LA GRAZIA E LA GLORIA (49)
Del R. P. J-B TERRIEN S.J.
II.
Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901
Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.
LIBRO IX
LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA
CAPITOLO VII
Sull’amore beatifico. – Il suo oggetto principale, i suoi oggetti secondari e l’ordine tra questi diversi oggetti d’amore.
1. Qual sarà l’oggetto del nostro amore beatifico? Dio amato innanzitutto per se stesso, Dio come oggetto principale; e, come oggetti secondari, le creature di Dio, amate in Dio e per Dio. Ricordiamo quanto abbiamo detto a proposito della visione beata; come, da diversi punti di vista, Dio sia e non sia l’unico oggetto. Non è l’unico oggetto, poiché gli eletti vedono con Lui delle innumerevoli moltitudini di esseri creati, ciascuno secondo la misura della sua grazia e dei suoi meriti. Egli ne è l’unico oggetto, perché è in Lui che si contemplano questi esseri creati, tanto che, se c’è una pluralità di oggetti materiali, non c’è che un unico oggetto formale. Lo stesso vale per l’amore beatifico. Non è solo Dio ad esserne l’oggetto: perché questo amore deborda sulle creature di Dio; e tuttavia, d’altra parte, non ha altro oggetto che Dio, perché la virtù della carità non ama che per Dio ed in Dio gli esseri creati, distinti da Dio. Certamente, né il mio Salvatore nella sua amabilissima umanità, né la sua divina Madre, né i Santi del cielo, i compagni ed i fratelli di Gesù, saranno estranei all’amore beatifico; ma per raggiungerli, questo amore deve passare attraverso Dio, poiché esso è modellato sull’amore che Dio stesso ha per loro, e Dio li ama solo per se stesso, cioè perché Egli si ama in loro come nelle sue immagini. – Cerchiamo di rendere più sensibili queste verità con un esempio tratto dalle nostre Sacre Lettere. Si narra che il giovane Tobi, giunto sotto la guida dell’Arcangelo a casa di Raguele, quest’ultimo fosse estremamente colpito dalla somiglianza che egli aveva con Tobia, suo parente. Così quando seppe che i due viaggiatori erano della tribù di Neftali, chiese loro con impazienza: Conoscete mio fratello Tobia? Lo conosciamo – disse Raffaele – e questo giovane è suo figlio. Poi, aggiunge il testo sacro, Raguele si precipitò da lui e lo baciò con le lacrime; e piangendo sul suo collo, disse: Che Dio ti benedica, figlio mio, perché hai per padre un uomo eccellentemente buono e virtuoso (Tob. VII, 1, ss.). Da dove viene questo slancio di tenerezza ed amore per Tobia in Raguele? Non per le qualità personali che egli vedeva in lui, poiché non lo conosceva ancora; ma solo per il profondo affetto che nutriva per il padre, al quale questo figlio assomigliava così tanto. Sia tu Benedetto, egli dice. E perché benedetto? Perché sei il figlio del mio fratello molto amato e virtuoso. Questo è ciò che fa la carità: ama Dio nella creatura e la creatura in Dio; cioè ama Dio solo per amore di se stesso e la creatura per amore di Lui (San Francesco di Sales, Trattato dell’amore di Dio, L. X, c. 11). « Così – dice ancora San Tommaso d’Aquino – la carità ama Dio per di Dio, e le creature ragionevoli in quanto si rapportano a Dio; talmente che è Dio stesso che essa ama nel prossimo; infatti, amare questi con carità significa amarlo o perché Dio è in lui, o perché Dio sia in lui: sic enim proximus caritate diligitur, quia in eo est Deus, vel ut in eo sit Deus » (S Thom.., de Carit, q. un., a. 5), – Questo è, per dirla in breve, ciò che ci spiega come, anche quaggiù, una stessa abitudine alla virtù ci faccia amare Dio ed il prossimo, essendo l’oggetto formale che motiva i suoi atti sempre e ovunque la bontà divina. – Ci sono bellissime riflessioni su questo tema in San Francesco di Sales. Esortando i Cristiani « a ridurre tutta la pratica delle virtù e delle nostre azioni al santo amore », presenta loro come modelli i beati abitanti della patria. « Infatti egli dice – gli Angeli e i Santi del cielo non hanno altro fine che l’amore per la bontà divina ed il desiderio di piacergli. Si amano tra loro molto ardentemente; essi amano anche noi, amano le virtù, ma solo per piacere a Dio… Essi amano la loro felicità, non in tanto che sia ad essi, ma nella misura in cui piace a Dio. O anche amano l’amore di cui amano Dio, non perché sia in loro, ma perché tende a Dio; non perché sia dolce per loro, ma perché piace a Dio; non perché lo abbiano e lo possiedano, ma perché Dio lo comanda e se ne compiace. » (S. Franc. De Sales, Trattato sull’amore di Dio, L., XI, c. 13). È così che l’amore di Dio negli eletti può estendersi senza essere diviso, abbracciando la molteplicità dei suoi oggetti nell’unità della stessa virtù, dello stesso motivo e di uno stesso atto. – Cosa, questa, che non significa che tali beati rimangano indifferenti sia alla propria perfezione o a quella dei loro fratelli. Come potrebbero esserlo, visto che Dio, che dà loro questa santità, vuole che la cerchino e che ne gioiscano? Non pensate che la purezza dell’amore richieda di essere insensibili ai propri interessi. Che dunque? La mia carità si appannerebbe se la usassi per amare me stesso come io sono amato da Dio? Ora Dio, ancorché mi amasse solo per se stesso, vuole comunque per me il mio interesse; cosa dico? È l’unico che Egli cerca, quando mi ama e mi attira nel suo amore. Quale profitto potrebbe trovare per sé nel fatto che noi lo conosciamo e lo amiamo? Lo renderebbe questo più santo, più perfetto, più potente o più felice? No: tutti i benefici sono per noi. E questo spiega come solo Lui sia assolutamente liberale; perché, qualsiasi cosa faccia, la fa con infinito disinteresse. Senza dubbio Egli cerca la sua gloria: ma per il nostro bene e non per il suo (« Deus suam gloriam non quærit propter se, sed propter nos »). « Non è per sua utilità che Egli agisce fuori da sé stesso, ma per la sua bontà » (S. Thom. 2, 2. q. 132, a. 1) … che chiede di espandersi in benefici. – Io posso quindi gioire della mia beatitudine a condizione, se voglio essere un perfetto imitatore del mio Dio, di amarlo nel suo primo principio e perché ne è la gloria. Il mio amore non risale dal ruscello alla sorgente, ma discende; infatti, amo gli effetti, perché vedo in essi l’immagine della causa. Sarebbe troppo strano, in verità, se l’amore di Dio mi vietasse di amare ciò che mi avvicina a Lui, ciò che mi unisce a Lui, ciò che mi rende suo amico, suo figlio; in una parola, ciò senza il quale non potrei corrispondere con un amore eterno all’amore con cui Lui stesso mi ha prevenuto. È in questo modo che l’amore della bontà infinita si estende fino all’amore e di me stesso e di coloro che, come me, sono chiamati a portare la sua immagine in loro. In fondo, come abbiamo già insinuato, questo amore ha un solo oggetto: infatti, pur abbracciando un numero infinito di creature diverse da Dio, le ama in Dio e per Dio (« Proximus non diligitur nisi ratione Dei: unde ambo sunt unum dilectionis, formaliter loquendo, licet materialiter sint duo » – S. Tommaso, q. un., a. 5, ad 1). Così la visione beatifica è unica nel suo atto, perché tutto ciò che essa contempla con Dio, lo contempla in Lui, nella sua luce infinita.
2. – Resta da dire qual sarà per gli eletti di Dio l’ordine che debbano mettere tra i diversi oggetti del loro amore. Ora, per rendere più precisa la questione, richiamiamo innanzitutto l’attenzione sul fatto che qui si tratta solo dell’amore che riguarda le persone, cioè gli esseri ragionevoli, gli unici in grado di essere amati con amicizia. Aggiungiamo che stiamo considerando l’ordine della carità come sarà nella città benedetta, quando tutte le incertezze e le necessità che possono modificarla nella vita presente saranno svanite. Certamente, Dio sarà sempre il primo ad essere amato, perché Egli è e sarà sempre il nostro Bene sovrano, il Bene la cui partecipazione comune è la ragione della società che gli abitanti della Gerusalemme celeste hanno tra loro. Ma amano essi ugualmente ciascuno dei loro compagni di gloria presso Dio, o dobbiamo ammettere una certa diversità nell’amore che portano loro? – I moralisti, il cui scopo è quello di renderci consapevoli della natura e della portata dei nostri doveri, hanno discusso a lungo l’ordine della carità divina, e San Tommaso in particolare ha dedicato una delle sue più belle Questioni alla soluzione dei problemi che essa solleva (S. Thom. 2 2, q. 26). Noi non dobbiamo riferire le conclusioni dottrinali alle quali li ha condotti il loro studio, e tanto meno il ragionamento con cui vi si è giunti: perché la carità di cui si occupano è una carità in via, mentre noi la prendiamo al termine. – Diciamo però qual sia il principio da cui partono e che serve loro come faro per raggiungere con maggiore sicurezza le soluzioni desiderate. È che il grado di amore ha, per così dire, una duplice misura: da un lato, l’eccellenza della persona amata o, ciò che equivale alla stessa cosa, la sua unione più o meno perfetta con Dio, la Bontà sovrana; e dall’altra parte, i legami più o meno stretti che legano questa stessa persona a colui che l’ama, dovendo ogni atto essere proporzionato non solo all’oggetto che lo specifica, ma anche al principio che lo stabilisce. – Nulla è più evidente della prima parte di questa regola; infatti, se il motivo per cui amo il mio prossimo non è altro che la bontà di Dio, quanto più il prossimo partecipa a questa bontà, tanto più è degno del mio amore. La seconda non è da meno; non ne voglio altra prova che il precetto stesso della carità che mi ordina di amare il mio prossimo come me stesso. Che cos’è, infatti, il prossimo se non colui che ne è vicino? Pertanto, più una creatura di Dio si avvicina a noi, più è una cosa sola con noi, più acquisisce titoli più pressanti al nostro amore. Sarà dell’affezione che brucia il cuore, come il calore di un focolaio: più ne siamo vicini, più si sente la sua influenza. La conseguenza è che, come regola generale, io posso ed anzi devo adoperarmi tanto più attivamente nel procurare il bene dei miei fratelli in Gesù Cristo, quanto più intimamente essi siano uniti a me, sia nell’ordine della natura, sia nell’ordine della grazia. – E non solo poco, in virtù di questa più singolare intimità, ma io posso desiderare più intensamente per questi che per gli altri il bene che desidero universalmente per tutti; ma, finché Dio mi lascia ancora nell’ignoranza di quale degli attuali oggetti della mia carità sarà definitivamente più simile a Lui; finché li vedo in uno stato di movimento, dove i più imperfetti possono crescere e altri più perfetti diminuire, nulla mi impedisce di desiderare una preminenza di merito e di gloria a chi mi è più particolarmente unito (« Possumus etiam ex charitate velle quod iste qui est mihi conjunctus, sit melior alio, et sic ad meliorem beatitudinem pervenire possit ». – S. Thom, 2 2, q. 26, a. 7). – Tale è, secondo il principio fondamentale, l’ordine della carità nel tempo. Ma nella beata eternità quest’ordine, pur rimanendo lo stesso nella sostanza, subirà delle modifiche in base ai cambiamenti operati nello stato delle persone. Non potrò più desiderare per ciascuno degli eletti un altro bene, o un’altra felicità, se non quella che è immutabilmente determinata per loro dalla giustizia sovrana. Né potrò essere più zelante per gli interessi di coloro che mi erano più vicini, poiché essi possiedono, senza che nulla possa accrescerli o toglierli, tutta la perfezione a cui è possibile aspirare. In cielo, quindi, l’amore beatifico della carità avrà una sola regola e una sola misura: quella imposta dalla relativa vicinanza degli eletti a Dio. Così il movimento del nostro amore sarà in tutto e per tutto conforme a quello di Dio; poiché lo amiamo sopra ogni cosa; ameremo in Lui e per Lui i nostri compagni di gloria secondo il modo in cui Egli stesso li ama, cioè secondo che essi portino più o meno gloriosi i tratti della divina bellezza (S. Thom., 2 2, q. 26, a. 13, col. a. 6-9.). – Ciascuno degli eletti, come immerso nell’oceano di infinita bontà che lo attrae, considererà che quelli tra i suoi fratelli sono tanto più strettamente uniti a lui, quanto che Dio stesso si è identificato più perfettamente, essendo il centro comune di ogni unione (« Totus ordo dilectionis observabitur per ordinem ad Deum, ut scilicet ille magis diligatur et propinquior sibi habeatur ab unoquoque, qui est Deo propinquior », S. Thom, l. c.). – Se dunque vogliamo delineare, almeno in poche parole, questa celeste gerarchia della carità, diciamo innanzitutto che prima di tutte le creature dobbiamo amare con tutta l’anima Gesù, il Dio fatto uomo: Egli è il Figlio prediletto di Dio, l’oggetto più caro e perfetto della sua infinita compiacenza. Dopo Gesù, ameremo Maria, Madre divina sua e nostra, poiché è, incomparabilmente più di ogni pura creatura, l’immagine privilegiata di Dio, lo specchio radioso in cui Dio si dipinge con uno splendore che nulla supera, se non la gloria del Verbo incarnato. Quando ricordiamo ciò che è stato il Beato Giuseppe e gli omaggi che gli sono stati tributati dalla Santa Chiesa, non sembra avventato credere che egli avrà il terzo posto d’elezione nei nostri cuori. E poi ameremo quelle innumerevoli legioni di Angeli fedeli, e quelle forse non meno innumerevoli legioni di Santi che risplendono nel firmamento del cielo; e ameremo ciascuno nel proprio ordine in proporzione alla gloria e alla santità che lo uniscono a Dio. E questo amore non sarà la carità generale con cui ora abbracciamo la maggior parte delle creature ragionevoli, impotenti come siamo ad amarle tutte individualmente, ma una carità particolare che sarà diretta verso ciascuno degli eletti, perché ognuno di loro sarà presente a noi attraverso una conoscenza chiara e sempre attuale, con i titoli che lo rendono amabile. – Ameremo e saremo amati noi stessi: amati dal cuore di Dio, amati dal cuore di Gesù e di Maria, amati da tutte quelle migliaia di cuori così puri, così grandi, così nobili; amati in Dio e per Dio, quanto Dio stesso è amante e amato, cioè finché è Dio. Ahimè, in questo mondo la carità per gli uomini è così raramente amicizia! Quanti sono coloro che amiamo con carità che, indifferenti a Dio, ed anche suoi nemici, sono indifferenti anche ai figli adottivi e agli amici di Dio! In cielo c’è un’amicizia perfetta, perché tutti gli eletti, sotto lo sguardo e nel seno del loro Padre comune, vivono la stessa vita, partecipano agli stessi beni, siedono alla stessa mensa e sono inebriati dallo stesso flusso di ineffabili delizie; e da tanti cuori non si fa che un solo cuore, e da tanto amore, un solo amore. Cosa serve ancora per il regno totale e completo dell’amicizia? – Ma a me sembra di intendere un’obiezione che occorre risolvere. Se nella patria celeste l’ordine della santità regola in modo assoluto quello dell’amore, allora un padre, una madre, i figli, gli sposi, in una parola, tutti coloro i cui cuori sono stati uniti quaggiù dalla natura e da altre cause legittime, e le cui anime sono state confuse, non si ameranno più in modo speciale, e tanti legami, così dolci e così forti, che li tenevano uniti, saranno eternamente allentati o spezzati. Dio non voglia che la nostra dottrina porti ad una simile conclusione! Infatti, finora abbiamo parlato solo dell’amore beatifico della carità; di quell’amore che, avendo Dio come oggetto formale, abbraccia con Lui nell’unità di un unico atto tutti coloro che Egli ha resi partecipi della sua infinita bontà. Ma non più della grazia, la gloria che è la sua consumazione, distrugge la natura. E come potrebbe distruggere la natura, visto che la presuppone? Cosa accadrebbe alla luce della gloria o alla carità soprannaturale se non ci fossero l’intelligenza e la volontà dell’uomo, due facoltà che emanano dalla natura umana, per essere il loro necessario supporto? – Pertanto, ciò che la grazia e più completamente la gloria escludono non è la natura, ma il difetto della natura, lo squilibrio delle sue tendenze, la sua ignoranza e le sue debolezze. Ora, gli affetti speciali che legano i membri di una stessa famiglia, o quelli che nascono dalla comunità di vedute, di aspirazioni e di vita, pur provenendo dalla natura, possono esistere senza disordine. In origine scendono dal cielo e, a condizione che evitino le contaminazioni della terra o se ne purifichino, possono ritornarvi, più dolci, più vivaci e più duraturi di quanto non siano mai stati nell’esilio: la santa e gloriosa carità, mantenendoli nella regola, li approva, li incoraggia e dà loro vita. È quanto ho appreso dal Dottore Angelico quando insegna che « nella patria celeste ameremo in modo maggiore coloro che ora sono più intimamente uniti a noi: perché le oneste cause della reciproca dilezione non cesseranno di esercitare la loro influenza sulle anime dei beati » (S. Thom. 2 2, q. 26, a, 12). – Non cediamo però ad un rozzo grossolano sentimentalismo e non mettiamo al primo posto affetti e simpatie che, per loro natura, non hanno diritto che all’ultimo. Per questo il santo Dottore ci avverte nello stesso testo che « il motivo di amare che derivi dalla vicinanza a Dio supera incomparabilmente (encomparabiliter) tutti gli altri motivi possibili ». Il beato che sale al cielo vi troverà sua madre e sentirà il cuore del figlio sussultare d’amore per lei: questa è la legge della natura giusta che non potrebbe violare senza dispiacere all’Autore della natura. Ma per quanto grande possa essere la sua naturale tenerezza per la madre, sarà sempre inferiore all’amore di carità che egli porta per la santa. – È dunque dell’amore come della conoscenza. Abbiamo notato negli eletti di Dio, al di fuori della visione finale, un ordine inferiore di percezioni che ricevono dalla sua influenza una certezza, una vivacità la cui intensità ci sfugge. Così in cielo troveremo, oltre all’amore che nasce dalla carità, affetti meno elevati che la carità perfeziona e preserva da ogni deviazione. Confrontando le une con le altre, direi volentieri che queste conoscenze e questi molteplici affetti sono più dell’uomo, mentre l’amore e la visione beatifica sono eccellentemente da Dio. – Questa, dunque, è la santa e sublime unione nell’amore eterno che fa la Chiesa del cielo! Dio che ama se stesso infinitamente, e di questo amore che va con un movimento eternamente immutabile dal Padre al Figlio e da entrambi allo Spirito Santo, abbracciando ogni creatura divinizzata mediante la grazia e la gloria. E queste creature, trasportate da un simile movimento d’amore, amano Dio con tutta la forza del loro essere, e in Dio e per Dio amano se stesse e tutto ciò che Egli ama e nell’ordine che Egli ama. Ecco qua – io dico – il “fiume impetuoso” che rende lieta la città di Dio (Sal. XLV, 5). È un fiume, perché ha una sorgente da cui sgorga e si riversa: il cuore del Padre, un fiume impetuoso: nulla lo ferma, perché Dio stesso non può, senza annientarsi, impedirgli di riversarsi dal Padre al Figlio, e dal Figlio sullo Spirito Santo, nel quale è eternamente personificato; impetuoso ancora, poiché è giunto fino a noi, per riempirci, rompendo tutti gli ostacoli opposti dall’inferno e dalle nostre passioni al suo libero corso. E questo fiume rallegra la città di Dio, come ci resta da spiegare in modo più dettagliato.