LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (13)
Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)
Morcelliana Ed. Brescia 1935
Traduzione di Bice Masperi
CAPITOLO IV
LA VITA DELL’UOMO IN SE STESSO
3. – Sua applicazione.
Nell’amore e nel sacrificio sta dunque tutta la perfezione cristiana; son queste le due forze che fanno l’uomo perfetto secondo l’ideale cristiano. E chi vorrà dire che, con l’aiuto della grazia di Dio, non sia possibile raggiungerlo? “Da voi nulla potete”, verissimo; ma: “Tutto posso in Colui che mi conforta ”. Può esser tanto difficile amare Chi ha dimostrato di essere infinitamente amabile e infinitamente amoroso e quindi infinitamente degno dell’amor mio, la cui Persona è inoltre in perfetta armonia di affinità con la mia propria? Colui che per primo mi ha amato: “In questo è la carità, che, senza aver noi amato Dio, Egli pel primo ci ha amati ”, (I Giov. IV, 10), che ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figliuolo, che ci ha amati fino a farci suoi figli: “Guardate di quale amore ci ha amati il Padre, concedendoci di poterci chiamare ed essere di fatto figliuoli di Dio” (I Giov. III, I)? E d’altronde l’amore ch’Egli mi chiede non è una cosa straordinaria; è l’amore più consono alla mia natura, quello che la innalza al livello più alto. È amore di devozione, diremo anzi di dedizione, a Lui e alla sua causa, l’ufficio più nobile che io uomo possa compiere. È il dono di me stesso a Lui affinch’Egli faccia di me ciò che gli piace. “Dio lo vuole” è stato un grido di guerra e rimane il grido del soldato di Cristo nelle battaglie di Dio e soprattutto in quella battaglia interiore che mai cesserà in lui. In che cosa consistono in pratica quest’amore e questa lotta? Poiché la nostra vita è soprattutto pratica: non possiamo fermarci alla teoria. Per molti di noi, anzi, non esiste teoria, tanto l’anima è assorbita dalla vita, e non possiamo che compiangere coloro che fanno della teoria ad ogni costo, che continuano a porre quesiti e, non avendo né guida né basi né autorità, vanno sempre a tastoni brancolando attorno a loro stessi. Orbene, per incominciare: anche il solo voler amare o desiderar di amare è già per se stesso amare, come dice S. Leone. Non c’è desiderio dove non c’è amore; desiderare è amare. E osservare i comandamenti di Dio, ecco l’amore; gettarsi ai suoi piedi nel nostro nulla, nella nostra debolezza, nella nostra indegnità, guardare a Lui e fidare in Lui, sapere ch’Egli ci riguarda con misericordia e anche con fiducia, domandargli perdono quando l’abbiamo offeso, aspettare con fede dalla sua mano quanto ci occorre, poiché sappiamo benissimo che se il bambino domanda del pane il Padre non gli darà un sasso. E nell’allontanarci da Lui, vivere per amor suo la vita ch’Egli ci ha indicata, ecco che cos’è viver davvero, poiché è amare e dimostrare il proprio amore con la vita. Accettare il dovere che ci si presenta qualunque esso sia, perché Egli ce lo dà a compiere, e nella maniera in cui Egli vuole che lo compiamo, perché così possiamo piacergli, rende anche la cosa più insignificante e la vita stessa, e qualunque vita, degna di esser vissuta. E l’atto stesso di prendere il riposo e la ricreazione, dopo il lavoro quotidiano, e il cibo e il sonno, perché anche queste cose Egli ha disposto e vuole che in esse troviamo piacere, tutto ciò è ancora amare. “Venite in disparte in luogo tranquillo a riposare un poco” fu l’invito amoroso rivolto un giorno da Cristo ai diletti discepoli. No, per la maggior parte di noi, come ha detto S. Paolo più di una volta, la vita d’amore non è difficile quando si abbia conosciuto Colui della grazia di Dio, una volta avutane la visione, nulla vi è di più facile e di più naturale, se è lecito usar questa espressione nell’ambito del soprannaturale, che esercitarsi di continuo così nell’amor di Dio e per tal mezzo crescere in quella perfezione della nostra virilità che sola è degna di questo nome. – È vero che la pratica del sacrificio è più difficile; se fosse cosa facile la natura umana non le darebbe il nome di sacrificio, l’ammirerebbe di meno, non chiamerebbe eroe colui che lo compie nobilmente. Iddio, d’altronde, e la nostra vita cristiana quaggiù per Lui non esigono il sacrificio più che non lo esiga la natura umana in genere. Non domandano che facciamo di esso uno scopo. come se avesse valore di per sé, non vogliono che lo ricerchiamo come unica fonte di perfezione.. “Se distribuissi tutto il mio ai poveri, e dessi il mio corpo per essere arso, e non avessi la carità, a nulla mi gioverebbe”. (I Cor. XIII, 3). L’unico valore del sacrificio sta in ciò ch’esso deriva dall’amore e a quello conduce. Basta amar Dio e cercare il suo amore e rendersi conto che in questa vita mortale ciò non può farsi senza qualche rinuncia. Molti sono gli ostacoli all’amore di qualunque genere; e chi vuole amare bene deve esser deciso a superarli. Preso in questo senso, il sacrificio appare veramente un bene, atto ragionevole e tollerabile; in breve diventa desiderabile e alla fine anche amato e gustato. È il segreto dei Santi. “O soffrire o morire” esclamava uno di essi. E un altro: “Non morire, ma piuttosto soffrire”, poiché ambedue sapevano l’amore che si cela dietro alla sofferenza e la trasforma in bene prezioso. La madre che ama la sua creatura non esiterà, quando questa sia colpita da grave malattia, a passare lunghe ore accanto al suo letto, incurante della propria stanchezza e della propria sofferenza, che saranno anzi l’unico suo conforto; e non v’è dubbio che l’assiduità e il sacrificio materno non avranno più limite se da quelli potrà dipendere la vita della creatura in pericolo. La stessa eroica generosità si manifesta in ogni campo, quando si ami davvero. Potremo esaltare e ricercare il piacere e l’appagamento di ogni capriccio, potremo perseguire le comodità e l’abbondanza, ma non potremo a meno d’inchinarci con sincera ammirazione dinanzi al sacrificio nobilmente compiuto per un nobile scopo, come dinanzi all’unica vera espressione di vita. Nessuna parola di Cristo ha ottenuto il consenso del mondo intero più facilmente di questa: “Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per l’amico”. Questa e non altra è l’attitudine del Cattolico verso il sacrificio. Egli è guidato e sospinto dall’amore verso Dio, e sopra ogni cosa desidera di esser fedele a quell’amore e di dimostrarlo coi fatti. Ha fiducia, anzi certezza che, sacrificando quanto lo ostacola nell’esercizio di questo amore, darà a Dio quanto Egli chiede, gli sarà accetto, diffonderà la sua gloria e al tempo stesso, sebbene questo non sia che un fine secondario, assicurerà la propria salvezza, consolazione e perfezione. « Chi avrà perduto la sua vita per amor mio la ritroverà”. Tutto questo egli sa perché glielo insegna un’autorità degna di fede e perché lo sente confermato dalla propria esperienza, lo vede nell’esempio di tante nobili esistenze intorno a sé e davanti a sé e soprattutto in quella che di tutte è il modello: la vita dell’Uomo-Dio. Che cosa non sopportò Egli perché il Padre fosse debitamente glorificato e le anime fossero salve, per dimostrare l’amore ardente che lo consumava per il Padre e per gli uomini? E noi, suoi discepoli, incorporati a Lui per il Battesimo, nutriti del suo Corpo e del suo Sangue, chiamati ad aver parte con Lui affinchè “compiamo ciò che manca alla passione di Cristo”, potremo esitare a soffrire in compagnia di Colui che protestiamo di amare, per cagion sua, per amor suo e per quei fini stessi che indussero Lui a soffrire volontariamente? D’altra parte, anche a riflettere alla nostra sola esperienza personale, non dobbiamo riconoscere che la sofferenza non è affatto da ritenersi un male assoluto? Chi non ha mai sofferto merita compassione, chi pone tutto il suo studio nell’evitare la sofferenza è degno di disprezzo, mentre chi molta ne ha avuta in sorte nella vita conquista facilmente il nostro affetto. Sappiamo, inoltre, come alla scuola della sofferenza si apprendano cose che non potrebbero altrimenti apprendersi, e come per essa ci agguerriamo contro ogni genere di male e di falsità. “Nella croce sta la salute, nella croce la vita; nella croce sta la difesa da’ nemici; nella croce l’infusione delle celesti dolcezze”, dice l’autore dell’Imitazione di Cristo. (II, XII, 2), o, come si esprime S. Agostino: “Per i cuori che amano nessuna fatica è troppo gravosa, anzi diventa una gioia, così come gli uomini trovan piacere nelle fatiche della caccia, nelle noie del commercio… Poiché quando un’anima ama, non soffre più, o, se soffre, la sofferenza stessa è amata”. (De bono viduitatis). – Come illustrazione dei pensieri sviluppati in questo capitolo, diamo una preghiera di quel grande Cancelliere inglese, Sir Thomas More, Santo che la Chiesa sta per elevare solennemente all’onore degli altari, definito da alcuni l’inglese più tipicamente rappresentativo, del suo paese che abbia mai esistito. Non era ancor giunta la condanna, ma egli la sentiva venire. Il suo re aveva spavaldamente preso partito contro di lui, sebbene solo un anno prima avesse dato a vedere di amarlo con tutta l’anima. More aveva dato le dimissioni dal suo alto ufficio, e si era ritirato nella casetta di Chelsea sperando di vivervi in pace, coi diletti familiari, il resto dei suoi giorni. Fu durante questo periodo che scrisse a margine del suo Libro delle Ore la seguente preghiera, documento umano quant’altri mai:
Dammi la tua grazia, o buono Iddio,
per tenere il mondo in conto di nulla,
per fissare in Te la mia mente e non curarmi delle vane parole degli uomini,
per amar la solitudine e non desiderare la compagnia del mondo, e a poco a poco ripudiarlo del tutto,
per liberare il mio cuore da ogni cosa di quaggiù, per non desiderar di ascoltare alcun rumore terreno,
perché anzi le fantasie mondane riescan fastidiose al mio orecchio, per pensare a Te con gioia,
per implorare il tuo aiuto umilmente e confidare nel conforto tuo,
per adoprarmi con diligenza ad amarti,
per conoscere la mia miseria e la mia malizia,
per umiliarmi e abbassarmi sotto la tua mano possente,
per piangere le mie colpe passate e soffrir con pazienza, per espiarle, ogni avversità,
per viver lietamente il mio purgatorio quaggiù,
per esser sereno nella tribolazione,
per camminare nella via stretta che conduce alla vita portando la croce con Cristo,
per ricordar sempre i novissimi,
per non mai perder di vista la mia fine che incombe,
per rendermi la morte familiare,
per prevedere e meditare l’eterno fuoco infernale,
per implorar perdono dal Giudice che verrà,
per tener sempre fissa in mente la passione che Cristo sofferse per me,
per ringraziarlo senza posa dei suoi benefici,
per riguadagnare il tempo perduto,
per astenermi da vane conversazioni sulle cose del mondo; e considerare un nulla, per conquistar Cristo, la perdita degli amici, della libertà, della vita, per considerare i nemici come gli amici miei migliori poiché i fratelli di Giuseppe non avrebbero mai potuto fargli tanto bene col loro affetto quanto gliene fecero con la loro malizia e il loro odio.
Questi sentimenti ognuno deve desiderare più di tutti i tesori dei principi e dei
re, cristiani e pagani, riuniti e ammassati insieme.
Nota. — Il Libro delle Ore a margine del quale è scritta questa preghiera è in possesso del Duca di Denbigh e conservato a Newnham. – Ne diamo la dicitura testuale sull’autorità del defunto Cardinal Gasquet.