DOMENICA XI DOPO PENTECOSTE (2022)
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Semidoppio – Paramenti verdi.
La Chiesa nella liturgia di questo giorno ci insegna come Dio accordi il suo aiuto divino a tutti quelli che lo domandano con confidenza. Ezechia guarì da una malattia mortale, grazie alla sua preghiera, come pure liberò il suo popolo dai nemici; mercè la sua preghiera sulla croce, Gesù cancella i nostri peccati (Ep.) e risuscita il suo popolo a nuova vita mediante il Battesimo di cui è simbolo la guarigione del sordo muto, dovuta pure alla preghiera di Cristo (Vang.). Così, dato che per la virtù dello Spirito Santo, Gesù cacciò il demonio dal sordo muto e che i sacerdoti di Cristo cacciano il demonio dall’anima dei battezzati, si comprende come questa XI Domenica dopo Pentecoste si riferisca al mistero pasquale ove, dopo aver celebrata la risurrezione di Gesù si celebra la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa, e si battezzano i catecumeni nello Spirito Santo e nell’acqua affinché, come insegna S. Paolo seppelliti con Cristo, con Lui resuscitino. – Il regno delle dieci tribù (regno d’Israele) durò 200 anni circa (938-726) e contò 19 re. Quasi tutti furono malvagi al cospetto del Signore e Dio, allora, per castigarli, dette il loro paese ai nemici. Salmanassar, re d’Assiria, assediò Samaria e trascinò Israele schiavo in Assiria nell’anno 722. I pagani, che presero il posto nel paese; non si convertirono totalmente al Dio d’Israele e furono detti samaritani dal nome di Samaria. — Il regno di Giuda durò 350 anni circa (938-586) ed ebbe 20 re. Una sola volta questa stirpe regale fu per perire, ma venne salvata dai sacerdoti che nascosero nel tempio Gioas, al tempo di Atalia. Parecchi di questi re furono malvagi, altri finirono come Salomone nel peccato, ma quattro furono, fino alla fine, grandi servi di Dio. Questi sono Giosafat, Gioathan, Ezechia, Giosia. L’ufficio divino parla in questa settimana di Ezechia, tredicesimo re di Giuda. Egli aveva venticinque anni quando diventò re e regnò in Gerusalemme per ventinove anni. Durante il sesto anno del suo regno Israele infedele fu tratto in schiavitù. « Il re Ezechia, dice la Santa Scrittura, pose la sua confidenza in Jahvè, Dio d’Israele e non vi fu alcuno uguale a lui fra i re che lo precedettero o che lo seguirono; così Jahvè fu con lui ed ogni sua impresa riuscì bene ». Allorché Sennacherib, re d’Assiria, voleva Impadronirsi di Gerusalemme, Ezechia salì al Tempio e innalzò una preghiera a Dio, pura come quelle di David e Salomone. Allora il profeta Isaia disse a Ezechia di non temere nulla poiché Dio avrebbe protetto il suo regno. E l’Angelo di Jahvè colpì di peste centosettantacinque mila uomini nel campo degli Assirii. Sennacherib, spaventato, ritornò a marce forzate a Ninive ove morì di spada. Dio accordò più di cento anni di sopravvivenza al regno di Giuda pentito, mentre aveva annientato il regno d’Israele impenitente. — Ma Ezechia cadde gravemente malato e Isaia gli annunciò che sarebbe morto: « Ricordati, o Signore, disse allora il re a Dio, che io ho proceduto avanti a te nella verità e con cuore perfetto, e che ho fatto ciò che a te è gradito » (Antifona del Magnificat). E Isaia fu mandato da Dio ad Ezechia per dirgli: « Ho intesa la tua preghiera e viste le tue lacrime; ed ecco che ti guarisco e fra tre giorni tu salirai al Tempio del Signore ». Ezechia infatti guari e regnò ancora quindici anni. Questa guarigione del re che uscì, per cosi dire, dal regno della morte il terzo giorno, è una figura della risurrezione di Gesù. Così la Chiesa ha scelto oggi l‘Epistola di S. Paolo nella quale l’Apostolo ricorda che il Salvatore è « morto per i nostri peccati, è stato seppellito ed è resuscitato « nel terzo giorno » e che per la fede in questa dottrina noi saremo salvi come l’Apostolo stesso. Per questo stesso motivo è preso per l’Introito il Salmo 67, nel quale lo stesso Apostolo ha visto la profezia dell’Ascensione (Ephes., IV, 8).
Incipit
In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor
Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et te, pater, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.
V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
Introitus
Ps LXVII: 6-7; 36
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.
[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]
Ps LXVII: 2
Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus.
[Sorga Iddio, e siano dispersi i suoi nemici: fuggano dal suo cospetto quanti lo odiano.]
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.
[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]
Kyrie
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
Gloria
Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.
Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui, abundántia pietátis tuæ, et merita súpplicum excédis et vota: effúnde super nos misericórdiam tuam; ut dimíttas quæ consciéntia metuit, et adjícias quod orátio non præsúmit.
[O Dio onnipotente ed eterno che, per l’abbondanza della tua pietà, sopravanzi i meriti e i desideri di coloro che Ti invocano, effondi su di noi la tua misericordia, perdonando ciò che la coscienza teme e concedendo quanto la preghiera non osa sperare.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV: 1-10
“Fratres: Notum vobis fácio Evangélium, quod prædicávi vobis, quod et accepístis, in quo et statis, per quod et salvámini: qua ratione prædicáverim vobis, si tenétis, nisi frustra credidístis. Trádidi enim vobis in primis, quod et accépi: quóniam Christus mortuus est pro peccátis nostris secúndum Scriptúras: et quia sepúltus est, et quia resurréxit tértia die secúndum Scriptúras: et quia visus est Cephæ, et post hoc úndecim. Deinde visus est plus quam quingéntis frátribus simul, ex quibus multi manent usque adhuc, quidam autem dormiérunt. Deinde visus est Jacóbo, deinde Apóstolis ómnibus: novíssime autem ómnium tamquam abortívo, visus est et mihi. Ego enim sum mínimus Apostolórum, qui non sum dignus vocári Apóstolus, quóniam persecútus sum Ecclésiam Dei. Grátia autem Dei sum id quod sum, et grátia ejus in me vácua non fuit.”
[“Fratelli: Vi richiamo il Vangelo che vi ho annunziato, e che voi avete accolto, e nel quale siete perseveranti, e mediante il quale sarete salvi, se lo ritenete tal quale io ve l’ho annunciato, tranne che non abbiate creduto invano. Poiché in primo luogo vi ho insegnato quello che anch’io appresi: che Cristo è morto per i nostri peccati, conforme alle Scritture; che fu seppellito, e che risuscitò il terzo giorno, conforme alle Scritture; che apparve a Cefa, e poi agli undici. Dopo apparve e più di cinquecento fratelli in una sol volta, dei quali molti vivono ancora, e alcuni sono morti. Più tardi appare a Giacomo, e quindi a tutti gli Apostoli. Finalmente, dopo tutti, come a un aborto, appare anche a me. Invero io sono l’ultimo degli Apostoli, indegno di portare il nome di Apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per la grazia di Dio, però sono quel che sono; e la sua grazia in me non è rimasta infruttuosa.”].
LA SINTESI DEL CREDO IN S. PAOLO.
Una delle cose che ci stupiscono davanti a certi monumenti costrutti dalla mano dell’uomo, monumenti materiali, è la loro antichità. Quando dinanzi all’arco di Tito, ancora così ben conservato nelle sue linee maestose, e anche in certi, in molti particolari secondarî, possiamo dire: ha duemila anni circa… ci pare d’aver fatto un grande elogio. Eppure questo è monumento morto. Noi ci troviamo oggi dinanzi a un monumento vivo, una costruzione ideale, cioè di idee, di concetto, di verità: il Credo, quello che voi sentite cantare ogni domenica. Ebbene il Credo ha duemila anni di vita. E noi ci troviamo oggi davanti al primo Credo, quale lo insegnava Paolo ai suoi convertiti. Non c’è tutto, c’è però la sostanza, il midollo centrale. Alcuni articoli sono sottintesi come presupposto necessario e implicito: altri saranno da lui stesso accennati altrove come corollari, ma il nucleo centrale è il Cristo Gesù, e Gesù è crocifisso e risorto. La sostanza, il centro del Vangelo è lì. Dio, Dio Creatore fa parte del credo religioso; cioè proprio di ogni religione che voglia essere appena appena non indegnissima di tal nome. Anche i Giudei credono in Dio Creatore e Signore del cielo e della terra. San Paolo non ricorda questo articolo, qui dove sintetizza il suo Credo, il Credo dei suoi Cristiani, non perché essi possano impunemente negare Dio, ma perché è troppo poca cosa per noi l’affermarlo Creatore. Il nostro Credo incomincia dove finisce il Credo della umanità religiosa. Ed eccoci a Gesù Cristo. Uomo-Dio, Dio incarnato, uomo divinizzato, mistero di unione che non è confusione e non è separazione. Ebbene, questi due aspetti che in Gesù Cristo Signor nostro si sintetizzano, San Paolo li scolpisce, da quel maestro che è, nella Crocifissione e nella Resurrezione di Lui. « Io, dice Paolo ai suoi fedeli — suoi… da lui istruiti, da lui battezzati, da lui organizzati, — io vi ho prima di tutto trasmesso quello che ho ricevuto anch’io, vale a dire: che Cristo è morto per i nostri peccati, come dicono le Scritture, che fu sepolto ». È il poema, grandioso poema, e vero come la più vera delle prose, delle umiliazioni di N. S. Gesù Cristo: l’affermazione perentoria e suprema della sua vera e santa umanità: patire, morire, patir sulla Croce, morire sulla Croce. – San Paolo tutto questo lo ha predicato ai Corinzi, come egli stesso dice altrove, con santa insistenza. A momenti pareva che non lo sapessero: era inebriato della Croce; ossessionato dal Crocefisso. Lo predicava con entusiasmo. E veramente questo Gesù che soffre e muore è così nostro. È così vicino a noi. Non potrebbe esserlo di più. « In labore hominum est: » è anch’egli soggetto al travaglio degli uomini. Travaglio supremo, supremo flagello: la morte. Tanto più ch’Egli è morto non solo come noi, ma per noi, per i nostri peccati e per la nostra salute; per i nostri peccati, causa la nostra salute, scopo e risultato della Redenzione. Ma per le loro cause sono morti anche gli eroi: Gesù Cristo è quello che è, quello che Paolo predica, la Chiesa canta nel Credo: Figlio di Dio unigenito, e la prova, la dimostrazione: la Sua Resurrezione. Uomo muore, Dio vive di una vita che vince la morte, e va oltre di essa immortale. Perciò Paolo continua: «Vi ho trasmesso che Cristo risuscitò il terzo giorno, come dicono le Scritture ». E della Resurrezione cita i testimonî classici, primo fra tutti Cepha, ultimo lui, Paolo, ultimo degli Apostoli, indegno di portarne il nome, ma Apostolo come gli altri. La morte univa Gesù a noi, la vita non lo separa da Noi. Gesù Crocifisso è il nostro amore mesto e forte. Gesù Risorto è la nostra grande speranza, primogenito quale Egli è di molti fratelli. Da venti secoli la Chiesa canta questo inno di fede, di speranza, d’amore.
P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.
(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)
Graduale
Ps XXVII: 7 – :1
In Deo sperávit cor meum, et adjútus sum: et reflóruit caro mea, et ex voluntáte mea confitébor illi.
[Il mio cuore confidò in Dio e fui soccorso: e anche il mio corpo lo loda, cosí come ne esulta l’ànima mia.]
V. Ad te, Dómine, clamávi: Deus meus, ne síleas, ne discédas a me. Allelúja, allelúja
[A Te, o Signore, io grido: Dio mio, non rimanere muto: non allontanarti da me.]
Alleluja
Allelúia, allelúia
Ps LXXX: 2-3
Exsultáte Deo, adjutóri nostro, jubiláte Deo Jacob: súmite psalmum jucúndum cum cíthara. Allelúja.
[Esultate in Dio, nostro aiuto, innalzate lodi al Dio di Giacobbe: intonate il salmo festoso con la cetra. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Marcum.
Marc VII: 31-37
In illo témpore: Exiens Jesus de fínibus Tyri, venitper Sidónem ad mare Galilaeæ, inter médios fines Decapóleos. Et addúcunt ei surdum et mutum, et deprecabántur eum, ut impónat illi manum. Et apprehéndens eum de turba seórsum, misit dígitos suos in aurículas ejus: et éxspuens, tétigit linguam ejus: et suspíciens in coelum, ingémuit, et ait illi: Ephphetha, quod est adaperíre. Et statim apértæ sunt aures ejus, et solútum est vínculum linguæ ejus, et loquebátur recte. Et præcépit illis, ne cui dícerent. Quanto autem eis præcipiébat, tanto magis plus prædicábant: et eo ámplius admirabántur, dicéntes: Bene ómnia fecit: et surdos fecit audíre et mutos loqui.
[“In quel tempo Gesù, tornato dai confini di Tiro, andò por Sidone verso il mare di Galilea, traversando il territorio della Decapali. E gli fu presentato un uomo sordo e mutolo, e lo supplicarono a imporgli la mano. Ed egli, trattolo in disparte della folla, gli mise le sua dita nelle orecchie, e collo sputo toccò la sua lingua: e alzati gli occhi verso del cielo, sospirò e dissegli: Effeta, che vuol dire: apritevi. E immediatamente se gli aprirono le orecchie, e si sciolse il nodo della sua lingua, e parlava distintamente. Ed egli ordinò loro di non dir ciò a nessuno. Ma per quanto loro lo comandasse, tanto più lo celebravano, e tanto più ne restavano ammirati, e dicevano: Ha fatto bene tutte le cose: ha fatto che odano i sordi, e i muti favellino!”
Omelia
(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano, 1957)
LA MUTOLEZZA SPIRITUALE
Gli presentarono un uomo sordo e muto perché lo guarisse. Ed Egli, sempre buono, lo trasse in disparte dalla folla, e gli toccò le orecchie e la lingua. Poi levò lo sguardo al cielo e gemendo gli disse nel dialetto di Palestina: « Effeta! » — Apriti. — E subito, sotto il comando della voce divina, le sue orecchie, rimaste chiuse fino allora, udirono, e la sua lingua, muta fino allora, parlò. Perché Gesù davanti a quell’uomo sordo e muto guardò in alto tristemente e gemette? Il Maestro divino col suo sguardo che abbraccia l’universo e trapassa i secoli, in quel povero disgraziato scorgeva tanti sordi e muti spirituali, più compassionevoli e sventurati di quel meschino. — Ci sono uomini sordi alla parola di Dio: i Sacerdoti, mandati da Gesù ad annunziare il suo Vangelo nel mondo, gridano nelle chiese per far giungere nei cuori gli insegnamenti divini. Eppure, quanti non vengono mai alla predica, o, se vengono, a mala pena, sbuffando, sopportano un predichino di pochi minuti! Quanti raccolgono la divina parola con un orecchio e con un altro la disperdono! — Ci sono uomini sordi alle buone ispirazioni: da tempo, forse, il Signore punge col rimorso certi cuori induriti ed essi non si convertono, non migliorano la vita; da tempo forse il Signore chiama certe anime buone ad una vita più perfetta, allo stato religioso, e quelle non si decidono mai. — C’è poi la sordità caratteristica dei figliuoli, che non vogliono mai ascoltare le parole dei genitori, e non pensano che i genitori hanno ricevuto l’autorità da Dio e che facendo il sordo con loro, lo fanno con Dio. Ma è soprattutto della mutolezza spirituale che io intendo parlare: non è forse una delle malattie più diffuse in questi tempi nostri? Si potrebbe considerarla sotto un quadruplice aspetto: un mutismo di preghiera; un mutismo di confessione; un mutismo di rancore; un mutismo di rispetto umano. – 1. UN MUTISMO NELLA PREGHIERA. Nel secolo VI i Goti e i Greci si disputavano il dominio d’Italia. Gli eserciti erano accampati sulle falde del Vesuvio, pronti alla battaglia. Contro al vecchio e terribile Narsete capo dei Greci, i Goti avevano eletto un giovane audace fino alla temerità e valoroso fino alla morte. In lui i soldati imperiali, appena scoppiata la mischia, tesero l’arco e incoccarono le saette; ma Teia era protetto da un alto scudo di pelle. Giungevano i dardi sibilanti, s’infiggevano rabbiosi nel cuoio, e infissi tremavano invano. Ma tratto tratto lo scudo diventava così pesante di ferro che bisognava cambiarlo. In uno di questi momenti Teia lasciò il suo petto scoperto davanti al nemico: fu un istante e bastò. Una saetta avvelenata lo colpì nel cuore e cadde. La vita nostra, ha detto lo Spirito Santo, è una battaglia. Il demonio ch’è più forte e più furbo di noi cerca coi dardi velenosi di farci cadere in peccato. Iddio, per questa lotta, ci armò di uno scudo invincibile: la preghiera (S. AMBROGIO, De obitu Valent.). Ma guai a noi se anche un istante solo lo deponiamo: basterebbe quello istante al demonio per trovarci inermi e per colpirci. È necessario pregare sempre e non smettere mai (Lc., XVIII, 1) perché il demonio sempre ci tenta e non si stanca. Invece, quanti Cristiani passano le lunghe giornate, le settimane intere, muti con Dio. Per loro il Signore quasi non esiste: lavorano, sudano, si logorano, sono oppressi dalla sventura, sono tormentati dalle tentazioni, ma l’aiuto di Dio non lo chiedono mai. Poveretti! Essi non ricordano più che se il Signore non edifica la casa, inutilmente lavorano quei che la costruiscono; se il Signore non custodisce la città, inutilmente vigilano le sentinelle (Ps. CXXVI). Beati quelli che hanno fatto della preghiera il respiro della loro anima! Beate le mamme che hanno imparato ad accudire alle loro faccende recitando giaculatorie, beati gli uomini che tra il rullo sordo delle officine mormorano brevi orazioni! È così che S. Paolo voleva i Cristiani: « Bramo che gli uomini preghino in ogni luogo… ». (I Tim., II, 8). Ed egli ne dava l’esempio: anzi una tradizione ricorda che quando lo decapitarono sulla via Ostiense presso la terza pietra miliare, la sua testa già stroncata abbia pregato ancora, ripetendo tre volte il nome di Gesù. – 2. UN MUTISMO NELLA CONFESSIONE. Quando il Conte di Carmagnola fu sconfitto dai Milanesi, il governo veneto lo condannò a morte come un traditore. Ed il terribile Consiglio dei Dieci ordinò che venisse trascinato con le mani legate dietro la schiena sulla Piazzetta di S. Marco, e giustiziato tra due colonne: ma prima però gli avessero a porre in bocca una spranga di ferro. Oh se il conte di Carmagnola in quegli ultimi istanti avesse potuto parlare! Avrebbe detto parole strazianti, avrebbe invocato la pietà del popolo per i suoi bambini innocenti: e tutto il popolo commosso, sarebbe insorto e l’avrebbe salvato. Ma quella inesorabile verga di ferro gli sprangava la bocca. Ogni uomo che commette peccato mortale è reo di tradimento, di quel tradimento che Giuda fece nell’orto degli ulivi; e Dio lo condanna alla morte eterna dell’inferno. Oh se il peccatore non si ostinasse a fare il muto, ma parlasse, ma confessasse al Sacerdote il suo peccato, la bontà di Dio cancellerebbe la sua condanna, e gli perdonerebbe! Oh se Giuda non si fosse chiuso nella sua muta disperazione, ma fosse corso, invece che all’albero del suicidio, all’albero della croce, e là, piangendo avesse aperto la sua bocca a confessare il suo peccato, dall’alto Gesù morente avrebbe detto anche a lui quella parola di perdono che già aveva detto al ladro. O uomini, che a fatica trovate la via del confessionale una volta l’anno, e forse nemmeno, ricordatevi che è il demonio che con le sue mani vi tiene chiusa la bocca, perché non vuole che ritorniate ad essere buoni! Ed intanto la vita fugge e la morte è qui vicina: ma se non vi confessate di frequente e bene in vita non sperate di fare una buona confessione sul letto di morte. In quel momento il nemico dell’anima vostra avrà maggior interesse di chiudervi la bocca con la spranga ferrea del silenzio. E voi cadrete nel baratro dell’inferno: allora aprirete le labbra per maledire la vostra stoltezza, ma inutilmente: sarà troppo tardi. – 3. MUTISMO PER RANCORE. Sapete come si potrebbe paragonare l’anima di non pochi Cristiani? Ad un crivello, in cui vi sono molti fori per i quali sfugge il grano buono e rimangono soltanto le pagliuzze. Così anche molte anime, che pur si credono buone, lasciano cadere dalla memoria i benefici e le belle virtù del prossimo per ricordare soltanto le offese e i difetti. Perciò il mondo è pieno di rancore e di mutismo per rancore. Quante volte vediamo un fratello che non saluta suo fratello, che non parla più con lui; un figlio che non parla co’ suoi genitori, una cognata con la propria cognata, un vicino con il suo vicino… È bandita così la pace dai focolari domestici e dai paesi che pur si dicono cristiani: e dove è bandita la pace è pure scacciato Gesù Cristo che a questo mondo è venuto a portare la pace. Una volta i Cristiani si distinguevano dall’amore vicendevole che si portavano, dalla pazienza con cui si compativano e s’aiutavano, ma oggi i Cristiani fanno anch’essi; troppo sovente, come quelli che non hanno fede. Basta una parola, uno sgarbo, uno sbaglio e subito ci adontiamo, rompiamo ogni relazione, ci odiamo cordialmente. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum (Rom. XII, 21). Non lasciarti vincere dall’offesa, ma vinci nell’amore ogni odio. Massimiliano, il giovane imperatore del Messico, prima d’essere ingiustamente fucilato, ricordando il precetto di Gesù, esclamò: « Perdono a Lopez il suo tradimento e al Messico il suo delitto! ». Tutti piangevano: e quando lo videro immobile sulla terra, piansero anche i suoi nemici. – 4. MUTISMO PER RISPETTO UMANO. A Torino, nel palazzo del Signor Gaetano della Rovere, S. Luigi Gonzaga vide un vecchio che credeva di rallegrare un crocchio di giovani con qualche parola poco pulita. Non poté tacere: e, ardendo nel volto, gridò: « Vecchio! e non hai vergogna di parlare così? Le parole cattive fanno marcire il cuore ». Ogni giorno sul tram, in strada, in officina, all’osteria si può trovare quale persona maleducata che bestemmia, o deride la Chiesa e i preti, o fa discorsi luridi. Eppure, dove sono quelli che hanno il coraggio di gridare una parola franca di biasimo? Dove sono quelli che hanno il santo ardire di far chiudere quelle bocche blasfeme ed impure? Se ci fosse qui il profeta Isaia potrebbe lanciare a tutti il suo rimprovero: « Muti! Muti! Voi siete come cani che non sanno nemmeno latrare ». Se si trattasse di difendere il nostro onore, scatteremmo come molle, ma perché si tratta dell’onore di Dio, sentiamo vergogna o poco ce ne importa. Nel giorno del giudizio supremo anche Cristo avrà vergogna di noi e della nostra viltà di fronte al Padre Celeste e agli eletti del paradiso. Che cosa si dovrebbe dire poi a certi padri e a certe madri? Vedono i figli battere una cattiva strada, mettersi in pericoli manifesti per la loro anima; vedono le loro figlie vestire una moda indegna di persone oneste, le vedono frequentare compagnie sospette, le vedono ritornare a sera tarda… e tacciono. Muti! Muti come cani che non sanno nemmeno latrare. Un giorno non lontano piangeranno sopra i loro figliuoli che saranno diventati il loro crepacuore; saranno lacrime inutili come una pioggia caduta sulla pietra. – Oggi Gesù passa anche davanti a noi, e noi pure forse trova colpiti d’una qualche mutolezza spirituale: o di preghiera, o di confessione, o di rancore, o di rispetto umano. Anche davanti a noi mestamente egli alza gli occhi al cielo e freme e geme. O Cristiani! Che il gemito del Figlio di Dio non passi invano, anche questa volta, sopra la nostra anima muta! — DI ALCUNE MERAVIGLIE DEL CREATO. Se poi ci fosse capitato di assistere a qualche miracolo, di vedere i morti risorgere, i sordi riacquistare l’udito, i muti parlare, gli storpi camminare, oh! Certo anche la nostra voce si sarebbe unita a quella delle turbe del Vangelo per esclamare: « Ha fatto bene tutte le cose! ». Sentimenti giusti e degni di un cuore cristiano. Ma, fratelli, non dimentichiamoci che, pur vivendo lontani dal tempo in cui Gesù viveva quaggiù sulla terra, noi, verso il Signore, possiamo e dobbiamo diportarci come facevano un giorno le turbe. Se non cadono più sotto i nostri occhi i miracoli, ci sono però altre meraviglie osservando le quali altro non ci resta che lodare il Signore il quale davvero ha fatto bene tutte le cose. Sarebbe uno sbaglio pensare soltanto al passato ed invidiare la vita mortale di Gesù sulla terra e poi non curarci neppure di quanto ogni giorno possiamo vedere coi nostri occhi e meditare nel nostro cuore. Oggi vi voglio parlare appunto di alcune meraviglie che il Signore, nella sua bontà, ha compiuto nel mondo materiale e nel mondo spirituale. A pensarci bene vedremo che ben poco dobbiamo invidiare alle turbe di Galilea, mentre invece dovremmo pentirci di essere stati troppo ingrati e freddi col Signore e di non avere più spesso esclamato di Lui: « Ha fatto bene tutte le cose! ». – 1. ALCUNE MERAVIGLIE CHE SI VEDONO. Pensate, per esempio, al sole, a questo astro maggiore della natura che Iddio fa sorgere ogni giorno tanto sui giusti che sopra i cattivi. È tale, da solo, una meraviglia, che molti popoli antichi avvolti nelle tenebre della superstizione, lo hanno adorato come fosse una divinità. Questa massa enorme di fuoco il Signore l’ha posta in mezzo a molti pianeti che gli girano attorno come soldati col loro capitano. Fosse troppo vicino alla terra la abbrucerebbe col suo caldo, fosse invece eccessivamente lontano non le giungerebbe più il calore e la luce richiesta. Il Santo re Davide assomiglia il sole ad uno sposo, splendido nei suoi vestiti da nozze, che avanza circondato da una festa radiosa. Provate a pensare che sarebbe mai di tutto il creato se il sole non ci fosse più. Invece col dolce tepore dei suoi raggi mattinieri sveglia la natura che dorme e le imprime il bacio dell’amore di Dio. E difatti, al suo primo saluto rispondono gli uccelli col loro cinguettio chiacchierino, rispondono le erbe e i fiori che drizzano su in alto i loro steli ed aprono le corolle olezzanti ai più grati profumi. Perfino le onde del mare s’acquietano al suo apparire, perfino gli uomini cominciano più volentieri la loro giornata di fatica e di sudore. Ma se il sole ci fosse sempre, noi ci stancheremmo: ed ecco la notte ristoratrice a portare il suo riposo agli uomini ed alla natura, a compensare quasi con la sua freschezza il calore e l’aridità del giorno. Ecco ancora l’avvicendarsi bello delle varie stagioni nel corso non breve di un anno intero. L’autunno semina a mani piene, l’inverno prepara e rafforza i germogli, la primavera offre l’incanto dei fiori, l’estate porta la gioia dei frutti. Se dopo il sole, voi pensate alla terra, alla madre terra che agli uomini dona la varietà delle pietre e dei marmi onde costruire le case, la ricchezza del cotone, del lino, della lana, della seta con cui fabbricarsi le vesti, l’abbondanza dei frutti onde non solo saziare la fame ma allietare il gusto in mille maniere, voi non potete fare altro che innalzare l’inno della riconoscenza e dell’amore a Dio che ha fatto bene tutte le cose. Il creato è un inno sublime, è una musica bella che canta la grandezza e soprattutto la bontà del Signore. Ma ogni cosa è fatta per l’uomo, ogni essere il Creatore l’ha voluto perché meno triste fosse la dimora di colui che è il re del creato. Questo è lo scopo della creazione in tutta la moltitudine immensa delle cose necessarie oppure soltanto utili. Ma tocca poi all’uomo capire il suo dovere e servirsi delle cose create per salire verso il Creatore. Il Santo re Davide quando cantava sulla cetra le lodi di Dio chiamava tutto il creato a benedire il Signore: aveva capito che « i cieli narrano la gloria di Dio, e il firmamento annunzia le opere delle sue mani, Un giorno getta all’altro la parola della lode e una notte trasmette all’altra le notizie: e queste non sono parole né discorsi di cui non si sappia intendere la voce » (Ps., XVIII, 1-4). – 2. ALCUNE MERAVIGLIE CHE NON SI VEDONO. Bello, interessante lo studio degli astri, lo studio della terra che noi abitiamo, ma, o Cristiani, c’è un’altra astronomia, un’altra geografia che non si vede ma pure esiste ed è sublime e stupenda: è il mondo soprannaturale, la vita dei figlioli di Dio, è tutto il meraviglioso intreccio di quelle verità che si studiano sopra il Catechismo e che la Chiesa insegna ai piccoli e ai grandi. Saremmo ingenui se noi pretendessimo in pochi minuti di far passare sia pure brevemente tutto quanto fa parte della vita dell’anima cristiana: solo gettiamo uno sguardo sopra qualche astro splendente di luce più bello in questo panorama che Dio soltanto può comprendere bene. La grazia. — Cosa sia proprio, noi non lo sappiamo: ma è certo che se non abbiamo il peccato mortale noi la possediamo dal giorno in cui abbiamo ricevuto il S. Battesimo. S. Caterina da Siena vide un giorno, per favore divino, un’anima priva di peccato e divinizzata dalla grazia. Era tanta la bellezza di quella visione e la dolcezza che ne ridondava in lei ammirante che sarebbe venuta meno se Dio non l’avesse sostenuta. – Quando a Lisieux, nella clausura delle carmelitane, morì S. Teresa del Bambino Gesù, tutte le suore sentirono per le sale, per le celle del convento un finissimo olezzo di violette, tanto che sembrava ritornata la primavera. AI contrario, ci furono dei Santi a cui il Signore fece vedere l’anima in peccato mortale. Il ribrezzo, il puzzo, lo schifo che ne provarono fu tale da farli morire, se Dio non li avesse sostenuti. Dunque, o Cristiani, la grazia è lo splendore, è il profumo, è la vita, è il sole dell’anima. Guai se questo sole si spegne! E allora teniamolo acceso, conserviamolo sempre radioso col fuggire il peccato. Solo il peccato è la vera rovina dell’anima, scomparsa la grazia, l’anima è arida e secca come il deserto, è fredda come il ghiaccio, in una parola, è morta come la terra senza sole. La grazia è vita, ma perché possa durare occorre che sia alimentata. Nutrimento di questa vita sono i Sacramenti e sopra tutti il Sacramento dell’Eucaristia. Attorno all’Ostia bianca tutto è silenzio, ma io sfido chiunque a trovare una meraviglia più grande della Santa Eucaristia. Se la grazia è qualche cosa di sublime, l’Eucaristia è ancora più grande. La grazia è creata da Dio nell’anima, ma l’Eucaristia, contiene Gesù Cristo stesso, il Figliuolo di Dio, il dispensatore della grazia divina che ci ha meritato con la sua Passione. – Le pensiamo noi queste cose quando andiamo in chiesa a sentire la S. Messa? Restiamo persuasi quando passiamo davanti ai nostri templi? Se è così, in chiesa bisogna diportarci bene, bisogna pregare con gusto, bisogna accostarci di spesso alla S. Comunione: chi non mangia muore. Cristiani, le anime nostre, hanno ricevuto il dono di una vita divina, ed hanno bisogno di un frequente cibo divino per non morire, avviciniamole spesso al candore santo dell’ostia bianca e poi custodiamole sempre con la massima cura perché hanno toccato Gesù. – In una notte fiammante di stelle una donna ed un uomo guardavano il firmamento con gli occhi torbidi di peccati. « Martino — disse la donna — guarda come è bello il cielo! ». « Sì! — rispose Lutero — è bello ma non è fatto per noi! ». Cristiani, per gustare le bellezze del cielo bisogna avere la grazia di Dio. Oh allora il cielo stellato e le meraviglie della natura ci fanno pensare con un desiderio immenso alla vita di gloria che si raggiunge con la vita della grazia. — APRI L’ANIMA ALLA PREGHIERA. I gesti di Gesù in questo miracolo, ci ricordano il rito del santo Battesimo. È ancora Gesù che nella persona del suo ministro tocca l’orecchio e bagna di saliva le labbra del battezzando, e ripete il suo comando miracoloso: « Apriti! ». Apriti! e l’anima ch’era sorda e muta alla vita soprannaturale si apre alla grazia che da ogni parte scaturisce in lei e la rende una nuova creatura, innestata a Cristo come un tralcio nel tronco della vite, figlia anch’essa di Dio e perciò erede delle divine sostanze. Questi sono gli effetti del Battesimo. Ma l’immenso tesoro di grazie che Dio pone in noi deve essere accuratamente conservato, rinnovato, accresciuto con una continua preghiera. È necessario che il battezzato preghi sempre senza mai cessare. In un libro molto noto di letteratura umoristica si parla di un buffo barone (quello di Münchhausen) il quale pretendeva di sollevarsi da terra aggrappandosi ai capelli. Illusi nella medesima stoltezza sono quei Cristiani che pensano di vivere il loro Battesimo e di salvarsi senza pregare continuamente, soltanto aggrappati alle proprie forze. – Nell’ordine soprannaturale noi, colle nostre forze, non possiamo tener fronte ai nostri nemici spirituali così astuti e così forti. Non possiamo nella nostra debolezza sostenere il peso della legge di Dio e osservare i comandamenti. Non possiamo compiere il minimo atto di virtù. Esplicita la parola di Gesù Cristo: « Senza di me non potete far nulla » (Giov., XV, 5); è ben esplicita la parola dell’Apostolo Paolo: « Noi non siamo capaci di pensare, da per noi stessi, qualche cosa di buono; la nostra capacità è da Dio » (II Cor, III, 5). Da ciò risulta che la preghiera è il linguaggio indispensabile della vita cristiana e che ogni mutismo in proposito è ingiustificabile. – LA PREGHIERA È IL LINGUAGGIO DELLA VITA CRISTIANA. Lo Spirito Santo provoca continuamente l’anima battezzata con queste parole: « apriti alla preghiera! ». Anzi Egli stesso forma nel profondo dei cuori quei gemiti inenarrabili, quegli atti di domanda fiduciosa che attraversano i cieli e vanno a toccare il cuore di Dio. – a) Quando alla vista di un cielo stellato, d’un ridente mattino, d’un campo promettente copioso raccolto, d’una cerchia di monti, di un’azzurra conca di lago, dello sconfinato orizzonte del mare, voi assurgete ad ammirare la grandezza, la bellezza, la forza di Dio Autore di tutte le cose; quando considerando le vicende degli uomini e i casi stessi della vostra vita voi intravvedete la trama della sapienza e della bontà di Dio che tutto dispone soavemente; e nel medesimo tempo di fronte alla Maestà Divina sentite la nullità del vostro essere, e v’inchinate col vostro pensiero profondamente davanti a Lui, riconoscendolo per vostro Padre, allora l’anima vostra si eleva a Dio: voi pregate. Questa è preghiera di adorazione. È un dovere la preghiera di adorazione; è un dovere del figlio riconoscere suo padre; del suddito riconoscere il suo sovrano; del servo riconoscere il suo padrone; della creatura riconoscere il suo Creatore. È poi una delle forme più belle di preghiera, perché l’anima non chiede nulla per sé, dimentica se stessa e si immerge in Dio: lo loda, lo adora, lo benedice, lo glorifica per nessun motivo interessato, ma solo per la sua gloria. Propter magnam gloriam tuam! – b) Quando ripensando ai molti e segnalati benefici ricevuti da Dio, voi sentite in fondo all’anima vostra sgorgare l’onda della gratitudine verso di Lui, e mentre il cuore si effonde in teneri affetti, il labbro non sa contenere calde espressioni di ringraziamento, allora l’anima vostra si eleva a Dio: voi pregate. Questa è preghiera di ringraziamento. È un dovere la preghiera di ringraziamento, perché è un dovere del beneficato essere riconoscente dei benefici ricevuti. Un soldato indigeno durante la guerra africana faceva questa pungente osservazione: « I soldati bianchi, quando si sentono colpiti dalla disgrazia, allora implorano soccorso: aiutami, buon Dio! buon Dio, aiutami! Quando invece tutto procede bene, a loro gusto, allora se ne fregano di Dio, anzi lo bestemmiano con le parole e lo insultano con le opere ». Quel soldato nero forse esagerava, ma diceva una dolorosa verità. Infatti, quanti sospiri, quante novene, lumini, fiori per ottenere una grazia! ed ottenutala, intenti a godersela, si dimentica il benefattore. I più grandi benefici del Signore sono tre: — la Creazione; e di questo lo dovete ringraziare con le preghiere del mattino e della sera; — la Incarnazione del suo Figlio; e di questo lo dovete ringraziare con la S. Messa ogni domenica e ogni festa di precetto. E perché fuggire via prima delle tre «Ave Maria » finali? È forse segno di riconoscenza? — la vostra divinizzazione mediante la grazia santificante; e di questo lo dovete ringraziare con la fuga dalle occasioni di peccato. – c) Quando alla considerazione dei vostri sbagli, vi sentite profondamente penetrati di umiliazione e di dolore per le offese fatte a Dio, e inorridendo alla vostra perfidia e miseria cominciate a rivolgervi a Lui implorando perdono, allora l’anima vostra si eleva a Dio: voi pregate. Questa è preghiera di propiziazione. È un dovere la preghiera di propiziazione perché è dovere dell’offensore chiedere perdono all’offeso, dichiararsi pronto alla riparazione. – d) Quando nei dubbi, nei pericoli, nelle lotte, nelle tribolazioni, nelle amarezze, voi sentite il bisogno di Dio e a Lui ricorrete chiedendo aiuti materiali e spirituali, invocando specialmente per l’anima luce, assistenza, forza di adempire fedelmente la Sua divina volontà, allora l’anima vostra si eleva a Dio: voi pregate! Questa è la preghiera di domanda. È un dovere la preghiera di domanda (o impetrazione), perché è un dovere indeclinabile per ciascuno di provvedere alla propria eterna salvezza, e così raggiungere il fine vero per cui è stato creato. Siccome nel presente ordine di Provvidenza Dio ha legato la concessione delle sue grazie alla preghiera, è ben chiara la conseguenza che ne deriva: chi prega si salva, chi non prega si danna. – INGIUSTIFICABILE MUTISMO Ho l’impressione incresciosa che in questo nostro tempo si preghi troppo poco. -a) La società moderna, in quanto tale, non prega più: le nazioni sono diventate o atee o indifferenti. Nei parlamenti e dai governi non si nomina più il nome di Dio, né per invocarlo, né per ringraziarlo. – La famiglia moderna va perdendo il suo linguaggio cristiano. Il Rosario in troppe case non risuona più, e quella sua dolce e intima monotonia non solleva più i cuori oppressi dalla faticosa giornata. b) Degli individui, molti non aprono più bocca col Signore: moltissimi aprono ancora la bocca ma non il cuore e non è preghiera la loro. Sono Cristiani che non possono vivere, e in realtà non vivono, in grazia di Dio. In essi il Battesimo è ridotto a un’energia soffocata, a un germe isterilito. satana, ritornandovi con la sua tirannia, li ha rifatti sordi e muti: sordi agli inviti di Dio, muti a chiamarlo e a rispondergli. — Non prego, perché è inutile pregare: Dio vede bene che al mondo ci sono anch’io e sa già i miei bisogni. Dio sa che ci sei al mondo, ma tu non sai che al mondo c’è anche Dio, Dio sa i tuoi bisogni, ma tu non sai i suoi desideri e le sue volontà sopra di te. — Non prego perché non ho mai ottenuto nulla. Senza dubbio tu sbagli le cose da chiedere. Dio non nega mai nulla di ciò che è necessario o utile alla nostra salvezza eterna. I beni temporali che gli vai chiedendo, tu non puoi sapere se siano favorevoli o dannosi alla tua anima. Fidati di Lui. Guai se ascoltasse tutte le sciocchezze che gli chiediamo! Molte nostre preghiere assomigliano a quelle di una fanciulla che pregava perché cessasse la febbre di sua madre così: « Fate che la febbre scenda a zero, fate che scenda a zero ». — Non prego, perché non ho ottenuto nulla anche quando chiedevo beni spirituali. T’inganni: non ti avrà esaudito in quella forma che t’aspettavi. Dio non ha promesso di esaudirci a modo nostro, ma al suo. S. Monica aveva pregato che Dio non lasciasse partire dall’Africa il suo Agostino, altrimenti non si sarebbe convertito più. Dio lo lascia partire per l’Italia. Monica dunque non fu esaudita? Anzi meglio e più presto: in Italia Agostino doveva convertirsi e porre le basi della sua santità. — Non prego perché non ho fede: mi pare di buttar via il tempo a parlare con nessuno. Appunto perché la tua fede è quasi spenta hai bisogno di pregare di più. La preghiera è l’olio della lampada della fede. S. Tommaso d’Aquino, il più sapiente dei santi e il più santo dei sapienti, diceva: « Ho visto più luce ai piedi del Crocifisso che in tutti i libri dei sapienti ». L’uomo che non prega è un viaggiatore sperduto in una foresta e senza lume. — Non prego perché sono sempre quel medesimo peccatore. E lo sarai, finché non ti metterai a pregare veramente. Senza preghiera si è incapaci di essere puri, di essere umili, di perdonare, di amare. – Ma la più grave disgrazia di quelli che non pregano è che a poco a poco si rendono incapaci di pregare. È un incensiere spento, che non solleverà più alle sfere celesti una nube di profumo attesa e gradita. È un’arpa dalle corde consunte e infrante, che non vibrerà più nessuna nota che s’accordi ai canti angelici.
Offertorium
Orémus
Ps XXIX:2-3
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me, nec delectásti inimícos meos super me: Dómine, clamávi ad te, et sanásti me.
[O Signore, Ti esalterò perché mi hai accolto e non hai permesso che i miei nemici ridessero di me: Ti ho invocato, o Signore, e Tu mi hai guarito.]
Secreta
Réspice, Dómine, quǽsumus, nostram propítius servitútem: ut, quod offérimus, sit tibi munus accéptum, et sit nostræ fragilitátis subsidium.
[O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno al nostro servizio, affinché ciò che offriamo a Te sia gradito, e a noi sia di aiuto nella nostra fragilità.]
Præfatio
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.
de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:
Sanctus,
Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.
Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:
Pater noster,
qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.
Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
Communio
Prov III: 9-10
Hónora Dóminum de tua substántia, et de prímitus frugum tuárum: et implebúntur hórrea tua saturitáte, et vino torculária redundábunt.
[Onora il Signore con i tuoi beni e con l’offerta delle primizie dei tuoi frutti, allora i tuoi granai si riempiranno abbondantemente e gli strettoi ridonderanno di vino.]
Postcommunio
Orémus.
Sentiámus, quǽsumus, Dómine, tui perceptióne sacraménti, subsídium mentis et córporis: ut, in utróque salváti, cæléstis remédii plenitúdine gloriémur.
[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, mediante la partecipazione al tuo sacramento, noi sperimentiamo l’aiuto per l’ànima e per il corpo, affinché, salvi nell’una e nell’altro, ci gloriamo della pienezza del celeste rimedio.]
PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)