QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: NOVEMBRE 2022
ATTO EROICO DI CARITÀ VERSO I MORTI
OSSIA OFFERTA A MODO DI VOTO
Il padre teatino Gaspare Oliden di Alcalà, infiammato da zelo straordinario pel suffragio Di tutto il merito delle proprie buone opere in suffragi delle anime del Purgatorio, insinuò colla voce e colla stampa una pratica antica in sostanza, ma nuova nella forma, quella cioè di fare una spontanea oblazione di tutte le opere soddisfattorie che si fanno in vita e dei suffragi che si possono avere in morte, affinché la Santissima Vergine ne disponga a pro di quelle Anime sante che vuole liberare dal Purgatorio. Benedetto XIII, con suo Breve 23 agosto 1728 pubblicato in Madrid per mezzo del Nunzio Apostolico Alessandro Aldobrandini il 14 gennajo 1729, approvo solennemente tal pratica, e la arricchì dei tre privilegi che qui sotto si riferiscono. Pio VI confermò tali concessioni il 12 dicembre 1788; e Pio IX, con decreto Urbis et Orbis, del 30 settembre (1852, dichiarò solennemente la utilità e la eccellenza di questa divozione, confermando tutti i favori perciò concessi dai surriferiti suoi Predecessori. – Questo atto di carità si è detto che non è nuovo nella sostanza. Difatti, prima che fosse tanto inculcato dal Padre Oliden, fu praticato e raccomandato da due celebri Gesuiti, il P. Moncado, ed il P. Ribadeneira, non che dal P. Maestro Fr. Giacomo Baron, da S.Geltrude,da S. Liduina, da S. Caterina da Siena, da S. Teresa, dal Venerabile Ximenes, e più specialmente da S. Brigida, la quale, in punto di morte, fu dal celeste suo Sposo assicurata ché per la carità da lei usata alle Anime Purganti le erano perdonate tutte le pene che avria dovuto soffrire nel Purgatorio, e le sarebbe di molto aumentata la corona di gloria nel Paradiso .
I tre summenzionati Privilegi sono:
1. I Sacerdoti che hanno emesso tal voto godono l’indulto dell’altare Privilegiato personale per tutti i giorni dell’anno; 2. Tutti i fedeli che avranno fatto questo voto possono lucrare Indulgenza Plenaria applicabile solamente ai defunti in qualunque giorno si accostino alla SS . Comunione, purché visitino una qualche chiesa o pubblico oratorio e vi preghino secondo la mente di Sua Santità; 3. Similmente possono lucrare la Plenaria Indulgenza in tutti i lunedì dell’anno ascoltando la Santa Messa in suffragio delle anime Purganti ed adempiendo le altre suaccennate condizioni.
Formola dell’offerta a modo di voto.
Per vostra maggior gloria, o mio Dio, uno nell’essenza e trino nelle Persone, per imitare più dappresso il dolcissimo Redentore mio G. C. , e per mostrare la sincera servitù mia verso la madre della misericordia Maria santissima, che è madre anche delle povere anime del Purgatorio, io mi propongo di cooperare alla redenzione e libertà di quelle anime prigioniere debitrici ancora verso la divina giustizia delle pene dovute ai loro peccati; e nel modo che posso lecitamente, senza però obbligarmi sotto peccato alcuno vi prometto di buon cuore, e vi offro il mio spontaneo voto di voler liberar dal Purgatorio tutte le anime che Maria Santissima vuol liberare; e però nelle mani di questa Madre piissima pongo tutte le mie opere soddisfattorie e quelle da altri a me applicate sì in vita che in morte, e dopo il mio passaggio alla eternità. – Vi prego, o mio Dio, a volere accettare e confermare questa mia offerta, siccome io ve la rinnovo e confermo ad onor vostro ed a salute dell’anima mia. Che se per avventura le mie opere soddisfattorie non bastassero a pagare tutti i debiti di quelle anime cui la Vergine Santissima vuol liberare, non che i miei propri per le mie colpe, che odio e detesto di vero cuore, mi offro, o Signore, a pagarvi, se a Voi così piacerà, nelle pene del Purgatorio quello che manca, abbandonandomi del resto fra le braccia della vostra misericordia e tra quelle della dolcissima mia madre Maria. Di questa mia offerta e protesta voglio testimonj tutti i Beati del Cielo e la Chiesa tutta cosi militante qui in terra, come penante nel Purgatorio. Cosi sia.
Osservazioni su detto voto.
Giova avvertire: 1.Che per fare questo voto non è necessario pronunziare la suindicata formola, sebbene basta averne la volontà ed emetterlo col cuore; 2. Che esso non obbliga sotto pena di peccato; 3. Che per esso alle Pur ganti non si cede se non il frutto speciale e personale di ciascuno, il che punto non impedisce che i Sacerdoti possano applicare la Santa Messa all’intenzione di quelli che loro diedero la elemosina; 4. Che per esso voto tutte le Indulgenze che sono concesse o si concederanno in avvenire possono applicarsi alle Purganti; 5. Finalmente, che per concessione di Pio IX, 20 novembre 1854, coloro che non possono ascoltare la S. Messa nel lunedì, possono far valere quella che ascoltano nella domenica, e che pei giovanetti che ancora non sono alla comunione, e per coloro che sono impediti di farla, è rimesso all’arbitrio dei rispettivi Ordinarj di autorizzare i Confessori per la commutazione.
(G. Riva: Manuale di Filotea, XXX Ed. Milano, 1888).
589
Fidelibus, qui mense novembri preces aliave pietatis exercitia in suffragium fidelium defunctorum præstiterint, conceditur:
Indulgentia trium annorum semel quolibet mensis die;
Indulgentia plenaria, suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem pietatis opus compleverint. Iis vero, qui præfato mense piis exercitiis in suffragium fidelium defunctorum in ecclesiis vel publicis oratoriis devote interfuerint, conceditur:
Indulgentia septem annorum quolibet mensis die;
Indulgentia plenaria, si memoratis exercitiis saltem per quindecim dies vacaverint, additis sacramentali confessione, sacra Communione et oratione ad mentem Summi Pontificis.
[Per i fedeli che nel mese di novembre compiranno esercizi di pietà in suffragio dei fedeli defunti, si concede: indulgenza di tre anni in qualunque giorno – sette anni se compiuto in chiesa o in pubblico oratorio – Indulgenza plenaria se praticato per l’intero mese. Se praticato per almeno 15 giorni con confessione sacramentale e sacra Comunione: Indulgenza plenaria.]
(S. C. Indulg., 17 ian. 1888; S. Pæn. Ap., 30 oct. 1932).
Queste sono le feste del mese di Novembre 2022
1 Novembre Omnium Sanctorum Duplex I. classis *L1*
2 Novembre In Commemoratione Omnium Fidelium Defunctorum Duplex I. classis *L1*
4 Novembre S. Caroli Episcopi et Confessoris Duplex
PRIMO VENERDI’
5 Novembre
PRIMO SABATO
6 Novembre Dominica XXII Post Pentecosten III. Novembris Semiduplex Dominica minor *I*
8 Novembre Commemoratio: Ss. Mart. Quatuor Coronatorum
9 Novembre In Dedicatione Basilicæ Ss. Salvatoris Duplex II. classis *L1*
Commemoratio: S. Theodori Martyris
10 Novembre S. Andreæ Avellini Confessoris Duplex
Commemoratio: Ss. Tryphonis et Sociorum Mártyrum
11 Novembre S. Martini Episcopi et Confessoris Duplex *L1*
Commemoratio: S. Mennæ Martyris
12 NovembreS. Martini Papæ et Martyris Semiduplex
13 Novembre Dominica XXIII Post Pentecosten IV. Novembris Semiduplex Dominica minor *I*
S. Didaci Confessoris Semiduplex
14 Novembre S. Josaphat Episcopi et Martyris Duplex
15 Novembre S. Alberti Magni Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris Duplex
16 Novembre S. Gertrudis Virginis Duplex
17 Novembre S. Gregorii Thaumaturgi Episcopi et Confessoris Semiduplex
18 Novembre In Dedicatione Basilicarum Ss. Apostolorum Petri et Pauli Duplex majus *L1*
19 Novembre S. Elisabeth Viduæ Duplex
20 Novembre Dominica XXIV et Ultima Post Pentecosten V. Novembris Semiduplex Dominica
S. Felicis de Valois Confessoris Duplex
21 Novembre In Præsentatione Beatæ Mariæ Virginis Duplex majus
22 Novembre S. Cæciliæ Virginis et Martyris Duplex *L1*
23 Novembre S. Clementis I Papæ et Martyris Duplex
24 Novembre S. Joannis a Cruce Confessoris et Ecclesiæ Doctoris Duplex m.t.v.
25 NovembreS. Catharinæ Virginis et Martyris Duplex
26 NovembreS. Silvestri Abbatis Duplex
27 Novembre Dominica I Adventus Semiduplex I. classis *I*
29 Novembre In Vigilia S. Andreæ Apostoli Simplex
30 Novembre S. Andreæ Apostoli Duplex II. classis *L1*
Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901
Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.
LIBRO VIII
LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. — I SACRAMENTI, E SPECIALMENTE L’EUCARISTIA, SECONDO MEZZO DI CRESCITA.
CAPITOLO III
Altre due caratteristiche del frutto proprio dell’Eucaristia sono: la trasformazione dell’uomo in Gesù Cristo e la carità divina. Come tutti questi effetti siano in realtà un solo e medesimo effetto, al quale partecipa anche il corpo.
1. – Un terzo carattere sotto il quale ci viene costantemente presentato l’effetto principale dell’Eucaristia è che si tratti di una trasformazione del comunicante in Cristo Gesù. Già le parole unione, incorporazione, ci preparano a concepirlo in questa forma: essere così intimamente uniti a Gesù Cristo da entrare come membro nel suo Corpo mistico, non è forse trasformarsi in Lui? Ma sarà dolce per noi sentirlo affermare in questi termini espliciti. Impariamo, allora, dal grande Papa San Leone: « La partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non ha altro effetto che quello di trasformarci in ciò che prendiamo. Nihil aliud agit participatio corporis et sanguinis Christi quam ut in id quod summus,transeamus » (S. Leone M., Serm. 63, de Passione, 12, c. 7). Dionigi l’Areopagita parla di questo mistero in modo ancora più incisivo. Egli aveva insegnato che l’Eucaristia, tra tutti i sacramenti, è la sinassi per eccellenza: infatti, gli altri senza di essa rimangono incompleti. Se essi preparano, tra l’Unità divina e noi, la santa ed intimissima unione che è la nostra gloria, è l’Eucaristia che la completa; e « di conseguenza, i Pontefici, chiamandola sinassi (comunione), l’hanno designata con un nome che le si addice mirabilmente, poiché è tratto dalla natura stessa delle cose » (Dionigi, Areop., de Hierar. eccl., c. 3, § 1. P. Gr., t. 3, pp. 423-424). Come se temesse di averne detto troppo poco: « Chiunque – aggiunge – si accosta al banchetto divino con purezza, ottiene partecipandovi di essere trasformato nella divinità » (Id. Ibid.). Sono espressioni molto audaci, ma nel contesto portano con sé il correttivo necessario per rimanere nei giusti limiti della verità. – La trasformazione dei fedeli in Gesù Cristo è stata promessa a Sant’Agostino da questa parola che ha ascoltato uscire dal tabernacolo poco dopo la sua conversione: « Io sono l’alimento per i forti. Credimi e mangiami. Ma non mi cambierai in te; sarai tu a trasformarti in me » (S. August, Confess, L., VII c. 10). Non vediamo qui una di quelle esagerazioni che possono sfuggire all’entusiasmo degli oratori o all’ardente pietà dei mistici. I teologi scolastici, il cui linguaggio è il più esatto e il cui pensiero è il meno fluttuante, non hanno temuto di prendere in prestito espressioni simili dai Padri. Testimone San Tommaso d’Aquino: ecco come si esprime nel suo commento alle Sentenze. « La regola per arrivare ad una buona conoscenza dell’effetto proprio di un sacramento è quella di giudicarlo per analogia con la materia del sacramento stesso… Pertanto, poiché la materia del Sacramento eucaristico è il cibo, il suo effetto proprio deve essere analogo a quello del cibo. Ora, il cibo corporeo inizia ad essere trasformato nella persona che lo assume; ed è attraverso questa conversione che ripara le perdite dell’organismo e gli dà la giusta crescita. Ma il cibo spirituale, invece di essere convertito in colui che lo mangia, lo trasforma lui stesso in esso. Da ciò consegue che l’effetto proprio di questo sacramento è la conversione dell’uomo in Cristo, affinché egli possa veramente dire: « Io vivo; non sono io che vivo, ma Cristo che vive in me » (S. Thom. in IV, D 12, q. 2, a. 1. Sol. 1). – Siamo quindi avvertiti che, da una parte, l’analogia non è completa. Nella manducazione comune, è l’essere vivente che assimila il cibo e lo rende, da morto che era, partecipe di una vita superiore; qui, invece, è il cibo che trasforma in esso colui che lo ha mangiato. Ho detto che sotto un certo aspetto l’analogia non è completa. Ma da un punto di vista più elevato, la somiglianza è impressionante. Non è forse una legge delle assimilazioni che di due elementi che sono in presenza, spetta al più energico, al più vivace afferrare il più debole? Questa è l’osservazione fatta da S. Alberto Magno sul testo di Sant’Agostino. Quindi, conclude questo Dottore, « poiché questo cibo celeste è incomparabilmente più virtuoso per coloro che lo mangiano, è ad esso che tocca trasformarli in se stesso » (Albert. M., in 1V, D. 9, a. 4, ad 1). Così, nella mescolanza dei popoli, è il privilegio della razza più forte per vigore, numero e genio, di assorbire la più debole nella sua potente unità. Così, per usare un esempio volgare, il fuoco divora il legno e la paglia, e li trasforma in fuoco (Un opuscolo a lungo attribuito a San Tommaso sviluppa a lungo le stesse idee. « Quando il corpo del Signore viene mangiato degnamente dal fedele, non è lui che, come un cibo ordinario, si converte in chi lo mangia; al contrario, è lui che si trasforma spiritualmente in questo cibo divino. Il Signore, infatti, rende il fedele che lo riceve membro del suo corpo, se lo incorpora con l’unione della carità e lo assimila all’immagine della sua sovrana bontà. » – « Ora, tre considerazioni ci aiutano a capire perché, quando mangiamo il corpo di Gesù Cristo, la conversione non avviene da Lui in noi, ma da noi in Lui. Il primo deriva dalla natura del nostro amore. In effetti, l’amore ha la virtù di trasformare il cuore di chi ama nell’oggetto amato. Poiché è necessario che diventiate simile a ciò che amate. La seconda ragione va ricercata nella virtù preponderante di uno degli elementi che si uniscono. Se si lascia cadere una goccia d’acqua in un grande vaso pieno di vino, essa pure diventerà vino. Così l’immensità della dolcezza e della virtù di Cristo, unendosi al cuore umile e piccolo dell’uomo, se ne impadronisce e lo trasforma in essa; così che nei nostri pensieri, nelle nostre parole e nelle nostre azioni non siamo più simili agli uomini del mondo o a noi stessi, ma a Cristo. – L’influenza dell’innesto ci fornisce la terza ragione. È proprietà del germoglio di un albero eccellente, quando viene innestato su un albero selvatico, convertire con la sua virtù naturale l’amarezza di quest’ultimo nella propria dolcezza e fargli produrre il proprio frutto. In questo modo Cristo, per così dire, innestato nella nostra natura, ne corregge i difetti e le comunica la sua bontà, cosicché noi portiamo attraverso di Lui le foglie, i fiori ed i frutti che Egli stesso produce. » – Opuscul. de sacr. alt., c. 20.). – Questo è ciò che Voi fate, o mio Salvatore, nella santa Comunione, quando nulla ferma la vostra operazione, che è allo stesso tempo così dolce e così forte. In questa misteriosa fusione, non siete Voi a rivestirvi delle mie infermità morali e delle mie debolezze; Dio non voglia! Sono io che divento partecipe delle vostre perfezioni, delle vostre virtù, della vostra vita e infine di tutto Voi stesso, nella misura in cui lo permetta la mia disponibilità a ricevervi. Quando guardo questa sorprendente conversione avvenuta sull’altare, dal pane alla sostanza del vostro corpo e dal vino alla sostanza del vostro sangue divino, vedo in essa un’immagine di ciò che vi degnate fare in me col tocco sacro di questa stessa carne e di questo stesso sangue. Da entrambe le parti, il cambiamento è ugualmente un’opera così alta e grande che solo la forza del vostro amore può bastare. Più felice della materia inerte, transustanziata dal ministero dei vostri Sacerdoti, mi è dato di conoscere il vostro beneficio e di goderne. – Tuttavia, so che se in me, come in essa, avviene una conversione che supera tutto ciò che la mia intelligenza potesse sospettare, la vostra parola mi avverte di non eguagliare ciò che è solo simile. Io conservo la mia sostanza e non cesso di essere me stesso nel diventare Voi; mentre la sostanza stessa degli elementi materiali si trasforma totalmente nella vostra sostanza. Ma se la conversione del pane è maggiore, sotto questo aspetto, di quella che avviene nei vostri fedeli, quest’ultima ha il privilegio di essere il fine a cui tende la prima, e di essere incomparabilmente più duratura grazie alla nostra fedeltà, sostenuta dalla vostra grazia. Essa ha questo ulteriore privilegio che nel Sacramento, sia prima che dopo la celebrazione dei misteri, c’è sempre lo stesso aspetto esteriore: la stessa forma, la stessa dimensione, lo stesso colore e lo stesso sapore; tanto che all’occhio umano non c’è nulla che distingua un’ostia consacrata da una non ancora consacrata. Ma, o Dio, se siamo veramente trasformati dalla partecipazione della vostra carne sacra, Voi producete, non solo nella parte più intima della nostra natura, ma persino nel nostro essere esteriore, “un non so che” che vi rivela e dice agli uomini che Voi siete l’unico che ha il potere di trasformarci, che vi rivela e dice agli uomini che siamo vostre membra e che d’ora in poi viviamo della vostra vita. – Entriamo ancora di più nella contemplazione di un frutto sì mirabile. I Padri, illuminati dallo Spirito di Dio, ci invitano a farlo, quando ci mostrano, nella comunione del corpo e del sangue di Gesù Cristo, il complemento della sua divina incarnazione. « Mangiami, bevimi; per la tua natura divenuta la mia, ti ho portato nella mia Persona fino alle altezze del cielo; ed ecco, Ti unisco a me nell’umile dimora in cui tu abiti. Io ho le tue primizie lassù, ma non sono state sufficienti a soddisfare il tuo desiderio; ebbene! Eccomi quaggiù con te, unendo e mescolando la mia sostanza alla tua sostanza » (S. J. Crisostomo, hom. ad popul., 2. P. Gr., t, 49, p. 45). Così parla Gesù Cristo in San Giovanni Crisostomo; così parla anche il grande Vescovo di Poitiers, quella gloria della nostra Gallia, Sant’Ilario; e più tardi, San Cirillo di Alessandria (S. Hilar., de Trinit,, L. VIH, n. 13-17; S. Cyrill. Al, Com. 1. Joan. XV, L. P. Gr., t. 74, p. 331 sqq. Cfr. Lessium, De perfect. di. L, XII, n. 75, 108, cfr. alibi passim). Non è certo che questi Dottori abbiano immaginato un’altra unione ipostatica che non sia quella del Verbo con la natura individuale che ha assunto nel grembo della Vergine immacolata. Ma a loro piace guardare a Gesù Cristo, nell’unione del capo con le membra, come ad una Persona di cui ciascuno di noi è parte, secondo la misura della sua grazia. Egli è ai loro occhi l’uomo Cattolico, che racchiude nella sua unità la varietà universale dei giusti; ed è soprattutto all’Eucaristia che attribuiscono questa trasfusione dei fedeli in Gesù Cristo, il Verbo incarnato.
2. Siamo giunti all’ultima carattere che riveste del Sacramento dell’altare, considerata in relazione al suo frutto. È il principio e l’alimento della carità divina. Partendo dall’amore infinito di Dio per l’uomo, dove potrebbe esso finire meglio che nell’amore dell’uomo per il suo Dio? Il Signore aveva detto nella sua vita mortale: « Sono venuto a portare il fuoco sulla terra. E cosa desidero se non che si infiammi? » (Luca, XII, 49). Questo è ciò che Egli fa in modo molto efficace nell’Eucaristia. Lui, il carbone ardente, entra con l’incendio di amore che lo consuma, nel profondo del nostro essere attraverso la Santa Comunione. Un serafino toccò una volta le labbra di Isaia con un carbone misterioso, e questo tocco consumò tutti i resti dell’iniquità nel cuore del Profeta (Is. VI, 6). Cosa non dobbiamo aspettarci da questa carne di Gesù Cristo, tutta ardente e bruciante, quando l’abbiamo nelle nostre stesse viscere? Il cuore di Gesù è così vicino al mio cuore che il battito dell’uno e dell’altro mi arriverebbero all’orecchio, se potessi sentirlo, e questo mio povero cuore rimarrebbe forse senza calore e senza amore? Non è il fuoco che devo biasimare, ma l’ostacolo che si frappone alla sua azione, la mia resistenza e le mie infedeltà. Se mi chiedo perché il mio divino Maestro abbia riservato all’ultima cena la predicazione più pressante del comandamento dell’amore, l’istituzione che Egli ne fa della santa Eucaristia si presenta come la risposta a questa domanda. Egli ha voluto darci in una sola volta queste due cose che sono l’anima della Legge evangelica: il precetto dell’amore, questo nuovo precetto, il suo precetto come lo chiama Lui, e il Sacramento che contiene e conferisce ogni virtù nell’osservarlo. – Noi abbiamo visto che il singolare privilegio dell’Eucaristia è quello di trasformarci in Colui che vi si dona. E non è questo se non l’effetto della carità? « In virtù di questo Sacramento – scrive il Dottore Angelico – avviene una certa trasformazione dell’uomo in Cristo per mezzo della carità…. E questo è il suo frutto proprio » (San Tommaso, IV, D. 12, q. 2, a. 2. Sol. 1). Chi non sa che l’amore ha questo potere di trasformazione? San Tommaso lo afferma e lo spiega proprio nel luogo da cui ho tratto la mia ultima citazione. « Il proprio della carità è che essa trasforma colui che ama nell’oggetto del suo amore, perché produce l’estasi, cioè come un’uscita da se stessi per passare in ciò che si ama. La sua vita diventa la nostra vita; i suoi gusti e le sue preferenze, i nostri gusti e le nostre preferenze; i suoi interessi, i nostri interessi; le sue volontà, la nostra. Ecco perché San Paolo non ha vissuto della propria vita, ma solo della vita di Gesù Cristo: è perché egli era posseduto dalla divina follia dell’amore. – Io ho letto nelle Vite dei Santi i favori concessi dal Maestro divino ad alcune anime privilegiate. Egli ritirava il cuore degli uni per immergerlo nel suo cuore, e lo restituiva loro bruciante come il ferro uscito dalla fornace; ad altri aprì il petto per sostituire il suo cuore al loro cuore con un misterioso scambio; a volte era questo stesso cuore che mostrava loro come se fosse incastonato nel suo, in modo che questi due cuori sembrassero formare un unico cuore. (Ho raccontato queste comunicazioni divine nel mio lavoro sulla “Devozione al Sacro Cuore di Gesù”, per spiegarne meglio la natura e il simbolismo. L. III, c, 2). Sono simboli toccanti e misteriosi, in cui possiamo leggere ciò che, in misura maggiore o minore, il Sacro Cuore di Gesù fa in ogni fedele che lo riceva con la giusta preparazione, il Sacramento della carità divina. – Ora, notiamolo con maggiore attenzione, perché questa proprietà dell’Eucaristia è meno evidenziata, « la cosa di questo Sacramento, cioè l’effetto da esso prodotto e da esso significato, è la carità, non solo in quanto all’abitudine, ma anche quanto all’atto » (S. Thom.., 3 p., q 79, a. 4). Quando il santo vecchio Simeone accolse tra le sue braccia il bambino che la Vergine Madre era venuta ad offrire nel tempio; quando Gesù e Giovanni Battista si incontrarono, entrambi ancora chiusi nel grembo delle loro madri, non ci fu forse un brivido nel cuore del vecchio e del precursore, causato dalla visita o dal contatto del Dio fatto uomo? Come allora, penetrando per amore con la sua carne nella nostra carne, questo non farebbe scaturire la fiamma luminosa dell’amore? Un carbone che brucia non porta con sé solo la virtù di riscaldare più tardi il materiale in cui è nascosto: entrando, lo infiamma. Così la Santa Eucaristia non solo produce la carità come principio d’amore, ma la attiva, la stimola e la mette in atto. E questa è la ragione più profonda per cui la negligenza e le distrazioni deliberate nella ricezione di questo Sacramento sono più colpevoli di quanto lo sarebbero altrove, perché esse si oppongono direttamente all’effetto attuale che deve naturalmente produrre (S. Thom, Ibid., a. 8 in corp. et ad 4). – E questo frutto della carità è così certo che i migliori teologi, seguendo il Dottore Angelico, lo indicano come loro causa prossima della maggior parte degli effetti secondari attribuiti all’Eucaristia. Se in certe circostanze rimette, in via eccezionale, anche il peccato mortale; se purifica l’anima dalle colpe leggere; se estingue o diminuisce il debito della pena temporale contratto per i peccati già perdonati; se è fonte di fervore, di gioia spirituale e di santi desideri; se inebria, per così dire, con la dolcezza della bontà divina, secondo le parole del Cantico: Mangiate, bevete, inebriatevi, miei diletti (Cant., V, 1. Cf. S. Thom., 3 p., q. 79. a. 1, ad 3 a. 6, ad 3); se purifica la nostra carne e modera gli ardori della concupiscenza, se, dico, produce tutti questi effetti, è principalmente perché, per sua natura, è il principio e lo stimolo della carità. – Tuttavia, le persone veramente pie non devono cogliere l’occasione in questa dottrina di rimproverarsi oltre misura, le divagazioni ostinate che possono, nonostante i loro sforzi, sfuggire alla loro debolezza. Indubbiamente, per il momento, esse ostacolano il frutto attuale della Carità. Quando l’attenzione è focalizzata su oggetti estranei, come possiamo produrre gli atti? Ma, dice S. Alberto Magno, a proposito di una difficoltà simile, il pane celeste è dotato di volontà. « Panis iste voluntarius est ». Esso può quindi riservare la pienezza della sua azione. Questi moti d’amore che Egli non suscita in voi, perché la vostra infermità non è pronta a riceverli ora, saprà produrli in un momento più opportuno, quando la vostra anima si sarà calmata e sarà in grado di volgersi più attentamente verso di Lui (È qui che bisogna ammirare la sicurezza della dottrina che si trova ovunque in San Tommaso d’Aquino. Ai suoi tempi, molti teologi ritenevano che qualsiasi peccato veniale, almeno se commesso nell’atto della Comunione, ne impedisse totalmente il frutto. S. Bonaventura sembra essere stato troppo influenzato da questa opinione. Si sono affidati ad una parola di Sant’Agostino che richiede che la manducazione dello spirito si accompagni e ravvivi la manducazione sacramentale. Al che S. Tommaso risponde: « Colui che si accosta al sacramento con un atto presente di peccato veniale, pur non mangiando attualmente il corpo del Signore per mezzo dello spirito, lo mangia abitualmente, poiché vive della vita della grazia: per questo riceve l’effetto abituale ma non l’effetto attuale. » – 3 P., q. 79, a. 8, ad 1; col, a. 1 ad 2). – Questi, dunque, sono i principali frutti che la Santa Eucaristia produce nelle anime. Diciamo meglio: il frutto principale, il frutto proprio. Perché, in fin dei conti, non si tratta che di uno stesso frutto, presentato in forme diverse e da punti di vista diversi per fare più luce su di esso. Infatti, non si può concepire la carità senza la trasformazione, di cui è in qualche modo l’operatrice, né la trasformazione senza l’unione, né queste tre cose senza vita soprannaturale e divina. E questo è ciò che nostro Signore ci fa capire molto chiaramente, nel sesto capitolo del Vangelo secondo San Giovanni, con queste ed altre formule simili: Io sono il pane della vita; chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me; chi ne mangia vivrà grazie a me e – secondo un’interpretazione molto comune – per me.
3. – Possiamo credere che a questi effetti sull’anima corrispondano analoghi effetti sul corpo? Sì, senza dubbio, e dobbiamo spiegarle brevemente, perché anch’esse confanno al nostro tema. La prima è un’unione molto intima di questo corpo con il sacro Corpo di Gesù Cristo. Non dimentico ciò che abbiamo mostrato in una delle pagine precedenti: l’unione sacramentale non ha altra durata che quella delle specie sacramentali. Ma oltre a questa unione fugace, ce n’è un’altra che, contratta nella Comunione, persiste dopo di essa. San Paolo, parlando del matrimonio cristiano, raccomanda agli sposi di « amare la propria moglie come il proprio corpo »: infatti, in virtù del sacramento che li unisce, « sono due in una sola carne » (Efesini V., 28, 31). Esiterei a fare questo paragone, o mio Salvatore, se dovessi basarmi sui miei pensieri. Ma tante volte ho sentito i Padri affermare che la comunione della tua sacra carne mi rende concorporeo (concorporeus), non solo con i fedeli, miei fratelli e sorelle, ma con Voi e che non posso fare a meno di riconoscere nelle loro espressioni un grande mistero. È scritto: « Il corpo della sposa non è in suo potere, ma in quello dello sposo » (I Corinzi VII, 4); e come ho già meditato, ogni anima che porti in sé la grazia è una sposa per Gesù Cristo. Quindi, il mio corpo, se ho la felicità di possedere la sua grazia nel mio cuore, appartiene a Gesù Cristo: gli appartiene attraverso il Battesimo, dove l’alleanza è stata stipulata con impegni reciproci; esso gli appartiene in modo più perfetto attraverso il dono reciproco che si fa nell’Eucaristia. La sposa, una volta che i giuramenti sono stati scambiati davanti agli altari, appartiene allo sposo; ma chi non sa quale forza dia alla loro unione la consumazione del loro patto? Così la Comunione stringe e perfeziona l’unione del nostro corpo con il Corpo del Signore. Questo è il mio corpo, prendetelo, dice Gesù. E i fedeli che la ricevono per goderne, rispondono a loro volta accettandola e con il dono di sé che l’accompagna. A voi anche il mio corpo con tutte le sue membra e tutto ciò che sono. « Il mio amato è mio e io sono del mio diletto » (Cantici II, 16.). L’unione principale avviene attraverso lo spirito; ma poiché l’unione dei corpi è il principio di questa unione spirituale, deve esserne anche la conseguenza. Sì, queste membra del Cristiano, santificate dal contatto più intimo con la carne di Gesù Cristo, diventano in modo più speciale le membra di questo stesso Salvatore: sono ossa delle sue ossa e carne della sua carne. Io non faccio che ripetere, in forma abbreviata, le forti espressioni dei Padri e dei Dottori. Leggiamo S. Efrem, S. Giovanni Crisostomo, S. Lorenzo Giustiniani, Teodoreto sul Cantico, S. Giovanni Damasceno e molti altri, e vedremo se stia esagerando! (S. Giovanni Crisostomo, hom. 10 in Efesini, n. 3; S. Giovan. Damas. de F. Orth, L. IV, c. 13; S. Efrem cujus hæc verba sunt: “Est anima nostra sponsa sancta facta immortalis sponsi, nuptiarum autem copulæ sunt divina mysteria” de Extr. Jud. et Compunct.; S. San Lorenzo. Justin, de Triumph. Christi agone; Teodoreto in Cant., L. II, ecc. Cfr. Franzel, de Euchar, tesi 19; Bossuet, Meditazione sull’Ultima Cena, 24° giorno.). – C’è da meravigliarsi se a questi corpi, che sono diventati suoi attraverso la comunione della sua carne, Gesù Cristo prometta la vita; non questa vita che deve presto passare sotto il soffio della morte, ma una vita senza fine, gloriosa come quella del suo stesso corpo? « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e Io lo risusciterò nell’ultimo giorno » (s. Joan, VI, 55). I Cristiani sono sempre stati profondamente penetrati di questa virtù vivificante dell’Eucaristia. Potrei chiamare a testimoniare gli Uffici liturgici di ogni rito e di ogni nazione: dappertutto si ritrovano, nella celebrazione dei funerali, le promesse di resurrezione attribuite dal Salvatore alla comunione del suo divin corpo e del suo sangue divino. Questa persuasione era talmente viva, che a volte portava ad abusi e persino ad errori. – Il terzo Concilio di Cartagine condannò una strana usanza che era stata introdotta in alcune parti dell’Africa. Si depositava sulla lingua dei morti un’ostia consacrata, la Vita, come veniva chiamata, per essere nel cadavere consegnato alla decomposizione, un seme vitale, un germe di resurrezione (S. August., de Peccat. mer. et rem., L I, c. 24; col. Conc. Carth. III, c. 6). Questo è stato l’abuso. Eccone l’errore: basandosi sulla parola di Gesù Cristo: Chi mangia la mia carne ha la vita eterna, alcuni interpreti fuorvianti pretendevano di assicurare la salvezza eterna ad ogni Cristiano che avesse ricevuto una volta la Comunione in modo degno; come se fosse impossibile perdere per colpa propria il diritto acquisito nel Sacramento, se lo si fosse santamente ricevuto. (S. Thom, Supplem., q. 99, a. 4, ad 2). – Affinché tutti gli effetti dell’Eucaristia sull’anima abbiano il loro analogo nel corpo del comunicante, dobbiamo ancora trovare un frutto che corrisponda alla carità. Se si trattasse solo di ciò che produce nei Santi, particolarmente privilegiati da Dio, non sarebbe difficile trovarlo. Chi non ha letto del tremore del cuore, delle fiamme che si accendono nel petto al contatto con la carne di Gesù, della deliziosa dolcezza che la stessa carne lascia alle labbra socchiuse per riceverla, delle estasi e dei rapimenti in cui il corpo, seguendo il movimento dell’anima, sale con essa verso il suo Dio? Ecco la carità tradotta, per così dire, nel corpo per virtù della divina Eucaristia. Ma stiamo cercando effetti meno straordinari e più comuni. Ora, una di quelle che troviamo più spesso riportate negli scritti dei Santi è la placazione della lussuria e la vittoria sulle sue tendenze disordinate. Come avverrebbe questo? Innanzitutto, con l’aumento della carità, perché è legge che quanto più l’amore di Dio si impadronisce del governo della nostra vita spirituale, tanto minore è la forza e l’influenza delle passioni malvagie in noi. Nate dalla ribellione dell’uomo contro Dio, si direbbe che esse siano morte dove la carità perfetta abbia ristabilito pienamente il regno di Dio. È a malapena possibile vedere che in rare occasioni respirino ancora. So che questo trionfo completo non sia frequente; ciò che è infinitamente più frequente è la vittoria della carità nella lotta ed il progressivo indebolimento della resistenza. – L’Eucaristia, questo vino che fa germogliare le vergini, non conduce forse più direttamente alla stessa meta? Questo è il segreto di Dio. Solo Lui può dirci se non ci sia una virtù che, uscendo dal suo corpo, agisca immediatamente sul nostro per moderare il suo pericoloso ardore. Senza dubbio, ha fatto questa meraviglia più di una volta. È secondo una legge costante che l’Eucaristia produca un tale effetto? È possibile almeno dubitarne (Suar. de Euchar., D. 64, S. 1). Tuttavia, non è improbabile che il Sacramento del corpo e del sangue del Signore eserciti questo influsso immediato sul corpo, nella misura in cui la bontà divina lo ritenga utile al fine principale, cioè alla santificazione dei fedeli. L’Estrema Unzione non ha effetti simili per il sollievo corporeo degli infermi? In ogni caso, la presa di possesso che Gesù Cristo fa di tutti noi attraverso la Comunione santificata ricevuta, ci dà un titolo speciale alla protezione che ci salvaguarda dagli attacchi del nostro grande nemico domestico. Ciò che non permise mai in quella carne di Maria che un giorno sarebbe stata la sua carne, non permetterà che prevalga nella nostra, dal momento che il Sacramento la unisce così strettamente alla sua. – Perciò non c’è arma migliore per vincere la lotta contro lo spirito impuro che la Comunione frequente e ricorrente. « Chi dunque – si chiede San Bernardo – sarà in grado di spezzare i furiosi assalti di questo mostro? Chi potrà guarire questa ulcera e questa cancrena della nostra povera natura? Abbiate fiducia: avete l’aiuto della grazia; e per darvi una certezza maggiore di successo, Dio mette a vostra disposizione il Sacramento del corpo e del sangue del Signore. E questo Sacramento ha due effetti ugualmente mirabili su di noi: diminuisce i nostri sentimenti negli attacchi più lievi, e toglie ogni consenso in quelli più gravi » (S. Bernardo, Serm. de Cœna Domini, n. 3). Questa carne di Gesù Cristo è una rugiada che scende dal cielo. « La rugiada non rinfresca forse il caldo torrido del giorno? » (Ecclesiastico, XVI, 16.2). « Il sacro Eulogio, che dovrebbe liberarci dalla morte, è ancora un rimedio efficace per le nostre malattie. Il Cristo, una volta che sia in noi, calma nelle nostre membra la legge della carne, vi mortifica le passioni moleste, vivifica il nostro amore per Dio e cura tutti i nostri mali » (S. Cyrill. Alex, L. IV in Joan., VI, 57. P. Gr., vol. 73, p. 585).
«… Ma poiché sono i peccati, da noi commessi al cospetto di Dio (cf. Bar. VI, 1), che ci tengono lontani da Lui e ci gettano miseramente nella rovina, non basta, come del resto è noto a voi tutti, venerabili fratelli, elevare al Cielo assidue preghiere; non basta portarsi numerosi attorno agli altari della Vergine santissima per deporvi offerte, fiori e suppliche; ma è necessario altresì rinnovare i costumi in pubblico e in privato, in modo da porre così quelle solide basi, sulle quali soltanto poggia l’edificio della vita domestica e civile, edificio non discordante e caduco, ma omogeneo e duraturo … ». Questo monito, rivolto ai popoli tutti dal Santo Padre Pio XII in questa Enciclica scritta in tempi di guerra particolarmente duri e dolorosi, trova pure oggi la sua profonda validità, in tempi minacciati da orgogliose antiumane follie perpetrate da capi di popoli irresponsabili, corrotti ed asserviti a gruppi elitari di dominio mondiale animati da un odio satanico verso Dio, il suo Cristo e la sua Chiesa, ed in definitiva verso tutti gli uomini e specialmente i Cristiani osservanti la dottrina cattolica. Il Sommo Pontefice, con poche ed incisive espressioni, offre la ricetta più valida per poter efficacemente contrastare gli odi tra i popoli e portare ad essi la pace vera, la pace fondata sulla umana giustizia e sul rispetto della legge di Dio così come proclamata dalle sentenze evangeliche e dalla dottrina cattolica della vera Chiesa Cattolica romana, l’unica porta di accesso alla beatitudine eterna. Finché non si seguirà il percorso tracciato dal Santo Padre in questa lettera Enciclica e in analoghi documenti, non avremo purtroppo una vera e duratura pace, ma lotte, sventure, disastri e calamità di ogni tipo che potremmo evitare con alcuni banali accorgimenti in sintonia con la volontà divina. Ma oggi l’umanità sembra molto lontana dal considerare queste verità elementari, e corre dietro a false illusioni di uomini avidi e avvolti nella melma della lussuria e dell’inganno. Un giorno molti saranno gli uomini che si pentiranno di non aver fatto proprie queste parole per poter evitare i disastri delle guerre sulla terra, ed lo stagno di fuoco nella vita eterna.
PIO XII
LETTERA ENCICLICA
COMMUNIUM INTERPRETES DOLORUM
PUBBLICHE PREGHIERE PER LA PACE FRA I POPOLI
Interpreti dei dolori comuni, da cui quasi tutti i popoli già da lungo tempo sono così amaramente oppressi, nulla intendiamo tralasciare che miri a sollevare e in qualche modo lenire l’immensità delle miserie o ad affrettare la fine del terribile conflitto. Ma ben sappiamo che le risorse umane sono insufficienti a risanare queste sventure; ben sappiamo che gli umani accorgimenti, quando specialmente sono accecati dall’odio dalla vendetta, difficilmente giungono a una giusta ed equa composizione e a una fraterna concordia. È necessario pertanto innalzare frequenti preghiere al Padre dei lumi e delle misericordie (cf. Gc 1, 17; 2 Cor 1, 3), il quale solo può, in così grave smarrimento e agitazione di spirito, far sentire a tutti che troppe sono ormai le rovine e smisurato il cumulo delle stragi, troppe le lacrime, troppo il sangue sparso; di guisa che esigenze sia divine che umane assolutamente impongono che cessi al più presto questo spaventoso flagello. – Perciò, all’avvicinarsi del mese di maggio, consacrato in modo particolare alla vergine Madre di Dio, come già negli anni passati, così ora desideriamo esortare tutti di nuovo – i bambini specialmente e gli innocenti fanciulli – affinché implorino dal divino Redentore, per intercessione della sua Madre santissima, che i popoli in preda alle discordie, alle lotte e a ogni sorta di disgrazie possano alfine essere liberati dai lutti e dalle lunghe angosce. Ma poiché sono i peccati, da noi commessi al cospetto di Dio (cf. Bar 6, 1), che ci tengono lontani da lui e ci gettano miseramente nella rovina, non basta, come del resto è noto a voi tutti, venerabili fratelli, elevare al Cielo assidue preghiere; non basta portarsi numerosi attorno agli altari della Vergine santissima per deporvi offerte, fiori e suppliche; ma è necessario altresì rinnovare i costumi in pubblico e in privato, in modo da porre così quelle solide basi, sulle quali soltanto poggia l’edificio della vita domestica e civile, edificio non discordante e caduco, ma omogeneo e duraturo. Ricordino per conseguenza tutti e traducano nella vita pratica gli ammonimenti del profeta: «Tornate a me, dice il Signore degli eserciti, e io tornerò a voi:..» (Zc l, 3); e parimenti riflettano su quelle parole del grande vescovo d’Ippona: «Cambia il cuore, e si cambierà anche l’azione: estirpa la cupidigia e semina la carità».(2) « Desideri la pace? Opera giusto e avrai la pace: poiché la giustizia e la pace si sono baciate (Sal. LXXXIV, 11). Se non ami la giustizia, non avrai la pace: infatti la giustizia e la pace si amano e sono tra loro talmente unite, che se fai giusto, troverai la pace che bacia la giustizia… Se dunque vuoi venire alla pace, opera giusto: allontanati dal male e segui il bene, questo significa amare la giustizia; e quando avrai lasciato il male e avrai fatto il bene, cerca la pace e seguila ». Se tutti i fedeli saranno così animati e disposti, non vi è dubbio che le loro preghiere saliranno gradite al trono dell’Altissimo e otterranno dal Signore placato i conforti e i doni, di cui al presente tanto abbiamo bisogno. – Ben conoscete di quali doni, di quali aiuti e di quali conforti abbiamo bisogno in questo travagliato momento. In primo luogo, però occorre domandare a Dio che le menti e i cuori degli uomini siano illuminati e rinnovati dagli insegnamenti della dottrina cristiana, dai quali solamente può venire la salvezza privata e pubblica, affinché questa devastatrice lotta di popoli e di continenti cessi di incrudelire, e i cittadini di ogni classe, ricongiunti dal vincolo dell’amicizia, dall’immenso cumulo delle rovine si accingano a ricostruire, sotto l’insegna della giustizia e della carità, l’edificio umano. Ma si deve inoltre chiedere al Redentore divino e alla sua santissima Madre in spirito di preghiera e di penitenza che sia vera e sincera la pace che porrà termine a questa guerra funesta e sanguinosa. – Non è purtroppo facile, fra tanto sconvolgimento di cose, mentre gli animi di molti sono ancora agitati da sentimenti di vendetta, venire a una pace, che sia ugualmente contemperata dall’equità e dalla giustizia, che soddisfi con fraterna carità le aspirazioni di tutti i popoli ed elimini i germi latenti delle discordie e delle rivalità. Per conseguenza quelli in modo speciale hanno bisogno dei lumi celesti, cui incombe il gravissimo compito di risolvere tale problema, dal cui giudizio dipende la sorte non pure della loro nazione, ma anche dell’umanità intera e delle future generazioni. Per questo motivo bramiamo che tutti rivolgano a Dio calde e intense preghiere e particolarmente i fanciulli durante il mese di maggio implorino dalla Madre della Divina Sapienza l’assistenza soprannaturale a coloro, la cui sentenza dovrà decidere la causa di tutti i popoli. E considerino questi e attentamente riflettano davanti a Dio che tutto ciò che sorpassasse i limiti della giustizia e dell’equità, certamente, presto o tardi, tornerebbe a enorme danno dei vinti e dei vincitori, perché ivi si nasconderebbe il seme di nuove guerre. – Desideriamo inoltre che quanti volentieri risponderanno a questa Nostra esortazione, non dimentichino la triste condizione di quelli che, o profughi ed esuli da lungo tempo attendono con ansia di rivedere il focolare domestico, o relegati nei campi di concentramento aspettano, dopo la guerra, la giusta libertà, o infine giacciono infermi negli ospedali. A questi infelici e a tutti gli altri, per i quali il presente conflitto è stato causa di angosce e dolori, voglia concedere la benignissima Madre di Dio le celesti consolazioni, e accordare la forza di quella cristiana pazienza, mercé la quale anche le sofferenze più acute diventano tollerabili e conducono a meritare la felicità eterna. – Sarà vostra premura, venerabili fratelli, di comunicare queste Nostre paterne esortazioni e voti ai fedeli alle vostre cure affidati; ai quali – e principalmente a voi tutti e singoli – impartiamo, auspicio dei doni celesti e pegno della Nostra benevolenza, l’apostolica benedizione.
Roma, presso San Pietro, il 15 aprile, domenica del Buon Pastore, dell’anno 1945, VII del Nostro pontificato.
DÒMINE Iesu Christe, te confiteor Regem universàlem. Omnia, quæ facta sunt, prò te sunt creata. Omnia iura tua exérce in me. Rénovo vota Baptismi abrenùntians sàtanæ eiùsque pompis et opéribus et promitto me victùrum ut bonum christiànum. Ac, potissimum me óbligo operàri quantum in me est, ut triùmphent Dei iura tuæque Ecclèsiæ. Divinum Cor Iesu, óffero tibi actiones meas ténues ad obtinéndum, ut corda omnia agnóscant tuam sacram Regalitàtem et ita tuæ pacis regnum stabiliàtur in toto terràrum orbe. Amen.
DOMENICA In festo Domino nostro Jesu Christi Regis ~ I. classis
L’ULTIMA DOMENICA D’OTTOBRE
Festa del Cristo Re.
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Doppio di prima classe. – Paramenti bianchi.
La festa del Cristo Re, per quanto d’istituzione recente, perché stabilita da Pio XI nel dicembre 1925, ha le sue più profonde radici nella Scrittura, nel dogma e nella liturgia. Merita, a questo riguardo d’esser riportato qui integralmente in versione italiana dall’ebraico, il famoso salmo messianico, che nel Salterio reca il n. 2. Il salmista comincia dal descrivere la congiura di popoli e governanti contro il Messia, cioè il Cristo:
A che prò si agitano le genti
e le nazioni brontolano vanamente?
Si sollevano i re della terra
e i principi congiurano insieme
contro Dio ed il suo Messia:
« Spezziamo i loro legami
e scotiamo da noi le loro catene ».
Popoli e governanti considerano come legami e catene intollerabili i precetti divini e cercano di ribellarvisi: tentativo ridicolo, conati di impotenti contro l’Onnipotente:
Chi siede nei cieli ne ride,
il Signore se ne fa beffe.
Poi loro parla con ira
e col suo sdegno ti sgomenta.
Dio stesso dichiara che il Re da Lui costituito su tutto il mondo è il Messia:
« Ho consacrato io il mio Re,
(l’ho consacrato) sul Sion, il sacro mio monte »..
Alla sua volta il Cristo Re dichiara:
« Promulgherò il divino decreto.
Dio m’ha detto: Tu sei il mio Figlio;
Io quest’oggi t’ho generato.
Chiedi a me e ti darò in possesso le genti
e in tuo dominio i confini della terra.
Li governerai con scettro di ferro,
quali vasi di creta li frantumerai ».
Il Salmista conchiude, rivolgendo un caldo appello ai governanti:
Or dunque, o re, fate senno:
ravvedetevi, o governanti della terra!
Soggettatevi a Dio con timore
e baciategli i piedi con tremore;
affinché non si adiri e voi siate perduti,
per poco che divampi l’ira sua.
Felici quelli che ricorrono a Lui!
(Trad. Vaccari)
Un altro salmo (CIX), il più celebre di tutto il salterio, insiste sugli stessi concetti: regalità del Cristo, il quale, nello stesso tempo cheRe dei secoli, è anche sacerdote in eterno; ribellione di re e popoli contro il Cristo; trionfo finale, schiacciante ed assoluto del Cristo sui propri nemici:
Responso del Signore (Dio) al mio Signore (il Cristo):
« Siedi alla mia destra,
finché io faccia dei tuoi nemici
lo sgabello dei tuoi piedi ».
Da Sionne stenderà il Signore
lo scettro di tua potenza;
impera sui tuoi nemici…
Il Signore ha giurato e non se ne pentirà;
« Tu sei sacerdote in eterno
alla guisa di Melchisedecco…».
(Ps. CIX).
Attraverso queste espressioni metaforiche ed orientali infravediamo delle grandi verità religiose e storiche: la dignità assolutamente regale e sacerdotale del Cristo; i suoi diritti, per generazione divina e per la redenzione del genere umano (vedi Merc. Santo, lez. di Isaia, c. LIII 1-12); la signoria di tutto il mondo (vedi Fil. II, 5-11); la feroce guerra mossa al Cristo dagli avversari in tutto ciò che sa di religioso e particolarmente di cristiano; la vittoria del Cristo Re. Venti secoli di storia cristiana dicono eloquentemente quanto siasi già avverata la Scrittura. Da Erode, così detto il Grande, che s’adombra del Cristo bambino, a Caifa, che paventa per la sua nazione, e Pilato, che teme per la sua sedia curule, ai Giudei, uccisori del Cristo e persecutori degli Apostoli, agli imperatori romani, che ad intervalli perseguitano la Chiesa per oltre due secoli, fino alle moderne rivoluzioni, che tutte si accaniscono anzitutto e soprattutto contro la Chiesa, è una lunga incessante storia di ribellioni di popoli e principi contro Dio ed il Cristo Re. Se guardiamo semplicemente al nostro secolo, alla persecuzione sanguinosa dei Boxer contro i Cattolici cinesi, alle persecuzioni del Messico, a quelle di quasi tutta l’Europa, dalla Russia alla Spagna, che guerra al Cristo Re! È fatale; ma altrettanto fatale la vittoria del Cristo. Ai suoi discepoli il Cristo Re dice: Confidate: io ho vinto ilmondo (Giov., XVI, 33). Ai suoi nemici: Chiunque cadrà su questa pietrasarà spezzato; e colui sul quale la pietra cadrà sarà stritolato, Luc. XX, 18). Per impartirci tale dottrina « un’annua solennità è più efficace di tutti i documenti ecclesiastici, anche i più gravi» (Pio XI, Enciclica 11 dic. 1925). La festa di oggi è una grande lezione per tutti: lezione specialmente di illimitata fiducia pei veri fedeli: Felici quelli che ricorrono a Lui (al Cristo Re). Lezione anche di devoto, generoso servizio sotto il vessillo del Cristo Re. La Messa odierna ricorda soprattutto la gloria tributata al Cristo Re dai beati del Cielo (Introito); il regno del Figlio Unigenito, ed il suo primato assoluto in tutto e su tutto (Epistola); quel regno celeste che Gesù ha rivendicato davanti a Pilato, il quale non credeva che al proprio grado e stipendio (Vangelo). Il Prefazio canta le caratteristiche sublimi del regno del Cristo. – Gesù-Cristo è il Verbo creatore, è l’Uomo-Dio seduto alla destra del Padre, è il nostro Salvatore. Sono questi i tre titoli di regalità.
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini. R. Qui fecit cælum et terram.
Confiteor
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum. S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam. R. Amen. S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus. R. Amen.
V. Deus, tu convérsus vivificábis nos. R. Et plebs tua lætábitur in te. V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam. R. Et salutáre tuum da nobis. V. Dómine, exáudi oratiónem meam. R. Et clamor meus ad te véniat. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.
Introitus
Dignus est Agnus, qui occísus est, accípere virtútem, et divinitátem, et sapiéntiam, et fortitúdinem, et honórem. Ipsi glória et impérium in sǽcula sæculórum.
[L’Agnello che fu sacrificato è degno di ricevere potenza, ricchezza, sapienza, forza, onore, gloria e lode; a Lui sia per sempre data gloria e impero, per …]
Ps LXXI: 1 Deus, iudícium tuum Regi da: et iustítiam tuam Fílio Regis.
[Dio, da al Re il tuo giudizio, ed al Figlio del Re la tua giustizia] –
Dignus est Agnus, qui occísus est, accípere virtútem, et divinitátem, et sapiéntiam, et fortitúdinem, et honórem. Ipsi glória et impérium in sǽcula sæculórum…
[L’Agnello che fu sacrificato è degno di ricevere potenza, ricchezza, sapienza. Forza, onore, gloria e lode; a Lui sia per sempre data gloria e impero, per …]
Kyrie
S. Kýrie, eléison. M. Kýrie, eléison. S. Kýrie, eléison. M. Christe, eléison. S. Christe, eléison. M. Christe, eléison. S. Kýrie, eléison. M. Kýrie, eléison. S. Kýrie, eléison.
Gloria
Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.
Oratio
Orémus. Omnípotens sempitérne Deus, qui in dilécto Fílio tuo, universórum Rege, ómnia instauráre voluísti: concéde propítius; ut cunctæ famíliæ géntium, peccáti vúlnere disgregátæ, eius suavissímo subdántur império: Qui tecum …
[Dio onnipotente ed eterno, che ponesti al vertice di tutte le cose il tuo diletto Figlio, Re dell’universo, concedi propizio che la grande famiglia delle nazioni, disgregata per la ferita del peccato, si sottometta al tuo soavissimo impero: Egli che …].
Commemoratio Dominica XXI Post Pentecoste n I. Novembris
Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut a cunctis adversitátibus, te protegénte, sit líbera, et in bonis áctibus tuo nómini sit devóta.
[Custodisci, Te ne preghiamo, o Signore, con incessante pietà, la tua famiglia: affinché, mediante la tua protezione, sia libera da ogni avversità, e nella pratica delle buone opere sia devota al tuo nome.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses. Col 1: 12-20 Fratres: Grátias ágimus Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem ejus, remissiónem peccatórum: qui est imágo Dei invisíbilis, primogénitus omnis creatúra: quóniam in ipso cóndita sunt univérsa in cœlis et in terra, visibília et invisibília, sive Throni, sive Dominatiónes, sive Principátus, sive Potestátes: ómnia per ipsum, et in ipso creáta sunt: et ipse est ante omnes, et ómnia in ipso constant. Et ipse est caput córporis Ecclésiæ, qui est princípium, primogénitus ex mórtuis: ut sit in ómnibus ipse primátum tenens; quia in ipso complácuit omnem plenitúdinem inhabitáre; et per eum reconciliáre ómnia in ipsum, pacíficans per sánguinem crucis ejus, sive quæ in terris, sive quæ in cœlis sunt, in Christo Jesu Dómino nostro.
[Fratelli, ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in Lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in Lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di Lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.]
Graduale
Ps LXXI: 8; LXXVIII: 11 Dominábitur a mari usque ad mare, et a flúmine usque ad términos orbis terrárum.
[Egli dominerà da un mare all’altro, dal fiume fino all’estremità della terra]
V. Et adorábunt eum omnes reges terræ: omnes gentes sérvient ei.
[Tutti i re Gli si prostreranno dinanzi, tutte le genti Lo serviranno].
Alleluja
Allelúja, allelúja. Dan VII: 14. Potéstas ejus, potéstas ætérna, quæ non auferétur: et regnum ejus, quod non corrumpétur. Allelúja.
[La potestà di Lui è potestà eterna che non Gli sarà tolta e il suo regno è incorruttibile]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. – Joann XVIII: 33-37
In illo témpore: Dixit Pilátus ad Jesum: Tu es Rex Judæórum? Respóndit Jesus: A temetípso hoc dicis, an álii dixérunt tibi de me? Respóndit Pilátus: Numquid ego Judǽus sum? Gens tua et pontífices tradidérunt te mihi: quid fecísti? Respóndit Jesus: Regnum meum non est de hoc mundo. Si ex hoc mundo esset regnum meum, minístri mei útique decertárent, ut non tráderer Judǽis: nunc autem regnum meum non est hinc. Dixit ítaque ei Pilátus: Ergo Rex es tu? Respóndit Jesus: Tu dicis, quia Rex sum ego. Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimónium perhíbeam veritáti: omnis, qui est ex veritáte, audit vocem meam.
[In quel tempo, disse Pilato a Gesù: “Tu sei il re dei Giudei?”. Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”. Pilato rispose: “Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?”. Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”].
OMELIA
[Giov. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle Feste del Signore e dei Santi – Soc. Edit. Vita e Pensiero, Milano, VI ed. 1956]
CRISTO RE DEI CUORI
Il vecchio Giacobbe, presagendo imminente la sua fine, chiama dattorno i suoi dodici figliuoli. Non era giusto che portasse con sé nel segreto della tomba la gran promessa che Dio gli aveva fatto. Per ciò, prima di morire sentì il bisogno di confidarla ai figli e parlò loro con accento profetico: « Venite e ascoltate, figliuoli di Giacobbe; ascoltate vostro padre ». E dopo aver predetto ad alcuni il proprio avvenire, si rivolse a Giuda: « Giuda, mio piccolo leone! tu regnerai sopra i tuoi fratelli, e la tua mano premerà la cervice dei tuoi nemici. Regnerai; ma fin quando verrà colui che deve venire. Tutte le genti lo aspetteranno, allora; sarà di una bellezza sovrumana; avrà gli occhi più fulvi del vino e i denti più bianchi del latte. Giuda, tu gli cederai il tuo scettro e il tuo impero » (Genesi, XLIX). – I dodici capi delle dodici tribù, con gli occhi aperti, sognavano il gran re, che sarebbe venuto, ed il loro cuore balzava, attraverso i secoli, incontro a Lui. Da Giacobbe, tutti i patriarchi prima di morire chiamavano i figli e i nipoti per richiamare in loro la speranza del re venturo, poi in pace chiudevano gli occhi nella morte. E Noè benedirà Sem perché nei suoi padiglioni nascerà il gran re. E Mosè dirà al popolo di non piangere per la sua morte, perché verrà un condottiero più grande di lui. – Quando i tempi furono maturi, quando tutte le generazioni erano in attesa, il gran re venne: Gesù Cristo. — Ma i Giudei lo rifiutarono e lo condussero davanti a Pilato, che gli disse: «Sei tu il re dei Giudei? » Risponde Gesù: « Lo dici da te, o perché altri te l’ha suggerito?» Risponde Pilato: « Forse ch’io son Giudeo? È la tua gente, sono i tuoi sacerdoti che ti hanno trascinato a me: che hai fatto? ». Risponde Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo. Se fosse di questo mondo, vedresti come i miei sudditi, con le armi, mi strapperebbero dalle mani dei Giudei. Ma il mio regno non è di quaggiù ». Allora Pilato gli domanda: « Dunque, tu sei Re? Risponde Gesù: «Tu lo dici: io lo sono ». – Fu un urlo brutale che salì dalla folla aizzata: « Non sappiamo che farne di questo re. Vogliamo Barabba ». – Gesù Cristo allora patì il più acerbo dei suoi dolori, e la più bassa delle sue ingiurie: il re era tra i suoi sudditi, e i sudditi non lo volevano. In propria venit et sui eum non receperunt (Giov., I, 11). – Ma oggi i popoli hanno compreso lo sbaglio fatale di quel branco di Giudei. È passata la guerra che ci ha fatto piangere e sanguinare tanto, ed ognuno ha sentito il bisogno di un re, che non ha regno nelle ingiustizie e nelle iniquità di questo mondo, di un re che comprenda i nostri dolori e le nostre aspirazioni e ci voglia bene,di un re di pace. Princeps pacis (Isaia). E tutti i popoli nell’anno santo andarono a Roma dal Papa a contare i propri bisogni, e passando sotto al Vaticano, tutti gridavano la parola di S. Paolo: « Questo abbiam bisogno; che Egli regni ». Pio XI comprese; e nella sua enciclica, dell’11 dicembre 1925 impose che si facesse una festa a Cristo Re, ogni anno, all’ultima Domenica di Ottobre, e tutti consacrassero il proprio cuore a Lui. Cristo è Re, e Re dei cuori! « O popoli, battete le mani; tutti! Cantate un canto di gioia. Il Signore altissimo, il Signore terribile, il Re grande su tutta la terra finalmente regna ». (Salmi, XLVI, 1-3). – 1. CRISTO È RE. Davide vide il Messia seduto sopra un trono di maestà e di gloria nell’atto d’umiliare la baldanza sciocca dei suoi nemici; e l’udì pronunciare queste parole: « Io sono stato costituito re da Dio. Il Signore mi ha detto: tu sei il figlio mio: oggi ti ho generato. Domandalo, e ti darò in eredità le genti e in possesso i confini di tutta la terra » (Salmi, II). – Se Dio stesso l’ha creato re, chi oserà contestargli la dignità regia? Cristo è re perché ne ha tutti i diritti: di nascita e di conquista. È re perché lo hanno proclamato i profeti, e lo proclamano oggi tutti i popoli del mondo. Re per diritto di nascita. — Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo: due nature in una persona. Come Dio è Figlio di Dio e possiede tutto quello che Dio possiede. Per ciò è padrone di tutte le cose e regna dall’uno all’altro mare. Dominabitur a mari usque ad mare. (Ps., LXXI, 8). Anzi non solo è re, ma il re dei re, per il quale soltanto i re possono regnare; perché ogni potestà viene da Lui. Come uomo, Gesù è figlio di re e discende direttamente da Davide. Ecco perché l’Arcangelo nell’Annunciazione dirà alla Vergine: « Il Signore lo porrà sul trono di Davide, padre suo » (Lc., I, 32). – Re per diritto di conquista. — Il peccato d’origine ci aveva resi schiavi e figli della maledizione: Gesù Cristo ci ha conquistati, tutti, non sborsando oro e argento come un vile mercenario, ma tutto il suo sangue, generosamente come non saprebbe il più coraggioso dei re (I Petr., I, 18). – Re per diritto di proclamazione. — I patriarchi, i profeti, i re lo proclamano. Isaia dice che nascerà bambino, che gli porranno sulle spalle l’imperio, e sarà un imperio di pace (IX, 6-7). E Davide canta che ai piedi di questo re si prostreranno gli Etiopi, e i suoi nemici davanti a lui lambiranno la polvere. I re di Tarso e gli abitanti dell’isola, gli offriranno doni; i monarchi degli Arabi e di Saba gli faranno offerte. Tutti i re della terra l’adoreranno; tutti i popoli della terra si metteranno sotto il suo impero (Salmi, LXXI). Oggi la magnifica profezia si è avverata: in quest’ultima domenica d’Ottobre, di qua e di là dei mari, un coro unisono s’eleva: « Viva Cristo re ».! – 2. RE DEI CUORI. I Dori, con arma e con incendio, invadevano l’Attica. In fretta s’arruolarono uomini per arrestare l’invasore: e già gli eserciti erano schierati a battaglia. Narra la leggenda che sia gli Atticesi che i Dori consultarono l’oracolo sul risultato dell’impresa e n’ebbero in risposta che la vittoria sarebbe toccata a quella parte il cui re fosse morto in guerra. Re d’Attica era Codro. Costui fu preso da tanto amore per i suoi che si travestì da contadino, si insinuò nel campo nemico e si fece uccidere. Quando i Dori seppero che il re d’Attica era morto, si spaventarono e fuggirono urlando. Codro è una favola; Gesù Cristo è una realtà. Egli ha dato la sua vita per noi. E perché potesse morire per la nostra salute, da Dio si è travestito da vero uomo, si è cacciato in mezzo ai suoi nemici, che l’hanno messo in croce. Ma la sua morte fu la vittoria: il demonio vinto ritornò nell’inferno. – Ma che re può essere quello che dà la vita per i suoi, se non un re d’amore? Cristo allora è re d’amore; re dei cuori. Osservate. Quando Gesù venne al mondo fu posto in una greppia vicino a due animali. Pure si capì che era un re. Una gran luce attraversò il cielo nel cuor della notte, gli Angeli cantarono, occorsero i pastori, accorsero tre re. Una bella occasione per cominciare il suo regno, se Gesù avesse voluto regnare con soldati e con oro. Ma re di questo mondo, Cristo non ha voluto esserlo: e lasciò tornare, per un’altra via i Re Magi. – Quando Gesù nel deserto moltiplicò i pani e sfamò migliaia di persone, tutto il popolo delirante d’entusiasmo per la sua persona lo proclamava re. Bella occasione se avesse voluto regnare come un re dei corpi, che sa nutrirli prodigiosamente. Ma re dei corpi, Cristo non ha voluto esserlo; e fuggì a nascondersi in mezzo alle montagne. – Quando Gesù fu mostrato al popolo dal litostrato di Pilato aveva in testa una corona, ma di spine; aveva sulle spalle e sul petto la porpora, di sangue suo; stringeva nelle mani lo scettro, ma di canna. Pilato gridò al popolo: « Ecco il vostro Re ». Ecce rex vester (Giov., XIX, 14). Il popolo ghignava. Bella occasione di far piovere fuoco e zolfo, di soffocare eternamente quegli uomini crudeli. Ma re di terrore di strage, Cristo non ha voluto esserlo, mai. Cristo è re, e re del cuore. Eccolo in trono: sulla croce. In alto in diverse lingue sta scritta la sua dignità, re dei Giudei. Porta la corona di spine, la porpora di sangue, decorazioni di piaghe atroci. Un soldato, con la lancia gli trapassa il petto, gli mostra il cuore. Ora veramente è re. Dominus regnavit a ligno. – Guardiamolo, Cristiani, il nostro re sopra quel legno! Dal suo lato perforato esce un grido regale: « Figlio, dammi il tuo cuore! » – So di un’anima, di una giovane anima che, durante la persecuzione messicana del 1927, gli ha risposto: « Sì, Cristo re, il mio cuore te lo do ». Il suo nome, che bisogna dire con venerazione come quello dei martiri è Juan Sanchez dello stato di Ialisco nel Messico. Ricco e nobile di famiglia, più ricco e più nobile per sentimenti cattolici, fu arrestato dai legionari di Calles. Pretendevano che apostatasse. Pubblicamente gli fu imposto di rinunciare alla Religione; egli rispose: « Viva Cristo Re ». Il martirio fu cruento e degno dei carnefici, i quali cominciarono a tagliargli un orecchio poi l’altro e quindi ad amputargli le gambe. Ma benché immerso nel suo sangue non cessava d’acclamare a Cristo Re. – Con un vero furore satanico i carnefici gli squarciarono la gola: ma dalla gola squarciata insieme al gorgoglio del sangue usciva un rantolo: « Viva Cristo Re! ». Non potevano farlo tacere, e gli strapparono la lingua. E fu finita (« Civiltà Catt. » 16 luglio 1927). Appena compiuto il truce misfatto la folla si precipitava sulla salma martoriata per intingere in quel sangue i pannolini; né minacce, né colpi, né scoppi valsero a rattenerla. – Poveri barbari che strappate le lingue! Se anche le lingue tacessero, lo gridedebbero le pietre. Anzi, e meglio, voi stessi lo griderete, in un giorno non lontano: « Galileo, hai vinto! ». E noi preghiamo perché Cristo re li vinca nella forza del suo amore e non in quella della sua vendetta.
VENTUNESIMA DOMENICA DOPO PENTECOSTE
(Mt., XVIII, 23-35)
IL RE E IL SERVO
« Signore, — domandò Pietro, — basterà perdonare fino a sette volte a una medesima persona?» E gli sembrava d’aver già fatto una concessione enorme. Gesù gli rispose: « Non dire fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette ». E raccontò questa parabola. « Dovete sapere, — diceva il Maestro divino, — che nella mia Chiesa accade ciò che una volta avvenne tra un re e il suo servo. Il re volle fare un rendiconto generale e chiamò i suoi dipendenti a uno a uno. Ma c’era un servo che gli doveva una cinquantina di milioni e non possedeva niente per pagare. Quando il disgraziato fu davanti alla maestà del sovrano, quando sentì che lui, la sua donna, i suoi figli, le sue robe dovevano essere venduti sul mercato, si buttò per terra singhiozzando: « Pazienza, e pagherò tutto ». Buon per lui che il re era dolce e umile di cuore, e si lasciò commuovere, e non solo ebbe pazienza, ma rimandò il servo condonandogli il debito fin all’ultimo centesimo. Ebbene, nell’uscire di là, s’incontrò in un suo camerata che gli doveva un centinaio di lire: una vera inezia a confronto coi milioni del suo debito. Subito lo prese per la gola, e strozzandolo gli gridava: « Pagami! ». Invano quel meschino supplicò un poco di pazienza, poiché, trascinato davanti alla giustizia, fu condannato al carcere. Per fortuna ci fu della gente coscienziosa che vide quella scena raccapricciante e deferì ogni cosa al re, il quale ne fu adiratissimo. Richiamò il servo e lo fulminò con queste parole: « Iniquo! Io ti ho perdonato dei milioni e tu non sei stato capace di perdonare qualche lira!… Sarai chiuso in un carcere tenebroso fin tanto che non mi avrai reso fin l’ultimo quattrino ». Qui la parabola era finita, ma Gesù conchiuse: « Allo stesso modo tratterà il mio celeste Padre chiunque tra voi non perdonerà di cuore al fratello da cui è stato offeso ». Qui la parabola è chiara: il Re è Dio, il servo è l’uomo. Consideriamo la condotta dell’uno e dell’altro, e ci apparirà la generosità divina e la grettezza umana. – 1. GENEROSITÀ DIVINA. Due verità possiamo dedurre dalla prima parte del racconto di Gesù: 1) ogni peccatore contrae un debito con la giustizia del Signore; 2) questo debito è così grosso che l’uomo non riuscirebbe mai a pagarlo se Dio non glielo condonasse. a) Ogni peccato è un debito. Lo diciamo nel « Pater noster »: rimetti a noi i nostri debiti. Attendete se non è vero. Come si contraggono i debiti? Anzitutto col non restituire quello che ad altri è dovuto. Ebbene noi dobbiamo dare gloria a Dio nostro Creatore: col peccato, invece, ci rifiutiamo di onorarlo e pretendiamo di glorificare noi stessi, le nostre passioni, i nostri piaceri. Noi dobbiamo dare a Dio l’ubbidienza perché è il nostro Re che ci governa con la santissima legge dei dieci comandamenti: col peccato, invece, ci rifiutiamo di pagargli questo ossequio, e ripetiamo il grido di ribellione che risonò la prima volta sulla bocca di Lucifero: « Non ti voglio servire ». Non ti voglio servire quando mi comandi di rispettare il tuo Nome tremendo; non ti voglio servire quando mi imponi di santificare la festa; quando mi dici di superare gli istinti disonesti; quando mi proibisci di toccare la roba degli altri: « L’ubbidienza che ti viene, io non te la rendo » così dice praticamente il peccatore. Inoltre si contraggono debiti anche con sciupare danaro o roba avuti in prestito. Ebbene Dio ci ha prestato la vita per salvare l’anima, e col peccato noi usiamo della vita in perdizione dell’anima; Dio ci ha prestato salute e tempo per compiere opere buone e noi sciupiamo questi doni nel fare il male; Dio ci ha dato la lingua per lodarlo e noi con la lingua esprimiamo discorsi osceni; Dio ci ha dato la mente per pensare a Lui, e noi lasciamo entrare nella mente ogni fantasia più laida; Dio ci ha dato il cuore per amarlo e noi tutto amiamo fuor che Dio. Quanti debiti! b) Osservate ancora che il peccato è un debito così grosso che non potremmo mai cancellarlo se Dio stesso non ce lo perdona. Il peccato è un male infinito, è un’offesa infinita di Dio. Ora quale uomo può dare a Dio una soddisfazione infinita? Per il peccato noi perdiamo tutti i nostri beni, e dovremmo essere rinchiusi nel carcere dell’inferno per tutta l’eternità. Ma Iddio è un Re buono, basta che il suo servo si getti ai piedi di un Crocifisso, nel Sacramento della Confessione, gli dica: « Pietà di me! » e subito condona tutto il debito fino all’ultimo centesimo. Quante volte noi stessi abbiamo sperimentata la misericordia del Signore! Quante volte gli abbiamo giurato: « È proprio l’ultima volta; Signore cambio vita » e poi siamo tornati da capo, abbiamo accumulato peccati su peccati e Dio ci ha sempre perdonati, ci ha riempiti ancora di grazia, e di benedizione come se fossimo stati sempre i suoi migliori amici. Perché Dio è così generoso? Perché vuole che anche noi lo abbiamo ad imitare. Invece quanto gretti sono gli uomini tra loro! – 2. GRETTEZZA UMANA. Una mattina, il vecchio Vescovo S. Gregorio fu destato improvvisamente da grida e da rumori insoliti nella sua stanza ove da giorni giaceva ammalato. Aprendo gli occhi credette di sognare ancora: i suoi familiari stringevano per le braccia un giovane losco con in mano un pugnale che si dimenava per svincolarsi. Era un eretico che aveva giurato di uccidere il Vescovo nel suo letto: con quel nero disegno in cuore era riuscito ad eludere ogni sorveglianza, e penetrare silenzioso nelle stanze di S. Gregorio che erano sempre aperte , stringendo sotto il mantello una lama micidiale. Ma alla vista di quella cella così povera, di quel letto ove un uomo santo tormentato già dalla morte dormiva con un sorriso celestiale, il giovane cominciò a tremare e fu sorpreso nel suo turbamento. « Che è? » domandò dolcemente Gregorio svegliandosi « che vuol dire quel pugnale? ». « E non vedete — gridavano i familiari — che stava per uccidervi? Noi lo arrestiamo e pagherà il « sacrilegio ». « Che nessuno me lo tocchi! » ingiunse il santo e poi volgendosi all’eretico: « Figliuolo, avanzati: io ti perdono. Uscirai libero dal mio palazzo come vi entrasti ». Il giovane diede in uno scoppio di lagrime: « Ah padre! da questo momento io sono cattolico ». S. Gregorio aveva compreso fino all’eroismo la parabola del Re e del servo, ma ci sono troppi Cristiani che non sanno metterla in pratica nemmeno nei casi più comuni. — Troppo sono stato offeso: è impossibile perdonare — dicono alcuni. Non può essere impossibile, perché Dio è ragionevole e non comanda le cose impossibili; difficile sì, anzi perdonare ai nemici e amarli è il precetto più duro della nostra religione, con la preghiera bisogna ottenere la grazia di saperlo compiere, poiché senza eseguirlo non si entra in paradiso. — Non posso perdonare, perché ne andrebbe il mio onore — dicono altri. E l’onore di Dio non è qualche cosa di più dell’onore di noi misere creature? Eppure Dio perdona sempre a tutti quelli che gli domandano sinceramente pietà. — Ma è un ingrato! se gli perdonassi ritornerebbe a far peggio! non lo merita proprio il perdono! — E noi non fummo ingrati col Signore? non ritornammo tante volte, nonostante le promesse e i giuramenti, a far peggio di prima? lo meritiamo noi il perdono che Dio è sempre pronto a concederci? — Che cosa dirà il mondo? io non voglio. che si dica che l’ho persa. — Il mondo dirà che siete un vero Cristiano; e chi perdona vince e non perde. Infine, ci sono dei mezzi Cristiani i quali credono di adempiere il precetto di Dio col dire: « Io me ne sto a casa mia, non faccio del male a nessuno: e lui se ne stia a casa sua. Ciascuno nella vita va per la sua strada ». Questo non basta ed è segno di un falso perdono. « Io lo lascio qual è » si dice; ma intanto se gli capitano disgrazie si è contenti, se gli van bene gli affari ci vien malinconia. Intanto si tengono inchiodate nel cuore le offese ricevute, si ruminano giorno e notte, non si finisce di raccontarle agli altri ingrandendo o inventando le accuse. Intanto si schiva di incontrare quella persona, si finge di non vederla quando la si incontra, le si nega il saluto. Questo non basta, perché Gesù concludendo la parabola ha imposto di perdonare non di apparenza ma di cuore. De cordibus nostris. È duro talvolta perdonare, ma è necessario. È scritto che con quella misura che usammo per gli altri, saremo anche noi misurati! Sta scritto che sarà perdonato solo a chi perdonerà. Noi fortunati se nel giorno del nostro giudizio gli Angeli potranno testimoniare di noi così: « Ha perdonato tanto ». Allora il Giudice divino esclamerà: « Gli sia perdonato tutto ». – Ricordate il gran martire S. Cristoforo. Un uomo abbietto lo assaltò un giorno sulla pubblica via e gli diede uno schiaffo in mezzo alla folla. Arse di sdegno subitamente il santo e rincorse l’offensore: atterra e sguaina la spada per trafiggerlo. Tutta la gente intorno gridava: « Uccidilo, Uccidilo! ». In quel momento si ricordò della parola del Signore: « Così il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore »; in uno sforzo supremo represse la collera, ripose la spada nel fodero, e al popolo che domandava vendetta rispose: « La farei, ma non posso perché son Cristiano ». Facerem, si non essem christianus. In certe ore in cui la vendetta ci tornerebbe facile e piena di gusto l’esempio di S. Cristoforo ci stia dinanzi e la sua parola ci sia di freno: « O perdonare o rinunziare di essere Cristiani ».
Orémus Ps II: 8. Póstula a me, et dabo tibi gentes hereditátem tuam, et possessiónem tuam términos terræ.
[Chiedi a me ed Io ti darò in eredità le nazioni e in dominio i confini della terra]
Secreta
Hóstiam tibi, Dómine, humánæ reconciliatiónis offérimus: præsta, quǽsumus; ut, quem sacrifíciis præséntibus immolámus, ipse cunctis géntibus unitátis et pacis dona concédat, Jesus Christus Fílius tuus, Dóminus noster:Qui tecum …
[Ti offriamo, o Signore, la vittima dell’umana riconciliazione; fa’, Te ne preghiamo, che Colui che immoliamo in questo Sacrificio, conceda a tutti i popoli i doni dell’unità e della pace: Gesù Cristo Figliuolo, nostro Signore, Egli …]
Præfatio de D.N. Jesu Christi Rege
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui unigénitum Fílium tuum, Dóminum nostrum Jesum Christum, Sacerdótem ætérnum et universórum Regem, óleo exsultatiónis unxísti: ut, seípsum in ara crucis hóstiam immaculátam et pacíficam ófferens, redemptiónis humánæ sacraménta perágeret: et suo subjéctis império ómnibus creatúris, ætérnum et universále regnum, imménsæ tuæ tráderet Majestáti. Regnum veritátis et vitæ: regnum sanctitátis et grátiæ: regnum justítiæ, amóris et pacis. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:
[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che il tuo Figlio unigenito, Gesú Cristo nostro Signore, hai consacrato con l’olio dell’esultanza: Sacerdote eterno e Re dell’universo: affinché, offrendosi egli stesso sull’altare della croce, vittima immacolata e pacifica, compisse il mistero dell’umana redenzione; e, assoggettate al suo dominio tutte le creature, consegnasse all’immensa tua Maestà un Regno eterno e universale, regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]
Sanctus
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt coeli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.
Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:
Pater noster,
qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem: R. Sed líbera nos a malo. S. Amen.
Agnus Dei
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis. Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis. Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.
Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo. V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea. V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea. V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
Ps XXVIII:10;11 Sedébit Dóminus Rex in ætérnum: Dóminus benedícet pópulo suo in pace.
[Sarà assiso il Signore, Re in eterno; il Signore benedirà il suo popolo con la pace]
Postcommunio
Orémus. Immortalitátis alimóniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, qui sub Christi Regis vexíllis militáre gloriámur, cum ipso, in cœlésti sede, júgiter regnáre póssimus: Qui …
[Ricevuto questo cibo di immortalità, Ti preghiamo o Signore, che quanti ci gloriamo di militare sotto il vessillo di Cristo Re, possiamo in cielo regnare per sempre con Lui: Egli che …]
Io ho rinvenuto il mio Bene amato, dice la santa Sposa della Cantica, che significa l’anima in cerca di Gesù. Io, sì l’ho trovato il mio unico Bene. E qual è il mio e il vostro Bene amato, o fratelli? Il cuor ce lo dice: è Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento qui con noi, che non ci abbandona più mai. Per poco possiamo dire come la Sposa santa: girai pei campi, errai pei monti, ma in tutti i luoghi non trovò che solitudine e disinganno il mio povero cuore. Scontrai le scolte per la città e le pregai: Deh mi dite, io vi scongiuro, dove è mai Colui che io sento di amare tanto, e non mi è dato di ritrovare in questo povero mondo? Le guardie poste al santuario del suo amore m’introdussero nella tenda delle sue tenerezze; ed io riposai in seno al ben amato nostro Gesù! Ah, miei fratelli, finiamo di tradirci lusingando questa povera anima nostra! La mente, il genio, il cuore, l’umanità tutta sente bisogno di Dio. Il filosofo nelle speculazioni, allorquando sì slancia nell’indefinito e cerca quel Sommo Vero, quel Sommo Bene, quell’Ente fonte di tutti gli esseri, quella prima Cagione insomma che sostiene tutte le cose, e che vi deve pur essere, il filosofo, senza pur nominarlo, va in cerca di Dio. L’uomo di genio, che sull’ali dell’ispirazione errando, alla lontana vagheggia un bello ideale col suo pensiero; e ognun col cuore ansioso di un amore infinito, se nella foga del desiderio lo cerca coll’avido sguardo sulle bellezze in terra, se si slancia nelle creature per ritrovarlo in esse è costretto di ripetere presto a se stesso: Ei non è qui!… e cadere in lena affannata!… O uomini dalla potente parola, i quali dite ai popoli: venite con noi, e troverete i bene che sospirate, vedeteveli ora con voi come si trovano! Eglino s’arrovellano nella rabbia del disinganno, sorgono come i marosi in tempesta … si battono in rivoluzioni, e i fratelli i fratelli trafiggono senza forse sapere la ragione. Ah la somma delle ragioni e perché li avete traditi allontanandoli da Dio; è perché supremo Bene dei popoli è Dio; e Dio vogliono compagno del loro peregrinaggio, amico nelle loro famiglie, alla testa dei loro eserciti: a lui la gloria delle loro vittorie; Dio costituire protettore dei loro diritti: da tutti i punti dell’universo essi lo sospirano e chieggono di averlo in mezzo di loro. Quindi tutti i popoli vogliono avere un sacrario, un tempio, e, se non fosse altro, una cella, un bosco, un antro per trattare con Dio e versargli nel seno tutti i loro bisogni. Da per tutto erigono altari per trovarlo sopra essi. Ma nel salirvi manca loro il coraggio; e si sentono troppo meschini: il proprio cuore li accusa tutti, tutti sentono di esser colpevoli. Per questo si affannano a portar vittime, a scannarle, ad arderle nei sacrifici, affinché, accoltele Iddio in odore di soavità, resti placato con essi. Ma che è mai?… Corrono tutte le genti sugli altari, e vogliono mangiare delle offerte istesse, che credono di aver posto in mano del loro Dio! E tutti i popoli fecero sempre così. Come ciò non potevano satollarsi nelle lor case? E perché correre a cibarsi nei templi? E che ha mai da fare il mangiare coi riti delle religioni? Ah! Miei fratelli, è che gli uomini in fondo al loro cuore sentivansi dire da una primitiva parola, che avrebbero trovato sugli altari Iddio. L’umanità ha bisogno di unirsi con Dio, ha una santa fame della Divinità; e piglia quindi di quelle cose offerte, se le mangia per metterle nel proprio petto, riporle sul proprio cuore, e coll’inviscerarsi quella cosa diventata sull’altare santa con Dio, vedere così di stare al contatto e come cuore a cuore con Dio… Benedetto Gesù Cristo, il quale provvede a tutti i bisogni degli uomini, e a questo supremo bisogno provvede da Uomo Dio, sì veramente nel santissimo Sacramento! Egli, Dio col Padre in cielo, Uomo con noi in terra, ci chiama tutti: venite ad me omnes, e come una madre ci vorrebbe sempre attorno; onde ci viene ripetendo: Vi porterò con me al cielo: omnia traham ad me ipsum (Giov. XII, 32). Poi quando noi ci facciamo a Lui appresso, quando gli stendiamo le braccia, quando gli allarghiamo il cuore, Egli ci abbraccia divinamente; e questo amplesso, in cui si abbondona Dio e si unisce personalmente cogli uomini, è la santissima Comunione!… Miei figliuoli, aprirovvi il mio cuore. In tutto che io dissi, che io feci con voi io mirava sempre qui, ad unirvi con Gesù nel santissimo Sacramento!… Ora ci siamo giunti!… è qui Gesù, che sta in mezzo di noi. Di che io non posso fare altro che esclamare: eccovi, Egli è proprio qui con noi sull’altare! eccovi, eccovi che vuol venire con noi nella santissima Comunione! È questa la nostra più cara Meditazione che divideremo in due punti. I. punto: Gesù è qui con noi nel Santissimo Sacramento colla sua Presenza reale; e noi come lo trattiamo? e noi come lo dobbiamo trattare? II. punto: Gesù Cristo dà tutto se stesso nella santissima Comunione; e a noi non resta che di gettarci in seno a Gesù, e far quello che vuole il cuor Suo amantissimo, il che vuol dire salvarci. Gesù adunque colla sua Presenza Realr nel SS. Sacramento qui con noi, Gesù che si dà a noi nella santa Comunione, ecco tutto il nostro argomento. Io per me mi gitterei col volto sul pavimento appiè dell’altare, e nel silenzio del labbro sfogherei l’animo mio non con altro che col pianto. Ma dovendovi parlare, datemi il vostro cuore che io ne ho bisogno per dirgli con voi: Gesù, Gesù! col tremito della tenerezza noi vi baciamo col cuor tutti insieme nel vostro Cuore amantissimo. E giacché ci lasciate fare, io metto la mia bocca al vostro Costato!… Deh che io mi risenta dell’esservi così vicino! Deh che io palpiti dei vostri palpiti; e che dal vostro Cuore mi fluisca quella parola calda del vostro Sangue, la quale pur passando su questa mia lingua di terra, infonda nei nostri figliuoli la vita eterna. O Maria, benedetta Madre di Gesù e Madre nostra, io ho bisogno di tutto il vostro Cuore e della vostra materna parola, per trattare il vostro più caro interesse, che è quello, di fare amare, come già voi in terra, Gesù nostro nel SS. Sacramento. – Intanto io respiro già in mezzo di voi, consolato più che una madre la quale ha intorno alla mensa i suoi figliuoli tutti pieni di vita, a cui ella dà proprio volentieri il cuore… Oh sì, che io vi amo tanto; e troppo più che io non vi dica!… Nel vedervi correre tutti per ricevere Gesù io tranquillizzo il mio cuore per voi (vel confesso, già sempre agitato) colla consolante confidenza che nessuno di voi, sì, proprio nessuno di voi, uniti essendo con Gesù, si abbia da perdere ancora. No, Gesù mio, ve l’assicuro: sempre uniti con voi nel Sacramento li avremo tutti salvi in paradiso! – Deh, che mai ci dice la fede del santissimo Sacramento? Che Gesù è proprio qui in Persona. Santa fede!… Noi, per goder meglio della nostra sorte, fermiamoci col cuore a Lui, e contemplandolo guardiamo in quel suo Costato aperto; poi, quasi non credessimo nemmeno a noi stessi tanta nostra fortuna, fissiamogli come gli occhi in volto, col cuor che credendo l’ama tanto, consoliamoci rassicurati, esclamando: Gesù nostro!… Voi siete proprio qui?… Rendiamocene come più consapevoli col sentirlo dalla sua bocca stessa che ci sicura. Parla Gesù; e noi ascoltiamo, adorando la sua parola. Sono mille ottocento anni i quali provano che Gesù dice sempre la verità. Difatti, sono ben mille ottocento e più anni dacché Gesù là dinanzi alla maestosa mole del tempio di Gerusalemme fissando di mezzo ai discepoli quella smisurata montagna di marmi sclamava: Tempio, sarai distrutto; e prima che passi questa generazione: né di te rimarrà pur una pietra sopra altra pietra. — Ora sono mille ottocento anni che il tempio restò distrutto là così, da non poter fissarsi esattamente il luogo, in cui s’innalzava quel superbo edifizio. Ciò prova che Gesù Cristo son mille ottocento anni che dice sempre la verità. Fan mille ottocento anni che Gesù così piangeva: Povera Gerusalemme! tu non mi ascoltasti! Resterai sepolta sotto le tue rovine, e i Giudei saranno dispersi per tutta la faccia della terra, senza tempio, senza sacerdozio, senza esser un popolo, in mezzo a tutte le nazioni a fine di render testimonianza alla mia parola. — E i Giudei restano dispersi da per tutto tra le genti, senza mai confondersi con esse, senza mai potersi raccogliere a formare un popolo; e qui, là provano in faccia a tutto il mondo che sono mille ottocento anni che Gesù dice sempre la verità. – Tristi ai Giudei cui l’imperator Giuliano, nemico feroce di Gesù Cristo, chiamava da tutto il mondo, ed aiutava di forza a far risorgere dalle spaventose rovine più bello il tempio in onta della parola di Gesù Cristo! Allora i Giudei a portar tesori per la sospirata impresa; le donne offrire i gioielli e gli ori, e fin le proprie braccia a rifabbricarlo. Si scavano le fondamenta, rimossa pietra di sopra pietra; ma sbucano fuori le fiamme che, consumandoli, danno tale lezione, che più non ritenteranno per tutti i secoli la sacra impresa contro la parola di Gesù, il quale da mille e ottocento anni dice sempre la verità. – Su su, io vorrei dire agli increduli, volete un bel miracolo, che provi vera la parola di Gesù? Ve lo avete davanti; e pensate che concorrete voi stessi a farlo risaltare in faccia all’universo. Voi, i quali colla potenza delle vostre sette scoronate a voglia i monarchi che non vi servono, voi che annettete i popoli, cambiate la carta geografica, create i regni, voi, dico, potreste dar la mentita a Gesù Cristo. Raggranellate i vostri giudei, formate un piccolo regno, sia pur microscopico: comprate un palmo di terra in quella squallida Gerusalemme, da erigervi su il tempio… – Che vi pare? Il Gran Turco, che è il padrone, lasciossi già vender l’Egitto, ed ora va cedendo le provincie: egli vi venderebbe anche il serraglio, perché non ne può più pel bisogno di danaro. I vostri Giudei tengono in lor cassa i denari di mezzo il mondo. Dei governi d’Europa sono indifferenti per Gesù Cristo, altri malignamente desidererebbero che la sua parola fosse smentita. Ma non è questo un miracolo! si vorrebbe vendere, nessuno impedirebbe di vendere; si hanno danari da comperare, è il desiderio il più ardente di tanti secoli di far questa compera; eppur non si compera mai… Questo miracolo lo fa la parola di Gesù che disse, da mille ottocento anni or sono: Tempio, resterai distrutto. Giudei, non regnerete più fino alla fine dei secoli. — E son mille ottocento anni che Gesù Cristo dice sempre la verità. – Era Gesù Cristo sulle rive di un laghetto in mezzo a pescatori poverini, i quali rattoppavano le reti, e loro con amabil parola diceva: Ma io vi farò pescatori di anime per tutto il mondo; tu poi, o Pietro, sarai la Pietra sopra cui edificherò la mia Chiesa, e neppur le potenze d’inferno ti abbatteranno. — E fu veramente così. Quei villanelli della Giudea eccoli dispersi per tutto l’universo: hanno successori a raccogliere anime, e sopra la prima Pietra il successore di Pietro sta a dispetto di tutte le eresie, a dispetto di tutte le potenze, a dispetto di tutte le rivoluzioni, immobile in mezzo a regni che cadono, tra le rovine del tempo sopra la terra: a scorno dell’inferno il Papa sta da mille ottocento anni, per la parola di Gesù Cristo che dice sempre la verità. – Ma se Gesù Cristo disse fino prima di nascere, e continua per mille ottocento anni a dire sempre la verità, ascoltate, ché ne dovrete intenerire alle lagrime. Un dì una povera donnicciola, a vederla, sposa di un artigiano andava su per una montagna a fine di visitare una sua parente. Quella vecchiotta, che vide venire a sé la donnina, esclama in giubilo: Oh che fortuna!… La madre del mio Signore che viene a me? — Allora l’ospite come rapita esclama: Magnificat anima mea Dominum: L’anima mia esalta il Signore!… Quia respexit humilitatem ancillæ suæ, ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes. Ma, sentite che diceella? « Perché il Signore guardò l’umiltà dellasua servetta, ecco che mi diranno beata tutte le generazioni! » Avrebbero detto gl’increduli: Donninamia, che di’ tu mai?… Che tutte le generazionidel mondo si abbiano ad interessarsi per te,meschinella?… Che tutte le generazioni dell’universoti abbiano a chiamare beata: beatam me dicent?…Oh vaneggia la poverina!… — Profani… tacetelà: quell’umile vergine è l’Eletta dall’eterno CreatorePensiero di Dio; è la più grande di tutte lecreature nella sua umiltà… è Maria Santissima, laquale ha in seno Gesù che le spira sul vergine labbro l’eternasua verità!… Figliuoli, voi l’avetein mano nel vostro uffizio la Sua profezia, e lacantate sempre nei vesperi: beatam me dicent omnes generationes.Ora guardate voi se d’allora sino aquesti dì non dice sempre la verità! Increduli e credenti, dite: non è egli vero che dal sommo Pontefice nel più gran tempio dell’universo,dai re, dalle regine, fino alla povera figlia appié della Madonnina di gesso, tutti acclamano alla benedetta:« Oh Maria, tu sei beata! » Mettete pure tutti i monarchi ed i conquistatori, tutti i grandi eroi delmondo insieme, sì che mostrino se banno tantimonumenti eretti alla lor propria gloria quantiMaria ha santuari e chiese; altari e tabernacoletti. – Sino sopra il letticciuolo del tapinello sta laimmaginetta appesa; e dappertutto tutte le genti delmondo la acclamano: Beatam me dicent omnenerationes… Maria SS. era inspirata da Gesù cheaveva in seno: e noi lo ripeteremo sempre, e doponoi tutti i secoli ripeteranno che Gesù Cristo dicesempre la verità. -Che dice adunque Gesù del Santissimo Sacramentocolla sua parola? Sentite la verità di Dio! QUESTO È IL MIO CORPO!… QUESTO È IL MIO SANGUE! …splendor di chiarezza del Verbo Divino sfolgora lamente umana; e Se voi, o increduli, potete non credere, come potete anche morire senza speranza, pur crede il mondo cattolico con tutti i suoi piùgrandi uomini dell’universo. Noi tutti adunqueadoriamo nel Santissimo sacramento il Corpo e ilSangue di Gesù Cristo. – Meditiamo qui in prima come è qui proprio Gesùpresente di una presenza vera, reale, sostanziale inAnima e in Corpo; come vi è Dio-Uomo nellasua Persona divina. Meditiamo poi che Egli è quicon quel suo Corpo che combatté per noi sino all’ultimo sangue; meditiamo eziandio consolati che Egli è qui con quelle piaghe, con quel Cuore apertoe che ci vuole seco d’intorno in comunione di vitaper condurci salvi in paradiso. – Nessuno mai; e neppure i popoli di tutte le falsereligioni che si creavano i loro déi a fantasia, e seli facevano a seconda delle loro passioni, no, nongiunsero ad immaginarsi che un Dio si potesse abbassarea questo modo. I Giudei provocavano arditamentele nazioni a mostrare se mai avessero unDio, il quale si fosse avvicinato a loro come il Diode’ cieli a trattar col popolo d’Israele era disceso.E per vero una volta re Salomone e tutto il popoloinsieme, dedicatogli il più gran tempio dell’universo,videro una maestosa nube discendere dalcielo, ingombrar tutto il gran santuario, e teneresopra di esso adombrata la gloria di Dio. Allora ree popolo in ispavento caddero bocconi per terragridando: Eh si deve pur credere ergo ne putandum est… che Dio si degni di abbassarsi così? —Anche là nel deserto, quando scorsero altra voltauna gran nube avvolgere intorno la montagna del Sinaiin tenebrore, e guizzarne lampi, rombare tuoni,traballare il monte in sussulto, la vetta andare infaville, ed una tempesta di folgori e di saette tenerliin pauroso rispetto davanti alla Maestà di Dio chesi mostrava presente, caddero tutti come un soluomo colla faccia nella polvere alle radici di essomonte, mettendo costernati le strida: Tremendo Dio,cui non osiam nominare, non parlate a noi, chénoi cadremmo morti alla vostra parola: parlate alvostro servo Mosè; ed ei ci ridica li vostri comandamenti!…— Passata poi la visione, gridavanoin vanto di gloria: No, no, non vi è nazione cosìgrande che abbia come noi così avvicinato Iddio! —Anzi, benché poi Dio si fosse lasciato intendereper mezzo dei profeti, e detto avesse come preparandoagli uomini un grandissimo dono, farebbe delconversare cogli uomini la sua delizia: Deliciæ meæ esse cum filiis hominum. (Prov. VIII, 31): eglino al tuttoal tutto non potevano giungere ad immaginarsi ilgran miracolo, d’ogni aspettazione maggiore, dellabontà del Salvatore nostro Dio, di volere cioè rimanere per tal modo nel Santissimo Sacramento. – Deh! noi spargiamo la terra di fiori, vestiamo diarazzi preziosi le auguste magioni di Dio. Mille e mille, sul candor di quelle candele, svavillino lefiammelle tremolanti come i cuori nostridel santo amore; si slancino al cielo le cupole sublimi come la fede che le inspira… giacchéDio, è qui Dio con noi. Su su, verginelle e figliuoledi Maria; su, giovinetti dal puro cuore,attorno in terra quei cantici che gli ricantano gliangioli in cielo…. È qui Dio? E in qual contegnosta Dio?!! Gran Signore, dov’è quella destragettò, come una manata di polvere, i mondi nelfirmamento e li sorregge nell’ordine e nell’armoniadei moti? Dove è quel piede che, se tocca, riduce incenere i monti? Dove quella voce che chiamò fuoridal nulla l’universo, che se intimerà all’universo diritornare al nulla, l’universo non sarà più? Onnipotenza d’amore! Egli scorona dei raggianti baleniil volto divino e stassene qui muto: annichila pelpensiero nostro l’immensità, e rimane sotto le apparenze del pane mutato, dove gli uomini lo vogliono, o meglio, dove vuole Egli trovarsi, cioèdappertutto dove sono i suoi cari. Sia pure raccolto in poche capanne e catapecchie un piccologruppo di povera gente; ed Egli là si contenta didimorare in un ripostiglio a mezzo di loro. In unachiesuola coperta di edera, tappezzata di muschio, eziandio grommata di muffe, dentro untabernacoletto meschino, sotto poveri cenci è sempre Gesù,il quale accarezza l’anima più meschinella del mondose viene a Lui; ed è il vero tesoro di tutti, anche dei più piccoli cuori. Qui egli è l’amico, qui loSposo delle anime nostre: qui il Padre che accoglie a qualunque ora i suoi figliuoli… Ma non basta, Egli è come il capo, il quale raccoglie intorno intorno noi come le più care membra del suo Corpo.Ed oh per miracolo d’amore quanto sa farsi piccino!Nol direi io, mai no!… Ma lo dice la suaamabile bocca. Sentite: Io sono come la chiocciasull’aia che chiama i suoi pulcini sotto dell’ali. Perriscaldarli col proprio petto! Quemadmodum gallina congregat pullos suos sub. alas (Matt. XXVII, 37). Tenerissimospettacolo, dice s. Agostino, è il contemplarecome la gallina madre in mezzo dell’aia stende leali, crocchia, crocchia e chiama in crocchiando tuttii pulcini intorno. I pulcini a lei si fan sotto, e voglionostarvi proprio tutti; ed ella arruffa le piume,la si fa grossa grossa a far il posticino per tutti.Quando se li tien insieme in se stessa ripiega il collo,se li accarezza e pipila pipila con essi sul cuore!Buon Gesù! Voi fate proprio così: « Venite, venite ad me omnes, venite a me, venitemi tutti, ci andateripetendo, reficiam vos; vi scalderò io tutticoi miei palpiti, vi ristorerò col Sangue mio! — AGesù adunque il pensiero, il cuore, a Lui intornotutta la nostra vita.Del sicuro, per un fedele, il quale ha cuore, nonv’è nel mondo santuario più devoto, né più caro diuna chiesuola dove dimora in Persona il nostro benamato Gesù. Vanno i devoti ai santuari, massime ,a quelli di Maria Santissima. In essi nel dì dellavisita sentonsi come in casa propria di nostra santaMadre; e appendono con cura amorosa quei lorovoti d’argento, quasi vi attaccassero il cuore, dall’unae dall’altra parte dell’Immagine sacra alla divozionedei popoli. Bene sta: è una tenerezza versoalla nostra beata Madre in cielo. Ma per me e pervoi, il santuario più caro è il tabernacoletto in cuialberga il Santissimo Sacramento. Si, Gesù, buonDio nostro, quanto è dolce cosa abitare nella vostratenda! Chi ci concede che noi vi troviamo, etroviamo Voi solo? che godiamo di Voi, né creaturaalcuna da Voi ci allontani; né guardi pure anoi, ma che Voi ci parliate come amico ad amico? (Imit. Di G. C. lib. 4).Deh, vi preghiamo, trasformateci in Voi; poiché, sesiamo cuore a cuore con Voi, si ristora la nostra persona,e respira in seno a voi il profumo di unavita migliore; e un giorno, un’ora goduta insieme con Voi solo consola l’anima più che mille anniperduti per questo mondo che finisce di non accontentarenessuno: Quam dilecta tabernacula tua, Domine! (Ps. LXXXIII, 2). Cerchiamo, fratelli, di stare col cuorein Gesù, e cesseremo di essere infelici!Ai tempi di fede più viva si vedevano principi ere, lasciate le mollezze dei loro palazzi, a capo deiloro eserciti, cavalieri a capo di popolazioni intieree fino schiere folte di giovanetti, come in Ungheriaed in Polonia, muovere alla volta di Terra Santa.Pigliata che avevano la croce sul petto, sfidavanopericoli di viaggi più disastrosi; e con una fedeche comanda ai venti, cimentavansi attraverso ai mari, montavano sulla testa alle tempeste, e intimavanoai furenti marosi di gettarli sulle turchecoste marine. Là sbarcati, rizzavano alto il Crocifisso, sventolavangli sotto lo stendardo della Madonna;poi, serratisi intorno con una selva di lance,brandendo con una mano la spada, col Rosario nell’altra pregavano e combattevano. I Turchi in agguato dalle giogaie del Tauro irrompevano lor addosso; ed essi aprivansi il varco in mezzo ai feroci, seminavano di ossa il deserto, ma sempre col grido di guerra: avanti! ché chi muore per Gesù, trionfa sempre! Si sentivano contenti che pochi potessero giungere alla Terra Santa a compiere il voto del devoto peregrinaggio. Arrivati sotto le mura delle città liberate dai Turchi fuggiti dall’assedio al sopraggiungere dei prodi crociati, uscivano fuori respirando i Cristiani, e correvano in mezzo alle loro tende per medicare le piaghe ai loro liberatori. Quindi: venite, dicevano a quei bravi, qui giù in questa grotta di Betlemme. Questo è il Presepio, li la greppia, e in fondo su quel sasso la Madonnina santa depose il Bambino Gesù nella più bella notte del mondo. — Quei guerrieri cadevano per terra ginocchioni con quelle ispide facce riarse dalle battaglie; baciavan quel sasso in singhiozzi come le femminette, e pareva lor di baciare i piedi al Bambino Gesù! Poi conducendoli in giro: è questo il villaggio dove abitava sovente Gesù; questo il pozzo, e su quel davanzale lì Ei si sedette a convertire la Samaritana. — Quei guerrieri nelle loro estasi popolavano quei cari luoghi immaginandosi le turbe su per quei poggi correre appresso a Gesù coi cuori affamati del pane della vita. Entrati nell’orto di Getsemani indicavano: Qui sotto questi olivi, su quelle antiche ceppaie, che sono ancora le stesse, Gesù sudava Sangue pei nostri peccati!… — E quei prodi caduti per terra si battevano i petti coperti dell’usbergo di ferro, gridando misericordia! Pareva loro di fissare gli 0occhi a Gesù nello spasimo della sua agonia; e facevano atti di contrizione unendo il proprio al suo dolore divino. Poi in Gerusalemme loro si diceva: eccovi la via per cui passò Gesù Cristo portando la croce; e di li gli correva appresso Maria. Ancora adesso, vedete, fino i Turchi la chiamano la via di tutti i dolori… Ah la Madre addolorata vedeva su quei sassi le strisce di Sangue che perdeva il suo Gesù… Questo ceppo di colonna è quello che segna il luogo dove ella giunse ad abbracciarlo sotto la croce!… — Quei valorosi si protendevano colle braccia larghe sulla strada, e coi gemiti: Gesù e Maria! sospiravano, quasi baciassero a loro i santissimi piedi! — Levatevi su, dicevan loro, venite nella chiesa al santo Calvario. Qui pigliando per mano quei trepidanti: montate su, dicevano, sopra questo santo Monte. Vedete? questa è la rupe che si spezzò nell’ora dell’agonia e restò qui così. Proprio in questo buco era piantata la croce: Maria Santissima dovette star li; e il Sangue di Gesù pioveva su questi sassi!… e l’addoloratissima nostra Madre, pensate! … restava tutta bagnata di Sangue!… — A tutti scoppiava il cuore; tremavano le loro ginocchia; e buttatisi bocconi col fremito di compunzione e con acuto dolore baciavano quella roccia bagnata del Sangue di Gesù, la riscaldavano col proprio ardore, e parlavan coi palpiti del cuore sopra essa. Ma: eccovi il santo Sepolcro qui, il quale non ha più cadaveri da gettar fuori pel di del giudizio. Di li Gesù risorse glorioso: mettete dentro il capo ad osservarlo. — A quei buoni campioni pareva di metter proprio la testa sulla porta del paradiso: poi raccoglievano un po’ di polvere, staccavano un sassolino da quei luoghi consegrati dal Sangue di Gesù portandoli quali preziosa reliquia per le loro famiglie, le quali li riabbracciavano salutandoli: oh i fortunati! Fortunati, noi pure ripetiamo, fortunati i discoli e le turbe che poterono avvicinare Gesù, e toccargli fino le vesti. E Maddalena non fu fortunata? la benedetta sedevasi proprio ai piedi di Gesù, e beveva estatica le parole che piovevano celesti consolazioni da quel labbro divino. E gli Apostoli, che sempre d’intorno venivano pascolati di celeste dottrina da quell’amabilissima bocca? Ma più di tutti fortunata Maria. Ella è ben la cara divozione dei popoli quella di contemplare la Verginella Madre beata col divin Bimbo in grembo; né il genio dei pittori restò mai esaurito nel presentarla nelle più amabili e devotissime forme: ché la Madonnina col Bambino Gesù attrae sempre gli occhi e il cuore dell’uomo a contemplarli. Eppure io qui vorrei dirvi, e fatene pur le meraviglie, ché ne avete ragione, anche noi essere fortunati con Essa. Poiché abbiamo proprio Gesù medesimo qui con noi. Anzi, se si può parlare così di Dio, il quale merita di essere amato sempre sopra ogni tosa, pare che qui abbia maggiore merito, ove possibil fosse, di essere amato di più, essendo Egli qui con noi dopo di averci salvati a costo della propria vita. Ora meditiamogli sulle sue Piaghe. Ma giova innanzi osservare che, siccome Gesù è Dio eterno, così i tempi sono in Lui come un solo momento. Quindi noi possiamo adorarcelo, o come Bambino, o là come era nella casa di Nazaret, o in passione sulla croce, o col cuore squarciato e tutto una piaga sulle ginocchia di Maria, ovvero com’è nel cielo. In questo momento facciamo noi di contemplarcelo Bambino a guisa di quell’anima tenera di s. Bernardo, il quale gli diceva: Gesù mio, quando vi contemplo piccino di più, e più amabile mi siete. — Or via. datemi voi, o fratelli, qui tutti il vostro cuore, e facciamo di baciare tutti il Bambino Gesù, perché ce lo permette Maria Santissima, la quale lo lasciò baciare ai pastori. O Bambino nostro Gesù, deh lasciateci baciare la vostra Testina… Oh ve’… sotto questi ricciolini dorati vi sono ancora i fori che vi fecero le spine, quando siete venuto su grande a morire per noi… O Bambino Gesù, lasciateci baciare le vostre Manine!… Oh ve’… in queste vostre Manine vive vive ancora appaiono le Piaghe che vi fecero quei chiodi per noi!… Gesù nostro! vi vorremmo baciare nel Cuore… Ah questo Cuoricino geme ancor Sangue tra quelle vampe d’amore e palpita tutto per noi!… – Dite ora voi, o fratelli, se non si debba amare, troppo più che non si possa, nel Sacramento Gesù, solo che ridestiate la fede. Pensate infatti, quando un prode guerriero, dopo di aver combattuto per la patria; per le spose, pei figliuoli e per gli altari, ritornava in trionfo tra i suoi diletti, come era una festa per tutti. Tutto il popolo intiero muoveva ad incontrarlo in folla; e al vederlo comparire era un evviva unanime. Ristavansi poi tutti un istante… e lasciavano andare innanzi chi? il vecchio padre tremolante. Ei gettavaglisi tra le braccia, e pareva a lui di ringiovinire alla vita in gloria sul petto del figliuol glorioso. Poi la vecchierella madre, la buona madre lo mostrava ad ognuno trionfante, com’era, e felice di quel suo gran figliuolo: i suoi Tarchi a strincersi alle ginocchia di lui, e su a baciargli le mani; e la sposa in estasi di gioia stracciare i veli più fini per medicargli sul petto le piaghe onorate; e tutti a disputarsi una parolina da lui, un sorriso almeno, un’occhiata, un cenno di saluto. Era una consolazione ed un gaudio che mai lo maggior per tutti. Deh, deh! meglio noi colle lacrime della più viva gioia festeggiamo Gesù trionfante dalla battaglia, la quale dall’inferno ci liberò. Egli è qui risorto, e porta sulla divina Persona quelle Piaghe gloriose che ebbesi a toccare nel battersi per noi: egli è qui, e ci porge quelle membra che si son battute a nostro vantaggio fino all’ultimo Sangue. Egli è qui con quel Sangue, cui egli ha versato fino all’ultima goccia. Oh cara vita del nostro Gesù, e dove ho il mio cuore, quando non l’ho qui tutto con voi? Ah quando si pensa che lo lasciamo tanto tempo senza dargli un pensiero, per non sentirne disdegno bisogna proprio avere compassione delle povere anime nostre, cui tanti nonnulla del mondo portano lontano dal Sommo Bene nostro Gesù! Ridestiamo la fede, fermiamo un poco il pensiero; ed il nostro cuore allora dovrà troppo più teneramente che io non dica amare Gesù. Fate voi questa prova.
[Otto Hophan: Gli Apostoli – Ed. Marietti, Torino, 1951)
S. SIMONE
Questo buon Simone è il più sconosciuto di tutti gli Apostoli e dobbiamo quasi farci violenza per non dirlo il più insignificante dei Dodici. L’intera Sacra Scrittura non conserva di lui che il solo nome, e il nome stesso, « Simone », lui lo dovette condividere con un altro; giacché nel gruppo dei Dodici con lui sedeva anche un altro Simone — curiosa la duplicità dei nomi nel Collegio apostolico: due Simone, due Giacomo, due Giuda —, Simone Primo, Simone il Grande, Simone la Roccia; anzi questo Simone compariva ovunque sul proscenio e in prima fila in modo che Simone il Piccolo, Simone l’Ultimo non emergeva affatto; quando il Signore dovette trattare di « Simone » — « Beato te, Simone! », « Io ho pregato per te, Simone », « Simone, Mi ami tu? » —, intese sempre l’altro, il Primo e non lui, l’Ultimo; egli era solo come l’eco lontana, come l’umile ombra e come una fugace ripetizione di quel primo Simone, onusto di dignità; questi gli aveva sottratto tutto in precedenza, per così dire, come il patriarca Giacobbe a suo fratello Esaù! Valgano le poche pagine presenti ad accostare con particolare affetto all’anima cristiana questo dimenticato Simone, poiché anch’egli è uno dei Dodici Grandi nel regno dei Cieli. Come di Giuda Taddeo, anche di Simone abbiamo un chiaro abbozzo già nel Vecchio Testamento, in due uomini, che furono insigniti di questo nome. Il primo di essi, Simeone, il secondo figlio del patriarca Giacobbe, fu dal padre severamente biasimato e punito a causa del suo zelo indiscreto e crudele, con cui vendicò nei Sichemiti l’infamia perpetrata contro sua sorella Dina; nella spartizione della Terra Promessa egli non ricevette un proprio territorio per la sua tribù, ma solo un certo numero di località nella porzione della tribù di Giuda, assegnategli come abitazione. Giacobbe nel suo testamento disse espressamente il motivo della posizione insignificante e di dipendenza, ch’era riservata alle tribù di Simeone e di Levi: era il vile gesto compiuto dal loro zelo eccessivo. « Simeone e Levi: qual coppia di fratelli! Le loro spade sono strumenti della violenza. Uomini uccisero nell’ira. Maledizione al loro furore, che fu violento, alla loro collera, che fu così crudele! Così li spartirò in Giacobbe, li disperderò in Israele ». La tribù di Simeone di fatto emerse ben poco nella storia del popolo eletto in Canaan, non fu mai un valido sostegno del regno. Giuditta, la donna ed eroina della tribù di Simeone, non si fermò certo al lato oscuro dell’anima ultrice del suo capostipite, ma a quello favorevole, quando pregò: « Signore, Iddio di mio padre Simeone! Tu gli hai porta la spada per punizione degli stranieri, che nella loro depravazione deflorarono una vergine ». L’altro Simone, preannunzio del nostro Apostolo, fu Simone Maccabeo, condottiero del popolo eletto negli anni 142-135 prima di Cristo, soprannominato « Thasi », che vuol dire « Zelante ». Anche questi se ne stette a lungo ai secondi posti, perché, sebbene fosse per anzianità il secondo figlio di Matatia, servì nondimeno sotto la direzione dei suoi fratelli Giuda e Gionata; solo quando anche Gionata non poté più reggere la comunità giudaica perché caduto in prigionia, Simone passò avanti e, dopo la morte del fratello, assunse ia direzione del popolo. Questi due Simoni dunque dell’Antico Testamento ci appaiono come una profezia dell’apostolo Simone; anche in lui sono profondamente impressi i loro tratti essenziali, perché è l’Apostolo sconosciuto, quasi dimenticato. Non sappiamo nulla di sicuro intorno alla sua patria. Matteo e Marco veramente, nei loro cataloghi degli Apostoli, gli danno il soprannome: « Il Cananeo » per distinguerlo da altri Simone contemporanei e anzitutto da Simone Pietro; per questo molti e lo stesso Girolamo furono indotti all’ipotesi che Simone fosse originario di Cana; i Greci e i Copti anzi ravvisano in lui quel discepolo, che secondo la testimonianza del Vangelo viene certamente da Cana, e cioè Natanaele; ma Natanaele si deve identificare con l’apostolo Bartolomeo piuttosto che con Simone; altri in « Simone il Cananeo » vide lo sposo delle nozze di Cana, cui il Signore soccorse col vino miracoloso, ma anche questa opinione manca di ogni fondamento. Il termine « Cananeo », derivato dal vocabolo aramaico « quana », infervorarsi, non indica un luogo, ma un partito; Luca esprime esattamente la stessa cosa col termine greco « Zelotes », lo Zelante. Ora l’ambiente evangelico e specialmente il partito dei « Cananei » o Zeloti fanno piuttosto pensare che la patria di Simone fosse la Galilea; non è però possibile dir nulla di più preciso al riguardo. Non sappiamo nulla di certo neppure intorno alla famiglia di Simone; non mancano però dei motivi per avallare l’ipotesi che anch’egli fosse un « fratello del Signore ». Matteo e Marco infatti fra i fratelli di Gesù fanno menzione anche d’un Simone: « Gli uditori (a Nazareth) stupirono della sua (di Gesù) dottrina e chiedevano: “Donde può Egli aver tutto questo?… Non è il fratello di Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone?»; anche nei cataloghi degli Apostoli tutti e tre i Sinottici ricordano un Simone insieme con Giacomo e Giuda; Marco poi, tanto nel testo in cui enumera i fratelli del Signore, come in quello in cui cataloga gli Apostoli, segue persino il medesimo ordine esatto dei nomi: Giacomo, Giuda, Simone, legittimando così la supposizione che anche il fratello del Signore Simone, come gli altri due fratelli di Gesù, Giacomo e Giuda, appartenesse al Collegio apostolico. Questa interpretazione è appoggiata dall’opinione di Egesippo, il quale attesta che Simone, secondo Vescovo di Gerusalemme, era un figlio di Clopas, fratello di Giuseppe, padre nutrizio del Signore; ora Clopas o Cleofa si deve identificare con Alfeo, ch’era il padre di Giacomo; Giacomo quindi, Giuda e Simone, fatte le debite osservazioni e riserve, erano fratelli fra di loro e cugini corporali del Signore; un sola differenza, che cioè questa determinazione per Simone resta nell’oscurità; ma già nella sua famiglia prima di lui venivano i fratelli più anziani e più in vista, che si muovevano a piacere; a lui, l’ultimo, il più giovane non restava che tenersi piccolo e in silenzio. – Nemmeno della sua vocazione possiamo dire qualche cosa di più preciso. Quando il Signore scelse i Dodici, egli si trovava confuso fra la folla dei discepoli sul monte; i suoi due fratelli più anziani, Giacomo e Giuda, forse s’indignarono internamente quando « il piccolo » li seguì di soppiatto, poiché uno dei tre almeno doveva dare una mano a casa al padre Alfeo, che era agricoltore e come tale non mancava di lavoro in nessun giorno dell’anno. Può essere che anch’essi, irritati come Eliab, il fratello più anziano del giovanetto David, abbiano tuonato contro il giovane Simone: « A che scopo propriamente sei venuto qui? a chi hai lasciato le poche pecore nel deserto? Tu sei venuto solamente per stare a guardare »?. E Simone stette davvero a guardare con occhi spalancati e attoniti quando, alla chiamata del Signore, si staccarono successivamente dalla moltitudine degli uomini per presentarsi innanzi a Lui primo Simone, poi il gentile Andrea, poi l’ardente Giacomo e poi l’ardito Giovanni. E adesso sta in ascolto ed ecco! Il Signore chiama suo fratello Giacomo e, onore inaudito per la famiglia, anche Giuda. I due passarono dinanzi dignitosamente al loro piccolo fratello Simone, il quale risplendeva d’orgoglio e di gioia. Ora dieci uomini ornano Gesù come dieci diamanti una corona. Chiamerà anche degli altri? e chi? E Gesù chiamò: « Simone! ». Questi si guardò d’intorno perplesso, ché dei Simone ce n’erano molti. Gesù ripetè: « Simone! ». Una breve pausa; poi, quasi esitante: « Lo Zelante ». Lo Zelante? Quando il « Cananeo » entrò nel gruppo del Signore, percorse le folle un incredulo stupore. Nei cataloghi degli Apostoli di Matteo e di Marco Simone è l’undicesimo e il penultimo; solo Giuda viene dopo di lui e gli fa ombra; può essere anzi che il Signore chiamasse Giuda prima di Simone e che solamente il crimine commesso lo abbia ricacciato dietro a Simone. Ci fa compassione il semplice Simone, ricordato così d’un fiato insieme col Traditore; forse lui stesso qualche volta, senza sapere perché, si sentì malsicuro in vicinanza dell’oscuro suo compagno; e probabilmente toccò proprio a lui accompagnarsi al futuro Traditore, quando il Maestro inviò i suoi Apostoli per un primo viaggio missionario « a due a due ». Nell’ultima Cena di Leonardo da Vinci Simone siede all’estrema sinistra, e riportiamo l’impressione che sia stato necessario quasi uno sforzo per arrivare a trovargli un posto: nel Collegio apostolico egli è solamente tollerato. Della sua attività apostolica non sappiamo nulla, affatto nulla; tace il Vangelo, tacciono gli Atti degli Apostoli; suo fratello Giuda ha pure messo insieme alcuni pochi versi per una letterina, ma egli nemmeno questa; a lui non fu mai detta una parola né lui chiese mai una spiegazione, che agli occhi degli Evangelisti sembrasse degna d’essere resa in iscritto, mentre ci tramandarono pure, per esempio, le osservazioni incidentali, che Tommaso, Filippo e Giuda Taddeo fecero nel Cenacolo; nella cerchia degli Apostoli Simone è la comparsa autentica; sembra che non abbia nient’altro da fare che esser là. Quando gli Apostoli, dopo la loro prima missione ritornarono a Gesù e Gli riferirono tutto quello, che avevano fatto e insegnato, si conchiusero racconto e insegnamenti prima che venisse la volta di Simone. Non leggiamo che gli sia stata mai concessa una distinzione, mai affidato un incarico, mai una comparsa di lui in particolare; forse la domenica delle Palme poté sciogliere almeno l’asinello; se neppure questo, egli non ci si fa mai innanzi, non si distingue mai; è sempre nel gruppo, insieme con gli altri, quasi senza propria personalità, è solo Apostolo, solo uno dei Dodici. E questo essere ignorato persevera come suo particolare segno distintivo sino ad oggi: le sue reliquie riposano in Vaticano; ma chi mai, fra le centinaia di migliaia di persone, che a Roma visitano San Pietro, si ricorda ivi dello sconosciuto Simone? L’edificio è sacro al primo Simone, a Simone Pietro; la sua statua è baciata con riverenza e con gratitudine, tanto che il piede è consumato persino; invece Simone l’undecimo può rallegrarsi della sua quiete indisturbata. Simone, lo sconosciuto, è il patrono dei discepoli e delle discepole senza numero di Cristo, che, per così dire, passano la loro vita senza nome; è il patrono degli eserciti di operai dimenticati nella vigna del Signore, che per il regno di Cristo si affaticano nei terzi, quarti e ultimi posti; è il patrono degli ignorati soldati del Signore, che combattono su fronti ingrati e sconosciuti. Nessuno s’avvede, loda o premia questi apostoli nascosti, spesso male interpretati, nessuno, se non… il Padre, che vede nel segreto. Simone, l’ultimo, fu meno degno degli Apostoli primi, perché di lui non si fa mai parola? È uno dei Dodici anche lui, e lo è tanto quanto il potente Pietro e l’aquila dello spirito Giovanni; ebbero valore anche per lui le parole del Signore: « Non vi chiamo più servi, vi ho chiamati amici, perché vi ho comunicato tutto quello, che ho udito dal Padre ». Può darsi che il Signore abbia onorato appunto questo Apostolo sconosciuto e apparentemente poco interessante col dirgli non poche parole in particolare, ma dovette farlo tanto sommessamente, che nessuno degli altri ne percepì qualche cosa né ne scrisse alcunché. E così precisamente quest’Apostolo sconosciuto ebbe con Lui, ch’è il Dio sconosciuto, una somiglianza tutta sua. Ma quale l’atteggiamento di Simone stesso? sdegnato per essere stato cacciato all’ultimo posto, ha forse lavorato meno degli altri? Anche lui invece percorse generosamente le vie del Vangelo, « senza pane, senza bisaccia, senza denaro e predicò: “Il regno dei Cieli è vicino”. Guarì ammalati, risuscitò morti, mondò lebbrosi e cacciò gli spiriti cattivi ». Nella sua opera apostolica non si lasciò paralizzare né dai moti della suscettibilità né dal fatto della sua inferiorità; ora anzi nei cataloghi degli Apostoli precisamente questo sconosciuto Simone porta un titolo, che in lui ci sorprende più che in ogni altro: egli è detto « Simone… lo Zelante ».
SIMONE LO ZELANTE
Il titolo « Zelotes », lo Zelante, direttamente ha un senso politico, non senso ascetico. Gli « Zeloti » erano una fazione giudaica, che con tutti i mezzi, anche i più violenti, aveva di mira la libertà e l’indipendenza dei Giudei dalla dominazione dei Romani. Loro fondatore può ritenersi un certo Giuda della Galilea, il quale aizzò i Galilei a una accanita ribellione, quando, nell’anno 7 dopo Cristo, il governatore romano della Siria, Quirino, introdusse in Palestina il testatico. La ribellione da lui promossa e il suo esito infelice sono ricordati anche negli Atti degli Apostoli: Gamaliele dissuase i sinedristi da una repressione violenta del Cristianesimo da poco spuntato colla motivazione che i movimenti messianici, se non vengono da Dio, finiscono da sé; bastava pensare a « Giuda di Galilea, che nei giorni del censimento si sollevò e istigò molto popolo a defezionare; egli perì e tutti i suoi aderenti furono dispersi ». Gli Zeloti erano vinti, non però le idee, che essi propugnavano; il fuoco della libertà, coperto, continuava ad ardere nascostamente e veniva continuamente attizzato dagli Zeloti, che in gruppi sciolti, costituiti di volontari, conducevano una guerra sorda e continua. Si distinguevano però fra di loro due indirizzi: il gruppo religioso del partito sosteneva che la condizione indispensabile e previa del rinnovamento e della esaltazione nazionali era il fervente ed esatto adempimento della legge mosaica; prima che si fosse soddisfatto a questa condizione, non sarebbe apparso il liberatore promesso da Dio, il Messia. Secondo questo indirizzo, anche Paolo forse apparteneva al partito degli Zeloti, perché confessa di se stesso: « Nello zelo per il Giudaismo oltrepassai molti dei miei coetanei nel mio popolo; ebbi anzi zelo eccessivo per le tradizioni dei miei padri ». L’altro indirizzo invece, il politico, guardava sbrigliato solo all’aspetto politico della situazione e del problema; non intendeva affatto di attendere, in tranquilla rassegnazione, finché albeggiasse, secondo il disegno di Dio, il giorno della libertà e s’adempisse la speranza di Israele; fra loro e gli empi nemici doveva decidere la spada. Siffatte teste calde furono condannate all’impotenza per decenni; il pugno di Roma represse i corpi di volontari, e i partiti ufficiali del paese, i Sadducei cioè e i Farisei, si diedero premura di distanziarsi da loro; alla fine però riuscì agli elementi rivoluzionari di far divampare il fuoco devastatore della guerra giudaica; essi divennero quanto più a lungo tanto più audaci e violenti, e sotto l’etichetta dello zelo religioso perpetrarono crimini politici. I Sadducei, aristocratici, e i Farisei, avveduti, erano contrari a una guerra con i Romani, perché la ritenevano senza speranza; questo timore delle sfere dirigenti appare anche nel Vangelo, in rapporto a Gesù: «Se noi Gli (a Gesù) lasciamo così ampia libertà, tutti crederanno in Lui; vengono allora i Romani e ci prendono (anche gli ultimi resti di diritto sul) paese e popolo… È meglio (quindi) che un uomo muoia per il popolo, piuttosto che tutto il popolo vada in rovina ». Ma gli Zeloti volevano ad ogni costo l’insurrezione e la guerra contro i Romani; s’impossessarono della fortezza Masada e ottennero che a Gerusalemme non si offrissero più i sacrifici consueti per l’autorità romana; e con questo il segnale della guerra giudaica era già dato; ma gli Zeloti dovettero pagarne duramente il fio. Fin da quando Vespasiano, nell’anno 67, assoggettò la Galilea, i Romani li raggiunsero su zattere, mentre essi tentavano di fuggire sul lago di Genezareth; fu ingaggiata la battaglia navale ed essi furono trucidati; così quel lago azzurro e tranquillo, che il Signore aveva tante volte tragittato, fu disseminato di cadaveri. In quella battaglia perdettero la vita 6500 Zeloti; altri 1200 furono fatti sgozzare da Vespasiano nello stadio di Tiberiade, 6000 furono mandati nell’istmo di Corinto e 30.000 furono venduti; nelle città di Galilea caddero complessivamente 80.700 uomini, mentre 36.400 furono venduti. L’eccidio fu ancora più terrificante a Gerusalemme, dove, sotto Giovanni di Ghiscala, gli Zeloti esercitarono durante l’assedio un dominio crudele; con l’aiuto degli Idumei, che s’erano uniti, uccisero 12.000 individui; ma la vendetta di tutto questo fu raccapricciante: secondo la testimonianza, forse un po’ esagerata, dello storico Giuseppe Flavio, durante l’assedio e l’espugnazione di Gerusalemme perirono un milione e centomila giudei; 97.000 furono condotti prigionieri e poi o venduti o destinati a sgozzarsi vicendevolmente nei giochi dei gladiatori. Ora soltanto siamo in grado di valutare la chiamata nel Collegio apostolico di Simone «lo Zelote ». Tutti gli Apostoli certamente, e non solo Simone, erano interessati ai movimenti politici del loro tempo; anch’essi amavano la libertà, anch’essi erano galilei dal sangue caldo, tutti quindi desideravano ardentemente il giorno della liberazione. Per loro l’atteso Messia era il grande figlio di David, che doveva spezzare in aspra lotta il giogo straniero dei Romani e instaurare il grande regno giudaico; lo stesso sacerdote Zaccaria del resto, padre del Battista, persona pur tanto avanti nello spirito, attende il Messia quale « salvezza dai nostri nemici e dalle mani di tutti coloro, che ci odiano ». A una domanda male interpretata di Gesù, gli Apostoli Gli portarono dinanzi, con l’animo concitato per l’allegrezza e gli occhi raggianti, le armi accuratamente custodite: « Signore, ecco due spade! ». È vero che i più di loro avevano compiuto il tirocinio con Giovanni Battista, il quale aveva predicato abbastanza energicamente la necessità di volgere il pensiero dalla politica alla religione: « Cambiate il vostro modo di vedere! Mutate pensiero! », e grazie a quell’educazione e alla ferma istruzione poi del Signore avevano intravvisto che il regno messianico era essenzialmente religioso; frattanto alla nota politico-nazionale non potevano rinunziare; molestarono il Signore persino mentre andavano con Lui nel luogo scelto per l’Ascensione, chiedendoGli: « Signore, restauri nuovamente Israele in questo tempo? »; essi seguirono Gesù con entusiasmo e con generosità e per Lui anzi abbandonarono casa e cortile, la moglie e i figli, speravano però in compenso per sé e per i loro congiunti i primi posti nel regno messianico. Tre evidenti tentativi della gente della libertà per indurre Gesù a farsi condottiero della loro impresa sono indicati anche nel Vangelo, e gli Apostoli vi avrebbero collaborato tanto volentieri ogni volta. Dopo la prima moltiplicazione miracolosa dei pani, le folle cercarono « di farLo re con la forza; ma Egli si ritirò tutto solo sul monte e obbligò i suoi Discepoli ad ascendere nella barca e a precederLo all’altra riva ». Prima della festa dei Tabernacolo. Lo sollecitarono di andare a Gerusalemme in testa a loro e di ivi « mostrarsi pubblicamente al mondo »; ma Gesù differì il viaggio e giunse nella capitale, carica d’alta tensione politica, in ritardo, solo verso la metà della settimana festiva. La terza volta sembrò che gli Zeloti fossero riusciti a guadagnare il Signore per i loro piani: fu il solenne ingresso in Gerusalemme fra le palme e gli osanna; ma anche quella volta Egli seppe prevenire un’interpretazione politica del suo trionfale ingresso, creando una piccola e gaia, quasi, circostanza: non entrò nella capitale, cavalcando su di un alto e superbo destriero, ma… su di un puledrino d’asino; e chi medita rovine, non avanza su d’un asinello! E chissà quanto quell’asinello dispiacque appunto al nostro Simone Zelote! E quale ironia sapiente e amabile insieme avremmo avuto, se avesse dovuto menarlo a Gesù proprio lui, che era febbricitante per la conquista del potere politico più di tutti gli altri Apostoli! – Il Vangelo veramente non ci offre nessuna prova per ritenere che Simone apparteneva alla corrente politica del partito degli Zeloti; forse s’era meritato il suo titolo di « Zelote » con la sua amorosa fedeltà alla legge del Vecchio Testamento, a somiglianza di quei giudeocristiani, che negli Atti degli Apostoli vengono lodati come « ferventi seguaci della Legge »; lo zelotismo religioso nondimeno stava molto vicino al politico; e di fatto furono proprio « i fratelli di Gesù », che in precedenza alla festa dei Tabernacoli Lo volevano spingere a una dimostrazione pubblica di carattere politico. Il posto undecimo di questo Apostolo e l’assoluto silenzio nella Sacra Scrittura a suo riguardo si devono spiegare forse con il suo atteggiamento personale, spiccatamente politico; e il Signore, che si rifiutò costantemente e risolutamente di permettere che il suo regno scivolasse verso il campo puramente terreno e politico — « Il mio regno non è di questo mondo! Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei ministri avrebbero certamente combattuto » —, non poteva permettere che fossero messe a repentaglio la sua persona e la sua opera per uno zelote; Simone quindi dovette essere tenuto piccolo nel Collegio apostolico, affinché, seguendo l’esempio del suo patrono onomastico dell’Antico Testamento, Simeone, capostipite della tribù omonima, non avesse con zelo indiscreto e violento a danneggiare piuttosto che giovare; egli doveva purificare il suo zelo e conservare, anzi rafforzare quanto in esso v’era di buono attraverso un rigido periodo di prova, che, negandogli ogni incarico e attenzione speciale, lo tenne nel nascondimento. Ma qui rifulgono anche gli alti pregi personali del nostro Apostolo. Richiama già la nostra attenzione su di un uomo di intrinseco valore il fatto che il Signore l’abbia chiamato a far parte del Collegio dei Dodici, nonostante il suo fardello o inclinazione politica. Con lui, infatti, Egli corse un rischio simile a quello corso con Matteo, sebbene in senso opposto, indubbiamente: Matteo era pubblicano; Simone, zelote; con la chiamata del pubblicano Gesù si compromise presso le folle, che anelavano alla libertà e alla indipendenza; con la chiamata dello Zelote si rese sospetto agli ambienti dirigenti ufficiali. Come potevano mettersi d’accordo i due, Matteo pubblicano e Simone zelote, nello stesso ristretto Collegio? Provenivano da un mondo spirituale totalmente diverso: il pubblicano prestava servizio al dominio straniero, lo zelote vi si scagliava contro; il pubblicano era esattore delle tasse, lo zelote si rifiutava di pagarle. E Cristo ottenne di unire insieme nel medesimo gruppo, come discepoli, Matteo e Simone; la potenza del suo amore è tanto grande e tanto vasta è la visione della sua sapienza, ch’Egli prende a suo servizio il Pubblicano e lo Zelote, perché ha compiti per tutti e due. Ancor più che nella chiamata, la grandezza morale dell’apostolo Simone appare evidente nella costanza, con la quale seppe tener fede al Signore. A eccezione di Giuda, nessun Apostolo fu da Gesù così amaramente disingannato quanto Simone nelle sue aspettative; di fronte a quella delusione Giuda s’infranse, Simone invece crebbe. Questo Zelote ardeva più degli altri del desiderio veemente che Gesù erigesse un regno terreno; possiamo pensare che le bande della libertà facessero spesso visita a lui, perché traesse finalmente Gesù agli scopi del loro partito; Gesù non accedette mai a simili intimazioni, non mise mai in prospettiva ch’Egli avrebbe sodisfatto anche uno solo di quei desideri; a bella posta Simone fu tenuto undecimo, cui nient’altro restava da fare che tacere. Eppure, nonostante questo inflessibile rifiuto, Simone perseverò accanto al Signore; sacrificò parte a parte il cuore con tutti i suoi desideri piuttosto che… Gesù, al contrario di Giuda, che ricercando se stesso tradì scelleratamente il Maestro. Chi è « zelote » in modo che nel suo zelo si lascia guidare solamente da Gesù, questi e certamente solo questi è un vero e bravo apostolo di Lui; il suo zelo è una forza potente, non dispersa per fini secondi, ma convogliata all’attuazione dei sublimi disegni di Cristo.
LO ZELANTE SCONOSCIUTO
Le notizie della leggenda intorno al nostro Apostolo sono contraddittorie, quanto quelle intorno al fratello suo e coapostolo Giuda Taddeo. La più probabile dice che, dopo la morte nell’anno 62 di suo fratello più anziano Giacomo, gli succedette sulla cattedra come Vescovo di Gerusalemme; lo storico ecclesiastico Eusebio infatti ci ha conservato una nota di Egesippo, della metà del secondo secolo, secondo la quale un Simone, figlio di Clopas, sarebbe stato secondo Vescovo di Gerusalemme; sia Eusebio poi che Niceforo, nelle loro liste dei vescovi, ricordano questo Simone come secondo Vescovo di Gerusalemme, che avrebbe retto la sua chiesa secondo l’uno per 23 anni, secondo l’altro per 26. Questa notizia è confermata da un’antica tradizione abissina, secondo la quale l’apostolo Simone, lo Zelote, dopo avere svolto un’intensa attività in Samaria, sarebbe divenuto Vescovo di Gerusalemme, ove sarebbe pure morto in croce. Il Breviario romano veramente celebra due feste distinte per l’apostolo Simone e per Simeone, Vescovo di Gerusalemme, la prima il 28 ottobre, l’altra il 18 febbraio. – L’attività episcopale dell’Apostolo in Gerusalemme coincise con gli anni spaventosi dell’assedio, dell’espugnazione e della distruzione della Città Santa; spesso forse sorsero nel suo spirito sentimenti di invidia per il fratello e predecessore Giacomo, ch’era passato alla Patria, cui era stato risparmiato di vedere l’orrore della desolazione nel luogo santo. Memore dell’avvertimento del Signore: « Quando vedrete Gerusalemme circondata dagli eserciti, allora sapete che la sua distruzione è vicina! Allora la gente in Giudea fugga ai monti, quella in città ne esca fuori, quella in campagna non entri in essa », egli se ne fuggì a tempo col suo gregge di fedeli nella città pagana di Pella in Perea, che non era esposta ai pericoli della guerra: sfollamento ed emigrazione dei primi nostri fratelli nella fede, che ordinò il Signore stesso nella sua grande sollecitudine per i suoi fedeli! Quali pensieri avranno occupato l’animo di Simone, lo Zelote, durante quella fuga? Un tempo era stato implicato anche lui nel partito degli Zeloti, che ora aveva procurato alla propria terra e al proprio popolo spettacolo tanto orrendo e raccapricciante; allora sacrificare al Signore i desideri del suo cuore gli era tornato difficile; adesso, mentre Gerusalemme era divorata dagli incendi del divino giudizio, comprendeva quanto fosse buona cosa offrire in sacrificio al Signore anche il proprio cuore; e un’onda di calda riconoscenza gli saliva dal fondo dell’anima, perché il Signore l’aveva strappato allo zelotismo tanto pericoloso per farlo ardere d’un più nobile zelo, dello zelo per la casa del Signore e per il suo gregge. – L’attività episcopale in Gerusalemme non impedisce che egli, prima di essa e forse anche dopo, abbia portato il lieto messaggio anche ad altre terre; un’idea di quanto potesse essere ampio il raggio dell’attività apostolica ce la forniscono le lettere dell’apostolo Paolo; ora non solamente a lui, ma anche agli altri Apostoli premeva di adempiere la parola del Signore: « Andate e istruite tutti i popoli! Sarete miei testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e sino ai confini della terra ». Le terre assegnate dalle leggende al nostro silenzioso Simone sono varie e distanti, né è possibile estrarre dal materiale favoloso quello, che forma il nocciolo storico. Secondo gli « Atti di Andrea » apocrifi, egli si portò, come compagno di Andrea, nelle contrade sul Mar Nero, nella città di Bosporos, nel Chersoneso taurico e a Nikopsis, paese dei Zekchen o Zyger, popolazione caucasica. Anche le tradizioni armene e georgiche ci rinviano alle terre del Caucaso; dopo un’attività di Simone con Matteo e Andrea, quest’ultimo lo avrebbe lasciato a Sebastopoli. Non è escluso però che questa leggenda sia sotto l’influsso della omonimia con Simone Pietro, poiché, secondo informazioni molto antiche, in quelle regioni lavorarono insieme i due fratelli Simone Pietro e Andrea, che poi si separarono per andare Andrea verso l’Oriente e Simone Pietro verso l’Occidente; la leggenda forse ha accreditato a Simone lo Zelote quello, che invece in quelle contrade fu opera apostolica di Simone Pietro. Gli « Atti di Simone e Giuda » trasferiscono l’attività apostolica di Simone in Babilonia e in Persia, come hanno messo in evidenza le trattazioni su Giuda Taddeo; egli in Babilonia aveva una sede, donde, insieme con Giuda, percorse le dodici provincie dell’impero persiano. Ma forse in questa leggenda fa capolino di nuovo Simone il Maggiore, Simone Pietro; questi infatti scrisse la sua prima lettera da Babilonia, sotto il qual nome è da intendersi Roma, la città « babilonica » per i vizi e gli errori; può darsi che la leggenda abbia attribuito a Simone lo Zelote, quale campo della sua missione, la Babilonia geografica, perché l’Apostolo dello stesso nome, Simone Pietro, faticò nella Babilonia simbolica. Secondo questa leggenda, Simone muore martire nella «città Suanir»; ma una città persiana di questo nome non è conosciuta; è da pensare piuttosto alla regione dei « Suanen » nella Colchide settentrionale, che ci ricondurrebbe ai paesi sul Mar Nero. Una terza opinione, che ricorre specialmente presso gli autori greci posteriori, menziona quale campo dell’attività apostolica di Simone l’Egitto, la Libia, la Mauritania e persino la Britannia; anche il Breviario romano ricorda un’attività apostolica in Egitto e dice che Simone s’incontrò con Giuda Taddeo in Persia soltanto più tardi. – Secondo una notizia di Egesippo, egli soffrì il martirio sotto l’imperatore Traiano nell’anno 107, nell’avanzata età di 120 anni; se questa attestazione, che per quanto riguarda l’età ci sembra un po’ improbabile, risponde a verità, il nostro Apostolo sarebbe vissuto tre anni anche dopo Giovanni, che dalla tradizione è ritenuto come l’ultimo degli Apostoli. La maggior parte delle relazioni dicono ch’egli morì crocifisso; una piccola ma impressionante immagine dei Monologhi dell’imperatore Basilio II lo rappresenta sulla croce in abiti pontificali, con le spalle verso la città di Gerusalemme e il viso rivolto al vasto mondo. Simone in croce! Simone lo Zelote un giorno non aveva elevate le sue proteste contro la croce, almeno in cuor suo, con minore veemenza dell’altro Simone: «Questo non sia mai! »; le sue propensioni non correvano certo alla croce, ma alla corona; anche lui però si lasciò educare dal Signore, docile e contento, finché Gli divenne conforme… sulla croce. Ma è così: non si possono prevedere i tratti di strada, che un uomo percorre, quando si sia affidato senza riserve a Cristo! Altre tradizioni direbbero che Simone fu segato; l’immagine di Luca Cranak, nella serie dei martiri degli Apostoli, illustra questo orrendo martirio con un realismo non sospetto; la sega fu quindi assegnata allo Zelote come simbolo e, quanto al culto del popolo, gli ha fruttato il patrocinio dei legnaiuoli, che è un po’ meno di quello degli architetti, conciliato all’apostolo Tommaso dalla sua squadra; il buon Simone è e rimane in ogni campo… l’undecimo! Tutte queste informazioni della tradizione sono poco sicure e appena conciliabili; una cosa però è insinuata da tutte, che cioè Simone fu uno zelante e un appassionato anche nella sua attività apostolica. Che abbia lavorato nella terra dei Suanen o in Babilonia, che sia stato crocefisso o segato, lo zelo, col quale questo Apostolo sconosciuto attese agli interessi del Signore e del suo gregge, fu ardente. Sconosciuto e zelante: un connubio strano e meraviglioso! Perché di solito lo zelante cessa di essere sconosciuto, mentre molti, che dovettero lavorare nell’oscurità, perdettero per questo il loro fervore; l’insegnamento quindi di questo semplicissimo fra tutti gli Apostoli è tanto profondo: conserviamo il fervore, anche se sconosciuti e dimenticati, e se ferventi, non lavoriamo per essere visti dagli uomini; « altrimenti non avete nessuna mercede presso il Padre vostro in Cielo »; « la vostra vita sia nascosta con Cristo in Dio ».
S. GIUDA TADDEO
L’Apostolo Giuda Taddeo porta un nome, che in passato fu tanto onorato quanto è ora esecrando. Si chiamarono Giuda molti e celebri uomini del Vecchio Testamento; i due più eminenti sono Giuda, il padre della tribù di Giuda, uno dei dodici figli di Giacobbe, e Giuda il Maccabeo. Parecchi tratti di questi due grandi del popolo eletto si riflettono anche nell’apostolo Giuda; perché v’è qualche cosa di misterioso nei nomi, si potrebbe quasi pensare ch’essi in qualche modo imprimano negli uomini un’idea preconcepita. Quando nacque Giuda, il figlio di Giacobbe, sua madre Lia esclamò pia e festante insieme: «”Jehfdah”, che vuol dire “loderò il Signore ”, per questo lo chiamò ” Juda ” »; sebbene egli non fosse il più anziano dei figli di Giacobbe, ebbe però un posto di direzione fra i suoi fratelli, grazie al suo carattere deciso e fermo. Nella vicenda di suo fratello, l’egiziano Giuseppe, egli appare una lodevole eccezione: si oppose alle brame degli altri e propose il male minore: invece del fratricidio, la vendita del fratello ai mercanti madianiti per venti denari. Combinazione curiosa! Un altro Giuda, con peggiori intenzioni, richiese trenta denari in una vendita più detestabile. Il patriarca Giacobbe, morendo, designò il suo figlio Giuda quale antenato del Messia con la seguente lode e benedizione: « A te, Giuda, dicono lode i tuoi fratelli. La tua mano pesa sulla cervice dei tuoi nemici. Innanzi a te si piegano i figli di tuo padre. Un leoncello è Giuda. Chi osa stuzzicarlo? Non recederà da Giuda lo scettro, dai suoi piedi il bastone del dominatore finché venga colui, cui esso appartiene e cui i popoli obbediscono ». L’accenno alla potenza e al valore sembra una profezia anche per l’apostolo Giuda Taddeo, perché colgono nel centro del suo essere. – Vigoroso, figura di primo piano è anche l’altro grande Giuda del Vecchio Testamento, il terzo figlio di Matatia; egli fu chiamato il « martellatore », da maqab, perché si distinse con le sue gesta eroiche, compiute nella guerra giudaica per la libertà nel secolo secondo prima di Cristo; di molto inferiore per truppe e armamento, egli riuscì a trionfare, con gloriose battaglie, sui grandi eserciti dell’empio re Antioco IV, ch’erano guidati dai generali Nicanore, Gorgia, Timoteo, Bacchide e Lisania; gli riuscì di espugnare la città santa di Gerusalemme, superando le forze d’occupazione nemiche e pagane, e nel Tempio purificato e riconsacrato furono offerti nuovamente al Dio di Israele i sacrifici prescritti dalla Legge. Gli eroismi di questo Giuda sopravvivevano nel ricordo di tutti; Giuda Taddeo ascoltava con occhi scintillanti il racconto, che gliene facevano in casa il padre e il nonno; molti sabbati si parlava con entusiasmo di quell’eroe della religione e della patria, che in una epoca dura aveva indicata la via col suo fulgido esempio. Il nostro Giuda, quindi, andava orgoglioso del suo nome, che uomini tanto valorosi avevano portato; egli li imiterà; anch’egli vuol divenire nel proprio tempo « leoncello » e « martellatore ». – Purtroppo questo nome ardito e nobile fu così infelicemente macchiato da un altro Giuda, dal Traditore, che non si riuscirà a purificarlo mai più; l’ignominioso gesto di costui è penetrato corrosivo in questo nome, è divenuto anzi con esso una unica cosa; per noi di fatto « Giuda » equivale a « traditore » e non più a « loderò il Signore », come aveva esclamato Lia, la mamma buona e cisposa. Non vi sarà individuo cristiano che porti il nome « Giuda », non si vuole anzi nemmeno ripeterlo; perché si danno nomi, che sono — anche oggi! — così esecrati, che non si possono affatto ripetere. Tutti e due i Giuda, il Taddeo e il Traditore, sedettero in qualità di Apostoli intorno al Signore, anzi nel catalogo degli Apostoli di Luca essi sono l’uno accanto all’altro. Quando il Signore chiamava « Giuda », tutti e due tendevano l’orecchio; forse era solo un leggero tono della voce che li distingueva; il Venerdì Santo, quando come un baleno s’era diffusa la notizia inaudita che Giuda aveva tradito il Maestro e poi s’era impiccato, parecchi pensarono che quel delinquente fosse Giuda Taddeo; il Traditore aveva gettato il disonore anche sul nome del buon Giuda. Quasi in riparazione di questo oltraggio, il popolo cattolico onora d’una singolare fiducia il Santo omonimo dell’infelice Traditore sin dal secolo decimottavo e con un tale sentimento umano e credente insieme, che commuove: Giuda Taddeo è divenuto per esso il protettore nelle « richieste gravi e disperate ».
GIUDA, IL FRATELLO.
L’imbarazzo di fronte al nome « Giuda », carico di colpa e di dolore, appare evidente anche nei Vangeli. Giovanni scrive in un unico testo di Giuda Taddeo, ma s’affretta ad aggiungere subito: « Giuda, non Iscariote! »; ci colpisce ancor di più che Matteo e Marco non designano mai il nostro Apostolo col nome « Giuda », ma solamente col soprannome « Taddeo »; possiamo a buon diritto ritenere che essi sostituirono il nome proprio con questo soprannome per allontanare dal loro buon compagno nel Collegio apostolico l’ombra, che vi proiettava il nome « Giuda ». Soltanto Luca osò chiamare quest’Apostolo col suo proprio nome, ma non senza elevare una luce sull’oscurità di esso; egli lo chiama « Judas Jacobi », Giuda, quello di Giacomo; l’espressione sulle prime fa pensare che Giuda fosse il figlio d’un Giacomo, e non mancano traduzioni cattoliche della Bibbia, che rendono il passo con questo senso; essa però può anche significare « Giuda, il fratello di Giacomo »; la Sacra Scrittura stessa accenna questo secondo senso di « fratello ». Nel Vangelo, infatti, un Giacomo è chiamato esplicitamente fratello d’un Giuda e un Giuda, nella sua lettera, si dice fratello di Giacomo. Questo Giacomo, che Luca nei suoi cataloghi degli Apostoli fa che risplenda su Giuda, doveva essere una personalità conosciuta e tenuta in alta stima dai Cristiani; ma non si può pensare che fosse Giacomo Maggiore, ch’era morto già da vent’anni ed è sempre ricordato come fratello di Giovanni solo e mai come fratello d’un Giuda; Giuda quindi è fratello di Giacomo Minore, del Vescovo di Gerusalemme; si comprende che gli Evangelisti Matteo e Marco, nei loro cataloghi degli Apostoli, collochino i due l’uno accanto all’altro immediatamente. Invece, nei riguardi di questa parentela, non è ancora risolta la questione se Giacomo fosse un fratello in senso stretto di Giuda o soltanto un fratello in senso di cugino. Ma comunque questo celebre Giacomo illumina il fosco nome di Giuda. – Sul nostro buon Giuda però, ch’ebbe l’infausta sorte di dover condividere il nome col Traditore, piove una luce ancor più abbondante: egli non è solo « fratello » dello stimatissimo Giacomo, ma è anche « fratello » del Signore. I Nazzareni domandano di Gesù: « Non è costui il falegname… il fratello di Giacomo… e di Giuda? ». Ci colpisce e ci piace ripensare che quest’Apostolo, nei giorni allegri della sua giovinezza, abbia giocato e pregato insieme col giovane Gesù, che con Lui abbia corso e girato sin lassù a Gerusalemme, in occasione delle grandi feste; è anche possibile che Maria, angosciata nella ricerca del suo Dodicenne, si sia rivolta anzitutto ai giovani cugini di Lui, Giuda e Giacomo, e abbia loro chiesto quando e dove essi erano stati insieme col suo amato Gesù per l’ultima volta. Come Giacomo, anche quest’Apostolo ebbe con Gesù rapporti umanamente molto intimi ed egli pure raggiunse un po’ alla volta la debita distanza; nella sua lettera di fatto egli si chiama « fratello di Giacomo », ma con religiosa riverenza non « fratello », bensì « servo di Gesù Cristo ».
GIUDA, IL CONTADINO
Giuda Taddeo, prima della sua vocazione, era sposato; anzi, secondo una notizia, che leggiamo in Niceforo Callisto e che Eusebio cita nella sua « Storia Ecclesiastica », sarebbe stato lo sposo delle nozze di Cana. Questa deposizione è certo discutibile; essa però spiegherebbe molto bene la presenza di Gesù e di sua Madre a quelle nozze; essi vollero rendere a un cugino l’alto onore della loro partecipazione. Dei due nipoti di Giuda, di nome Zoker e Giacomo, che l’imperatore Domiziano citò a Roma per sottoporli a interrogatorio, abbiamo scritto trattando di Giacomo; essi vivevano nella Palestina quali semplici coloni e quale reddito del loro esiguo podere denunciarono all’imperatore mille denari. Forse anche il loro nonno Giuda s’era affaticato sulle medesime zolle, che lavoravano essi; la sua lettera, come quella di suo fratello Giacomo, è lettera d’un contadino, forte, quasi rude, non delicata e profumata, con similitudini tolte dalla vita dei campi. Egli paragona i maestri di errore ai pastori, « che pascono se stessi », con « le nubi senz’acqua, che son trasportate qua e là dal vento », con « gli alberi nel tardo autunno, senza frutti, morti due volte, divelti ». Giuda contadino! Prima di spargere la semente della parola di Dio nel vasto mondo come apostolo, seminò come contadino orzo e grano nel fondo della sua terra, inciso dall’aratro. Come dovette quindi comprendere bene le parabole del Signore! Quella, per esempio, del seminatore, cui nel seminare il grano cadde parte sulla via, parte su fondo sassoso e parte fra le spine; quella della semente, che di giorno e di notte cresce da sé e l’agricoltore non sa come; e quella della zizzania, che germoglia col grano e al tempo della raccolta viene legata in fastelli per essere bruciata. Tutto questo il Signore l’aveva potuto osservare nei campi dei suoi cugini. In novembre, caduti i primi acquazzoni della pioggia temporanea, Giuda attaccava bue e asino per rivoltare il terreno, nel quale poi seminava orzo e grano; in febbraio badava alle viti, recideva i germogli selvatici e mondava i tralci buoni perché portassero frutto ancor più abbondante; alla fine di marzo sospirava ardentemente la pioggia serotina, che consentiva al grano di spigare; nella primavera, bella come un paradiso ma breve, coltivava l’orto a cocomeri, cetrioli, fagioli, lenticchie, cipolle e aglio, anice, menta e comino; sin dalla fine di maggio cominciava a trebbiare il grano e lo ventilava con grandi pale al vento della sera; terminata la messe dei cereali, seguiva la tosatura delle pecore; sul finire d’agosto si portava nel vigneto a vendemmiare; in settembre maturavano i fichi e infine le olive, l’ultimo frutto, che venivano pigiate nei torchi come i grappoli d’uva. Così ogni giorno aveva la sua fatica e la sua pena. Giuda non se ne arricchì. I suoi nipoti Zoker e Giacomo, nell’interrogatorio subìto dinanzi a Domiziano, confessarono candidamente che i mille denari, che la loro domestica sostanza fruttava, erano esauriti per sostentare la vita e pagare le tasse. Le tasse infatti erano gravose; vi furono periodi, nei quali il contadino doveva consegnare un terzo della sua raccolta di cereali e persino metà dell’olio e del vino; Erode Antipa, al cui servizio era stato Matteo, il compagno d’apostolato di Giuda, dalla sua tetrarchia, che non era poi grande, ricavava ogni anno, come gettito delle tasse, due milioni di franchi, e cioè cinque volte tanto secondo il valore del denaro oggi. Ai Romani dovevano essere pagati la tassa fondiaria e il testatico; dieci anni prima che Gesù desse inizio alla sua vita pubblica, una legazione dei Giudei si portò a Roma per sollecitare un alleggerimento delle imposte, ché il buon popolo era oppresso ab immemorabili e solo perché alcuni pochi grandi potessero crapulare e millantarsi; le sontuose costruzioni dell’ambiziosa famiglia degli Erodi ingoiavano somme, che furono pagate col sangue dei poveri. Quando il Signore scagliò contro i ricchi i suoi « Guai a voi! », il semplice Giuda dovette farGli intendere, con un significativo cenno del capo, tutto il suo consenso. Nonostante però il lavoro e la povertà, Giuda visse contento e beato, chino sulle zolle della sua patria; pellegrinava, come d’obbligo, a Gerusalemme per le tre feste di Pasqua, di Pentecoste e dei Tabernacoli, ma poi se ne tornava di nuovo contento al suo villaggio in Galilea; forse era Cana, se non era la stessa Nazareth; lassù, nella Città Santa, si faceva così strepito e poi quel mercato profano… e il mondo si dilettava di teatri, di progetti per le corse, di piazze per lo sport e per tutta la sua concupiscenza degli occhi, per la concupiscenza della carne e la superbia della vita. Che Iddio non permetta mai ch’egli debba portarsi in mezzo a quel cattivo mondo! Egli vuol vivere e morire laggiù, nella sua terra e in seno alla sua famiglia; quivi fioriscono i suoi campi e la sua donna e giocano i suoi figli. E invece era ormai vicino il giorno, in cui avrebbe preso congedo dalla sua famiglia, avrebbe abbandonata la patria e avrebbe scelto in compenso l’essere senza patria, come chi vaga per le strade, e se ne sarebbe andato in tutto il mondo. Un sacrificio eroico per un contadino! E Giuda fu tanto generoso per sostenerlo; egli rispose il suo « Adsum! », quando il Signore, volendone fare un messaggero del suo regno, lo chiamò via dalla sposa e dai figli e dai campi.
GIUDA, IL CORAGGIOSO
Sulle prime si direbbe che la Sacra Scrittura non ci fornisca intorno al nostro Apostolo nessuna notizia; e infatti, se si eccettui una breve espressione nel Vangelo di Giovanni, né gli altri Evangelisti né gli Atti degli Apostoli ci ricordano di lui più del suo nome. Ma precisamente questo nome è significativo e ricco di luce; perché Matteo e Marco aggiungono a Giuda un soprannome, ch’egli non dovette ricevere, come ad esempio Pietro e i Boanerges, solo al momento della chiamata del Signore; l’opinione pubblica, è evidente, glielo aveva accordato in precedenza. Giuda è chiamato « Taddeo » o, secondo parecchi manoscritti antichi, « Lebbeo »; ma Taddeo e Lebbeo significano in realtà la stessa cosa; Taddeo, dall’aramaico «thad » = petto, e Lebbeo da «leb » = cuore, significano l’intrepido, l’impavido, l’ardito; in certi testi del Vangelo si leggono tutti e tre i nomi: Giuda Taddeo Lebbeo, tanto che già Girolamo chiamava quest’Apostolo « trinomico », quello dai tre nomi”. – Questo soprannome doveva distinguere anzitutto il buon Giuda dal Giuda traditore; esso però voleva pure esprimere la natura propria di questo Apostolo, perché non senza un motivo doveva toccargli d’essere designato col nome onorifico di « Taddeo », l’audace. L’audacia, che confina con la temerarietà, era certamente una caratteristica comune ai Galilei; un filosofo romano era ammirato del loro coraggio; per difendere la loro fede sfidavano persino i tiranni; un vecchio proverbio diceva che per i Giudei il denaro la vinceva sull’onore, ma per i Galilei l’onore andava sopra il denaro. E questo proverbio getta luce sui due Giuda del Collegio apostolico, sì che ne possiamo scorgere più chiaramente la profonda differenza: Giuda il traditore, che proveniva dalla Giudea, riservato e calcolatore già per la sua origine, metteva il denaro al di sopra degli ideali; Giuda invece l’audace stimava la fedeltà e l’onore più dei denari. Tutto questo è vero; nondimeno Taddeo dovette essere d’un’arditezza, che faceva stupire gli stessi Galilei, se lo chiamarono semplicemente « l’ardito »; e come tale egli è entrato anche nei cataloghi degli Apostoli. E ch’egli fosse quale il nome io diceva, un tipo cioè energico, coraggioso, robusto da fare onore ai suoi patroni, Giuda capostipite della tribù e Giuda Maccabeo, lo dimostra in tutti i secoli la sua lettera. Nel battistero di Ravenna si conserva un’immagine in mosaico del quinto secolo, che traduce felicemente quello, che la prima età cristiana pensava di quest’Apostolo: egli ha un volto allungato, teso, tendineo, che rivela energia e decisione. Chissà come avranno lampeggiato gli occhi di Taddeo, quando il Signore parlava a lui e ai compagni di coraggio e di forza! « Non abbiate paura di loro. Quello che Io dico nelle tenebre, voi annunziatelo nella luce! Quello ch’Io vi ho sussurrato nell’orecchio, predicatelo sui tetti! Non temete coloro, che possono ben uccidere il corpo, non però l’anima! Neppure crediate ch’Io sia venuto a portare pace sulla terra! Non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Chi cerca di guadagnare la sua vita, la perderà; chi invece perde la sua vita per amor mio, la guadagnerà ». – Basta quest’unico Apostolo, Giuda Taddeo, per rovesciare dalla base tutte le denigrazioni contro il Cristianesimo, quasi sia un affare per indoli frolle e leziose o per individui inabili alla vita e indegni di essa. Cristo chiamò a far parte della sua ridottissima compagnia un uomo, ch’era senz’altro proverbiale per il suo ardire. E Taddeo non era l’unico di questa tempra; Gesù stesso designò Giacomo e Giovanni col titolo « Boanerges », figli del tuono, e d’un Simone fece la roccia; l’altro Simone era uno Zelote; tutti poi erano uomini completi e sicuri, che offrirono e compirono cose sovrumane. Cristo esige nature forti; si noti però quello ch’è ancor di più: Egli può educare alla fortezza anche le nature deboli; il forte è richiesto da Cristo, il debole ne è attratto; poiché la virtù di Cristo è tanto esimia, che in essa si perfeziona il forte e il debole. I Libri Sacri non ci forniscono nessuna spiegazione in ordine al come Taddeo abbia meritato il suo nome glorioso, quali fossero le gesta eroiche compiute, quali difficoltà sfidasse con cuore ardito, a quali tempeste e pericoli esponesse il petto e la fronte; si inclina a ritenere ch’egli si sia procurato il titolo « l’audace » nel « movimento di resistenza » della sua terra. Al tempo infatti di Gesù la Galilea era febbricitante per le agitazioni politiche; sopportava il giogo della brutale forza d’occupazione romana digrignando i denti; dei fanatici giudei, gli « Zeloti », i « Maquis » = partigiani di quel tempo, accaniti e santamente sdegnati, cercavano di aiutarsi nell’impresa con la violenza; molestavano i Romani dove potevano e facevano le loro vendette sui rinnegati e traditori in seno al popolo proprio; valendosi di corpi volontari, conducevano una guerriglia continuata; erano in ogni luogo e in nessun luogo, e quindi difficilmente potevano venire assaliti. Simone, ch’era probabilmente un fratello di Giuda Taddeo, uno dei dodici Apostoli, porta espressamente il soprannome «lo Zelote ». È permesso pensare che anche Giuda prendesse parte a quel movimento patriottico e si sia guadagnato l’appellativo « Taddeo », l’ardito, con non pochi colpi di mano audaci, che gli sarebbero costati la vita, qualora fosse stato acciuffato; anch’egli del resto porta spesso, specialmente negli autori latini, la designazione propria del partito: « lo Zelote »; è vero che può trattarsi d’uno scambio con Simone, sarebbe però uno scambio, che non manca di qualche motivo intrinseco. Non ci sfugge certo il grande rischio corso da Gesù, chiamando nella cerchia dei suoi Dodici simili individui, che, come un Giuda Taddeo e un Simone Zelote, erano carichi di dinamite; ma Egli per l’erezione del suo regno sulla terra abbisogna anche di caratteri tali, si direbbe anzi proprio di questi, eroi arditi, santi avventurieri, che sappiano maneggiare la spada per Iddio. Taddeo e Simone avevano certamente, riguardo al futuro regno messianico, delle concezioni false, come tutti gli Apostoli e anche più degli altri loro due; per loro il Messia era l’attesissimo liberatore del popolo oppresso, il glorioso trionfatore del dominio straniero dei Romani; ma il Signore non respinse i suoi discepoli perché avevano la testa piena di queste fantasie e speranze inesatte e contaminate, procurò invece di nobilitarli; e questa tattica del Signore ci è indicata chiaramente dall’unico passo, in cui nel Vangelo si fa parola di Giuda e a Giuda. Il testo ricorre nel discorso di congedo, tenuto da Gesù nel Cenacolo la sera del Giovedì Santo; nello strazio della separazione. Egli fece dono ai suoi Discepoli anche della consolazione d’una misteriosa e permanente unità con Lui: « Non vi lascio orfani; Io vengo a voi. Ancor poco tempo e il mondo non Mi vede più; voi però Mi vedete, perch’Io vivo e anche voi vivrete… ». Il mondo… voi! L’onda del dire del Signore mormorava ormai più avanti, ma Giuda Taddeo restò a pensare a quelle parole e dopo alcuni versetti troncò in bocca al Maestro le preziose sentenze, proponendogli la questione che non sapeva sciogliere: « Signore, che è avvenuto che Ti manifesterai a noi e non al mondo? ». È l’unica parola che ascoltiamo da Giuda Taddeo, il Vangelo non ce ne ha conservate altre; ma essa guizza dall’intimo del suo essere e illumina per un istante quest’Apostolo, quasi sconosciuto. Giuda è entusiasta di Cristo; egli desidera e vuole con passione le sue « manifestazioni »; per lui quindi è un enigma tormentoso, anzi un’amara delusione che il Signore voglia manifestarsi soltanto al ristretto gruppo dei Dodici — « solo a noi! » —, e non anche alle moltitudini — « al mondo » —. Così cinque giorni prima, la domenica delle Palme, egli aveva trovato incomprensibile e inaudito che Gesù avesse fatto sì il solenne ingresso, ma non avesse poi preso possesso della Città; precisamente lui, Giuda del Nuovo Testamento, si struggeva dal desiderio che « la sua mano pesasse sulla cervice dei nemici », come il patriarca Giacobbe aveva profetizzato di Giuda, padre della tribù, e potesse ripulire la Città Santa dal nemico pagano, come un tempo Giuda Maccabeo, per restituirla al Dio di Israele e al suo inviato. « Perché non Ti manifesti anche al mondo? ». Questa domanda, dettata dall’ardore impaziente, si connetteva, e sino a fondersi in una sola, con quella richiesta che i fratelli di Gesù, scontenti, Gli avevano presentata già prima della festa dei Tabernacoli; e il nostro Giuda Taddeo era appunto uno di quelli. « Va via di qui (da quest’angolo sperduto della Galilea) e portati in Giudea, affinché anche i tuoi discepoli veggano le opere, che Tu compi. Nessuno. infatti, che voglia essere riconosciuto pubblicamente, opera di nascosto. Se Tu puoi fare tali cose, mostraTi apertamente al mondo! ». Che quindi Gesù non voglia manifestare la sua dignità, annientare i suoi nemici ed erigere il suo regno con potenza e splendore cozza contro tutte le idee dell’audace Giuda. « Perché solo a noi? Perché non al mondo? ». Ecco la domanda, l’unica di Giuda Taddeo. Il seguito del discorso di Gesù non sembra riferirsi affatto alla sua meschina obiezione, perché « Gesù gli replicò: “Se uno Mi ama, osserva la mia parola, e mio Padre lo amerà, e verremo a lui e metteremo dimora presso di lui. Chi non Mi ama, non osserva neppure le mie parole ». E nondimeno nelle profondità di questa risposta c’era la soluzione del problema, che tormentava Taddeo: Giuda, l’intrepido, chiedeva le manifestazioni della potenza e della gloria di Gesù; Gesù promette le manifestazioni del Padre e del Figlio nelle profondità delle anime; ma l’intima esperienza di Dio e l’unità con Lui è riservata esclusivamente agli amanti; il mondo quindi, che non ama, non può neppure godere di queste manifestazioni. « V’è dunque una certa rivelazione interiore di Dio, che gli empi non conoscono affatto, perché non hanno parte alla rivelazione del Padre e dello Spirito Santo. Fu loro possibile avere la rivelazione del Figlio, ma solo quella nella carne, la quale né è della natura di quella, né può rimanere sempre con loro, qualunque sia in realtà, ma solo per breve tempo e a dir vero per il giudizio e non per la gioia, per il castigo e non per il premio ». Queste sublimi parole segnano la strada che lo stesso Taddeo dovrà seguire in avvenire, Egli è un apostolo intrepido; e il Signore non scorcia l’eroe, nessuno anzi meno del Signore lo mutila, invece lo eleva e nobilita; Taddeo deve restare audace e operare cose audaci; non però con colpi arditi per un regno del mondo, bensì impegnando il suo ardimento per il regno di Dio nel mondo; compito degno del suo cuore generoso non è la politica, ma l’avvento del Padre e del Figlio e della carità dello Spirito nelle anime degli uomini.
LA LETTERA DI GIUDA
Fra i Libri Sacri del Nuovo Testamento troviamo una lettera, che ha per autore un Giuda e che fin dai primi tempi fu attribuita all’apostolo Giuda. E per buone ragioni. La lettera infatti è audace e forte, come solo un « Taddeo », un ardito, poteva scrivere. È un breve brano di appena 25 versetti; già Origene, lodandola, scriveva: « Giuda scrisse una lettera breve, ma ricca di parole di celeste sapienza »; è indirizzata « ai chiamati, che sono diletti in Dio Padre e per Gesù Cristo conservati ». Da essa veniamo a conoscere anche i suoi destinatari, ch’erano i giudeocristiani della Palestina e della Siria, poiché le poche righe rigurgitano di prove e di allusioni dal Vecchio Testamento e adducono anche dei libri extrabiblici, scritti per edificazione dei lettori, che erano noti ai Giudei, quali « il libro di Henok » e « L’Assunzione di Mosè ». Nella lettera leggiamo pure il motivo, che indusse Giuda a scriverla: « Si sono intrusi degli individui, che da lungo tempo sono segnati per la condanna, empi, che cambiano la grazia del nostro Dio in lussuria e negano l’unico nostro dominatore e Signore Gesù Cristo ». Questi maestri d’errore, che erano certamente i così detti « Nicolaiti », travisando la cristiana libertà, che affrancava dalla legge dell’Antico ‘Testamento, richiesta da Paolo e da tutti gli Apostoli decisa, respingevano totalmente ogni legame di coscienza e predicavano che il nuovo e vero « vangelo » era il vivere sbrigliato degli istinti. Già Paolo s’era acremente avventato contro quella genia, « il dio della quale è il ventre e la gloria è l’obbrobrio »; anche Pietro, nella sua seconda lettera, scagliò il suo supremo anatema contro quella sfrenatezza morale, che voleva camuffare impudentemente i suoi vizi, valendosi ipocritamente del motto tanto efficace, proprio della « cristiana libertà »: « Per i puri tutto è puro! ». Nella sua lettera Pietro si servì molto dello scritto di Giuda; confrontando anche solo il secondo capitolo, ad esempio, con la lettera di quest’ultimo, si ha l’impressione quasi di una rielaborazione della lettera allo scopo di migliorarla e anche di mitigarla un po’. Il fatto che Pietro abbia quasi inserito semplicemente, così com’era, la lettera del collega nel proprio scritto attesta la stima che aveva di lui. Essa dovette essere scritta fra l’anno 62, primo anno dalla morte di Giacomo Minore, e l’anno 67, epoca di composizione della seconda lettera di Pietro. Possiamo di qui dedurre che per tutto il tempo, in cui Giacomo resse la Chiesa di Palestina, questa non fu tocca da false dottrine, come del resto sappiamo da una testimonianza di Egesippo. L’inizio della lettera di Giuda si può dire un nutrito squillo di tromba, che annuncia il tema: « Lottate per la fede, che una volta per tutte fu trasmessa ai Santi! ». L’intera lettera poi è un severissimo monito contro i maestri dell’eresia, cui vengono comminati i giudizi di Dio con riferimento a esempi dell’Antico Testamento. Impressiona la lingua usata; è realmente ardita, energica, cruda quasi, richiama il grido infuocato e irato dei Profeti dell’Antico Patto: « Questi sognatori (gli eretici) contaminano la carne, disprezzano l’autorità e bestemmiano gli insigniti della maestà… Bestemmiano tutto quello che non comprendono; ma trovano la loro rovina in tutto quello, che, come animali irragionevoli — Giuda, il contadino! —, intendono per naturale istinto. Guai a loro! Son macchie d’ignominia, che nelle vostre agapi gozzovigliano impudici e ingrassano se stessi; furiosi flutti marini, che spumano la loro turpitudine; stelle erranti, cui è riservata in eterno l’oscurità delle tenebre; mormoratori che lamentano la loro sorte e in aggiunta però soddisfano le loro passioni ». Questa lingua ci rivela il nostro « Taddeo », l’audace; non è un uomo servile, un tipo avveduto sette volte, un cappellano di corte; pesta anche sul gregge del Signore col suo pesante passo di contadino e mette le cose a posto. Non gli interessa di essere amato od onorato, ma « mi sta molto a cuore di scrivere a voi intorno alla comune nostra salvezza »; dove questa salvezza è in pericolo, egli mette la sua mano energica, taglia sul vivo imperterrito, predica senza paura e senza timidi riguardi quello che lo Spirito di Dio gli comanda, riesca opportuno o importuno. Ma appunto in questo procedere appare pure che l’arditezza dell’apostolo Giuda è un’altra, è spiritualizzata: l’insegnamento del Signore nel Cenacolo aveva fruttato. Egli non si accinse a scrivere la sua lettera, stimolato da un bisogno naturale di lottare e di; essa non è un’esplosione di temperamento violento; nell’introduzione vi leggiamo persino una scusa: « Mi vedo necessitato ad ammonirvi con uno scritto »; non gli sta a cuore la lotta, ma « la comune salvezza », per assicurare la quale non paventa certo neppure la lotta. Dopo aver respinto i maestri della falsità con espressioni pungenti e decisive, aggiunge i suoi mirabili avvisi sul modo di condursi praticamente con loro, perché anche la loro salvezza sta a cuore al nostro ardito. « Mettete sulla buona via quelli, che ancora vacillano! Altri salvate, strappandoli dal fuoco; dei terzi abbiate compassione con… timore! Guardatevi però persino dalla veste, che sia macchiata di carne! ». La lettera di Giuda, tanto vecchia per il nostro tempo, ha nondimeno una particolare importanza, perché il culto della carne è stato nuovamente eretto a sistema di falsa dottrina; essa potrebbe servire di spunto scritturistico per molte prediche contro gli abusi morali dell’epoca nostra. – La finale della lettera sembra volerci trasportare d’improvviso dalla severa predica, potremmo dire, « da spiaggia balneare » in un coro di monaci benedettini, ove si eleva solenne il canto del « Gloria Patri ». La meravigliosa dossologia finale è l’eco riconoscente delle parole, che il Signore un giorno aveva detto nel Cenacolo al suo audace apostolo Giuda circa la venuta del Padre e del Figlio nell’anima di chi è in grazia: «A Lui, che può preservarvi dalla caduta e presentarvi senza macchia e ripieni d’esultanza dinanzi alla sua gloria, a Lui, all’unico Iddio, nostro Salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, sia onore e gloria, dominio e potenza innanzi a tutti i tempi e adesso e per tutta l’eternità! Amen ».
GIUDA, L’APOSTOLO
L’attività apostolica di Giuda Taddeo è velata dall’oscurità, come quella della maggior parte degli Apostoli, le notizie anzi intorno alla sua sono tanto più confuse in quanto i suoi tre nomi hanno dato occasione a molti scambi; le più sicure sono ancora le conclusioni, che possiamo dedurre dalla sua stessa lettera. Così come a campo principale della sua missione siamo rinviati alla Palestina; quivi i due fratelli e contadini Giacomo Minore e Giuda Taddeo, con la fatica e nel sudore della fronte, riposero nei granai di Cristo la messe raccolta fra il loro popolo, prima che, come temporale ormai imminente, lo raggiungesse la minacciosa catastrofe della rovina. S’accorda con la nostra supposizione una notizia fornitaci da Niceforo, secondo la quale l’apostolo Giuda Taddeo sarebbe stato missionario della Giudea, Galilea, Samaria e Idumea. Anche della Galilea! Ivi viveva la sua buona sposa, ormai attempata, vivevano i suoi figli, intenti alla coltivazione dei campi, che un giorno appartenevano a lui, vivevano pure i suoi nipoti Zoker e il piccolo Giacomo, i quali, quando il nonno stanco e polveroso ritornava dai suoi giri apostolici per far loro qualche rara visita, si stringevano a lui dintorno e lo accarezzavano; il giorno seguente s’allontanava di nuovo da quella amata tranquillità della patria per portarsi in terre lontane, urgendolo l’amore di Cristo: il sacrificio dell’Apostolo! Secondo le informazioni, che ci forniscono degli autori siriaci, l’attività apostolica di Giuda Taddeo resterebbe trasferita a Edessa, l’odierna Urfa nella Turchia orientale; infatti in un Innario armeno — l’anno 90 prima di Cristo il grande regno degli Armeni si estendeva ancora giù fino a Edessa — del secolo decimoterzo gli Apostoli Giuda Taddeo e Bartolomeo sono chiamati « i nostri primi illuminatori ». Un documento ufficiale assai strano dell’archivio di Edessa, che Eusebio cita nella sua « Storia Ecclesiastica », presenta uno scambio di lettere fra Cristo e il principe Abgar V di Edessa: Abgar prega il Signore di recarsi da lui in Edessa per guarirlo dalla sua malattia; Cristo risponde che dal Padre non ha ricevuto la missione che per Israele; ma dopo la sua ascensione manderà a Edessa uno dei suoi discepoli; più tardi dunque, secondo quanto riferisce Eusebio, l’apostolo Tommaso avrebbe inviato ad Abgar uno dei 72 discepoli, di nome Taddeo, chiamato anche Addeo; a questo punto la « Dottrina di Addeo », uno sviluppo dell’antica leggenda risalente all’anno 400 circa, inserisce pure la notizia che il messo inviato ad Abgar dipinse l’immagine di Cristo. Evidente che la lettera non è autentica; anche Eusebio ha qui confuso l’apostolo Taddeo, uno dei Dodici, con Addeo, uno dei 72 discepoli, il fondatore della chiesa di Edessa. Maggiore probabilità ha un’altra leggenda, secondo la quale Giuda Taddeo, dopo l’attività svolta presso i suoi compatriotti, si sarebbe portato nelle regioni limitrofe della Palestina, nell’Arabia, Siria e Mesopotamia; avrebbe sofferto la morte del martire a Berytus (Beirut) o ad Aradus in Fenicia, mentre invece la maggior parte degli autori greci afferma che Taddeo morì di morte naturale. Uno scritto del principio forse del quarto secolo, attribuito a Craton, un preteso alunno degli Apostoli, risultante di dieci libri, fa che Taddeo s’incontri col fratello suo Simone in Persia, insieme al quale evangelizza quel regno potente; nonostante la continua ostilità dei due maghi Zaroes e Arfaxat, i successi dei due Apostoli furono incredibili; nel giro di quindici mesi battezzarono in Babilonia. 60.000 uomini, senza contare le donne e i fanciulli, e in tredici anni percorsero le dodici provincie dell’impero persiano. Giunti nella città di Suanir, i due Apostoli furono richiesti di sacrificare nel tempio del sole al sole e alla luna, ma essi risposero che il sole e la luna erano solamente creature di quel grande Iddio, che essi annunziavano; cacciarono dagli idoli i demoni, che vi soggiornavano, e fra ululati e orrende bestemmie se ne scapparono due figure nere e terrificanti; allora i sacerdoti e il popolo si precipitarono sui due Apostoli; Giuda disse a Simone: « Vedo il mio Signore Gesù Cristo, che ci chiama »; furono uccisi da una grandine di sassi e a colpi di mazza, e per questo l’arte mette in mano all’apostolo Giuda una pesante mazza. Il re Serse avrebbe fatto trasportare i corpi dei santi Apostoli nella sua città residenziale, dove avrebbe edificato una splendida chiesa marmorea in forma di ottagono e avrebbe composte le salme in una stanza rivestita di lamine d’oro, entro a un sarcofago d’argento; la costruzione sarebbe stata ultimata e consacrata dopo tre anni, il primo giorno di luglio, nel giorno cioè della morte degli Apostoli. Tutto questo lo troviamo nella leggenda latina, che si richiama all’antico scritto di Craton ed è penetrata, nelle sue linee essenziali, come lezione nel Breviario romano per il giorno della festa in onore dei due Apostoli. Nella Chiesa occidentale essi vengono festeggiati nel medesimo giorno, come Filippo e Giacomo, come Pietro e Paolo, da tempo antichissimo; il motivo vero, oggettivo della loro festa in comune può essere la parentela di Simone e Giuda, accennata dal Vangelo, e la loro attività e morte insieme, affermata dalla leggenda. Come giorno per la festa è stato scelto il 28 ottobre, giorno del tardo autunno, che ci richiama, e richiamandolo ci ammonisce, il grave testo della lettera di Giuda, che dice « degli alberi spogli nel tardo autunno » e « delle nubi, che il vento caccia qua e là ». – La conclusione della vita degli Apostoli lascia quasi sempre un po’ insoddisfatti, perché sul loro conto, come per un padre che se ne va, desidereremmo avere notizie più sicure e più precise. Iddio solo sa quant’altre e grandi cose avrà compiute anche Giuda Taddeo, l’audace avventuriero di Cristo! Ma le sue gesta pure stanno dinanzi al Signore e non sono manifeste al mondo. Si spiega forse così che il nascondimento apostolico sia tanto importante? Dopo la parola, che il Signore rivolse a Giuda Taddeo di « non manifestarsi al mondo », ma di scorgere l’essenziale nel fatto che il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo « prendono dimora presso di noi », quel nascondimento ci è di monito e conforto insieme.
Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)
Morcelliana Ed. Brescia 1935
Traduzione di Bice Masperi
CAPITOLO I
LA VITA IN DIO
3. – Gesù Cristo Uomo.
Può meravigliare che il Cristo e la sua Passione occupino tanta parte dei pensieri, delle parole, della vita stessa di chi, come il Cattolico crede con tutta l’anima e con tutta la convinzione quanto è stato esposto fin qui sul conto di Cristo nostro Signore? “La mia vita è Cristo e la morte mi è guadagno” asserisce San Paolo; e il Cattolico comprende perfettamente il suo pensiero, “Io non conosco che Gesù Cristo, e questo crocifisso” così si esprime in altro luogo; e i Santi gli fanno eco di continuo con un calore che dà alle loro parole l’accento stesso della verità. Dice ancora l’Apostolo: “Vivo, non già io, ma Cristo vive in me” e il Cattolico vorrebbe appropriarsi questa affermazione per farne l’ideale della propria vita. Potranno taluni rimaner stupiti o increduli; per molti Cristo è pietra d’inciampo, per altri scandalo e follia, ma non mancano quelli che sanno, e per costoro Egli è “il Cristo, la forza e la gloria di Dio”. Cristo, figlio di Dio fin da tutta l’eternità, ma insieme vero Figlio dell’uomo nel tempo, nato su questa terra da una donna della nostra stirpe, rimasto vero Dio, ché non avrebbe potuto mutar natura, ma diventato anche vero uomo, questo Cristo è venuto fra gli uomini perché li amava in quanto Dio, mi amava, di un amore eterno. Per me ha vissuto la sua vita umana ed è risuscitato da morte. E perché continua ad amarmi in quanto Dio e in quanto uomo, per me vive tuttora nel cielo dinanzi al Padre comune, “sempre vive a fare intercessione per me”, e quaggiù sulla terra, rinnovando di continuo l’oblazione che per me fece una volta per tutte. Vive in me realmente come io sono in me stesso, e nutre la mia vita della Sua, se io voglio, ogni giorno. Mi chiama fratello, figlio del suo stesso Padre, suo intimo amico, abolendo la distanza che ci separa. Mi fa partecipare alla sua eredità, supplica il Padre per me, uno dei “suoi”, affinchè “ov’Egli è io pure sia” qualunque sia la sentenza che merito. Ogni mio dolore trasforma in gaudio, e ogni mio gaudio in uno ancor più grande. E mi dimostra con metodi, evidenze, argomenti assai più convincenti e decisivi di quelli della ragione umana, eppure da essa ovunque confermati, che tutto ciò è vero e reale, è opera che Dio solo poteva compiere, è amore che Dio solo poteva mostrare, opera e amore ineffabili, ma in tutto degni di Lui. “Dio è fedele”. Tutto questo e più è Cristo per me; come potrebbe non esser l’oggetto primo dei miei pensieri e del mio amore? Che cosa non dovrò essere, che cosa non dovrò fare, che cosa non dovrò sopportare per questo Cristo che si è dato tutto per me, che tanto ha operato e patito per me? Vero è che fintanto che vivrò sulla terra avrò necessariamente da occuparmi di altre cose. Dovrò tenere il mio posto fra gli uomini e assolvere il compito che mi spetta. Il mio amore dovrà necessariamente riversarsi su altri; ma vada pure a tanti quanti si vuole e con tutta la ricchezza ch’essi mi lasceranno prodigar loro: ciò non potrà che rendermi più simile a Lui, il grande amico dell’umanità. E comunque, i miei pensieri, le mie intenzioni, i miei affetti non potranno arrestarsi in loro: se voglion trovar riposo e soddisfazione debbono andare oltre, perché scoprono Lui che trascende ogni altro essere. Egli si è rivelato e ormai tutto in me deve aver fame e sete di Lui, come il cervo assetato brama le acque. La mente e l’anima l’hanno trovato e non possono più abbandonarlo, ché in Lui solo ormai troveranno la loro pace definitiva. – In verità, una volta incontrato e conosciuto Cristo, Egli diventa il nostro tutto. Vi sono altre belle, buone, desiderabili, degne di essere amate e perseguite, e noi possiamo apprezzarle e coltivarle tutte. Vi sono creature umane ammirevoli, nobili, amabili, degne di quanto di meglio possiamo dar loro e della nostra stessa vita. Anche l’amor di patria ci è lecito e doveroso non meno dell’amore ai fratelli, come lo dimostra in vari cimenti l’evidenza dell’eroismo e del sangue. Ma dietro a tutte queste cose, sopra di esse, sta la figura del nostro Signore ed amico che tutte le trascende e a tutte dà il massimo splendore a cagione della luce su di esse riversa. – Il Cattolico sa leggere il Vangelo. Altri potranno superarlo nella conoscenza tecnica di esso; potranno avere maggiori nozioni intorno alla terra di Palestina, agli usi e costumi degli Scribi e dei Farisei, alla forma delle pietre su cui Cristo passò e intorno all’esatto significato di qualche vocabolo del sacro testo. Ma Colui che palpita nel Vangelo e ne balza fuori vivo e operante attraverso i secoli, e Chi con noi “ieri, oggi, lo stesso in eterno”, soltanto il vero Cattolico lo conosce e lo può conoscere come uno dei suoi, meglio di quanto non conosca la propria madre; e questa, che pure l’ha istruito, è ben lieta di cedere il poste al Maestro. – E poiché lo conosce, il Cattolico lo segue, ne ascolta ogni parola e la interpreta non a modo proprio ma al modo di Cristo stesso. Medita i suoi detti, cerca il significato ch’Egli vi racchiuse, non quello che desidererebbe lui e che una generazione ipercritica ed egoista suggerisce. Studia la sua vita e in essa riconosce l’ideale dell’umanità, sia o meno in poter suo il raggiungerlo. E quando deve agire, quando si trova di fronte a una decisione da prendere o a un giudizio da dare sulle cose della vita, istintivamente, quasi inconsapevolmente, guarda l’Ideale e si chiede: « Che cosa vorrebbe il Maestro ch’io facessi? Come vorrebbe che mi comportassi? Qual è il consiglio con cui mi guida? Come avrebbe Egli parlato e agito in questa circostanza”? Poiché Egli è la verità infallibile, e al giudizio umano più è giusto allorché più armonizza con quello di Cristo. – E ancora, se il Cattolico vuol pregare, esulare per un momento da questa valle di lagrime e sospinger lo sguardo alle altezze donde viene l’ aiuto, sollevare la mente e il cuore a Dio e mettersi in contatto Con Lui, istintivamente si avvicina a Gesù. “Nessuno va al Padre se non per me”. I suoi pensieri si uniscono a quelli di Lui; insieme, “per lo stesso Gesù Cristo Signor nostro”, come la liturgia non si stanca mai di ripetere, essi salgono al trono del Padre che è nel cielo, pregando affinché il suo nome sia santificato, affinché la sua volontà si compia sempre e dovunque. Insieme a Gesù Cristo, sollevando le nostre mani insieme alle Sue, noi meschine creature, cantare la gloria del nostro Dio come merita di esser glorificato, possiamo adorarlo, ringraziarlo e domandargli il nostro pane quotidiano, il perdono delle nostre colpe, la protezione da ogni male e da ogni minaccia, con una fiducia di bambini e di figli. – E quando non si tratta più di pregare, ma di applicarsi al lavoro quotidiano, sia questo per il Signore o per il prossimo, il Cattolico ha dinanzi agli occhi il lavoratore modello, il fabbro di Nazaret che si guadagna la vita fino all’età di trent’anni come un mortale qualunque ed è sottomesso a sua madre e l’ama e la riverisce, e rende servigi agli abitanti del suo villaggio. Oppure vede il maestro affaticato dalle peregrinazioni attraverso le colline della Galilea e della Giudea, il viandante che conobbe la fame, la sete, il sonno e non ebbe ove posare il capo, e che, una volta al meno, fu “triste fino alla morte”. – Quando s’incontra con altri e ha occasione di parlare e di trattar con loro, il Cattolico non può dimenticare tutto ciò ch’è inerente alla loro umana natura, ma può anche ricordare che, come Cristo dimora e vive in lui, così dimora o desidera dimorare nel cuore di queste altre sue creature. E quindi, parlare e trattar con esse e servirle, è trattare con Cristo e servir Lui. “Ogni volta che farete ciò al minimo di questi, lo farete a me” è l’incentivo che ha dato origine alla lunga teoria dei martiri della. carità, all’esercito permanente della Chiesa di Dio. – Così, in Gesù Cristo suo Signore e suo ideale si accentrano i pensieri del Cattolico, come tutti i suoi affetti. Poiché se fra noi, uomini di buon volere, conoscere un buono significa amarlo, quanto più ciò sarà vero per Gesù Cristo, Colui che nessuno poté convincer di peccato e del quale la folla, contemplandolo, disse che faceva bene tutte le cose, Colui che i nemici stessi non poterono a meno di chiamare “Maestro buono”. Egli è la Bellezza, la Bontà, la Verità per essenza. Mite ed umile, perché tutti possano avvicinarlo come uno dei loro, in Lui tutte le perfezioni della divinità si uniscono alle attrattive dell’uomo perfetto. L’ha dimostrato in ogni azione della sua vita sulla terra, ce lo dimostra ancora ogni giorno, sol che vogliamo leggere “i segni” con esattezza. “Chi di voi mi convincerà di peccato?” – “Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”. – “Io sono la via, la verità, la vita”. – “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e Io vi ristorerò”. “Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me che sono mansueto e umile di cuore e troverete riposo alle anime vostre”. “ Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete”. Queste parole che risuonarono nel cortile del Tempio o per le vie della Giudea hanno echeggiato nei secoli. Ora, come allora, cade ogni accusa lanciata contro di Lui, convinta di falsità al solo venir pronunciata. I testimoni non sono andati d’accordo; l’unica imputazione trovata sufficiente per condannarlo a morte è ch’Egli “si è detto Figlio di Dio”. Ora, come allora, le moltitudini lo seguono, mentre alcuni privilegiati attirati e ammessi alla sua intimità esperimentano in modo ineffabile la verità di ogni sillaba della sua promessa. – E davvero ha mantenuto la promessa, e non ci ha lasciato orfani: è ritornato a noi, e con noi rimane fino alla consumazione dei secoli. Solo chi sa il segreto del suo fascino può parlarne; gli altri, quelli che non sanno, che non hanno mai minimamente capito che cosa sia il Cristo, come potranno osar di negare o ripudiare ciò di cui nulla conoscono? Che i seguaci di altre dottrine a quelle si attengano, e noi non potremo che rispettarli per ciò, disposti anche ad ascoltarli con deferenza. Ma che non si azzardino, in forza della loro dottrina, a dettar dogmi su ciò di cui, secondo la loro stessa confessione, sono affatto profani. — Ne sutor ultra crepidam. — Ché non mancano i veri intimi di Cristo, quelli che conoscono Lui direttamente e non solo ciò che di Lui si dice; e li troviamo in ogni ceto, dal più umile al più alto, fra gli intelletti più ottusi e i più dotti. Se la diversità degli aderenti e l’universalità del consenso son prove di verità, la verità di Gesù Cristo e della Chiesa da Lui fondata balza evidente al disopra di ogni altra. E gli intimi son quelli che esperimentano il suo amore e lo ricambiano, che lo hanno sempre presente allo sguardo e si sentono guidati dalla sua mano e sanno di non essere nell’illusione. Una sola parola loro sul conto del Maestro val più di tutte le negazioni e dei vani tentativi di giustificarle da parte di chi non sa quello che si dice e perciò dev’essere perdonato, di chi non si è mai avvicinato a Lui e perciò va compatito, di chi si trova separato da Lui da duemila anni di storia, non essendo ancor riuscito a trovarlo qual è, se pure non lo consideri come un semplice mito. – Il Cattolico degno del suo nome sa “in chi ha creduto” e vive alla sua presenza e in sua compagnia. Ascoltiamo San Bernardo, scelto a caso fra i tanti che gli rendon testimonianza, poiché fu uno di “color che sanno”: “Signore, fa che col tuo aiuto possiamo seguirti, che per mezzo tuo possiamo venire a Te, poiché Tu sei la Via, la Verità, la Vita. Tu ci sei Via col tuo esempio, Verità con la tua promessa, Vita coi doni che ci elargisci. Tu hai detto che sei la Via che dobbiamo percorrere, la Verità che dobbiamo cercare, la Vita in cui dobbiamo rimanere; la Via che non conosce deviazione, la Verità che non conosce errore, la Vita che non conosce morte; la Via diritta, la Verità infallibile, la Vita eterna, la Via larga e spaziosa, la Verità forte e universale, la Vita dilettevole e per sempre gloriosa. – Ascoltiamo Santa Teresa. Sebbene il suo linguaggio trascenda l’esperienza della maggioranza, pure il Cattolico ne comprende ogni parola e vi consente. La sua opera per la gloria di Dio è ostacolata, sembra che tutto l’avversi e l’accusi, ma la certezza di Gesù Cristo, oggettivamente reale per lei quanto essa lo è a se stessa, è una perenne consolazione nelle sue pene e un incoraggiamento nelle difficoltà e una inesauribile sorgente di forza. Ecco come esprime ciò che Cristo è per lei e per ogni Cattolico, a ciascuno nella propria misura: “Sola com’ero, senza un amico che mi consigliasse, non potevo né pregare né leggere; ma rimanendo per ore ed ore turbata di mente e afflitta di spirito a cagione della gravità delle mie pene, incominciavo a temere di essere in balia del demonio e mi domandavo che cosa mai potessi fare per liberarmi. Pareva che nessun raggio di speranza mi arridesse né dalla terra né dal cielo, nulla all’infuori di una sola certezza che non mi abbandonò mai fra tutti i miei timori e pericoli, che Gesù Cristo mio Signore sicuramente sapeva il peso della mia afflizione. “O mio Signore Gesù Cristo, che amico fedele Tu sei, e come potente! Poiché quando vuoi esser con noi Tu lo puoi, e lo vuoi sempre purché noi siamo disposti ad accoglierti. Che tutto il creato ti lodi e ti benedica, o Signore dell’universo! O se io potessi percorrere il mondo intero proclamando ovunque con tutte le mie forze che amico fedele Tu sei per chiunque ti voglia essere amico! Mio diletto Signore, tutto passa e tutto vien meno; ma Tu, il Signore di tutto, non vieni mai meno, Tu non passi. Ciò che fai soffrire a quelli che ti amano è sempre troppo poco. Come benevolmente e nobilmente, (alla lettera: da vero signore) con quale tenerezza e soavità riesci a trattare e a provare le anime che son tue! Se si potesse esser ben certi di non amare nulla e nessuno all’infuori di Te! Si direbbe, mio dolce Signore, che Tu voglia mettere alla prova con flagelli e torture l’anima che ti ama, sol perch’essa comprenda, quando l’hai ridotta all’estremo, le sconfinate proporzioni dell’amor tuo”.
…. et mulier fugit in solitudinem ubi habebat locum paratum a Deo …et datæ sunt mulieri alæ duæ aquilæ magnæ ut volaret in desertum in locum suum…Et iratus est draco in mulierem: et abiit facere praelium cum reliquis de semine ejus, qui custodiunt mandata Dei, et habent testimonium Jesu Christi. (Apoc. XII)
… E alla Donna, cioè alla Chiesa, furono date ali di aquila per fuggire nel deserto, lungi dalla corruzione di uomini immondi e perversi dei quali è scritto:
Væ illis, quia in via Cain abierunt, et errore Balaam mercede effusi sunt, et in contradictione Core perierunt! Hi sunt in epulis suis maculae, convivantes sine timore, semetipsos pascentes, nubes sine aqua, quæ a ventis circumferentur, arbores autumnales, infructuosæ, bis mortuæ, eradicatæ, …
in novissimo tempore venient illusores, secundum desideria sua ambulantes in impietatibus. Hi sunt, qui segregant semetipsos, animales, Spiritum non habentes.
[Guai ad essi! Perché si sono incamminati per la strada di Caino e, per sete di lucro, si sono impegolati negli errori di Balaàm e sono periti nella ribellione di Kore. Sono la sozzura dei vostri banchetti, sedendo insieme a mensa senza ritegno, pascendo se stessi; come nuvole senza pioggia portate via dai venti, o alberi di fine stagione senza frutto, due volte morti, sradicati; come onde selvagge del mare, che schiumano le loro brutture; come astri erranti, ai quali è riservata la caligine della tenebra in eterno …
Alla fine dei tempi vi saranno impostori, che si comporteranno secondo le loro empie passioni. Tali sono quelli che provocano scismi, bestie prive dello Spirito. (Ep. Jud.).
… Roma perderà la fede, e sarà la sede dell’anticristo… La Chiesa sarà eclissata … (La Salette, 1846).
La sinagoga massonica, sede dell’anticristo, si insedia nel luogo santo spacciandosi per Chiesa di Cristo ….
… Transfiguratus in angelum lucis, cum tota malignorum spirituum caterva late circuit et invadit terram, ut in ea deleat nomen Dei et Christi eius, animasque ad aeternae gloriæ coronam destinatas furetur, mactet ac perdat in sempiternum interitum. Virus nequitiæ suæ, tamquam flumen immundissimum, draco maleficus transfundit in homines depravatos mente et corruptos corde; spiritum mendacii, impietatis et blasphemiæ; halitumque mortiferum luxuriæ, vitiorum omnium et iniquitatum. Ecclesiam, Agni immaculati sponsam, faverrimi hostes repleverunt amaritudinibus, inebriarunt absinthio; ad omnia desiderabilia eius impias miserunt manus.
Ubi sedes beatissimi Petri et Cathedra veritatis ad lucem gentium constituta est, ibi thronum posuerunt abominationis et impietatis suæ; ut percusso Pastore, et gregem disperdere valeant.
(Preghiera a S. Michele di S. S. Leone XIII).
… Vade, satana, inventor et magister omnis fallaciæ, hostis hamanæ salutis. Da locum Christo, in quo nihil invenisti de operibus tuis; da locum Ecclesiæ uni, santæ, catholicæ, et apostolicæ, quam Christus ipse acquisivit sanguine suo.
SED PORTÆ INFERI NON PRÆVALEBUNT ADVERSUS EAM… (Matth. XVI, 18)
Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901
Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.
LIBRO VIII
LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. — I SACREMENTI, E SPECIALMENTE L’EUCARISTIA, SECONDO MEZZO DI CRESCITA.
CAPITOLO II
I principali effetti del cibo eucaristico: la vita divina e l’unione sempre più stretta dei comunicanti nell’unità della stessa Persona morale con il Figlio di Dio fatto uomo.
.1. Questo titolo indica due dei tratti principali sotto i quali l’effetto proprio dell’Eucaristia divina è presentato dalla rivelazione. Dopo averli meditati, considereremo gli altri e potremo vedere come tutti contribuiscano insieme allo stesso obiettivo di crescita. – Il primo effetto del cibo eucaristico è la vita. Chi ci insegna questo? Colui stesso che ce l’ha donato così liberamente. Raccogliamo con amore ciò che Egli stesso si è degnato di raccontarci nel Vangelo di San Giovanni. Parlò alla folla che, deliziata dal miracolo della moltiplicazione dei pani, era andata a cercarlo oltre il lago di Tiberiade: « Io sono il pane di vita; i vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti. Io sono il pane disceso dal cielo, perché chiunque ne mangi non muoia. Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Chi mangia di questo pane vivrà in eterno, e il pane che Io darò è la mia carne per la Darò la mia carne per la salvezza del mondo » (S. Giov., VI, 48-52). I Giudei, a questo linguaggio, esclamano: « Come può egli darci la sua carne da mangiare? » E Gesù disse loro: « In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete la vita in voi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e Io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda » (S. Giov. VI, 53-56). – È dell’Eucaristia che Gesù Cristo parlava; e farei un torto al lettore se mi soffermassi a dimostrargli una verità così evidente. Ma vedete con quale insistenza Egli afferma il frutto di vita che questo pane dal cielo debba produrre in colui che lo riceve. Non gli basta fare una sola affermazione, anche se questa affermazione, uscendo dalla sua bocca, è infallibile nella sua certezza; occorre che Egli ne ritorni sopra più di dieci volte nel corso della stessa conversazione, tanto vuole che la sua dottrina entri profondamente nel nostro cuore. Fa anche di più. « Come mio Padre – Egli dice – che è vivente (la Vita stessa), mi ha mandato, e Io vivo per il Padre mio, così anche chi mangia me vivrà per me » (Ibid. 58). Questa è la ragione ultima che rende la carne di Cristo viva e vivificante: essa è la carne dell’eterno Figlio di Dio. « Come il Padre ha la vita in sé, così ha dato al Figlio la vita in sé » (S. Giov. V, 26). E questa carne, che con l’Incarnazione è diventata la carne del Figlio di Dio, è dunque la carne della Vita. Come può non essere vita e vivificante? Ma per chi sarà così, se non per coloro che lo ricevono come cibo divino e che se ne nutrono? – È qui che dobbiamo ricordare la legge che presiede ai Sacramenti della Nuova Alleanza: ciò che essi significano con simboli esterni, lo producono. Ora, il cibo è il mezzo naturale per mantenere o conservare la vita in noi; un mezzo così indispensabile che, secondo il corso ordinario delle cose, non mangiare più significa essere morti o avanzare rapidamente verso la morte. Pertanto, l’effetto del cibo eucaristico, per essere analogo a quello del cibo comune, le cui apparenze rivelano la carne di Gesù Cristo, deve essere anche la vita: non più, ovviamente, la vita sensibile e mortale nutrita dalla manna nel deserto, ma la vita soprannaturale, immortale e divina. Innanzitutto, vita dell’anima perché questa è la vita dei figli di Dio; ma anche vita gloriosa del corpo risorto, coronamento e corollario della vita spirituale. – Di tutti gli effetti dell’Eucaristia, questo è forse quello che compare più spesso negli scritti dei Padri e dei Dottori. Cominciamo con il grande campione dell’unità della persona in Gesù Cristo, san Cirillo di Alessandria, il vittorioso avversario di Nestorio che, con il pretesto di salvaguardare la distinzione delle nature, separava Dio dall’uomo, il Figlio dal Padre e il figlio dalla Vergine, privando così quest’ultima della gloria della sua maternità divina. Ecco l’argomentazione inoppugnabile con cui il nostro grande Dottore sconfiggeva l’eresiarca: « La carne di Cristo non è solo carne viva, ma carne che dà vita. Da dove lo sappiamo? Da Lui stesso, perché ha detto: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”. Se il ferro penetrato dal fuoco diventa esso stesso fonte di luce e di calore, come può essere non credibile che il Verbo del Padre, che è vita per essenza, renda vivificante la carne che si è unita? Perché essa è davvero la sua carne e non quella di un uomo distinto e separato da Lui. – « Ma se, rompendo l’unione reale, si separa questa stessa carne dal Verbo di vita, come si potrà mai dimostrare che essa possiede la virtù di vivificare? Poiché dunque il corpo del Verbo è vivificante, questo corpo, diventato suo con un’unione ineffabile ed incomprensibile; noi, che l’Eucaristia rende partecipi di questa carne divina, riceviamo la vita: perché in noi il Verbo abita, non solo come Dio attraverso lo Spirito Santo, ma anche come uomo attraverso il suo sacro Corpo e il suo preziosissimo Sangue » (S. Cirillo. Alex, L. IV, c. Nestor. P. Gr., vol. 76, p. 189, ss; col. Apolog. c. Orieut, ibid. p. 373 ss.). – Così il Sacramento produce vita in noi, perché contiene il vero Corpo di Dio fatto uomo. La stessa influenza vivificante della carne di Cristo Gesù è ancora un’arma che è servita ai Padri per combattere vittoriosamente altre eresie. Nessuno l’ha impugnata in modo più affidabile e prepotente di Sant’Ireneo di Lione, nella sua lotta contro gli gnostici. Egli Scrive: « Quanto sono vani coloro che, disprezzando l’economia universale del nostro Dio, rifiutano di credere nella salvezza della carne e si fanno beffe della sua futura rigenerazione, con il pretesto che non sia in grado di ricevere mai l’incorruttibilità. No, se non c’è salvezza per la nostra carne, né il sangue del Signore ci ha riscattato, né il calice dell’Eucaristia è la comunione dello stesso sangue, né il pane che spezziamo, quello del suo stesso corpo. Il legno della vite piantato nella terra porta frutto a suo tempo; il chicco di grano, caduto in terra e passato attraverso la corruzione, esce moltiplicato dalla benedizione di Colui che conserva tutte le cose, per servire agli usi dell’uomo. E questi frutti della vite e del grano, in virtù della parola onnipotente di Dio diventano l’Eucaristia, cioè il corpo e il sangue di Cristo. Così i nostri corpi, nutriti dall’Eucaristia e deposti nella terra per tornare alla polvere, risorgeranno a suo tempo, a gloria di Dio Padre (S. Iren, c. Hæres, L. IV, c. 33 n. 2, e L V. c. 3, n.2 e 3 P. Gr. t. 7, p. 1073, 1125, sqq.).
2. – Un altro carattere degli effetti dell’Eucaristia: l’unione del capo con le membra e delle membra tra loro, nell’unità del Corpo mistico di cui Gesù Cristo è il Capo. – Che l’Eucaristia sia un principio di unione tra Gesù Cristo che vi si dona e il Cristiano che ne viene nutrito, è il Salvatore stesso che ce lo insegna, proprio nel luogo in cui ce lo propone come fonte di vita: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui » (S. Joan. VI, 37). Può esistere un’alleanza più stretta? S. Agostino, fondando sulla parola del Maestro, vuole che si riconnetta a questo effetto la vera manducazione del corpo di Gesù Cristo: « Il segno che un uomo ha mangiato il corpo e bevuto il sangue del Signore è che egli dimora e rimane in Cristo, e che Cristo dimora e rimane in lui. Signum quia manducavit et bibit, hoc est; si manet et manetur; si habitat et inhabitatur » (S. August. In Joan. Tract. 27, n. 1; 26, n. 18; col. Serm. 227e 272). I peccatori non ricevono il corpo e il sangue di Gesù Cristo? Sì, essi lo ricevono; ma nel riceverlo non mangiano e non bevono come bisogna bere e mangiare. È una comunione solo corporea, laddove dovrebbe esserci una comunione secondo lo spirito. E poiché il mangiare spirituale deve essere il necessario coronamento di ogni mangiare sacramentale, da ciò consegue che per il santo Dottore unirsi corporalmente all’Eucaristia, senza che l’unione passi alla parte più intima del cuore, non è aver mangiato questo cibo divino (Questo è ciò che lo stesso Sant’Agostino scrisse contro i Donatisti il cui scisma stava allora frantumando l’unità del Corpo mistico di Gesù Cristo in Africa. Nella sua controversia con i pelagiani che, negando il peccato originale, promettevano la vita eterna ai bambini morti senza battesimo, e non rifiutando che il regno di Cristo lo stesso santo non teme di invocare contro di loro la parola del Signore: « Se non avrete mangiato la carne del Figlio dell’uomo, non avrete la vita in voi ». Non che egli consideri la ricezione effettiva e sacramentale dell’Eucaristia come universalmente necessaria per la salvezza: San Fulgenzio, suo illustre discepolo, lo vendicò di tale accusa; ma è che non c’è giustificazione per coloro che non sono entrati nel Corpo mistico di Gesù Cristo. Il Battesimo, che ci rende figli di Dio, ci inserisce come nuovo membro in questo corpo spirituale e vivente. « Ora – si chiede San Fulgenzio – colui che diventa membro del corpo del Cristo, come fa a non ricevere ciò che egli diviene? Perciò, con la rigenerazione del santo Battesimo, egli diventa ciò che deve ricevere, nel Sacrificio dell’altare. Pertanto, non si può dubitare che ogni fedele partecipi al corpo e al sangue del Signore, quando il Battesimo lo unisce a Gesù Cristo come suo membro; e anche se lascia questo mondo prima di aver realmente mangiato questo pane e bevuto questo calice, vi comunica, poiché questo è ciò che l’uno e l’altro significano. » S. Fulgent, ep. 12, n, 24-26; col. s. August, de Peccat. merit, et remiss, L III, c. 4; L. I, c. 2, 3; etc.). – La stessa virtù dell’Eucaristia ci viene dimostrata anche dalla legge del simbolismo sacramentale. Come abbiamo detto, i nostri Sacramenti non sono solo segni; hanno anche la virtù di produrre ciò che significano. Se Gesù Cristo si dona a noi sotto forma di cibo è perché vuole unirci a sé in un’unione non identica, è vero, ma analoga all’unione del cibo con colui che lo incorpora. – Questa stessa conclusione è necessaria anche se consideriamo la fonte da cui scaturisce il Sacramento dell’altare. – « Prima della festa di Pasqua – dice il discepolo prediletto – Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre suo, come aveva amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine ». (S. Joan. XIII, 1); fino all’eccesso, traducono alcuni interpreti. E cosa ha fatto per mostrare loro questo amore incomparabile? Senza dubbio, Egli va incontro alla morte per loro, e « nessuno può avere un amore più grande che dare la vita per i suoi amici » (S. Joan. XV, 14). Tuttavia, queste parole del racconto evangelico, venendo immediatamente prima della narrazione della cena in cui fu istituita la Santa Eucaristia, devono riferirsi ad essa, e quindi significano che essa ha come principio un eccesso di amore. – Ora, la prima esigenza dell’amore è l’unione; perché esso è per natura e per eccellenza « una virtù unitiva », per usare la nota espressione del grande Areopagita (Dionigi, de Div., nom., c. 4). Chiedete alle madri, chiedete agli amici, chiedete a ogni cuore amorevole se non sia così. L’amore umano desidera costantemente la presenza di coloro che ama; e quando la separazione è necessaria, non ha industrie sufficienti a mitigarne gli effetti. Da qui questi pegni di ricordo, queste rappresentazioni di persone care che vengono scambiate, questo commercio di lettere, questa ansia di tornare e queste gioie del ritorno (Lessius, de Summo bono, L. II, c. 12). – Ma ancora più veementi sono le aspirazioni dell’amore soprannaturalizzato dalla grazia. Non è stato forse questo che ha fatto dire a San Paolo: « Ho sete della mia dissoluzione per essere con Cristo » (Fil. I, 23), esso che rende la terra un luogo di esilio, una valle di lacrime, un soggiorno così intollerabile per le anime santificate dall’amore divino, che solo questo amore può ispirare loro pazienza per sopportarne le tristezze. – Gesù Cristo Nostro Signore stava per lasciare i suoi discepoli; stava tornando da Colui che lo aveva mandato e li stava lasciando in un mondo malvagio e corrotto dal quale sarebbero stati perseguitati, come Lui stesso era stato perseguitato. Altri discepoli che, nel corso del tempo, si sarebbero uniti in gran numero a questo primo nucleo della Chiesa, non avrebbero avuto nemmeno la consolazione di aver goduto per qualche giorno della sua presenza visibile. Fate questo – dice – in memoria di me, ed ecco, io rimango con voi fino alla consumazione dei secoli. Questa è l’istituzione e il fine dell’Eucaristia. Egli se ne va, ed Egli resta; sale al cielo e resta sulla terra; assente e presente. Non solo Egli resta con noi, ma vuole essere in noi. Mangiate, bevete, saziatevi della mia carne e del mio sangue: la mia carne è cibo e il mio sangue è bevanda. Ciò che è impossibile all’uomo è possibile a Dio, che può mettere l’onnipotenza al servizio dell’amore. – Ecco l’unione corpo a corpo e cuore a cuore. Se amo il mio Salvatore Gesù come Lui ama me, devo ringraziarlo infinitamente per questo grande dono, e non ho desiderio o felicità più grande che sedermi a questo banchetto di unione così divinamente preparato per me nell’Eucaristia. – Ma, per quanto possa essere dolce per il mio amore avvicinare la carne di Cristo alla mia carne, è comunque una cosa da lasciarmi dei rimpianti. Perché è molto fugace. Non dobbiamo pensare che la Comunione ci metta in possesso permanente del corpo e del sangue di Gesù Cristo. La loro presenza in noi dipende, come abbiamo notato, dal destino delle specie sacramentali. Quando, quindi, l’azione dell’organismo ha fatto perdere loro le proprietà costitutive, il corpo e il sangue di Gesù Cristo possono anche essere in un altro petto, ma non saranno più nel nostro. Immaginare che la sacra carne del Salvatore sia permanente nel corpo del comunicante, una permanenza che corrisponderebbe o alla conservazione della grazia o all’eccellenza della carità, è alimentare una pura chimera, che nulla autorizza e che tutto ci obbliga a rifiutare. È vero che, essendo stato battezzato, ho ancora il diritto di partecipare al Sacramento, se ne sono degno, e questa è la mia felicità e la mia gloria; ma non posso illudermi di essere sempre la teca dove riposa la carne del mio Salvatore. Ancor meno potrei ammettere, come alcuni con più pietà che conoscenza immaginavano un tempo, che non avendo più il corpo, io conservi in me l’anima del Cristo, se almeno l’ho meritata con l’intensità del mio fervore. Questo significherebbe dimenticare che l’anima sia nel sacramento solo per concomitanza. Gesù Cristo non ha detto, e il sacerdote sull’altare non ripete in suo nome: Questa è la mia anima; oppure: Questo è il mio corpo e la mia anima. Egli dice: Questo è il mio corpo; e poiché il corpo di Cristo è vivo di vita immortale, l’anima segue, per così dire, il corpo, dal quale è ormai inseparabile. Ora, se l’anima è nell’Eucaristia solo per la sua unione con il corpo, è evidente che essa non vi rimarrà senza di esso. Ne deriverebbe, inoltre, un’altra conseguenza che il buon senso e la filosofia rifiutano: è che quest’anima, inseparabile da un corpo immortale, sarebbe allo stesso tempo separata da esso, poiché rimarrebbe dove ha cessato di essere. – Per essere nel vero, rappresentiamo la carne di Gesù Cristo, nell’Eucaristia, come lo strumento con cui la divinità ci tocca nel modo più profondo del nostro essere per comunicarci la sua vita. Ora, a questo scopo, un contatto è sufficiente. Non fu forse in questo modo che il Salvatore risuscitò la figlia di un principe della sinagoga e che operò quell’altra guarigione che gli faceva dire: una virtù è uscita da me? Ma allora, mi direte, l’unione eucaristica non è più un’unione; è al massimo una visita di pochi istanti, un contatto transitorio. Sì, senza dubbio, se si guarda solo all’unione corporea; no, se si tiene conto del fine per il quale Gesù Cristo ci ha donato il suo corpo come cibo e il suo sangue come bevanda e l’effetto che producono: l’unione della carne di Gesù Cristo con la nostra carne ha il suo compimento nell’unione permanente dello spirito, che essa realizza simboleggiandola. – Questo è ciò che spiega mirabilmente il nostro grande Bossuet in una magnifica pagina che trascriverò interamente, tanto essa getta luce sulla questione che ci occupa. Egli voleva mostrare, a gloria di Maria, quanto l’alleanza spirituale, questa alleanza che si realizza con la grazia, sia stretta e perfetta, tra Gesù e la sua divina madre, « poiché deve essere giudicata in proporzione a quella del corpo ». Ecco come parla: « Permettetemi, vi prego, di approfondire un sì grande mistero e di spiegarvi una verità che non sarà meno utile per la vostra istruzione di quanto sarà gloriosa per Maria. Questa verità, Cristiani, è che Nostro Signore Gesù Cristo non si unisce mai a noi con il suo corpo se non con l’intenzione di unirsi più strettamente nello spirito. Tavole mistiche, banchetto adorabile, e voi, altari santi e sacri altari, vi chiamo a testimoniare la verità che vi sto proponendo. Ma siate voi stessi testimoni, voi che partecipate a questi santi misteri. Quando vi siete avvicinati a questa mensa divina, quando avete visto Gesù Cristo venire a voi nel suo stesso Corpo, nel suo stesso Sangue, quando in voi lo ha messo la bocca, ditemi, avete pensato che volesse fermarsi al corpo? Dio non voglia che tu lo abbiate creduto, e che lo abbiate ricevuto solo nel corpo Colui che corre da voi per cercare la vostra anima. Coloro che l’hanno ricevuto in questo modo, che non sono uniti nello spirito a Colui di cui hanno ricevuto la carne adorabile, hanno invertito il suo proposito, hanno offeso il suo amore. Ed è questo che fa dire a san Cipriano queste belle ma terribili parole: Vis infertur corpori et sanguini (Lib. de lapsis). – « E cos’è, fratelli miei, questa violenza? Anime sante, anime pie, voi che sapete gustare Gesù Cristo in questo adorabile mistero, voi intendete questa violenza: Gesù cercava il cuore, ed essi lo hanno fermato nel corpo ove Egli non voleva passare; essi hanno impedito a questo Sposo celeste di completare nello spirito la casta unione a cui aspirava: essi lo hanno costretto a trattenere il flusso impetuoso delle sue grazie con cui voleva inondare le loro anime. Così il suo amore subisce violenza; e non dobbiamo stupirci se, violato in questo modo, passa all’indignazione e al furore: invece della salvezza che ha portato loro, opera la loro condanna in loro; e ci mostra con la collera, la verità che ho esposto, cioè che quando si unisce corporalmente, vuole che l’unione dello spirito sia proporzionata all’unione del corpo. (Bossuet, de serm. sur la nativ, de la sainte Vierge, 2° part.). L’ultima parola del mistero è che Cristo è nella sua umanità la via che ci conduce alla sua divinità; lo è con la sua dottrina, con i suoi esempi, con i suoi meriti; lo è, in modo più forte e dolce, con la comunione della sua carne e del suo sangue nel Sacramento eucaristico.
3. – L’Eucaristia, principio di unione tra il Dio-Uomo e ciascuno dei fedeli, è anche la causa dell’unione che deve legare le membra nell’unità del Corpo mistico di cui Gesù Cristo è il capo. Il Salvatore stesso ce lo fece capire quando, dopo aver istituito questo adorabile Sacramento e averlo distribuito ai suoi Apostoli, pronunciò questa memorabile preghiera: « Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola; Io sono in loro e Tu in me, perché siano una cosa sola . Io sono in loro e voi in me, perché si consumino nell’unità » (S. Giov. XVI, 11, 21-23). Questo è il frutto naturale dell’Eucaristia che Egli chiede al Padre per loro. Il grande Apostolo lo aveva capito bene, perché così parla di questo Sacramento dell’unità nella sua prima lettera ai Corinzi: « Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse la comunione del sangue di Gesù Cristo, e il pane che spezziamo non è forse la partecipazione al corpo del Signore? Poiché c’è un solo pane, siamo tutti un solo corpo, tutti noi che partecipiamo allo stesso pane » (1 Cor. X., 16-17). – Ammiro questa meravigliosa unità che regnava nei primi tempi della Chiesa, « quando la moltitudine dei credenti era di un sol cuore e di un’anima sola, e nessuno considerava come proprio ciò che possedeva » (Atti IV, 32). Ma da dove pensate che provenisse questa concordia e questa unità? Ascoltate: « Erano perseveranti nell’insegnamento degli Apostoli, nella comunione della frazione del pane e nelle preghiere. E coloro che credettero, vissero insieme, e avevano tutte le cose in comune… Continuavano ogni giorno nel tempio, uniti nel cuore e nella mente, e spezzavano il pane nelle loro case » (Atti II, 42-46). La comunione della frazione, ricordata sia all’inizio che alla fine di questo delizioso quadro, ci dice abbastanza chiaramente da dove ha avuto origine questa comunità, senza pari nella storia del mondo. Non mi sorprende, quindi, sentire il Santo Concilio di Trento chiamare l’Eucaristia « segno dell’unità, vincolo della carità, simbolo della pace e della concordia » (Sess. XIII, c. 8), e presentarcela «come l’emblema divino di quell’unico corpo di cui Gesù Cristo è il capo, e al quale noi dobbiamo essere legati come membri dal più stretto vincolo di fede, speranza e carità” (ibid. c. 2). Questo è stato anche il pensiero del IV Concilio Lateranense quando ha insegnato che Cristo ci ha dato il suo corpo e il suo sangue « affinché, per completare il mistero dell’unità, ricevessimo dal suo ciò che lui ha ricevuto dal nostro » (Conc. Later. IV, cap. Firmiter). – I Padri sono inesauribili quando celebrano questo evento così importante del sacramento dell’altare. Si compiacciono di mostrarla visibilmente espressa dalle sostanze materiali, i cui accidenti esterni sono l’elemento sensibile della divina Eucaristia. Queste migliaia di chicchi di grano pestati insieme per formare un’unica pagnotta, tutti questi grappoli che versano il loro delizioso succo per riempire un’unica coppa, rappresentano per loro quell’unità dei fedeli che, nell’intenzione del Salvatore Gesù, il sacramento deve produrre simboleggiandola: perché, non bisogna mai dimenticarlo, ciò che il sacramento simboleggia, lo fa. (S. Gaudent, Brix, serm. 2, Pat. L., 120, p. 860, e S. August, passim). Un’altra immagine efficace dell’unione dei Cristiani. Quale altra efficace immagine dell’unione dei Cristiani tra loro se non questo « banchetto comune delle anime » (“Mensa communis animarum“, Gulielm. Paris, de sacr. alt., 2), dove tutti vengono a sedersi, ospiti dello stesso Dio, figli della stessa madre, mangiando lo stesso pane e bevendo la stessa bevanda. In tutte le epoche storiche, le feste hanno avuto il privilegio di essere segno e principio di unione. L’antichità sacra e profana ce ne offre infiniti esempi (Fustel de Coulanges. La cité antique, c. 7. La religion et la cité, p. 179, ss). Condividere lo stesso cibo, bere la stessa coppa, soprattutto quando questa coppa e queste carni erano state consacrate come un’offerta alla divinità, era di stipulare un’alleanza che non poteva essere infranta senza una specie di sacrilegio. Questo è ciò che producono i banchetti della terra. Quale deve essere allora, mio Dio, la virtù di questo cibo divino che hai preparato per noi nel tuo infinito amore per unirci tutti, poveri e ricchi, grandi e piccoli, nell’unità dello stesso cuore e dello stesso corpo? Alla vostra tavola non si condivide un cibo ordinario, ma il vostro unico Corpo e il vostro unico Sangue, che tutti ricevono per intero: il Corpo e il Sangue di un Dio. – Oserò dire ciò che ho letto nel più grande e più santo dei nostri e il più santo dei nostri Dottori? Con il potere di questo cibo sacro diventiamo concorporei e consanguinei tra di noi. « Perché riceviamo il santo elogio? Non è forse così che Cristo può abitare in noi corporalmente, attraverso la comunione della sua sacra carne? L’Apostolo ha scritto divinamente delle nazioni che sono diventate concorporee, co-partecipanti e coeredi di Cristo (Efes. III, 6). E come sono diventati concorporei? Attraverso la partecipazione all’Eulogio mistico, cioè l’Eucaristia (S. Cirillo Alessandrino L. IV, c. 4, c. Nestor, P. Gr; t. 76, D. 193). Così parla San Cirillo di Alessandria. Ora, fa notare a sua volta San Cirillo di Gerusalemme, questa unione dei fedeli poggia su un’altra unione: infatti, ricevendo il corpo e il sangue di Cristo, siamo con Lui dello stesso corpo e dello stesso sangue, noi diventiamo veramente cristofori, attraverso l’ingresso nelle nostre membra di quella carne e di quel sangue divino (S. Cyrillus Hieros, Catech. 22, n. 3, P. Gr. 33, p. 1100).
Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)
Morcelliana Ed. Brescia 1935
Traduzione di Bice Masperi
CAPITOLO I
LA VITA IN DIO
2. – Gesù Cristo, il Verbo Incarnato.
L’eterno Figlio di Dio si è incarnato sulla terra nella persona dell’uomo Cristo Gesù per darci tutto se stesso, per farsi una cosa sola con noi e per potere, una volta associata a sé l’umanità, risollevarla all’altezza da cui era caduta e restituirle la dignità di vera figlia di Dio. È questa la dottrina che troviamo alla radice del credo cristiano, senza la quale esso non differisce in nulla da qualunque altro credo fondato unicamente sulla natura e sulla ragione. Gesù Cristo, l’Uomo-Dio, vero Dio e vero uomo, e non semplicemente uomo dotato di una particolare unione con Dio, ha vissuto su questa terra la nostra vita, ha reso a Dio suo Padre che è nel cielo il perfetto ossequio di un uomo perfetto. Si è fatto capostipite della razza umana e se ne è addossato i dolori, perfino i peccati e le iniquità. Quei peccati ha portato al Padre e, umiliato dinanzi a Lui, se ne è confessato colpevole. Siccome da sé l’uomo non poteva espiarli, Egli si è offerto per espiarli in sua vece in quanto uomo. Dio ha accettato l’offerta, e Cristo l’ha consumata fino all’ultima stilla del calice amaro. Così Cristo Gesù è il nostro benefattore, il nostro amico, e il debito che abbiamo verso di Lui è incommensurabile: per tutta l’eternità dovremo cantare le lodi di Colui che ha tanto fatto per noi. – Il Cattolico si compiace nel pensare a quanto deve a Gesù Cristo, a quanto Egli ha fatto e continua a fare a suo vantaggio, “sempre vivo a intercedere per noi”. Vede in Lui non solo il Cristo storico limitato nel tempo e nello spazio, ma il mediatore eterno fra il peccatore, e il Padre offeso, « ieri e oggi e per sempre lo stesso ». E mediatore Egli è, non solo per concessione ma anche di diritto, ché, unendo in Sé la natura di Dio e quella dell’uomo, Egli nacque proprio per questo ufficio. Lo dice il suo stesso nome, impostogli prima che nascesse: « Lo chiamerai Gesù perché Egli libererà il suo popolo dai suoi peccati ». Come capo del genere umano, “il primogenito di ogni creatura”, Egli ha il diritto e la prerogativa di agire quale intermediario presso il Padre. Ma di ciò non fu pago; non volle essere solo un superuomo che fa atto di degnazione verso i suoi sudditi; volle esser “fatto in tutto simile all’uomo eccetto che nel peccato”, volle “addossarsi tutti i nostri dolori”, volle prender sulle sue spalle la nostra croce per poter trattare col Padre come uno di noi. Una simpatia e una compassione infinita per l’umanità, un amore che doveva essere eterno, intensificato, se così ci è lecito esprimerci, dall’esperienza della sua vita umana, tutto doveva influire e premere su Lui perché intercedesse in favor nostro. Tale è il significato di quello “spogliamento di se stesso” su cui San Paolo tanto insiste. D’altra parte, come Dio Egli è uguale al Padre e allo Spirito Santo e ha libero accesso ad entrambi. Può andare al Padre come Figlio diletto in cui il Padre stesso si è compiaciuto, può parlargli per diritto suo proprio e pretendere di essere ascoltato. Perciò, sia dalla parte dell’uomo che da quella di Dio, Egli sta, unico mediatore degno e sufficiente fra i due. È questo per il Cattolico il significato primo della vita di Cristo sulla terra. Egli ha voluto prender su di sé anche il terribile peso delle tentazioni dell’uomo: “Noi non abbiamo un sommo sacerdote che non possa compatire le nostre debolezze; ma invece è stato provato in tutto a somiglianza di noi, salvo il peccato” (Ebr. IV, 15). Precisamente perché l’uomo aveva ceduto a tutte quelle tentazioni Cristo si è offerto come vittima. Ha consumato un olocausto perfetto, assoluto, col sacrificio di Sé sul Calvario, nell’obbedienza e nell’amore fino alla morte, e amore di cui maggiore non esiste, pagando di persona la disobbedienza dell’uomo, il suo difetto di amore. E il valore espiatorio di questo sacrificio risulta infinito, in primo luogo per l’infinito valore della vittima che spontaneamente si immolò, in secondo luogo per la misura stessa della espiazione. Poiché non era affatto necessario arrivare a tali estremi. Un semplice atto d’ossequio di Cristo Signore sarebbe stato sufficiente a soddisfare ogni giustizia. Se fosse perito fanciullo, vittima di Frode a Betlemme, se anche fosse morto appena nato, fra le braccia della Vergine, agli occhi del Padre questo Figlio del suo amore avrebbe fatto abbastanza per redimere il mondo. Ma non sarebbe stato abbastanza per soddisfare la sete di amor divino che ardeva nel cuore di Cristo. “Cristo mi ha amato e ha dato se stesso per me”. Non volle offrire una soddisfazione qualsiasi; volle soddisfare finché non gli rimanesse più nulla; volle “spogliarsi di se stesso”, darsi tutto fino ad annientarsi. Per esser pago dové darsi fino all’estremo, affinché “dove abbondò la colpa più abbondasse la grazia… per Gesù Cristo nostro Signore”. (Rom. V, 20) e siccome “non esiste amore più grande di questo, dare la vita per l’amico” Egli doveva eguagliare il suo amore a tale prova suprema anche se non lo esigeva la stretta giustizia. – Così, a questo prezzo, il nostro mediatore ha ottenuto all’uomo non solo perdono e re.denzione: gli ha conquistato anche tutte quelle altre grazie e possibilità che lo innalzeranno ad una più intima unione con Dio. In questa luce San Paolo riassume più volte l’opera del suo Signore e Salvatore: “Benedetto Iddio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo, il quale ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale, celeste, in Cristo, in quanto ci ha eletti in Lui, prima della fondazione del mondo a esser santi e irreprensibili nel suo cospetto, per amore avendoci predestinati a esser figli suoi adottivi per mezzo di Gesù Cristo, secondo la benignità del suo volere, sì che ciò torni a lode della gloriosa manifestazione della grazia sua di cui ci fece dono nel suo diletto Figliolo. In Lui noi abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia” (Efes. I, 3, 7.). Tutto questo ha fatto Nostro Signor Gesù Cristo con la sua vita e la sua morte, tutto questo ha ottenuto all’umanità, quale mediatore di essa. Ma ha fatto di più. Per incoraggiare e sostener l’uomo nello sforzo verso le cose più alte, per dargli maggior forza e fiducia di quelle che gli siano naturalmente possibili, Cristo ha istituito e ci ha lasciato quello che conosciamo col nome di sistema sacramentale. Ha dato al Padre, come provenienti dall’uomo, la propria vita e il proprio sangue; ha dato all’uomo, come provenienti dal Padre, quei doni gratuiti di forza soprannaturale, quei sette segni esteriori atti a conferire realmente le grazie che significano. – Perché l’uomo possa meglio affrontare ogni momento importante della vita, perché più sicuramente adempia in Gesù Cristo ai doveri inerenti ad ogni condizione, perché viva sulla terra per quanto è possibile la vita stessa di Cristo, questi gli ha offerto quei canali di grazia che gli saranno prontamente aperti se vorrà e ogni volta che vorrà. Il sangue di Cristo è stato dato al Padre, e dal Padre vien restituito all’uomo per mezzo dei sacramenti. Essi sono come le vene del Corpo mistico di Cristo, che portano e dispensano ad ogni membro il sangue di Lui e con esso la vita. Di più, purché gli uomini lo vogliano, Cristo ha dato a ciascuno il potere che da sé non avrebbe di dare al Padre una soddisfazione degna e di acquistar meriti per se stesso. Sappiamo che nell’ordine soprannaturale l’uomo naturale non può, da solo, far nulla di meritorio; ma egli “tutto può in Colui che lo conforta”. Incorporato a Cristo nel vero senso che considereremo più innanzi, l’uomo partecipa alla vita di Lui, le sue azioni sono identificate a quelle del suo Signore e Maestro allo stesso modo che nostre sono le opere delle nostre mani. Così, come il tralcio è alimentato dalla linfa stessa della vite e dà per ciò frutti che da sé solo mai potrebbe dare, le azioni dell’uomo innestato in Cristo sono tutte impregnate è principio di quella carità divina di cui Egli e sorgente. Con Lui, in Lui e per Lui, esse diventano azioni soddisfattorie in se stesse, ossia accette a Dio non nell’ ordine della natura ma nell’ordine della grazia, degne di merito, feconde di bene. – In terzo luogo, Cristo è mostro mediatore nel campo dei nostri doveri di religione, ossia dei doveri che abbiamo verso Dio. È fine funzione propria della creatura dar gloria al suo Creatore, come l’opera d’arte dà gloria all’artista che con la propria mano la foggiò. – “I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento”. (Sal. XVIII, 1). Ma per la creatura dotata di facoltà superiori, come l’intelligenza e il libero arbitrio, sarà doveroso dare a Dio una gloria ancor più grande e corrispondere alla fiducia che in lei ha posto il suo Creatore, allo stesso modo che un ministro del re, depositario delle insegne e dei pieni poteri di lui, tanto più lo onora quanto più di lui sa rendersi degno, ovunque si trovi. E come il quadro consegue la sua gloria massima mel procurar gloria all’artista che lo dipinse, come il libro vale a cagione dell’autore ch’esso rivela, altro non essendo la sua sapienza se non il riflesso della mente che lo concepì, come un ministro del re è maggiormente onorato quando più è degno di lui, così la creatura trova la sua gloria più alta nel rifletter la gloria di Dio suo Creatore, l’uso più degno della sua ragione nel manifestare il pensiero di Lui, e il miglior impiego della sua esistenza nel viverla a servizio di Lui. Eppure, anche quand’è più splendida, che cosa meschina è mai la gloria che da sé la creatura può dare al Creatore! E quanto più meschina, se si considera la condizione decaduta dell’uomo! Ma ecco che Cristo viene in suo aiuto. Ora finalmente, unita a Lui, la creatura può lodare e onorare il suo Dio, può rendergli omaggio e servizio con labbra e con mani degne, con un’anima e una volontà, un amore e una testimonianza d’amore degni di Dio. La creatura può esprimere il proprio cuore in unione al cuore di Cristo, e Dio Padre trova tale espressione degna di essere ascoltata. Anzi, dato che Cristo vive nella sua creatura, Egli le comunica il suo stesso potere di render lode e reverenza e gloria. E allora, quando la creatura parla, non son più parole sue quelle che pronuncia, ma in lei parla lo stesso Cristo Gesù. Egli non è soltanto il nostro Mediatore sommo e sufficiente che in sé rinnova tutte le cose: è anche il nostro Sacerdote, il Sommo Sacerdote della nuova legge. Alla lettura del Vecchio Testamento ci colpisce il fatto che la religione ivi descritta si accentrava tutta nel sacerdote e nel suo sacrificio. E non meno ci sorprende il vedere come la profezia di Colui che doveva venire lo annuncia “sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec”. – Dopo la sua venuta e la sua dipartita, non conosciamo commento migliore all’opera sua dell’Epistola agli Ebrei, ed è precisamente quella che verte tutta sul sacerdozio di Cristo nostro Signore. Anzi lo considera non solo come Sacerdote, ma come l’unico vero Sacerdote della nuova Alleanza e mostra il suo Sacrificio come unico. Prima di Lui tutti i sacrifici non erano stati che simboli, ma il Sacrificio di Cristo fu molto di più, fu Sacrificio reale, fu addirittura il Sacrificio di se stesso. E non potendo morire che una sol volta, il Sacrificio offerto non poté essere che uno, ma tale da compensare ampiamente ogni debito. Sotto questa luce, l’Epistola agli Ebrei e varie altre riassumono l’opera e il significato di Cristo sulla terra. “Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi, oblazione e sacrificio a Dio, profumo di soave odore”. (Efes. V, 2). “Poiché uno è Iddio, uno anche il mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo, colui che diede se stesso prezzo di riscatto per tutti; testimonianza fatta nel suo proprio tempo”. (I Tim. II, 5, 6). “Cristo, essendo venuto come sommo sacerdote dei beni avvenire, attraverso un più grande e più perfetto tabernacolo, non fatto da mano d’uomo, cioè non di questa creazione, né per il sangue di capri e di vitelli, ma mediante il proprio sangue, entrò una volta per sempre nel Santuario, ottenendoci una redenzione eterna. Se il sangue di capri e di tori e la cenere d’una giovenca sparsa su quelli che sono immondi li santifica rispetto al procurare la purità della carne, quanto più il Sangue di Cristo il quale per via dell’Eterno Spirito offrì se stesso immacolato a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché rendiamo culto al Dio vivente? Per questo Egli è mediatore d’un nuovo patto, affinché, avvenuta la sua morte allo scopo di redimere i trascorsi commessi sotto il patto di prima, i chiamati ricevano l’eredità eterna loro promessa”. (Ebr. IX, 11, 15). – In altre parole, Nostro Signore Gesù Cristo, il nostro Sommo Sacerdote espiò i peccati del mondo col sacrificio di se stesso, l’olocausto del proprio sangue. Egli ha stretto un patto nuovo fra Dio e l’uomo; per Lui che si è immolato Dio e l’uomo sono riavvicinati. Ecco il significato e la portata della Passione e Morte di Gesù Cristo secondo il pensiero cattolico, ecco perché i Cattolici tengono in sì gran conto il segno della croce e il crocifisso. Per loro la Passione è assai più che un atto sovrumano di coraggio morale e di amore, assai più che la massima fra le tragedie umane. È il solenne sacrificio, nel senso più stretto del termine, di una vittima spontaneamente immolata. “Fu offerto perché lo volle”, “da un sommo sacerdote misericordioso e fedele perché fossero espiate le colpe del popolo”. (Ebr. II, 17). L’effusione di quel sangue ha purificato il mondo, ha cancellato la sentenza che pesava sull’uomo decaduto. Sul Calvario si compì l’opera della riparazione, la Redenzione: “Ecco l’Agnello di Dio che cancella i peccati del mondo”. Sul Calvario, con un atto spontaneo di perfetta obbedienza e di amore perfetto, si compì un sacrificio perfetto e completo da un sacerdote perfetto in una vittima pure perfetta. La giustizia fu completamente soddisfatta e l’amore perfettamente appagato: per la prima volta si diede a Dio sulla terra gloria perfetta e l’uomo fu salvo e redento. Il senso intimo e pratico di tutto ciò per i Cattolici fu espresso magnificamente da S. Bernardo in uno dei suoi sermoni: – “Gesù piange, ma non come gli altri o almeno non per lo stesso motivo. Negli altri prevale il sentimento, in Lui l’amore. Gli altri piangono per ciò che soffrono; Egli piange per compassione di ciò che gli altri soffrono o soffriranno. Essi deplorano il giogo pesante che grava sui figli di Adamo; Egli geme per quello che gli stessi figli d’Adamo si sono imposti volontariamente, per il male che hanno commesso. Per quel male, anzi, Egli versa ora le sue lagrime e più tardi verserà il suo sangue. “Oh, durezza del mio cuore! Volesse Iddio che, come il Verbo si fece carne, il mio cuore divenisse un cuore di carne invece che di pietra qual è adesso! È questa la tua promessa secondo il profeta che disse: “Strapperò dai loro precordi il cuore di sasso e vi sostituirò un cuore di carne » (Ezech, XI, 19). Fratelli, le lagrime di Cristo mi riempiono di confusione e di dolore. Io banchettavo fuori nel cortile, mentre nel segreto della dimora del Re si firmava la mia sentenza di morte. Il Figlio unigenito del Re ne ebbe sentore: depose la corona, si vestì di sacco, si cosparse il capo di cenere, si tolse i calzari e uscì piangendo e gemendo per la condanna di questo povero piccolo schiavo. Lo vedo comparire improvvisamente e la stranezza di questo spettacolo mi sbalordisce. Domando di che si tratta e apprendo la verità. Che cosa debbo fare? Potrò continuare nelle mie vanità, rendendo vane così le sue lagrime? Sicuramente non posso che esser sciocco e insensato se non voglio seguirlo, se non voglio piangere con Lui. – “Ecco il motivo della mia vergogna; che dire del dolore e del timore?….. “Io ignoro tutto di questa tremenda verità. Mi ritenevo tranquillo e sicuro, ed ecco è mandato il Figlio di una Vergine, il Figlio dell’Altissimo, e vien messo a morte perché le mie piaghe sian risanate col balsamo del suo Sangue prezioso. “Il Figlio di Dio è tutto tenerezza e compassione e piange: potrà l’uomo esser testimonio della Passione e ridere?”. – Rimaneva e rimane per ogni uomo che viene in questo mondo da accettare e da applicare a se stesso i frutti di quel Sacrificio, la carità, la soddisfazione, i meriti del Redentore divino. E perché l’uomo possa far ciò nel modo più completo e possa, in ogni tempo e in ogni luogo, sempre dar gloria a Dio in modo degno di Lui e applicare a se stesso la sovrabbondanza dei meriti della Redenzione, Cristo istituì alla vigilia della sua Passione, un memoriale di essa. In questo “memoriale” o sacrificio, sotto le specie o apparenze del pane e del vino, il “sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec” continua ad offrirsi come vittima per noi tutti e continuerà ad offrirsi sino alla fine dei secoli. – Così Cristo ha riconciliato l’uomo con Dio. Ma per l’uomo ha fatto ancor di più. Non avrebbe potuto venire nel mondo e per il mondo, per poi lasciarlo a dibattersi come prima nella sua desolata oscurità. Egli è la luce che deve venire in questo mondo a illuminare ogni uomo che in Lui crede. Egli stesso più di una volta si definì in questo modo: era la luce; e la luce è la vita dell’uomo. Se osserviamo bene possiamo constatare com’Egli abbia sempre assolto il suo compito: fin dalla venuta di Cristo sulla terra, dovunque è giunta la sua influenza, la vita del mondo si è rinnovata. E anche ora, vediamo come questa diffusione di luce continua. Quando Cristo venne sulla terra, la cultura pagana, tanto sostenuta dalla ragione, aveva ormai fatto il suo tempo; i suoi stessi filosofi non vi credevano più, i suoi addetti l’avevano sorpassata, le superstizioni si succedevano, gli uomini non sapevano più che cosa credere, né se ne preoccupavano gran che. Le forme erano mantenute, ossia l’apparato esteriore della religione, perché sembrava che senza di quello la civiltà stessa dovesse soccombere. Ma le forme non avevano più alcun significato, o, se ne avevano, era spesso il contrario di quello primitivo. Anche fra i Giudei si verificava un regresso, un pervertimento di ideali, una sostituzione di convenzioni alla verità. Credevano ancora nell’unico vero Dio, ma era soltanto il Dio di Abramo. La legge aveva divorziato dalla religione, si era fatta fine a se stessa e non più mezzo, e ne era seguita una schiavitù intollerabile. – In questo ambiente venne Cristo. Ergendosi al disopra del legalismo, parlò “come uno avente autorità e non come gli Scribi” e l’autorità ch’Egli si arrogava era quella di messaggero diretto di Dio stesso. Egli restituì all’uomo quella religione dello spirito che ne formava l’aspirazione spontanea. La razza umana era miope per natura, errante “come gregge senza pastore dà come è sempre stata e sempre sarà, se lasciata a se stessa. Cristo le diede una guida sicura, la sua stessa infallibilità che stabilì per sempre nel suo Corpo mistico, la Chiesa vivente. Essendo Cristo Dio, e quindi “ieri e oggi il medesimo per sempre, la sua infallibilità è conseguenza logica della sua divinità. – Non si tratta semplicemente di storia e di evoluzione che sono, esse stesse, fallibili, ma poiché l’infallibilità è cosa più che umana deve necessariamente appoggiare sopra una base sovrumana. Si basa non sulla storia, ma su Cristo in persona che non può ingannarsi né ingannare, che ha promesso di essere coi suoi “sempre, fino alla consumazione dei secoli”, che visse e morì e risorse “per dare testimonianza alla verità”. Se ci avesse dato di meno, nulla avrebbe fatto più di quanto l’uomo già fece nella sua affannosa esitante ricerca della verità. La sua intera dedizione, invece, ci fa riconoscere l’unico sigillo degno della Parola di Dio nella perenne infallibilità di Lui. Veritas Domini manet in æternum: “La verità del Signore per mane in eterno”. – E il suop insegnamento è venuto a rispondere in ogni punto alle ansiose interrogazioni dell’anima umana. Che cos’era essa? Quale la sua origine e la sua ragione d’essere? Quale la sua meta, il suo fine? Cristo le rispose, come uno avente autorità e in nome di Dio stesso, che veniva da Dio e a Lui doveva ritornare, quel Dio che voleva esserle padre, che l’ aveva creata per Sè, che l’aveva santificata e benedetta oltre ogni possibile aspirazione, che con la sua Provvidenza si prendeva cura di lei ad ogni istante. Era venuta da Dio che l’amava di un amore eterno, l’aveva adottata e beneficata come figlia, le aveva infuso la sua stessa vita per farla capace d’innalzarsi al disopra di sé, oltre il limitato orizzonte di questo mondo sensibile, e di diventar membro della sua casa, del suo regno. Che cos’era dunque in se stessa? Arricchita di questa vita nuova l’anima acquistava una dignità e un’importanza tali che al loro confronto il mondo intero perdeva ogni valore. “Che cosa darà l’uomo in cambio della sua anima?” Non era più un essere qualsiasi, ma figlio adottivo della famiglia stessa di Dio, fratello del Verbo incarnato, membro del suo Corpo mistico, tralcio di Lui che è la vite, figlio della sua Chiesa fondata su una rocca che nulla potrà abbattere, creatura preziosa agli occhi stessi di Dio, perché acquistata col sangue del Figlio suo, l’eterno diletto Unigenito. Ecco l’anima umana come Cristo la vedeva e come la rivelò all’anima stessa. Era una concezione che superava quella di tutti i filosofi e i profeti venuti prima di Lui. L’uomo guardò in alto, dalle proprie tenebre, verso le altezze donde veniva la nuova luce, e fu un’esistenza nuova. Poiché, illuminata e rivelata da quella luce, la vita stessa assumeva altro significato e altro valore. Che cosa doveva essere, e per quale scopo? Non era più la tomba la sua meta, ma la casa di Dio Padre, non la conquista di beni effimeri, ma quella di una corona incorruttibile. La sua perfezione stava precisamente nella conoscenza di Dio, nell’amor di Lui accettato e ricambiato, nella rassomiglianza con Lui, come di figlio al padre, ogni giorno più accentuata e più perfetta; e tutto ciò faceva di questa vita meschina una cosa affatto diversa, ricca di significato e d’ideali nuovi, con una nuova meta e con la splendida certezza di un’altra vita in cui la morte sarà assorbita nella vittoria. Nessuna meraviglia che chi ascoltava Cristo rimanesse “stupito della sua dottrina”. (Matt. VII, 28.) Era dottrina umana e divina insieme, perfettamente consona alle aspirazioni dell’uomo, vera risposta alle sue domande, appagamento dei suoi sogni più alti, verità soprannaturale eppur sempre a portata della sua vita quotidiana. “Beati voi, o poveri, perché vostro è il regno di Dio”. “Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati”. “Beati voi che ora piangete, perché riderete”. « Sarete beati quando gli uomini vi odieranno e vi bandiranno dalla loro compagnia e vi caricheranno di obbrobrio, e ripudieranno come abominevole il vostro nome per causa del Figliuol dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno e tripudiate perché il vostro premio sarà grande nei cieli (Luca VI, 20, 25). – Nessuna meraviglia che i suoi nemici, avendolo udito, si allontanassero dicendo: “Nessuno mai ha parlato come quest’uomo”. (Giov. VII, 45). Perché parlava come uno che vedeva e sapeva cose che nessun altro poteva vedere e sapere, e ne discorreva con un linguaggio che nessuno ha mai uguagliato, con una chiarezza, un calore, una convinzione, una sicurezza, perfino con una padronanza di parola e di frase che di per sé era garanzia di verità. Egli era la Via, la Verità, la Vita. Si attribuì questi titoli e nessuno osò contestarglieli. Unico fra tutti gli uomini, Egli poté chiedere: “Chi di voi mi convincerà di peccato?” Egli solo poté promettere ed invitare: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. E non si trovò nessuno che osasse accusarlo di presunzione. Da ultimo, poiché non possiamo continuare all’infinito, notiamo che Cristo non si limitò alle parole. Fu modello perfetto di tutto ciò che insegnò, perfetto soprattutto forse perché appropriato ed accessibile ad ogni uomo che viene in questo mondo. Di nessuno si potrebbe asserire altrettanto, neppure dei migliori fra gli uomini. Incarneranno questo quell’ideale, saranno fulgidi esempi di questa o di quella virtù, ma se vogliamo esser giusti dobbiamo conceder loro, anche ai più grandi, il margine che è comune a tutta l’umanità. Cristo resta unico e solo. Non ha bisogno di nessuna concessione. La sua perfezione non è ristretta ad una qualità o ad una virtù; per quanto vi si cerchino limiti, non se ne troveranno. Si fece uomo, visse fra gli uomini la sua vita umano-divina, uguale in tutto agli altri, nascosto come si nasconde per lo più ogni vera grandezza obbediente come tutti dobbiamo esserlo quaggiù, mostrando in ogni suo atto come preghiera ed azione ogni siano intimamente unite, come l’uomo possa santificare e quindi render perfetta ogni prova e ogni avversità, ogni sconfitta come ogni successo. Insegnò con l’esempio e con l’esperienza, oltre che con la parola, la pazienza, la perseveranza e la speranza nell’afflizione, sopportò tutti i torti ch’Egli sapeva esser riserbati ai suoi futuri seguaci. Agonizzò nel corpo e nell’anima, sopportò il disprezzo degli uomini, l’ingratitudine, l’abbandono, il tradimento, il bisogno, l’insolenza, la crudeltà, l’ingiustizia, la vergogna, l’ignominia, ogni forma di male che può colpire l’umanità. Nessuno doveva mai poter dire che il suo destino fosse più crudele di quello di Cristo. – Eppure, sebbene la figura completa di Cristo sia quella di “verme, non uomo” in cui “non era apparenza che attirasse il nostro sguardo”, il suo esempio attrae irresistibilmente. “Quando sarò innalzato attirerò a me tutte le cose”. Così aveva detto una volta di Sé e, nel tempo, la profezia si è avverata. – Quella vittima innocente che tutto sopportò per puro amore di coloro che avrebbero dovuto soffrire in sua vece ha fondato una nuova civiltà; i suoi patimenti hanno portato frutto in questo mondo come nell’altro. La croce è apparsa nel cielo, e sul Cristo, sul Cristo crocifisso, è sorto il Cristianesimo. Attraverso i secoli Egli ha attirato a sé uomini e donne innumerevoli pei quali, a motivo di Lui, la sofferenza è diventata una gioia perché li ha resi tanto più simili a Lui, una cosa sola con Lui. E li ha fatti capaci di compiere in loro stessi “ciò che manca” alla passione di Lui, ha insegnato loro il modo di dargli prova d’amore, il mezzo medesimo con cui Egli dimostrò l’amor suo per essi. Ha reso loro possibile di partecipare alla sua vita e compiere, in Lui e con Lui, l’opera per la quale Egli visse e morì. Né il miracolo è esaurito: Cristo e la sua croce rimarranno l’ideale di milioni di esseri fino alla consumazione dei secoli; ché in quell’ideale, più che in ogni altro, è riposta la salvezza dell’uomo anche su questa terra.