LA GRAZIA E LA GLORIA (51)
Del R. P. J-B TERRIEN S.J.
II.
Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901
Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.
LIBRO X
LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO CONSIDERATA DAL LATO DEL CORPO
CAPITOLO PRIMO
La resurrezione della carne, sulla testimonianza della natura e della fede.
1. Ecco il figlio di Dio glorificato, consumato dalla parte principale di sé: è entrato attraverso l’anima nel possesso della sua eredità eterna: un’eredità di luce, di amore e di godimento inenarrabile. Cosa resta perché l’adozione sia completa ed il capolavoro della grazia sia compiuto? Resta da fare il Corpo, questa parte inferiore ma sostanziale di noi stessi, ad immagine del corpo di Gesù Cristo, l’unigenito Figlio di Dio; cioè farlo risorgere dal sepolcro, unirlo all’anima beata per adornarlo con tutti i doni richiesti da questa alleanza. Finché non siamo ancora liberati dalla schiavitù della corruzione, « noi gemiamo in noi stessi, aspettando l’adozione dei figli di Dio, che sarà la redenzione del nostro corpo » (Rm. VIII, 23). È di questa gloriosa risurrezione che dobbiamo parlare, prima di tutto per dimostrarne la certezza e poi, per quanto ci è possibile, per spiegarne le prerogative e gli splendori. Se considerassimo l’uomo solo dal punto di vista della pura e semplice ragione, sarebbe forse molto difficile, per non dire impossibile, portare delle prove a favore della risurrezione che siano in grado di darne certezza. Tuttavia, in assenza di prove rigorose, ci sarebbero comunque seri motivi per accogliere come una speranza questo ritorno alla vita che sarà la risurrezione dei nostri corpi. I santi Padri, soprattutto quelli che dovettero difendere questo dogma della nostra fede contro gli increduli dei primi secoli (Atenagora, S. Clemente, Minut. Felice, Tertulliano, Cirillo, Gerol., ecc.), ne svilupparono diverse con energia non minore dell’eloquenza, e i nostri grandi teologi, con S. Tommaso in testa, riprendendo le stesse induzioni dopo di loro, non hanno fatto altro che dare loro talvolta una forma meno oratoria e più concisa. – Questa prova della resurrezione della carne, gli Apologeti la richiedevano alla giustizia di Dio. Non è forse necessario che nella vita futura la ricompensa o il castigo corrispondano alle opere buone o cattive? Ora, essi vi risponderebbero, può essere mai che il corpo, una volta consegnato alla polvere, non ne debba mai uscire per unirsi all’anima e con questa nuova unione ricostituire l’uomo? Perché è l’uomo intero che qui fa l’opera del male e l’opera del bene; l’uomo che benedice Dio e che lo bestemmia; l’uomo che si piega alla sua santissima volontà per osservare la legge morale o che si ribella per violarla; l’uomo, in una parola, che ama il suo Dio o che lo oltraggia. Non obiettate che ci siano crimini in cui il corpo non ha alcun ruolo. Non ne conosco nemmeno uno. Infatti, l’unità del nostro essere umano è tale che nessuna operazione dell’anima si svolge in esso senza il concorso degli organi. Né la mente ha un pensiero se non entra in gioco l’immaginazione, né la volontà agisce se la sua libera determinazione non abbia il suo punto di partenza o la sua ripercussione nella sensibilità. – Almeno ammetterete prontamente, e questa sarebbe una prova sufficiente, che, se pur ci siano delle eccezioni, la cooperazione o la complicità del corpo è la regola generale. E la santa Chiesa di Dio lo ha capito così bene che, nelle preghiere con cui accompagna le estreme Unzioni che impartisce ai suoi figli per cancellarne le ultime macchie, parla solo dei peccati commessi con i sensi del corpo. « Che il Signore, per questa santa unzione – essa dice – e per la sua piissima misericordia, vi perdoni tutto ciò che avete commesso di male con gli occhi, con le orecchie, ecc. ». Né mi dite pure che lo strumento cieco di un crimine o di un atto eroico di virtù non venga né premiato né punito: il coltello dell’assassino, per esempio, o la spada del soldato che muore per la sua Patria. Senza rispondere, come potrei, che l’uno è accolto con rispetto, mentre l’altro è respinto con una sorta di orrore, mi accontenterò di far notare quali sentimenti opposti la natura stessa impartisca alle spoglie di un criminale e a quelle venerate di un uomo di grande virtù. Il corpo, infatti, non è uno strumento separato, come l’ascia o la spada: esso è una parte dell’uomo che lo usa; è quest’uomo stesso in uno degli elementi essenziali che costituiscono la sua natura e la sua persona. Dunque, è giustizia di Dio che, nel giorno della retribuzione finale, la carne esca dalla tomba per seguire il destino dell’anima, o nella ricompensa o nel castigo (Athenag., de Resurr., mort., n. 48-24). P. Gr., t. 6. p. 1008, cfr. Thom, c. Gent, L. IV, c. 79). Diciamo di più: anche se il corpo non avesse contribuito in alcun modo agli atti che saranno oggetto del giudizio di Dio, dovrebbe comunque comparire lì con l’anima: perché è l’uomo che ha compiuto questi atti. « L’uomo è, in effetti, un composto di due sostanze; egli deve quindi presentarsi con ciascuna di esse per essere giudicato tutto intero. Egli ha vissuto nella sua interezza; quindi, come ha vissuto, così deve essere giudicato, poiché il giudizio riguarda la sua vita. Qualis ergo vixerit, talem judicari (dicimus), quia de eo quod vixerit habeat judicari » (Tert. De Resurr. Carnis, c. 14, col. 16), dice Tertulliano nel suo linguaggio vigoroso. – Dopo la giustizia, è la sapienza di Dio che esige la resurrezione. Ancora una volta, che cos’è l’uomo? Non ascoltate chi vi dice che è pura materia, più o meno perfettamente organizzata: è un errore troppo evidentemente assurdo e troppo evidentemente degradante. Non ascoltate nemmeno coloro che, per un errore contrario, vorrebbero renderci puri spiriti, racchiusi per un certo tempo nel corpo, ma destinati un giorno a liberarsi da esso, come un prigioniero che viene liberato dalle sue catene, un insetto alato che rifiuta i suoi involucri informi. L’uomo non è né un corpo né un’anima, ma il composto vivente e sostanziale dell’uno e dell’altro, anche se la preminenza spetta all’anima in virtù della sua stessa natura. Quando, dunque, l’anima viene separata dal corpo, è un’opera incompleta, come una magnifica cattedrale il cui coro sia in piedi e la cui navata sia stata abbattuta. Posso mai persuadermi che la Sapienza divina, l’Artefice onnipotente la cui mano ha creato questo capolavoro (Sap. VII, 21), facendo violenza alla natura delle cose, possa lasciare i detriti alla terra e conservare per l’eternità solo la parte maestra (S. Thom. Ibid.)? È ancora una volta alla provvidenza di Dio che i Padri e i nostri Dottori si appellano. In qualsiasi stato dell’umanità, se Dio non l’avesse creata come ha fatto, per un destino soprannaturale, avrebbe dovuto darle la felicità dopo una prova vittoriosamente subita. Ora, senza la risurrezione del corpo, questa felicità non sarebbe completa, né risponderebbe pienamente alle aspirazioni che la natura, cioè Dio stesso, ha posto nel cuore dell’uomo. – Io ho detto che non sarebbe completa, perché la beatitudine, cioè la perfezione finale, presuppone come fondamento la prima perfezione dell’anima, quella che le è propria per natura. Ora, questa prima perfezione su cui poggia la beatitudine, l’anima separata dal corpo non la possiede interamente: infatti, in virtù dei requisiti stessi del suo essere, essa è parte dell’uomo, poiché la sua funzione nativa è quella di essere in esso come forma del corpo (« Anima, cum sit pars humanæ naturæ, non habet naturalem perfectionem nisi secundum quod est corpori unita ». S. Thom, 1 p., q. 90, a. 4; col. q. 76 a. 1). Se, dunque, nessuna parte ha la perfezione della sua natura al di fuori dell’insieme verso cui è ordinata, come potrebbe l’anima trovare la sua suprema perfezione, eternamente esclusa dall’insieme organico in cui ha ricevuto l’esistenza? Così il Dottore Angelico riassume una prova eloquentemente sviluppata fin dal II secolo da Atenagora ed altri Padri (S. Thom., c, Gent., l. c.; de Pot.., q.5 a. 10; Atenag. de Resurr. mort., n. os 15 e 24, l. c.). Ho aggiunto che la beatitudine dell’anima separata non risponderebbe completamente alle aspirazioni del cuore umano. Perché no? Perché il desiderio innato dell’uomo è di essere completo nel suo essere. Da qui quell’istintivo orrore per la morte che può essere superato, è vero, quando il dovere lo richieda; ma che permane anche quando si vola con eroico ardore verso una fine gloriosa. Orrore e desiderio che difficilmente possono essere spiegati, se la separazione dovesse essere per sempre la condizione normale della nostra esistenza e della nostra futura beatitudine (S. Thom., c. Gent., l. c.; Compend. Theol., c. 15). – E ancora, se fosse vero che la compagnia del corpo sia essa stessa un ostacolo allo sviluppo di nobili facoltà, capirei come, nonostante la relativa perfezione che derivi dalla separazione, l’anima, per conquistare la sua suprema perfezione, dovrebbe dire un eterno addio al suo corpo. Ma l’ostacolo non viene dal corpo, bensì dal suo attuale stato di mortalità. « Corpus quod corrumpitur aggravat animam; il corpo che si corrompe appesantisce l’anima » (Sap. IX, 16). Questo è il peso che ci lega alla terra e « abbatte lo spirito capace di pensieri più elevati » (Ibid.). (Che questa mortalità svanisca, dunque, per lasciare l’anima libera di librarsi verso le regioni della luce; ma che non si privi lo spirito dell’uomo, con il pretesto di liberarlo, del suo complemento naturale. Infine, i nostri Apologeti si appellano alla magnificenza di Dio, giocando con gli splendori della creazione. Che cosa ha voluto Egli fare nel produrre l’uomo? Costruire un ponte, per così dire, tra il mondo dello spirito e quello del corpo; unire intelligenza e materia con un legame permanente. Separando l’anima ed il corpo senza speranza di ricongiungimento, c’è soluzione di continuità, l’accordo si rompe, l’armonia cede il passo ad una dissonanza. Io non trovo più nel piano divino la sua grande e meravigliosa unità, perché la catena di esseri che da Dio è scesa fino all’abisso del nulla ha perso il suo anello più necessario: l’uomo, nel quale si combinavano l’esistenza puramente materiale e l’esistenza spirituale. Non sento nemmeno quel concerto unanime di esseri che hanno tutti una voce per lodare e benedire il loro comune Creatore e Padrone; se il mondo corporeo può ancora fornire un soggetto per la lode e l’adorazione, così non ne è più né lo strumento né l’organo. Anche da questo punto di vista, quindi, è necessario che l’uomo, dopo una momentanea dissoluzione, si ritrovi come Dio l’ha fatto, spirito e corpo, una miscela armoniosa e vivente in cui si riassume tutta la creazione. Quanto sono più forti e più evidenti queste belle convenienze della risurrezione tratte dalla contemplazione della nostra natura, quando il Cristiano guarda la sua carne dal punto di vista soprannaturale! Tra tutti gli Apologeti, Tertulliano ha messo in luce in modo mirabile ciò che l’economia della grazia ha fatto per rafforzare i diritti dei nostri corpi alla futura risurrezione. – Che cos’è in effetti la nostra carne agli occhi della fede? Questo grande uomo ce la mostra come investita di funzioni sacerdotali. Il fine del sacerdozio è far salire le anime a Dio e far scendere Dio verso gli uomini (Ebr. V., 1 seg.). Ora, è per mezzo della carne che saliamo a Dio: essa ci trasporta sulle ali del sacrificio, della mortificazione e della preghiera; è con la sua assistenza, attraverso il suo ministero, col suo ausilio, che ci offriamo a Dio come ostie viventi e che celebriamo le sue lodi. È anche attraverso di essa che Dio viene a noi. Ascoltiamolo dalla bocca dello stesso Tertulliano: « Quando – egli esclama – l’anima si pone al servizio di Dio, è attraverso la carne che riceve questo onore. È la carne che viene bagnata, perché l’anima sia purificata; la carne che viene unta, perché l’anima sia consacrata; la carne che viene segnata con il segno sacro, perché l’anima sia consacrata; è la carne che si piega sotto l’imposizione delle mani, affinché l’anima sia illuminata dallo spirito; è la carne che è nutrita dal corpo e dal sangue di Gesù Cristo, affinché l’anima sia impinguata con la sostanza divina » (Tertull., de Resurr. carnis, c. 8.). Poi, riprendendo in una breve e calda sintesi i diritti che la natura e la grazia hanno dato alla carne: « Così, ricapitolando, questa carne che Dio ha formato con le sue mani e a sua immagine, che ha animato con il suo soffio a somiglianza della sua vita, che ha stabilito in questo universo per abitarlo e goderne, per comandare a tutte le sue opere, che ha rivestito con i suoi Sacramenti e la sua disciplina; questa carne di cui ama la purezza, di cui approva le mortificazioni, di cui apprezza le sofferenze, questa carne, dico, non risorgerebbe, essa che prende da Dio tanti titoli! Hæccine non resurget, toties Dei? No, no, lungi da noi pensare che Dio abbandoni ad una distruzione senza ritorno l’opera delle sue mani, del suo industriarsi, l’involucro del suo soffio, la regina della sua creazione, l’ereditiera della sua liberalità, la sacerdotessa della sua Religione, il soldato della sua testimonianza, la sorella del suo Cristo » (ibid., c. 9). Ripeto, queste prove, anche con la nuova forza che la consacrazione della carne nel Cristiano conferisce loro, non pretendo di presentarle come assolutamente dimostrative (San Tommaso, sebbene nessuno enunci le prove filosofiche della risurrezione con più forza di lui, si guarda sempre bene dal fornirle come vere dimostrazioni. Nel quarto libro contro i Gentili, c. 79, dice: « evidens ratio suffragatur », « Immortalitas animarum exigere videtur resurrectionem corporus futuram », aggiunge nello stesso luogo. E altrove (Supplem:, q. 75, a. 3, ad. 2): « Ex rebus naturalibus non cognoscitur aliquid non naturale (qualis est ex ipso resurrectio) ratione demostrante persuadente, sed ratione persuadente... ». Ne consegue che le prove tratte dall’ordine della natura « fidei resurrectionis persuasive adminiculantur » – ibidem). Ma come esse ci preparano a credere all’insegnamento infallibile del Vangelo, quando afferma a nome di Dio che la nostra carne, uscita dal sepolcro, sarà di nuovo vivificata dall’anima e non conoscerà più la morte! Questa è la bella riflessione che fa Tertulliano: « Dio – egli dice – ci ha dato la natura come maestra, prima di illuminarci con la sua parola, affinché, istruiti alla scuola della natura, credessimo più facilmente alla sua parola divina » (Job. XIX, 25-27). Noi che abbiamo ascoltato questa grande lezione della natura, impariamo da Dio stesso che cosa riservi nella loro carne, non più a dei semplici servi, ma ai suoi figli; non più ad umili creature ragionevoli, ma a degli dei divinizzati dalla grazia e dalla gloria.
2. – C’è una verità costantemente affermata nei nostri Libri sacri, predicata da Cristo, annunciata dagli Apostoli, custodi e testimoni della sua dottrina, insegnata dalla Chiesa in tutte le fasi della sua esistenza: la risurrezione dei morti. L’Antico Testamento stesso era pieno di questa convinzione: fu questa convinzione a consolare Giobbe, nel mezzo della sua angoscia, mostrandogli da lontano il Redentore della sua carne (« Prærmisit naturam magistram, submissurus et prophetiam, quo facilius credas prophetiæ, discipulus naturæ. » Tertull. de Resurr. carnis, c. 12); quella che rafforzò gli eroici Machabei nell’orrore dei loro tormenti (II Mach. VII, 9 segg.); quella che mostrò a Daniele coloro che dormono nella polvere, risvegliando alcuni alla vita eterna e altri all’eterno obbrobrio (Dan. XII, 2). Che cosa mi importa, allora, delle vane pretese di una falsa scienza e delle pretese impossibilità che essa oppone alla mia fede? Dio, la verità, afferma che risorgerò; Dio, l’Onnipotente, saprà come realizzare ciò che afferma. Per questo mi unisco con tutto lo sforzo della mia anima, e senza ombra di dubbio, alla grande voce del popolo cristiano che canta attraverso i secoli e soprattutto sulle lande: Credo nella resurrezione della carne e nella vita eterna, il dono della vita eterna, Credo resurrectionem mortuorum et vitam æternam », certi che questa voce sia solo l’eco fedele della predicazione degli Apostoli, dei Padri e dei Dottori; un’acquisizione necessaria della parola di Gesù Cristo, il Figlio del Dio vivente, che ci ha detto di sé: « Io sono la resurrezione e la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, io lo risusciterò nell’ultimo giorno » (Gv. XI, 25; VI, 53, 59, ecc.). E certamente, data l’economia della Nuova Legge, i corpi dei figli di Dio dovranno un giorno essere riuniti alle loro anime, glorificati con loro e come loro. L’Apostolo ce l’ha detto: « Noi tutti, per quanto numerosi, siamo un solo corpo, di cui Gesù Cristo è il capo e noi le membra » (Rom., XII, 5; cfr. Lib. V, c. 4). E non è solo attraverso l’anima che siamo parte di Cristo. Lungi da noi commettere un errore che ci attirerebbe il rimprovero dello stesso Apostolo: « Non sapete che le vostre membra sono membra di Cristo » (I Cor. VI, 15). Ciò che il Verbo ha unito a sé quando è diventato uno di noi nel grembo della Vergine è la nostra intera natura, anima e carne. Di conseguenza, Egli vuole che questa natura entri nel suo Corpo mistico, non solo con l’anima, la sua parte principale, ma interamente e senza alcuna divisione. E per suggellare questa felice alleanza, unisce nella più augusta delle vesti il suo Corpo al nostro corpo, le sue membra alle nostre membra, affinché il fedele ed il Cristo siano due in una stessa carne; è anche questa la conseguenza che traeva S, Ireneo da questa presa di possesso del nostro corpo da parte del Corpo di Gesù-Cristo: « da qual fronte si osa negare che possa ricevere il dono della vita eterna, questa carne che si è nutrita del corpo e del sangue del Cristo e che è un membro suo? » – Una conclusione così necessaria e così certa che revocarla significherebbe addirittura minare la nostra fede dal profondo. Non sono io ad affermarlo, ma San Paolo e lo Spirito di Dio attraverso di lui: « Quando vi sarà stato predicato che Gesù Cristo è risorto dai morti, come potrà qualcuno di voi osare dire che i morti non risorgeranno? Se i morti non risorgono, non è forse risorto Gesù Cristo stesso? E se Gesù Cristo non è risorto, vana è la nostra predicazione e vana la vostra fede, e voi siete ancora nei vostri peccati » (I Cor. VI, 12 segg.). Così Gesù Cristo non poteva risorgere solo in parte; è necessario che questo Trionfatore della morte abbia una risurrezione piena, completa, totale, in modo che la morte non sia indebolita ma assorbita nella sua vittoria. Ora, dove sarebbe la pienezza del trionfo di Gesù Cristo sulla morte, se le membra non seguissero il capo; le membra, dico, nella loro integrità, cioè sia le anime che i corpi? Proseguiamo sulle orme del grande Apostolo. Se vedessimo queste membra eternamente sparse e mescolate alla polvere, non saremmo autorizzati a concludere della stessa Testa che è come loro sepolta nelle viscere della terra? Così « il Cristo che esce dalla tomba, può essere veramente chiamato la primizia di coloro che dormono ancora nel sepolcro…. Come tutti muoiono in Adamo, così tutti devono rinascere nel Cristo. » E questa è giustizia: perché se la caduta e la morte del primo capo della razza umana ha portato alla morte dei suoi discendenti, la risurrezione del nuovo Adamo, Capo dell’umanità rigenerata, deve a miglior titolo chiamare il ritorno finale alla vita per la nostra natura. Ma, aggiunge l’Apostolo, « … ciascuno al proprio posto: prima Cristo, come primizia; poi quelli che sono di Cristo » (1 Cor., XV, 20-23). Pertanto, come Dio ha risuscitato il Signore, così risusciterà noi con la sua potenza. Non sapete che le vostre membra sono membra del Cristo? » (I Cor., XV, 14, 15). Che dico: Egli ci risusciterà. « Dio, che è ricco di misericordia per il grande amore che ci ha dimostrato… ci ha già vivificati in Gesù Cristo e per mezzo di Gesù Cristo. Ci ha innalzati con Lui e ci ha fatti sedere nei cieli in Cristo Gesù » (Ef., II, 4-6). Aprite gli occhi della vostra fede e guardate: ecco nello splendore della gloria tutti coloro che vivranno e moriranno membri del Corpo mistico il cui capo è Gesù Cristo; essi sono là, non ancora in realtà, ma in speranza e di diritto: perché io vi vedo già il Capo, e Voi, Vergine Santissima, la più perfetta e la più unita delle sue membra (« Christo a mortuis excitato, capite nostro, et nos una surreximus, et, sedente capite, una et corpus sedet. S. Giov. Crisost,. Hom. 4 in Efesini, II, 6). – Nei giorni della sua vita mortale, il mio Salvatore conservò come imprigionate nella parte superiore della sua anima le delizie celesti, frutto naturale della visione intuitiva, che regnava su quelle alte vette. Da lì non discendeva nulla nelle regioni inferiori, perché doveva essere la nostra vittima, e per essere vittima doveva soffrire sia nel suo corpo che nella sua anima. Ma, una volta consumato il sacrificio cruento, la gloria rompendo gli argini inondava l’anima, i sensi e il corpo del mio Maestro. – È per lo stesso disegno che la sofferenza e la mortalità dominano ancora nelle membra vive di Gesù Cristo, che sono i fedeli: la passione del loro Capo deve essere completata in loro. Ma quando questa passione totale del Capo nelle membra sarà terminata, la pienezza della vita inonderà l’intero corpo di Cristo e « non ci sarà più la morte » (Ap. XXI, 4). Verrà giorno, quando il Padre metterà tutti i nemici sotto i piedi del suo Cristo. Perciò l’ultimo nemico, la morte, sarà distrutto, perché Egli ha posto tutte le cose sotto i suoi piedi » (1 Cor., XV, 25, 26): cioè, se vogliamo prendere le parole nel loro significato più completo, sotto le membra più infime della sua Persona, che sono i piedi ancora attaccati alla terra. – Così, per la natura delle cose e secondo le ripetute affermazioni dello Spirito di Dio, il dogma della nostra futura risurrezione è una conseguenza dell’incorporazione dei fedeli nella Persona mistica di Gesù Cristo Nostro Signore. Si può obiettare che questo ragionamento si spinga troppo in là, poiché, se portato alle sue conseguenze, condurrebbe a pensare che il Corpo mistico di Gesù Cristo rimarrebbe incompleto, se tutti i corpi degli uomini non si elevassero configurati al suo stesso splendore. Un’obiezione vana che viene risolta da una parola sola: anche se tutti i corpi risorgono, non appartengono più a Cristo, le cui anime sono eternamente separate da Lui. Come può allora il suo Corpo rimanere incompleto, perché non ha membra che non sono e non possono essere sue? – Riportiamo la stessa conclusione generale in una nuova forma. Gesù Cristo disse ai Giudei: « Distruggete questo tempio e io lo ricostruirò in tre giorni…. Ed è del tempio del suo corpo che Egli parlava », secondo l’osservazione dell’Evangelista (Giov., II, 19-21). Gesù Cristo chiama il suo corpo tempio, perché « la pienezza della Divinità abitava in Lui corporalmente » (Col. II, 9). Ma anche noi siamo templi di Dio; templi di Dio attraverso le nostre anime, templi dello Spirito Santo attraverso le nostre membra (I Cor. II, 10): perché la divinità scende dal capo al corpo, dal capo alle membra, per riempirle della sua presenza (Col. II, 10). Ora, il tempio che è Cristo e il tempio che siamo noi non sono due templi separati, ma uno stesso tempio di cui Gesù Cristo è il fondamento e la sua umanità la parte più augusta e sacra. « Non ho visto un tempio nella Gerusalemme di lassù, perché il Signore Dio onnipotente è il suo tempio e l’Agnello » (Ap. XXI, 22). Pertanto, se c’è un solo tempio in cielo, e se ogni fedele è un tempio di Dio, per grazia e gloria noi siamo di quel tempio (“Simul omnes unum templum, et singuli singula templa sumus“. S. Sant’Agostino, ep. 187, al. 57, n. 20 Cfr. Ef. II, 20-22). – Pertanto, quando Nostro Signore ha detto: « Distruggete questo tempio e lo ricostruirò in tre giorni », questa ricostruzione, che si riferiva direttamente a Lui, riguarda noi stessi in modo mediato. Non più di quanto il Corpo mistico di Cristo, il tempio di Dio che è l’Agnello, possa rimanere eternamente incompiuto. Ciò che è più o meno il destino dei santuari costruiti con le mani degli uomini, non può essere appropriato al tempio costruito con le mani di Dio. – Membri di Gesù Cristo, templi viventi di Dio, due titoli alla futura risurrezione. Ne trovo una terza, più immediatamente basata sulla nostra condizione di figli di Dio e di fratelli di Gesù, il primogenito del Padre. Ricordiamo il ragionamento di San Paolo nella lettera ai Romani: « Voi avete ricevuto lo Spirito di adozione a figli, con il quale gridiamo a Dio: “Abbah, Padre…” Ora, se voi siete figli, siete eredi, eredi di Dio e coeredi con Gesù Cristo, se solo soffriamo con Lui per essere glorificati con Lui » (Rom. VIII, 15, 17). Partecipando quindi alla figliolanza del Verbo incarnato, dobbiamo nella stessa misura partecipare alla sua eredità. Una parte di questa eredità, non la più eccellente, ma bella e certa, è la glorificazione della sua carne. Perciò, o eredi di Gesù Cristo, rallegratevi nella speranza dei beni futuri e, guardando con gli occhi della fede a Cristo risorto dai morti, vedete cosa vi aspetti, se non degenerate dal vostro sangue. « Ed è per questo – dice l’Apostolo – che viviamo già in cielo, da dove aspettiamo il Salvatore, il Signore nostro Gesù Cristo, che riformerà l’umiltà del nostro corpo e lo renderà conforme alla sua carne gloriosa, secondo quella potente operazione con la quale Egli è in grado di sottomettere tutte le cose. » (Fil. III, 20, 21). – Se la morte, prima di essere pienamente abbattuta, addormenta ancora nella polvere questi figli di Dio, membra vive di Cristo, non temiamo per loro: « essi non sono morti, ma dormono »; dormono, dico, nel Cristo vivente, e il loro risveglio, alla voce dello stesso Cristo risorto, sarà d’ora in poi vita piena ed immortale (Marc., V, 39; I Cor. XV 15; 20). Ed è per questo che, secondo un’osservazione molto consolante di San Giovanni Crisostomo, il campo dei morti porta un nome veramente profetico tra i Cristiani: noi lo chiamiamo cimitero, cioè dormitorio: perché questo è ciò che si intende con il termine greco (κοιμητήριον = koimeterion): da cui si è formata questa parola. Siamo portati lì ed adagiati, infranti, sfigurati, senza forza né vita, ma per riposare all’ombra di Colui che abbiamo desiderato (Cant., II, 3; cfr. Wiseman, Fabiola, 2a parte, c. 3), nella cura della sua potenza e del suo amore, fino all’ora in cui risuonerà il richiamo vittorioso: « Alzatevi, voi che dormite, risorgete dai morti e Cristo vi illuminerà » (Ef. V, 14). E « l’ultimo nemico, la morte, sarà distrutto, perché Dio ha posto ogni cosa sotto i piedi del suo Cristo » (I Cor. XV, 25-26). – Quando e come avverrà questa beata resurrezione dei figli di Dio? Lo Spirito Santo, senza rivelarcene l’intero mistero, non ha voluto tenercene completamente all’oscuro. Una convinzione comune nella Chiesa è che ciò avverrà quando il numero degli eletti, predestinati alla gloria, sarà completo; quando l’edificio del Corpo mistico di Gesù Cristo sarà perfetto, e non mancherà nemmeno una pietra al tempio che Dio si è degnato di costruire per sé con gli uomini; quando, infine, la grande famiglia dei figli adottivi, sparsi nello spazio e nel tempo, sarà riunita al Padre celeste (Ef. IV, 12 segg.). Allora, « in un attimo, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba, i morti risorgeranno incorrotti (« Incorrupti intégritate membrorum, sed tamen corrumpendi dolore pænarum », ha detto Sant’Agostino dei reprobi. Ep. 205, al. 146 n. 15), e noi saremo trasformati ». (I Cor., XV, 52). « Resurget igitur caro, et quidem omnis, et quidem ipsa, et quidem integra. In deposito est ubicumque apud Deum,. per fidelissimum sequestrem Dei et hominum Jesum Christum, qui et homini Deum et hominem Deo reddet, carni spiritum et spiritui carnem. Utrumque jam in semetipso foederavit, sponsam sponso et sponsum sponsae comparavit, Nam etsi animam quis contenderit sponsam, vel dotis nomine sequetur caro. Non erit anima prostituta, ut nuda suscipiatur a sponso: habet instrumentum, habet cultum, habet mancipium suum carmen; ut collectanea comitabitur. Sed caro est sponsa, quae et in Christo Jesu spiritum sponsum per sanguinem pacta est. Hujus interitum quem putas, secessum scias esse. Non solo anima seponitur: habet et caro secessus suos interim, in aquis, in ignibus, in alitibus, in bestiis. Cum in hæc dissolvi videtur, velut in vasa transfunditur. Si etiam ipsa vasa defecerint, cum de illis quoque effluxerit, in suam matricem terram quasi per ambages resorbetur, ut rursus ex illa repræsentetur Adam, auditurus a Domino: Ecce Adam est quasi unus ex nobis factus, vere tunc compos mali quæ vasit, et boni quod invasit », Tertull. de Resurr. carn., c. 63). Sarà l’ultimo giorno, non di questo o quell’uomo in particolare, ma di tutta l’umanità attuale, novissimus dies: giorno di resurrezione per tutti, di giudizio per tutti, di premio o supplizio totale per tutti (Joan. VI, 32; XI, 24; XII, 48). E non ci sarà più tempo, perché il destino di tutti sarà irrevocabilmente fissato nella morte eterna o nella vita eterna, per sempre.