LA GRAZIA E LA GLORIA (50)
Del R. P. J-B TERRIEN S.J.
II.
Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901
Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.
LIBRO IX
LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA
CAPITOLO VIII
Sulla gioia beatifica. – Ciò che essa sia nelle sue immagini, nella sua natura e nelle sue proprietà. – Il fine ultimo.
1. La Sacra Scrittura, volendo farci pregustare le gioie che Dio riserva in cielo ai suoi figli adottivi, accumula le immagini più vivide e varie per dipingerle. E poiché tra tutte le espressioni di un’esultanza comune la più evidente è forse quella di un banchetto gioioso, è soprattutto sotto questo emblema che Dio ci ha rappresentato la felicità eterna dei suoi eletti. Ma vedete come tutto contribuisca ad elevare la magnificenza e le delizie del banchetto celeste al di sopra di tutto ciò che la terra possa offrirci e l’immaginazione possa concepire. Questo è il banchetto preparato dal grande Re del cielo per le nozze del suo diletto Figlio. Gli splendori del palazzo in cui esso si svolge sono di una ricchezza incomparabile. San Giovanni, che li ha contemplati in una visione meravigliosa, non riesce a trovare nel linguaggio umano parole abbastanza forti per descriverle. L’oro più puro, le pietre preziose di ogni genere vi sono profuse. Il nostro sole, nel suo mezzogiorno più radioso, non è che un’oscurità in confronto alla gloria di Dio che inonda con i suoi fuochi questa nuova Gerusalemme ed i beati conviviali (Apoc. XX, XXI). Vogliamo parlare del cibo con il quale Dio nutre gli ospiti di questa magnifica dimora? Ci basti sapere, per prevederne l’eccellenza, che sarà Lui stesso che, « dopo averci fatto sedere alla sua mensa, si cingerà i lombi e ci servirà con le sue mani divine » (Lc. XII, 37). Il vino che Voi verserete per loro, o mio Dio, non sarà né meno abbondante né meno delizioso delle carni celesti con cui li nutrirete, perché « essi saranno inebriati dall’abbondanza della vostra casa e li inonderete al torrente delle vostre delizie » (Sal. XXXV, 2). Lasciamo che il Cantico descriva gli aromi che profumano il banchetto nuziale. Profumi dello Sposo: « Io sono venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa mia; ho raccolto la mia mirra con i miei profumi… Mangiate, amici miei, e bevete; inebriatevi, miei diletti ». (Cant. V, 1). Profumo della sposa: « L’odore delle tue vesti, sposa mia, è come il profumo della tua pelle, l’odore dell’incenso e la fragranza dei tuoi profumi al di sopra di tutte gli aromi ». (Ib. IV, 10-11). Che altro dire delle conversazioni della divina Sapienza con i suoi conviviali, essa « la cui conversazione non porta né amarezza né noia, ma gioia e contentezza senza mescolanza » (Sap. VIII, 16). Là non c’è nessuno che non indossi senza macchia l’abito nunziale. « Nessuno entrerà di quelli che commettono abominio e menzogna, ma solo chi è scritto nel libro della vita dell’Agnello » (Ap. XXI, 27): tutti amici e fratelli, perché tutti figli dello sposo e della sposa. Così io mi spiego ciò che San Giovanni ha sentito, « come il brusio di una grande moltitudine, e come voce di grandi acque e come la voce di tuono, che dicevano: Alleluia. Rallegriamoci, esultiamo e rendiamo gloria al nostro Dio, perché è giunto il tempo delle nozze dell’Agnello. Posso anche spiegarmi le parole rivolte dall’Angelo dell’Apocalisse allo stesso Apostolo: « Scrivi: beati i chiamati alla cena delle nozze dell’Agnello » (Apoc., XIX, 6, 7, 9).
2. – È tempo di lasciarsi alle spalle le immagini e di formarsi, per quanto la nostra debolezza lo consenta, un’idea più precisa delle delizie eterne di cui speriamo di godere un giorno. Che cos’è l’appagamento interiore, la delizia, il piacere o la gioia? Tralasciamo le sfumature che distinguono questi diversi termini e consideriamo solo ciò che hanno in comune, e possiamo rispondere che è il riposo nel possesso del bene. Supponiamo una soluzione a lungo cercata che trovo dopo mille sforzi; essa brilla con certezza agli occhi della mia intelligenza. Sono gioioso, perché possiedo il Bene che è la verità e sono consapevole di possederlo. Un avaro, che non dà tanto valore a nulla se non alla ricchezza, improvvisamente scopre di avere appena ricevuto la più magnifica delle eredità: ha oro al di là non dei suoi desideri, ma delle sue aspettative: questa è ancora gioia; gioia del tutto imperfetta. Una gioia imperfetta, è vero, ma che per il momento è sufficiente per il suo cuore. Questi, dunque, sono gli elementi della gioia: un bene che si ama, un bene che si possiede, con la consapevolezza di possederlo. Di conseguenza, quanto più prezioso è ciò che si possiede, quanto più ardentemente lo si è desiderato, quanto più perfetto e sicuro ne è il possesso, tanto più intensa e viva è la gioia che ne deriva. – Una volta stabiliti questi evidenti principi, chi non vede che la gioia delle gioie per il figlio di Dio derivi essenzialmente dalla chiara visione delle ineffabili bellezze di suo Padre e dall’amore di cui è infiammato per Lui? Il Bene che possiede non è un bene limitato, e nemmeno l’universalità dei beni finiti, ma tutto il bene, perché è il Bene per essenza e la fonte inesauribile da cui scaturiscono tutti gli altri beni. E questo bene egli lo ama con tutta la forza della sua anima: tanto che nessuna forza può staccarlo da esso. Ma il modo in cui lo possiede, è si tutti il più perfetto; non solo ne è penetrato nel profondo del suo essere, ma egli lo contempla faccia a faccia nella sua viva realtà, con la certezza che il suo possesso non subirà mai diminuzioni né termine. Non è forse evidente che nessuna gioia possa essere paragonabile alla sua? – Presentiamo la stessa verità da un altro punto di vista. L’uomo, intendo l’uomo nel suo stato più essenziale, è intelligenza e cuore. Pertanto, la pienezza della gioia per lui sarà misurata dalla sazietà di queste due parti di sé. Cosa serve per saziare la mente? Conoscere tutta la verità che è in grado di raggiungere e di conoscerla in modo sempre attuale e sempre perfetta. Conoscere: questo è lo scopo dell’intelletto. Da qui la sete di vedere, di imparare, da cui ogni essere ragionevole è affetto. Conoscere tutta la verità: finché è nascosta ai miei occhi in qualche luogo, non ho la perfezione del riposo, perché io sono fatto non per “una” verità ma per “la” Verità. E questo è uno dei motivi per cui moltiplicare la conoscenza è, in questo mondo, moltiplicare il dolore (Eccl. I, 18): perché più si conosce, più si vedono gli orizzonti dell’ignoto aprirsi davanti agli occhi. Conoscere in modo sempre attuale: infatti, ciò che soddisfa pienamente l’anima non è semplicemente la capacità o l’abitudine acquisita della scienza, ma l’atto che ci fa cogliere il suo oggetto. Conoscere finalmente nel modo più perfetto; non in modo confuso ed in penombra, non con ragionamenti dolorosi e più o meno mescolati all’ansia, ma direttamente, senza errori o fatica, nello splendore dell’evidenza e della luce. Questa sazietà completa, che la natura non è in grado di darci, Dio, rivelandosi nella sua gloria, la concede ai suoi figli. Infatti, se ben ricordiamo, attraverso la visione beatifica essi contemplano, con sguardo eterno ed in eterna estasi, tutte le bellezze create. Quali sono allora le gioie di quegli spiriti beati sui quali, una volta sorto, il sole della verità non tramonterà mai più, rivelando ai loro occhi estasiati gli orizzonti sconfinati, dove fino a quel momento tutto era oscurità o mistero per loro! – Cosa serve ancora per soddisfare il cuore? Dire che amare ed essere amato non è che una risposta che possa soddisfare: se l’amore ha le sue soddisfazioni, ha anche, come ben sappiamo, le sue battute d’arresto e i suoi tormenti. Chiedetelo piuttosto a tante anime che sono tristemente prese da beni caduchi e deperibili; a quei cuori in cui bruciano amori illegittimi, benché siano certi che amando essi siano riamati. Chiediamolo anche agli amici di Dio che, al di sopra di affetti colpevoli o fragili, vogliono amare solo in Dio e per Dio. Ovunque, anche se le cause siano diverse, sentiremo gemiti che ci diranno che l’amore per la terra, l’amore che s’inganna e l’amore che segue la regola del dovere non sono sazianti. Io lo comprendo, se è l’amore che si inganna: sono eternamente vere quelle parole che Sant’Agostino, pentito, rivolgeva al suo Dio: « Voi ci avete fatti per Voi, e il nostro cuore è turbato dall’ansia, finché non riposi in Voi » (Sant’Agostino, Confessioni, L. 1, c. 1). Il cuore dell’uomo è così grande che solo l’infinito sia in grado di riempirlo. – Ma perché le anime, per le quali Dio è tutto, gemono e sospirano? Colui che essi amano non è forse l’unico, sovranamente perfetto e felice, che è la bontà stessa e la sua stessa beatitudine? Senza dubbio, questa è una gioia profonda per tali anime, la cui grandezza è la misura della loro carità. Ma proprio questa carità esse possono perderla; ma quanto più la mantengono intensa, tanto più sentono il dolore di interromperne troppo sovente gli atti; esse sono lontane da ciò che amano sopra ogni cosa, e la distanza è il tormento del vero amore; esse non contemplano l’amato nella sua gloria, e non è né il testa a testa né il cuore a cuore che desiderano (S. Thom., 2 2, q. 28, a. 1 e 2). Io li sento invocare la dissoluzione dei loro corpi per essere con Cristo. La terra è un esilio per loro; e per quanto grandi siano le consolazioni divine che vengono a cercarli, è sempre una valle di lacrime; esse non vi vedono il loro Dio. Aggiungiamo, inoltre, che nonostante tutte le rassicurazioni che hanno di amare e di essere riamati, non ne hanno la piena evidenza. Ecco perché, più l’amore per la bellezza divina cresce in un cuore, più i santi dolori della separazione lo invadono e lo torturano. Quali gioie, allora, inonderanno queste anime quando Dio mostrerà loro finalmente il Suo unico volto desiderato; quando, contemplandolo raggiante sul trono della sua gloria, godranno eternamente della sua Presenza e del suo amore, senza temere di vedere mai la catena d’oro che le unisce a Lui interrotta o allentata? – Io ho parlato del rapimento in cui le getta la contemplazione delle infinite bellezze di Dio. ma non basta, per averne anche solo una pallida idea, concepire questa bellezza come infinita; è ancora necessario, ed è questo che rende lo spettacolo incomparabilmente più delizioso, considerare che questa bellezza, così incantevole, sia sovranamente amante e sovranamente amata. Altro, appunto, è il piacere di guardare un oggetto la cui sola bellezza ci incanta, per esempio un quadro di un grande maestro; altro è quello che ci dà la vista della stessa bellezza in una persona amata. E ciò che dovrebbe farmi comprendere ancora meglio questa gioia di vedere Dio tutto amante e tutto amato, è che lo vedrò e lo amerò in una moltitudine senza numero di altri se stesso, miei amici e miei fratelli, tutti illuminati dalla sua gloria e partecipi dell’amore che mi porta, felici della mia felicità come io lo sarò della loro stessa beatitudine (cfr. L. I, c. 3. Vol. 1). – « Entra nella gioia del tuo Signore », dice il padrone al servo diligente e fedele. Intra in gaudium Domini tui (Mt. XXV, 21). Non conosco nessun testo della Sacra Scrittura che dia un’idea più alta e più esatta della gioia degli eletti di queste poche parole. Che cos’è questa gioia di Dio, il Padrone e Signore di tutte le cose? È l’infinito appagamento che gode nella contemplazione e nell’amore delle sue infinite perfezioni; appagamento sostanziale, poiché non è altro che Se stesso; appagamento infinito, poiché è identico in tutto e per tutto adeguato all’oggetto che lo genera. – Entrare nella gioia del Signore significa dunque partecipare a questa incomprimibile contentezza che, secondo il nostro modo di concepire, produce nel Cuore di Dio l’eterna contemplazione della sua sconfinata perfezione e l’eterno abbraccio d’amore tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Questa espressione – « entrare nella gioia del Signore » – significa qualcosa di più. Esse ci insegnano che questa gioia di Dio è troppo grande per il cuore dell’uomo, per quanto possa essere dilatato dalla grazia. Essa vi entra, poiché è condivisa secondo la misura della conoscenza e della carità; la riempie, poiché è la gioia perfetta. Ma la gioia di Dio supera in modo eccellente tutte le gioie degli eletti, perché ogni creatura, essendo incapace di conoscerlo e di amarlo quanto Lui conosce e ama Se stesso, è altrettanto incapace di gustare in Lui le infinite delizie che vi trova. Ed è per questo che non è la pienezza assoluta della gioia divina che entra nell’uomo, ma è l’uomo che entra in essa, tanto essa trabocchi da ogni parte dopo averlo riempito (S. Thom. 2 2, q. 28, a. 3).
3. – Queste considerazioni sul principio della gioia beatifica ci hanno dato un’idea abbastanza chiara delle sue principali proprietà. Tuttavia, è necessario sottolinearne alcune in modo più esplicito. In primo luogo, poiché la pienezza della conoscenza e dell’amore è diversa nei Santi del cielo, è chiaro che la misura della gioia, il risultato naturale di essa, non debba essere la stessa per tutti. Ognuno di loro partecipa alla beatitudine secondo la capacità che i suoi meriti ed i suoi gradi di grazia gli hanno conferito. Quanto abbiamo detto sulla disuguaglianza nella conoscenza e nell’amore ci dispensa dall’addentrarci in spiegazioni più lunghe. – Un’altra proprietà della gioia beatifica è che essa esclude totalmente l’inquietudine dei desideri. La gioia – dice San Tommaso d’Aquino – è per il desiderio ciò che il riposo è per il movimento. Come il riposo assoluto presuppone che non ci sia più movimento, così la gioia completa esiste solo quando tutti i desideri siano soddisfatti. Finché siamo in questo mondo, il movimento dei nostri desideri non ha una fine precisa: infatti, al di là delle tendenze naturali, la condizione della carità propria del cammino è quella di potersi sempre avvicinare a Dio. Ma una volta che saremo in possesso di Dio, questo allora sarà il luogo di riposo finale di ogni desiderio. Cos’altro si può cercare, quando si ha il bene che basta per la felicità di Dio? Non si dica che il cuore dell’uomo non desideri solo il possesso di Dio, anche se questa è la sua aspirazione principale: Infatti, una volta soddisfatto questo desiderio, tutti gli altri svaniscono, perché sarebbero incompatibili con il godimento di Dio, o perché ricevono la loro perfetta sazietà (« Nihil desiderandum restabit, quia ibi erit plena Dei fruitio in qua homo obtinebit quidquid etiam circa alia bona desideraverit, secundum illud psalmi 102: qui replet in bonis desiderium tuum » – S. Thom, 2 2, p. 28, a. 3). – Entriamo, per mostrarlo in modo più evidente, in alcuni dettagli. Noi volevamo essere saziati dal vedere e conoscere; di più, dall’amare e dall’essere amati: non c’è bisogno di dire altro su come Dio soddisfi questa duplice aspirazione della nostra natura in cielo: come figli di Dio, noi gemiamo su di essa e siamo sempre pronti a fallire; e qui siamo diventati impeccabili, fissati per l’eternità nell’amore divino. Come uomini, aspiravamo alla grandezza, alla gloria, al potere, alla ricchezza e alla bellezza; e qui Dio, chiamandoci alla contemplazione della sua essenza, ce li dona con una generosità senza pari. Grandezza: il Re eterno dei secoli ci fa sedere con il suo Cristo, vicino a Lui, sul suo trono (Apoc. XX, 6; III, 21). Gloria: c’è una gloria pari a quella che proviene, non dalla lode umana, troppo spesso falsa, ma dal giudizio infallibile di Dio e dei suoi santi? Potendo regnare con Gesù Cristo, gli eletti partecipano al suo impero e sono davvero come dei re nella creazione. Ricchezza: essi godono del Bene per eccellenza, e possedendo in Esso tutti gli altri beni. La bellezza: i giusti risplenderanno come stelle; non basta dire questo, perché saranno dei, portando in tutto il loro essere la somiglianza con Dio. Uniti a corpi passibili e mortali, la nostra natura desiderava sfuggire alle sofferenze e non conoscere la morte; e questa immunità beata noi l’avremo certa, perfetta e completa in virtù della gloria dell’anima, che essa seguirà come conseguenza naturale (S. Thom, Gent, L, III, c. 63). – Sarà quindi una gioia completa, una gioia senza angoscia; una gioia così grande che per contenerla occorreranno cuori non più solo formati dalla natura, ma allargati e dilatati dalla grazia; un torrente di delizie divine che, per entrare nell’anima, deve scavarsi il suo letto. « Perché allora, miseri mortali quali siamo, andiamo avanti e indietro così, chiedendo e cercando con ardore irrequieto dove si possa trovare la felicità? Amate dunque l’unico Bene che comprende tutti i beni, e questo è sufficiente. In esso troverete tutto ciò che amate, tutto ciò che sospirate. » È con questa riflessione molto semplice, ma anche molto profonda, che sant’Anselmo si addentra nella descrizione dei beni posseduti da chi possiede Dio (S. Anselmo. Prosol., c. 24). Che tante anime ingannate nella ricerca della felicità possano meditarlo e seguirlo! – Incompatibile con dei desideri, la gioia dei Santi non lo è da meno con la tristezza del cuore. Questo è il privilegio che deriva dalla sua incomparabile purezza. Spieghiamo brevemente questo pensiero. Certamente, gli eletti hanno il diritto di gioire delle mirabili perfezioni che Dio ha così generosamente donato loro, come a suoi figli prediletti. Ma se essi ne gioiscono, la felicità di Dio provoca loro una gioia incomparabilmente maggiore. Cosa dire? Essi godono della propria felicità, non tanto perché sia un bene proprio, ma perché è la glorificazione della bontà del Signore. La causa ne è evidente: il movimento della gioia segue il movimento dell’amore. E questo è ciò che io chiamo la purezza della loro gioia. Da qui questa conseguenza, degna di nota: la disuguaglianza di felicità e di gloria tra gli eletti non farà sì che i più umili provino alcun rimpianto o tristezza. È perché il beneplacito di Dio, che essi amano più di ogni altra cosa e che li vuole in questo luogo, è loro gradito più di ogni altro, quando anche quest’altro luogo lo avvicinasse a lui. A loro sarebbe impossibile dire: Amico mio, lascia questo posto e sali più in alto (Lc XIV, 10), essi risponderebbero indignati: Esso è mio; non conosco altro luogo che si adatti meglio ai miei desideri, poiché la volontà di Dio, mio Padre, me l’ha dato – Un’altra conseguenza è che la conoscenza della disgrazia dei dannati, anche se fossero stati strettamente uniti a loro in questo mondo da legami di sangue o di amicizia, non causa alcuna tristezza a questi beati abitanti del paradiso. Quando si dice, per spiegarlo, che la pienezza della gioia non lascia spazio nel loro cuore alla tristezza, si adduce senza dubbio una ragione plausibile. Ma c’è ancora un’altra ragione più profonda: essi non li amano più, né possono amarli. Tra loro e questi sventurati c’è un grande abisso (Lc. XIV, 26), e su questo abisso non c’è passaggio alcuno per la carità. Come possono amare in Dio e per Dio coloro che Egli ha allontanato dal suo volto; e come potrebbero desiderare per loro la beatitudine eterna, senza contraddire la giustizia di Dio che rifiuta loro? (S. Thom. 2 2, q. 25, a. 11). È vero che possiamo e dobbiamo amare i peccatori, nemici di Dio, che sono ancora in cammino; ma questi peccatori possono, senza pregiudicare la giustizia divina, passare dalla loro attuale miseria alla dignità di figli di Dio. Desiderare la loro felicità eterna significa entrare nell’ottica di quella misericordia divina che li invita e li spinge a giungere alla grazia e, attraverso di essa, alla gloria. Il cuore di Dio non è irrimediabilmente chiuso nei loro confronti; e se io non li amo ancora perché Dio non è in loro, posso amarli perché vi possa essere (« Vel quia est in eo Deus, vel ut sit in eo Deus », dice San Tommaso, De Carit, q. 1, a. 4). – D’accordo, mi si dirà forse, gli eletti non possono amare i riprovati con un amore di carità; ma noi abbiamo visto come in loro ci siano altri affetti legittimi (cfr. L. IX, c. 7). Perché questi affetti non dovrebbero sopravvivere alla rottura assoluta dell’unione che la carità forma? Perché la carità, che regna sovrana nel cuore degli eletti, non può approvare che essi amino contro la volontà di Dio. Ora, ancora una volta, la carità, nel suo amore per la giustizia infinita, non può, senza mentire a se stessa, né volere né permettere alcun movimento affettivo che sia in disaccordo con gli eterni decreti. Dunque, non più di Dio, gli eletti non desiderano la salvezza o la liberazione delle tristi vittime della sua collera. Perciò non possono simpatizzare con le loro disgrazie: perché la compassione, quando è guidata dalla retta ragione, è per sua natura destinata ad alleviare la miseria che la muove, o almeno a desiderare che sia alleviata. Così, infine, la terribile condizione dei reprobi non può mescolare la minima goccia di amarezza alla gioia degli eletti, poiché essi non vogliono esserne allontanati. – Cosa dico? Questo peso dell’ira divina che grava sui peccatori impenitenti sarà motivo di gioia per i giusti; infatti, è scritto che « il giusto si rallegrerà quando vedrà la vendetta » (Sal. LVII, 11): non per durezza di cuore, ma per eccesso di amore; e questo è facile da capire, purché una falsa sensibilità non accechi gli occhi della ragione. Sarebbe crudele rallegrarsi della disgrazia eterna che colpisce i reprobi; quindi, non è in essa che si compiacciono gli amici di un Dio che è misericordia. Ma è amore perfetto di Dio l’amare l’ordine e il trionfo della sua giustizia, e questo è il punto di vista da cui la punizione di coloro che l’hanno ostinatamente sfidata, diviene una materia di gioia per gli eletti (S. Thom., Suppl., q. 94, a. 2 e 2). Così nessuna volontà, per quanto perversa possa essere, può odiare Dio considerato nelle sue infinite amabilità; il che non impedisce che questi lo perseguitino con un odio implacabile, che si ribellino ai suoi comandamenti o che siano schiacciati dalla sua giustizia sotto una maledizione eterna.
4. – Questa, dunque, è la gioia che Dio prepara per coloro che lo amano; o meglio, questa è l’idea più alta che la nostra infermità possa farsene di essa, perché essa appartiene solo a coloro che la gustano, per concepirla nella sua perfezione. Questo è il riposo eterno, dopo il lavoro della prova; quel riposo di cui è scritto: « Resta un altro sabbat per il popolo di Dio. Perché chi è entrato in questo riposo si riposa anche dalle sue opere, come Dio dalle sue » (Ebr. IV. 9, 10). E ancora: « Udii una voce dal cielo che mi diceva: Scrivi: Beati quelli che muoiono nel Signore. D’ora in poi – dice lo Spirito – si riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono. E Dio asciugherà tutte le loro lacrime; e non ci sarà più la morte, né lutto, né pianto, né dolore, perché il primo stato è finito » (Ap. XIV, 13 – XXI, 4). È questo è il riposo di Dio; non è, come dice Sant’Agostino nel suo linguaggio inimitabile, « un ozio pieno di noia, ma l’ineffabile tranquillità di un’azione riposante e piena di ineffabili godimenti » (Sant’Agostino, ep. 65, ad Januar., n. 16): riposare nell’attualissima, immutabile, amabilissima e inebriante contemplazione di Dio. – Di conseguenza, è anche la pace, la pace di Dio che sorpassa ogni sentimento (Philip. IV, 7), la pace annunciata da Isaia, quando diceva in nome di Dio: « Il mio popolo si siederà nella bellezza della pace, e abiterà nei tabernacoli della confidenza ed in un riposo opulento » (Is. XXXII, 18). E questa pace non sarà una pace incompleta, come quella dell’esilio per i figli di Dio, poiché tutti i movimenti dei cuori, portati sulle ali della stessa carità verso un solo e medesimo fine, uniti in un solo e medesimo centro, non conosceranno più la lotta interiore tra le tendenze che i dissensi e le discordie all’esterno (S. Thom. 2 2, q. 29, a. 1, sqq.). Essa non sarà una pace instabile e malferma, perché la catena dell’amore giubilante che lega tutti gli affetti e tutti i cuori in un unico fascio non potrà mai essere spezzata o allentata. Non sarà una pace bugiarda, perché è essenzialmente « la tranquillità dell’ordine » nella conoscenza e nell’amore. Perciò, « a Gerusalemme loda il Signore; canta al tuo Dio in Sion. Perché egli rafforza le sbarre delle tue porte… e ti ha dato la pace come confine » (Sal. CXLVII, 1-3). Cosa dico? Egli stesso è la tua pace, ed è per questo che questa pace è pure permanente come il trono nell’eternità. – Tuttavia, la pienezza della sazietà che rende la gioia del cielo, non è incompatibile con il desiderio e la sete. Com’è possibile? Non disse forse Gesù Cristo alla Samaritana: « Chiunque beve di quest’acqua (l’acqua del pozzo di Giacobbe) avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che Io gli darò non avrà mai più sete »? (Giovanni IV, 13). Sentiremo mai in cielo il gemito che esce dalla bocca del Salmista: « Come il cervo desidera l’acqua delle fonti, così l’anima mia anela a te, o mio Dio. La mia anima desidera il Dio vivo e forte. Quando apparirò davanti al volto di Dio? » (Ps XLI, 2) E quest’altro lamento: « Dio, Dio mio, ti cerco fin dall’aurora; l’anima mia ha sete di te, la mia carne si consuma per te… finché non veda la tua potenza e la tua gloria nel santuario » (Sal. LXII, 1, 2, 3). Questi sono gli accenti che rivelano la sete dell’esule; una sete tanto più ardente perché è Dio stesso che la suscita nei cuori: poihé, secondo una magnifica espressione di san Gregorio di Nazianzo, « Egli ha sete della nostra sete”. Sitit sitiri. Sospirare di Lui è fargli una grazia » (San Gregorio Nazianzeno, Orat. 40, n. 27, P. Gr. 36, p. 397). In cielo il linguaggio è del tutto diverso e il Profeta reale lo testimonia in mezzo alle sue lacrime: « O Signore – grida – vedrò il tuo volto e sarò soddisfatto quando mi apparirà la tua gloria ». Perché « non avranno più fame né sete » … coloro che hanno reso candide le loro vesti nel sangue dell’Agnello » (Sal. XVI, 15; Ap. VII, 14, 16). – La sete è della terra, la sete non è del cielo; eppure, i beati avranno sete, poiché bevono avidamente alle sorgenti eterne; avranno fame, poiché mangiano con piacere il pane degli Angeli. La fame senza fame, la sete senza sete, come spiegare questo enigma? Io distinguo una doppia sete, e ciò che dirò al riguardo deve essere inteso anche per la fame: c’è la sete del cervo che, stanco, ansimante, grondante di sudore, cerca la fontana; e la sete del cervo che, avendola trovata, ne beve a lungo. La prima è la nostra, la sete prodotta in noi dall’ansia dei desideri insoddisfatti; l’altra è la sete degli eletti, la sete degli stessi desideri che possiedono ciò che hanno perseguito. – San Tommaso, affrontando una questione molto vicina alla nostra, fa notare che la parola sete, intesa dei desideri dell’anima, può essere compresa in un duplice significato. In senso proprio, essa esprime non un desiderio qualsiasi, ma il desiderio di un bene che si persegue senza ancora possederlo. Chi non vede che una tale sete non si possa trovare negli eletti di Dio, poiché la visione beata è la piena e completa soddisfazione di tutti i loro desideri? Ma se prendiamo la sete nel senso più ampio della parola, cioè per quell’intensità di affetto che esclude ogni disgusto, ogni noia nel godimento, è negli stessi eletti una sete sempre viva e sempre inestinguibile, perché l’anima non si stancherà mai di contemplare la bellezza suprema e di amare ciò che contempla. Ed è a partire da questa sete che possiamo comprendere le parole della Sapienza nel libro dell’Ecclesiastico (Eccl. XXIV, 25): « Coloro che mi bevono avranno ancora sete » (S. Thom., A. 2. q. 33, a. 3: col, IV, D. 49, q. 3, a. 2). – Trascriviamo ancora su questo tema alcune righe di S. Francesco di Sales. « Il godimento di un bene che soddisfa sempre non appassisce mai, ma si rinnova e fiorisce incessantemente; è sempre amabile, sempre desiderabile… Il bene infinito fa regnare il desiderio nel possesso e il possesso nel desiderio; avendo mezzi per soddisfare il desiderio con la sua santa presenza, e per farlo vivere ogni giorno con la grandezza della sua eccellenza, che alimenta in tutti coloro che lo possiedono, un desiderio che è sempre appagato, ed un appagamento che è sempre desideroso. (Trattato sull’amore di Dio, L. V, c. 3). C’è una grande differenza tra la sete materiale e la sete dei beati, anche se entrambe sono placate alla fonte che desiderano ardentemente. Nell’uno, il passaggio dalla sazietà alla secchezza è molto breve, mentre nell’altro dura per sempre, ravvivato com’è dalla cosa stessa che lo sazia (« Ex prægustatis deliciis amplius in desideriis (amans) exardescit, quod, étsi denturad plenitudinem, nunquam tamen ad satietatem ». Ricard. di S. Vict: de Gradibus charit, c. 2; et fusius, in Cantic, c. 10). Se gli eletti nella loro ubriachezza gridano al Signore: Basta, basta, non è che essi vogliano dire: ritirate la coppa dalle mie labbra, non versate a fiotti la vostra verità nella mia intelligenza e la vostra bontà nel mio cuore; io sono stanco e disgustato. È l’esclamazione estasiata di un’anima che è piena, che trabocca; impotente a ricevere più luce, più amore e più gioie; di un’anima che confessa che, in questa lotta tra Dio che si effonde e la sete che si appaga, la vittoria rimane alla fonte: « vincit fons silientem ». – « Videbimus, amabimus gaudebimus; Vedremo, ameremo, saremo nella gioia »: questa è la vita del cielo per Sant’Agostino, e questa è la vita che abbiamo visto nelle pagine precedenti. Un grande poeta la definisce giustamente, nei suoi canti pieni di profonda teologia: « una luce intellettuale piena d’amore, un amore del vero bene pieno di gioia, una gioia che supera ogni dolcezza » (« Luce intellettuale piena d’amore. / Amor di vero ben pien letizia. / Letizia che trascende ogni dolziore ». Dante, Parad. Cant. XXX, 101-3). – Tale sarà la perfezione finale dei figli di Dio, considerati dal lato dell’anima, cioè la loro perfezione sostanziale, e questo è anche per loro il fine ultimo. Il termine “fine” può essere inteso in due significati correlati. Esso designa sia l’oggetto stesso della tendenza, il principio che lo determina, sia il possesso di questo oggetto. Dal primo punto di vista, tutti gli esseri creati hanno lo stesso fine ultimo, perché tutti sono ordinati verso Dio come loro Bene supremo. Ma, nel secondo senso, il fine ultimo della creatura inferiore è diverso da quello della creatura ragionevole, elevata dalla grazia. Infatti, mentre il primo può raggiungere Dio solo partecipando in modo molto imperfetto alle sue infinite perfezioni, il secondo lo raggiunge, come Lui raggiunge se stesso, attraverso la conoscenza e l’amore. Pertanto, poiché i figli di Dio, giunti al termine della loro vita, godono di Dio in modo così completo, è evidente che essi siano in possesso del loro fine ultimo. È anche evidente che essi hanno la beatitudine; sia che per beatitudine si intenda l’oggetto il cui godimento dà la felicità perfetta, sia che si intenda la felicità stessa.