LA GRAZIA E LA GLORIA (8)
Del R. P. J-B TERRIEN S.J.
I.
Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901
Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.
TOMO PRIMO
LIBRO II
LA NATURA DELLA NOSTRA FILIAZIONE ADOTTIVA. – IL PRINCIPIO COSTITUTIVO CREATO, VALE A DIRE LA GRAZIA SANTIFICANTE CON LE VIRTÙ ED I DONI.
CAPITOLO II
La Grazia, Partecipazione creata della natura increata. Significato preciso di questa formula.
1- Il principe degli Apostoli, San Pietro, ci insegna che la grazia è una partecipazione della natura increata in un testo che è stato commentato mille volte dai teologi e dai Padri, tanto è pieno di scienza divina. Questo testo di tale importanza capitale ci è dato nella sua seconda Epistola. Dio, « per mezzo di J.-C. N. S. ci ha dato i doni molto grandi e preziosi che ci aveva promesso, per renderci partecipi della sua natura divina attraverso di loro » (II. Piet.., I, 4). Queste sono parole di una profondità grandiosa che, se adeguatamente meditate, gettano un po’ di luce su tutto l’ordine della grazia e della gloria. Tu mi chiedi perché sono un figlio di Dio, un dio divinizzato, portando in me l’immagine e la forma dell’unigenito Figlio del Padre; e io rispondo come l’Apostolo: È perché ho ricevuto doni molto grandi e preziosi: io sono partecipe della natura divina. – Il Verbo di Dio, Gesù Cristo, riceve eternamente dal Padre, suo Principio e non sua causa, la piena comunicazione della natura paterna; e questa natura è la sua propria natura, senza divisione o condivisione, senza diminuzione o moltiplicazione; e per questo è veramente il Figlio unico, in tutto uguale e consustanziale a suo Padre. I figli di adozione, quando sono giustificati per grazia, ricevono da Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, come un effluvio creato di quella natura increata, una partecipazione finita dell’essenza infinita; e per questo diventano figli adottivi di Dio, non più uguali al Padre, ma simili al Figlio per natura, dei deificati come Egli è Dio deificante. – È impossibile ricordare, anche in forma abbreviata, i passi dei santi Dottori in cui questa dottrina è messa in luce. Rileggiamo quelli che abbiamo già citato nel corso di questo lavoro, e ci stupiremo di vedere quanto il pensiero di San Pietro torni naturalmente alla memoria dei Padri, ogni qualvolta essi tocchino il mistero della nostra adozione per grazia. Eppure, quanti altri testi si potrebbero citare! Ne scegliamo alcuni tra i tanti. « Il Figlio, rimanendo nella sua natura, si è reso partecipe della nostra, affinché anche noi, rimanendo nella nostra natura, partecipassimo della sua » (S. Agos., ep. 140, c.4, n. 11). Così, secondo S. Agostino, è uno stesso fine dell’Incarnazione, il rendere figli adottivi, dei deificati e partecipanti della natura divina. – Gli stessi pensieri sono in San Cirillo di Alessandria. Ho già trascritto parte del suo commento al primo capitolo di San Giovanni (Joan, I, 12-13. L. I, p. 9, 10). Ecco la continuazione, che non è meno importante per l’argomento che stiamo trattando: « Questi – egli dice – che sono stati elevati per fede in Cristo all’adozione dei figli di Dio, non hanno ricevuto il Battesimo nel nome di una creatura. No, la Chiesa li ha battezzati nella Santa Trinità, attraverso il Verbo, uno con noi nella natura umana di cui si è rivestito, uno nell’Essenza divina con il Padre. Se i servi e gli schiavi sono chiamati alla figliolanza, è perché la partecipazione del vero Figlio li eleva a quella dignità che Egli ha per natura… Ma poiché ci sono alcuni che hanno il coraggio di negare che il Figlio e lo Spirito Santo siano consustanziali al Padre e Dio come Lui, opponiamo a queste temerarietà sacrileghe la vera dottrina della fede. Se lo Spirito del Figlio non è Dio per natura, se non è da Dio, immanente come sostanza nel suo principio; in una parola, se è così diverso da Lui da essere per essenza di un ordine creato, come possiamo dire che noi, che siamo nati da Lui, siamo nati da Dio? O diciamo che l’evangelista ci abbia mentito; oppure, se lo riteniamo vero, come in effetti è, confessiamo che lo Spirito è Dio, Dio per natura, Colui la cui partecipazione per la fede in Cristo ci rende partecipi della natura divina, e di conseguenza ci dà il diritto di portare il nome di figli di Dio; cosa dico? il titolo di dei! (S. Cyril. Alex., L. I., in Joan. P, Gr., t. 73, p. 155, 157.) – Le stesse idee ancora in San Giovanni Damasceno, l’unico tra i Padri greci che meglio riflette e riassume tutti gli altri. « L’uomo, essendo diventato prevaricatore, fu così sottoposto alla morte e alla corruzione… Questa è la ragione per cui l’Onnipotente Operatore del genere umano abbia voluto, nelle viscere della sua misericordia, farsi come noi, prendendo la nostra natura senza assumere il nostro peccato. Poiché non avevamo conservato né la sua immagine né lo Spirito che ci aveva originariamente dato, Egli entrò in commercio con la nostra povera e debole natura, per purificarla dai suoi crimini, per spogliarla della corruzione e per renderci nuovamente partecipi della sua divinità. Perché era necessario che non solo le primizie del nostro genere umano, ma che ogni uomo che volesse, nascesse di nuovo e con questa seconda nascita partecipasse all’eredità del bene” (S. J. Damasc., de Fid. orth., L. IV; c. 13: P. Gr:, t. 94; n. 1137). – Aggiungiamo un’ultima testimonianza, quella di Sant’Atanasio. « Ogni creatura ragionevole partecipa al Figlio, secondo la grazia dello Spirito Santo che Egli stesso ci ha portato… Ora, quando partecipiamo del Figlio, noi partecipiamo di Dio; e questo è ciò che ci insegna San Pietro quando dice: Affinché diventiate partecipi della natura divina » (S. Atanasio, Or. c. Arian., 1, n. 16, P. Gr., vol. 26, p. 45). – Dire che questa partecipazione alla natura divina debba essere intesa esclusivamente come l’unione dello Spirito Santo con le anime, e che non presupponga alcuna realtà finita che sia un principio costitutivo del nostro stato di grazia, sarebbe una pretesa manifestamente insostenibile. Il principe degli Apostoli non nega che lo Spirito ci venga dato quando diventiamo figli di Dio. ma non è meno vero che i doni che, secondo lui, costituiscono la nostra partecipazione formale alla natura divina, siano distinti sia dal Datore che dal Mediatore attraverso il quale ci sono dati. Il testo sacro significa chiaramente questo: Per quem (Christum Deus) maxima et pretiosa nobis promissa donavit, ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ (II Piet,., I, 4). Possiamo vedere che ciò che ci rende partecipi della natura divina siano doni molto grandi e preziosi che Dio ci fa attraverso Gesù Cristo; doni al plurale, e non solo il dono per eccellenza che è lo Spirito, il dolce Ospite dell’anima fedele.
2. – La grazia è una partecipazione permanente e molto intima alla natura divina. Ma è proprio vero che questa partecipazione ricevuta nell’anima del giusto abbia la virtù che abbiamo detto, che in essa e per mezzo di essa siamo rinnovati, figli di Dio, addirittura dei? Che cos’è la partecipazione alla natura divina, se non avere una perfezione modellata su questa natura e derivante immediatamente da essa come dal suo principio e dalla sua prima fonte? Questa è la vera idea di partecipazione, quando si tratta del rapporto tra la creatura e il Creatore, tra l’essere contingente e l’Essere in essenza (Ognuno di noi partecipa della natura umana: perché se la possiede interamente nella comprensione, cioè nei principi che la costituiscono, la possiede solo parzialmente nell’estensione, cioè nelle individualità in cui si divide. L’umanità è in me, poiché sono uomo; ma è fuori di me, realmente e numericamente distinta, poiché ci sono altri uomini come me. Ho un’umanità; non sono l’umanità. Ovviamente non è così che la creatura partecipa alla natura divina: perché questa natura non è nostra, e non può moltiplicarsi in individui, poiché è essenzialmente una. Notiamo di passaggio questo testo del Dottore Angelico: Dicendum quod creaturæ non dicuntur divinam bonitatem participare quasi partem essentiæ suæ, sed quia similitudine divina bonitatis in esse constituuntur, secundum juam non perfecte divinam bonitatem imitantur, sed ex parte. S. Thom. II, D 17,- q .1, a. 1 ad 6). Ora, per questo motivo, mi si potrebbe obiettare qui, che tutte le creature partecipano alla divinità, poiché nessuna ha esistenza e realtà se non nella misura di questa partecipazione. Un essere distinto da Dio, l’Essere impartecipato, che non avrebbe in sé qualche somiglianza con il suo Autore, e che non sarebbe di Lui come del suo primo essere, sarebbe il puro nulla. – La Teologia cattolica ci insegna che lo scopo della creazione fosse quello di comunicare in vari gradi e di manifestare esternamente le infinite ricchezze della perfezione di Dio. Ma poiché questa perfezione non ha limiti, non potrebbe essere rappresentata, come dovrebbe essere, da una sola creatura. « Per questo – dice San Tommaso – Dio li ha fatti, li ha moltiplicati e diversificati, affinché ciò che manchi all’una per questa manifestazione della bontà divina sia compensato da un’altra. Perché la bontà che è in Dio molto uno e molto semplice, è frammentata, per così dire, e moltiplicata nella totalità dell’universo che nell’unità di una sola natura, per quanto perfetta possa essere » (S. Thom., 1 p., q. 47, a. 1.). Così l’infermità del linguaggio umano ci obbliga a moltiplicare i discorsi per esprimere qualcosa di sé che Dio si dice in una sola parola, una parola eterna, una parola infinita come lui, il suo Verbo. Così, per usare un esempio più umile, dobbiamo prendere diverse vedute di un palazzo, se vogliamo avere una riproduzione adeguata di esso. – Cos’è dunque il mondo, se non l’insieme delle partecipazioni di questa bellezza divina, che non è altro che l’Essenza e la natura stessa di Dio? Se tutti gli esseri hanno l’esistenza, è perché tutti partecipano all’Essere di Dio. Se alcuni hanno vita con l’esistenza, è perché partecipano all’Essere di Dio. Se altri sono dotati di intelligenza, come gli Angeli e gli uomini, anche questa è una partecipazione alla natura sovranamente intelligente che è Dio. Ovunque vestigia, copie, immagini delle perfezioni divine e, di conseguenza, partecipazione alla natura divina, poiché tutto in cielo e in terra non solo rappresenta Dio, ma viene da Dio. Anche i Santi, il cui occhio è illuminato dall’amore, vedono Dio in ogni creatura, come in uno specchio in cui è dipinta l’immagine più o meno piena delle sue infinite perfezioni. – Pertanto, queste stesse partecipazioni dell’essere, della vita, dell’intelligenza divina, per quanto eccellenti, non sono sufficienti a costituire dei figli di Dio; perché tra i più nobili, tra i più ammirevoli di essi ci sono dei nemici di Dio. Dove dunque possiamo trovare una più alta assimilazione alla natura divina, una comunione così singolare e perfetta che tutte le altre impallidiscono davanti ad essa, e che l’Apostolo può veramente chiamare coloro che la possiedono, e solo quelli, partecipi della natura divina: « divinæ consortes naturæ »?
3. – Per risolvere questo problema non abbiamo bisogno di uscire dal nostro testo: le parole usate da San Pietro, se le penetriamo nel loro significato più intimo e stretto, bastano a risolvere la questione. « La parola natura – insegna San Tommaso – sembra significare l’essenza di una cosa nella misura in cui è ordinata al suo proprio funzionamento. Nomen autem naturæ videtur significare essentiam rei, secundum quod habet ordinem ad propriam operationem » (S. Thom., De Ente et essentia, c. 1). In altre parole, la natura di un essere sostanziale è ciò che in questo essere costituisce il primo principio delle operazioni che gli sono essenzialmente proprie. – Il funzionamento proprio dell’uomo non è il sentimento, poiché tutti gli animali sentono, gustano, vedono e soffrono come lui. Che cos’è allora? Pensare e volere, poiché solo lui tra le creature visibili pensa e vuole. Dunque, la natura specifica dell’uomo, quella per cui si distingue dagli esseri inferiori, in una parola, la natura ragionevole, è la sostanza stessa dell’uomo considerata come il principio radicale delle operazioni di cui l’intelligenza e la volontà sono il principio prossimo. È così che i Padri nelle loro controversie con gli eretici del quarto e quinto secolo hanno inteso la natura, dimostrando contro questi ultimi la natura umana di Cristo con le sue operazioni ragionevoli, dimostrando contro i primi le operazioni ragionevoli con la fede nella natura umana. – Se, dunque, voglio sapere cosa si debba intendere strettamente per natura di Dio, devo prima di tutto cercare di accertare quali siano le operazioni proprie di Dio, quelle che gli appartengono essenzialmente e che possono essere appropriate solo a Lui. Non è l’operazione creatrice, in quanto trae il mondo dal nulla: infatti, oltre al fatto che la creazione è un fatto contingente e libero, uno spirito veramente puro e sovranamente indipendente da tutte le cose deve avere un’operazione propria, di cui l’oggetto e il termine siano in se stesso (Se consideriamo l’operazione creatrice così come è in Dio, essa non si distingue dell’atto caratteristico di Dio; poiché non è altro che il suo atto infinitamente perfetto di conoscere e amare). – Né è la semplice conoscenza delle infinite perfezioni di Dio, né l’amore della sua nota bellezza: perché sia la ragione che la fede insegnano che l’uomo possa arrivare con le sue luci naturali ad una certa conoscenza del vero Dio, nostro Creatore e Signore (Conc. Vatic. Cost. de Fid. Cath. De Revelat., c. 1); e, se lo può conoscere, come potrebbe essere impossibile l’amore? Ma vedere Dio faccia a faccia e contemplarlo così com’è in se stesso nella profondità della sua essenza, amarlo con un amore che corrisponde a questa intima conoscenza, è ciò che supera non solo i poteri naturali dell’uomo, ma la potenza nativa di ogni creatura, per quanto perfetta possa essere, e per quanta altezza possa aver raggiunto nel suo sviluppo intellettuale. Questa, dico, è la corretta operazione di Dio. – Deum nemo vidit unquam, dice la Sacra Scrittura (I Joan. I, 18). Essendo immortale per natura, Egli è anche invisibile (I Tim. I, 17). « Ora – dice San Paolo – vediamo Dio come in uno specchio, in enigma; ma allora (quando saremo tutti inondati della sua stessa luce) sarà faccia a faccia. Ora conosco Dio solo in parte; allora lo conoscerò come Egli conosce se stesso » (I Cor. XIII, 12). Entriamo nel pensiero dell’Apostolo. Noi vediamo Dio non in se stesso, ma come in uno specchio; e questo specchio è il mondo creato in cui Egli offre ai nostri occhi alcune pallide imitazioni delle sue infinite perfezioni. Lo vediamo negli enigmi: perché, oltre al fatto che abbiamo solo una visione molto imperfetta delle sue immagini, queste immagini rappresentano ancora più imperfettamente la copia di cui esse sono la copia. La conosciamo solo in parte: perché Dio ci rivela nelle sue opere solo le perfezioni che gli sono proprie come causa suprema e quelle che si possono logicamente dedurre da essa (S. Thom. , 1 p., q. 32, a,1); le perfezioni esterne all’essenza, « τά περί τήν οὐσίαν [= ta peri ten ousian], come parlano i Padri. Ma le profondità più intime della divina Presenza e i tesori insondabili dell’essenza divina rimangono nascosti ai nostri occhi, tanto inaccessibile è la luce che vi abita (I Tim. VI, 16), agli occhi di una creatura. – E affinché non siamo tentati di credere che un occhio creato più perspicace del nostro, come l’occhio di un Angelo, di un Arcangelo o di un Serafino possa, con il suo vigore naturale, penetrare questo invisibile, il Figlio di Dio ci dichiara nel suo Vangelo: « Nessuno conosce il Figlio se non il Padre; e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Padre si è degnato rivelarlo » (Matt. XI, 27). E l’Apostolo, a sua volta, parlando di quei misteriosi segreti in cui ci conduce la liberissima condiscendenza del nostro Dio: « Ciò – dice, che non è entrato nel cuore dell’uomo… Dio ce lo ha rivelato attraverso lo Spirito Santo. Perché lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Perché chi tra gli uomini sa cosa ci sia nel cuore dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così ciò che è in Dio nessuno lo conosce se non lo Spirito di Dio » (1 Cor. II, 9-14). Quindi, per avere in virtù delle sue potenze naturali la visione di Dio, come Egli è in se stesso, si dovrebbe essere o lo Spirito di Dio o “Colui che è nel seno del Padre” (Gv. I, 18). E questa conclusione non è solo dalla fede, ma è la ragione stessa che la proclama. Alcuni eretici, gli Anomei, un tempo rivendicavano per ogni creatura ragionevole il privilegio naturalmente incomunicabile di vedere Dio faccia a faccia. Non devo dire come siano arrivati a questo errore: ci basta sapere che i santi Padri, sostenuti dai principi della sana filosofia, hanno confuso questa pretesa con prove luminose come il sole. Ne indicherò solo una, perché è universale e, quindi, si applica ad ogni intelligenza che non sia il Dio increato. S. Tommaso d’Aquino l’ha sviluppata magnificamente nelle sue opere (S. Thom. 1 p., q.12, a, 4 e 1, 2, q.5, a. 5 cum parall.): ma mi piace presentarla nella forma datale dai nostri antichi Dottori. – Chiunque, ci dicono, pensa e concepisce le cose, volente o nolente, se le rappresenta secondo il suo modo di essere (la Scolastica diceva con il Dottore Angelico « l’oggetto conosciuto è nel conoscente secondo il modo di essere del conoscente – Cognitum est in cognoscente secundum modum cognoscentis »). Voi siete uno spirito incarnato; vi è impossibile concepire degli esseri puramente spirituali senza incorporarli in un’immagine sensibile; ed è così che gli Angeli vi appaiono rivestiti di un involucro di attributi materiali che, voi ben sapete, non appartengono loro (S. Gres. Naz; Orat. 28; n, 12, 13. P. Gr. t. 36, p. 41). L’eternità non ha né cangiamento né successione; e tuttavia è una necessità per noi concepirla come una durata successiva in cui si mescolano le idee del passato, del presente e del futuro; non certo ché vi sia qualcosa di simile in Dio, ma perché « è la legge della nostra intelligenza di rappresentare le cose secondo la nostra propria natura, e di misurare l’eterno con il passato, il presente e il futuro » (S. Greg. Nyss, L. XII c. Eunoim, P. Gr., 45, p. 1064, col. L. 1, p. 336). Se la vastità di Dio ci appare come una distesa senza limiti che nel suo vasto seno include, racchiude e sorpassa tutte le cose, è perché il nostro modo di presenza è, come quello del corpo, in relazione alla distesa. – Non ditemi che gli spiriti puri sfuggano alla regola, poiché non sono né corporei come noi, né soggetti al tempo come noi, né estesi come noi. Poiché se essi sono liberi da queste imperfezioni, almeno non sfuggono all’imperfezione radicale che è essenziale per tutte le creature. Essi non raggiungono la perfetta semplicità. La composizione che non li raggiunge nella loro natura, si ritrova in loro per le loro facoltà e per i loro atti. Infatti, in essi, come in ogni essere che non è l’Essere sussistente, l’Essere per essenza, colui che si definisce: Io sono colui che sono, le potenze, la potenza di conoscere, la potenza di amare, sono distinte dalla sostanza, come lo sono anche dalle loro molteplici operazioni. Dio solo è unità perfetta, semplicità senza distinzione né mescolanza, perché solo lui è l’Essere, tutto l’Essere, nient’altro che l’Essere. Perciò, ancora una volta, Dio non può essere l’oggetto proprio, immediato e diretto delle intuizioni di nessuna creatura immaginabile, perché essendo il semplice, l’incomposto, l’immateriale per eccellenza, Egli supera infinitamente il modo di essere essenziale di tutto ciò che non è Lui (S. Cirillo. Alex, Thesaur. Assert. 31. P. Gr. t. 75, p. 451 cum S. Maxim. Capp. theol. Cent. 2, n. 23. P. Gr., vol. 90, p. 1125). Per riassumere tutto in una parola, Dio si riflette nel nostro essere intellettuale, come si riflette nel nostro essere fisico; e poiché la creatura è così prodigiosamente al di sotto di Dio quanto all’essenza, è necessario che l’Essenza di Dio superi infinitamente la conoscenza della creatura (S. J. Damasc., de F. Orth., L. I, c. 4. P. Gr., t. 94, p. 800; col Dyonis. De nativ. Nomin. c. 1, § 4 ecc.) – Così, infine, se non abbiamo dimenticato la nozione che abbiamo dato della natura all’inizio di questa considerazione, non ci sarà difficile capire cosa sia per Dio chiamare gli Angeli e gli uomini alla partecipazione della sua propria natura. Egli scende, per parlare con il linguaggio umano, così impotente ad esprimere questi misteri, scende, dico, in quelle profondità adorabili, dove il Padre, per l’intuizione globale che ha di se stesso, genera il suo Verbo; dove il Padre e il Figlio, in un eterno abbraccio d’amore, producono l’Amore personale che è lo Spirito Santo. Egli cerca, in un certo senso, questi abissi per trovare il modello ed il principio di una nuova e più inestimabile comunicazione della sua bontà. E questa perfetta assimilazione la riversa nella nostra sostanza come la fonte vivente da cui possa scaturire la potenza e l’atto di vederlo e amarlo come Egli è in se stesso. Così l’uomo e l’Angelo diventano figli di adozione, partecipano della natura divina, e sono in grado di aspirare e possedere l’eredità paterna. – Indubbiamente, in Dio la natura, le facoltà e le operazioni sono una stessa perfezione infinita. La distinzione è solo nei concetti formati dall’infermità della creatura. Ma questa stessa infermità richiede che la creatura partecipi alla semplicissima unità di Dio per mezzo di perfezioni distinte: di modo tale che, tra le partecipazioni della divinità, le seconde rispondano all’idea di natura, e le prime alle idee di facoltà e operazioni vitali. Così la grazia santificante è una partecipazione della divinità formalmente considerata come natura, cioè come principio primo degli atti che le sono essenzialmente propri. Tale è nella sua suprema realtà la perfezione costitutiva dei figli di Dio. È uno splendore che si fa in noi di ciò che è di più alto, più intimo, più profondo, più naturalmente incomunicabile nella sostanza divina. Così, chi è in stato di grazia, e quindi figlio di Dio per adozione, è in tal modo esaltato al di sopra di tutta la natura creata, perché nessuna natura creata ha nulla né nella sua sostanza sostanziale né nelle facoltà di cui è soggetto e radice, che possa elevarla alla visione beatifica o renderla degna di essa. (Io non ignoro che diversi teologi spiegano diversamente questa partecipazione della natura divina, anche se questa diversità ha forse meno a che fare con la sostanza delle cose che con il modo di concepirle o esprimerle. Per loro la natura divina è Dio formalmente considerato come Essere in essenza, Essere puro, Essere che è solo essere. E questo, dicono, è ciò che rende la partecipazione della grazia eccellentemente superiore ad ogni partecipazione naturale: per grazia, e solo per grazia, la creatura partecipa all’Essere di Dio. È impossibile per me essere d’accordo con questo punto di vista. O voi parlate dell’Essere di Dio, direi a loro, in quanto è l’Essere, o lo considerate formalmente in quanto Essere per essenza. Nel primo senso, ogni essere, fino al più piccolo granello di sabbia, partecipa all’Essere di Dio; Nel secondo senso, nulla partecipa dell’Essere divino: poiché nulla al di fuori di Dio, né per natura né per grazia, può in qualsiasi grado diventare un essere puro, un essere in cui l’essenza è essere, una cosa infine che è in sé il suo essere: sarebbe Dio. – L’Essere per essenza è un essere impartecipato. Così, partecipare alla natura divina, nella misura in cui è l’essere per essenza, in altre parole, rendere possibile in qualsiasi misura questo modo di essere, sarebbe diventare un essere impartecipato, pur rimanendo per ipotesi un essere partecipante e partecipato. Certamente la grazia è una partecipazione formale della natura divina; ma, poiché esclude il modo di essere essenzialmente incomunicabile sotto il quale questa stessa natura si presenta in Dio, è solo una partecipazione per analogia. Ascoltiamo ancora S. Tommaso: « Quiquid perfectionis est in Deo creatura, totum est exemplatum a divina perfectione; tamen perfectius est in Deo quam in creatura; nec secundum illum modum in creatura esse potest quo in Deo est. Et ideo omne nomen quod designat perfectionem, divinam absolute, non concernendo aliquem modum, communicabile est creaturæ, ut potentia, sapientia, bonitas et hujusmodi. Omne autem nomen, concernens modum quo illa perfectio est in Deo, creaturæ incommunicabile est, ut Summum bonum, esse omnipotentem et hujusmodi. » I, D. 43, q. 1, a. 2, ad 1; coll. c Gent, L. I, c. 30 e 1 p., q. 4 a. 3).
4. – Mi si potrebbe dire che queste sono belle considerazioni, ma che diritto hai di concludere che io, figlio adottivo, porti nel mio cuore questa partecipazione alla natura divina, quando non trovo in essa le operazioni di cui essa debba essere il principio? Posso ora contemplare Dio faccia a faccia o amarlo come gli Angeli in cielo? Non è forse un assioma che la natura di un essere sia rivelata dalle sue azioni? – È vero che non è ancora il momento della contemplazione faccia a faccia e del godimento amoroso che l’accompagna. Ma siamo già figli; e se siamo figli, siamo eredi, non di fatto, ma di diritto. Si filii et hæredes, dice San Paolo. Ora, questo doppio titolo di figlio ed erede rivendica, già ora, il principio immanente e permanente delle operazioni che saranno un giorno la nostra eredità e la nostra gloria, cioè la partecipazione creata della natura divina. Più tardi, dovremo considerare nella stessa grazia santificante il principio necessario dei meriti con cui dobbiamo acquistare ciò che è la nostra speranza. Accontentiamoci a questo punto di riflettere sulla nostra condizione di figli ed eredi. – Figli perfetti, lo saremo solo un giorno. Ma fin d’ora noi siamo figli in formazione, modo geniti infantes; figli portati nel grembo della madre loro, la santa Chiesa (V. supr. L. 1, c. 2). « Filioli, figlioli miei – ci dice essa per bocca di San Paolo – figlioli che io faccio nascere di nuovo finché Cristo sia formato in voi » (Gal. IV, 19). Chi non ha notato quante volte queste parole siano usate da Nostro Signore e dai suoi Apostoli (Marco, X, 24; Giovanni, XIII, 33; Galati, l. c.; Giovanni, II; 1, 12, 18, 28; III, 7, 18; IV, 4; V, 21). Possiamo vedere in questo l’espressione di una tenerezza paterna, ma una tenerezza che si manifesta ai figli che sono ancora piccoli “parvulis” nel Cristo, secondo una formula usata frequentemente nei nostri Libri sacri. – Cosa saremo nella beata eternità? Uomini perfetti « secondo l’età e la pienezza di Cristo » (Efesini IV, 13). Ora, la natura del bambino ancora assopito nel grembo materno o tra le braccia di sua madre non è la stessa dell’uomo al culmine del suo sviluppo, anche se allora ha un esercizio più libero delle sue facoltà, e persino certi organi che gli mancavano nei primi giorni della sua esistenza. Ciò che ora possiede in atto, lo aveva in germe; e la perfezione attuale non è altro che il pieno sviluppo della perfezione originale. Ed è in questo senso che i teologi hanno chiamato la grazia un seme di gloria. Dite, se volete, che il figlio degli uomini deve acquisire una nuova natura, un essere nuovo, per diventare un uomo perfetto, ed io dirò che il figlio di Dio non ha già da questa vita la natura soprannaturale che farà la sua perfezione finale. – Non è solo la storia dell’uomo, ma anche quella degli esseri inferiori che protesta contro una tale scissione. Guardate questo rude bruco che si trasforma in una farfalla che risplende d’oro e d’azzurro; questa larva informe che, a lungo immobile nel suo involucro grezzo, improvvisamente prende vita e vola nell’aria, adornata con la più graziosa eleganza. È un essere di un’altra natura? No: perché, per quanto strana sia la trasfigurazione, l’occhio del naturalista ha scoperto nel bruco o nella ninfa il germe di quegli organi della maternità il cui esercizio sarà l’atto supremo della loro esistenza fugace. Così è per i figli di Dio. – Così è anche per i suoi eredi. Il loro attuale diritto all’eredità presuppone che abbiano già la natura che li rende degni. La visione che attendono, e l’ineffabile godimento che è inseparabile da essa, sono già posseduti da loro nella misura che corrisponde alla loro condizione attuale: la visione nella fede, il godimento nella speranza e nell’amore perfetto della carità. Ed è per questo che Pietro e San Giovanni ci parlano con tanta insistenza del seme di Dio che, dimorando in noi, non può allearsi col peccato (Giovanni, III, 9); un seme incorruttibile, causa e principio della nostra rinascita alla vita divina (1 Pet. I, 23). Questa è un’idea veramente grandiosa che non potremo mai meditare o approfondire abbastanza. Un giorno, quando le ore di prova saranno cessate e saremo finalmente nella casa del Padre, ci sarà un bellissimo spettacolo: Dio in piedi nell’assemblea degli dei « Deus stetit in synagoga deorum » (Sal. LXXXI, 5). Ma grazie a questo seme di Dio, partecipazione creata della natura paterna, che germoglia nelle anime dei figli adottivi, questi dei esistono già, almeno a grandi linee. Se non hanno l’organo della visione immediata che aprirà le profondità di Dio, ne possiedono già l’esigenza e i primi rudimenti, così come il bambino possiede fin dall’inizio la facoltà di vedere e sentire, anche se non è ancora formato o sviluppato (notiamo, di passaggio, che è la stessa cosa partecipare alla natura e partecipare alla vita divina). Infatti, la vita di Dio è conoscersi ed amarsi. Perciò, partecipare alla divinità così come è concepita come principio della sua propria conoscenza è chiaramente partecipare alla vita stessa di Dio).