lettera sarebbe stata scritta, per incarico di Gesù, dallo stesso Tommaso, che, dopo l’ascensione di Cristo, avrebbe inviato al principe Abgar Taddeo, uno dei settantadue discepoli, per guarirlo dalla sua grave malattia. – Frattanto quello, che di veramente storico ci fu trasmesso intorno a Tommaso nel Vangelo stesso, ci offre elementi più sicuri per delinearne l’attività apostolica che non gli apocrifi, così fantastici e smaniosi di miracoli. Qualche moderno fanatico dell’eugenica avrebbe sentenziato che Tommaso era inetto alla vita, ne era anzi indegno; poiché a che scopo un simile melanconico, che rende pesante la vita a sé e agli altri? E invece quali grandi cose non possono realizzare appunto tali uomini, qualora una mano benevola li aiuti a uscire dalla loro crisi! Dopo il consolante miracolo, che la divina misericordia operò la sera della seconda domenica di Pasqua, Tommaso fu libero dal fardello del proprio pesante « io » e non appartenne ormai che al Signore; portò ancora solo un carico, quello della riconoscenza, d’una riconoscenza tanto grande, da non potervi soddisfare in eterno; egli va debitore solo alla misericordia del Signore se non è divenuto apostata, ma è rimasto Apostolo; come per Paolo, il persecutore domato, così anche per Tommaso, l’incredulo richiamato, lo stimolo che lo spinse innanzi fu la misericordia del Signore. È profondamente simbolico che, secondo le notizie della storia o della leggenda, proprio questi due Apostoli abbiano lavorato nelle regioni più remote, Paolo in Spagna, ai confini dell’Occidente, e Tommaso in India, ai confini dell’Oriente; l’amore di Cristo infuocato e impellente spingeva i due sempre più avanti, più avanti ancora, come un fuoco, che mai si fa sazio. – L’attività apostolica di Tommaso dovette essere sicuramente mite, benigna, quasi tenera, come il suono d’una campana, cui, nel laborioso processo di fusione, sia stato infuso molto argento; Tommaso sapeva per propria esperienza le tremende possibilità del cuore umano. In uno scritto d’autore ecclesiastico orientale, nel sermone Bachios sul giudizio nella valle di Giosafat, il Signore rivolge la parola a Tommaso, esortandolo amorevolmente: « Tommaso, mio diletto, sii compassionevole verso il mio popolo, gli occhi del quale guardano a te, come presso di te fosse la risurrezione. Ricordati della mia amicizia con te nel giorno della tua incredulità! Io ti confortai e dissi a te: “Vieni, Tommaso, metti la tua mano sul mio fianco! Vieni, Tommaso, metti il tuo dito nella mia mano!”. Sappi, o Tommaso, mio diletto, ch’Io sono un cuore pietoso e misericordioso. Io ho accordato a voi la misericordia fin da principio. Voglio che voi la esercitiate oggi nella mia compassione, oggi ». Ascoltiamo qui messo in bocca al Signore quello, che nell’intimo del suo cuore Tommaso stesso si diceva continuamente; lui, che sa, perché gli fu usata compassione, aveva troppo sofferto per non capire anche gli altri, che avevano il cuore esulcerato. Ma era in grado di capire soltanto? Il sofferente e dubbioso Tommaso, su di cui il Sole pasquale era sorto in magnificenza particolare, poteva non solo capire le oscurità umane, ma anche illuminarle; con profondo intuito la leggenda gli attribuisce l’articolo del Simbolo apostolico: « Discese all’inferno; il terzo giorno risuscitò nuovamente da morte »; egli non deve annunziare melanconia e neppure compassione soltanto, ma anche Alleluia, quell’Alleluia, ch’egli attinse, come da una fresca sorgente, con mano tremante, dal Cuore del Signore. Oh, quel luminoso Cuore del Signore! Due Apostoli nel Vangelo ci vengono ricordati presso il Cuore del Signore, Giovanni e Tommaso, l’amante e il sofferente, e si direbbe quasi che il sofferente vi sia penetrato più a fondo dell’amante, anzi che tutto il significato della sua grande meschinità fosse spingerlo nelle profondità consolatrici di quel Cuore. Una bella leggenda riferisce che la mano di Tommaso, che s’era posata sul fianco di Gesù, rimase intrisa di sangue per tutta la sua vita: Tommaso non potrà dimenticare mai più quel fianco rosso e rifulgente; esso gli rischiarerà tutte le vie della vita. – La bella testa di Tommaso, che seppe creare il Rubens, ci commuove: quel volto purificato e maturato nel dolore, quella fronte solcata, che ha rimuginato tanti pensieri e sollecitudini, quegli occhi, che han vegliato molte notti e han pianto molte lacrime ci guardano stanchi e miti. Ora tutto è superato; la via, che un dì Tommaso disse sospirando di non conoscere, è percorsa e il buon vegliardo è già soffuso della luce del porto eterno. Oh, come dev’essere bello un giorno aver conservata la fede, aver combattuta la battaglia, aver sofferto lungo la via e trovarsi alla meta, nel Cuore del Signore, ove ogni inquietudine si trasfigura nella quiete! San Tommaso, prega per noi!

LA GRAZIA E LA GLORIA (60)

LA GRAZIA E LA GLORIA (60)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO XI

IL CARATTERE SOPRANNATURALE E GRATUITO DEI DONI FATTI DA DIO AI SUOI FIGLI. – UN’ULTIMA PAROLA SULL’ECCELLENZA DELLA GRAZIA E DELLA GLORIA.

CAPITOLO IV

Una parola finale sulla grandezza soprannaturale della Grazia e della Gloria.

1. – Abbiamo detto abbastanza per concepire, almeno imperfettamente, a quali altezze al di sopra della natura, delle sue perfezioni e delle sue legittime pretese, Dio si è compiaciuto di elevarci, quando ci ha adottati come suoi figli, da schiavi che eravamo per la nostra origine e ancor più per il nostro peccato. Un testo di San Paolo ce lo mostrerà forse in modo ancora più eclatante. « È per grazia di Dio – dice questo grande Apostolo – che sono quel che sono: Gratia Dei sum id quod sum » (1 Cor. XV, 10). Studiamo e meditiamo su tutto il significato contenuto in una frase così profonda. « Io sono colui che è – rispose Dio a Mosè che gli chiedeva il suo nome. E questo è ciò che dirai ai figli d’Israele: “Colui che è”, mi ha mandato a voi » (Esodo III, 15). Dio è Colui che è, perché è l’Essere stesso; « perché Egli stesso è per Sé stesso e per tutte le cose, e perché è in un certo modo l’unico Essere, essendo il suo Essere e l’essere di tutti » (San Bernardo de Consid., L. V. c. 6, n. 13: Ipse sibi, ipse omnibus est, ac per hoc quodammodo ipse solus est, qui suum ipsius est et omnium esse »). – Egli è Colui che è; tutti gli altri esseri, le sue creature, rispetto a Lui sono come se non fossero. « Tutta la mia sostanza – grida Davide – è come un nulla davanti a Voi » (Sal. XXXVIII, 6). « Alla Sua presenza – dice Isaia – le nazioni sono come una goccia d’acqua nel fondo di un vaso, come un granello di sabbia in una bilancia e le isole come una polvere leggera. Non basta dire: « Tutti i popoli sono davanti ai suoi occhi come se non lo fossero; sono per Lui come un vuoto nulla » (Is. XL, 17). Chi siete dunque Voi, o mio Signore e mio Dio? L’Essere per eccellenza, l’Essere. E cosa sono se mi misuro con Voi? Un’ombra dell’Essere, un nulla. E ora chiedo al vostro Apostolo: quali sono tutti i beni naturali che posso trovare in me stesso, per quanto grandi e preziosi possano essere per gli uomini ciechi, in confronto alla grazia consumata, anche quella che è ancora allo sbocciare? Un nulla. Perché? Perché questi doni mi costituiscono o mi perfezionano tutt’al più, al massimo nel mio essere umano, mentre la vostra grazia, la più alta ed incomprensibile partecipazione della vostra natura, mi conferisce un essere divino. Dio, dunque, dicendo: Io sono colui che è, ha proclamato l’infinita eccellenza della sua natura; e San Paolo, dicendo con quasi uguale enfasi: È per grazia di Dio che sono ciò che sono, ha dato la vera formula in cui si riassumono gli splendori della vostra grazia e della vostra gloria. – San Paolo era di famiglia onorata; era di condizione libera; era cittadino di Roma; si distingueva per l’eccellenza del suo ingegno. Diciamo di più: San Paolo era potente in opere e taumaturgo; era l’Apostolo delle genti e la loro luce; egli veniva favorito con le più sublimi rivelazioni dal cielo. Tutti questi « Egli ERA », che tuttavia lo innalzano così tanto, rispetto all’essere donatogli dalla grazia santificante e vivificante, non contano: perché è grazie ad essa che egli è e vuole essere ciò che è. – Che cosa sono dunque gli sventurati che non hanno ancora la grazia, o che l’hanno deplorevolmente persa, in confronto ai giusti, arricchiti del tesoro della grazia? Dal modo in cui la Sacra Scrittura ne parla, sembrerebbe che il rapporto tra i due tipi di uomini sia simile a quello delle creature con l’Essere increato. Il Re-profeta, dopo aver glorificato Colui che cammina senza macchia ed opera la giustizia, aggiunge « il malvagio è ridotto a nulla davanti a Lui » (« Ad nihilum deductus est in conspectu ejus malignus », Salmo XIV, 4). Questo è anche il pensiero del Savio: « Quando – egli dice a Dio – un uomo vorrebbe essere una meraviglia tra i figli degli uomini, se la tua sapienza ne è assente, deve essere considerato un nulla » (Sap. IX, 6). In altra parte, i nostri Libri sacri riportano questa ardente invocazione della santa regina Ester al suo Dio: « O Signore, non consegnare il tuo scettro a coloro che non sono », cioè agli empi (Esth. XIV, 11). È ancora Abdia che profetizza delle nazioni, nemiche di Dio, « che saranno come se non fossero » (Abd., 16). Su ciò San Girolamo fa questa osservazione: « Dell’uomo che muore nei confronti di Colui che disse a Mosè: “Colui che è mi ha mandato a voi”, è scritto che egli non è, secondo l’uso della Scrittura ». – Ma perché non dovremmo tornare a San Paolo? Non ha forse scritto di sé questa sentenza per sempre memorabile: « Anche se parlo il linguaggio degli Angeli e degli uomini… anche se penetro tutti i misteri e le scienze, anche se ho una fede che può spostare le montagne, se non ho la carità (in altre parole, se non ho la grazia di Dio grazie alla quale sono ciò che sono), non sono nulla, nihil Sum » (I Cor., XIII, 1, 2). Io ho letto nella Scrittura che gli occhi del Signore si posano con compiacenza sui giusti: e questo perché sono uno spettacolo bello, una cosa grande davanti a Lui, poiché vede in loro l’immagine della sua natura, il santuario della Trinità, altri Se stesso. I peccatori, soprattutto quelli che sono eternamente vuoti di quell’essere che solo la grazia può dare, sono come cancellati dal libro dei pensieri divini. Dio non li conosce più (Mt. XXV, 12), tanto che sono per Lui una cosa senza realtà. – Qual è, dunque, la disgrazia e la follia di coloro che, per amore di miseri beni terreni, per il godimento di un giorno, o forse di un momento, non temono di rinunciare a questa grazia! Dovremmo dire che sono omicidi di se stessi, perché uccidono nelle loro anime il principio della loro vita per eccellenza, la loro vita soprannaturale? La Sacra Scrittura ci autorizza a farlo: « Chi non ama, rimane nella morte », dice l’Apostolo dell’amore (I Joan III, 14). E San Paolo: « La vedova che si abbandona ai piaceri è già morta » (I Tim. V, 6). Questo Vescovo di Sardi, di cui parla l’Apocalisse, « aveva il nome di vivente; ma poiché era infedele, era un uomo morto » (Apoc. III, 1). « Ah – dice San Girolamo – quanti sono oggi coloro che, sotto l’apparenza della vita, portano in sé i loro funerali e, simili a sepolcri imbiancati, sono pieni delle ossa dei morti! » (S. Ierome, ep. 43; Simeone, Jun, Divin amor, c. 31, P. G. t. 120,). – Di certo si può dire che ogni peccatore è l’assassino di se stesso. Lungi dall’essere un’esagerazione, questo è un rimanere al di sotto della verità: perché egli si annienta in un certo senso, quando distrugge il suo essere per eccellenza, l’essere divino. « Questo popolo stolto non mi ha conosciuto; sono figli stupidi e senza cuore, abili nel male e non più capaci di fare il bene. Ed io ho considerato la terra, ed ecco che essa era vuota e come nulla… ho riguardato e non c’erano più uomini » (Geremia, IV, 22, 23, 25). È un’immagine troppo viva di un mondo in cui Dio non regna nei cuori. Contraddire queste affermazioni significherebbe accusare di menzogna i Profeti, gli Apostoli e lo stesso Spirito Santo che le ha dettate nei nostri Libri Santi; e pretendere di vedervi uno di quei giri poetici che la fredda ragione deve riportare nella giusta misura, significherebbe chiaramente solo ingannare se stessi. (San Tommaso, in diversi punti delle sue opere, tratta una questione che tocca da vicino il nostro argomento. Si può odiare se stessi? « No – egli dice – nessuno, propriamente parlando, può odiare se stesso: perché ogni essere desidera così naturalmente il proprio bene, che non può desiderare il male in quanto male. Pertanto, poiché amare è volere il bene, è necessario amare se stessi. Tuttavia, capita per accidente di odiare noi stessi, e questo in due modi. In primo luogo, in relazione al bene che vogliamo per noi stessi: a volte, in effetti, il bene ricercato, essendo un bene relativo, è semplicemente cattivo in sé. Ora, cercare per sé ciò che è assolutamente un male, è un non amarsi, un odiarsi, poiché odiare qualcuno significa volergli del male. – In secondo luogo, in relazione a se stessi, a cui si vuole del bene. Ogni cosa è innanzitutto ciò che vi è di migliore e di più importante in sé. Pertanto, le nazioni dovrebbero fare ciò che il loro re fa in questa qualità, come se il re fosse l’intera nazione. È evidente che l’uomo è principalmente spirito e ragione. Eppure, ci sono uomini che stimano al di sopra di tutto in se stessi ciò che sono per la loro natura corporea e sensibile. Pertanto, amando se stessi in base a ciò che ritengono di essere, odiano ciò che essi sono realmente, quando perseguono ciò che sia contrario alla ragione. Ed è in entrambi i modi che chi ama l’iniquità non solo odia la propria anima, ma odia anche se stesso. » – 1. 2, q. 29, a. 4; col. 2, q. 25, a. 7. Di contro, nessuno ama se stesso come coloro che, nel conflitto dei beni e delle tendenze, preferiscono l’uomo interiore all’uomo esteriore, cosicché non c’è per loro alcuna deviazione nel giudizio che danno del loro essere, né alcuna deviazione nell’amore. Per questo il Salvatore ha detto: « Chi ama la propria vita la perderà, ma chi odia la propria vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna » (Giovan. XII, 25). Non ci saranno mai espressioni abbastanza forti per esprimere le eccellenze dello stato di grazia e per farci sentire ciò che perdiamo perdendola. Il peccatore rimane senza dubbio un uomo, poiché conserva la sua natura umana; ma è un “dio decaduto”, poiché non partecipa più alla natura divina. Immaginate un re potente, rispettato, vittorioso, arbitro del mondo. Improvvisamente le avversità si abbattono su di lui: sconfitto, schiacciato da un avversario spietato, viene cacciato dal suo palazzo, espulso dal suo impero, senza corona, senza seguito, senza risorse, ridotto all’estrema angoscia: un nuovo Giobbe su un altro letamaio. Chi dirà che non abbia perso tutto, benché gli resti ancora qualche brandello per nascondere la sua vergogna e coprire la sua miseria? Ma la perdita della grazia è infinitamente più disastrosa, perché la distanza dal possesso dell’Essere divino allo stato di natura decaduta è incomparabilmente più grande che il cadere dallo splendore più regale all’estrema povertà. Questo perché, secondo le forti parole di San Tommaso: « il bene di una singola grazia supera il bene naturale di tutto l’universo » (S. Thom., 1. 2. Q. 113, a. 9, ad 2).

2. – Perciò, di tutte le opere di Dio, la più nobile, la più eccellente, è la produzione della grazia e della gloria. Un bambino che esce giustificato dalle acque del Battesimo è una testimonianza più eclatante della virtù divina di migliaia di mondi prodotti per ordine di Dio. Dal punto di vista del modo di agire, è vero che la creazione prevale sulla giustificazione del peccatore, poiché parte dal puro nulla; ma, se guardiamo alla grandezza del termine, è la giustificazione ad avere una singolare preminenza (S. Thom., 1, 2, q. 113, a.9). – È secondo questa idea che Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di San Giovanni, interpreta le parole del Signore: « In verità vi dico: chi crede in me farà le opere che io faccio; ne farà anche di più grandi ». « Ascoltate dunque e comprendete: chi crede in me farà le opere che Io faccio; Io faccio per primo e lui dopo di me, perché Io lo faccio fare. E di quali opere parla, se non di quelle che trasformano l’empio in giusto? E ne farà di più grandi. E quali, ve ne prego? Fa dunque qualcosa di più grande di tutte le opere di Cristo, colui che opera la salvezza con timore e tremore? È vero, è Cristo che opera in lui, ma non Cristo senza di lui. Sì, dico, c’è un’opera più grande del cielo e della terra, e di tutto ciò che ammiriamo in cielo ed in terra. Il cielo e la terra passeranno, ma la salvezza e la giustificazione dei predestinati rimarranno in eterno. Lì vedo l’opera della mano di Dio; qui contemplo, inoltre, l’immagine di Dio » (S. August., in Joan Tract. 112, n. 3). Se la grazia iniziale, quella che fa in noi « l’inizio della sostanza di Cristo, initium Snbstiantiæ ejus” (Ebr. III, 14); quella che è solo il seme di Dio nelle anime (I Joan., III, 9), e l’alba ancora velata del giorno radioso dell’eternità; se, dico, questa grazia è di tale prezzo e di tale eccellenza, quale sarà allora la grazia consumata nella gloria? Invano cerco di immaginarlo: essendo essenzialmente al di sopra della mia natura, è immensamente al di là di ogni mia concezione. E sento i figli di Dio, che sono venuti alla casa del Padre, gridarmi dai loro troni: Non consumarti in sforzi vani, ma piuttosto: « Vieni e vedi, veni et vide » (Gv. I, 46). « E lo Spirito e la sposa che li hanno generati dicono: “Vieni” » (Ap. XXII, 17). Dovrei esitare a rispondere con San Giovanni: « Sì, io sto per venire”. Amen. Venite, Signore Gesù » (Ibid. 20). – « Grazie a Dio per il suo dono ineffabile. – Gratias Deo super inenarrabili dono ejus »  (II Cor. IX, 15): questo è il canto eterno dei figli adottivi nel loro trionfo. Facciano il cuore ed il sangue di Gesù che siano un giorno il nostro!

F I N E

LA GRAZIA E LA GLORIA (59)

 LA GRAZIA E LA GLORIA (59)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO XI

IL CARATTERE SOPRANNATURALE E GRATUITO DEI DONI FATTI DA DIO AI SUOI FIGLI. – UN’ULTIMA PAROLA SULL’ECCELLENZA DELLA GRAZIA E DELLA GLORIA.

CAPITOLO III

I principali errori riguardanti il carattere del nostro destino soprannaturale e i doni ad esso collegati. Lo stato di pura natura.

1. – Mi è sembrato che queste considerazioni sul carattere soprannaturale dei doni divini richiedessero, come loro naturale complemento, una rapida esposizione dei principali errori che vi si sono opposti. Questo sarà l’argomento del presente capitolo. La dottrina dei Pelagiani sosteneva che i doni della grazia e della gloria appartengono alla costituzione stessa della natura umana; o, per meglio dire, che tutto è naturale nell’uomo, poiché l’uomo ha bisogno solo delle sue forze native per vivere la vita di giustizia ed arrivare alla beatitudine nel seno di Dio. Lutero e i suoi primi seguaci rinnovarono questo errore, anche se sembrano esserne lontani. Da entrambe le parti, vige lo stesso principio fondamentale: la natura umana è sufficiente, indipendentemente da qualsiasi dono soprannaturale sopraggiunto gratuitamente. Ciò che tra essi dissente è che i Pelagiani non riconoscevano il peccato originale mentre Lutero, ammettendolo, lo esagerava fino all’assurdità nelle sue conseguenze. Secondo lui, infatti, la natura umana ha irrimediabilmente perso nella sua caduta la parte migliore di sé, cioè il suo potere di fare il bene: da qui, per l’uomo decaduto, la necessità di una grazia che ripari le rovine della natura. Verso la fine del XVI secolo, Bajo, un novatore la cui avventatezza sulla grazia era strettamente legata all’eresia del Protestantesimo, meritò che la sua dottrina venisse stroncata dalla Chiesa. Egli pretendeva, per vero, di separare la sua causa da quella di Lutero. Infatti, sebbene secondo lui la destinazione dell’uomo alla visione divina e gli atti con cui dobbiamo meritarla e apprenderla siano naturali; sebbene non riconosca alcuna differenza tra l’amore moralmente buono e l’amore soprannaturale meritorio, non arriva a dire, almeno chiaramente, con l’eresiarca, che il principio delle opere sante sia puramente e semplicemente una proprietà della natura. Nelle sue idee, un elemento necessario della salvezza è una certa assistenza dello Spirito Santo, “adjutorium Spiritus sancti“. Ma questa assistenza Dio la deve alla natura; perché la natura non potrebbe, indipendentemente da Dio, arrivare alla sua destinazione naturale, cioè alla visione di Dio. Ecco, dunque, nei suoi principi fondamentali, l’errore di Bajo: per l’uomo, e in generale per tutta la natura intelligente, non esiste altro fine ultimo che la contemplazione faccia a faccia e l’amore beatifico che ne consegue. Qualsiasi altro fine sarebbe indegno dell’immagine naturale di Dio; al di fuori di questo, solo indigenza e miseria. – Pertanto, non esiste più un Soprannaturale assoluto, poiché il destino supremo ed i mezzi per raggiungerlo rientrano nelle esigenze della natura. L’immortalità del primo uomo, la perfetta sottomissione dei sensi allo spirito, la facilità di evitare l’errore, tutti i privilegi che furono così liberalmente concessi al primo padre degli uomini, erano la condizione naturale dell’umanità. Non c’è da meravigliarsi che Bajo, con tali idee, sembri aver considerato un nulla questa grazia infusa dell’adozione, questa partecipazione alla natura divina che ci rinnova nell’uomo interiore e ci eleva al di sopra di tutto l’ordine della natura (Cfr. specialmente tra le 79 proposizioni di Bajo, successivamente condannate in blocco da S. Pio V, Gregorio XIII e Urbano VIII, le prop. 1-7, 12, 17, 21, 23, 24, 38, 62 e 63). Bajo concorda sul fatto che, nello stato attuale della natura riparata, questi stessi doni sono per noi una grazia non in sé stessi, poiché erano dovuti alla natura prima della sua caduta, ma per il modo in cui Dio ce li ha dati. Essi sono, io dico, una grazia, come la vista, miracolosamente restituita a qualche cieco, è gratuita. – Giansenio, nel XVII secolo, ebbe Bajo come ispiratore e maestro. Ma il timore di cadere, come la sua guida, sotto le censure della Chiesa, lo rese più riservato nel suo linguaggio. Non ci risulta che egli abbia mai messo in discussione la grazia abituale o le virtù infuse. D’altra parte, egli insegna espressamente di questa stessa grazia che essa non sia naturale come le proprietà e le potenze che emanano dalla natura, e che si possa darle il nome di grazia. (Se l’opera di Giansenio non fu condannata per questa parte della sua dottrina, ciò è forse dovuto a queste capziose precauzioni. Cf. Jansen., de Statu naturæ puræ, L. I, c. 15 et 20; item, de Statu naturæ innocentis, passim. Si vedrà dagli stessi testi che Giansenio diede il nome di grazia ai doni soprannaturali di cui il nostro primo padre fu arricchito, per la sola ragione che essi non erano dovuti a meriti antecedenti, erano cioè “grazia” allo stesso modo in cui la natura stessa è una grazia). Infatti, per lui come per Bajo, e aggiungiamo noi, come per Lutero e Pelagio, non c’è altro fine ultimo possibile per l’uomo che la felicità soprannaturale dei figli di Dio. Era una necessità dell’ordine che Dio, il Creatore dell’uomo, avesse destinato la creatura a questa beatitudine suprema; una necessità che gli fornisce gli aiuti indispensabili per meritarla: infatti, data la creazione della natura umana, l’ordine delle cose la richiede per essa e quest’ultimo fine e questi mezzi: tanto che Dio non poteva rifiutarla, fintanto che non fosse degradata, senza andare contro l’ordine essenziale. Così Giansenio, come il suo maestro, rovescia da cima a fondo la vera nozione di soprannaturale. – Il veleno della sua dottrina è messo a nudo negli scritti di coloro che furono i suoi discepoli più fedeli. A riprova di ciò, citerò la condanna dottrinale inflitta prima all’oratoriano Quesnel, poi ai teologi dello pseudo-sinodo di Pistoia. In effetti, Clemente XI e poi Pio VI hanno riprovato l’uno dopo l’altro, il primo in Quesnel, il secondo nei giansenisti di Pistoia, questa proposizione ricevuta dal loro comune maestro: « La grazia, come fu nello stato di innocenza, cioè di integrità, di giustizia interiore e di santità primitiva, non era un beneficio gratuito di Dio, ma una conseguenza della creazione, un privilegio dovuto alle esigenze ed alla condizione stessa della natura umana » (Constit. Unigenitus prop. 35: Constit. Auctorem ſidei, prop. 16). Medesima censura nei confronti di un’altra proposizione di Pistoia che negava all’immortalità di Adamo il carattere di beneficio puramente gratuito, per farne la condizione naturale dell’uomo (Cost. Anctorem fidei, prop. 17). – Aggiungo che nel corso del XVII e XVIII secolo si è rinnovata un’opinione che per certi aspetti presenta una spiacevole analogia con gli errori di Bajo e di Gansenio. Essa si ritrova tra alcuni agostiniani, ed il loro capostipite fu proprio un Agostiniano, Gregorio da Rimini, un genio troppo avventuroso, che volle riformare la Scolastica, tornando alla dottrina dei Padri della Chiesa ed in particolare di Sant’Agostino (Cfr. Berti, de Theol. discipl. Addit, ad L. XII, c. 3; Apol, D 2, c. 2, etc; item, 2, II D. 2 c. 1, § 1, n. 12 ss; Belelli, passim). – Secondo questi teologi, l’unico fine in grado di soddisfare i desideri naturali dell’uomo, l’unico adatto alla creatura ragionevole, in quanto ad immagine di Dio, suo Autore, è la visione di Dio. Al di fuori di questo, non c’è felicità possibile, ma solo inquietudine, imperfezione e miseria. Dunque, Dio doveva a se stesso il destinare la sua creatura a questa beatitudine ed il fornirgli i mezzi per raggiungerla. (Alla domanda posta loro: « Può Dio creare l’uomo senza destinarlo alla beatitudine soprannaturale e senza fornirgli al tempo stesso l’aiuto della grazia, indispensabile per ottenerla, gli Agostiniani avevano l’abitudine di rispondere con un distinguo. Poteva farlo di potere assoluto; non poteva farlo di potere ordinato. Per essi il potere assoluto è il potere considerato solo come tale, a prescindere dalle altre perfezioni divine. Il potere ordinato è lo stesso potere, ma agisce sotto la direzione della sapienza, della giustizia e della bontà. Così essi definivano un doppio Potere; non vedendo o non volendo vedere che, secondo queste definizioni, l’unico Potere adatto a Dio è il Potere ordinato. « In noi – dice il Dottore Angelico a questo proposito – la potenza e l’essenza non sostengono né la volontà né l’intelligenza; allo stesso modo l’intelligenza è diversa dalla Sapienza, e la volontà è altro che la giustizia: ecco perché può esserci nella nostra potenza qualcosa che non sia né nella volontà giusta né nell’intelligenza saggia. Ma in Dio tutto è uno, potenza, essenza, volontà, intelligenza, sapienza e giustizia. Perciò nulla può essere nel potere di Dio che non sia nella sua giusta volontà e nella sua intelligenza infinitamente saggia » (1 P., q. 25, a. 5, ad 1). Pertanto, ciò che Dio non può essere di potenza ordinata – in senso agostiniano -, è pure impossibile per Lui”). – Accusati di bajanismo, risposero che la loro dottrina non poteva senza calunnia, essere confusa con questo errore. Una cosa è dire che la grazia abituale o, secondo loro, la carità infusa e le altre virtù, siano rivendicate dalla natura come sue proprietà, come sue conseguenze o come sue spettanze; un’altra cosa è semplicemente sostenere che Dio debba, non alla natura, ma alla sua bontà, ma alla sua provvidenza (debito decentiæ Creatoris, debito providentiæ), l’aiuto alla creatura ragionevole, impotente da sola a conquistare quei beni che la sorpassano: la grazia e la gloria. Ora, essi aggiungevano, questa dottrina è nostra, ed è la prima che la Chiesa ha condannato in Bajo. – Questo lo ammettono prontamente: c’è una differenza tra gli errori di Bajo e l’opinione agostiniana. Infatti, sebbene quest’ultima non sembri aver ritenuto i doni della grazia proprietà derivanti dalla natura, essi li consideravano francamente come naturali. Ma è meno chiaro in che modo la loro causa differisca da quella di Giansenio; ed è anche difficile vedere come ciò che la provvidenza di un Dio saggio e buono non gli permetta di concedere all’uomo, ciò che senza il quale l’uomo non caduto rimarrebbe in uno stato di miseria, privato come sarebbe dell’unica beatitudine in relazione alle sue necessarie aspirazioni, sia tuttavia una grazia pura, al di fuori delle esigenze della natura (non ignoro che questa distinzione tra i due poteri fosse ammessa dai maestri della Scolastica. Ma il senso in cui lo intendevano essi, non ha nulla a che vedere con le idee degli Agostiniani. Perché cosa può fare Dio, secondo gli Scolastici, con il suo potere assoluto? Tutto ciò che non ripugna al suo Essere o alle sue perfezioni. E cosa può fare con il potere ordinato? Ciò che ha liberamente preordinato nella sua infinita saggezza; in altre parole, ciò che ha deciso di fare. – Cfr. Alex. Halens, 1 p., q. 20, m. 5; q. 21, m. 2; S. Thom, in III, D. 1, q. 2 a. 3. Se dunque gli Agostiniani avessero preso la distinzione in questo significato veramente scolastico, avrebbero potuto dire in tutta verità che Dio non poteva per potere ordinato negare all’uomo sia la grazia che la gloria, anche se lo poteva per potere assoluto. Ma questo equivarrebbe a dire che Dio deve fare ciò che ha deciso nei suoi consigli eterni, anche se avesse potuto decretare un altro ordine di provvidenza con la sua volontà sempre saggia). A dire il vero, tali scappatoie sembrano difficilmente ammissibili, e sono poco sorpreso che queste idee agostiniane esistano ormai nelle scuole teologiche solo come ricordo.

2. – Ne consegue che non si può, senza mettere in pericolo la dottrina cattolica del soprannaturale e della grazia, rifiutare quello che viene chiamato lo stato di pura natura. In altre parole, possiamo, anzi dobbiamo, considerare possibile ed assolutamente fattibile uno stato in cui la creatura ragionevole sarebbe uscita dalle mani del suo Autore con i soli doni naturali e senza la destinazione attuale della visione beatifica; in una parola, al di fuori di ogni ordine di grazia e della gloria a noi promessa. – Comprendiamo bene quale sarebbe il caso dell’uomo in quest’ordine della provvidenza, poiché la dottrina che lo afferma è stata singolarmente sfigurata per renderlo inaccettabile o addirittura odioso. Diciamo quindi che l’assoluta gratuità della visione beatifica presuppone evidentemente che per la creatura ragionevole si possa concepire uno stato di perfezione di ordine inferiore, una felicità puramente naturale: perché è assolutamente necessario che ci sia una felicità come fine supremo di questa creatura. Pertanto, poiché ogni ordine, da quel momento in poi, ha la sua ragione d’essere nella visione beatifica, la creatura ragionevole potrebbe, in questa ipotesi, arrivare al suo destino naturale con le sue forze native, indipendentemente dai mezzi soprannaturali che le sono concessi nello stato di elevazione, dove Dio ci ha liberamente stabiliti e restaurati. Pertanto, Dio poteva anche negare alla sua opera quei doni preternaturali di immoralità, integrità e rettitudine intellettuale, di cui aveva arricchito l’uomo nel giorno della sua creazione: questi privilegi erano una grazia e si riferivano al destino soprannaturale dell’uomo. – Da quanto detto sopra è abbastanza chiaro quale sarebbe lo stato di natura pura nelle sue linee generali. Non sorprende che la rivelazione non insegni direttamente nulla di preciso su questo ordine della provvidenza, e che i Padri non abbiano trattato la questione in modo dettagliato: è perché i Padri e la rivelazione dovevano piuttosto insegnarci esplicitamente la nostra reale dignità più che un destino che, di fatto, non era e non sarà mai nostro.  Tuttavia, questo tipo di astensione non è un silenzio assoluto; infatti, presentandoci i beni presenti come pura grazia, essi ci facevano al tempo stesso capire a sufficienza che poteva esserci per la creatura intelligente un destino naturale, al di fuori di questi incomparabili privilegi, cioè il destino dei servi e non più quello dei figli. Inoltre, quando si presentava l’occasione di toccare questi argomenti, i nostri santi Dottori sapevano come mostrare quale fosse il loro pensiero; ne è testimonianza questo testo di Sant’Agostino, così spesso richiamato nelle polemiche contro Bajo e contro il Giansenismo: « Anche se l’ignoranza e la difficoltà (che sperimentiamo dal lato della concupiscenza), fossero state la condizione primordiale della nostra natura, non sarebbe necessario accusare Dio, ma lodarlo e benedirlo » (S. August, Retract., L. I, c. 9, n. 6. Cfr. S. Thom, D. 31, q. 1, a. 2. Cfr. T. I, L. III. c. 2). Il grande Dottore, è vero, parla qui solo dell’assenza dei doni preternaturali concessi al primo uomo: ma ciò che dice va certamente ad autorizzare lo stesso giudizio per tutti i doni dell’ordine soprannaturale. – Quale sarebbe per il termine e per il cammino, questo stato di pura natura, né la filosofia né la teologia possono determinarlo se non per tratti generali. Sarebbe, per il termine, una piena fioritura delle forze che sono nella natura dello spirito: di conseguenza, la più alta e perfetta contemplazione di Dio a cui l’intelligenza possa arrivare, quando lo guarda nello specchio delle creature; un amore della bontà sovrana proporzionato alla conoscenza, cioè l’amore di un servo amato, ma non di un figlio o di un amico. E questa conoscenza e questo amore parteciperebbero alla beata immobilità dell’amore e della visione beatifica: perché è il destino naturale della creazione ragionata non rimanere sempre in uno stato di movimento. – La maggior parte dei teologi esita ad affermare che questa consumazione finale e questa perfezione comportino necessariamente una certa generazione dell’intero essere umano, cioè un’unione d’ora in poi indissolubile dell’anima e del corpo. Per quanto conforme alle aspirazioni dell’anima spirituale, e persino all’ordine generale delle cose, la ricostruzione di ogni uomo richiederebbe una trasfigurazione miracolosa, la cui necessità non sembra dimostrata: perché, dopo tutto, la beatitudine sostanziale può essere compresa indipendentemente dalla presenza e dal concorso degli organi. Eppure, nulla ci impedisce di pensare che Dio, ricco di misericordia, lo conceda con un favore singolare. – Per quanto riguarda la condizione del cammino, cioè lo stato di tendenza verso la perfezione finale, sarebbe sbagliato concepirla ad immagine della nostra condizione attuale, spogliata di tutti i doni e degli aiuti soprannaturali di cui è gratuitamente arricchita. Dio, creando l’uomo perché possa orientare la sua libera attività verso la gloria del suo Autore e la propria beatitudine, deve dargli l’assistenza positiva necessaria per perseguire il suo destino. Ma poiché può intervenire in molti modi, senza superare l’ordine della natura o fondare un nuovo ordine, sarebbe avventato cercare di definire il modo preciso della provvidenza che, in questa economia naturale, condurrebbe gli uomini alla salvezza finale. Ci sarebbero rivelazioni positive, Dio si accontenterebbe di un aiuto esterno o di tocchi più o meno frequenti alle intelligenze e alle volontà umane, tanti segreti che non spetta a noi penetrare. Un giorno, alla luce di Dio, vedremo chiaramente cosa potremmo essere in questo ordine naturale e la nostra gratitudine, per la bontà che ci ha innalzato così tanto nell’ordine della grazia, non conoscerà limiti.

LA GRAZIA E LA GLORIA (60)

CREMAZIONE = DANNAZIONE

CREMAZIONE = DANNAZIONE

“Figliuolo, spargi lacrime sopra il morto, e come per duro avvenimento, comincia a sospirare e secondo il rito, ricopri il suo corpo, e non trascurare la sua sepoltura”. (Sir. XXXVIII, 16)

[da: Enciclopedia Cattolica, vol IV, voce: Cremazione, C. d. V. 1951].

Trattiamo, su richiesta di alcuni lettori, del tema di grande attualità e di grande importanza per la nostra anima e per l’eterna salvezza: intendiamo parlare della pratica neo-pagana, o se preferite, gnostico-massonica, della cremazione. Secondo una simbologia piuttosto convenzionale, l’incenerimento dei defunti sembra voler significare che i corpi sono per sempre risoluti e dispersi, secondo il concetto gnostico del “tutto universale” nel quale ogni cosa si dissolverebbe alla sua morte, come ogni altra cosa priva di anima immortale, come le piante o le bestie; il rito cristiano, invece, dell’inumazione accompagna l’idea della morte equiparata al sonno, ed esprime con più aderenza la fede cristiana della finale resurrezione, ciò come espressione simbolica, non come realtà. In via assoluta, infatti, la cremazione non è contraria a nessuna verità naturale o rivelata; molto meno è tale da costituire un ostacolo all’onnipotenza di Dio per la resurrezione dei corpi. E neppure può dirsi che leda in qualche modo i diritti della persona umana: il cadavere non è più persona e quindi non è più per sé ed in sé essenzialmente inviolabile. Di fatto però la cremazione è ripugnante alla disciplina della Chiesa fin dai suoi primi inizi, contraria agli squisiti sensi di pietà cristiana verso i defunti; mentre il rito contrario, l’inumazione, per unanime, ininterrotto, tradizionale insegnamento, è assurto ad una aderente significazione dell’immortalità dell’anima, della fede nella resurrezione della carne; ad un richiamo palese di avvenimenti ed insegnamenti biblici, già operanti nella tradizione giudaica (si pensi alla figura del vecchio Tobia che rischiava la propria vita per custodire nella sua casa i morti che di notte poi segretamente seppelliva), come dell’idea del corpo-seme (I Cor. XV, 36-44), della terra-madre (Gen. III, 19; Giob. I, 21, Eccli. XL, 1.) della morte-riposo e sonno (Dan. XII, 2; Jo. XI, 11-39). – Tale pratica essenzialmente pagana fu ridotta man mano che si diffondeva il Cristianesimo. Con la vittoria della Chiesa tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, cessa la cremazione nell’Impero romano. Poi cessò fino a dissolversi pure in ogni paese ove era penetrato il Cristianesimo. Dopo l’anno mille, prese piede una strana usanza funebre in Europa, quella di cuocere bollendoli i cadaveri per scarnificarli artificialmente, perché più facilmente le ossa ripulite potessero essere trasportate da un luogo ad un altro. Una decretale di Bonifacio VIII (1299), colpisce di scomunica “latae sententiae” riservata alla santa Sede, i mandanti e gli esecutori di tale operazione, privando il corpo, così trattato di sepoltura ecclesiastica (c. I, De sepulturis, III, 6 in “Extravag. Comm.”). La decretale nel suo testo e contesto è anche una condanna implicita della cremazione, condanna che ebbe i suoi effetti perché la pratica della cottura e dell’incenerimento dei corpi fu interrotta per secoli. – Le origini del moderno movimento per la cremazione si vogliono ricollegare con la rivoluzione del XVIII secolo. Un primo progetto del Consiglio dei Cinquecento in Francia del 1797, per rendere facoltativa la cremazione, fu respinto, ma più tardi in diversi paesi europei ebbero successo altri tentativi. La massoneria ha molte responsabilità al riguardo. Pur non potendosi, per insufficienza di prove, imputarle la genesi di tale movimento, è vero che lo ha favorito in tutti i modi per spirito soprattutto anticlericale, curando di dargli quel carattere di indipendenza e di spirito di libertà di pensiero, di svincolamento da tradizioni religiose, che è stata la causa principale della condanna della Chiesa. Mentre la Chiesa diede prova di tolleranza in materia con i neofiti dell’India per non porre ostacoli alla loro conversione, intransigente invece si mostrò per opposte ragioni al fronte dei cremazionisti dei paesi cattolici, nei quali era evidente il proposito di scristianizzare. Nel 1° documento che è della S. Congregazione del S. Ufficio in data 19 maggio 1886 (Approvato dal Sommo Pontefice Leone XIII), la Chiesa condanna la cremazione come un detestabile abuso, proibisce di destinare per testamento o convenzione con le società di cremazione, o comunque, il proprio cadavere alla cremazione, o di far cremare quello degli altri; proibisce di appartenere a società cremazioniste, che, se affiliate alla massoneria, soggiacciono alle pene ecclesiastiche comminate contro quest’ultima, cioè le numerose scomuniche dei Papi dell’epoca, collezionate in pochi anni (Acta Sanctæ Sedis 19, 1886, p. 46.). Il 15 dicembre dello stesso anno usciva un altro decreto della medesima Congregazione, che interdiceva ai sacerdoti l’accesso al forno crematoio per compiervi i sacri riti, pur permettendoli nella casa dei fedeli o in Chiesa, qualora la cremazione avesse luogo per volontà dei superstiti. Ché se la cremazione avviene per destinazione del defunto, mantenuta fino alla morte, egli è privato della sepoltura ecclesiastica, come gli eretici e gli apostati scomunicati. Altri decreti in tale direzione, proibenti con l’interdizione dei sacramenti anche per i non massoni, furono sempre emessi dalla Congregazione dell’Indice il 27 luglio 1892, il 3 agosto del 1897 (in Acta Sanctæ Sedis, 30 del 1897, p. 630). Il 25 febbraio 1926 (AAS, 18 – 1926 – p. 282), ancora una volta il S. Ufficio ribadiva la condanna della Chiesa verso la pratica abominevole della cremazione come pure nel giugno del 1926. Il Codice Canonico (quello vero, pio-benedettino del 1917, che fa parte del Magistero infallibile ed irreformabile della Chiesa) è ancor più esplicito: La pena per chi, in qualunque modo, abbia dato disposizione che venga cremato il proprio cadavere, e non l’abbia ritrattata, è a norma del can. 2291 n. 5 e 1240 §1 n. 5, la privazione della sepoltura ecclesiastica e quindi, a norma del can. 1204, dell’accompagnamento alla Chiesa, delle esequie e della deposizione in luogo sacro. Conseguentemente il defunto sarà privato di qualunque messa esequiale, anche anniversaria (can. 1241). Alla luce di questi documenti ufficiali della vera Chiesa Cattolica, sottoscritti da Pontefici canonicamente validamente eletti, e quindi non modificabili in alcun modo da nessun vero successore alla Cattedra di S. Pietro (solo dei burattini massonici hanno potuto riformare riti, dottrina e canoni, ovviamente in modo truffaldino ed invalido), colui che decide di farsi cremare, o chi per lui decida, specie se appartenente alle conventicole di perdizione, è candidato all’eterna dannazione, ed in pratica anticipa di poco, con il fuoco materiale, lo stato di “fuoco eterno dell’inferno” promesso ai reprobi dal decreto evangelico del Signore Nostro Gesù Cristo. La cremazione, in altre parole, è l’anticamera del fuoco eterno nel quale verrà gettato ogni tralcio secco e sterile staccatosi dalla vite piantata dal Cristo, cioè la sua unica Chiesa, stabile, incorruttibile, immarcescibile, irreformabile nella dottrina e nella morale.  

Credo …. unam sanctam cathólicam et apostólicam Ecclésiam!