M. M. PHILIPPON
LA DOTTRINA SPIRITUALE I SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (11)
Prefazione del P. Garrigou-Lagrange
SESTA RISTAMPA
Morcelliana ed. Brescia, 1957.
CAPITOLO QUARTO
LA LODE DI GLORIA
(I)
« Nel cielo dell’anima mia: la gloria dell’Eterno, niente altro che la gloria dell’Eterno ».
1) Il nome nuovo — 2) Una lode di gloria è un’anima di silenzio — 3) La lode di tutti i suoi doni — 4) La vita eterna incominciata — 5) La lode dell’anima crocifissa — 6) L’anima è un cielo che canta Dio – 7) Ufficio di una lode di gloria.
Per un antropomorfismo quasi insuperabile, la maggior parte delle anime considerano tutte le cose e persino Dio in relazione a se stesse, mentre dovrebbero considerare tutte le cose e se stesse dal punto di vista di Dio. Così che la santità sembra, a molti, fine a se stessa; mentre, in realtà, la santità medesima è subordinata a un fine superiore, veramente fine ultimo: la gloria della Trinità. Dio non ha creato l’universo e non ha mandato nel mondo il Figlio suo se non per la propria gloria; se Egli agisse per altri all’infuori di Sé, non sarebbe più Dio. Questa verità, di tutte la più elementare per quelli che hanno il senso della trascendenza divina, non appare dominatrice nella vita dei santi, che più tardi, quando la loro anima è già consumata nell’unità. Divenuti un solo spirito con Dio, i pensieri loro si uniformano alla Sapienza divina, e la loro volontà si umilia ai divini voleri. La Vergine e Cristo, Essi solo, hanno realizzato a perfezione fino dal primo istante della loro esistenza, questo programma della glorificazione divina, che è il termine in cui ogni santità raggiunge sulla terra la sua pienezza. Vi è, infatti, un duplice movimento nel nostro amore per Dio: Lo amiamo per noi stessi, e lo amiamo per Lui. Amare Dio per noi è cosa legittima: è cercare in Lui il termine che appaghi tutte le nostre Potenze; in questo senso Cantava il Salmista: « Grande bene è per me lo stare unito a Dio » (Salmo LXXII-28.), e suor Elisabetta non cessava di ripetere: « Ho trovato il mio cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia. È sempre il medesimo Dio posseduto da noi nella fede, dai beati nella visione » (Lettera alla signora De S.. – 1902). Sant’Agostino parla di un’altra maniera di amare Dio e di raggiungere l’unione divina: « Vivere di Dio per Dio ». – E san Tommaso: « Non vivere per sé, ma per Dio » (San Tommaso, IT-IT, q. 17, a. 6, ad 3. Charitas facit tendere in Deum, uniendo affectum hominis Deo: ut scilicet homo non sibi vivat, sed Deo.). Questo è il vertice dell’amore e la più alta definizione della vita spirituale: non purissimo amore disinteressato, che escluda il desiderio della beatitudine cosi atto a santificarci; ma amore che si rivolge innanzi tutto a Dio, come di dovere. In ogni cosa e soprattutto in amore, « Dio abbia il primo posto ». – I santi non si sono profondamente compenetrati di questa verità così evidente se non quando le pene e le croci della vita li hanno completamente liberati dal loro io; comincia allora in essi quella vita deiforme che li riveste dei « divinis moribus ». La loro fede luminosa e incrollabile fa loro vedere tutte le cose nella luce del Verbo; la Speranza li stabilisce in anticipo nel possesso inalienabile delle ricchezze trinitarie; il loro amore sembra identificarsi a quel riposo beatificante ove Dio trova in se stesso compiacenze ineffabili; la giustizia loro è una volontà invincibile di dare onore e gloria a Dio ovunque e sempre; la prudenza discopre loro la Provvidenza sovrana che dirige e governa l’universo, regolandone anche i minimi particolari; la loro forza, trionfatrice e dominatrice di tutte le umane agitazioni, li avvicina all’immutabilità di Dio. Sono puri; di quella purezza inaccessibile che isola l’Essenza divina da ogni contatto col creato. Questa bella, luminosa sera della vita dei santi è come una visione anticipata e pacifica della eternità. L’anima, nello stato deiforme, la vive nella unità della Trinità. È la fase Suprema dell’unione trasformante, abituale nei beati del cielo, ma non raggiunta che da poche, rare anime perfette, qui sulla terra.
1). Qualche cosa di analogo è accaduto nella sera così rapida della vita di suor Elisabetta della Trinità. Per lungo tempo, ella soffrì di sentirsi come impigliata in se stessa, impotente ad uscirne. La liberò Dio stesso con un intervento diretto, dopo averla preparata a questa grazia suprema rivelandole il suo nome nuovo, quel nome che doveva dare alla sua vita spirituale il suo orientamento definitivo. E tale grazia le fu concessa durante il periodo delle licenze. Si era recata a visitare una consorella più anziana (Tutto questo racconto l’ho udito dalla viva voce della suora stessa) nella sua cella; e suor Elisabetta, la discepola, ascoltava. Si scambiavano, con semplicità, le loro idee e a vicenda si incitavano all’amore di Dio, proprio come i cattivi si comunicano le loro trame per compiere il male. Ad un tratto, la consorella dice a suor Elisabetta: — Ho trovato in san Paolo un passo meraviglioso: « Dio ci ha creati per la lode della sua gloria ». L’altra ne fu impressionata e rapita; rientrata nella sua celletta, prese il libro delle Epistole e si mise a cercare il passo che tanto l’aveva colpita, desiderando conoscerlo nel testo latino; ma non lo trovava. Tornò, allora, dalla consorella — Vi prego, volete indicarmi l’epistola e il versetto in cui si trova? L’ho cercato, ma inutilmente. E, raccontandoci l’episodio, la Suora aggiunse: — Poi, non me ne parlo più. Solo Più tardi, quando suor Elisabetta era già in infermeria, mi accorsi che la nostra Madre ed altre suore la chiamavano: « Laudem gloriæ ». lo non avevo dato troppa importanza a questo passo di san Paolo che pure ammiravo; non ho avuto la stessa grazia di suor Elisabetta, che doveva farne il suo « nome nuovo ». Infatti, la grazia divina si servi di questa formula del suo caro san Paolo, per slanciarla verso le più alte cime. Questo incontro era avvenuto nella Primavera o nell’estate del 1905. La grazia lavorò, lentamente dapprima, determinando però un orientamento nuovo nella sua vita interiore; fin dal 1° gennaio 1906, scrive: « Voglio confidarvi una cosa tutta intima: bramo di essere una « lode di gloria ». L’ho trovata in san Paolo questa espressione; e lo Sposo mio mi ha fatto sentire che questa è la mia vocazione fin dall’esilio, nell’attesa di poter intonare il « Sanctus » eterno nella città dei santi. Ma tale vocazione richiede una grande fedeltà, perché, per essere « lode di gloria » bisogna morire a tutto ciò che non è Lui, affine di non vibrare più che al suo tocco divino. E invece, la Povera Elisabetta fa ancora dei torti, talvolta, al suo Signore. Ma, come un tenero Padre, Egli la perdona sempre, la purifica sempre col suo divino sguardo, come san Paolo, cerca « di dimenticare ciò che lascia indietro, per slanciarsi verso quello che le sta dinanzi » (Lettera al Canonico A. – Gennaio 1906.). – D’ora in poi, ogni volta che suor Elisabetta potrà scrivere con intimità ad un sacerdote, gli chiederà che voglia consacrarla, durante il santo Sacrificio, come « ostia di lode », o come « lode di gloria ». Quando, la sera della domenica delle Palme, il suo divino Maestro piombò su di lei come sulla preda, con una crisi fulminea, credette di essere giunta alla fine. E attese la morte, con gioia. – Seguì invece, un lieve miglioramento che la sorprese; e quando il suo Signore le fece comprendere che gli uffici della terra non erano più per lei e che, d’ora innanzi, Egli la voleva tutta Occupata della sola Sua gloria, suor Eli. sabetta prese meglio coscienza del suo nome, quel nome nuovo che sarebbe il suo, ormai, nel tempo e nell’eternità. « Essere una lode di gloria alla Trinità », ecco che cosa le chiede ora il suo Dio, su quel letto di dolore, divenuto « l’altare della sua continua immolazione con Lui» (Lettera al Canonico A… – Luglio 1906.). La sua vita interiore si semplifica: « Lasciarsi crocifiggere per essere lode di gloria », e basta. Ma vi è racchiuso tutto e, per prima cosa, l’oblio di se stessa, intero, assoluto: lo raggiunge, lentamente dapprima, poi con grande rapidità; non mira più che alla lode incessante, sempre ed in tutto: … il resto non le sembra che vanità. Il suo nome stesso di suor Elisabetta della Trinità non basta più ad esprimere interamente il suo programma unico; tanto che, con gl’intimi, non si firma Elisabetta, ma « Laudem Gloriæ ». Suor Elisabetta: significava l’anima celata nella profondità del proprio essere per gioirvi di Dio presente: « Laudem gloriæ » segna un’altra tappa incomparabilmente superiore: la sola Preoccupazione della gloria di Lui. È il canto del cigno di questa vita che si spegne. Dalla sua grande anima d’artista non si sprigioneranno più che armonie divine, sotto i tocchi ineffabili dello Spirito. Non più sforzi violenti per radunare le potenze dell’anima; già le possiede nell’unità, sempre. E senza interruzione sale dall’anima sua il Canticum novum « il cantico del nome nuovo »: la lode di gloria ininterrotta. I pensieri inutili o i desideri vani sono scomparsi; nella sua anima serena e crocifissa, regna l’unità in cui trionfa l’amore. Tutte le corde della sua lira sono tese, pronte a vibrare al minimo soffio dello Spirito: le note gravi del suo doloroso Calvario vi sono unite agli accenti vibranti di giubilo divino che desta nell’anima sua il pregustamento della gioia beatifica, ormai vicina. Tutte si fondono in una armonia che sale a Dio come un inno di gloria che il Verbo si canta in quest’anima tutta trasformata in Lui. Questa sera tanto bella della vita di suor Elisabetta della Trinità è qualche cosa di divino. Il Padre Vallée, rievocando, alla notizia della sua morte, le ultime settimane di quella vita santa, scriverà alla signora Catez che furono ore « straordinariamente belle e divine ». Dio terminava di conformarla a Cristo, sulla croce; compiva quello che era stato il suo unico sogno: essere sempre più simile a Cristo Crocifisso per amore, a « Colui che fu la perfetta lode, di gloria », ed « esprimerlo agli sguardi del Padre » (Ultimo ritiro XIV). « Vivo nel cielo della fede al centro dell’anima mia e procuro di dare gioia al mio Signore, essendo già sulla terra, la « lode della Sua gloria » (Lettera al Canonico A. – Maggio 1906). È questa la parola d’ordine che sempre ritorna spontanea, parlando con gl’intimi. Con la sua Madre Priora, poi, è il tema abituale e il più caro; dopo la malattia soprattutto; l’anima della sua figliola non ha più alcun segreto, per lei; essa è il sacerdote che deve offrire alla Trinità santa la piccola « ostia di lode ». Colloqui e feste intime ve la riconducono invariabilmente. Per la festa di santa Germana, onomastico della Madre sua, e ultimo — lo sa bene — che festeggia sulla terra, suor Elisabetta prega un’amica di rappresentare simbolicamente la Trinità e porre nel quadro tre anime che tengono un’arpa per cantarne la gloria. « Una di queste anime — scrive — dovrebbe essere più bella, perché deve rappresentare la nostra Madre; l’altra, una sorellina dell’anima mia in questo Carmelo; la terza sono io» (Lettera alla signora H.… – 3 giugno 1906.). Su questa immagine, poi, vuole che si scriva: « Deus prædestinavit nos ut essemus laudem gloriæ eïus. Dio ci ha predestinati, perché siamo le lodi della Sua gloria ». Si trattava in fondo, di rappresentare simbolicamente la sua vocazione suprema di lode di gloria. Così, nella sua cameretta dell’infermeria, poté festeggiare per l’ultima volta la sua Madre Priora cosi teneramente, così filialmente amata. « La sera, nella nostra piccola cella, soltanto fra la Madre nostra e le sue due beniamine, si è svolta la semplice festa tutta intima. La mia cara sorellina, che è un vero serafino, vi ricompenserà nella preghiera della gioia che le avete procurata. Aveva preparato, sopra un tavolino, tutta una piccola esposizione: al posto d’onore, il vostro bel quadro con l’immagine della SS. Trinità, per il quale, devo dirvi un grazie vivissimo. Vi era pure la medaglia inviata dalla mamma mia e un piccolo dono di Margherita; inoltre, alcuni lavoretti e dei mazzolini mistici, fra i quali la vostra offerta per una santa Messa era il fiore più bello » (Lettera alla signora H.. – Luglio 1906). – Fra le consorelle, nella confidenza del suo « segreto » di grazia, non si chiamava più che « laudem gloriæ »; e alla lettera d’addio indirizzata alla sorella Margherita, aggiunge come Post-scriptum: « Sarà il mio nome, in cielo » (Estate 1906.). Questo nome nuovo ha un’importanza grandissima per lo psicologo o per il teologo che vuole rendersi conto del grado di sviluppo che la grazia del battesimo ha raggiunto in suor Elisabetta della Trinità. Questo « nome personale », il nome con cui il Pastore divino distingue e chiama ad una ad una le sue pecorelle, ci permette di cogliere il termine della predestinazione di un’anima. Questo nome, ne siamo convinti, à il tratto più caratteristico della missione di suor Elisabetta. – Il grande ostacolo della Carmelitana e di ogni anima contemplativa à il pericolo di vivere di fronte a se stessa invece che vivere di Dio in sé. Ora, la grazia tutta propria di suor Elisabetta della Trinit à, divenuta « Laudem gloriæ », è di raccogliere le anime nell’intimo di se stesse, ma per farle uscire di sé, mediante l’amore e la lode di gloria. Non ci sarebbe dato di conoscere quasi nulla della sua vita spirituale giunta a questa altezza, se la Madre Germana, considerando già suor Elisabetta come una piccola santa, non avesse avuto la provvidenziale ispirazione di chiederle in iscritto il suo segreto. « Quando entrò nel ritiro che doveva essere l’ultimo per lei, dal 15 al 31 agosto, le chiesi di scrivere alcuni pensieri per esprimere come intendeva e considerava la sua vocazione di lode di gloria. La santa malatina comprese, e accettò sorridendo » (Ho saputo questi particolari dalla Madre Germana stessa). Prese allora un quadernetto e, durante le sue lunghe e penose insonnie, dopo le undici e mezzanotte, quando era ormai sicura che la Madre Priora non sarebbe più andata a trovarla, si metteva a scrivere. Riempito il quadernino da cima a fondo, lo consegnò alla sua Priora senza occuparsene più. Quelle pagine che ben chiaramente si sentono dettate dallo Spirito Santo ad un’anima tutta inabissata nel dolore e nella beatitudine, sono un purissimo capolavoro di spiritualità, e pongono suor Elisabetta della Trinità fra i più grandi scrittori mistici. Non si potrebbero davvero spiegare queste elevazioni sublimi, scaturite di primo getto e prive di qualsiasi correzione, senza un vero carisma di composizione che fa ricordare istintivamente la rapidità con cui santa Caterina da Siena, sotto la mozione dello stesso Spirito, dettava ai discepoli che a stento riuscivano starle alla pari, il suo meraviglioso Dialogo. Sono fatti, questi, che sorpassano ogni arte umana ed è impossibile non riconoscervi i tocchi, trascendenti qualsiasi tecnica, dello Spirito di Amore, che è pure arte divina e suprema Bellezza. Se si vuol conoscere il pensiero più profondo di suor Elisabetta della Trinità, bisogna cercarlo nell’ultimo suo ritiro. Esso costituisce, per così dire, la sua piccola « Somma » mistica, la quintessenza della sua dottrina spirituale, nel momento più elevato della sua esperienza mistica. È un vero e proprio trattato dell’unione trasformante, tale quale la concepiva nella linea della sua vocazione di lode di gloria, e quale la viveva, nell’intimo; è tutto un programma di vita da lei lasciato alle « lodi di gloria » che vorranno più tardi seguire le sue tracce nella via di una santità interamente dimentica di sé e tutta orientata verso la gloria purissima della Trinità. Nella sua maniera di concepire l’ufficio di « lode di gloria », si ritrovano le idee fondamentali della sua vita interiore e tutte le grandi linee maestre della sua spiritualità: silenzio, spogliamento assoluto, amore della Trinità e culto del divino volere, conformità sempre più ardente con l’anima di Cristo Crocifisso; ma vi si ritrovano sotto un’altra luce che tutte le modifica: nella pura luce della gloria della Trinità. Tutto un mondo spirituale nuovo se ne sprigiona, come se, ad un tocco di bacchetta magica, apparissero in piena luce dei cari esseri familiari che si sentono vivere intorno, nel buio di una notte oscura. L’anima non sa più nulla, fuorché Cristo, il Crocifisso per amore del quale sogna di morire trasformata; la Trinità della quale vuole essere l’incessante lode di gloria; e la Vergine, questa Madre di grazia, la cui missione è di formare nelle anime l’immagine vivente del Primogenito, il Figlio dell’Eterno, Colui che fu la perfetta lode di gloria del Padre. Sono questi i sentimenti più intimi di suor Elisabetta, nell’istante in cui entra nel raccoglimento dell’ultimo suo ritiro sulla terra, la sera del 15 agosto, supplicando Janua cœli di prepararla alla sua vita dell’eternità. Qui ancora, come sempre, la sua concreta psicologia spiega la sua dottrina.
2) Una Lode di gloria è, prima di tutto, un’anima di silenzio. « Non sapere più nulla »: è il programma di una lode di gloria, spogliata di tutto e di se stessa, libera di vibrare all’unico soffio dello Spirito. Ci troviamo ricongiunti, in tal modo, all’ascesi fondamentale di suor Elisabetta della Trinità. « Nescivi. Non seppi più nulla »: ecco ciò che canta la Sposa dei Sacri Cantici, dopo essere stata introdotta nella cella interiore; e questo, mi sembra, dovrebbe essere il ritornello di una « lode di gloria » in questo primo giorno di ritiro in cui il Maestro la fa penetrare sino in fondo all’abisso insondabile, per insegnarle a compiere quell’ufficio che sarà suo per l’eternità, e nel quale già deve esercitarsi nel tempo, che è l’eternità incominciata. Nescivi: non so più nulla, non voglio più nulla, fuorché « conoscere Lui, essere partecipe dei suoi dolori, essere conforme alla sua morte » (Ultimo ritiro I). « Come è indispensabile, questa bella unità interiore, all’anima che vuol vivere quaggiù la vita dei beati, cioè degli esseri semplici, degli spiriti!.… Possono sopraggiungere, allora, le agitazioni esterne, le interne tempeste; può venire intaccato il suo onore: « Nescivi ». Dio può nascondersi, può sottrarle la sua grazia sensibile: « Nescivi….» (Ultimo ritiro II). L’anima raccolta nelle profondità di se stessa, nel silenzio e nell’unità delle sue potenze, à tutta consacrata alla lode della divina gloria. Suor Elisabetta della Trinità si ricongiunge, quindi, alla dottrina del « nescire, non sapere nulla », che il suo grande maestro spirituale, san Giovanni della Croce, pone come base della propria teologia mistica.