LA GRAZIA E LA GLORIA (59)
Del R. P. J-B TERRIEN S.J.
II.
Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901
Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.
LIBRO XI
IL CARATTERE SOPRANNATURALE E GRATUITO DEI DONI FATTI DA DIO AI SUOI FIGLI. – UN’ULTIMA PAROLA SULL’ECCELLENZA DELLA GRAZIA E DELLA GLORIA.
CAPITOLO III
I principali errori riguardanti il carattere del nostro destino soprannaturale e i doni ad esso collegati. – Lo stato di pura natura.
1. – Mi è sembrato che queste considerazioni sul carattere soprannaturale dei doni divini richiedessero, come loro naturale complemento, una rapida esposizione dei principali errori che vi si sono opposti. Questo sarà l’argomento del presente capitolo. La dottrina dei Pelagiani sosteneva che i doni della grazia e della gloria appartengono alla costituzione stessa della natura umana; o, per meglio dire, che tutto è naturale nell’uomo, poiché l’uomo ha bisogno solo delle sue forze native per vivere la vita di giustizia ed arrivare alla beatitudine nel seno di Dio. Lutero e i suoi primi seguaci rinnovarono questo errore, anche se sembrano esserne lontani. Da entrambe le parti, vige lo stesso principio fondamentale: la natura umana è sufficiente, indipendentemente da qualsiasi dono soprannaturale sopraggiunto gratuitamente. Ciò che tra essi dissente è che i Pelagiani non riconoscevano il peccato originale mentre Lutero, ammettendolo, lo esagerava fino all’assurdità nelle sue conseguenze. Secondo lui, infatti, la natura umana ha irrimediabilmente perso nella sua caduta la parte migliore di sé, cioè il suo potere di fare il bene: da qui, per l’uomo decaduto, la necessità di una grazia che ripari le rovine della natura. Verso la fine del XVI secolo, Bajo, un novatore la cui avventatezza sulla grazia era strettamente legata all’eresia del Protestantesimo, meritò che la sua dottrina venisse stroncata dalla Chiesa. Egli pretendeva, per vero, di separare la sua causa da quella di Lutero. Infatti, sebbene secondo lui la destinazione dell’uomo alla visione divina e gli atti con cui dobbiamo meritarla e apprenderla siano naturali; sebbene non riconosca alcuna differenza tra l’amore moralmente buono e l’amore soprannaturale meritorio, non arriva a dire, almeno chiaramente, con l’eresiarca, che il principio delle opere sante sia puramente e semplicemente una proprietà della natura. Nelle sue idee, un elemento necessario della salvezza è una certa assistenza dello Spirito Santo, “adjutorium Spiritus sancti“. Ma questa assistenza Dio la deve alla natura; perché la natura non potrebbe, indipendentemente da Dio, arrivare alla sua destinazione naturale, cioè alla visione di Dio. Ecco, dunque, nei suoi principi fondamentali, l’errore di Bajo: per l’uomo, e in generale per tutta la natura intelligente, non esiste altro fine ultimo che la contemplazione faccia a faccia e l’amore beatifico che ne consegue. Qualsiasi altro fine sarebbe indegno dell’immagine naturale di Dio; al di fuori di questo, solo indigenza e miseria. – Pertanto, non esiste più un Soprannaturale assoluto, poiché il destino supremo ed i mezzi per raggiungerlo rientrano nelle esigenze della natura. L’immortalità del primo uomo, la perfetta sottomissione dei sensi allo spirito, la facilità di evitare l’errore, tutti i privilegi che furono così liberalmente concessi al primo padre degli uomini, erano la condizione naturale dell’umanità. Non c’è da meravigliarsi che Bajo, con tali idee, sembri aver considerato un nulla questa grazia infusa dell’adozione, questa partecipazione alla natura divina che ci rinnova nell’uomo interiore e ci eleva al di sopra di tutto l’ordine della natura (Cfr. specialmente tra le 79 proposizioni di Bajo, successivamente condannate in blocco da S. Pio V, Gregorio XIII e Urbano VIII, le prop. 1-7, 12, 17, 21, 23, 24, 38, 62 e 63). Bajo concorda sul fatto che, nello stato attuale della natura riparata, questi stessi doni sono per noi una grazia non in sé stessi, poiché erano dovuti alla natura prima della sua caduta, ma per il modo in cui Dio ce li ha dati. Essi sono, io dico, una grazia, come la vista, miracolosamente restituita a qualche cieco, è gratuita. – Giansenio, nel XVII secolo, ebbe Bajo come ispiratore e maestro. Ma il timore di cadere, come la sua guida, sotto le censure della Chiesa, lo rese più riservato nel suo linguaggio. Non ci risulta che egli abbia mai messo in discussione la grazia abituale o le virtù infuse. D’altra parte, egli insegna espressamente di questa stessa grazia che essa non sia naturale come le proprietà e le potenze che emanano dalla natura, e che si possa darle il nome di grazia. (Se l’opera di Giansenio non fu condannata per questa parte della sua dottrina, ciò è forse dovuto a queste capziose precauzioni. Cf. Jansen., de Statu naturæ puræ, L. I, c. 15 et 20; item, de Statu naturæ innocentis, passim. Si vedrà dagli stessi testi che Giansenio diede il nome di grazia ai doni soprannaturali di cui il nostro primo padre fu arricchito, per la sola ragione che essi non erano dovuti a meriti antecedenti, erano cioè “grazia” allo stesso modo in cui la natura stessa è una grazia). Infatti, per lui come per Bajo, e aggiungiamo noi, come per Lutero e Pelagio, non c’è altro fine ultimo possibile per l’uomo che la felicità soprannaturale dei figli di Dio. Era una necessità dell’ordine che Dio, il Creatore dell’uomo, avesse destinato la creatura a questa beatitudine suprema; una necessità che gli fornisce gli aiuti indispensabili per meritarla: infatti, data la creazione della natura umana, l’ordine delle cose la richiede per essa e quest’ultimo fine e questi mezzi: tanto che Dio non poteva rifiutarla, fintanto che non fosse degradata, senza andare contro l’ordine essenziale. Così Giansenio, come il suo maestro, rovescia da cima a fondo la vera nozione di soprannaturale. – Il veleno della sua dottrina è messo a nudo negli scritti di coloro che furono i suoi discepoli più fedeli. A riprova di ciò, citerò la condanna dottrinale inflitta prima all’oratoriano Quesnel, poi ai teologi dello pseudo-sinodo di Pistoia. In effetti, Clemente XI e poi Pio VI hanno riprovato l’uno dopo l’altro, il primo in Quesnel, il secondo nei giansenisti di Pistoia, questa proposizione ricevuta dal loro comune maestro: « La grazia, come fu nello stato di innocenza, cioè di integrità, di giustizia interiore e di santità primitiva, non era un beneficio gratuito di Dio, ma una conseguenza della creazione, un privilegio dovuto alle esigenze ed alla condizione stessa della natura umana » (Constit. Unigenitus prop. 35: Constit. Auctorem ſidei, prop. 16). Medesima censura nei confronti di un’altra proposizione di Pistoia che negava all’immortalità di Adamo il carattere di beneficio puramente gratuito, per farne la condizione naturale dell’uomo (Cost. Anctorem fidei, prop. 17). – Aggiungo che nel corso del XVII e XVIII secolo si è rinnovata un’opinione che per certi aspetti presenta una spiacevole analogia con gli errori di Bajo e di Gansenio. Essa si ritrova tra alcuni agostiniani, ed il loro capostipite fu proprio un Agostiniano, Gregorio da Rimini, un genio troppo avventuroso, che volle riformare la Scolastica, tornando alla dottrina dei Padri della Chiesa ed in particolare di Sant’Agostino (Cfr. Berti, de Theol. discipl. Addit, ad L. XII, c. 3; Apol, D 2, c. 2, etc; item, 2, II D. 2 c. 1, § 1, n. 12 ss; Belelli, passim). – Secondo questi teologi, l’unico fine in grado di soddisfare i desideri naturali dell’uomo, l’unico adatto alla creatura ragionevole, in quanto ad immagine di Dio, suo Autore, è la visione di Dio. Al di fuori di questo, non c’è felicità possibile, ma solo inquietudine, imperfezione e miseria. Dunque, Dio doveva a se stesso il destinare la sua creatura a questa beatitudine ed il fornirgli i mezzi per raggiungerla. (Alla domanda posta loro: « Può Dio creare l’uomo senza destinarlo alla beatitudine soprannaturale e senza fornirgli al tempo stesso l’aiuto della grazia, indispensabile per ottenerla, gli Agostiniani avevano l’abitudine di rispondere con un distinguo. Poteva farlo di potere assoluto; non poteva farlo di potere ordinato. Per essi il potere assoluto è il potere considerato solo come tale, a prescindere dalle altre perfezioni divine. Il potere ordinato è lo stesso potere, ma agisce sotto la direzione della sapienza, della giustizia e della bontà. Così essi definivano un doppio Potere; non vedendo o non volendo vedere che, secondo queste definizioni, l’unico Potere adatto a Dio è il Potere ordinato. « In noi – dice il Dottore Angelico a questo proposito – la potenza e l’essenza non sostengono né la volontà né l’intelligenza; allo stesso modo l’intelligenza è diversa dalla Sapienza, e la volontà è altro che la giustizia: ecco perché può esserci nella nostra potenza qualcosa che non sia né nella volontà giusta né nell’intelligenza saggia. Ma in Dio tutto è uno, potenza, essenza, volontà, intelligenza, sapienza e giustizia. Perciò nulla può essere nel potere di Dio che non sia nella sua giusta volontà e nella sua intelligenza infinitamente saggia » (1 P., q. 25, a. 5, ad 1). Pertanto, ciò che Dio non può essere di potenza ordinata – in senso agostiniano -, è pure impossibile per Lui”). – Accusati di bajanismo, risposero che la loro dottrina non poteva senza calunnia, essere confusa con questo errore. Una cosa è dire che la grazia abituale o, secondo loro, la carità infusa e le altre virtù, siano rivendicate dalla natura come sue proprietà, come sue conseguenze o come sue spettanze; un’altra cosa è semplicemente sostenere che Dio debba, non alla natura, ma alla sua bontà, ma alla sua provvidenza (debito decentiæ Creatoris, debito providentiæ), l’aiuto alla creatura ragionevole, impotente da sola a conquistare quei beni che la sorpassano: la grazia e la gloria. Ora, essi aggiungevano, questa dottrina è nostra, ed è la prima che la Chiesa ha condannato in Bajo. – Questo lo ammettono prontamente: c’è una differenza tra gli errori di Bajo e l’opinione agostiniana. Infatti, sebbene quest’ultima non sembri aver ritenuto i doni della grazia proprietà derivanti dalla natura, essi li consideravano francamente come naturali. Ma è meno chiaro in che modo la loro causa differisca da quella di Giansenio; ed è anche difficile vedere come ciò che la provvidenza di un Dio saggio e buono non gli permetta di concedere all’uomo, ciò che senza il quale l’uomo non caduto rimarrebbe in uno stato di miseria, privato come sarebbe dell’unica beatitudine in relazione alle sue necessarie aspirazioni, sia tuttavia una grazia pura, al di fuori delle esigenze della natura (non ignoro che questa distinzione tra i due poteri fosse ammessa dai maestri della Scolastica. Ma il senso in cui lo intendevano essi, non ha nulla a che vedere con le idee degli Agostiniani. Perché cosa può fare Dio, secondo gli Scolastici, con il suo potere assoluto? Tutto ciò che non ripugna al suo Essere o alle sue perfezioni. E cosa può fare con il potere ordinato? Ciò che ha liberamente preordinato nella sua infinita saggezza; in altre parole, ciò che ha deciso di fare. – Cfr. Alex. Halens, 1 p., q. 20, m. 5; q. 21, m. 2; S. Thom, in III, D. 1, q. 2 a. 3. Se dunque gli Agostiniani avessero preso la distinzione in questo significato veramente scolastico, avrebbero potuto dire in tutta verità che Dio non poteva per potere ordinato negare all’uomo sia la grazia che la gloria, anche se lo poteva per potere assoluto. Ma questo equivarrebbe a dire che Dio deve fare ciò che ha deciso nei suoi consigli eterni, anche se avesse potuto decretare un altro ordine di provvidenza con la sua volontà sempre saggia). A dire il vero, tali scappatoie sembrano difficilmente ammissibili, e sono poco sorpreso che queste idee agostiniane esistano ormai nelle scuole teologiche solo come ricordo.
2. – Ne consegue che non si può, senza mettere in pericolo la dottrina cattolica del soprannaturale e della grazia, rifiutare quello che viene chiamato lo stato di pura natura. In altre parole, possiamo, anzi dobbiamo, considerare possibile ed assolutamente fattibile uno stato in cui la creatura ragionevole sarebbe uscita dalle mani del suo Autore con i soli doni naturali e senza la destinazione attuale della visione beatifica; in una parola, al di fuori di ogni ordine di grazia e della gloria a noi promessa. – Comprendiamo bene quale sarebbe il caso dell’uomo in quest’ordine della provvidenza, poiché la dottrina che lo afferma è stata singolarmente sfigurata per renderlo inaccettabile o addirittura odioso. Diciamo quindi che l’assoluta gratuità della visione beatifica presuppone evidentemente che per la creatura ragionevole si possa concepire uno stato di perfezione di ordine inferiore, una felicità puramente naturale: perché è assolutamente necessario che ci sia una felicità come fine supremo di questa creatura. Pertanto, poiché ogni ordine, da quel momento in poi, ha la sua ragione d’essere nella visione beatifica, la creatura ragionevole potrebbe, in questa ipotesi, arrivare al suo destino naturale con le sue forze native, indipendentemente dai mezzi soprannaturali che le sono concessi nello stato di elevazione, dove Dio ci ha liberamente stabiliti e restaurati. Pertanto, Dio poteva anche negare alla sua opera quei doni preternaturali di immoralità, integrità e rettitudine intellettuale, di cui aveva arricchito l’uomo nel giorno della sua creazione: questi privilegi erano una grazia e si riferivano al destino soprannaturale dell’uomo. – Da quanto detto sopra è abbastanza chiaro quale sarebbe lo stato di natura pura nelle sue linee generali. Non sorprende che la rivelazione non insegni direttamente nulla di preciso su questo ordine della provvidenza, e che i Padri non abbiano trattato la questione in modo dettagliato: è perché i Padri e la rivelazione dovevano piuttosto insegnarci esplicitamente la nostra reale dignità più che un destino che, di fatto, non era e non sarà mai nostro. Tuttavia, questo tipo di astensione non è un silenzio assoluto; infatti, presentandoci i beni presenti come pura grazia, essi ci facevano al tempo stesso capire a sufficienza che poteva esserci per la creatura intelligente un destino naturale, al di fuori di questi incomparabili privilegi, cioè il destino dei servi e non più quello dei figli. Inoltre, quando si presentava l’occasione di toccare questi argomenti, i nostri santi Dottori sapevano come mostrare quale fosse il loro pensiero; ne è testimonianza questo testo di Sant’Agostino, così spesso richiamato nelle polemiche contro Bajo e contro il Giansenismo: « Anche se l’ignoranza e la difficoltà (che sperimentiamo dal lato della concupiscenza), fossero state la condizione primordiale della nostra natura, non sarebbe necessario accusare Dio, ma lodarlo e benedirlo » (S. August, Retract., L. I, c. 9, n. 6. Cfr. S. Thom, D. 31, q. 1, a. 2. Cfr. T. I, L. III. c. 2). Il grande Dottore, è vero, parla qui solo dell’assenza dei doni preternaturali concessi al primo uomo: ma ciò che dice va certamente ad autorizzare lo stesso giudizio per tutti i doni dell’ordine soprannaturale. – Quale sarebbe per il termine e per il cammino, questo stato di pura natura, né la filosofia né la teologia possono determinarlo se non per tratti generali. Sarebbe, per il termine, una piena fioritura delle forze che sono nella natura dello spirito: di conseguenza, la più alta e perfetta contemplazione di Dio a cui l’intelligenza possa arrivare, quando lo guarda nello specchio delle creature; un amore della bontà sovrana proporzionato alla conoscenza, cioè l’amore di un servo amato, ma non di un figlio o di un amico. E questa conoscenza e questo amore parteciperebbero alla beata immobilità dell’amore e della visione beatifica: perché è il destino naturale della creazione ragionata non rimanere sempre in uno stato di movimento. – La maggior parte dei teologi esita ad affermare che questa consumazione finale e questa perfezione comportino necessariamente una certa generazione dell’intero essere umano, cioè un’unione d’ora in poi indissolubile dell’anima e del corpo. Per quanto conforme alle aspirazioni dell’anima spirituale, e persino all’ordine generale delle cose, la ricostruzione di ogni uomo richiederebbe una trasfigurazione miracolosa, la cui necessità non sembra dimostrata: perché, dopo tutto, la beatitudine sostanziale può essere compresa indipendentemente dalla presenza e dal concorso degli organi. Eppure, nulla ci impedisce di pensare che Dio, ricco di misericordia, lo conceda con un favore singolare. – Per quanto riguarda la condizione del cammino, cioè lo stato di tendenza verso la perfezione finale, sarebbe sbagliato concepirla ad immagine della nostra condizione attuale, spogliata di tutti i doni e degli aiuti soprannaturali di cui è gratuitamente arricchita. Dio, creando l’uomo perché possa orientare la sua libera attività verso la gloria del suo Autore e la propria beatitudine, deve dargli l’assistenza positiva necessaria per perseguire il suo destino. Ma poiché può intervenire in molti modi, senza superare l’ordine della natura o fondare un nuovo ordine, sarebbe avventato cercare di definire il modo preciso della provvidenza che, in questa economia naturale, condurrebbe gli uomini alla salvezza finale. Ci sarebbero rivelazioni positive, Dio si accontenterebbe di un aiuto esterno o di tocchi più o meno frequenti alle intelligenze e alle volontà umane, tanti segreti che non spetta a noi penetrare. Un giorno, alla luce di Dio, vedremo chiaramente cosa potremmo essere in questo ordine naturale e la nostra gratitudine, per la bontà che ci ha innalzato così tanto nell’ordine della grazia, non conoscerà limiti.