6 Settembre (2022): inizio della NOVENA PER LA FESTA DEI DOLORI DELLA SS. VERGINE MARIA

6 Settembre, inizio della

NOVENA PER LA FESTA DEI DOLORI

(Venerdì di Passione e 15 Settembre)

(Giuseppe Riva: Manuale di Filotea, XXX Edizione, 1888, Milano- libr. edit. Serafino Majocchi)

La partecipazione di Maria alla passione di Cristo per cooperare con Lui all’universale Redenzione insinuò sempre come doverosissima una speciale devozione ai dolori per noi sofferti da questa divina Madre che Cristo medesimo dichiarò Madre nostra. Questa devozione però notabilmente aumentossi tra i fedeli dopo che i sette Beati Fondatori dell’Ordine dei Serviti, cioè Servi di Maria, fecero oggetto speciale del loro Ordine la propagazione del culto a Maria Addolorata, il che avvenne nel 1233. Quindi la Chiesa ne istituì una festa speciale nel Venerdì di Passione  e nella III Domenica di Settembre (poi 15 Settembre). La predilezione poi spiegata da Pio VII per questa devozione servì non poco a renderla sempre più cara a tutti i veri fedeli, siccome quella per la cui intercessione il Papa, dopo cinque anni d’esilio riuscì a tornare trionfante nella sua Roma, mentre il suo prepotente nemico Napoleone I era condannato  ad esiglio perpetuo in una lontanissima isola dell’Oceano, cioè S. Elena, il cui più vicino continente è distante non meno di 600 miglia, dove morì il 5 maggio 1821, mentre Pio VII continuò a regnare pacifico nella sua sede fino al 1823, dopo 23 anni e mezzi di gloriosissimo Pontificato.

[Il Pusillus grex cattolico è chiamato a sostenere oggi, con l’ausilio di questa novena ed invocando l’intervento e l’intercessione della Vergine, l’esilio del Sommo Pontefice S.S. Gregorio XVIII – ndr.].

I. Per quel sommo dolore che provaste, o gran Vergine, quando udiste l’amarissimo presagio che del vostro Figlio vi fece il santo vecchio Simeone, ottenete anche a noi di ricevere con ogni rassegnazione qualunque ancor e più triste annunzio, tutto riconoscendo da Dio a nostro maggior bene, e di consolare il vostro cuore coll’essere sempre non vostri persecutori, ma seguaci e adoratori fedeli del vostro Figlio Gesù. Ave

II. Per quel gran dolore che l’anima vi trafisse, o Maria, quando doveste fuggire in Egitto per sottrarre il vostro Figlio alla persecuzione di Erode, impetrate a noi pure di difendere e salvare l’onore dello stesso vostro Figlio, allorché lo vedessimo dai peccatori insultato e di vivere in mezzo alla gente non santa ed agli uomini iniqui, tra i quali ci trovassimo, con quella prudenza, esemplarità e religione con la quale anche Voi dimoraste tra gli Egiziani. Ave

III. Per quel dolore acerbissimo da cui foste travagliata, o Vergine santa, allorché al tempo della Pasqua, perdeste vostro Figlio, otteneteci di non perdere giammai, né col peccato, né colla tiepida vita, il divin vostro Bene che è pure il nostro; e se mai, per misera sorte lo perdessimo, di ricercarlo con quelle sante cure, vigilie e lacrime con cui lo cercaste Voi stessa, e così, a vostra imitazione, ci venga fatto di ritrovarlo. Ave

IV. Per quell’intenso dolore che il cuore vi oppresse, o Vergine pietosissima, nel presentarvi al vostro Figlio, quando, carico del doloroso legno, s’incamminava a morir sul Calvario, ottenete anche a noi di presentarci con viva fede, quando Egli a sé ci invita al grande memoriale di sua Passione, l’Eucaristia, e di usargli tutti quegli atti di tenerezza e di amor santo che Voi, in ogni circostanza usaste verso di Lui. Ave

V. Per quell’immenso dolore che il cuore vi inondò, o Regina dei Martiri, allorché vedeste tra mille spasimi e tormenti morir sulla croce in mezzo a due ladri il vostro dilettissimo Figlio, a noi pure impetrate di santamente affliggerci a sì tragico spettacolo, e di morire al peccato, per poter vivere una vita tutta nascosta e santa con Cristo in Dio. Ave

VI. Per quell’inesplicabil dolore che l’anima vi ferì ed impiagò mortalmente, o Vergine desolatissima, quando dalla croce vi fu deposto in seno l’esangue spoglia del vostro Unigenito, e conosceste quanti strazi e quante pene aveva Egli sofferto, a noi ancora ottenete di fermare spesso i nostri pensieri sul piagato e morto nostro divin Mediatore per poterci eccitare al più vivo dolore dei nostri peccati e al più acceso amore verso di Lui. Ave

VII. Per quel dolore amarissimo che quasi all’agonia vi ridusse, o Vergine inconsolabile, allorché doveste rendere a Nicodemo l’unico oggetto dei vostri amori, onde venisse imbalsamato e sepolto, fate che anche noi onoriamo continuamente il caro vostro Figlio coi preziosi aromi della penitenza e della mortificazione, e che, morti e consepolti con Gesù Cristo, risorgiamo con esso Lui a nuova vita di grazia per poter poi con Esso risorgere alla gloria immortale del Paradiso. Ave

Orazione

Æterne omnipotens Pater, qui Unigeniti Filii tui passioni dilectissima ejus Mater adstare voluisti, preces populorom tuorum popitiatus exaudi, et quos ad ipsius beatæ Mariæ virginis transfixionem devote recolendam evocasti, ejusdem gaudorium tribuas esse consortes, per eundem Dom…etc.

[Padre onnipotente ed eterno, che volesti sostenere la passione del tuo Figlio unigenito e della sua amata Madre, esaudisci propizio le preghiere del tuo popolo, e a coloro che hai chiamato a ricordare devotamente la trasfissione della beata Vergine Maria, concedi di poter condividere le stesse gioie. Per lo stesso nostro Signore … etc.]

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (19)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (19)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO OTTAVO

I doni dello Spirito Santo (3)

5) Il dono del consiglio è per eccellenza un dono di governo. Ora, suor Elisabetta della Trinità non fu Priora né in alcun modo incaricata delle anime; l’intera sua vita religiosa trascorse dal noviziato all’infermeria. E tuttavia possedette in sommo grado questo Spirito di Dio. Il dono del consiglio, del resto, se è più manifesto in chi è investito di autorità, non è meno necessario a tutte le anime per il perfetto orientamento della loro vita secondo i disegni di Dio… Nei superiori, assume la forma di una direzione prudente e soprannaturale che, anche nella organizzazione delle cose materiali, cura innanzi tutto il bene spirituale delle anime e si preoccupa di dare a Dio la più grande gloria; negli inferiori, insinua una docilità vigilante nel sottomettersi a tutti i voleri del Signore manifestati dai suoi legittimi rappresentanti; perché, prescindendo dai loro pregi o dai loro difetti, Dio solo parla in essi, e in essi merita di essere ascoltato. Il dono del consiglio si mostrò, in suor Elisabetta della Trinità, dapprima sotto questa forma di pronta docilità al suo direttore spirituale; giovinetta, lo consultava su tutto quello che concerneva il bene dell’anima sua, e si atteneva fedelmente a quanto egli aveva deciso; novizia, ricorreva in ogni occasione alla sua Priora, qualche volta anche per dei nonnulla, tanto bramava di essere interamente nella linea della divina volontà. Un testimonio afferma: « Bastava accennarle: — L’ha detto la reverenda Madre —; per farla andare in capo al mondo ». Lo Spirito di consiglio, infatti, non solo conduce le anime con ispirazioni individuali e segrete, ma le induce anche a lasciarsi dirigere e guidare. Più tardi, questo stesso dono prese in lei un’altra forma, più elevata. Leggendo la sua corrispondenza, si resta sorpresi e ammirati nel vedere con quale disinvolta agilità va ad adattarsi alla varietà straordinaria delle sue relazioni: membri della sua famiglia, bambine, giovinette, persone del mondo nelle situazioni più diverse, anime sacerdotali: alcune attendevano da lei la parola decisiva che le avrebbe orientate verso l’unione con Dio. Eppure, non vi è corrispondenza epistolare più spontanea e meno convenzionale di questa. Nulla di pedante e che sappia di predica o di lezione morale; ma sempre un grande spirito di discrezione, un tatto squisito, un senso perfetto delle situazioni. Sa aspettare degli anni, se è necessario, prima di insinuare delicatamente la parola di rimprovero che sconcerterà un’anima. « Addio! Quando sarò lassù, vorrai permettermi di aiutarti, di rimproverarti, anche, se vedrò che non darai tutto al Maestro divino; e questo, perché ti amo. Che Egli ti custodisca interamente sua, perfettamente fedele; in Lui, io sarò tua per sempre» (Ad un’amica). I lumi più sublimi sulla « lode di gloria » o sul mistero della Trinità sono messi alla portata di tutte le anime, espressi in forma chiara e di una semplicità così luminosa e serena, che conferisce alla sua spiritualità una nota singolare di equilibrio e di precisione dottrinale. E quante anime, proprio per questo, hanno fatto degli scritti di suor Elisabetta della Trinità la loro lettura più intima e cara! Questa facilità di trasposizione e di adattamento dipende direttamente dal dono del consiglio, il quale inclina le anime, dopo aver consultato le ragioni supreme della Sapienza del Verbo, a discernere i mezzi pratici più semplici e più rapidi per giungere alla sommità della unione divina attraverso le difficoltà innumerevoli della vita. E proprio questa è la forma caratteristica che prese in lei lo Spirito di consiglio. La sua missione non era di dirigere una comunità, ma di condurre una moltitudine di anime verso le profondità della vita trinitaria per il sentiero dello spogliamento assoluto e dell’oblio di sé, « fino al grande silenzio interiore che permette a Dio di imprimersi in esse, di trasformarle in Sé » (Lettera a suor Odilia – Ottobre 1906.

6) Con i doni della scienza, dell’intelletto, della sapienza, penetriamo nella psicologia più profonda dell’anima dei Santi. L’azione di questi doni superiori ci consente di sorprendere il loro atteggiamento più intimo e segreto di fronte al «nulla » della creatura e al « Tutto » di Dio. Di qui, la loro primordiale importanza nello studio di un’anima contemplativa. In suor Elisabetta della Trinità, ci danno la chiave della sua vita spirituale e della sua dottrina mistica. Lo Spirito di scienza dà l’esperienza delle creature alla luce della carità; dà la capacità di giudicarle secondo le loro proprietà contingenti e temporali, e anche di elevarsi, per esse, fino a Dio. – Sotto il suo impulso, un duplice movimento si determina nell’anima: da un lato, l’esperienza del vuoto della creatura, del suo nulla; dall’altro, la rivelazione, nel creato, dell’orma di Dio. Questo medesimo dono della scienza strappava lacrime a san Domenico quando considerava la sorte dei poveri peccatori, mentre ispirava a san Francesco di Assisi il suo magnifico « Cantico al sole », dinanzi allo spettacolo della natura. Entrambi questi sentimenti si trovano espressi in quel noto passo del « Cantico spirituale » di san Giovanni della Croce, in cui descrive il conforto e insieme il tormento dell’anima mistica dinanzi al creato, perché le cose tutte dell’universo le rivelano il passaggio del Diletto, mentre Lui si è involato e si cela, invisibile, fino a che l’anima, in Lui trasformata, Lo incontrerà nella visione beatifica. – Nei grandi convertiti — in sant’Agostino, per esempio, nelle sue Confessioni — questo dono riveste l’espressione di una dolorosa esperienza del peccato. Ma l’anima verginale di suor Elisabetta della Trinità non provò mai in questa forma acuta e tragica gli effetti del dono della scienza. Secondo il ritmo soave della sua anima contemplativa, esso tendeva piuttosto a divenire in lei un potente stimolo allo spogliamento ed alla perfezione. Le creature sono fallaci ed oppongono ostacolo alla pienezza della vita divina: bisogna considerare tutte le cose della terra come rifiuti per possedere Cristo; e in Lui bisogna tutto dimenticare. È il «nescivi» dell’ultimo « Ritiro ». L’anima sua vuole attraversare le creature senza vederle, per non fermarsi che nel Cristo. Tutta l’ascesi del silenzio si spiega e si comprende a questa luce: le cose create, tutte quante, valgono mai la pena di uno sguardo per chi, fosse pure una volta sola, ha sentito il Signore? Il dono della scienza presenta un’altra forma positiva, nei Santi: lo spettacolo delle creature, come un tempo nello stato di innocenza, le porta irresistibilmente a Dio. La voce possente del concerto della creazione esercitava a volte, in alcune anime contemplative, una tale forza di rimprovero, che si sentivano mormorare ai cieli e ai fiori: — Tacete, oh, tacete! Sotto la mozione dello Spirito di scienza, il salmista. cantava: « Cœli enarrant gloriam Dei. I cieli narrano la gloria di Dio » (Ps. XVIII, 2). A questo secondo aspetto piuttosto che all’altro bisognerebbe ricollegare i movimenti della grazia che suor suor Elisabetta della Trinità provava abitualmente dinanzi alle bellezze del creato; come per tutti i Santi, la natura era per lei il gran « libro di Dio ». Da fanciulla aveva amato i vasti boschi solitari, la maestosità selvaggia dei Pirenei, l’immensità dell’Oceano; aveva amato soprattutto gli spazi sconfinati di una notte stellata; allora il senso dell’infinito la soggiogava e il contatto della natura le dava intensamente il suo Dio. – A mano a mano che procederà nella vita, questi due sentimenti del dono della scienza si confonderanno in lei in un sentimento unico. La miseria della creatura e la coscienza del suo proprio nulla la risospingeranno in Dio solo. « Se guardo dal lato della terra, vedo la solitudine ed anche il vuoto, perché non posso dire che il mio cuore non abbia sofferto » (Lettera al Canonico A… – 4 gennaio 1904). « Come fa bene, allorché si sente la propria miseria, andare a farsi salvare da Lui! » (Lettera alla signora A… – 24 novembre 1905.). « Quando si considera il mondo divino che ci avvolge fin d’ora, nell’esilio, quel mondo in cui possiamo vivere e agire, come svaniscono le cose di quaggiù! Esse sono ciò che non è, sono meno che niente ». « I Santi, quelli sì, avevano capito la vera scienza, la scienza che ci separa da tutto e da noi stessi, per slanciarsi in Dio e non farci vivere che di Lui!» (Lettera alla signora A… – 24 novembre 1904.) Così si manifestava all’anima sua quella conoscenza rivelatrice del «nulla» della creatura e del «Tutto » di Dio, che lo Spirito di Gesù comunica a coloro che Lo amano e che la sacra Scrittura chiama la « scienza dei santi » (Sapienza, X-10.).

7) I grandi contemplativi, come le aquile, puntano i loro sguardi sulle eccelse vette. Essi sanno che il più debole lume intorno alla Trinità è infinitamente più delizioso della conoscenza dell’intero universo. Che cos’è infatti tutto il movimento degli atomi e delle creature uscite dalle mani di Dio, di fronte alla silente ed eterna generazione del Verbo che si cela nel Suo seno? Introdurci nelle profondità di questi abissi trinitari, è il compito dei doni contemplativi. A questa luce tutta deiforme, l’anima vede le cose con lo sguardo stesso di Dio; e san Giovanni della Croce osa dire che l’anima, giunta a questo grado di unione trasformante, partecipa al mistero delle processioni divine: della generazione del Verbo, della spirazione dell’Amore. Mediante la fede e la carità, irradiata da questa luce altissima dei doni, essa compie degli atti riservati a Dio e propri delle divine Persone. È, secondo la promessa di Gesù, « la consumazione nella unità » (San Giovanni, VII-23). Il concetto di « partecipazione » indica, nello stesso tempo, la distanza infinita — che rimane sempre fra Dio e la sua creatura — e una vera comunicazione, per grazia, della vita trinitaria. L’anima partecipa alla luce del Verbo e al movimento dell’Amore increato. « Particeps Verbi, particeps Amoris » (I q. XXXVIII, a. 1, in corpore), secondo l’audace formula di sanTommaso, così scrupoloso nell’esattezza dottrinale e sempre così misurato nei suoi termini.L’effetto essenziale del dono dell’Intelletto è proprioquello di far penetrare, quanto più profondamente è possibile,nell’intimo delle verità soprannaturali alle quali lafede invece si accontenta di aderire su semplice testimonianzaesteriore.Questa penetrazione amante e saporosa delle più alteverità divine, soprattutto del mistero trinitario che è l’oggettodelle sue predilezioni, non dipende dall’acutezza intellettualedel soggetto, ma dal suo grado di amore e dallasua docilità perfetta al soffio dello Spirito. I tocchi piùsegreti di questo Spirito non potremo afferrarli mai, sullaterra; sempre essi sfuggiranno alle nostre indagini, comeciò che vi ha di più ineffabile e divino nella vita dei Santi.Le tracce che ne possiamo sorprendere in suor Elisabettadella Trinità ci dicono come l’attività dello Spiritod’intellettonon ebbe in lei tutto il suo ampio respiro senon dopo l’entrata al Carmelo, a contatto con la teologiamistica di san Giovanni della Croce e nella lettura di sanPaolo, dopo le supreme purificazioni della sua vita di fede. Si possono ridurre gli effetti del dono dell’intelletto asei principali; una realtà divina, infatti, può celarsi: sottogli accidenti, sotto le parole, sotto le figure o le analogie.sotto le cose sensibili, nelle sue cause, nei suoi effetti.È chiaro che questo Spirito si manifesta in maniera differentissimasecondo le circostanze, le indoli diverse deiSanti e la loro missione; dona, ad alcuni, una intelligenzapenetrante delle sacre Scritture, ad altri il discernimentodel divino nelle anime, oppure una conoscenza particolaredell’anima di Cristo o del mistero di Maria, il senso dellaRedenzione, della Provvidenza, di questo o di quell’attributodivino, della Unità nella Trinità. Non si finirebbepiù se si volessero specificare i modi innumerevoli e variin cui questo Spirito d’intelletto essenzialmente multiformepuò comunicarsi agli uomini ed agli Angeli, secondo chepiace a Dio, per sua bontà, di rivelarci la sua gloria.In suor Elisabetta della Trinità, i doni dello Spirito Santo, come gli aspetti della sua vita spirituale, presero normalmente una forma Carmelitana. Nei suoi scritti, nella sua vita luminosa, si possono raccogliere tante prove rivelatrici dell’azione dello Spirito di intelletto. Il suo sguardo contemplativo si fissava a lungo, adorante, nella anima di Cristo nascosto nel tabernacolo sotto le apparenze eucaristiche. « Noi possediamo — diceva — la visione in sostanza, sotto il velo dell’ostia » (A Don Ch… – 14 giugno 1903). Il dono dell’intelletto le apre il libro delle sacre Scritture e gliene svela i reconditi sensi; manifestazione, questa, singolarmente evidente della azione dello Spirito di Dio nell’anima sua. Il suo modo di procedere più abituale è la parafrasi mistica condotta con una rara penetrazione. Senza costringere o svisare il senso letterale, ne trae la sua ammirabile dottrina spirituale; le frasi ispirate le servono come punto di partenza, come motivo per delle magnifiche elevazioni contemplative in cui la sua anima di Carmelitana trova diletto. Talvolta una sola parola della Scrittura le dona, per anni interi, « la luce di vita » (San Giovanni, VIII-12.). San Paolo le svela il « nome nuovo » che le indica da parte di Dio, quale sarà il suo ufficio per l’eternità, l’ufficio che deve però già iniziare nel tempo: « l’incessante lode di gloria alla Trinità ». Nell’ultima fase della sua vita, è ancora san Paolo che viene a definire, in una formula che le reca tanta grazia nell’anima, il suo programma supremo di trasformazione in Cristo: « la conformità alla di Lui morte » (Filippesi, III-10.). Basta, a volte, un semplice accostamento di testi, perché ne scaturisca luce divina nell’anima sua. « Siamo stati predestinati, per decreto di Colui che compie ogni cosa secondo il consiglio della sua volontà, affinché siamo la lode della sua gloria… Dio ci ha eletti in sé prima della creazione, perché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nella carità ». Se accosto fra loro queste due enunciazioni del piano di Dio « eternamente immutabile », posso concludere che, per compiere degnamente il mio di « laudem gloriæ », devo tenermi, in mezzo a tutto e nonostante tutto, « alla presenza di Dio »; anzi, l’Apostolo ci dice: « in caritate », cioè in Dio; « Deus caritas est »: e il contatto con l’Essere divino mi renderà « immacolata e santa ai suoi sguardi » (Ultimo ritiro, II.). Essere lode di gloria con l’esercizio continuo della presenza di Dio; ecco l’essenza della sua vocazione; e l’ha colta in san Paolo, con un solo sguardo. Ma un secondo movimento del dono dell’intelletto possiamo discernere in suor Elisabetta, movimento familiare alle anime pure e contemplative per le quali le minime cose sono, simbolicamente o per analogia, un richiamo alla divina presenza. « Quando vedo il sole penetrare e diffondersi nei nostri chiostri, penso che Dio invade così, come i raggi del sole trionfante, l’anima che non cerca che Lui » (Lettera a G. de G… – 14 settembre 1902). – Tutto l’universo visibile assume, nelle anime dei Santi, un senso spirituale che le eleva a Dio; il loro sguardo rivolge sempre al volto mistico delle cose. Una santa Caterina De Ricci non poteva vedere una rosa senza pensar al sangue redentore; e suor Elisabetta apparteneva alla stirpe di quelle anime verginali che sembrano aver ritrovato lo stato d’innocenza e leggono Dio nel libro del creato. Fino dalla sua entrata al Carmelo, essa Lo scopre negli infimi particolari della sua vita: « Qui — scrive — tutto parla di Lui » (A_M. L. M… – 26 ottobre 1902). « Al Carmelo, dappertutto c’è il Signore ». (Alla sorella, 1901). « Il Maestro è così presente, che si crederebbe sia lì lì per comparire nei lunghi viali solitari » (Alla zia – Pasqua 1903). Appena le viene annunciata la nascita di una nipotina, si informa della data del battesimo, perché vuole essere presente in ispirito nel momento in cui la Trinità santa scenderà in quell’anima, sotto i segni della rigenerazione cristiana. È il fiorire del simbolismo mistico: «Ogni cosa è un sacramento che le dona Dio » (Lettera alla signora A… – 1906). Vi è un altro aspetto del dono dell’intelligenza, particolarmente sensibile nei teologi contemplativi. Dopo le dure fatiche della scienza umana, d’un tratto, sotto un forte impulso dello Spirito, tutto si illumina: ed ecco che un mondo nuovo appare in un principio o in una causa universale: quali ad esempio, Cristo-Sacerdote, unico mediatore fra il cielo e la terra; oppure il mistero della Vergine Corredentrice che porta spiritualmente nel suo seno tutti i membri del Corpo mistico: o ancora il mistero dell’identificazione degli innumerevoli attributi di Dio nella sua sovrana semplicità e la conciliazione della Unità d’essenza con la Trinità delle Persone, in una Deità che oltrepassa all’infinito le indagini più acute e profonde di tutti gli sguardi creati. Ecco altrettante verità che il dono dell’intelletto approfondisce senza sforzo, saporosamente, nella gioia beatificante di una «vita eterna iniziata sulla terra », alla luce stessa di Dio. Due princìpi soprattutto attirarono e fissarono lo sguardo contemplativo di suor Elisabetta: l’influenza universale della Trinità che dimora nell’intimo dell’anima per santificarla e custodirla « immobile e in pace », sotto la sua azione creatrice; e l’attività redentrice di Cristo presente sempre in lei per purificarla e per divinizzarla: due punti cardinali della sua spiritualità. – In senso inverso, il dono dell’intelletto rivela Dio e la sua onnipotente causalità negli effetti, senza bisogno dei lunghi raggiri discorsivi del pensiero umano abbandonato alle proprie forze, ma con un semplice sguardo comparativo e per intuizione « alla maniera di Dio ». Negli indizi più impercettibili, nei minimi avvenimenti della sua vita, un’anima attenta allo Spirito Santo scopre d’un tratto tutto il piano della Provvidenza a suo riguardo. Senza ragionamento dialettico sulle cause, la semplice vista degli effetti della giustizia o della misericordia di Dio le fa intravedere tutto il mistero della predestinazione divina, del « troppo grande amore » (Efesini, II-4) che insegue, instancabile le anime per unirle alla beatificante Trinità. Attraverso a tutto, Dio conduce a Dio. – Quando si pensa alla limitata cultura religiosa di suor Elisabetta della Trinità, si resta stupiti delle pagine così profonde e luminose che ci ha lasciate sul mistero della Vergine e di Cristo, sull’abitazione di Dio nelle anime dei giusti, sulla lode di gloria che deve elevarsi, incessante, verso la Trinità adorabile. Il teologo attento deve concludere che tale conoscenza sopratecnica non può spiegarsi in quest’anima se non con l’esperienza di quella sapienza incomunicabile che Dio riserba « ai cuori puri» (S. Matteo, V-8.).

LA GRAZIA E LA GLORIA (19)

LA GRAZIA E LA GLORIA (19)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO IV.

L’ABITAZIONE SINGOLARE DI DIO NELL’ANIMA DEI SUOI FIGLI ADOTTIVI. IL FATTO E LA NATURA DI QUESTA ABITAZIONE.

CAPITOLO III

La grazia santificante, il legame necessario tra l’anima del giusto, figlio adottivo, e Dio inabitante. I due elementi dell’adozione: grazia creata, grazia increata.

1. – Non basta sapere che la Trinità tutta intera abiti nel cuore dei figli di Dio. Resta da cercare il nodo di questa ineffabile alleanza. Ora, questo legame non è altro che la grazia santificante; e questa è una verità che emerge con evidenza dai testi più volte citati (vedi, per esempio, L. II, c. 4.) nel corso di questo lavoro. « Miei cari, se ci amiamo gli uni gli altri (in altre parole, se abbiamo la carità), Dio abita in noi e noi in Lui » (I. Joan., IV., p. 113). (I. Giov., IV, 12). Ma, come sappiamo, la carità non può esserci senza la grazia santificante, dalla quale è necessariamente dipendente, e di conseguenza ciò che la carità fa, la grazia lo fa in essa e attraverso di essa. Perché Dio viene in noi? « Giacché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori » (Galati IV, 6). Che pensiero magnifico, e come ci mette davanti agli occhi tutta l’economia del nostro essere soprannaturale e della nostra adozione! Non era forse necessario che, dopo averci dato la partecipazione della sua natura e averci adottato come figli, Dio ci facesse entrare nella comunione dello Spirito che è nel Figlio, il primogenito del Padre? Ora, da dove viene questa filiazione che richiama lo Spirito, se non dalla grazia di cui è l’effetto formale? E così, in molti luoghi, la Sacra Scrittura, nella varietà delle sue formule, ci fa vedere la relazione naturale tra la grazia e l’inabitazione della Trinità nelle nostre anime. – Non stupiamoci, dunque, di vedere tutti i sapienti Dottori e gli illustri maestri della Scuola affermare questa connessione come essenziale. Nella prima metà del XIII secolo, alcuni discepoli di Pietro Lombardo, approfittando di un testo incompreso del Maestro delle Sentenze, inventarono una teoria più che singolare. Lo Spirito Santo – essi dicevano – può essere considerato da tre punti di vista principali: in se stesso: è l’amore del Padre e del Figlio; nell’anima dove abita: è la grazia nella volontà di questa stessa anima, èla carità con cui amiamo Dio. Di conseguenza, lo Spirito Santo da solo e senza alcun intermediario creato si unisce alle anime dei giusti. Andando ancora oltre, essi resero l’unione dello Spirito Santo con la volontà dell’uomo ad immagine dell’unione personale del Verbo con la natura umana. Come, dunque, il Verbo solo si è incarnato, anche se l’incarnazione è opera di tutta la Trinità; così, anche se le tre Persone uniscono lo Spirito Santo alla volontà, l’unione rimane esclusivamente propria di questo Spirito divino. Ne seguirebbe che Esso stesso sia la nostra carità non per appropriazione, ma per unione. Una tesi paradossale che essi confermavano con queste parole dell’Apostolo: « Chi aderisce al Signore è un solo spirito con Lui. » (1 Cor. IV, 17). Ho riportato questo antico errore negli stessi termini in cui lo espose San Bonaventura. S. Bonaventura lo espose, prima di combatterlo (S. Bonav. in I D. 17, p. 1, a. 1. q. 1). Riservando ad un altro luogo il giudizio da dare sull’unione singolarmente propria che essa suppone tra l’anima e lo Spirito Santo, citeremo qui soltanto le testimonianze della grande Scolastica a favore del dono creato della grazia, considerato come un mezzo ed un tratto di unione. Prima di tutto, ecco quello di Alberto il Grande. Perché Dio sia nei Santi in modo speciale, e non solo come è in ogni creatura, « è necessario che ci sia per mezzo dell’abitudine infusa della grazia… Infatti, Dio, questo nobilissimo Spirito, può unirsi all’anima spirituale solo per mezzo di una qualità creata che Egli infonde in quell’anima, e questa qualità la chiamiamo grazia » (Albert. M. in I D. 26.). Gli fa eco Alessandro di Halès, quando scrive: « Dio senza dubbio è in ogni creatura per essenza, per potenza e per presenza; ma solo la grazia può unirci a Lui con la conoscenza e con l’amore; e questo è il modo di unione che manca ai peccatori » (Alex. Halens., 3 p., q. 61, m. 2. A 3, ad 7 e 8). Poche righe prima, nel corpo dell’articolo, aveva scritto: « La grazia (ciò che rende un’anima oggetto della compiacenza divina) ha in colui che la possiede un doppio elemento: uno creato, l’altro increato. L’elemento increato è lo Spirito Santo che lo trasforma. L’elemento creato è la disposizione che rende l’anima capace di ricevere lo Spirito Santo, la forma che lo Spirito divino produce nell’anima, trasfigurata dalla sua influenza onnipotente. » E qual è questa disposizione? « Nient’altro che la deiformità dell’anima e la rassomiglianza divina. – Quæ dispositio non est aliud quam deiformitas et divina assimilatio” (Idem, 3 p., q.12, m.1). – Dopo i due maestri, ascoltiamo i discepoli, ma discepoli che, nella scienza come nella santità, hanno prevalso sui loro maestri. – Ricordiamo la risposta data da San Bonaventura a coloro che rifiutavano la grazia finita, con il pretesto che la sostanza dei doni soprannaturali è il Dono per eccellenza “Donum Dei altissimi“, cioè lo Spirito Santo: « Dire che lo Spirito Santo è la Sostanza dei doni, il Dono sostanziale, non è escludere il dono creato, ma includerlo. »  Poiché la ragione che dà per questo è una di quelle che si ripresenteranno quando dovremo trattare più espressamente del modo di unione, ne trascrivo qui solo un estratto. « Quando si dice che lo Spirito Santo ci sia dato, si afferma che è in noi come un oggetto di possesso. Ora noi lo possediamo quando abbiamo la facoltà di goderne, e questa facoltà la acquisiamo per il dono creato della grazia » (S. Bonav., II D. 26, a.1, q. 2, ad 1). – Su questo argomento capitale, il Dottore Angelico è in perfetto accordo, sia con i suoi predecessori che con il suo beato emulo, San Bonaventura. « La nostra unione con Dio – egli dice – si fa mediante la grazia abituale creata come sua causa, e per ciò in cui ha luogo l’unione; perché è nella somiglianza della grazia che l’anima diventa conforme a Dio e unita a Lui » (S. Thom. III D.13, q. 1, a.1, ad 1: – Dicendum quod unio nostri ad Deum est per gratiarm habitualem creatam sicut per causam et sicut id in quo est unio: quia in ipsa Similitudine gratiæ animam Deo conformatur et unitur »). Altrove, rispondendo agli sprovveduti discepoli del Maestro delle Sentenze, di cui abbiamo parlato prima, così li confuta: « Dio è presente nei Santi come non è presente nel resto delle creature. Ora, questa diversità di presenza non può avere la sua ragione d’essere in Dio, perché per sua natura Egli è assolutamente lo stesso per tutti. La causa di questa diversità deve dunque essere ricercata nella creatura in cui Egli fa la sua dimora speciale; cioè, questa creatura deve avere in sé qualcosa che non si ritrovi nelle altre. Ora, questo qualcosa non è l’Essere divino; perché ne seguirebbe che tutti i giusti sarebbero uniti allo Spirito Santo nell’unità di persona, allo stesso modo di come la natura umana è nei confronti della Persona di Cristo fatto uomo. Perciò è necessario che sia un effetto di Dio », cioè la grazia e la carità (S. Thom. In 1 D. 17, q.1, a. 1 in contra). – E questa prova gli sembra così convincente, che non si stanca di ritornarci ogni volta che lo stesso argomento si ripresenti sul suo cammino. Parlando della missione santificante dello Spirito Santo, egli osserva prima di tutto che una Persona divina non può essere né inviata, se non è in modo nuovo nella sua creatura; né data, se non è posseduta da essa. Ora – egli aggiunge – sia il dono che la missione presuppongono la grazia santificante. Da qui la conclusione: « È nel dono della grazia gratum facientis, che lo Spirito Santo è posseduto dagli uomini, ed in essi fa la sua dimora (« In ipso dono gratiæ gratum facientis Spiritus sanctus habetur et inhabitat hominem », 1 p., q. 43 a. 3, in corp.). Ma, per questo motivo, affinché l’umanità di Cristo gli sia sostanzialmente unita nell’unità della persona, sarebbe anche necessario interporre tra i due una perfezione creata, un legame necessario che li colleghi l’uno all’altro. Gli antichi Dottori avevano ammesso questa conseguenza. San Tommaso la respinge come incompatibile con l’unione sostanziale, ma rimane fedele al principio. Ecco come risolve la difficoltà: « È vero, lo Spirito Santo è dato di nuovo, non a causa di un cambiamento che avviene in se stesso, ma in virtù di quello che avviene nella creatura, con la ricezione del dono stesso della grazia. Ed è con un cambiamento analogo che il Figlio di Dio si unisca alla natura umana. Questo cambiamento non va cercato in Lui, perché è immutabile, ma nell’umanità, che Egli innalza fino a sé. Infatti non riceve più soltanto un dono creato, ma l’essere increato della Persona divina: poiché la natura è immediatamente unita, quanto all’essere, alla persona » (IIID. 13, q. 3, a.1 ad 7 e 9). È impossibile concepire come una vera unione possa formarsi tra due termini, fino ad allora separati, se non ci sia un vero cambiamento in nessuno dei due. Essendo Dio, dunque, l’immutabile per eccellenza, è nel termine creato che deve avvenire il cambiamento, condizione della nuova relazione e suo necessario fondamento. In Gesù Cristo, « Dio è nell’umanità in modo diverso che nelle creature ordinarie, per questo solo, che gli viene comunicato l’essere della Persona divina » (Ibid., ad 8). Dunque, un cambiamento reale da entrambe le parti; ma con questa differenza che nell’unione ipostatica è l’Essere increato che viene ricevuto, mentre nell’unione giustificante e santificante lo è il dono della grazia creata.

2. – Alla fine del Medioevo, apparve una scuola che, allontanandosi dalle antiche tradizioni, tendeva a confondere tutto in teologia, come in filosofia: era quella dei Nominalisti. Abbiamo già osservato come, senza respingere interamente la grazia abituale che ci rende figli di Dio, ne attenuava molto il ruolo, ne cambiava il carattere; in una parola, non vedeva più in essa quella forma interiore che trasfigura le anime, perché è l’immagine viva della natura stessa di Dio. Non consideravano questi, quindi, i doni creati come assolutamente necessari per la giustificazione e la glorificazione dell’uomo: poiché Dio, per un atto puramente estrinseco di benevolenza e senza alcuna reale trasformazione, poteva – a loro avviso – accoglierci nella sua grazia e conferirci la gloria come eredità. Di conseguenza e nello stesso ordine di idee, la dimora di Dio nei giusti e la missione dello Spirito Santo di cui questi stessi giusti sono il tempio, sebbene uniti nell’ordine attuale della provvidenza con l’infusione della grazia, sarebbero di per sé assolutamente separabili (Cf. Gregor. Arim. in I, D. 14. Q. 1. Concl. 3. Item, Ockam, Petr. Alliac, Gabriel Biel). – Essi sostenevano volentieri che Dio possa darci di produrre gli atti soprannaturali, non solo della fede e della speranza, ma anche della carità, con dei soccorsi attuali, indipendentemente dalla grazia santificante e dalle virtù infuse, sebbene questo modo di agire sia meno conforme alla natura delle cose o, per usare una locuzione teologica, non sia connaturale. Ma che in questa assenza dei doni abituali della grazia ci possa essere l’adozione, che sia la Sacra Scrittura che la Tradizione Cattolica ci predicano, è assolutamente impossibile da ammettere, quando abbiamo davanti ai nostri occhi gli insegnamenti della Sacra Scrittura e della Tradizione (Suppl. L. II, cap. 1-4). No, non c’è filiazione propriamente detta senza la grazia santificante e le virtù che l’accompagnano, perché chi non partecipa formalmente alla natura del padre non è figlio, e questa partecipazione non si spiega senza la forma immanente e permanente che chiamiamo la grazia. – Invano si affermerebbe che « l’assistenza dello Spirito Santo potrebbe, senza l’intermediazione di doni creati, santificare moralmente l’anima con la sua presenza, e darle la capacità di produrre le operazioni soprannaturali che sono proprie dei figli di Dio. » Sarebbe pure vano aggiungere: « Se un uomo può adottare un altro uomo, senza che quest’ultimo subisca alcun cambiamento fisico, perché Dio non potrebbe farlo? »  Concedo prontamente che, nel caso ipotetico di un’anima priva della grazia santificante, pura e senza peccato, ma illuminata, sostenuta, spinta da ciò che chiamiamo le grazie attuali e l’impulso dello Spirito Santo, « non adhuc quidem inhabitantis sed tantum moventis » (Conc. Trident., Sess. 14, cap. 4. Lo Spirito Santo muove i peccatori, non abita in loro. Infatti, abitare è dimorare. Ora, sebbene lo Spirito Santo sia nelle grazie attuali, e attraverso queste grazie nell’anima che le riceve, non dimora, perché le grazie attuali sono solo transitorie. Esso non dimora nella sostanza dell’anima, perché la grazia attuale raggiunge solo le potenze, e non va direttamente fino alla natura stessa), potrebbe esserci come un’ombra di adozione. Ma chi non vede come questa filiazione sarebbe inferiore sotto ogni aspetto a quella che Dio ci ha dato attraverso Gesù Cristo, il suo unico Figlio? Inferiore dal punto di vista dell’essere: perché non ci sarebbe nell’anima nessuna di quelle qualità soprannaturali e trasformanti su cui debba poggiare la suprema dignità di un figlio. Tutto si ridurrebbe ad atti transitori che la bontà divina si degnerebbe di accettare come disposizioni per il futuro possesso della sua gloria. In una parola, sarebbe meno la condizione attuale di figlio ed erede che la speranza di diventarlo un giorno. Inferiore anche per quanto riguarda l’azione: perché la persona, non avendo più in sé quell’eccellenza che eleva le sue operazioni e compie gli atti di un figlio, il merito delle opere difficilmente corrisponderebbe alla grandezza della ricompensa più degli atti soprannaturali che precedono la giustificazione in noi. Inoltre, abbiamo già visto perché l’adozione divina esiga nell’adottato una trasfigurazione della natura, che non è possibile né necessaria per le adozioni umane: queste ultime presuppongono la comunità della natura, mentre le prime, in una certa misura, devono farla. – Non è risolvere la difficoltà l’appellarsi alla grazia increata, la cui presenza basterebbe a costituire il fondamento dell’adozione, poiché questa grazia è permanente nell’anima solo attraverso la grazia creata. Bisogna quindi aderire alla dottrina espressa da Suarez a nome di tutti i grandi dottori della Scuola. Non c’è vero figlio adottivo senza una partecipazione della natura paterna; non c’è nuova inabitazione di Dio né missione dello Spirito Santo, senza un reale cambiamento in atto nel profondo delle anime, cosa che può essere spiegata solo dalla grazia e dai suoi annessi (Suarez, De Trinit., L XII, C.5, N. 3, ff.).

3. – D’altra parte, come abbiamo ampiamente dimostrato, non c’è filiazione adottiva per chi non possieda lo Spirito Santo. Non è Egli forse « lo Spirito di adozione dei figli, nel quale gridiamo: Abba, Padre? Egli che abita in noi e testimonia al nostro spirito che siamo figli di Dio? » (Rom. VIII, 13-16). È Egli, dunque, che appartiene alla costituzione del nostro essere di figlio; ed è ancora Egli che, dimorando e operando nell’anima con la sua grazia, dà con essa, alle nostre opere di meritare la vita eterna (S. Thom., 1, 2. Q. 114, a. 4 in corp. et ad 5). Come potremmo essere come figli e come agiremmo se non avessimo lo Spirito del Figlio? Inoltre, non si comprenderebbe nulla della natura della grazia creata, né del ruolo che svolge nelle anime, il concepirla come separata dallo Spirito Santo. Questo è ciò che il presente capitolo ha messo in luce, e che diventerà ancora più evidente in quelli che seguiranno (vedi sotto il bel testo di Sant’Ireneo, L. VI, c. 5). – Quindi, non è né la sola grazia né la sola presenza permanente di Dio nell’anima santificata, ma sono entrambi gli elementi allo stesso tempo che costituiscono lo stato di grazia e di adozione. L’uno non va e non può andare senza l’altro. La grazia santificante richiama l’Ospite divino, e la presenza intima di Dio presuppone la grazia. Non dobbiamo vederle come due benefici separati o separabili; e tale è la loro connessione armoniosa che Dio stesso non può rompere, poiché è formata dall’essenza stessa delle cose. Ci sono gradi nella grazia santificante come nella dimora divina; ma sono di natura tale che ogni aumento della grazia ha come correlativo un ingresso più intimo del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in colui che li riceve; e reciprocamente, ogni miglioramento dell’unione presuppone un aumento della grazia creata. – Per questo io non potrei, per nessun’altra ragione, essere d’accordo con alcuni autori secondo i quali i doni creati siano assolutamente compatibili con lo stato di peccato mortale e di inimicizia con Dio, mentre questo stesso stato non si possa conciliare con lo stato di figlio e la presenza dello Spirito Santo: poiché c’è in questo una sola e medesima grazia – totale e totalmente invisibile – nell’ordine essenziale. – Le Scritture e i Padri, dopo aver caratterizzato distintamente i due principi costitutivi del nostro essere soprannaturale, li uniscono più di una volta nella stessa espressione: tanto intima e necessaria ne è l’alleanza. Non è forse quello che ci dice la partecipazione alla natura divina di cui parla San Pietro, o questa comunione dello Spirito Santo che ricorre così frequentemente nei nostri Santi Dottori? Infatti, partecipare è ricevere la cosa alla quale si comunica. « Il calice della benedizione che noi benediciamo – dice San Paolo – non è forse la comunicazione (κοινωνία = koinonia) del sangue di Gesù Cristo, e il pane che noi spezziamo, non è la partecipazione al corpo del Signore; perché noi siamo… un solo corpo, tutti noi che partecipiamo (μετέχομεν = metekomen) dell’unico pane? » (I Cor. X, 16-17). Partecipare, è ancora ricevere da un altro una parte dei suoi beni. Ogni creatura partecipa in qualche modo all’Essere di Dio, perché è, nella sua misura, una somiglianza, una copia della perfezione infinita. Prendete questi due significati, e capirete come la stessa formula (κοινωνίκ, μετoχή, μέθεξις = koinonik, metoke metexis), possa esprimere sia la grazia creata che quella increata, la qualità soprannaturale che ci trasforma nell’immagine di Dio, e l’unione molto intima che fa di noi i templi di Dio. Che l’uomo non arrivi dunque a separare ciò che Dio ha così strettamente unito. Quod Dens conjunxit, homo non séparet. (Matth. XIX, 6).

LA GRAZIA E LA GLORIA (20)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “AU MILIEU DES SOLLICITUDES”

« … la Religione, e solamente essa, è capace di creare il vincolo sociale; solo la Religione può tenere ancorata la pace di una nazione a solide fondamenta… » Dovrebbe essere questo lo slogan di ogni Stato che voglia progredire e di ogni popolo che voglia sopravvivere tranquillamente. In questa lettera Enciclica, scritta ai Vescovi, ai prelati ed ai fedeli cattolici nella loro lingua – giusto per non rischiare traduzioni manipolate –  c’è un programma di direzione sociale che adottato da una qualsiasi forza politica (di quelle ove c’è posto per tutti tranne che per Cristo-Re), risolverebbe rapidamente tutti i problemi di nazioni e popoli oggi completamente destabilizzati in ogni loro componente pubblica e privata. Una volta queste cose almeno ce le ricordavano i Sommi Pontefici, che oggi sono stati “silenziati” e confinati nelle catacombe fin dall’ormai lontano 1958, perché possa essere realizzato il progetto demoniaco del ritorno del paganesimo pratico e spinto su tutta la terra, progetto fatto proprio ed attuato in modo più o meno coperto, dalle “conventicole di perdizione” di ogni obbedienza, obbedienze apparentemente diverse, ma uniche nel loro oggetto: il baphomet-lucifero che, già insediato nelle pseudomesse del Novus ordo come “signore dell’universo”, si è introdotto nella Chiesa di Cristo, parassitandola e svuotandola come conchiglia morta, fino a far credere che non esista più e che debba essere sostituita da una pseudo-religione unica mondiale, panteista ed ecumenica, che esalti l’uomo ed i suoi bisogni materiali come proprio fine ultimo, cacciandone progressivamente il Cristo Re e Redentore ed ogni riferimento al soprannaturale. Al piccolo gregge ricordiamo le parole del Dio-Uomo: nolite timere pusillus grex (Luc. XII, 32)… sed confidite, ego vici mundum (Joan. XVI, 33) … Io ho vinto il mondo, e poi la solenne promessa profetica: … et IPSA conteret caput dragonis!

AU MILIEU DES SOLLICITUDES

LETTERA ENCICLICA DI
S.S. LEONE XIII

Ai Nostri Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, al clero e a tutti i cattolici di Francia.
Il Papa Leone XIII. Venerabili Fratelli, carissimi Figli.

Molte volte nel corso del Nostro Pontificato, pur essendo presi dagl’impegni incessanti della Chiesa universale, Ci siamo compiaciuti di esprimere il Nostro affetto per la Francia e per il suo nobile popolo. Al riguardo abbiamo voluto manifestare solennemente, con una Nostra Enciclica ancora presente nella memoria di tutti, i più profondi sentimenti del Nostro cuore. È proprio questo sentimento di affetto che Ci ha costantemente indotti a seguire, e quindi a meditare, l’insieme degli avvenimenti, talora tristi e talora consolanti, che da molti anni si stanno verificando tra voi. – Anche oggi, mentre cerchiamo di renderci conto della portata di quel vasto complotto, che alcune persone hanno ordito per annientare in Francia il Cristianesimo, e dell’accanimento con cui perseguono il loro intento, calpestando le più elementari nozioni di libertà e di giustizia, a cui si ispira la maggior parte della Nazione e su cui si fonda il rispetto per gli inalienabili diritti della Chiesa Cattolica, come non potremmo non sentirci colpiti da un profondo dolore? E quando vediamo prendere corpo, una dopo l’altra, le conseguenze disastrose di questi colpevoli attacchi che mirano alla rovina dei costumi, della religione e degli stessi interessi politici rettamente intesi, come esprimere l’amarezza che Ci invade e le preoccupazioni che Ci assalgono? – D’altro canto, è grande la Nostra consolazione nel vedere che questo stesso popolo francese raddoppia l’amore e la dedizione verso la Santa Sede, ogniqualvolta la vede più trascurata o, per meglio dire, più osteggiata sulla terra. A più riprese, mossi da un profondo sentimento di religione e di vero amore di patria, i rappresentanti di tutte le classi sociali sono accorsi dalla Francia fino a Noi, lieti di sovvenire alle incessanti necessità della Chiesa, desiderosi di chiederCi lumi e consigli per avere la certezza, in mezzo alle attuali tribolazioni, di non scostarsi in alcun modo dagli insegnamenti del Capo dei credenti. Noi abbiamo loro risposto, sia per iscritto, sia a viva voce, palesando chiaramente ai Nostri figli ciò che potevano pretendere dal loro Padre. Lungi, quindi, dal favorire il loro scoraggiamento, li abbiamo caldamente esortati a raddoppiare il loro amore e il loro sforzo nella difesa della fede cattolica e, nello stesso tempo, della loro patria: sono questi, infatti, due doveri di primaria importanza, ai quali nessun uomo, in questa vita, può sottrarsi. – Ancora una volta oggi riteniamo opportuno, anzi necessario, alzare la voce per esortare insistentemente non solo i Cattolici, ma tutti i francesi onesti e di buon senso, perché respingano lontano tutti i germi del dissenso politico e indirizzino tutte le loro forze a pacificare la loro patria. Tutti riconoscono l’importanza di questa pace e sempre più la invocano. E Noi, che l’auspichiamo più di ogni altro, perché rappresentiamo sulla terra il Dio della pace, chiamiamo a raccolta, con questa Lettera, tutte le anime rette, tutti i cuori generosi, perché Ci aiutino a renderla stabile e ricca di frutti. – Prendiamo anzitutto come punto di partenza una verità ben nota, accettata da ogni persona sensata e solennemente proclamata dalla storia di tutti i popoli: la Religione, e solamente essa, è capace di creare il vincolo sociale; solo la Religione può tenere ancorata la pace di una nazione a solide fondamenta. Quando diverse famiglie, senza rinunciare ai diritti e ai doveri della società domestica, e seguendo l’ispirazione della natura, si uniscono per diventare parte di una famiglia più vasta chiamata società civile, non si ripromettono solo di trovarvi i mezzi per provvedere al proprio benessere materiale, ma di trarne in primo luogo un beneficio per il loro perfezionamento morale. In caso contrario la società sopravanzerebbe di poco l’aggregazione di esseri senza ragione, la vita dei quali è tutta rivolta alla soddisfazione degli istinti sensuali. Ma c’è di più. Senza questo perfezionamento morale, sarebbe difficile dimostrare che la società civile, lungi dal costituire un vantaggio, non tornerebbe a danno dell’uomo in quanto tale. – La morale, infatti, per il fatto stesso che deve creare nell’uomo una armonia fra diritti e doveri diversi, poiché partecipa ad ogni atto umano postula necessariamente Dio e, con Dio, la Religione, questo sacro vincolo che ha il privilegio di unire a Dio, prima di dar vita a qualsivoglia altro legame. Infatti, il concetto di moralità comporta anzitutto un rapporto di dipendenza dal vero, che è luce dello spirito, e dal bene, che indirizza la volontà. In assenza del vero e del bene non esiste una morale degna di questo nome. Ma qual è la verità prima ed essenziale da cui ogni altra deriva? È Dio. Qual è ancora la bontà suprema dalla quale procede ogni altro bene? È Dio. Chi è infine colui che crea e conserva la nostra intelligenza, la nostra volontà, l’intero nostro essere ed è, nello stesso tempo, il fine della nostra vita? È sempre Dio. Poiché dunque la Religione è l’espressione, interiore ed esteriore, di questa dipendenza che dobbiamo a Dio a titolo di giustizia, ne deriva un impegno tassativo. Tutti i cittadini sono tenuti ad unirsi per conservare nella nazione il vero senso religioso e anche per difenderlo, qualora una scuola atea, in contrasto con le attestazioni della natura e della storia, si proponesse di estromettere Dio dalla società, ben sapendo di poter annientare, in questo modo, lo stesso senso della morale nel più profondo della coscienza. Su questo punto, fra gli uomini che non hanno perso il concetto dell’onestà, non può esserci alcun dissenso. – Nei Cattolici francesi il sentimento religioso deve guadagnare in profondità e in universalità, perché hanno la fortuna di appartenere alla vera Religione. Se dunque le credenze religiose sono state considerate, sempre e in ogni luogo, come fondamento della moralità degli atti umani e dell’esistenza di ogni società rettamente costituita, è evidente che la Religione cattolica, per il fatto stesso che è la vera Chiesa di Gesù Cristo, ha in se stessa, più di ogni altra, l’intrinseca efficacia per ben disporre la vita nella società come nell’individuo. È necessaria al riguardo una prova convincente? È la Francia stessa ad offrirla. Nella misura in cui essa progrediva nella fede cristiana, era possibile vederla ergersi a quella grandezza morale che raggiunse come potenza politica e militare. Si era dunque verificato che, alla naturale generosità del suo cuore, la carità cristiana aveva aggiunto un’abbondante fonte di nuove energie, e che la sua meravigliosa attività si era incontrata con quella fede cristiana che operando contemporaneamente come sprone, guida luminosa e indefettibile punto di riferimento, per mano della Francia, aveva saputo scrivere negli annali del genere umano pagine di autentica gloria. E in questi nostri tempi, la sua fede non continua forse ad aggiungere nuova gloria a quella del passato? La si può vedere, ricolma di inventiva e di risorse, moltiplicare sulla propria terra le opere di carità; la si può ammirare in partenza per regioni lontane, dove con le sue ricchezze e con le fatiche dei suoi missionari, che non esitano a dare la loro vita, diffonde, d’un solo colpo, la rinomanza della Francia e i benefìci della Religione cattolica. Nessun francese, quali che siano le sue convinzioni, potrebbe rinunciare a questa gloria, perché sarebbe come rinnegare la patria.  – Ora è la storia di un popolo che rivela, in modo inequivocabile, ciò che genera e mantiene inalterata la sua grandezza morale. Se dunque viene meno questo fondamento, non sarà l’abbondanza delle ricchezze né la potenza delle armi a salvarlo dalla decadenza morale e, forse, dalla dissoluzione. Chi non comprende oggi che, per tutti i Francesi che professano la Religione cattolica, il maggiore impegno deve essere quello di assicurarle la sopravvivenza con la massima dedizione, dal momento che operano al loro interno delle sètte che fanno del Cristianesimo l’oggetto degli attacchi più virulenti? In questa situazione essi non possono permettersi né di operare con indolenza, né di dividersi in fazioni. Nel primo caso si renderebbero colpevoli di una viltà indegna del Cristiano e, nel secondo, sarebbero causa di una debolezza disastrosa. – A questo punto, prima di procedere oltre, è necessario segnalare una calunnia, diffusa ad arte per dar credito ad odiose imputazioni contro i Cattolici e contro la stessa Santa Sede. Si vuol dare ad intendere che l’accordo e il vigore dell’azione inculcati nei Cattolici per difendere la loro fede hanno come movente segreto, non la decisa salvaguardia degli interessi religiosi, ma l’ambizione di procurare alla Chiesa il dominio politico sullo Stato. Si tratta in verità di voler resuscitare una calunnia assai antica, che è stata ideata dai primi nemici del Cristianesimo. Non fu già formulata prima di tutto contro l’adorabile persona del Redentore? È risaputo. Lo accusavano di perseguire mire politiche, quando illuminava gli animi con la sua predicazione e recava sollievo alle pene corporali e spirituali degli sventurati con i tesori della sua bontà divina. “Abbiamo trovato quest’uomo che sobillava il nostro popolo, impediva di dare i tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re … Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque, infatti, si fa re, si mette contro Cesare … Non abbiamo altro re all’infuori di Cesare” . Furono queste calunnie minacciose che strapparono a Pilato la sentenza di morte contro Colui che, a più riprese, aveva dichiarato innocente. Gli autori di queste e di altre menzogne dello stesso tenore, con l’aiuto dei loro emissari, non tralasciarono nulla per farle giungere lontano. Di tutto questo, San Giustino martire incolpava i giudei del suo tempo: “Lungi dal pentirvi, quando siete venuti a conoscenza della sua resurrezione dai morti, avete spedito da Gerusalemme degli uomini, scelti con cura, per annunciare che erano nate un’eresia e un’empia setta ad opera di un certo seduttore, chiamato Gesù di Galilea”. – Con questa audace diffamazione del Cristianesimo, i suoi nemici erano ben consapevoli di quanto facevano. Il loro piano si proponeva di suscitare un formidabile avversario alla sua propagazione: l’Impero Romano. La calunnia sortì il suo effetto, e i pagani, vittime della propria credulità, chiamavano a gara i primi Cristiani “esseri inutili, cittadini pericolosi e faziosi, nemici dell’Impero e degli Imperatori”. A nulla valse che gli Apologisti del Cristianesimo con i loro scritti, e i Cristiani con il loro retto comportamento, s’impegnassero a dimostrare l’assurdo e malvagio contenuto di queste affermazioni: non si degnavano nemmeno di ascoltarli. Il solo nome procurava loro una dichiarazione di guerra, e i Cristiani, per il solo fatto di essere tali e per nessun altro motivo, venivano posti con violenza di fronte a questo dilemma: l’apostasia o il martirio. Le stesse accuse e lo stesso rigore si rinnovarono, pressoché simili, nei secoli successivi, ogni qualvolta si incontrarono governi esageratamente gelosi del loro potere e animati da propositi malevoli contro la Chiesa. Riuscirono sempre a rendere plausibile, presso il pubblico, una presunta interferenza della Chiesa nello Stato, al fine di procurare allo Stato una parvenza di diritto per le sue usurpazioni e le sue prevaricazioni ai danni della Religione cattolica. – Abbiamo voluto richiamare sommariamente il passato, affinché i Cattolici non nutrano motivo di sconcerto per il presente. La lotta è sostanzialmente sempre la stessa: Gesù Cristo è perennemente fatto segno delle contraddizioni del mondo. I mezzi impiegati dagli attuali nemici del Cristianesimo sono sempre gli stessi, assai antichi nella sostanza anche se appena modificati nella forma. Ma sono parimenti identici i mezzi di difesa, già chiaramente indicati ai Cristiani del nostro tempo dai nostri Apologisti, Dottori e Martiri. Ciò che essi hanno fatto, spetta pure a noi di farlo. Mettiamo dunque al primo posto la gloria di Dio e della sua Chiesa; lavoriamo per lei con impegno costante e sincero, e lasciamo il compito di determinare l’esito a Gesù Cristo, che annuncia: “Nel mondo voi sarete oppressi, ma abbiate fiducia, io ho vinto il mondo”. Per raggiungere questo scopo, l’abbiamo già sottolineato, è necessaria una grande unità e, se si desidera riuscire nell’intento, è indispensabile accantonare ogni preoccupazione che ne indebolisca la forza e l’efficacia. Intendiamo riferirCi soprattutto alle diverse opinioni politiche dei Francesi circa il comportamento da tenere nei confronti della Repubblica attuale. È una questione che vogliamo affrontare con la chiarezza richiesta dalla gravità del caso, partendo dai princìpi per giungere alle conseguenze pratiche. – In Francia, nel corso di questo secolo, si sono succeduti Governi politici di tipo diverso, ciascuno con la sua specifica forma: Imperi, Monarchie, Repubbliche. Affidandoci a disquisizioni di pura teoria, sarebbe possibile arrivare a definire la migliore di queste forme, considerate in se stesse, e si potrebbe anche riconoscere, senz’ombra di dubbio, che ognuna di esse è buona, sempreché sappia procedere dritto al suo scopo, che è il bene comune, per il quale l’Autorità sociale è stata istituita. È tuttavia opportuno precisare che, da un punto di vista relativo, una forma di governo può essere preferibile rispetto ad un’altra, perché meglio si adatta alle caratteristiche e ai costumi di un certo tipo di nazione. In teoria quindi, i Cattolici, come ogni altro cittadino, sono pienamente liberi di preferire una forma di governo piuttosto che un’altra, per il semplice fatto che nessuna compagine sociale si oppone, per se stessa, né ai dettami della retta ragione, né ai precetti della dottrina cristiana. Queste argomentazioni sono più che sufficienti per farsi una ragione della sapienza della Chiesa quando, nelle sue relazioni con i poteri politici, non tiene conto delle forme che li differenziano e tratta con essi dei grandi interessi religiosi dei popoli, ben sapendo di dover anteporre la loro tutela ad ogni altro interesse. Le Nostre precedenti Encicliche hanno già esposto questi princìpi, ma ritenevamo necessario richiamarli per sviluppare il tema che Ci interessa in questo momento. – Se si scende dai concetti astratti e si entra nel contesto della realtà, occorre ben guardarsi dal rinnegare i princìpi appena definiti: questi restano inoppugnabili. Solo incarnandosi nella realtà assumono un aspetto contingente, in forza delle circostanze che li rendono operativi. In altre parole, se ogni forma politica è buona in se stessa e può essere applicata per governare i popoli, nella realtà il potere politico non si presenta nella stessa forma presso tutti i popoli, ma ciascuno ne possiede una specifica. Questa forma è originata dall’insieme delle circostanze storiche o nazionali, ma sempre umane, che, in una nazione, danno vita alle sue leggi tradizionali e anche fondamentali. Sono queste leggi che determinano una certa specifica forma di governo e un particolare modo di trasmettere i supremi poteri.  – È superfluo ricordare che tutti gli individui sono tenuti ad accettare questi governi e a non prendere iniziative per rovesciarli o per mutarne la forma. È per questo che la Chiesa, custode del più vero e più alto concetto della sovranità politica, perché la fa discendere da Dio, ha sempre riprovato le teorie e ha sempre condannato gli uomini ribelli all’autorità legittima. E questo anche quando i depositari del potere lo usavano indebitamente contro di lei, privandosi così del più valido sostegno accordato alla loro autorità e del mezzo più efficace per ottenere dal popolo l’ossequio alle loro leggi. A questo proposito, non si potranno mai meditare a sufficienza le celebri raccomandazioni che il Principe degli Apostoli, proprio durante le persecuzioni, rivolgeva ai primi cristiani: “Rispettate tutti, amate i fratelli, temete Dio e rendete onore al re[6]; come pure quelle di San Paolo: “Vi scongiuro anzitutto di adoperarvi perché si facciano suppliche, preghiere, istanze e azioni di grazia per tutti gli uomini: per i re e per tutti coloro che sono costituiti in dignità, perché possiamo condurre una vita tranquilla in tutta pietà e rettitudine: questo infatti è buono e gradito a Dio nostro Salvatore” . – Occorre anche evidenziare ancora una volta con ogni cura che, qualunque sia la forma dei poteri civili di una nazione, non è possibile considerarla a tal punto definitiva da non essere soggetta a mutamenti, anche se questo era il proposito di chi, in origine, le ha dato vita. La sola Chiesa di Gesù Cristo ha potuto conservare, e la conserverà sicuramente fino alla fine dei tempi, la sua forma di governo. Fondata da Colui che era, che è e che sarà nei secoli, ha ricevuto da Lui, fin dall’inizio, tutto ciò che le è necessario per adempiere la sua missione divina in mezzo al mutevole oceano delle vicende umane. E come non ha bisogno di trasformare l’essenza della sua costituzione, sa anche di non avere il potere di rinunciare alle condizioni di piena libertà e di sovrana indipendenza, che ha ricevuto in dote dalla Provvidenza nell’interesse generale delle anime. Ma parlando delle società esclusivamente umane, come emerge infinite volte nella storia, è il tempo, grande trasformatore della realtà terrena, che opera grandi mutamenti all’interno delle loro situazioni politiche. Qualche volta esso si limita ad apportare lievi modifiche alle forme di governo costituito; altre volte arriva a sostituire le forme primitive con altre totalmente differenti, intaccando addirittura la stessa trasmissione del potere sovrano. – Ma come si generano questi mutamenti politici di cui stiamo parlando? A volte sono le conseguenze di crisi violente, troppo spesso cruenti, che travolgono e annientano i governi preesistenti. Prende allora il sopravvento l’anarchia, e l’ordine pubblico viene in breve tempo sconvolto fin dalle fondamenta. A questo punto si impone alla nazione una necessità sociale ineludibile: deve, quanto prima, provvedere a se stessa. Come potrebbe non avere il diritto, anzi il dovere, di difendersi da una situazione che la sconvolge così in profondità, e ristabilire la pace pubblica nella tranquillità dell’ordine? Questo stato di necessità sociale giustifica la creazione e l’esistenza di nuovi governi, qualunque sia la forma assunta, proprio perché, nell’ipotesi da Noi formulata, questi nuovi governi sono postulati da un’esigenza di ordine pubblico, che non potrebbe esistere senza un governo. Ne consegue che, in una situazione del genere, ogni novità riguarda la forma politica dei poteri civili o il loro modo di trasmissione, ma non altera minimamente la natura del potere. Questa continua ad essere immutabile e, quindi, degna di rispetto, perché, se si presta attenzione ad essa, trova la sua ragion d’essere e la sua forza nel provvedere al bene comune, fine ultimo ed elemento costitutivo della società umana. In altre parole, in qualunque ipotesi, il potere civile, per sua natura, discende sempre e solo da Dio, “perché non vi è potere se non da Dio”.  Pertanto, quando questi nuovi governi, espressione dell’immutabile potere, si costituiscono, non solo è consentito ma è doveroso accettarli e vederli addirittura imposti dalla necessità del bene sociale, che li ha generati e li mantiene in vita. Si deve anche considerare che un’insurrezione attizza l’odio fra i cittadini, genera guerre civili e può far ripiombare la nazione nel caos dell’anarchia. Dunque questo dovere di rispetto e di sottomissione dovrà durare finché le esigenze del bene comune lo richiederanno, perché questo, dopo Dio, rappresenta nella società la legge prima ed ultima.  – A questo punto si rivela da sola la sapienza della Chiesa, dal momento che ha mantenuto le relazioni con i numerosi governi che, in meno di un secolo, si sono succeduti in Francia non senza aver causato violenti e profondi sconvolgimenti. Quest’atteggiamento costituisce la più sicura e la più utile linea di condotta per tutti i Francesi nei rapporti civili con la Repubblica, che è l’attuale governo della loro Nazione. Debbono perciò eliminare le divergenze politiche che li dividono, e unire tutti gli sforzi per conservare o per far crescere la grandezza morale della loro patria. – Ma si presenta una difficoltà. “Questa Repubblica, sottolinea qualcuno, è animata da sentimenti così anticristiani che le persone oneste, e ancor più i Cattolici, non potrebbero accettarla senza compromettere la loro coscienza”. Ecco ciò che soprattutto ha dato origine ai dissensi e li ha accentuati. Sarebbe stato possibile evitare questi spiacevoli dissensi, se si fosse tenuta nel dovuto conto la distinzione fondamentale che separa il Potere costituito dalla Legislazione. Vi è infatti un tale abisso fra la legislazione, i poteri politici e la loro forma che, sotto il regime caratterizzato dalla forma più perfetta, la legislazione può risultare inaccettabile, mentre, al contrario, sotto un regime dalla forma più imperfetta, ci si può imbattere in un’ottima legislazione. Provare, storia alla mano, questa verità, sarebbe facile, ma perché farlo? Tutti ne sono convinti. E chi può essere in grado di farlo meglio della Chiesa, dal momento che si è sempre sforzata di mantenere abituali relazioni con tutti i regimi politici? Di sicuro potrebbe riferire, più di ogni altra potenza, tutta una serie di consolazioni o di dolori che le hanno procurato le leggi emanate da molti governi che, a partire dall’Impero Romano fino ai nostri giorni, hanno retto successivamente i popoli. – Se la distinzione testé definita riveste la più grande importanza, ha pure in sé la ragione evidente che la giustifica. La legislazione, infatti, è opera degli uomini investiti del potere e che, di fatto, governano la nazione. Ne deriva, in concreto, che la qualità delle leggi dipende più dalla qualità di questi uomini investiti del potere, che dalla forma del potere. Le leggi, quindi, risulteranno buone o cattive a seconda che i legislatori saranno imbevuti di buoni o di cattivi princìpi e si lasceranno guidare o dalla prudenza politica o dalla passione.  Il fatto che in Francia, da parecchi anni a questa parte, molte decisioni importanti della legislazione siano state formulate con intenti ostili alla Religione, e quindi contrari agli interessi della Nazione, è ammesso da tutti ed è sfortunatamente provato dall’evidenza dei fatti. Noi stessi, obbedendo ad un sacro dovere, rivolgemmo le più vive lagnanze a chi era allora a capo della Repubblica, ma questa linea di condotta non è venuta meno e il male si è aggravato. Non può certo destare meraviglia che i membri dell’Episcopato francese, posti dallo Spirito Santo a reggere le numerose ed illustri Chiese, abbiano sentito, anche in tempi recenti, come un preciso dovere manifestare pubblicamente il loro dolore, parlando della situazione creata in Francia ai danni della Religione cattolica. Povera Francia! Solo Dio può misurare l’abisso dei mali, dove finirebbe per precipitare, se questa legislazione, invece di migliorare, si ostinasse in quel perverso indirizzo che porterebbe allo sradicamento dall’anima e dal cuore dei Francesi della Religione, che li ha resi così grandi. – Ecco delineato l’ambito dove, accantonato ogni dissenso politico, le persone rette debbono ritrovarsi unite come un sol uomo, per combattere, con tutti gli strumenti legali e onesti, gli abusi legislativi sempre più pesanti. Il rispetto dovuto ai poteri costituiti non ha ragioni per impedirlo, né l’ossequio, né ancor meno l’obbedienza incondizionata a qualsivoglia misura legislativa, emanata da questi stessi poteri, possono essere vincolanti. Non si deve mai dimenticare che la legge è una disposizione formulata nel rispetto della ragione, e promulgata per il bene della società da parte di chi ha ricevuto in affidamento il potere di attuarlo. Ne deriva dunque, che non si potranno mai approvare interventi legislativi avversi alla Religione e a Dio, e che anzi è un dovere disapprovarli. È quanto il grande Vescovo di Ippona Sant’Agostino ha saputo illustrare con chiarezza in un ragionamento pieno di eloquenza: “Qualche volta le potenze terrene sono buone e temono Dio, altre volte non lo temono. Giuliano era un Imperatore che aveva rinnegato Dio, un apostata, un perverso e un idolatra. I soldati cristiani servirono questo Imperatore senza fede. Ma quando si trattava della causa di Gesù Cristo, non riconoscevano che Colui che è nei cieli. Giuliano ingiungeva loro di rendere culto agli idoli e di incensarli; essi mettevano Dio al di sopra del principe. Se invece intimava loro di mettersi in assetto di guerra per marciare contro una nazione nemica, erano pronti all’obbedienza. Sapevano dunque fare una scelta fra il Signore eterno e quello temporale, e per riguardo al Signore eterno, si sottomettevano anche all’indegno signore temporale”. Noi sappiamo che l’ateo, per un deplorevole uso della ragione, e ancor più della volontà, nega questi princìpi. Ma l’ateismo è in definitiva un errore a tal punto mostruoso da non potere in alcun modo cancellare (e ciò sia detto a vanto dell’umanità) la coscienza dei diritti di Dio per sostituirvi l’idolatria dello Stato. – Essendo stati così definiti i princìpi che debbono regolare la nostra condotta nei confronti di Dio e dei governi umani, nessun uomo imparziale potrà accusare i Cattolici francesi se, accollandosi fatiche e sacrifici, lavorano per conservare alla loro patria ciò che rappresenta un elemento basilare di salvezza, ciò che riassume una lunga teoria di gloriose tradizioni, registrate dalla storia, e che tutti i Francesi hanno l’obbligo di non dimenticare. – Prima di terminare la Nostra Lettera, vogliamo accennare ad altri due punti connessi fra loro e che, riguardando più da vicino gl’interessi religiosi, possono aver causato disaccordo fra i Cattolici. Uno di essi è il Concordato che, nel corso di tanti anni, ha facilitato, in Francia, l’armonia fra il Governo della Chiesa e quello dello Stato. Circa il mantenimento di questo Patto solenne e bilaterale, sempre scrupolosamente osservato dalla Santa Sede, non vi è accordo fra gli stessi avversari della Religione cattolica. I più violenti ne pretendono l’abolizione, per consentire allo Stato la piena libertà di angariare la Chiesa di Gesù Cristo. Altri, al contrario, più astuti, sono del parere, o danno ad intendere, di volere mantenerlo in vita, non perché attribuiscano allo Stato l’obbligo di adempiere agl’impegni sottoscritti con la Chiesa, ma unicamente per permettergli di approfittare delle concessioni accordate dalla Chiesa. Come se fosse possibile separare, a piacimento, gl’impegni presi dalle concessioni ottenute, quando le due cose sono elementi costitutivi del tutto. Per questi ultimi, il Concordato rimarrebbe solo un’ottima catena per intralciare la libertà della Chiesa, questa santa libertà che le è dovuta per un diritto divino ed inalienabile. Quale di questi due intendimenti avrà il sopravvento? Non lo sappiamo. Abbiamo voluto farne menzione, unicamente per raccomandare ai Cattolici di non provocare movimenti di opinione divergenti su un argomento che è di esclusiva competenza della Santa Sede. – Non useremo lo stesso linguaggio sul secondo punto, relativo al principio della separazione dello Stato dalla Chiesa, che altro non significa se non separare la legislazione umana da quella cristiana e divina. Non intendiamo soffermarCi, in questa sede, per dimostrare quanto di assurdo racchiuda la teoria di tale separazione. Ognuno potrà rendersene conto personalmente. Da quando lo Stato rifiuta di dare a Dio ciò che è di Dio, è necessariamente costretto a non dare ai cittadini ciò a cui hanno diritto come uomini, perché lo si voglia o no, i veri diritti dell’uomo nascono proprio dai suoi doveri verso Dio. Ne consegue che lo Stato, venendo meno in questo campo al primo scopo della sua istituzione, finisce col rinnegare se stesso e con lo smentire la ragione della sua esistenza. Queste supreme verità sono proclamate con tanta chiarezza dalla stessa voce della ragione naturale, da imporsi ad ogni uomo che non sia accecato dalla violenza della passione. I Cattolici, quindi, si guardino con somma cura dal sostenere questa separazione. Volere che lo Stato si separi dalla Chiesa, altro non sarebbe, per logica conseguenza, che costringere la Chiesa ad accettare una libertà di vita regolata secondo il diritto comune a tutti i cittadini. Questo stato di cose, occorre riconoscerlo, è un dato di fatto in certi paesi. Un’esistenza di questo tipo presenta, accanto a numerosi e gravi inconvenienti, anche alcuni vantaggi, soprattutto quando il legislatore, per una fortunata incongruenza, non tralascia di ispirarsi ai princìpi cristiani. Questi vantaggi, anche se non possono giustificare la separazione né consentire di difenderla, rendono tuttavia tollerabile una situazione che non è, in concreto, la peggiore di tutte.  – Ma in Francia, nazione cattolica per le sue tradizioni e per la fede presente nella grande maggioranza dei suoi figli, la Chiesa non può essere messa nella condizione precaria che ha dovuto accettare presso altri popoli. I Cattolici sono tenuti ancor più a disapprovare la separazione, dal momento che conoscono a fondo le intenzioni dei nemici che la desiderano. Per quest’ultimi (lo affermano con sufficiente chiarezza), questa separazione consiste nella piena indipendenza della legislazione politica da quella religiosa. C’è di più. Si ripromettono l’assoluta indifferenza del Potere verso gli interessi della società cristiana, cioè della Chiesa, e la negazione stessa della sua esistenza. Avanzano inoltre un diritto di rivalsa, che può essere espresso in questo modo: quando la Chiesa, avvalendosi delle opportunità che il diritto comune concede anche ai Francesi del ceto più basso, sarà riuscita, raddoppiando gli sforzi della sua innata operosità, a far prosperare la sua opera, subito l’intervento dello Stato potrà, e dovrà, estromettere i Cattolici francesi dallo stesso diritto comune. In una parola, l’ideale di questi uomini sarebbe il ritorno al paganesimo, dove lo Stato non riconosce la Chiesa se non quando trova conveniente perseguitarla. – Abbiamo spiegato, Venerabili Fratelli, in modo succinto ma preciso, se non tutti, almeno i principali punti sui quali i Cattolici francesi, e tutte le persone sensate, debbono costruire l’unione e la concordia, per rimediare, quando è ancora possibile, ai mali che affliggono la Francia, e anche per risollevare la sua grandezza morale. Questi punti sono la Religione e la Patria, i poteri politici e la legislazione, il comportamento da tenere nei confronti di questi poteri e di questa legislazione, il Concordato, la separazione fra lo Stato e la Chiesa. Noi nutriamo la speranza e la fiducia che l’aver chiarito questi punti dissiperà i pregiudizi di molte persone in buona fede; faciliterà la pacificazione degli spiriti e, per suo tramite, la piena unione di tutti i cattolici per sostenere la grande causa del Cristo, che ama i Franchi.  – Quale consolazione per il Nostro cuore incoraggiarvi su questa strada e vedere voi tutti rispondere docilmente al Nostro appello! Voi, Venerabili Fratelli, con la vostra autorità, e con la dedizione tanto evidente per la Chiesa e per la Patria che vi distingue, darete un grande contributo a quest’opera pacificatrice. Siamo pure animati dalla speranza che, quanti detengono il potere, vorranno apprezzare le Nostre parole, che mirano alla prosperità e al benessere della Francia. – Nel frattempo, come pegno del Nostro paterno affetto, impartiamo a voi, Venerabili Fratelli, al vostro Clero e a tutti i Cattolici di Francia, la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma il 16 febbraio 1892, quattordicesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA XIII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XIII dopo PENTECOSTE (2022)

La Chiesa ci fa leggere in questo tempo nel Breviario il principio del libro dell’Ecclesiaste: « Vanità delle vanità, dice l’autore sacro, tutto è vanità. Si dimentica ciò che è passato, e le cose che debbono ancora venire non lasceranno ricordi presso quelli che verranno più tardi. Io ho vedute tutte le cose che avvengono sottoil sole, ed ecco che sono tutte vanità e afflizione dell’anima. Iperversi difficilmente si correggono e infinito è il numero degli insensati » (7° Nott.). « Dopo che Salomone poté contemplare la luce della vera sapienza, dice S. Giovanni Crisostomo, uscì in questa esclamazione sublime e degna dei cielo: « Vanità delle vanità, tutto è vanità! ». A vostra volta, se volete, potete rendere simile testimonianza. È vero che nei secoli passati, Salomone non era tenuto a una diligente ricerca della sapienza, poiché l’antica legge non considerava vanità il godimento dei beni superflui; tuttavia, malgrado questo stato di cose, si può vedere quanto siano vili e dispregevoli. Ma noi, chiamati a virtù più perfette, saliamo a cime più alte, ci esercitiamo in opere più difficili. Che dire di più se non che ci è stato comandato di regolare la nostra vita su virtù celesti, che non hanno nulla di materiale e che sono tutta intelligenza? » (2° Nott.). Queste virtù celesti sono per eccellenza, le tre virtù teologali: « fede, speranza, carità » che l’Orazione ci fa chiedere a Dio affinché noi « non amiamo se non quello che Egli ci comanda ». Ed è per questo motivo che la Chiesa fa leggere in questo giorno [‘Epistola di S. Paolo ai Corinti, che ha per oggetto la fede in Gesù Cristo, fede che agisce mediante la carità e che ci fa mettere, come già Abramo, la nostra speranza nel divino Salvatore. Infatti solo per questa fede operante e confidente, le anime coperte dalla lebbra del peccato vengono guarite come ci mostra il Vangelo. I dieci lebbrosi che rappresentano in qualche modo le trasgressioni fatte dagli uomini ai dieci comandamenti, scorgono il loro divino Medico e, ponendo subito in Lui ogni speranza:« Maestro, abbi pietà di noi! » gridano. La fede loro è operante, perché quando Cristo li mette alla prova dicendo: « Andate, mostratevi ai sacerdoti », essi vanno senza esitare e, andando, sono guariti. Ma questa guarigione è confermata da uno solo di quelli che tornò indietro per mostrare la sua riconoscenza a Gesù. « Quando uno di essi si vide guarito, tornò sui suoi passi, glorificando Dio ad alta voce e cadendo con la faccia a terra ai piedi di Gesù, lo ringraziò ». Gesù allora gli disse: « Va, la tua fede ti ha salvato ». Questo mostra che è la fede in Gesù che salva le anime. Ora se è la fede in Gesù che salva le anime, la Chiesa ha precisamente da Gesù la missione di far penetrare nelle anime questa fede mediante la predicazione e la lettura. Questo passo del Vangelo ci indica anche l’espulsione dei Giudei che sono stati ingrati verso Colui che era venuto per guarirli, mentre i Gentili gli sono stati fedeli. Dei dieci lebbrosi infatti nove erano Giudei e uno solo non lo era, ed è a questo solo — che era Samaritano, e tornò indietro a ringraziare il Salvatore — che Gesù dice: La tua fede t’ha salvato. Da ciò si vede non essere soltanto ai figli d’Abramo secondo il sangue che è stata fatta questa promessa, ma ancora a tutti coloro i quali sono suoi figli perché partecipi della sua fede in Gesù Cristo. Infatti, è per questa fede che la promessa di vita eterna fatta ad Abramo si estende a tutti i popoli. Così l’Orazione della III Profezia del Sabato Santo dice che « col Battesimo, Dio, moltiplicando i figli della promessa stabilisce Abramo, suo servo, padre di tutte le genti secondo la profezia ». « Fate, soggiunge la quarta Orazione, che tutti i popoli della terra diventino figli d’Abramo e partecipino della grandezza toccata in sorte al popolo d’Israele ». I Gentili ccupano dunque il posto dei Giudei. « I nove, commenta S. Agostino, gonfi d’orgoglio, credevano di umiliarsi col ringraziare; e non ringraziando sono stati riprovati e rigettati dall’unità che si trova nel numero dieci (vi erano dieci lebbrosi), mentre l’unico che ringrazia è approvato dall’unica Chiesa. — Così per il loro orgoglio, i Giudei perdettero il regno dei cieli dove regna la più grande unità; mentre il Samaritano, sottomettendosi al Re col suo ringraziamento, ha conservata l’unità del regno per la sua devozione piena di umiltà » (Mattutino). I Giudei entreranno in massa nel regno dei cieli alla fine del mondo, allorché crederanno in Gesù, ed è a ciò cui fa allusione l’Introito quando essi chiedono che la loro esclusione dalla Chiesa non sia irrevocabile: « Ricordati, o Signore, della tua alleanza, non abbandonare le anime dei poveri alla fine.  Perché, o Dio, ci hai rigettati? Perché la tua collera si è accesa contro le pecore del tuo ovile? ». E la Chiesa chiede a Dio « d’essere propizio al suo popolo, e, placato dal sacrificio che gli viene offerto, di perdonare la sua ingratitudine » (Secr.). Quanto ai Gentili, essi dicono a Gesù che ripongono in Lui tutta la loro speranza (Off.) perché si è fatto loro rifugio di generazione in generazione (All.) e li nutre del suo pane celeste, come fece per gli Ebrei nel deserto, allorché dette la manna che conteneva ogni sapore ed ogni dolcezza (Com.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et te, pater, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXIII: 20; 19; 23
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te.

[Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le anime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Ps LXXIII: 1

Ut quid, Deus, reppulísti in finem: irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ?

[Perché, o Signore, ci respingi ancora? Perché arde la tua ira contro il tuo gregge?]

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te.

[Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, da nobis fídei, spei et caritátis augméntum: et, ut mereámur asséqui quod promíttis, fac nos amáre quod prǽcipis.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

[Onnipotente e sempiterno Iddio, aumenta in noi la fede, la speranza e la carità: e, affinché meritiamo di raggiungere ciò che prometti, fa che amiamo ciò che comandi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti S. Pauli Apóstoli ad Gálatas.

[Gal. III: 16-22]

“Fratres: Abrahæ dictæ sunt promissiónes, et sémini ejus. Non dicit: Et semínibus, quasi in multis; sed quasi in uno: Et sémini tuo, qui est Christus. Hoc autem dico: testaméntum confirmátum a Deo, quæ post quadringéntos et trigínta annos facta est lex, non írritum facit ad evacuándam promissiónem. Nam si ex lege heréditas, jam non ex promissióne. Abrahæ autem per repromissiónem donávit Deus. Quid igitur lex? Propter transgressiónes pósita est, donec veníret semen, cui promíserat, ordináta per Angelos in manu mediatóris. Mediátor autem uníus non est: Deus autem unus est. Lex ergo advérsus promíssa Dei? Absit. Si enim data esset lex, quæ posset vivificáre, vere ex lege esset justítia. Sed conclúsit Scriptúra ómnia sub peccáto, ut promíssio ex fide Jesu Christi darétur credéntibus”.

[“Fratelli: Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua discendenza. Non dice la scrittura: E ai suoi discendenti, come si trattasse di molti; ma come parlando di uno solo: E alla tua discendenza; e questa è Cristo. Ora, io ragiono così; un’alleanza convalidata da Dio non può, da una legge venuta quattrocento anni dopo, essere annullata, così da rendere vana la promessa. Poiché, se l’eredità viene dalla legge, non vien più dalla promessa. Ma Dio l’ha donata ad Abramo in virtù d’una promessa. Perché dunque la legge? È stata aggiunta in vista delle trasgressioni, finché non venisse la discendenza a cui era stata fatta la promessa, e fu promulgata per mezzo degli Angeli per mano di un mediatore. Ora non si dà mediatore di uno solo, e Dio è uno solo. Dunque la legge è contraria alle promesse di Dio? Niente affatto. Se fosse stata data una legge capace di procurarci la vita, allora, sì, la giustizia verrebbe dalla legge. Ma la Scrittura ha racchiuso tutto sotto il peccato, affinché la promessa, mediante la fede in Gesù Cristo, fosse data ai credenti»”.

UNO SGUARDO AL CROCIFISSO

S. Paolo aveva insegnato ai Galati che la giustificazione non dipende dalla legge di Mosè, ma dalla fede in Gesù Cristo, morto per noi in croce. Ma Gesù Crocifisso. dipinto tanto vivamente dall’Apostolo ai Galati, era stato ben presto dimenticato da essi, lasciatisi affascinare da coloro che insegnavano dover noi attendere la nostra salvezza dalla legge. S. Paolo, rimproverata la loro stoltezza, nota come Gesù, morendo sulla croce, maledetta dalla legge, libera i Giudei dalla maledizione, e conferisce a tutti, Giudei e Gentili, che si uniscono nella fede in Gesù Cristo, lo Spirito promesso. Passa poi a far osservare come vediamo nell’epistola di quest’oggi, che la promessa dei beni celesti, fatta ad Abramo e alla sua discendenza cioè al Cristo, nel quale si sarebbero unite tutte le nazioni a formare un solo popolo, essendo incondizionata, fatta ad Abramo direttamente da Dio, e da Dio confermata, aveva tutto il carattere d’un patto irremissibile. Non poteva, quindi, venir indebolita o modificata dalla legge di Mosè venuta 430 anni dopo, con un contratto temporaneo. La legge, del resto, non escludeva la promessa, dal momento che essa non poteva giustificare e dare la vita, come fa la promessa. E neppure fu inutile; perché, facendo conoscere i numerosi doveri da compiere, senza porgere l’aiuto necessario, metteva l’uomo nella condizione di dover sperimentare tutta la propria debolezza e di sentir la necessità d’un Redentore; e di riconoscere, per conseguenza, che le celesti benedizioni non possono essere effetto della legge, ma della promessa, e che non si ottengono che con la fede in Gesù Cristo. Gesù Cristo, che morendo in croce, adempie le promesse fatte da Dio, sarà l’argomento di questa mattina. – Gesù Cristo Crocifisso, così presto dimenticato dai Galati, fermi la nostra attenzione.

 [A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

Graduale

Ps LXXIII:20; 19; 22.

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum: et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem.


[Signore, abbi riguardo al tuo patto: e non dimenticare per sempre le ànime dei tuoi poveri.]

Exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam: memor esto oppróbrii servórum tuórum. Allelúja, allelúja


[V. Sorgi, o Signore, e difendi la tua causa e ricordati dell’oltraggio a Te fatto. Allelúia, allelúia].

Alleluja

Ps LXXXIX: 1
Dómine, refúgium factus es nobis a generatióne et progénie. Allelúja.

[O Signore, Tu fosti il nostro rifugio in ogni età. Allelúia.]

Evangelium


Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XVII: 11-19

In illo témpore: Dum iret Jesus in Jerúsalem, transíbat per médiam Samaríam et Galilaeam. Et cum ingrederétur quoddam castéllum, occurrérunt ei decem viri leprósi, qui stetérunt a longe; et levavérunt vocem dicéntes: Jesu præcéptor, miserére nostri. Quos ut vidit, dixit: Ite, osténdite vos sacerdótibus. Et factum est, dum irent, mundáti sunt. Unus autem ex illis, ut vidit quia mundátus est, regréssus est, cum magna voce magníficans Deum, et cecidit in fáciem ante pedes ejus, grátias agens: et hic erat Samaritánus. Respóndens autem Jesus, dixit: Nonne decem mundáti sunt? et novem ubi sunt? Non est invéntus, qui redíret et daret glóriam Deo, nisi hic alienígena. Et ait illi: Surge, vade; quia fides tua te salvum fecit.”  

[“In quel tempo andando Gesù in Gerusalemme, passava per mezzo alla Samaria e alla Galilea. E stando por entrare in un certo villaggio, gli andarono incontro dieci uomini lebbrosi, i quali si fermarono in lontananza, e alzarono la voce dicendo: Maestro Gesù, abbi pietà di noi. E miratili, disse: Andate, fatevi vedere da’ sacerdoti. E nel mentre che andavano, restarono sani. E uno di essi accortosi di essere restato mondo, tornò indietro, glorificando Dio, ad alta voce: e si prostrò per terra ai suoi piedi, rendendogli grazie: ed era costui un Samaritano. E Gesù disse: Non sono eglino dieci que’ che son mondati? E i nove dove Sono? Non si è trovato chi tornasse, e gloria rendesse a Dio, salvo questo straniero. E a lui disse: Alzati, vattene, la tua fede ti ha salvato”]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

LA LEBBRA E I LEBBROSI

«Chiunque a giudizio del sacerdote è colpito dalla lebbra, venga espulso dagli abitati: con vesti senza cucitura, con nuda la testa, finisca la sua vita grama nella solitudine dei boschi e dei campi. Avverta di tenersi turata la bocca con la cocca del vestimento, perché l’alito impuro non oltrepassi la chiostra dei denti a contaminare l’aria che è per i sani. E se mai taluno, ignaro o incauto, starà avvicinandosi, lo arresti gridando da lungi il suo male: « Immondo! Immondo! » (Lev., XIII, 44). Or bene, avvenne che alle porte di un villaggio dieci lebbrosi videro passare il Figlio di Dio, e da lontano a gran voce lo chiamarono: « Gesù! Maestro! Misericordia anche di noi ». – In mezzo alla letizia dell’aria, della luce, del verde, Gesù scorse una massa di carne di un biancore orribile: addossati l’uno all’altro erano dieci lebbrosi. Qualcuno aveva i piedi gonfi e crepati, qualche altro alzava le braccia e le mani smozzicate dalle piaghe, e tutti erano ulcerosi, sformati, calvi, biancastri come la calce. Voi sapete quel che avvenne allora: come il Signore li abbia mandati dai sacerdoti, come nell’andare furono guariti, come uno solo su dieci sentì riconoscenza da tornare indietro; e costui era un samaritano. – Ora c’importa più che tutto notare come la lebbra dei corpi è un’espressiva immagine della lebbra delle anime: il peccato; e come il lebbroso corporale è una espressiva immagine del lebbroso: il peccatore. – 1. LA LEBBRA. Un mattino sereno, passeggiando sotto un arioso pergolato, il re di Francia discorreva col duca di Champagne. Diceva il re: « Qual è la malattia più atroce e schifosa da cui l’uomo può essere incolto? « Io dico la lebbra » rispose l’altro senza esitare neppure un attimo. «Ecco, son del vostro parere anch’io » soggiunse Luigi IX. E proseguì: « Duca se vi trovaste in tali contingenze da essere costretto a scegliere tra lebbra ed un peccato, che fareste voi? ». « Oh, sceglierei il peccato! » scattò a dire con un’incrinatura ironica nella voce. Re Luigi però aveva oscurato la fronte d’una nube di tristezza: « Sbaglio enorme il vostro », rispose alfine, e sospirava. « Sbaglio enorme, perché il peccato è una perfida lebbra che neppure cessa con la morte, ma perseguita di là ancora, sempre. Duca di Champagne, se mi amate, non v’incresca cambiar parere » (JOINVILLE, Histoire de St. Louis, c. 94). Che ve ne pare delle parole di S. Luigi IX re di Francia? Se avessimo la sua fede, se fossimo Cristiani integri e sinceri non dubiteremmo un istante a dargli ragione. Perché milioni di martiri sono corsi a morire nel fuoco, tra le belve, sotto il ferro? … per evitare il peccato. Perché migliaia d’anacoreti si sono flagellati ogni giorno nel deserto, tra la fame e la sete? Per evitare il peccato. Pessima lebbra è il peccato. a) Prima ancora che l’uomo fosse sulla terra, v’erano in cielo bellissimi angeli: uno di essi splendeva come il sole che nasce e tutti godevano gioie inenarrabili. Guardateli ora nel profondo inferno: non luce, ma tenebre li circonda, non gioie eterne, ma eterni tormenti, non ali ma catene, non cantici d’esultanza ma orribili bestemmie. Chi da Angeli li ha tramutati in demoni? Che malattia ha potuto deformarli così? la lebbra del peccato. « Per il peccato Dio non perdonò agli angeli, ma li precipitò nell’abisso e li consegnò alle catene dell’inferno per essere tormentati e riservati al giudizio » (II Petr., II, 4). b) Non sempre la terra fu una valle di lacrime. Da principio esisteva un giardino di delizie, ove nessuna stagione era intemperata, ove i fiori non cadevano e i frutti non cessavano, ove gli uccelli del cielo e gli animali del suolo, miti e graziosi, attendevano i cenni dell’uomo. E l’uomo e la donna, beati e immorituri, abitavano il giardino della delizia. Ma tutto cessa improvvisamente: la terra si fa ingrata e dura al lavoro, le malattie e la morte, le discordie e gli omicidi, affliggono i poveri mortali. Chi da paradiso felice ha trasformato la terra in spinosa valle di pianto? Che malattia ha reso noi così fragili e tristi da fortunati che eravamo? la lebbra del peccato! « Per il peccato, sia maledetta la terra del tuo lavoro, tra le fatiche le strapperai il nutrimento per tutti i giorni della tua vita, finché non ritornerai alla terra dalla quale fosti cavato: giacché polvere sei e in polvere ritornerai» (Gen., III, 19). c) Non solo in cielo, non solo in terra, ma ancora dentro di noi, gravissime sono le conseguenze del peccato. Dopo il peccato originale, si è incarnato il Verbo, la seconda Persona della Santissima Trinità, e ci ha redenti: ci ha rifatti figli adottivi di Dio. Ora attendete a questo pensiero importantissimo. Per poter essere adottati bisogna essere della medesima specie di colui che adotta: per poter essere adottati dagli uomini bisogna appartenere alla specie umana, giacché una bestia non potrà mai diventare figlio adottivo di nessun uomo. Ma noi pure non siamo della medesima specie di Dio, che anzi per natura siamo da Dio più lontani di quello che l’animale è lontano dall’uomo. Come mai allora possiamo essere figli adottivi di Dio? Ecco la grande meraviglia: Dio nel santo Battesimo ci dona, per i meriti di Gesù Cristo, una misteriosa partecipazione della sua natura che ci divinizza: Efficiamini divinæ consortes naturæ (II Petr., I, 4). Questo preziosissimo regalo di Dio all’anima nostra si chiama « Grazia ». È la grazia che ci rende quasi di natura divina. È la grazia che ci rende, per ciò, figli adottivi di Dio, fratelli minori di Cristo. È la grazia che ci costituisce legittimi eredi dei beni eterni. La Grazia è la nostra ricchezza, è la nostra salute, è la nostra gioia, per sempre. Soltanto adesso potete intravvedere che razza di lebbra è il peccato, quando vi dico che ci priva della grazia. Via fugge inorridito lo Spirito Santo! Via fuggono gli Angeli del Signore! Decaduti e abietti restiamo; restiamo come un ramo secco sull’albero, come un braccio morto al corpo. La lebbra toglie i capelli e le ciglia, sforma il corpo con piaghe biancastre. Il peccato toglie ogni spirituale bellezza e sforma l’anima con macchie paurose. La lebbra puzza di lontano e obbliga gl’infelici colpiti a soffocare gli aliti fetenti sul lembo della veste. Il peccato pure manda triste odore: e S. Filippo Neri e Santa Caterina da Siena ebbero grazia di sentirlo materialmente accostandosi alle anime peccatrici. La lebbra gonfia i piedi e le mani, e fa cadere le unghie e le dita; il peccato impedisce di camminare sulla via dritta e di lavorare per la vita eterna. La lebbra rende fioca la voce e nebbiosa la pupilla: il peccato rende deboli le preghiere e oscura la vista della fede. Quando lungo i fiumi dell’esilio il profeta Geremia pensava alla bella, alla grande, alla regale Gerusalemme, rovesciata nella rovina miseranda, senza tempio, senza case, senza vie, fatta un rovaio e un covo di rettili e di gufi, piangeva sconsolatamente: Come siede solitaria/ la città piena di popolo!/ È diventata come vedova la Signora delle genti; / la sovrana delle province fu sottoposta al tributo. (Lam., I). Ecco, sopra un’anima caduta in peccato, il profeta può ripetere con verità la sua lamentazione dolorosa. – 2. I LEBBROSI. Pensando a queste cose, affiora nella coscienza una scottante domanda: – Io, non sono forse lebbroso? La piaga ulcerosa del peccato non travaglia da giorni, da mesi, da anni, la mia anima disgraziata? Maria, la sorella di Mosè, aveva cominciato a covare gelosia ed odio contro il fratello: sparlava di lui e incitava gli altri a ribellarsi ai suoi ordini. C’era da temere una sollevazione. (Num. XII). Ma ecco, subitamente bianca di lebbra come neve (Num. XII). Pensate se nelle vostre famiglie voi pure come Maria siete la cagione di discordie, di lunghi rancori; pensate se tra il vostro prossimo voi pure, come Maria disonoratei superiori religiosi e civili con calunnie, con ingiurie… Se fosse così anche l’anima vostra, essa già è infetta di lebbra. È ancora detto nella Santa Scrittura che Ozia, re di Guida, divenuto potente e superbo di cuore, volle entrare nel santuario a bruciare l’incenso che a nessuno era concesso di ardere se non ai ministri di Dio. E mentre teneva in mano il turibolo e minacciava con gran collera i sacerdoti inorriditi per il sacrilegio, gli si sviluppò la lebbra sulla fronte, là dinanzi ai leviti, nella casa del Signore, presso l’altare dei profumi. Ozia fu dunque lebbroso e, coperto dal male, abitò segregato da tutti, fino alla fine dei suoi giorni. (II Paral. XXVI). – Pensate se non anche voi, come quel re, avete mancato di rispetto alle cose sante, specialmente al Nome di Dio e della Vergine con la bestemmia: poiché a nessuno è concesso di pronunciarli se non in devozione e in preghiera. Se fosse così anche l’anima vostra è già infetta di lebbra. Di un altro lebbroso racconta la Storia Sacra: Giezi, il servo del profeta Eliseo. Costui, avendo visto che il suo padrone aveva guarito un ricco capitano di Siria dalla lebbra senza nulla accettare, nascostamente lo rincorse e si fece dare quei doni che Eliseo aveva rifiutati. A sera, tornando carico d’argento e di vesti, incontrò il profeta, che gli disse « Giezi, tu ha venduto l’anima tua ed hai ricevuto denaro e roba; ma anche la lebbra del capitano di Siria s’attaccherà a te e alla tua discendenza in perpetuo. Giezi si trovò da quel momento lebbroso, e bianco come la neve. Pensate, Cristiani, se non mai come Giezi, servo del profeta, avete venduto l’anima per argento e per roba, o per meno ancora. Magari per compiacenza di una creatura, per un’ora di passione, per un pensiero cattivo… Se così fosse, l’anima vostra è già infetta di lebbra. – Il grande legislatore degli Israeliti aveva promulgato una legge che cominciava così: « Sta bene attento a non contrarre il flagello della lebbra…» (Deut., XXIV, 8). Cristiano, chiunque tu sia, ascolta oggi in altri termini la legge antica: « Sta bene attento a non contrarre il morbo del peccato… ». È questo una lebbra che non inquina il corpo ma l’anima; non dagli uomini ti separa, ma dai santi e dagli Angeli; non fuori dell’abitato ti caccia, ma fuori dal paradiso a bruciare nel fuoco eterno. — LA CONFESSIONE. Gli uomini del mondo hanno una grande smania di piacere alle creature. Molta cura pongono nei profumi, nei capelli, nell’eleganza del loro vestire: vanno ricercando le stoffe più delicate, vanno seguendo le fogge più strane per adornare l’esteriore del loro corpo, che spesso divien lo scandalo del prossimo. Oh, se avessimo almeno altrettanta cura di piacere a Dio!… invece, no. E mentre sospirano dietro la bellezza materiale e sciocca dei corpi, trascurano la vera bellezza che è nell’anima. E mentre anche con sofferenza sanno usare tutti i soccorsi della vanità per rendersi avvenenti; non vogliono ricorrere al facile e divino espediente che rende bella e graziosa l’anima: la confessione. Questo è appunto il senso mistico del Vangelo di oggi. Nelle folte campagne di una borgata giudaica viveva un gruppo di dieci lebbrosi, tra cui uno almeno era samaritano. Ma il male aveva sopito tra loro ogni dissidio nazionale, curvandoli tutti sotto la medesima piaga, il medesimo destino. Con occhi terribilmente dilatati, e non protetti più dalle sopracciglia ch’erano cadute a pelo a pelo, con orecchie ingrossate e deformi, con dita smozzicate, e con tutto il corpo in tormento, andavano per quella terra dolorando, quando Gesù passò di là. Tutti, senza avvicinarsi, ché la gente li avrebbe lapidati, levarono a Lui un grido straziante: « Gesù! pietà di noi ». Gesù si volse a quelle carni martoriate, a cui d’umano non restava niente fuor che la voce crucciosa, e disse: « Andate, presentatevi ai sacerdoti ». Ite: ostendite vos sacerdotibus. Andando, un nuovo flusso di sangue ascese per le loro vene; ogni piaga stagnò; tessuti corrosi si rinnovarono subitamente: per virtù di miracolo furono mondati e tornarono belli. Nel mondo c’è pure un’altra lebbra che fa strage, non nei corpi, ma nelle anime: il peccato. Il peccato, infatti, ci priva d’ogni bellezza e ci rende cancrenosi e fetenti davanti a Dio. E come gli immondi di lebbra erano scacciati fuori dalle città e dai paesi con sassi e con ingiurie, così gli immondi di peccato sono scacciati via dal paradiso, via da Dio e dagli Angeli suoi, e solo il demonio hanno compagno. È strano però che gli uomini, che non sapevano sopportare nelle loro case la puzza della lebbra, sanno tenere nel loro cuore marcio il fetore del peccato. Eppure, è soprattutto per la lebbra spirituale che Gesù disse: ostendite vos sacerdotibus. Andate, aprite tutte le vostre miserie al Sacerdote nella confessione, poiché la confessione guarisce e preserva dalla lebbra del peccato. – 1. LA CONFESSIONE GUARISCE DAL PECCATO. Nelle vite dei Padri c’è un’espressiva leggenda che a tutti piaceva sentire, in quei primi tempi. In una certa città viveva un uomo peccatore. Quantunque i richiami al bene non gli fossero mancati, pure s’era pazzamente buttato nel vortice della colpa, suscitando intorno uno scandalo rumoroso. Un Vescovo santo, nel vederlo passare, corse al suo cammino e cominciò a piangere amarissimamente per ciò ch’egli, più sollecito a piacere al mondo che a Dio, non si curava della rovina della sua anima piena di peccati, come il corpo di un lebbroso è pieno di piaghe. Mentre il Vescovo pregava e piangeva sulla nuda terra, vide venire verso lo sciagurato una cornacchia nerissima. Il santo, levandosi, la prese e l’immerse nell’acqua: l’uccello subito si tramutò in candida colomba. Il giorno dopo il peccatore, che aveva pur visto il miracolo, venne ai piedi del Vescovo con le lacrime agli occhi; e colui che prima era nerissimo per tanto peccare, fu lavato dalla confessione e divenne candido agli occhi di Dio, come anima graziosissima. Ecco un simbolo della confessione che guarisce l’anima dalle nere brutture del peccato. Se gli uomini potessero, così facilmente, con la sola confessione guarire i malati del corpo, chi sa come sarebbero sempre affollati i confessionali!… Invece, siccome si tratta dell’anima, gli uomini preferiscono trattenere la lebbra in cuore, vivere nella maledizione di Dio e degli Angeli, ma non presentarsi al Sacerdote. Non è l’anima da più del corpo, infinitamente? « Non ho bisogno di confessarmi davanti a un uomo, forse più colpevole di me,  — si dice: so intendermela direttamente con Dio ». Allora rispondetemi: a chi tocca stabilire le condizioni del perdono? all’offeso o all’offensore? senza dubbio, all’offeso. Ma l’offeso è Dio. E quel Dio ha voluto guarire i lebbrosi nel corpo solo mandandoli ai sacerdoti, ha stabilito di guarire i lebbrosi nell’anima solo per il ministero dei suoi Sacerdoti. « È tanta — si dice — la vergogna che sento! » È appunto questa umiliazione che vi renderà meno indegni del perdono divino. —. Ma il mio peccato è troppo grande per aver perdono… ». Non bestemmiate, così come Caino, la misericordia del Signore. Se il vostro peccato è grande, la bontà di Dio è più grande ancora. – 2. LA CONFESSIONE PRESERVA DAL PECCARE. S’era presentato a S. Filippo Neri un giovane sfiduciato. Il santo lo raccolse tra le sue braccia, lo riscaldò col suo palpito di padre e le sue braccia, lo riscaldò col suo palpito di padre, e gli disse tante parole incoraggiandolo a cominciare una vita nuova. Il giovane, ad occhi chiusi, ascoltò fino alla fine, poi rispose: « È inutile, padre ». « Perché dici così? ». – « Perché non so resistere: ho già tentato altre volte, ed ho fatto sempre peggio. Adesso non voglio nemmeno formare un proposito; per non aver poi il rimorso di trasgredirlo ». S. Filippo gli sorrise, raggiando fuori da quei suoi occhi grandi la luce ed il calore della sua anima santa. « Non disperare. C’è un rimedio che fa per te, è facile. Prometti a Dio che ti forzerai con tutta l’energia a non cadere per un giorno, e torna domani. » A domani il giovane torna. « E così? » gli dice, sorridendo, S. Filippo. « E così, risponde il giovane, oggi non sono caduto. Solo un momento d’incertezza; ma fu un attimo. Pensai che dovessi tornare qui, stasera, a confessarmi e respinsi la tentazione. Ma io ho paura per domani, per dopo… ». Non temere : prega e torna domani e dopo. E quel giovane torna domani e dopo, e poi torna tutti gli otto giorni, sempre più lieto, con l’anima pura e preservata dai peccati. Davvero che la confessione è un freno meraviglioso a reprimere i nostri istinti e i cattivi desideri! Il solo pensiero di confessare il peccato, e confessarlo presto, ci rattiene spesse volte sull’orlo dell’abisso. Ma quando l’uomo ha scosso il giogo della confessione, e non si confessa che una volta sola all’anno (povera confessione pasquale!) che meraviglia se di volta in volta si ripetono i medesimi peccati, o si aumentano? Credetelo: non si può essere buoni Cristiani senza la confessione e frequente confessione! (Nell’impossibilità attuale, si ricorre all’esame di coscienza – generale e particolare quotidiano – e pluriquotidiano, alla contrizione perfetta del cuore, al proposito di non più peccare e fuggirne le occasioni, col desiderio implicito di confessarsi appena possibile con un Sacerdote provvisto di missione canonica conferita da un Vescovo con Giurisdizione una cum il Santo Padre Gregorio XVIII -. ndr, -). Essa è ciò che c’è, praticamente, di più utile nella Religione. E perché, allora, nessuna pratica religiosa è più trascurata, più calunniata, più odiata di questa? Perché c’è di mezzo il demonio. Ma voi volete dar ascolto al demonio? – Le vie, le piazze, il sagrato della cattedrale di Tours erano assai frequentati dalla gente disgraziata. Alcuni, rasenti il muro, ciechi; altri, seduti nella polvere, sciancati: donne con grucce e fanciulli cenciosi: tutti ostentavano la propria miseria e i propri stracci alla pietà e, più ancora, alla borsa dei cittadini. Talvolta, tutta questa umanità pezzente si spaventava improvvisamente, come se passasse una folata di vento a ruzzolarsi sul selciato: chi si nascondeva dietro le porte, chi imbucava un vicolo vicino, e, chi poteva, fuggiva lontano. « Che c’è? ». « Viene Martino, il Vescovo della città ». « E per questo? ». Ma è un santo: che fa miracoli…  « Oh fortuna! ». « Oh disgrazia! Se ci prende, ci risana: e allora più nessuno ci farà la carità; e saremo costretti a lavorare ». – Ci sono altre persone che fan miracoli nelle anime: e sono i Sacerdoti che guariscono dalla lebbra del peccato. E c’è una turba d’uomini che fugge via da loro che non li vuol vedere, che non si vuol confessare. La Messa alla festa, sì; qualche offerta a S. Antonio, pure; qualche lumino per la Madonna, anche. Ma la confessione, no, no! Perché? Perché se si confessano dovranno promettere di non peccare più; di restituire, di lasciare quella compagnia. Invece queste cose non piacciono a loro. — IL SACERDOTE. Ite: ostendite vos sacerdotibus. Gesù, che da solo aveva guarito il sordomuto, che da solo aveva dato la vista al cieco nato, che col solo comando della sua voce destò Lazzaro da morte, perché ha voluto che i dieci lebbrosi andassero dai sacerdoti? Fu per insegnarci il grande potere che dovevano avere i Sacerdoti della nuova legge, di cui quelli giudaici erano una figura. Gesù non doveva rimanere sempre sulla terra: eppure le anime nostre avrebbero sempre sentito bisogno di Lui, della sua parola viva che risuona alle nostre orecchie sensibili, del suo ministero. Ed allora Gesù istituì il Sacerdozio: e mandando i dieci lebbrosi ai sacerdoti di Gerusalemme per essere guariti, ci voleva insegnare come ogni potere sopra le anime nostre Egli avrebbe affidato ai suoi Sacerdoti. Ite: ostendite vos sacerdotibus. Il Sacerdote, dunque, è colui che visibilmente perpetua Cristo nei secoli; è un altro Cristo. Alter Christus. Allora avrà la medesima sorte: sarà anch’egli il segno della contraddizione; ed anch’egli come il Maestro avrà gioia ed umiliazione, dignità e disprezzo; molta gioia e molto dolore. – 1. DIGNITÀ DEL SACERDOTE. L’uomo più grande di tutto il Vecchio Testamento è, senza dubbio, Mosè. Giovanetto ancora pascolava la greggia sul monte, quando vide un roveto che ardeva e che gli affidò tutto il popolo da condurre. Sul Sinai il Signore gli darà le tavole della legge e quando scenderà dal monte due raggi di luce circonderanno la sua fronte. Ebbene: il Sacerdote è il Mosè del Nuovo Testamento, ma più grande, ma più divino: a lui Dio ha affidato la nuova Legge e il nuovo popolo, e attorno alla sua fronte brillano tre raggi di luce che rappresentano il triplice potere di cui è insignito: istruire, nutrire, guarire le anime. a) Istruire: quando Gesù risuscitò da morte apparve agli Apostoli e disse loro: « Andate in tutto il mondo e predicate la mia dottrina a tutte le genti ». Da quel giorno i Sacerdoti furono i maestri della terra, e la luce che, splendendo sul candelabro, rischiara tutti coloro che sono nella casa. Rischiara i piccoli: e i Sacerdoti, con pazienza ed umiltà, si consacrano ad innestare in quelle piccole anime il germoglio che li farà onesti cittadini e sinceri Cristiani. Rischiara i giovani: è il Sacerdote che negli oratorii e nei circoli insegna alla gioventù le prime battaglie della vita, è dal Sacerdote che imparano ad essere puri e forti. Rischiara i popoli: dal pulpito, ogni festa e più spesso, insegna la via che ognuno nella sua condizione deve percorrere se vuol raggiungere il paradiso. « Uno solo è il Maestro » sta scritto nel Vangelo, ed è Gesù Cristo. Ma Gesù Cristo insegna per la bocca de’ suoi Sacerdoti. Quindi: « Uno solo è il Maestro » possiamo ripetere noi, ed è il Sacerdote. b) Un altro potere, e più grande, fu dato ai Sacerdoti, quello di nutrire le anime. Quaggiù sulla terra noi siamo come il vecchio Elia: siamo perseguitati dal demonio e dalle nostre passioni, abbiamo tanto da patire in questa valle di lagrime; talvolta, come il vecchio Profeta ci sentiamo scoraggiare e dal labbro ci sfugge il grido di angoscia: « Signore, fammi morire che sono troppo stanco ». Ma ecco l’Angelo di Dio: è il Sacerdote che alle nostre anime stanche e sfinite dona un pane misterioso: la Santa Comunione. È il Sacerdote che ogni giorno sull’altare rinnova l’ultima cena di Gesù Cristo e sopra la bianca ostia ripete le parole della consacrazione e Dio alla sua voce discende suoi nostri altari e si fa cibo alle anime nostre. c) Infine al Sacerdote fu dato il potere di sanare le anime dai peccati: ed ogni giorno al confessionale si rinnova il miracolo dei dieci lebbrosi. « Ma chi può perdonare i peccati! » esclamavano un giorno i Giudei scandalizzati, « chi può perdonare i peccati se non Dio? ». Ed il Sacerdote non ha poteri divini? Egli è un altro Cristo: Alter Christus.  – 2. DOLORE DEL SACERDOTE. Se il Sacerdote è la dignità più grande sulla terra, Dio gli ha però riserbati i sacrifici più duri. Gesù ai due figliuoli di Zebedeo che volevano diventare suoi ministri, uno alla destra ed uno alla sinistra, domandò: «Potete voi bere il calice di dolori ch’io berrò? ». « Possiamo! ». Questa parola ogni Sacerdote la ripete presentandosi alla sacra ordinazione: Dominus pars hæreditatis meæ et calicis mei. Ed ecco che la tonsura, quasi corona di spine, gli segna la testa; e la stola quasi fune gli avvince il collo, e la pianeta quasi croce gli viene addossata; e così s’incammina all’altare come Cristo al Calvario. Sul Calvario Cristo si sacrificò per il popolo, e il Sacerdote deve sacrificare la sua vita per il popolo. Pro hominibus constituitur (Hebr., V, 1). Forse che gli uomini lo ricompensarono con amore? Troppo spesso il mondo perseguita il Sacerdote come un giorno ha perseguitato Gesù. Il discepolo non è da più del maestro. I primi preti tutti subirono il martirio: e chi fu messo in croce e chi fu gettato in pasto alle belve, e chi fu immerso nell’olio bollente, e a chi fu stroncata la testa. E poi, giù nei secoli, la storia del Sacerdozio fu una storia di dolore. Noi sappiamo che dalla Francia, non molti anni or sono, furono scacciati: ed essi lasciarono le loro opere d’amore e di bene ed esulando si volgevano a benedire e a pregare per la patria che li maltrattava. – Durante la persecuzione messicana (1927), un sacerdote fu martirizzato. Si chiamava Librando Arreola. « Perché m’imprigionate? ». « Perché sei un prete ». « È forse un delitto esserlo? ». Ma era l’odio contro Cristo che li inferociva sopra quella santa creatura. E nell’oscurità della prigione, con la scure, gli tagliarono via tutte e due le mani. E ghignando gli dissero: « Così non dirai più la Messa… ». Egli allora nello spasimo atroce alzò i moncherini grondanti, ed asperse i carnefici col suo sangue: « O Dio, perdona… ». E poiché si sentiva morire per il dissanguamento, raccolse le ultime forze, nell’agonia esclamò: « O America, ascoltami: io muoio, ma Dio non muore.. ». – Un uomo, abbandonato a tutti i vizi e tormentato dal demonio, avendo sentito che S. Domenico era in Bologna, corse a vederlo, ascoltò la sua Messa, e poi si presentò a lui per baciargli la mano. Appena diede il bacio, ne sentì un tal profumo di paradiso, quale mai aveva gustato in vita sua fino allora. Meravigliosamente si spense in lui il fuoco della lussuria, e si convertì a una vita cristiana. Ite: ostendite vos sacerdotibus. O Cristiani, quando le tentazioni vi sopraffanno, quando il demonio tormenta nei peccati l’anima vostra, presentatevi anche al Sacerdote per ascoltare la S. Messa o meglio per confessarvi. Anche voi come quell’uomo di Bologna sentirete un profumo di paradiso, anche voi come i dieci lebbrosi sarete mondati.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIII:15-16
In te sperávi, Dómine; dixi: Tu es Deus meus, in mánibus tuis témpora mea.

[O Signore, in Te confido; dico: Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono le mie sorti.]

Secreta

Popitiáre, Dómine, pópulo tuo, propitiáre munéribus: ut, hac oblatióne placátus, et indulgéntiam nobis tríbuas et postuláta concedas.

[Sii propizio, o Signore, al tuo popolo, sii propizio alle sue offerte, affinché, placato mediante queste oblazioni, ci conceda il tuo perdono e quanto Ti domandiamo.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Sap XVI: 20
Panem de cælo dedísti nobis, Dómine, habéntem omne delectaméntum et omnem sapórem suavitátis.

[Ci hai elargito il pane dal cielo, o Signore, che ha ogni delizia e ogni sapore di dolcezza.]

Postcommunio

Orémus.
Sumptis, Dómine, coeléstibus sacraméntis: ad redemptiónis ætérnæ, quǽsumus, proficiámus augméntum.

[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, ricevuti i celesti sacramenti, progrediamo nell’opera della nostra salvezza eterna.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (218)

LO SCUDO DELLA FEDE (218)

MEDITAZIONI AI POPOLI (VI)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE VI.

Come ci prepariamo alla morte?

i denti anneriti, resta spalancata la bocca, e l’anima da quell’orrendo cadavere viene già trabalzata al tribunale di Dio!… Il Sacerdote nel tremendo istante stringendo nelle sue mani tremanti quelle mani convulse: Figliuol mio, grida, vi è ancora misericordia! io vi assolvo in nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo… Gesù, Gesù, salvate quest’anima! Gesù, Maria, Giuseppe, ricevete quest’anima nella sua agonia… Angeli, Santi, accorrete !!… Ed egli vomita l’anima in braccio al demonio!… Signori, disingannatevi! una vita non mai preparata alla morte va per lo più a terminare così.

Noi lavoriamo, lavoriamo per raccogliere un po’ di beni di terra; e alla morte tutti i beni raccolti ci cadon di mano per terra. Noi corriamo appresso a lusinghevoli vanità; e nell’atto di raggiungerle, vanno in dileguo. Noi ci stringiamo di tutto cuore alle creature che ci sono care; e quando crediamo di amarle per sempre, ci si corrompono in seno. Noi travagliamo, travagliamo in tutti questi pochi anni di vita per ammucchiare un poco di polvere, che noi chiamiamo ricchezze; e la morte ci percuote, e ci fa cadere cadaveri sui mucchi di polvere, che abbiam raccolti! Ah che cosa è mai questa povera vita nostra? Un fiore che brilla di vivaci colori alla mattina: dice san Gregorio Nazianzeno, ed è appassito e morto la sera: una soffiata di vento, che passa rumoreggiando, e non è più; una nave che scivola a vapore sull’onde del tempo, e non lascia un segno del suo passaggio: è un lampo di luce, che gitta nella oscurità! Che è mai la vita anche dei grandi del mondo? Hai mai veduto il polverone che s’innalza dietro il carro, il quale corre sopra via d’estate? Guardalo da lungi: quando gli danno dentro i raggi del sole, ti par un monte d’argento; corrigli vicino: dov’è il monte d’argento?… Precipitò la polvere per terra! Signori, il tempo della vita è come un rapido torrente, che rompendo tra i sassi scorre appiè del trono di Dio, e porta via sul filone dei fiotti, come fuscellini a galla, le generazioni degli uomini, e le trabocca nell’abisso dell’eternità: e noi, come le bollicine di spuma restate per poco ad un fil d’erba attaccate, traballiamo un istante sul vortice dell’acqua veloce del tempo, che ci travasa tutti nell’oceano dell’eternità. Eternità, che sei tu mai? Se io domando alla ragione che cosa è l’eternità, la ragione mi risponde: ne ho un sentore, ma non l’intendo. Se lo domando alla filosofia, mi dà per risposta: l’ammetto, ma mi confonde! Se domando alla mia coscienza, che cosa è l’eternità, mi risponde: mi fa paura! Ma che cosa è mai dunque questa eternità in cui corro a buttarmi dentro?… Non mi resta che domandarlo alla Religione, la quale mi risponde con chiaro concetto: l’eternità è il paradiso, o l’inferno, che duran sempre! Lasciamo le baie, o signori, lasciamo gli scherzi di questo mondo di un’ora, e prepariamoci alla eternità, che troveremo alla morte tale, quale noi ce l’abbiamo preparata nel tempo della vita; poiché la morte rende l’eco della nostra vita. Provatevi a gridare là dove risponde l’eco, e la vostra voce istessa vi ritornerà ripercossa all’orecchio. Siete voi vissuti senza pensiero di Dio? Ahi! alla morte vi troverete abbandonato da Dio; e l’uomo abbandonato da Dio in morte è uom perduto in inferno. Cercate voi Gesù, frequentate i Sacramenti, per salvarvi in braccio a Lui? Morirete nel bacio di Gesù in pace ed entrerete nel gaudio del Signore, ch’è il paradiso! La vita adunque non è che una prova, una scuola per imparar a morir bene. Ecché? L’artigianello nella bottega dell’operaio al tirocinio lavora senza paga per anni, a fine di apprendere un povero mestiere da campar grama la vita: lo studente consuma il fior della gioventù nei difficili studi, per tornar dalle università laureato È in patria: e poi? poi in fine muoiono. Eh valeva di spendere tanto di vita, per vivere onorati così pochi anni? Ma era prudente cosa, mi risponderebbero tutti, il provvedersi da vivere in questi pochi anni. Bene sta. Ma non sarà prudente lo spendere questa breve ora del viver nostro, per prepararci ogni ben di Dio per tutta l’eternità? La scuola adunque della morte è la più ragionevole, la più utile delle scuole. Faremo perciò questa sera un po’ di scuola per imparare a morir bene. La faccia ogni mese chi vuol assicurarsi la vera sua fortuna, il paradiso. – Signori, noi moriam tutti. Lasciamo adunque i pregiudizi: una cosa è la più importante, ciò è trovarci alla morte preparati pel paradiso: e chi di noi non si prepara a morire con buone Confessioni, e coll’unirsi a Gesù Cristo nella vita cristiana, va per lo più con una cattiva morte a dannarsi all’inferno, laddove chi in vita cerca coi Sacramenti di unirsi a Gesù nel corso’ di una vita cristiana, riceve la corona della sua vita devota a Dio in una beata morte: ha il paradiso. Salvatore nostro Gesù, Voi che fino nelle ansie della vostra agonia consolaste il peccatore che vi domandava di aiutarlo a morire, tirateci Voi tra le vostre braccia per prepararci a spirare devotamente e nel vostro Costato. E Voi, o Madre santissima addolorata, che col cuore straziato assisteste nell’agonia il Divin vostro Figlio, deh! per questa tremenda angoscia vostra mostrateci fin d’ora a prepararci alla santa morte, cosicché nell’agonia i figli volino in braccio alla Madre in paradiso. Pregate adesso, e nell’ora della nostra morte: ora pro nobis nunc et in hora mortis nostræ. Noi non possiam lusingarci di non aver da morire; tuttavia pare che crediamo di allontanarne il pericolo col non pensarvi. La morte ci atterrisce il al solo immaginarla; e noi col non pensarvi ci bendiamo gli occhi e corriamo a perderci senza spavento. È terribile la morte del peccatore; ma si batte tranquillamente la strada che conduce a quel termine tremendo! Deh provvediamo a metterci in salvo dal più orribile di tutti i pericoli, dalla mala morte. Fra poco tempo, e quando non l’aspetteremo, verrà il momento in cui noi ci troveremo sul letto a tmorire. Vedremo che le visite degli amici si fanno più rade; i medici nel loro fare incerto ci lasceranno comprendere che non ne possono più niente; i congiunti intorno con una insolita tenerezza… ci faranno uno sforzato coraggio; ma noi leggeremo facilmente negli occhi dei nostri cari, che vanno nell’altra camera ad empire le mani di pianto sulla nostra disgrazia! Intorno a noi una morta calma, un cupo silenzio … Qualche amico più confidente ecco viene fino all’uscio della nostra stanza, fa capolino, e si tira indietro dicendo: che non vuol disturbarci; ma è perché ha paura di noi che siam tantosto cadaveri!… Una persona, per lo più devota, si fa appresso del letto e con una confidenza mai non usata ci dice, che dobbiamo farci coraggio, che si prega per noi, che staremo meglio, che si spera… ma che sarebbe bene… per la quiete della famiglia… per divozione… È che? — Ricevere i Sacramenti al letto! — Oh Dio! — dobbiam dunque morire? — Che terribile colpo, che rompe sull’istante tutti i nostri disegni!… Noi qui nel mondo siamo come il pulcino sull’aia che va razzolando per entro alla lolla, e se trova qualche granello, batte le aline, saltella vivace; quando ecco l’avvoltoio gl’irrompe addosso e stridendo lo porta via. Mentre noi siamo tutti affannati ad arraffare ricchezze tra la polvere della terra, ahi! come aquila, che rapida piomba, ci cade addosso la morte, ci artiglia, ci porta nell’eternità; e delle cose del mondo forse non ci restano che sole le nostre colpe. Finché la sanità è fiorente, della nostra coscienza non vediamo che la superficie: un lungo abito di peccati si guarda come un solo peccato; e delle nostre passioni ci salta agli occhi solo la più tiranna. Ma la moltitudine delle nostre colpe, da noi tutti i giorni incautamente ingrossata, sta come una turma di assassini in agguato, per assalirci nel terrore di quella ultima confusione. Allora ah ci assalgono tristi fantasmi, immagini di tali persone e di tali fatti che… ah stanno come spettri, dinanzi agli occhi: e crudi rimorsi, come serpi mordono nel cuore; e più l’anima si addentra in quel tenebrore, i nemici ingrossano a furia, a maniera delle nubi nell’ora del temporale. Io non so, o fratelli, se voi non vi siete mai trovati in mezzo ad una solitaria campagna sul far della notte tra lo scoppiar di una tremenda burrasca. Allora buio il cielo, e dal tetro orizzonte nubi biancastre scorrono basse basse ad investir la terra: il mar ribolle ruggendo, e sopra esso nell’aere scuro il bianco airone fa il largo giro, mette uno strido, e si tuffa nelle onde. Allora gli augelli cercano un cavo negli alberi dove nascondersi; le fiere del bosco escon di tana, fiutano in alto, sentono odor di tempesta, e si rintanano; e fin le piante par che abbassino i rami ad aspettarla. L’aere è negro negro, romba il tuono, guizzano lampi, che ah! fan vedere più spaventosa la tempesta sul capo. Allora cerchiamo un nascondiglio a riparo. Così il povero peccatore, quando la morte lo sorprende non preparato. In quella tempesta d’affetti, tra il rombar di rimorsi e le immagini di peccati, guizzano certi lampi di verità, che abbruciano l’anima: e succede orror di sepolcro, terror del giudizio, buia eternità, truce bagliore d’inferno!… Il peccatore meschino cerca rifugiarsi, con fremito convulso abbranca le lenzuola, e tremebondo in tutte le membra, dice rotto, che vuole andare a casa!… Gli astanti impauriti mormorano sommessamente: Poverino sta male di morte! – Ma egli si sforza di riaversi, e dice a se stesso: che non morirà. Si cerchi un altro medico. Viene a consulta il più dotto del luogo, il quale con quel suo gran fare lusinga a parole; e l’ammalato trangugia in tremito gli ordinati rimedii, quasi bevesse la vita. Così, mentre si sente morire, per un fil di speranza si attacca furiosamente alla vita che manca. Come l’uomo che barcollando dalla vetta del monte scivola sulla rupe che gli sfugge di sotto: cerca sorreggersi, e precipitando sì aggrappa agli sterpi, s’arraffa alle spine, ma gli sterpi e le spine gli scappan di mano; gira le braccia per attaccarsi, quando piomba giù a rovina; nello stesso modo il disgraziato si attacca più vivamente al mondo quando la mano di Dio dal mondo lo balza nell’eternità. Oh morte, amara morte, così mi separi dal mondo? Siccine separas, amara mors ? Ma conviene che egli si disponga a confessarsi. I parenti si consultano… E quale sarà il suo confessore? Si guardano in volto con peritosa incertezza, e la consorte sospira con un gemito! La buona tutti gli anni alla santa Pasqua lo scongiurava che adempisse al principale dovere del Cattolico, si riconciliasse con Dio nella Confessione: ed egli in risposta una truce bestemmia. Ma intanto la morte si appressa. Presto, un Confessore qualunque!… Signori, ho da scoprire una piaga?… Eh mi è più cara la vostra salvezza che non il nostro onore sacerdotale! Io parlerò di coloro che, guardando la Pasqua come un tributo ancora da pagarsi al rispetto umano, con maligna accortezza si scelgono per Confessore un povero Prete, la cui vita mondana non possa essere di molto rimprovero alla loro propria, che vogliono continuare in peccato. Fermano nell’angolo della sagrestia un malcapitato Sacerdote, fosse pure un uom di piazza, e: fammi da profeta tu: esto mihi propheta! Dicongli in loro linguaggio. Giacché pensano che non avrà tanto zelo inquieto da disturbarli nella loro vita oziosa. Scelgono insomma un condottiero cieco, che li meni nel proprio accecamento in perdizione! Si cæcus cæcum ducit, ambo in foveam cadunt. Quanto è terribile Dio nella sua vendetta! Il peccatore voleva un Confessore mondano in vita per continuare ad offenderlo: ed ora per colpire il peccatore coll’istessa arma, in pauroso castigo… lascia che il peccatore sopra morte s’abbia un Confessore mondano! Ahi quanto è poi arido lo spirito del mondo! non ha una consolazione da dare nell’ora della morte! In tutta fretta, con alcune tronche parole, il prete voluto l’ha già confessato e assolto; se ne sbriga in furia, e va, abbandonando l’infelice morente nel terribile impegno di morire senza essere ben preparato. – Può avvenire che qualche anima buona tenga modo che gli sia mandato al letto un Confessore santo. Allora l’uomo di Dio lo vorrebbe disporre colle industrie della carità, e: Mio signore, da quanto tempo si è confessato?… Ed egli a lui: è già tanto…; non mi ricordo. — Ma da quanto tempo in questo peccato?… — Sempre: è il mio debole. — Ma quanti anni in questa pratica cattiva?… — Eh tanti anni…; ne aveva bisogno. — Dio della misericordia!… Ma qui è necessaria una confessione generale! — Per formarsi alla meglio un giudizio, il Confessore esamina… interroga… Ahi! con una mente che vacilla, con una memoria che si confonde, con un cuor che si spegne, con una lingua già incadaverita come stenebrar quegli abissi? come schiarire quella confusione di orrori a fine di metter in calma quella coscienza?. Ancor cerca di penetrarvi; ma l’infermo si conturba, si fa rosso infuocato… Il Confessore si accorge che egli diventa tutto convulso!… L’ha da far morire di spavento?… Tanto è inutile:… non lo comprende più!… Alza la mano, e gli dice tremando: Io ti assolvo per quanto posso… — quasi a dirgli: Va, ché sarai più esattamente giudicato da Dio! — Grande Iddio! uscirà quest’anima in tal confusione: si sveglierà scagliata ai piedi del tremendo tribunale della vostra giustizia, senz’altro intervallo tra una vita di peccato e la severità del vostro giudizio, che il vaneggiamento di pochi dì di malattia in furore? Sì, la settimana passata diguazzava ubbriaco in tempo delle funzioni nella bettola, e girava la notte a peccato proprio in quest’ora; stanotte va al giudizio di Dio: tre giorni fa nella casa del peccato, ora ad essere giudicato da Dio: senza altro tempo in mezzo tra il peccato mortale e la severità del giudizio tremendo; si, senza altro intervallo che di tre giorni di vaneggiamenti e di frenesie in furore. – Ben consolatevi voi, o cari, i quali in questa missione comporrete a pace la vostra coscienza, e per l’avvenire confessandovi sovente, così avrete il conforto di trovarvi preparati al giudizio di Dio. Alla morte chiamerete al letto il Confessore vostro: egli verrà, e il Confessore sarà l’amico che non abbandona l’amico nell’ora della paura: sarà come il medico che viene a calmarvi gli spasimi dell’agonia, sarà come un padre tenero ad asciugarvene i freddi sudori. Il Confessore sarà per voi come un Angelo che viene dal cielo a versare il balsamo del Sangue di Gesù Cristo sulle piaghe del vostro cuore tanto lacerato in quell’istante; o più ancora il Confessore sarà un ambasciatore, un vero plenipotenziario mandatovi dal Signore a dirvi a suo nome: Confida, o figliuolo, i tuoi peccati ti sono rimessi; ti do la scritta del perdono: presentala al giudizio segnata dal Sangue di Gesù Cristo: confide, fili, remittuntur peccata tua….. in nomine Jesu Christi: Amen. Noi, buon (GesùRedentore, vi baciam nel vostro Costato, perchévoi, che avete provato le angosce dell’agonia, ci deste la Confessione per farci spirar consolati nel vostro Nome. Ma può avvenire che noi moriamo all’improvviso. Dio tremendo! Avviene pur troppo che il peccatore sia là colla creatura del peccato, e che essole cada morto sui piedi all’improvviso! Capita che nel furor di una perdita di giuoco uno squarci labocca ad una bestemmia, e muoia colla bestemmia strozzata in gola! Che un altro sia là sul letto dei piaceri addormentato; e la morte gli dia il colpo…oh e’ si svegli sepolto in mezzo ai demoni nel fuoco d’inferno! Deh, deh pensatevi sopra (gridava per terrore infuocato s. Leonardo da Porto Maurizio).questo pensiero vale una predica! Uno può essere in peccato mortale addormentato, sentire il colpo di morte, aprire gli occhi e trovarsi all’improvviso sepolto coi demoni nel fuoco d’inferno! Pensateci, vi replico atterrito col Santo, pensateci!…Di certo si muore all’improvviso! anzi si muore troppo frequentemente all’improvviso. Noi non sappiamo bene se siano o i perturbati elementi, o i nostri metodi di vita alla moderna; se siano le passioni di più esacerbate, ovvero, come speriamo, se Dio colpisca in misericordia i buoni per dare avviso ai malvagi. Egli è un fatto che le morti improvvise si van ripetendo in tutti i luoghi a universale terrore; e voi le contate pressoché ogni giorno. Nei passati tempi qualche volta accadeva una morte improvvisa; ma era come uno scoppio di un di quei globi roventi, che di rado cadono di cielo, e nella loro caduta fan sentire un gran rombo le cento miglia lontano. Così le rade morti improvvise spandevano il terrore in tutto un regno. Si raccontava nelle famiglie nostre: il tale in quella città è caduto morto all’improvviso: restavamo muti un istante, poi un bisbigliare tutti colla nostra madre la preghiera: A morte improvisa libera nos, Domine!…. Ora queste tremende morti si ripetono tutti i dì; e noi assuefatti le ascoltiamo con una indifferenza che fa spavento. Se facciamo il calcolo quanti ne muoiano ad ogni mille, il conto ci dà chedi noi ora qui in questa chiesa molti troppo dovrebbero morire all’improvviso. Eh che la morte giàci mira alla vita! ah che qualcuno cade forse colpito ora… Guai a me! guai a voi! All’intronar tutt’intorno di quei colpi di morti improvvise io trabalzo in mezzo di voi strillando, come fa la chioccia sull’aia quando in mezzo ai pulcini guarda inisbieco in alto lo sparviero, il quale va roteando alarghi giri; fa la svolta, e stendendo gli artigli e il rostro giù, si vibra a terra. Garrisce la povera gallina madre che ella è: arruffa le penne, sì dibatte dell’ali, trabalza atterrita, croccia, croccia; e chiama crocciando i pulcini a salvarsi sotto la vita sua!…. Ah… piomba il falco! la si dà morta per terra!… poi si rialza… Oh le manca un pulcino! Ascolta in aria, e sente che geme negli artigli al girifalco… Corre furiosa: batte coll’ala i pulcini sperduti, e caccia tutti in un buco a salvarsi. Anch’io, anch’io vedo in alto che va roteando la morte, che ci adocchia la fiera: poveri, noi, veggo che ci coglie !…… Là siamo salvi ancora!. ahi che il colpo mi ha ucciso qui al fianco un amico! di là sento urla!..,. mi ha portato via un figliuolo!…. li ci è colpito un parente!…. Ma io non ne posso più!…. Strido col cuor lacerato: Salvatevi, salvatevi tutti! Io voglio cacciarvi tutti a riparare sotto le grandi ali del perdono di Dio: voi cioè vi dovete mettere tutti in grazia di Dio, affinché non vi porti via la morte improvvisa. Ma, se saremo in grazia, non potrà forse colpirci la morte improvvisa? No certamente. Potrà ben venire la morte repentina: ma improvvisa no, perché  l’abbiam prevista, e ci siamo provveduti. — Che se vi coglierà in grazia di Dio la morte repentina allora sarà una sorpresa d’amico. Quando è già da molto tempo che un amico non ha l’altro amico veduto, ed ora lo travede tra gente in calca, gli va adagino alle spalle, gli passa la mano sugli occhi all’impensata. In questa sorpresa l’amico quasi impaurito: ma chi è? esclama: l’altro gli risponde con un bacio in fronte, bacio reso più caro da quel quasi timore della sorpresa. — Fratelli, saremo noi in grazia, noi… Oh…. che è mai?…. Mi si oscura la vista!….. Mi manca il cuore ….. ahi che muoio!… o Gesù… o Maria !… Che spavento è la morte!,.. No, non abbiam tempo di spaventarci; ché non è più la morte; vi è Gesù che mi abbraccia alla vita nel bacio del paradiso!….. Oh paradiso,.. oh paradiso… oh benedetta la predica che mi fece preparare alla morte improvvisa! Ma è da ricevere il Santissimo Sacramento. Questo è il Mistero della Fede: Mysterium fidei. State attenti. Il Signore tratto tratto si degna di suscitare la divozione, anzi la fede con miracoli; e non vi è santuario della Madonna che non ne conti la sua serie. Celebri sono quelli dî Rimini, della Salette, di Lourdes; e noi ne vedemmo a Taggia; e poi quanti operati sulle tombe dei Santi! Ora se gli empi, a dispetto di tutte le prove da soddisfare la critica più esigente, calunniano e sanno di calunniare i devoti, dicono che li inventano; noi domanderemo loro perché mai non se ne inventano altrettanti e maggiori, siccome fatti dal SS. Sacramento, il più caro oggetto della divozione di tutti? Increduli! Nol vel diremo noi: È perché il Sacramento é più specialmente il Mistero da esercitare la Fede: Mysterium fidei… Noi crediamo che vi è Gesù nel Sacramento colla fede, potenza che viene da Dio. Invano gli occhi, il gusto, le mani ci dicono che non è: noi crediamo a dispetto dei sensi, che vi è il Corpo ed il Sangue di Gesù. Invano l’eresia dei protestanti, madre infelice del razionalismo, dice che è un segno, una figura; noi, a dispetto dell’orgoglio e dell’ eresia; e delle pretensioni della ragione, crediamo, che vi è proprio il vero Corpo e il Sangue di Gesù. Invano l’umanità progredisce nelle sue scoperte; noi crediamo colla fede degli Apostoli di mille ottocento anni fa. Eh noi siamo l’umanità più dotta, più virtuosa: perché la Chiesa Cattolica colla serie de’ suoi grandi uomini e de’ suoi Santi rappresenta l’umanità più colta e più virtuosa, ed è la maggior potenza intellettuale e morale del mondo: e noi con tali dotti, che non indietreggiano mai per le difficoltà nella ricerca del vero, con uomini dalle virtù eroiche più sfolgoranti, noi, buon popolo, noi facciam con essi come un sol corpo di una mente e di un cuore solo; noi crediamo, e crediamo unicamente perché Gesù Cristo dice: Questo è il mio Corpo, è il mio Sangue: quasi non ci curando neppure di citare miracoli, avvegnaché ne abbiamo dei grandiosi, come quello di Orvieto, in cui l’Ostia consacrata mandò vivo Sangue delle piaghe divine; e quello di Torino, dove l’Ostia santissima uscendo dalla pisside rubata elevossi in aria e stette sollevata risplendente qual sole al cospetto della città, la quale le innalzò una chiesa, a monumento eterno. Noi crediamo colla fede di s. Luigi re, che chiamato a veder Gesù visibilmente apparso sull’altare nel Sacramento, rifiutò di andarvi, essendo troppo più sicuro di crederlo colla sola fede, che di crederlo per averlo veduto. Noi crediamo di tal fede da voler dare la vita per difendere la nostra credenza. E qui appare l’onnipotenza di Gesù Cristo, il quale assoggetta tutte le menti dei popoli e dei più dotti con questa sola parola: questo è il mio Corpo: questo è il mio Sangue. Ma vi ha una fede, ch’è fede così morta che a mala pena si distingue dalla vera infedeltà. Lo dobbiamo dire? Se si domandasse ad un tale, se crede in Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento, egli risponderebbe forse indegnato: sì che credo e ché non sono io protestante. Ma, se credete (gli vogliam dire) perché mai bisogna scongiurarvi per farvelo ricevere almeno alla santa Pasqua? Perché lo si lascia senza un pensiero al mondo nelle chiesuole in un tabernacoletto che … e in villano abbandono? E se credete, perché si porta in trionfo la vanità fino sugli occhi a Lui sull’altare? Questa è fede morta! – Ma per morire santamente è necessaria viva la fede cattolica. Racconterovvi un fatto. Sofia principessa di Germania favoriva i falsi vescovi protestanti che si radunavano a convegno nelle sue sale. Quei sedicenti vescovi (benché si sia dichiarato, che ciascun protestante, massime della plebe, può morire come sel crede, senza pigliarsi punto cura di aver un ministro che lo assista al trapasso), trattandosi di una principessa in punto di morte, furono un giorno al suo letto, ciascuno colla Bibbia alla mano: poiché questo è il principio dei protestanti di ogni setta, che la santa Scrittura basti a tutti i bisogni dell’anime, e che sia libero a tutti d’intendere la parola di Dio, come ciascuno vuole e come meglio gli piace. Là eglino stavano a confortarla sopra morte. Principessa, le dice un protestante Luterano, pregate, pregate, acciocché Dio vi mantenga la fede, la quale basta a salvarvi: così dice a me la santa Scrittura qui. E che pregare? dice un protestante Calvinista; la santa scrittura qui mi fa sicuro, che la fede avuta una volta non si perde più. — Ma, principessa, le dice un protestante fido a Lutero nella sua prima confessione, preparatevi a ricevere Gesù impanato: ché l’evangelo parla chiaro qui, esservi il Corpo di Gesù. — Oh no, non fate; sarebbe questa idolatria, prorompe un altro Luterano; poiché Lutero si è poi dichiarato nella seconda confessione, che questo é, vale quanto: significa il Corpo mio. — Principessa, le diceva un Luterano moderato: doletevi dei peccati, che vi saranno perdonati. — Che peccati? Noi non possiamo peccare, perché non abbiamo libero arbitrio, diceva sdegnato un Calvinista. — Sì che si può peccare, rispondevagli infuocato un Luterano dei più recisi; ma abbiate la fede, e peccate pur qui allegramente in agonia: purché crediate, fate quel che volete. — Insomma tutti si bisticciavano in quelle dispute, buttando l’un all’altro sugli occhi le parole lì della Bibbia; e mentre s’incalorivano essi, chi era nell’impegno di morire, era la principessa, la quale con gemito loro diceva: O monsignori! lasciatemi morire senza disputare! La meschinella in quelle angosce aveva bisogno di morire con fede viva e sicura, e solo nella fede cattolica può essere la fede viva e sicura. Anche Melantone, uno dei caporioni dei protestanti assisteva nella morte la madre che atterrita nell’ansietà del dubbio: Mio figlio, gli disse col solenne accento dell’anelito estremo: tu disputasti già tanto di religione:…. dimmi ora, dimmi! alla fine dei conti, qual è la religione migliore? quella del Papa, o questa nostra protestante? — Melantone non ebbe cuore di tradire la madre in quel tremendo momento, e risposele con un sospiro: « mamma, questa nostra protestante mi va più a genio; ma quella del Papa è più sicura: Hæc nostra plausibilior, illa securior! » Venite ora a vedere come un cattolico, protestante in pratica, muoia con fede morta. Il buon parroco si fa al letto del malato, che visse con una fede a suo modo; e con gentil garbo: « signore, gli dice, voi vi siete confessato ;…. posso portarvi ora il Santissimo Viatico? E il morente a lui: Che?… or qui adesso?… sono già troppo stanco! Faremo presto: riposerete meglio poi… Ma egli: Oh… voi altri preti subito importuni a disturbar un malato!… Ma, signore! (in questi poveri tempi ormai siamo ridotti a parlar così)! signore! dichiaratevi: credete, o non credete?… Se credete, ricevete presto Gesù:….. è una gran fortuna che Egli venga a quest’ora ad accompagnarvi all’eternità! che se non credete, dichiaratelo; che io mi ritiro a piangere su di voi, e vi lascio morire nella vostra infedeltà!… Colui allora: eh voi altri preti siete sempre arrabbiati!… portatemi quel che volete!… Così si prepara a riceverlo in morte, come qualche volta in vita faceva per convenienza. Il Sacerdote intanto porta il Santissimo. La buona gente (e quale? Quella del buon popolo fedele, che correva appresso a Gesù, non già gli Scribi e Farisei nel paese dei Giudei d’allora) or l’accompagna col sospiro della confidente pietà salmeggiando: Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam: « O Signore, usate della vostra grande misericordia: e vogliamo dire di cuore: veniteci ad aiutare in morte, benché noi vi abbiamo tanto lasciato in abbandono in vita. » Entra in camera il Sacerdote, portando sul petto, innanzi al morente, Gesù santissimo, nostra speranza, tesoro dei nostri cuori; e coll’accento della tenerezza: Ecco, esclama, ecco l’Agnello di Dio, di cui non siam degni; ma Egli è che toglie i peccati del mondo. Esterrefatto il morente, come in pauroso incanto (egli non s’immaginò mai di vedersi quella scena nella propria stanza, perché non fece mai, come noi, la preparazione alla buona morte,) resta come da fulmine percosso. Il Sacerdote vien sopra all’infermo, e gli dice pietosamente: Ricevi, o fratello, Gesù .che ti accompagni alla vita eterna: accipe, frater, Viaticum… qui te… perducat ad vitam æternam! — Il morente apre macchinalmentela bocca. Il sacerdote gli depone in essal’Augustissimo Mistero. Quegli lo trangugia comeun boccone di medicina amara; e tristo e cupo sinasconde il capo dentro le lenzuola. Il Sacerdotese ne va: lodate, dicendo col suo popolo, lodate il Signore, il quale si è qui con noi fermato per usarecosì grande misericordia: Laudate Dominum omnes gentes, quoniam confirmata est super nos misericordia eius. — Ma il morente resta un istanteda solo: e qui alla prova la sua fede! Hodunque ricevuto Dio? dice con se stesso… Ma, sesono tutte nenie dei preti… Ma voglio credere cheho ricevuto Gesù Cristo… Eh no: guarirò, ripetecon rabbia: e sì allora non sarò stupido io da lasciarmitormentar dai preti… Ma se muoio? Vorreicredere io… Che negro dubbio… Voler crederee non poter credere, deve essere un terribile battagliarein quell’ora di tremendo scoramento.Ecco perché noi v’invitiamo, vi supplichiamo;vorremmo tutti unirvi con Gesù Cristo nel Sacramentoqui or in vita, affinché abbiate a trovarviin seno a Lui confortati alla morte, come s. FilippoNeri. Il gran Santo, vedete, viveva tutto colcuore nel suo Gesù. Per lui trovarsi avanti all’altarevicino vicino, cuore a cuore con Gesù nel Sacramentoera un sovrabbondar di gaudio tutto celeste,era un paradiso. Quando veniva obbligato amalincuore di allontanarsene, questo Santo innamorato,in sul partire gli occhi, il cuore, tutta la personarivolgeva addietro, e tornava a sorridere all’Amorsuo Divino, e gli mandava tenerezza di baci sullesue Piaghe, e l’abbracciava nel petto nella Comunionespirituale, e si sommergeva nell’immensabontà del suo Dio. Poi — là via, me ne vado, (diceva in un gran sospiro), ma il mio cuore resta qui. Neh, mio Gesù, che terrete il cuor mio con voi, mio tesoro? — Ebbene, era egli in sul letticciuolo nello stremo dell’età consunto di forze, mezzo addormentato, o come morto; quando lo scuotono, dicendogli: Padre Filippo! svegliatevi: viene Gesù nel SS. Sacramento! E s. Filippo: Oh! il mio Gesù…..! il mio grande Amico Divino!…: pensava ben io che non mi avrebbe abbandonato… Mio Gesù! sognava appunto proprio di ricevervi ora… Ciò dicendo fa uno sforzo per balzare di letto e gettarsegli incontro: e riceve Gesù in tale estasi di gaudio, che con due occhi scintillanti di luce celeste si solleva in aria, quasi volesse col suo Gesù risorto volare in Paradiso anche col corpo prima di risorgere…: egli sentivasi in petto nel Sacramento il pegno della sua risurrezione! Deh miei cari figli, ascoltatemi. Io voglio tutto il bene vostro: noi viviamo insieme in Gesù Cristo tra le sue braccia, col Cuore suo che palpita in Divinità, e versa il Sangue nel nostro cuore: nell’ora paurosa della morte proveremo consolazioni divine. Corriamogli in braccio con orazioni giaculatorie: Gesù allora con tocchi spirituali ci farà provare godimenti di Paradiso. Tutti i di, nelle sante Messe alle quali assistiamo, giuriamogli sul suo Corpo di voler vivere insieme con Lui: ed Egli alla morte ci conforterà con tale sentimento della sua presenza, che noi in seno a lui sfideremo l’inferno. Accogliamo in petto nelle Comunioni Gesù, e noi vivremo in Gesù; e Gesù, palpitando nel nostro cuore, ci farà sentire come non siamo noi che viviamo, ma vive in noi Gesù. Così nella morte insieme con Gesù spirando, come egli vive nel Padre, noi voleremo in seno al Padre ad immergerci nella beatitudine di Dio. Pur sopra morte un cotal senso di paura anche verrà a noi…. E noi la diremo in Cuor a Gesù: Salvator mio! che tremendo passo è mai morire!… e Gesù a noi: ma la morte è un volare in Paradiso;… O Gesù, ma mi spaventa il giudizio! Ma se sono Io stesso che ti ho da giudicare. Voi, buon Gesù nostro? Voi, il nostro giudice, Voi, che tanto ci amate e cui pur tanto amiamo?… Eh noi ci abbandoniamo tra le braccia della vostra bontà: così spireremo l’anima in beata morte nel vostro costato. Voi intanto pigliatevi la seconda lezione per fare una tranquilla anzi beata morte nel bacio del Signore: è questa; bisogna vivere cristianamente in pratiche di divozione, frequentare i Sacramenti. La Madre Chiesa allora vi preparerà alla santa agonia. Ma bisogna morire: e avvegnaché si sia indurato nel male, si muore. Il buon parroco va per visitare il morente, ed osserva con ansietà alla famiglia, come pur troppo la malattia volga alla peggio; ed osserva che sarebbe dovere confortare il caro infermo coll’ultima grazia che ha in mano da disporre, ciò è il Sacramento dell’Olio Santo. Ah no, risponde vivamente la consorte: lo fareste dare nelle furie: aspettate quando starà peggio (e vuol dire: quando sì dibatterà ferocemente colla morte, che già lo avrà artigliato e lo strozzerà), allora vi chiameremo! Buon Dio! così non si può neppur tentare la prova dell’ultima misericordia, che in quel frangente pauroso viene tanto opportuna. – Il Salvatore nostro ben previde tutte le nostre paure, e col darci l’ultimo Sacramento volle dirci: Care vite di figliuoli miei, avete a morire: ma Io vi manderò la mia Chiesa, alla quale diedi in mano tutto il mio Sangue da spendere a vostra salvazione. Ella vi farà da madre in quell’estremo bisogno, in cui forse altri vi avranno abbandonato. Vi piglierà in grembo ella, vi chiamerà intorno i padri delle anime vostre (inducat presbiteros Ecclesiæ), che sono i Sacerdoti. Essi con amore avendo curato le anime vostre sanno che i peccati lasciano quasi sempre delle tracce, cui solo la virtù divina può cancellare affatto, dopo il perdono. Quindi vi porteranno nell’Estrema Unzione il balsamo del mio Sangue che salderà le cicatrici, vi ristorerà nella perfetta interezza per vivere alla vita eterna. Anzi, se sarà il ben dell’anima vostra, la virtù del mio Sangue vi guarirà anche del corpo (Noi supplichiamo i nostri lettori, predicatori, missionarii e parroci di diffondere la pratica di amministrare l’Estrema Unzione a buon tempo in sollievo degli infermi; e di cercar così modo di salvar loro la vita. L’Apostolo dice quando infirmatur, e non quando moritur. Con questa benedetta pratica, ove si proponesse questo Sacramento agl’infermi, non vi sarebbe pericolo di spaventarli, potendosi loro citar molti che girano pieni di vita, dopo d’aver ricevuto l’Olio Santo: anzi lo sospirerebbero come un rimedio pel corpo e per l’anima.). — Intanto il Sacerdote, ributtato lontano dall’empio, accorre a quell’infermo felice, che si è preparato con vita da buon Cattolico a morir santamente; e portando sul petto i santi Olii: Pace, dice, a questa casa, pace a coloro che abitano in essa. Mio buon fratello, Gesù qui vi manda un rimedio che vi ha preparato col suo Sangue, l’Olio Santo dico, che spero vi guarirà per nostra fortuna, se è bene per voi. Così avete tempo di abbandonarvi tranquillo a far la volontà del Signore, il quale vuole tutto il nostro bene. Al tutto vi toglierà dall’anima ogni resto di umana miseria, affinché, se il Signore vi volesse nella eternità, possiate volare all’amplesso del Padre in cielo, caro a Lui siccome un figliuolo del Sangue del suo Figlio. A questo avviso l’anima sospira soavemente, e guarda il Crocifisso, dalle cui piaghe aspetta il balsamo alle piaghe del proprio cuore. L’Estrema Unzione! che bel Mistero di tenera misericordia! Che consolazione, di cui abbiamo tanto bisogno, sarebbe per noi; se non ne sturbasse il piangere dei congiunti! Però hanno essi una certa quale ragione, poiché si aspetta a dar l’Olio Santo a fil di morte. Sicché si confondono le consolazioni del Sacramento collo spavento dell’agonia. Via il terrore! lasciate fare a Gesù Salvator nostro. Egli con un Sacramento apriva le porte della Chiesa a noi appena nati; Egli ora a noi in pericolo di morte con un Sacramento apre le porte del paradiso; e prima che c’incamminiamo qui in basso tra noi versa da ciascuna delle sue piaghe il balsamo sulle piaghe nostre ad una ad una, ed impronta del sigillo del suo Sangue i sensi del corpo, per serbarlo alla risurrezione. Mettiamoci qui come a far prova di riceverlo anche noi. – Il Sacerdote esclama: — Grande Iddio, siam peccatori, lo confessiamo, abbiam fatto male: confiteor… mea culpa…; abbiamo fatto troppo gran male: mea maxima culpa. Ma a voi, o Maria, Madre nostra,a voi tutti, o Beati, confidiamo le nostre miserie. Deh otteneteci voi misericordia. — Qui il Sacerdoteci fa sopra il segno di croce per ripararci sotto le piaghe di Gesù; e alzando la mano, quasi pigliasse una manata del Sangue del Redentore, ci assicura la misericordia e tutta la indulgenza dalla parte di un Dio che ha una bontà onnipotente. Misereatur… indulgentiam; e stringendosi sul petto a Gesù, cerca ad una ad una le parti del corpo nostro, dove ipeccati potessero aver lasciata qualche impressione, per ogni taccola, ogni ricordo di colpa. Vi ungiamogli occhi col dirvi: Occhi puri, che vi siete chiusidavanti a lusinghieri oggetti, purificatevi col Sanguedi Gesù Cristo, perché, dopo la risurrezione, benchédi carne, avete da contemplare lo splendore dellabellezza di Dio. Bocche sante, calde dell’alito dellacarità, profumate dell’aroma delle preghiere, purificateviancora perché vi vorran baciare gli Angioli,a cui rispondeste di qui in terra, quando eravateintesi ai loro cantici di paradiso. Purificatevi,o caste orecchie: voi vi siete serrate alle mormorazioni,ai cattivi discorsi: ora dovete aprirvi adarmonie celesti. O ricchi, datemi le vostre manipiene d’opere di carità, e purifichiamole, perchéi poveri ve le vorranno baciare per eterna riconoscenza.Anche voi, o poveri, porgetemi le vostremani disseccate, indurite negli aspri lavori. Oh mi par di toccare le mani piene di Sangue e crocifisse.Ai Gesù Cristo! Via, lasciatemi purificare i vostripiedi o tribolati; ve li hanno lacerati le spine delCalvario, seguendo Gesù colle vostre croci d’ognimaniera. Proprio con questi piedi voi dovete camminarenegli eterni tabernacoli del novello mondodopo la risurrezione. Anima cara, hai amato la giustizia,hai odiato l’iniquità; ed. ecco: il SignoreIddio, il Dio tuo Gesù ti unse coll’Olio delle celesticonsolazioni! Bontà di Dio! noi vogliam baciarviin Cuor nel Sacramento a nome di tutti i moribondinella Religione Cattolica. Ma piangiamo di compassionepei poveri protestanti, i quali per consolarei loro moribondi fanno leggere belle poesie, crudelescherno nelle angosce della morte! Sciagurati!rifiutano colle altre grazie dei Sacramenti eziandioqueste consolazioni dell’Olio Santo.Ma il Sacerdote si accorge che la cara animacosì ben preparata ormai si svincola dalla terra, e batte l’ali verso del cielo; e guardala come un amicoche sarà a momenti accolto in paradiso, dovelo vorrà ben raccomandare. Laonde si tien fortunatodi accompagnarla con ogni gentilezza di caritàfin sulla porta dell’eterno regno; e non l’abbandona più, finché non la vede introdotta. Come padre amoroso ha sempre paura che non le incolgapericolo in quel passo; e le sospira d’intorno, emanda le sue grida ad invocar assistenza: — OSignore (sentite le belle orazioni pei moribondi), oSignore, che salvaste Noè dal diluvio universale,liberate quest’anima dalle angosce della morte chetutti travolge! O Signore, che avete tirato fuori Abramodalla terra d’infedeltà, tirate quest’animada questa terra di miserie e di schiavitù nel regnoeterno della beatitudine! O Signore, che avete liberatoS. Pietro e S. Paolo, l’un dal naufragio, l’altrodal carcere, cavate quest’anima dal carcere diquesto corpo che cade infralito e scampatela dalnaufragio dell’agonia. — Ma per un fil di vita ètrattenuta ancora l’anima dal volare al cielo. L’uomdi Dio allora alza sopra del letto della morte il Crocifissoverso del cielo, e: parti (le dice come in estasicolla fortunata), parti, o anima cristiana, pel paradiso.Sei figlia del Padre celeste che ti ebbe appuntocreata pel paradiso; sei redenta dal Figlio,corrigli in braccio come figliuola del suo Sangue;ti ha santificata lo Spirito Santo col suo amore, vaa sommergerti nell’amor di Dio, beatitudine eterna!— Al morente, in vedere il Crocifisso elevato sopradel capo, par di vedere Gesù istesso, che collamano insanguinata gli apre in alto le porte del paradiso;onde dà come indietro per umiltà: padre,esclamando, padre… son peccatore! Ma il Sacerdote:Coraggio!… è Gesù che ti introduce! Ma, padre,fermatemi qui con voi un poco…; e i peccati dellagioventù? Ma e la Confessione generale? Oh! qui dite,fratelli, vorreste voi averla fatta questa confessione,e con una confessione generale aver l’anima purificatapel paradiso? Ma padre, ripiglia il morente:e le penitenze tante che facevano i Santi? E il Sacerdote:E le indulgenze che ti hai guadagnato? Avoi, signori: vorreste averne voi un bel tesoro? Eppurequando la Chiesa nella sua Casa fa dall’altarpubblicare che in tal giorno apre il tesoro dellesue indulgenze; è vero, tutti i poveri di spirito siaffollano ai confessionali a fine di cercarne pel bisognodelle loro animette: ma noi uomini d’importanzaaspettiamo a sospirarle quando siam là permorire: ridotti a dire con Filippo re di Spagna:stolto: varrebbe più avere scritto sopra un quarticellodi foglio i peccati per confessarli, ché non tuttii protocolli degli affari di Stato. Per me poi credo proprioche sia stoltezza non prepararci mai per l’animaun po’ di bene che vorremmo trovar allora in abbondanza;stoltezza vera correre qua e là affannati in tantefaccende, e non muover piede per andare ad unperdono in una chiesa… — Ma l’agonizzante contremola voce: Padre… padremio!… ho paura a morire e non so perché… — Il Ministro di Dio conla sua autorità: Figlio! Io ti comando, muori senzapaura! Grande Iddio! quale comando!.. E il morente sarà obbligato a far uno sforzo per morire senza paura? Si certo, perché il Ministro di Dio è già da molto tempo che esercita quest’autorità su di lui; e ne prescrisse il diritto: ed ora se trema il penitente per debolezza della natura, sì conforta colla grazia dell’obbedienza; e sforzandosi di non aver paura, se spira tremando, cessa il tremito, spirando nel Cuor di Gesù; e dice appena spirato: Dio della giustizia, me l’avete fatto comandar voi dal ministro della vostra bontà di morire senza paura. Signori, per presentarci al giudizio con tal confidente pietà, bisogna esser stato solito d’antica data ad obbedire al Confessore. Egli vi comanda nel corso della vostra vita di evitare quella occasione, di esercitare quella virtù, di fare quel tal sacrifizio; e voi obbedite? Obbedirete fino a morir senza  – Ma gli occhi del pio morente, quasi sazi della luce della terra, si volgono a nascondersi sotto le palpebre per fissarsi in quiete nella luce del cielo, lasciando cader l’ultima lacrima in seno alla bontà di Dio. Il cuore palpita, palpita celere;… sospende il palpito… è l’ultimo non mai provato: è il palpito confuso col palpito del Cuor di Gesù, principio di vita immortale! Miei fratelli, anche noi, anche noi, impariamo a morire così: stringeremo le mani sul petto ansante, gli occhi al Crocifisso in man del Prete, il cuor nel Sacramento. Ci scompaiono tutte le cose d’intorno: solo, come tra nebbie lontane, ci appare il lume dell’assistenza;. .. alle orecchie un sordo rumore sempre più confuso… vediamo più niente… sentiamo più niente… Succede oscurità…, tenebre fitte… solitudine immensa e silenzio… E questa la morte?… Ah no no! sarà il paradiso; oh paradiso! oh vita eterna immersa nella beatitudine eterna di Dio. Deh vogliam tutti prepararci, o miei cari figliuoli, a spirare in Paradiso a questo modo. – Però intanto chi non si prepara a morir bene così, muore pur troppo sovente di mala morte. Quante volte nella notte il buon Sacerdote sente un battere alla sua porta come d’un uomo spaventato col grido — Correte, o padre, nella stanza di quel cotale: ché già la morte lo strozza. — Il buon Parroco, presto allora gli Olii Santi ;… sale affannato per la scura scala, apre l’uscio… un odor di cadavere che lo ributta:… vince il ribrezzo: entra in camera, e vede il morente cogli occhi spalancati nella pressura dell’agonia. Si getta in fretta in furia una stola attortigliata al collo: bagna il dito nell’Olio Santo, e sul moribondo in fremito di tormenti atroci, par che dica nell’ungerlo in Sacramento: Pel Sangue di G. Cristo, occhi contaminati da tante maligne occhiate, purificatevi! (ma gli trema la parola sul labbro) Bocca infuocata da bestemmie…. da brutti discorsi e luridi contaminata e da baci:… bocca rigurgitante di ubriachezze, sii ora purificata (ma gli trema la mano!): mani piene d’opere di peccato;… piedi lordi in tante occasioni, purificatevi… Ma al Sacerdote manca il cuore; ed al morente in quella tetraggine par di vedere forse 1’Angelo dell’eterna giustizia, che gli metta sulla persona il marchio della riprovazione… Forse a lui in sullo spirare… (orrendo a vedersi!…) il Sacerdote con ispavento: signore!… fratello!… mio figlio !… gli grida;… e atterrito sta!… Il moribondo gli manda un arido sguardo… Il Sacerdote: mio figlio, fate coraggio: il Signore vi chiama ora in paradiso!…. Ma, gli guizza dagli occhi un non so che di tetro e di feroce da far comprendere quanto atrocemente si dibatta contro il volere di Dio, cogli occhi di sangue come iena ferita digrigna i denti! Il Sacerdote si volta al Crocifisso: deh, o Signore, non entrate in giudizio col vostro servo; ma colui par che dica collo spasmodico anelito: son… già… giudicato!… Parole di perdono vengono sul labbro amorevole del Sacerdote; ma le ributta quegli con un cuor di sasso… Allora l’uom di Dio stacca dal muro un Crocifisso polveroso, e glielo mette sugli occhi, gridandogli: mio figlio, eccovi Gesù: baciategli le piaghe, spirategli in cuore… Ma ahi!… la vista del Crocifisso lo fulmina di troppo terrore, e torcendosi par che dica: allontanate quel Crocifisso, mi fa spavento! Sciagurato! se ti allontano il Crocifisso, chi ti salverà? Ma il rantolo lo va soffocando: stirati appaiono ì lineamenti del volto, gli occhi sbarrati come di vetro rovente, grosse gocce di freddo sudore piovono dagl’irti capelli, stridono

Deh prepariamoci! prepariamoci alla morte!… (Si fa la raccomandazione dell’anima.)

Miei cari figliuoli! Levatevi su qui con me; cerchiamo d’imparar la maniera di fare buona la nostra agonia. (Quì si piglia in mano il Crocifisso, ed inginocchiatosi, con tutto il popolo insieme fa la raccomandazione dell’anima dicendo:) Mettiamoci qui come a spirar l’anima: gli occhi di tutti sul Crocifisso; e in tanta paura ripariamoci col cuore nel Cuor di Gesù nel Sacramento! – Oh Gesù! Oh Gesù!… Quando mi si oscurerà la vista nell’agonia…. e vorrò guardare a Voi Crocifisso, e non vi vedrò più; … vorrei dire allora, ma non lo potrò! lo dico adesso per allora col cuore a voi nel Sacramento: Gesù e Maria vi raccomando l’anima mia!… – Oh Gesù, quando nel fremito della mia agonia tenterò di stringermi colle mie mani sul cuore a voi Crocifisso, e le mie mani tremolanti vi lasceranno cadere sul mio petto ansante;… vorrei dire allora, ma non lo potrò!… Ve lo dico adesso per allora col cuor a voi nel Sacramento: Gesù e Maria, vi raccomando l’anima mia!… – Oh Gesù:… quando vorrò baciarvi le piaghe sul Crocifisso e in quel bacio versare il mio cuore nel vostro costato…. e le mie braccia tremanti convulse non potranno baciarvi più; vorrei gridarvi allora, ma non lo potrò! lo faccio adesso per allora :… Gesù e Maria, vi raccomando l’anima mia!… – Oh Gesù…, quando mi sentirò accorciare il fiato,… tremolarmi tutte le carni, e nell’anelito boccheggiante morirmi il cuore!…. oh Gesù, oh Gesù, dirò, ahi che muoio! tremendo punto!… Oh che corro in questo momento in paradiso, o nell’inferno…. E chi è che parla ora d’inferno?… Gesù! Gesù! lo spiro nel vostro Cuore l’anima mia!… Gesù e Maria… ricevete l’anima mia… in paradiso., O miei figliuoli! spireremo di dì? spireremo di notte? dove spireremo?… Vi sarà qualcun che ci accompagni colla preghiera la nostra agonia?….. Non lo sappiamo… Siamo ora qui tanti;… recitiamo il Pater noster e l’Ave Maria della buona agonia… (Pater noster ecc. Ave Maria ecc.). Gesù, Maria, Giuseppe… Angelo Custode… ricevete l’anima mia, così tutti spiriamo in Gesù in santa agonia

LA GRAZIA E LA GLORIA (18)

LA GRAZIA E LA GLORIA (18)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO IV .

L’ABITAZIONE SINGOLARE DI DIO NELL’ANIMA DEI SUOI FIGLI ADOTTIVI. IL FATTO E LA NATURA DI QUESTA ABITAZIONE.

CAPITOLO II

La realtà dell’inabitazione soprannaturale di Dio nei suoi figli adottivi. Le loro anime, santuari della Trinità.

I.- Quando apro le nostre sante Scritture, incontro in ogni momento espressioni e formule che sembrano contraddire tutto ciò che abbiamo appena affermato sull’esistenza universale di Dio nelle creature e delle creature in Dio. Dio non è in tutto.: « Ecco, – Egli dice – io sono alla porta e busso » (Apoc. III, 20). Se è alla porta, se bussa per farsi aprire, allora non è ancora entrato. Dio si allontana dai peccatori che Lo disprezzano; non può tollerare la loro presenza (Sal. VI, 6); e quando essi hanno perseverato fino alla fine nella loro ribellione, li scaccia per sempre dalla Sua presenza (Matth., XXV, 41). Come potrebbe essere in loro? Dall’altra parte, vediamo Dio che ritorna alle anime, si avvicina a loro, entra in loro. Quindi non era in loro con la Sua essenza. Egli è con la sua potenza e la sua presenza in coloro dai quali ha ritirato la mano, e contro i quali dirige questa terribile apostrofe: Non vi conosco, non novi vos? – Tutto non è in Dio. « Poiché siete tiepidi e non siete né freddi né caldi, comincerò a vomitarvi dalla mia bocca » (Apoc. III, 13). È Gesù Cristo, il primogenito del Padre, che fa questa minaccia all’Angelo, cioè al Vescovo di Laodicea, per mezzo di San Giovanni. Vorremmo dire che sarebbe in Dio, questo Vescovo intiepidito, se la minaccia fosse messa in opera? Diremmo anche che sono in Dio i maledetti contro i quali il Signore emetterà l’anatema finale: Partite via da me; andate nel fuoco eterno? Preghiamo Sant’Agostino di mostrarci l’accordo tra testi così apparentemente contrari. Egli lo fa in una delle sue più belle lettere, dove questo tema è saggiamente sviluppato. « Ciò che è ammirevole – scrive questo illustre dottore – è che Dio, che è ovunque e interamente in ciascuno degli esseri, non abita in tutti. A tutti, infatti, non si possono applicare le parole dell’Apostolo: Non sapete che siete templi di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi ? (1Cor. III, 16) Perciò ci sono altri di cui è scritto: “Chiunque non abbia lo Spirito di Cristo Gesù, non gli appartiene” (Rom. VIII, 9). – Ora non credo che si possa credere, a meno che non si ignori completamente l’unità inseparabile della Trinità, che il Padre e il Figlio dimorino in colui in cui non risiede lo Spirito Santo, o che quest’ultimo sia posseduto da chi non abbia né il Padre né il Figlio. « Bisogna dunque confessare: se Dio è ovunque per la presenza della sua divinità, non è ovunque con la grazia della inabitazione. È a causa di questa inabitazione, in cui ci viene rivelata l’infinita liberalità dell’amore divino, che invece di dire: “Padre nostro che sei dappertutto”, il che sarebbe verissimo, diciamo: “Padre nostro che sei nei cieli”, facendo così memoria, nella nostra preghiera, del tempio di Dio, quel tempio che dobbiamo essere noi stessi se vogliamo entrare nella famiglia dei figli adottivi. – E non solo Colui che è ovunque non abita in tutti, ma non abita nemmeno in coloro in cui fa dimora. Cum igitur qui ubique est, non in omnibus habitet, in quibus habitat, non æqualiter habitat. Da cosa proviene in effetti, che tra i Santi vi sono alcuni che lo siano più di altri, se non perché Dio fa la sua dimora più perfettamente in essi? Unde in omnibus Sanctis sunt alii aliis perfectiores, nisi abundantins habendo habitatorem Deum?” – Trascriviamo un’altra parte di questo notevole passaggio. « Com’è che allora – si chiede lo stesso Padre – Dio è ovunque interamente, se è più in alcuni e meno in altri? Non dimentichiamo – egli risponde – che ovunque Dio è intero in se stesso… Quindi, non è solo all’universalità delle creature, ma anche a ciascuna delle loro parti, che Egli è allo stesso tempo presente così com’è, cioè intero. Sono lontani da Lui coloro che con il loro peccato sono diventati dissimili da Lui; e gli si avvicinano coloro che con una vita pia si rivestono della sua somiglianza. « Così si dice che gli occhi sono tanto più lontani dalla luce, quanto più completamente hanno perso la facoltà di vedere. Infatti, cosa c’è di più lontano dalla luce che la cecità, anche se questa luce inonda gli occhi spenti? E gli stessi occhi si avvicinano alla luce, nella misura in cui, recuperando la loro nativa vivacità, ne ricevono anche l’influenza vivificante… Così, come Dio non è assente da colui in cui non abita ancora, poiché è in lui tutto intero, benché non da lui posseduto; così Egli è interamente presente in coloro in cui abita, anche se, secondo la differenza di capacità, vi è ricevuto più o meno imperfettamente… « Dio, dunque, che è presente ovunque e dappertutto tutto interamente, non abita in tutti, ma solo in coloro che Egli fa diventare il suo tempio beato, strappandoli al potere delle tenebre e trasferendoli nel regno del Figlio del suo amore: il che comincia dalla rigenerazione… Ora, quando pensate alla inabitazione di Dio, pensate all’unità, pensate all’assemblea dei Santi, specialmente quella che è in cielo; perché è in cielo principalmente che Egli abita, poiché è in cielo che risponde alla sua volontà la perfetta obbedienza di coloro in cui Egli abita. Ma sulla terra stessa, Egli ha la sua dimora, che costruisce nel tempo, per farne una piena dedica alla fine dei secoli. » – S. Aug. 187 ad Dardanum, n. 41).

2. – Comincio a capire ora che Dio possa essere e non essere nello stesso uomo allo stesso tempo; allontanandosi da lui quando vi resta, e venendovi quando già vi era: perché c’è sia la presenza comune, sia quella singolare in virtù della quale Egli abita in un’anima, come nella sua propria dimora e nel Cielo, come in un tempio a Lui consacrato. – Alberto Magno, in uno dei testi che ho citato alla fine del capitolo precedente, si chiede se si possa assolutamente e senza spiegazioni dire di Dio che è nel demonio. No, risponde, perché la parola “demone” indica la malizia diabolica che non è opera di Dio. « Ma anche se si concedesse che Egli è in colui che la sua malizia ha reso un demone (che conserva in sé la natura e i beni della natura), non si deve assolutamente concedere che lo Spirito Santo sia in lui, poiché lo Spirito Santo è Dio. Infatti lo Spirito Santo, in quanto Spirito Santo, è presente con le sue ispirazioni e la santificazione; e, in questo modo, non è né nel diavolo né nel perverso. » Inoltre, inabitazione dice più della semplice presenza: poiché contiene nel suo concetto la comunità degli affetti e della famiglia: tanto che per essere “l’inabitazione di Dio” bisogna essere della famiglia di Dio, figlio di Dio (Alb. M., t. XVII, Tr. XVIII, q. 7). Questo è il pensiero di Sant’Agostino in una forma meno elegante e più didascalica. – Ora, gli stessi testi ci mostrano anche in che senso la Scrittura, da un lato, sembri negare che Dio sia nel peccatore per potenza e presenza, e, dall’altro, afferma che gli occhi del Signore siano sui giusti (Sal. XXXIII, 16), e che la sua mano li protegga, lo sostenga e li trasporti (Sal. XC, 14-16).  Ciò che si intende con queste ed altre simili espressioni non è l’abbandono dei peccatori, ma la singolare indulgenza del cuore di Dio per i suoi figli. E questa presenza di scelta è di natura tale che Dio non dimora in noi senza che noi dimoriamo in Dio. L’apostolo S. Giovanni, il discepolo dell’amore, non si stanca di ripeterlo: « Miei amati… Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio abita in noi e la carità in noi è perfetta. Questo è ciò che ci fa conoscere che noi rimaniamo in Lui ed Egli in noi, è che Egli ci ha resi partecipi del suo Spirito ….. Dio è amore, e chi rimane nell’amore rimane in Dio, e Dio rimane in lui. » (I Giov. IV, 12-16). Ciò che scriveva ai suoi fratelli, egli lo aveva appreso dalla bocca del Maestro stesso, in quel momento supremo in cui, vicino all’immolarsi, stava svelando ai suoi Apostoli, come ai suoi più intimi amici, i segreti fino ad allora nascosti nel suo cuore. Era dopo l’ultima cena, e Gesù diceva: « Chi mi ama osserverà la mia dottrina e sarà amato dal Padre mio, e Noi verremo a lui e faremo la nostra dimora in lui » (Gv. XIV, 23). Tre versetti prima avevamo già letto nello stesso Vangelo: « In quel giorno, quando il mondo non mi vedrà più, saprete che Io sono nel Padre mio, e voi siete in me, e Io in voi » (Gv. XIV, 24); notiamo di passaggio che questa inabitazione reciproca è qui il privilegio dell’amor di Dio e da questo, dell’amore del prossimo. Perché stupirsi di questo, visto che questi due amori si chiamano l’un l’altro, e nella loro sostanza sono tutt’uno? Infatti l’Apostolo scrive: « Se uno dice: “Io amo Dio” e poi odia suo fratello, è un mendace (I Joa. VI. 20). E la carità stessa non sta senza la grazia che ci rende figli di Dio, secondo questa bella formula di San Tommaso: « La carità è una virtù dell’uomo, non in quanto egli sia uomo, ma in quanto, per la partecipazione della grazia, sia diventato dio » (« Charitas non est virtus hominis ut est homo, sed in quantum per participationem gratiæ fit deus ». – Q. un., de Charit. à. 2, ad 3). Nostro Signore aveva detto ancora, parlando dell’Eucaristia che avrebbe istituito più tardi: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e Io in lui. » (Giov. VI, 57). Nei testi riportati finora, solo il Padre e il Figlio sono nominati esplicitamente. Ma non crediamo che lo Spirito Santo possa essere assente dalle anime dove il Padre e il suo Verbo hanno stabilito il loro Santuario. In assenza di autorità esplicite, la natura stessa di Dio ce lo proibirebbe; questa natura è così identica nelle tre Persone che Esse sono inseparabili, e che l’una è essenziale nell’altra. Inoltre, è un principio universalmente accettato dai Padri, che tutto sia comune nella Trinità, tranne, però, ciò che rende il carattere proprio di ogni persona. Ecco perché S. Paolo, dicendo del Padre che solo Lui è immortale, non esclude dall’immortalità divina né il Figlio né lo Spirito Santo, perché l’immortalità non spetta al Padre in virtù della sua proprietà personale, perché è il Padre, ma in virtù della sua natura in quanto è Dio. Poiché, dunque, la grazia ci rende templi di Dio, dire che il Padre o il Figlio è in noi è affermare equivalentemente che tutta l’adorabile Santa Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, risieda nelle nostre anime. Questo è ciò che San Giovanni Crisostomo rimarcava riguardo alle parole di San Paolo nella Lettera ai Romani: « Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, questi non è in Lui. Ma se Cristo è in voi, benché il corpo sia morto a causa del peccato, lo spirito è vivo a causa della giustificazione » (Rom. VIII, 9-10). « Ciò che Egli diceva – continua il dottissimo interprete – non è che volesse dare il nome di Cristo allo Spirito Santo, ma mostrare che chi possiede lo Spirito Santo, possiede il Cristo stesso. Infatti, è impossibile che lo Spirito Santo sia presente senza che Cristo sia presente con Lui: perché dove c’è una Persona della Trinità, c’è tutta intera la Trinità » (S. J. Chrysost., hom. 13 in h. I. P. Gr., t. 80, p. 518, sq.). Del resto, le testimonianze che ci parlano in termini formali dell’inabitazione dello Spirito Santo nel cuore dei giusti, si trovano in molti luoghi della Scrittura; talmente chiare e così frequentemente sono ripetute che, a giudizio di teologi molto gravi, lo Spirito Santo sembra avere, in questa comunità di presenza, qualcosa di personale e proprio a Lui solo. Più tardi esamineremo cosa si debba pensare di questa opinione; ricordiamo qui solo alcuni dei testi scritturali sui quali si è ritenuto possibile sostenerla. Secondo l’insegnamento di San Paolo, lo Spirito Santo abita in noi come dispensatore della carità (Rom. V, 5); Egli abita in noi, per farci conservare il buon deposito (II Tim. I, 14); abita nelle nostre membra come nel suo tempio e nel suo dominio assoluto (I Cor. VI, 19); Egli abita in noi come in un santuario sacro che non possa essere violato senza esporci a tutta l’ira divina (I Cor. III, 16, 17); Egli abita nel tempio, pegno e deposito della gloria che ci è promessa (II Cor, I, 22; V, 5); … abita in noi come principio della nostra futura risurrezione (Rom. VIII, 11). Infine, il che ci riporta all’idea fondamentale di tutte queste verità e di tutto questo lavoro: Dio, poiché siamo suoi figli, lo manda nei nostri cuori come Spirito di adozione nel quale gridiamo: Padre, Padre; come lo Spirito di suo Figlio che testimonia al nostro spirito che siamo figli di Dio; come il principio che ci fa vivere, agire e pregare in modo conforme all’eccellenza della nostra nuova dignità (Gal., IV, 6 – Rom. VIII, 9, 12, 14-16). – Questo è un privilegio meraviglioso, una grazia ineguagliabile che il Salvatore ha promesso agli Apostoli sgomenti alla vigilia della sua Passione. « Se mi amate – diceva loro – osservate i miei comandamenti, e Io pregherò il Padre mio, ed Egli vi darà un altro Paraclito, perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vede né lo conosce. Ma voi lo conoscerete, perché Egli abiterà con voi e sarà in voi »  (Gv. XIV, 15-18). – XV, 26 ecc.) – Su questo Sant’Agostino si pone una domanda, che è utile trascrivere insieme alla risposta, perché completa la dottrina della sua lettera a Dardano. Ecco l’obiezione che solleva: « Come può il Signore dire: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti, e Io pregherò il Padre mio, ed Egli vi darà l’altro Paraclito”, visto che parla dello Spirito Santo, che bisogna avere per amare Dio e osservare perfettamente la sua legge? … I discepoli già amavano. Se essi amavano, non era questo nello Spirito Santo? Eppure, comanda loro in primo luogo di amarlo e di osservare i suoi Comandamenti per ricevere lo Spirito Santo: quello Spirito senza il cui possesso sia l’amore che la perfetta osservanza dei Comandamenti sarebbero per essi impossibili. Comprendiamo, risponde, che questi possiede lo Spirito Santo: colui che ama, e che, possedendolo, merita di averlo ancora maggiormente, e che, possedendolo di più, ama ancora più perfettamente. Così i discepoli avevano lo Spirito che il Signore prometteva loro; ma non lo avevano come Lui lo prometteva. Essi lo avevano di meno, e doveva essere dato loro di più. Essi l’avevano avuto in segreto e stavano per riceverlo in pieno giorno, perché questo stesso aggiungeva alla grandezza del dono, che essi conoscessero manifestamente ciò che era stato dato loro » (S. Aug. Tract, 74 in Joan, n. 1-2).

3. – Se mai i santi Padri hanno scritto pagine magnifiche, è nel celebrare questa dimora intima e permanente del nostro grande Dio nelle anime dei suoi figli adottivi. Un intero volume sarebbe troppo poco per esaurire il soggetto. « Cos’è, in verità, l’anima dei santi, chiede San Cirillo di Alessandria? Un vaso pieno di Spirito Santo » (« A veritate quis non aberravit, si vas dicat esse Spiritus Sancti sanctorum animam ». – In Luc. C. XXII, P. Gr., t. 72, p. 904, 905) « Pieno di carità, pieno di Dio », dice a sua volta S. Agostino (« Qui plenus est caritate, plenus est Deo. » Enarr. in palm. 98, n, 1). – Questa verità è costantemente ricorrente per consolare i poveri ed abbassare l’orgoglio dei ricchi. « Ascoltate l’Apostolo che vi dice: Dio è amore; chi ha amore, Dio abita in lui ed egli in Dio. Dunque, se hai la carità, hai Dio. Cosa può avere il ricco, se non ha Dio? E il povero, cosa gli manca, se ha la carità? Immaginate forse che sia ricco colui il cui petto è pieno d’oro, e che non sia ricco colui la cui coscienza è piena di Dio? No, fratelli miei, non è così: colui nel quale Dio si degna di abitare è il vero ricco » (August., sermone, 44 di Temp.; paragrafo 112 di Verbis Apost., n. 1, 2). – La stessa verità si ritrova nelle controversie dei nostri più grandi Dottori e nei loro insegnamenti dottrinali. È un principio indiscutibile per loro vendicare la divinità dello Spirito Santo, attaccata dai discepoli di Macedonio: « Che questi insensati ci dicano come siamo i templi di Dio, per il fatto stesso che abbiamo lo Spirito Santo, se lo Spirito non fosse Dio per natura? Se Egli è una pura opera di Dio, come lo siamo noi, perché Dio vuole distruggerci come profanatori del tempio di Dio, quando contaminiamo il corpo in cui lo Spirito fa la sua dimora? ». (S. Cirillo Alex, in Joan 1, 3, P. Gr. 73, p. 157). È anche per essa, che danno la ragione della nostra filiazione adottiva. « Se non avessimo lo Spirito in noi, non saremmo in alcun modo figli di Dio. Come abbiamo dunque ricevuto il beneficio dell’adozione, come siamo partecipi della natura divina, se Dio non abita in noi, se non siamo strettamente uniti a Lui dalla comunione del suo Spirito? Ora, certamente, noi partecipiamo alla Sostanza che supera ogni sostanza, e siamo i templi di Dio » (S. Cirillo, Aless. P. Gr., vol. 74, p. 545).

4. Pienamente impregnati da questi nobili pensieri, che avevano ricevuto dagli Apostoli e dagli uomini apostolici del Signore, loro padri nella fede, i primi Cristiani li proclamavano a gran voce di fronte ai loro giudici e carnefici. Erano la loro forza davanti ai tribunali, la loro consolazione nella tortura. « Chi sei tu, demone malvagio – domandava Traiano al grande martire di Gesù Cristo, Ignazio di Antiochia – per osar trasgredire le mie leggi in questo modo ed incitare altri a farlo, fino alla loro stessa perdita? Ignazio rispose: Che nessuno chiami Teoforo demone malvagio. I demoni fuggono dai servi di Dio… Con Cristo, Re del cielo, sfido le loro insidie. Traiano disse: Chi è questo Teoforo? Chi porta Cristo nel suo cuore, rispose Ignazio… Traiano disse: Stai parlando di colui che fu crocifisso sotto Ponzio Pilato? Ignazio rispose: Sì, parlo di Colui che ha inchiodato il peccato alla croce con il suo autore, e ha messo ogni malizia demoniaca sotto i piedi di coloro che ce l’hanno nel loro petto. Traiano disse: Allora tu porti in te il crocifisso? Ignazio disse: Sì, senza dubbio; perché sta scritto: abiterò in essi, in loro farò la mia dimora (II Cor. VI, 16). Traiano dettò la sentenza: Ordiniamo che Ignazio, che si vanta di portare Cristo in sé, sia condotto in catene dai soldati nella grande Roma, per diventare il pasto delle bestie e il divertimento del popolo » (Ruinard, Acta Martyr. Sincera Veronæ, 1731, p. 14). S. Ignazio era uno dei Padri Apostolici. È la stessa fede nel cuore e sulle labbra dei fedeli più semplici. Al presidente Massimo, che lo minaccia delle più orribili torture se non abbandona il culto di Cristo, Andronico risponde con queste orgogliose parole: « Stupido spregiatore di Dio, tu sei pieno di pensieri di satana. Tu vedi il mio corpo, il cui fuoco non ha che fatto solo una ferita, e immagini che io tremi davanti alle tue minacce… Ma io ho Cristo in me, ed è per questo che ti disprezzo » (Ruinard, Acta… 3° Andron. Confessio, p. 389, 390). « Né le tue carezze potranno indebolirmi, né le tue minacce potranno trattenermi – rispose Felicita, conducendo i suoi sette figli al martirio: … perché io porto in me lo Spirito Santo che non permetterà al demonio di sconfiggermi. Ed è questo che mi rende fermo davanti a te » (Ruinard, Acta … p. 22). Chi non conosce il toccante episodio della passione di Santa Lucia (13 dic. in festo S. Luciæ, lez. 5 e 6)? Irritato dall’audacia delle sue risposte, il tiranno minacciò di farla tacere flagellandola: « Le parole non possono mancare ai Servi di Gesù Cristo – rispose subito la Vergine – perché il Maestro ha promesso che quando saranno davanti ai giudici, il suo Spirito parlerà attraverso la loro bocca. Lo Spirito Santo è allora in te? Coloro che vivono in castità e pietà sono il tempio dello Spirito Santo. » A questa risposta, il giudice, troppo cieco per coglierne l’alto significato, ma tuttavia comprendendo che la vergine parlava di un ospite puro e santo, minacciò di consegnarla agli ultimi oltraggi, affinché questo Spirito non abitasse più in lei. La leggenda del Breviario, che racconta la storia, ci dice anche con quale miracolo Dio preservò l’onore della sua casta serva. Dopo tante e così manifeste testimonianze, sarebbe imperdonabilmente avventato pretendere che il dono della grazia sia interamente nella realtà creata che chiamiamo grazia santificante, e mettere la singolare dimora di Dio nelle anime nella categoria delle pie metafore.

5. – Mi appello a tutti i grandi teologi senza escluderne uno (S. Bonav. In II. D. 36. Q. 2). Ecco cosa scrive Suarez, generalmente così equilibrato nei suoi giudizi circa l’ortodossia delle dottrine, su questo argomento. « Quando Dio versa nell’anima i doni della grazia santificante, non sono solo i doni, ma le stesse Persone divine che entrano nell’anima e cominciano a dimorarvi: e quindi lo Spirito Santo è inviato invisibilmente attraverso il mezzo di questi doni. Questo è l’insegnamento dei Dottori Scolastici; e questa dottrina è così indubitabile per loro, che San Tommaso chiama giustamente come un errore il sentimento opposto. Così pensa Alessandro di Hales: così fanno gli altri teologi, seguendo in questo il comune sentire dei Padri (Suarez, de Trinit., l. XII, c. 5, n. 8). – Non saprei dire quali furono i contraddittori che la Scuola antica confutò su questo punto, tanto i loro nomi sono rimasti sconosciuti. Quello che so meglio, è che gli scismatici Greci, per sfuggire agli argomenti con cui gli ortodossi dimostravano che lo Spirito Santo procede dal Figlio oltre che dal Padre, aveva proposto qualcosa di simile. Si diceva loro: Non vedete chiaramente dalle Scritture che il Figlio invia, che dà lo Spirito Santo? Ma non lo manderebbe né lo darebbe, se lo Spirito Santo non venisse da Lui. Incalzati da questa prova invincibile, risposero che per Spirito non si intende lo Spirito stesso, ma le grazie e i doni che Egli riversa nelle anime. Al che i loro avversari hanno risposto senza difficoltà che una soluzione di questo tipo è manifestamente illusoria. Perché è così? Perché Gesù Cristo non ha detto: Ricevete i doni del mio Spirito e Io vi manderò la sua grazia, ma ha detto: … ricevete lo Spirito Santo. Io vi manderò il Paraclito, lo Spirito stesso di verità. È vero che Esso non viene senza la carità, ma questa stessa carità ci viene espressamente indicata come un beneficio distinto dal dono dello Spirito Santo, dal quale proviene come effetto della sua causa. Infatti, dice espressamente l’Apostolo, la carità di Dio è stata riversata nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato (Petav. De Trinit., L. VIII, c. 5, n. 18-20). – Quanto è ammirevole la dignità del Cristiano fedele! Quello che è un santuario con il suo tabernacolo in mezzo alle dimore volgari, è tra gli altri uomini. Non chiamatelo un uomo terreno, un corpo di fango. È molto meglio di così, poiché egli è veramente Teoforo, cioè portatore di Dio, come amavano chiamarsi i Cristiani delle prime età (Mamachi. Orig. Du Christ, t. 1, L. I, § 8, p. 64); oppure Spirito-Portatore (πνευμοφόρος [= pneumotoforos], Spiritifer) secondo l’espressione forte di S. Atanasio, di S. Ireneo, di S. Cirillo d’Alessandria, di S. Girolamo ed altri ancora (Tutti questi testi si possono leggere in: Mamachi, nelle Origini cristiane, nel luogo citato nella nota. Sant’Ignazio di Antiochia ha riunito tutti questi nomi in due righe: « Siate dunque tutti compagni di viaggio nella carità, Teoforo, Naoforo, Cristoforo, Agioforo (portatore di Spirito Santo). » – Ep. ad Ephesians n. 9, P. Gr. t. 5, p. 652). Ma a questa grandezza quale santità non deve risuonare nelle nostre anime! Templi viventi di Dio, rispettiamo noi stessi e i nostri fratelli. Non vorremmo contaminare vasi consacrati dal Sangue di Cristo, o distruggere un tabernacolo dove Dio abita; e potremmo profanare vasi pieni di Spirito Santo, e, cacciando Dio dalle nostre anime, privarli così dell’onore di essere il loro Santuario? Cos’è un tempio di Dio se non un luogo specialmente destinato all’adorazione, alla preghiera e al sacrificio? Non dimentichiamo mai che siamo una razza eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, e non lasciamo che resti senza ostie, senza omaggi, senza il profumo delle nostre preghiere, contristando lo Spirito Santo, « quel dolce ospite delle nostre anime » (Dulcis hospes animæ: Inno Veni Creator). Diciamo, più ancora con la nostra vita che con le nostre parole, ciò che il salmista cantò una volta di un tempio meno prezioso del nostro: O Signore, ho amato la bellezza della tua casa e il luogo dove abita la tua gloria (Sal. XXV, 8). – Ahimè, quanti ce ne sono, anche tra i Cristiani che, vivendo in grazia, hanno l’inestimabile felicità di portare Dio nelle loro anime; quanti ce ne sono a cui potremmo applicare le parole di Giovanni Battista: « C’è uno in mezzo a voi (nel centro stesso del vostro essere), che voi non conoscete » (Joan. I, 26); o, almeno, che vi sembra di conoscere troppo poco. Che forza, che consolazione, che generosità darebbe questo pensiero, se ci fosse familiare. Nostro Signore è con me; il mio Signore è in me, padre, amico, protettore, testimone, sempre vigile, santo, sempre fedele!

LA GRAZIA E LA GLORIA (19)

IL SACRO CUORE DI GESÙ (58)

IL SACRO CUORE IL SACRO (58)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE TERZA.

Sviluppo storico della divozione.

CAPITOLO SESTO

MARGHERITA MARIA E I SUOI PRIMI COLLABORATORI

II. – I PRINCIPII DELLA NUOVA DIVOZIONE

(1675-1690)

In Margherita Maria vi è la veggente, e la devota, l’evangelista e l’apostolo del sacro Cuore. Ma queste tre cose non sono distinte in lei. Essa è tutta completamente per la sua missione; le sue visioni hanno per fine principale il suo apostolato; la sua divozione è la fiamma intima che brucia internamente e ha bisogno di espandersi al di fuori. Nostro Signore l’aveva preparata con tanta cura e le aveva fatto tante grazie, come glielo diceva Lui stesso, per essere l’apostolo del sacro Cuore. Abbiamo visto nella prima parte di questo volume come Egli si rivelò a lei e costituì Lui stesso la divozione come la voleva, con il suo oggetto, le sue pratiche, il suo spirito; come la scelse per essere strumento dei suoi disegni e l’indirizzò al Padre de la Colombière di cui voleva servirsi per aiutarla; quali promesse le fece per se stessa, per gli apostoli della divozione, per tutti coloro che l’accetterebbero volentieri; come volle infonderle, per dir così, la pienezza di questa divozione; come volle avere in lei l’anima completamente dedicata al suo amore e darcela per modello mirabile della vera divozione al suo sacro Cuore, gli storici della sua vita lo dicono. – Com’ella lavorò a diffondere la divozione che aveva ricevuto la missione di propagare, la sua attività apostolica e quella dei suoi primi collaboratori; i principî e i progressi della divozione durante i quindici anni ch’ella visse dopo le confidenze fatte al P. de la Colombière fino alla sua morte, lo dobbiamo dire qui, nella misura necessaria per stabilire lo sviluppo storico della divozione. – Fino alla grande apparizione del 1675 la divozione per così dire, non esisteva che nell’animo di Margherita. La sua superiora sapeva qualcosa delle sue relazioni intime con nostro Signore; ma temeva, e i consigli dei saggi che avevano esaminate le cose non erano certo tali da rassicurarla. Dopo le parole così chiare di nostro Signore bisognò infine rassegnarsi, come dice la santa. Questa volta la confidenza fu completa. Il P. de la Colombière fu guadagnato alla divozione. Non si contentò di rassicurare Margherita Maria e la sua superiora, la Madre di Saumaise. Senza por tempo in mezzo, si consacrò lui stesso al sacro Cuore. Ci dicono che fu il venerdì, 21 giugno 1675, giorno che seguiva l’ottava del SS. Sacramento; il giorno medesimo designato da nostro Signore per la festa del suo Cuore.  – Così cominciò la divozione; come modestamente! E le difficoltà sorsero subito. Dovette svilupparsi fra le contraddizioni. Margherita Maria è la prima a dire che il P. de la Colombière ebbe a soffrire moltissimo, per causa sua. Les contemporaines aggiungono che, nel breve tempo ch’egli rimase a Paray, « non cessò mai d’inspirare questa divozione a tutte le sue figlie spirituali ». Verso la fine del settembre 1676, il P. de la Colombière lasciò Paray; era stato nominato predicatore della duchessa di York, futura regina d’Inghilterra. Il 13 ottobre egli arriva a Londra, dove lo chiamava il suo nuovo ufficio. Vi fece conoscere e amare il sacro Cuore; prima dalla Duchessa stessa, che noi vedremo intervenire presso Innocenzo XII, per lo stabilimento della nuova divozione: poi dalle anime elette che si misero sotto la sua direzione. Ne parlò anche in alcune delle sue prediche di quaresima. E non è tutto; nota lui stesso, alla fine del suo ritiro di Londra, 29 gennaio (8 febbraio) 1077, che egli l’ha inspirata a molte persone in Inghilterra e ne ha scritto in Francia ed ha pregato uno dei suoi amici di farla conoscere nel luogo dove egli si trova. Bandito dall’Inghilterra, e già malato, andando a Lione, passa da Paray; vi rivede Margherita Maria, la rassicura, la incoraggia, rassicura anche la Madre Greyfié che era succeduta alla Madre di Saumaise. Egli continuò questo apostolato, con discrezione, come faceva in tutte le cose, ma in maniera molto persuasiva. Una delle sue lettere ha per soprascritta: « Mia cara sorella nel cuor di Gesù Cristo ». Talvolta termina con una formula come questa: « Credetemi, nel cuor di Gesù,  vostro… ». Non perdeva mai occasione di raccomandare la comunione riparatrice per il venerdì dopo l’ottava del SS. Sacramento; chiedeva alle Superiore di stabilirla nella loro comunità ed in maniera stabile, assicurando che a questa pratica sono unite grandi benedizioni. Quando la discrezione glielo permette, dice che questa pratica gli è stata « consigliata da una persona di straordinaria santità ». A Lione esercita il medesimo apostolato presso i giovani religiosi di cui aveva la direzione spirituale. Il P. Galliffet fa risalire a lui anche la sua divozione al sacro Cuore. La pagina ove spiega l’offerta al sacro Cuore pare che non sia stata scritta unicamente per uso suo personale. In ogni caso egli dové spiegarla ad altri. Questo apostolato era molto ristretto, poiché, dopoil suo ritorno in Francia, il Padre fu sempre molto debole. Egli era anche obbligato ad esser prudente, perché si capisce che questa nuova divozione non poteva incontrare il gusto di tutti… Soprattutto morendo il Padre compì la sua missione. Dio volle che venisse a finire i suoi giorni a Paray c che, avanti di partire per il ciclo, potesse vedere ancora ed incoraggiare Margherita Maria, Egli morì il 15 febbraio 1682. Due anni dopo si pubblicarono a Lione i suoi sermoni in quattro volumi e, in un volume a parte, il giornale dei suoi ritiri spirituali. Vi si leggeva: « Nel terminare questo ritiro (quello di Londra del 1677), pieno di fiducia nella misericordia del mio Dio, mi sono fatto una legge di procurare, con tutti i mezzi possibili, l’esecuzione di ciò che mi fu prescritto da parte del mio adorabile Maestro, riguardo al suo prezioso corpo nel SS, Sacramento dell’altare ». Seguono alcune belle elevazioni sulla santa Eucarestia, poi il Padre riprende: « Ho conosciuto che Dio voleva ch’io lo servissi, procurando il compimento dei suoi desideri sulla divozione che Egli ha suggerito ad una persona a cui si comunica molto confidenzialmente e per la quale egli si è voluto servire della mia debolezza. L’ho già inspirata a molte persone in Inghilterra, ne ho scritto in Francia ed ho pregato uno dei miei amici, di farla conoscere nel luogo dove egli è. Essa vi sarà molto utile, ed il gran numero di anime scelte che vi è in questa comunità mi fa credere che la pratica, in questa santa casa, sarà molto gradita a Dio. O mio Dio, perché io non posso essere dappertutto e pubblicare ciò che voi attendete da vostri servitori ed amici! ». « Dio dunque, essendosi rivelato a persona la quale, si può credere, è secondo il suo Cuore, con le grazie grandi che le ha fatto; ella se ne confessò a me ed io l’obbligai a mettere per iscritto ciò che mi aveva detto e che io stesso ho volentieri descritto nel giornale dei miei ritiri, perché il buon Dio vuol servirsi delle mie deboli cure, per l’esecuzione di questo disegno ». Seguiva il rac-conto della grande apparizione, quale il Padre l’aveva trascritto. Il Ritiro fu letto molto, perché l’autore era in gran fama di santità. Il passo intorno a Margherita Maria e il racconto trascritto di sua mano, fecero conoscere ciò che fin allora egli aveva detto così prudentemente in favore della nuova divozione. Al giornale dei Ritiri era unita un’Offerta al sacro Cuore, che ebbe pure la sua parte nello sviluppo della divozione. Questa Offerta si compone di due parti. La prima è una piccola spiegazione, semplicissima e molto chiara, della divozione al sacro Cuore. « Questa offerta, vi è detto, si fa per onorare questo divin Cuore, la sede di tutte le virtù, la sorgente di tutte le benedizioni ed il rifugio di tutte le anime sante ». Segue l’indicazione delle « principali virtù che si vogliono onorare in Lui, come Egli le ha praticate quando era nel mondo ». Ma il sacro Cuore non ricorda solo il passato. « Questo Cuore è ancora, per quanto può esserlo, degli stessi sentimenti, e soprattutto è sempre ardente d’amore per gli uomini, sempre aperto per diffondere ogni sorta di benedizioni e di grazie, sempre tocco dai nostri mali, sempre spinto dal desiderio di farci partecipi dei suoi tesori, di donarsi Lui stesso a noi, sempre disposto a riceverci e a servirci da asilo, da dimora, da paradiso anche in questa vita ». Si crederebbe di udire un’eco della santa. La conclusione è ancora più evidente: « In cambio di tutto ciò Egli non trova nei cuori degli uomini che durezza, oblìo, disprezzo e  ingratitudine; ama e non è riamato e non si conosce nemmeno il suo amore perché si sdegna di ricevere i doni con cui vorrebbe dimostrarlo, di ascoltare le tenere e segrete dichiarazioni che vorrebbe fare al nostro cuore ». – Dopo queste spiegazioni, l’offerta sgorga istantaneamente: « Per riparazione di tanti oltraggi ed ingratitudini tanto crudeli, o adorabile e amabile Cuore del mio amabile Gesù, e per evitare, per quanto è in mio potere di cadere in una simile disgrazia, io vi offro il mio cuore con tutti i movimenti di cui è capace; mi dono interamente a voi, e da quest’ora protesto sinceramente, che desidero dimenticare me stesso e tutto ciò che può aver rapporto con me, per togliere l’ostacolo che potrebbe impedirmi l’ingresso in questo cuore divino che voi avete la bontà di aprirmi e dove io desidero entrare per vivervi e morirvi con i vostri servitori più fedeli, tutto penetrato e infiammato del vostro amore. Offro a questo cuore tutto il merito, tutta la soddisfazione di tutte le Messe, di tutte le preghiere, di tutte le azioni di mortificazione, di tutte le pratiche religiose, di tutte le azioni di zelo, d’umiltà, d’obbedienza e di tutte le altre virtù che praticherò fino all’ultimo momento della mia vita. Non solo tutto ciò servirà per onorare il Cuor di Gesù e le sue ammirabili disposizioni; ma lo prego anche di accettare l’intera donazione che io gliene fo e di disporne nella maniera che gli piacerà e in favore di chi gli piacerà ». Il Padre spiega in seguito, con quella precisione e quel senso pratico ch’egli conserva persino nelle elevazioni più grandi e nei movimenti più generosi, come concilia questa offerta totale prima con la cessione ch’egli ha fatto alle anime del purgatorio di ogni merito delle sue opere, poi con le esigenze della carità o le obbligazioni diverse, che può avere, di dir Messe e di pregare secondo intenzioni domandate. Per le anime del Purgatorio, egli desidera che tutto « sia loro distribuito, secondo il volere del Cuore di Gesù ». Per le altre intenzioni. siccome si servirà allora di un bene che non gli appartiene, egli vuole che, come è giusto, l’obbedienza, la carità e le altre virtù che praticherà in quelle occasioni, siano tutte per il Cuor di Gesù, da cui avrà preso di che esercitare quelle virtù, « le quali, per conseguenza, gli apparterranno senza riserva ». Il dono non può essere più completo. E cosa chiede in compenso? Ce lo dice nella mirabile preghiera finale che ci mostra fino al fondo questa bell’anima: « Sacro Cuore di Gesù, insegnatemi il perfetto oblìo di me stesso, poiché è la sola via per la quale si può entrare in voi. Giacché tutto ciò che io farò nell’avvenire sarà per Voi, fate in modo che io non faccia niente che non sia degno di Voi. Insegnatemi ciò che debba fare per pervenire alla purezza del vostro amore, di cui mi avete ispirato il desiderio. Sento in me una grande volontà di piacervi e una grande impotenza a riuscirvi, senza una luce ed un soccorso particolare, che non posso attendere se non da Voi. Fate in me la vostra volontà, o Signore! Io mi vi oppongo, lo sento bene, eppure non vorrei, mi pare, non oppormi! Tocca a voi far tutto, o divin Cuore di Gesù Cristo! Voi solo avrete tutta la gloria della mia santificazione, se mi farò santo; ciò mi sembra evidente; ma sarà per voi una grande gloria e per questo solo, io voglio desiderare la perfezione. Così sia! Amen! ». Come aveva scritto il racconto per suo uso personale, anche l’offerta l’aveva scritta prima di tutto per se stesso. L’offerta, mostrando nel P. de la Colombière l’anima completamente devota al sacro Cuore, dava nello stesso tempo, un’idea della divozione, ed un modello per una delle sue pratiche principali. Era un atto di divozione privata; servì a propagare il culto nel pubblico. Il P. Croiset non tarderà molto ad inserirla nel suo libro. – In quanto al racconto dell’apparizione, oltre al suo effetto immediato che, si capisce, fu grandissimo, la sua pubblicazione nel Ritiro spirituale stava per avere un contraccolpo imprevisto sull’apostolato stesso della santa. E non fu senza « confusione terribile » per lei, com’ella dice più d’una volta e come è facile rendersene conto. Nel pubblico poteva darsi che non si sapesse a chi facesse allusione il P. de la Colombière; ma fra le persone che circondavano la santa, nei monasteri dove era un po’ conosciuta, il mistero fu presto svelato. La santa lo sente e ne soffre più che non si possa dirlo; ma, d’altra parte, quanto è felice del progresso della sua cara divozione! In tutta la sua corrispondenza vi è una fusione squisita di questi due sentimenti. Quando la Madre di Soudeilles stampa a Moulins, 1687, il libretto di esercizi in onore del sacro Cuore, con il sunto del Ritiro spirituale del P. de la Colombière, dove si parlava di lei, e della grande apparizione, ella ne prova una « confusione terribile ». Ma ella si sforza di non fare « attenzione né di riflettere su ciò », per darsi tutta alla gioia «di vedere questa divozione sostenersi ed insinuarsi da se stessa ». Vi fu, a Paray stesso, una scena che una delle contemporanee, Suor Péronne Rosalia di Farges, ha raccontato nella sua deposizione al processo del 1715. Si leggeva al refettorio il Ritiro spirituale del P. de la Colombière. Si arrivò al punto « in cui egli stesso parla delle cose che gli erano state predette da una santa anima, di quel che gli doveva succedere in Inghilterra a proposito della divozione al sacro Cuore ». Suor di Farges notò « che la venerabile sorella abbassava gli occhi ed era in un profondo turbamento… In ricreazione, all’uscire dal refettorio, ella disse a Suor Alacoque: « Mia cara sorella, avete avuta la vostra parte, oggi; e il R. P. de la Colombière non poteva designarvi meglio! ». A cui ella rispose che aveva occasione di amare la sua abbiezione. La santa soffriva dunque in simili occasioni più che non si possa dirlo. Ma ella ne approfittava per far conoscere la sua cara divozione. Fino allora, dice ella, « non riuscivo a trovare il modo di fare sbocciare la divozione del sacro Cuore che era tutto quello che io respiravo ». Senza dubbio ella parlava del sacro Cuore ad alcuni intimi e lo faceva con parole infiammate. Ma non poteva tradire il mistero delle sue comunicazioni con Gesù. Si sospettava, a Moulins e a Digione, dove la Madre di Saumaise avesse parlato di lei e della sua cara divozione; a Semur dove andò a stabilirsi la Madre di Greyfié dopo aver lasciato Paray; a Charolles dove era passato il Padre de la Colombière ed aveva gettata una scintilla; a Condrieu, dove egli scriveva a sua sorella dicendole di trasmetterla alle sue amiche, ecc. Ma non si poteva che intravvedere e indovinare. La pubblicazione rivelava le origini divine della divozione e un’intenzione positiva di nostro Signore. La santa non era designata che a un piccolo circolo d’iniziati; e, senza compromettersi troppo, ella ormai era libera di dar corso al suo zelo. Un passo di una delle sue lettere mostra benissimo come si comportava. Aveva parlato spesso del sacro Cuore alla Madre di Soudeilles, superiora a Moulins; l’aveva spinta con una energia singolare a consacrarsi interamente al questo sacro Cuore. Non osava neppure scrivere tutto alla sua antica superiora, la Madre di Saumaise, poiché, diceva, « la carta non è fedele, e mi ha già ingannato più volte ». Ora ella si fa ardita; scrive a Moulins, il 4 luglio 1686: « Non so, mia cara Madre, se comprenderete che è della divozione al sacro Cuore del nostro Signore Gesù Cristo che io vi parlo, la quale compie un gran cambiamento e un gran frutto in tutti coloro che vi si consacrano e vi si dedicano con fervore; ed io desidero ardentemente che la nostra comunità sia di questo numero… Noi abbiamo trovato questa divozione nel libro del Ritiro del R. P. de la Colombière, che si venera come un santo. Non so se ne avete notizia e se avete il libro di cui parlo; io mi farei un gran piacere di farvelo avere ». Così l’azione della santa e quella del P. de la Colombière si univano intimamente, come Gesù aveva unito intimamente le loro anime. Così il P. de la Colombière continuava ad esser l’apostolo del sacro Cuore. Lo era anche in un altro modo, per un apostolato misterioso di preghiera e di intercessione del quale la santa parla di frequente. Essa stessa lo pregava e si raccomandava a lui. Lo vedeva fare nel cielo, « con le sue intercessioni, ciò che si opera quaggiù sulla terra per la gloria di questo sacratissimo Cuore ». Il 15 settembre 1659 ella spiega al P. Croiset che nostro Signore « aveva scelto questo amico benedetto del suo Cuore per compiere quel gran disegno », e che bisogna « rivolgersi al suo amico fedele, il buon P. de la Colombière, a cui egli ha dato gran potere e rimesso, per dir così, ciò che riguarda questa divozione… Io ne ricevo dei grandi aiuti… Poiché… questa divozione del sacro Cuore l’ha reso molto potente in cielo ». Infine abbiamo già visto come essa colleghi la missione della Compagnia di Gesù a quella del P. de la Colombière. – Dal 1685 e dal 1686 la divozione prese alla fine impulso. Impulso malto modesto, dapprima e battuto da grandi colpi di vento. Il giorno di santa Margherita, 20 luglio 1685, furono resi al sacro Cuore nella piccola comunità di Paray i primi omaggi pubblici. È una data nella storia della divozione e la santa ne ha fatto il racconto più volte. Prima nelle sue Memore. « La festa di santa Margherita era di venerdì; pregai le nostre suore novizie, di cui avevo allora la cura, che tutti i piccoli onori che avevano intenzione di rendermi in occasione della mia festa, esse li facessero al sacro Cuore di nostro Signore Gesù Cristo. Ciò fecero di buon grado, innalzando un piccolo altare su cui posero un’immagine disegnata a penna alla quale noi cercammo di rendere tutti gli omaggi che questo divin Cuore ci suggerì ». Essa ricorda lo stesso fatto al P. Croiset, senza altri particolari più precisi sul fatto stesso. Dalle Contemporaines sappiamo ciò che fu questa giornata di gioia intima: la consacrazione e le preghiere al sacro Cuore, le pratiche per le anime del purgatorio, le effusioni della santa. Fu per lei « una delle gioie più perfette » Ma la giornata finì nella tempesta. La divozione era nuova, e S. Francesco di Sales aveva messo in guardia le sue figlie contro le novità in materia di divozioni. Perciò « le più virtuose della Comunità parvero da prima le più contrarie ». « Il sacro Cuore le farà arrendere », disse dolcemente la santa. Esse si arresero. La suora des Escures, la prima fra quelle che si oppone vano, prese ella stessa, un anno dopo, una iniziativa che guadagnò tutta la Comunità. Il 20 giugno 1686, ottava del SS. Sacramento, ella andò a chiedere alla sua antica amica la piccola immagine del sacro Cuore che ella aveva al noviziato: era un’immagine mandata dalla madre Greyfié pur essa già guadagnata alla divozione. Margherita Maria la donò, non sapendo ciò che sarebbe avvenuto, pregando e facendo pregare. « Il giorno dopo, giorno destinato a onorare questo Cuore divino, la suora des Escures non mancò di portare una sedia, su cui mise un tappeto molto pulito, su di esso posò quella piccola miniatura che era in una cornice dorata e la ornò di fiori. Ella si mise così davanti alla grata, con un biglietto di sua mano, per invitare tutte le spose del Signore a venire a rendere i loro omaggi al suo Cuore adorabile ». Questa volta la Comunità intera fu guadagnata e non si discusse più del mezzo migliore per testimoniare la propria divozione. Si sognava un bel quadro « e fin le nostre suore del piccolo abito (le educande) vollero contribuirvi con il denaro che i genitori davano loro per i piccoli piaceri » La divozione era lanciata; il movimento non doveva più arrestarsi. Alcune novizie lasciarono il noviziato, verso la fine del 1686; esse portarono alla Comunità una piccola immagine del sacro Cuore che aveva animato il loro fervore durante il noviziato e la misero in una nicchia dove tutte andavano a pregare quel divin Cuore. Ne fu affidata la cura a suor des Escures, che ne fece, secondo l’espressione della santa, « un piccolo gioiello ». Non era abbastanza: fu costrutta, nel recinto della clausura, una cappella, la dedicazione solenne della quale, portò tutta la piccola città di Paray e le parrocchie dei dintorni ai piedi del sacro Cuore. Era il 7 settembre 1688. – « I Signori della società di questa città (Membri di una società di preti, tutti nati a Paray e addetti alla chiesa parrocchiale, pur formando una specie di comunità.) e i curati delle parrocchie vicine, si riunirono tutti alla Chiesa parrocchiale e vennero poi in processione, nel nostro recinto, seguiti da un gran numero di persone a cui non si poté impedire l’ingresso. Erano le tredici e le cerimonie durarono due ore. Durante questo tempo, e molto tempo dopo, la nostra beata sorella rimase nella cappella, talmente rapita e assorta in Dio che di tutte le persone che desideravano ardentemente di parlarle nessuna osò concedersi quella pia soddisfazione. Durante quelle tre ore fu osservata attentamente per vedere se ella cambiasse posizione ; ma fu vista sempre immobile come una statua ». – A Semur la divozione si sviluppò prima che a Paray. Vi si diffuse la divozione, dice la santa, sentendo leggere il Ritiro del R. P. de la Colombière. La Madre Greyfié, allora superiora a Semur, tanto prudente e tanto riservata fino ad allora, aveva fatto fare un’immagine, e inaugurato un oratorio. Ella aveva mandato alla santa, per la strenna del 1686, la miniatura che presto avrebbe ricevuto gli omaggi della Comunità e vi aveva unito una dozzina d’immagini per le ferventi della divozione. – Moulins fu guadagnata alla divozione dalla Madre di Soudeilles; furono guadagnati anche, pare, Charolles e Condrieu grazie al Padre de la Colombière. A Digione andò meglio ancora. Mentre la Madre di Saumaise e la santa si occupavano nel fare stampare un’immagine del sacro Cuore da diffondere, suor Giovanna Maddalena Joly lavorava ad un ufficio in onore del sacro Cuore e sottometteva il suo progetto alla santa. Al di fuori della comunità la divozione si propagava. Diversi Padri Gesuiti si mettevano in rapporto con l’ardente apostolo e predicavano la nuova divozione; un Padre Cappuccino faceva lo stesso a Digione. Dal 1686 al 1690, Margherita Maria moltiplicava i successi della divozione, come altrettante vittorie del sacro Cuore; ella propaga l’immagine, il Ritiro del P. de la Colombière, il libretto stampato a Moulins per cura della Madre di Soudeilles; ella si interessa al piccolo ufficio del P. Gette, alle prove di suor Joly e al libretto di Digione, alle pratiche della Madre Desbarres a Roma per ottenere festa e ufficio. Paray ha già la sua cappella al sacro Cuore (1688). I fratelli della santa secondano gli sforzi della loro sorella. Il sindaco fa costruire, anche lui, una cappella al sacro Cuore e vi mette un quadro, come a Paray; il curato vi fonda una Messa perpetua per tutti i venerdì dell’anno. Con che gioia la santa vede e racconta questi successi! – Ma c’erano anche le opposizioni e le sconfitte. Con ingenua audacia, Digione si è rivolta a Roma, per ottenere la festa con la Messa e l’Ufficio, composti in francese da suor Joly e tradotti in latino dal cappellano Charolais. Ma Roma ha rinviata la pratica all’Ordinario, che era il Vescovo di Larigres. Fu una grande delusione e bisognò che Margherita Maria sostenesse e rianimasse le sue amiche deluse. Ella porta tutta la cara divozione nel suo cuore, essa ne vive. Durante gli anni 1675-1688, non si vede nessuno sviluppo interno. La santa fa valere il suo tesoro, prima nella sua vita, e poi per gli altri; il tesoro non sembra però accrescersi notevolmente. Due cose soltanto sono da notare, le pratiche e le promesse, e queste soprattutto dal 1685 al 1686. Con le sue novizie la santa adopera ogni industria, si serve di molti esercizî della sua cara divozione; ella ne prende a prestito qua e là, o ne adatta, ne inventa anche e talvolta di bellissime. A tutti essa raccomanda la comunione dei primi venerdì, la consacrazione, l’ammenda onorevole, l’immagine, i piccoli biglietti, gli uffici, ecc. Ma avanti tutto ella vuole accendere nelle anime l’amore per il sacro Cuore e condurle a vivere solo per Lui e di Lui. Quante belle pagine ci sarebbero da raccogliere nelle sue lettere infiammate! – Dal 1685 le promesse fatte a nome del sacro Cuore per i devoti divengono più precise, se non più magnifiche. Ce n’è per tutti: per gli zelatori della divozione e per i suoi addetti, per quelli che faranno l’immagine per quelli che la porteranno addosso, per le case dov’essa sarà esposta e onorata, ecc. La madre Melin, che ha intrapreso la costruzione della cappella del sacro Cuore nella clausura di Paray, avrà per ricompensa di morire nell’esercizio attuale dell’amore; la comunità di Semur, che per la prima ha reso pubblico omaggio al sacro Cuore è diventata, per questo, la prediletta di quel Cuore, ecc. Queste promesse di nostro Signore la santa le utilizza per guadagnare dei proseliti e per stimolare lo zelo di quelli che sono già guadagnati.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (18)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (18)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO OTTAVO

I doni dello Spirito Santo (2)

2) Nessuna colpa grave ha deturpato mai la sua anima verginale; è naturale, quindi, che non vi sia in lei nessuna traccia di quel timore colpevole che angustia le persone mondane. L’angoscia dell’inferno, che ha fatto tremare tante altre anime quantunque sante, sembra non averla nemmeno sfiorata. Nel peccato., una cosa sola essa considera: l’offesa infinita al Dio d’amore; ed à questa che la spaventa nella sorte dei peccatori e nella sua propria vita: timore filiale di un’anima che teme soltanto la pena causata ad un Padre infinitamente buono, meritevole di tutta la fedeltà. « Io piango questi peccati che ti hanno fatto tanto male » (Diario – 14 marzo 1899.). – Piuttosto la morte che il peccato. « Se dovessi., un giorno, offendere mortalmente Io Sposo che amo sopra tutte le cose, o morte, falciami presto, te ne scongiuro, prima che io abbia avuta un’infelicità così grande » (Ibidem – 10 marzo 1899.). « Mi sento disposta a morire piuttosto che offenderti volontariamente. Sia pure co] peccato veniale » ((26) Diario – 11 marzo, 1899.). Sotto l’influenza dello Spirito di timore, l’anima si sente tremare dinanzi all’infinita Maestà che abita in lei e che potrebbe annientarla in un attimo. come le sembra di meritare per i suoi peccati. Fino a che rimane ferma in questo sentimento di religioso timore, quasi di terrore sacro, le diviene impossibile qualsiasi ripiegamento di compiacenza sopra se stessa; ma, con tutte le forze, elimina quanto in lei potrebbe dispiacere al suo Dio. Questo Spirito di timore la mantiene nell’umiltà che è custode della carità perfetta. Sentimento necessario ad ogni creatura dinanzi alla Maestà di Dio: tanto che esso anima ancora ed in eterno i beati nel cielo, e raggiunge la sua espressione suprema nell’anima del Cristo di fronte alla potenza tremenda del Padre suo, infinitamente temibile ai peccatori. Se non troviamo., in suor Elisabetta della Trinità dinanzi alla tremenda Maestà di Dio, quella forma di timore riverenziale così pungente nell’anima di certi santi e nell’Agonizzante del Gethsemani, possiamo riconoscerne però nella sua vita altri effetti caratteristici. Al dono del timore si ricollega quella beatitudine, la prima di tutte,dei « poveri in spirito », la quale ha una speciale affinità col primo dei sette doni; doni che rendono l’anima docilissima all’azione dello Spirito Santo. « Beati i poveri in ispirito », i distaccati da tutto, quelli che non vogliono altra ricchezza che la Trinità e, di tutto il resto, niente, nada. Niente delle creature; niente nella memoria e nei sensi; povertà, povertà, povertà. Niente nell’intelligenza, fuorché la luce del Verbo; niente nella volontà e nel più intimo dell’anima, se non la presenza della Trinità, la sola beatificante. – Sotto l’influenza dello Spirito di timore., l’anima, libera da ogni pensiero d’amore estraneo a Dio, s’immerge nel proprio nulla, si vuota di se stessa, paventa la più lieve colpa, il minimo attacco, l’ombra stessa dell’imperfezione, la fiducia che si appoggia alla creatura; per realizzare questa povertà, liberatrice che la renderà beata, vuole camminare, assolutamente « sola col Solo ». Ora, in Suor Elisabetta della Trinità, il dono del timore assume proprio questa forma essenzialmente Carmelitana, stimolandola lo Spirito, a distaccarsi da tutto per rifugiarsi in Dio solo, al di sopra di ogni motivo umano, nel vuoto di tutto il creato.

3) Il dono della Fortezza à uno dei doni più caratteristici della fisonomia spirituale e della dottrina mistica di suor Elisabetta della Trinità. I suoi primi sgomenti di bimba scomparvero ben presto al contatto contemplativo dell’Anima del Crocifisso. Fu segreto della trasformazione così rapida del suo atteggiamento dinanzi alla sofferenza. Il suo diario di giovinetta ce la mostra già vittoriosa di se stessa e della sensibilità puerile che l’aveva fatta tremare per dovere andare dal dentista. Il suo ideale si à fatto virile; adesso guarda in faccia il dolore, anzi lo desidera vivamente. A diciannove anni scrive: « Voglio vivere e morire da crocifissa » (Diario – 31 marzo 1899). – Tali desideri Dio li esaudisce; e fece bene, suor Elisabetta, a prendere come parola d’ordine. della sua vita religiosa: rendere i movimenti della propria anima sempre più uguali a quelli dell’Anima del Crocifisso. La vita religiosa à un vero martirio; e le sue anime sante vi trovano ampia messe di sacrifici crocifiggenti il cui merito può uguagliare e persino sorpassare quello del martirio di sangue. Dio sa determinare per ogni anima, nella cornice della propria vocazione, la via del Calvario che la condurrà diritta, senza indugi, alla conformità perfetta col Crocifisso, a condizione che non venga trascurata nessuna occasione di mortificare la natura e di abbandonarsi senza riserva alle esigenze dell’Amore. – Anche la sola pratica — assolutamente fedele — di una regola approvata dalla sapienza della Chiesa basterebbe per condurre le anime alle più alte vette della santità: tanto è vero che il sommo Pontefice Giovanni XXII diceva: — Datemi un Frate dell’Ordine dei Predicatori che osservi la sua regola e le sue costituzioni e, senza bisogno di altro miracolo, lo canonizzo. – Altrettanto si potrebbe dire delle sante regole del Carmelo e di ogni altra forma di vita religiosa. Il compimento perfetto dell’oscuro dovere di ogni giorno esige l’esercizio quotidiano del dono della fortezza. Non sono le cose straordinarie, lo sappiamo, che formano i santi, ma la maniera divina nel fare le cose ordinarie. Questo « eroismo di piccolezza » di cui santa Teresa di Gesù Bambino rimane nella Chiesa l’esempio forse più luminosamente noto, trovò nella Carmelitana di Digione una attuazione nuova. Poiché le mortificazioni straordinarie non le erano permesse, essa vi supplì con una fedeltà eroica alle minime osservanze del suo ordine, sapendo trovare nella regola del Carmelo « la forma della sua Santità » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1903) e il segreto di « dare il sangue a goccia a goccia per la Chiesa, fino a morirne » (Alla sua Priora.). La fortezza, infatti, questo dono dello Spirito Santo, consiste meno — contrariamente a quanto per lo più si  crede — nell’intraprendere coraggiosamente grandi opere per il Signore, che nel sopportare con pazienza e col sorriso sul labbro tutto ciò che la vita ha di crocifiggente; essa poi si manifesta stupendamente nei santi allora del martirio e nella vita di Gesù, al momento della sua morte sulla Croce. Giovanna d’Arceo è più intrepida sul rogo che alla testa del suo esercito entrante vittorioso ad Orléans. – In Suor Elisabetta della Trinità, si trovano tutte due queste forme del dono della Fortezza, la seconda specialmente. All’inizio della vita religiosa e nell’entusiasmo del suo primo fervore, una fame e una sete inesprimibile di santità la divorano: « Sono contenta di vivere in questa epoca di persecuzione. Come bisognerebbe essere santi!… Chiedetela per me questa santità di cui ho sete.….. Vorrei amare come amano i santi, i martiri » (Lettera al Canonico A.- 11 settembre 1901). In lei, non erano parole vaghe come se ne sentono da certe anime che sognano il martirio d’amore e poi sopportano à stento una puntura di spillo e i minimi urti della vita comune. Senza smarrirsi in lontani miraggi di santità chimerica, ma col realismo pratico dei santi, suor Elisabetta, alla luce del suo Dio Crocifisso, ebbe la sapienza di scoprire nei minimi atti della vita ordinaria il mezzo migliore per provare à Dio quanto lo amava. « Non so se avrò la felicità di dare al mio Sposo divino la testimonianza del sangue; ma, se vivo pienamente la mia vita di Carmelitana, ho almeno la consolazione di consumarmi per Lui » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1903.). « Se mi si chiedesse il segreto della felicità, risponderei: non far nessun conto di sé, rinnegare continuamente il proprio io » (Lettera à Fr. di S… – 11 settembre 1906.). Negli ultimi mesi, andò incontro al dolore « con la maestà di una regina » (Espressione di un testimonio.). Tutto il suo povero essere andava in rovina, Straziato, consumato, ma in quell’anima di martire. fu l’ora trionfale del dono della fortezza. La valorosa « ode di gloria », immedesimata sempre di più con l’anima del Crocifisso, faceva pensare alla forza divina del Calvario: vedendola, la sua Madre Priora si volgeva istintivamente all’immagine del Crocifisso. Ed ella stessa si rendeva conto perfettamente del senso di questa consumazione della vita nel dolore: scriveva alla mamma: «Tu temi che io sia designata come vittima per il dolore. Oh. te ne scongiuro, non ti rattristare; io temo, invece, di non esserne degna. Pensa, mamma, che sublime cosa partecipare alle sofferenze del mio Sposo Crocifisso e andare alla mia passione con Lui, per essere con Lui redentrice! » (Lettera alla mamma 18 luglio 1900). «Il dolore mi attira sempre di più: e il desiderio che ne provo supera persino quello del cielo, che è davvero grande. Il Signore non mi aveva fatto mai comprendere così bene che la sofferenza è la prova più grande di amore che Egli possa dare alla sua creatura, e allora, credi, ad ogni nuova pena, bacio a croce del mio Maestro e gli dico: — Grazie! — Ma non ne sono degna; penso che la sofferenza fu la compagna della sua vita. ed io non merito di essere trattata come Lui dal Padre suo » (Alla mamma – Settembre 1906). – «Il segno al quale possiamo riconoscere che Dio à in noi e che il suo amore ci possiede, è il ricevere non solo pazientemente ma con riconoscenza quello che ci ferisce e che ci fa soffrire. Per giungere a questo, bisogna contemplare il nostro Dio Crocifisso per amore e questa contemplazione, se è reale e sentita. conduce infallibilmente all’amore della sofferenza. Mamma cara. ricevi ogni prova, ogni contrarietà, ogni avvenimento sgradevole considerandoli alla luce che emana dalla croce; e così, sai;, che si piace a Dio e che si progredisce nelle vie dell’amore. Oh, digli grazie per me! Io sono tanto, ma tanto felice; e vorrei poter comunicare un po’ di questa felicità a coloro che amo… Ci ritroveremo all’ombra della croce; lì ti attendo per impararvi la scienza del dolore » (Alla mamma – 25 settembre 1906). – Suor Elisabetta, « lieta per dominio di volontà, sotto la mano che la crocifiggeva, sentiva il bisogno di rifugiarsi nella devozione della Regina dei martiri inabissata nella vastità di un dolore « immenso come il mare » (Thren. II-13) ma « ritta e forte ai piedi della croce » (Stabat), nella pienezza di un gaudio tutto divino —  « plane gaudens » [Enciclica « Ad diem illum », 2 febbraio 1904) — perché pensava, questa Madre addolorata, che l’oblazione del Figlio suo e lo spettacolo della redenzione placavano la Trinità santa. – Uno degli ultimi biglietti scritti alla mamma ci permette di sorprenderla in questo atteggiamento eroico del dono della fortezza. « C’è un Essere, che è Amore, il quale vuole che viviamo in società con Lui. Egli è qui con me, mi tiene compagnia, mi aiuta a soffrire, mi insegna a passare al di là del dolore per riposarmi in Lui… Così, tutto si trasſorma. » (Alla mamma, 20 ottobre 1906). È chiaro che tutto ciò supera la misura umana e non può spiegarsi se non mediante lo stesso Spirito di Fortezza che sosteneva Cristo in Croce.

4) Lo Spirito di Gesù riveste in noi aspetti multiformi: è lo Spirito di timore, di fortezza, di pietà., di consiglio, di scienza, di intelletto, di sapienza. Nel dono del timore e nella beatitudine dei poveri, sospinge l’anima al distacco assoluto e le ispira come parola d’ordine: « Nulla, nulla, nada » (S. Giov. Della Croce). Non contare che su Dio il quale non ci viene mai meno. Diffidente di sé, l’anima si rifugia nell’Onnipotenza divina; e allora Io Spirito di fortezza si impadronisce di lei e le fa ripetere con fiducia:. « Ho ſame e sete di giustizia, di santità (S. Matt. V, 6). Signore, spero in te e la mia speranza non sarà delusa » (Ps. XXX, 2). Pronta à tutti i martirii per il suo Dio, potrebbe esclamare come Teresa di Gesù Bambino: « Un martirio solo non basta: li vorrei tutti » (Storia di un’anima ); o come suor Elisabetta della Trinità: Vorrei amare come amano i santi, i martiri, …. amare fino à morirne » ( Cfr. Diario e lettera al Canon. A. 11 sett. 1901). Che dire delle meraviglie ineffabili che lo Spirito di Gesù può compiere silenziosamente in tali anime? E li penetra nelle più intime profondità del loro essere e le fa sospirare a Dio con gemiti inenarrabili. Ed allora l’anima, figlia adottiva della Trinità, mormora con una tenerezza tutta filiale: « Abba Pater! » (Rom. VIII, 5); è lo Spirito medesimo del Figlio. – Suor Elisabetta, possedendo una chiara coscienza di questa paternità divina, si fermava spesso e con tanto diletto, alla luce del suo caro san Paolo, nella meditazione di quella grazia di adozione che vivificava il suo culto verso Dio. Non metodi rigidi, né formule complicate che potrebbero paralizzare gli slanci del suo cuore filiale; corre à Dio come una bimba al padre suo. Tutto à semplificato: la Trinità à per lei la « cara dimora », la « casa paterna » donde non vuole uscir mai, l’atmosfera familiare dove l’anima sua di battezzata si Sente pienamente a suo agio. Tutti i moti del suo spirito si volgono a Dio come ad un Padre teneramente amato; e la sua sublime preghiera alla Trinità non è che l’effusione del suo cuore di figlia; bisognerebbe analizzarla alla luce del dono della pietà per scoprirvi il segreto della sua vita di orazione. Come è lontana da quelle preoccupazioni interessate che ingombrano tante vite di preghiera, le quali sembra che non si avvicinino a Dio se non per implorarne il soccorso. (Qui, il primo posto è per l’orazione silenziosa e adoratrice, per la conformità all’anima di Cristo, per la contemplazione degli « abissi » della Trinità; e, senza sforzo alcuno, l’anima si eleva fino alle Persone divine con lo Spirito stes3o de Figlio: « O mio Cristo. vieni in me come Adoratore e come Riparatore.….. tu, o Padre, chinati verso la tua povera piccola creatura e non vedere in essa che il Figlio diletto in cui hai posto tutte le tue compiacenze » (Elevazione alla Trinità). – Anche la preghiera di domanda per i peccatori occupa intensamente, à vero, la sua anima di Carmelitana e di corredentrice; ma, nella sua vita di adorazione, la preghiera che adora tiene — e di molto — il primo posto: è il più puro spirito di Gesù, il perfetto Adoratore del Padre, venuto sulla terra prima di tutto per raccogliere intorno à sé i veri adoratori che « il Padre cerca » (S. Giov. IV, 23) e che la Trinità attende. Infatti, il carattere proprio del dono della pietà è di elevare l’anima religiosa, nelle sue relazioni con Dio, al di sopra di ogni considerazione interessata e di ogni motivo creato, siano essi bisogni o benefici (Cfr. IL teologo classico dei doni dello Spirito Santo, Giovanni di San Tommaso – q. 70, disp. XVIII, art. 6, Vivès 668 – . Tutto lo sforzo della sua analisi del dono di pietà ha per testo fondamentale l’insegnamento di san Tommaso nelle sentenze – Ill, d. 34. Q. 3, a. 2, q. 1, ad 1 – « Pietas quæ est donum accipit in hoc ALIQUID DIVINUM pro MENSURA, ut scilicet Deo honorem impendat, Non quia sit E1 DEBITUS, Sed quia Deus honore dignus est, PER QUENM MODUM etiam ipse DEUS sibi honori est ». E, di qui, Giovanni di san Tommaso, p. 669: « At vero donum pietatis RELICTA hac MENSURA RETRIBUTIONIS et largitionis bonorum, honorat et magnihcat Dominum RATIONE SUI…, SOLUM attendit ad MAGNITUDINEM DIVINAM {IN SE », etc.). Mentre la virtù infusa di religione rende à Dio il culto che gli è dovuto nella sua qualità di sovrano Signore, principio e fine supremo di tutte le cose, autore dell’ordine dell’universo naturale e soprannaturale, invece il dono di pietà, prescindendo da tutto ciò che a Dio è dovuto per le sue liberalità, non guarda che l’eccellenza increata dell’Eterno, e la misura della sua lode è la gloria stessa che Dio trova nel proprio seno, nel Suo Verbo, cioè, e nelle sue perfezioni infinite. La Vergine santa, nel suo Magnificat, ci lascia cogliere un movimento bellissimo dell’anima sua vibrante al soffio dello Spirito di pietà, quando glorifica Iddio, non solo per le di lui « infinite misericordie di generazione in generazione », e nemmeno per la grazia sublime della maternità divina per cui tutte le nazioni la chiameranno beata, ma soprattutto perché Egli è grande in se medesimo, e le cose meravigliose operate da Lui nella sua povera serva non sono che il segno della « sua onnipotenza e della santità del suo Nome. Et sanctum Nomen eius » (Luc. I, 49). Di modo che la ragione per la quale glorifica Dio ed esulta in Lui, non è se non quella divina grandezza di cui tutte le opere esteriori non sono che debolissima manifestazione.La virtù di religione considera Dio creatore e provvidenza: « Degno sei tu, o Signore e Dio nostro, di ricevere l’onore e la gloria perché hai creato tutte le cose e le fai sussistere con la tua volontà » (Apoc. IV, 11). Ma rende a Dio anche un culto di riconoscenza e di Iode, perché Egli é l’autore della Redenzione e di tutto l’ordine soprannaturale: « Degno tu sei, o Signore, di ricevere ü libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e col tuo sangue hai riscattato a Dio uomini da ogni tribù e lingua e popolo e nazione; e li hai fatti popolo regale e sacerdoti, e regneranno Sulla terra » (V., 9 -10). Il dono della pietà, elevandosi al di sopra di tutti questi motivi di bontà di Dio verso di noi, non vuole considerare che Lui, Dio stesso, e il mistero insondabile perfezioni di questa Essenza divina in seno alla Trinità. Quindi non fissa il suo sguardo soltanto sulla paternità di Dio per le anime mediante la grazia, ma come il Verbo, lo Spirito di pietà penetra negli intimi recessi della divinità, fino alle più segrete ricchezze di questa natura increata: paternità eternamente feconda. Generazione di un Verbo consustanziale al Padre, sua immagine, sua gloria e suo splendore, spirazione di un comune Amore consustanziale e coeterno che sempre li ha uniti e li unirà, adesso e per i secoli senza fine; natura identica, comunicata dal Padre al Figlio, dal Padre e dal Figlio allo Spirito Santo, senza anteriorità di tempo, senza ineguaglianza di perfezione, senza dipendenza, ma con ordine e distinzione delle Persone in una indivisibile Unità. Il motivo del dono della pietà à la Trinità stessa. L’anima, non arrestandosi più alla stima dei benefici di Dio, vorrebbe glorificarlo tanto quanto Egli a se stesso la propria Iode. Vorrebbe uguagliare la misura divina, e ciò imprime una maniera deiſorme a tutto il suo culto di preghiera, di ringraziamento e soprattutto di adorazione. Secondo la formula così profonda, familiare a suor Elisabetta della Trinità, ella « adora Dio à causa di Lui stesso » e perché è Dio. La Chiesa della terra à sotto questa mozione speciale del dono di pietà quando, ogni giorno, al Gloria della Messa, canta: « Noi ti ringraziamo, o Signore, Per la tua gloria infinita. Gratias agimus tibi, propter magnam gloriam, tuam ». (Questo culto di glorificazione della divina Maestà non si rivolge ad alcuno dei suoi benefici, ma alla sola grandezza di Dio in se stesso; il motivo quindi di questo movimento di pietà adoratrice à la Deità stessa nella sua eccellenza increata, infinitamente superiore à tutti i suoi doni. Un sentimento simile à questo faceva esultare l’anima religiosa di suor Elisabetta della Trinità, come una volta quella della Madre sua santa Teresa, quando la domenica, all’ufficio di « Prima », la liturgia metteva suulle sue labbra il « Quicumque », facendo passare sotto Io sguardo contemplativo della Chiesa l’enumerazione delle perfezioni divine celate nel seno del mistero trinitario: Unità nella Trinità e Trinità nell’unità, senza confusione di Persone. senza Separazione di sostanza; una sola Divinità: Padre, Figlio e Santo Spirito; gloria identica, maestà coeterna, uguale potenza, uguale immensità, uguale eternità (« Quicumque »; a Prima della domenica.). – Nelle ultime ore della sua vita, suor Elisabetta, tutta dominata dal pensiero dell’eternità, amava tanto i capitoli dell’Apocalisse che le descrivevano la vita adoratrice della liturgia del cielo, dove tutto ciò che passa, al di sopra di se medesima, adora sempre Dio per Se stesso, secondo la parola del Salmista : « Adorate il Signore, perché Lui è santo ». L’adorazione è veramente una parola di cielo; mi pare che si possa definirla: l’estasi dell’amore; è l’amore annientato dalla bellezza, dalla forza, dalla Immensa dell’oggetto amato ». – « L’anima sa che Colui che essa adora possiede in sé ogni gloria ed ogni felicità e gettando la sua corona, come 1 beati, dinanzi à Lui, si disprezza, non bada più à sé, e trova la propria {elicità in quella dell’Essere ,adorato » (Ultimo ritiro. VIII). Con La liturgia eterna, espansione suprema del dono della pietà, la Chiesa trionfante, trasportata in Cristo e da Cristo nella lode del Verbo, realizza il sogno più caro dell’anima adoratrice di suor Elisabetta: l’incessante lode di gloria alla presenza della Trinità.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (19)