DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (10)

 M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (10)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO TERZO

L’INABITAZIONE DELLA TRINITÀ

(IV)

10) Molteplici sono gli effetti di questa divina presenza nell’anima. Ogni Cristiano battezzato può fruire come vuole delle Persone divine; e a tutto l’universo, ad alta voce, bisognerebbe proclamare che questa intimità dell’anima battezzata col Padre, col Figlio e con lo Spirito è l’essenza stessa della nostra vita spirituale. « Il giorno in cui lo compresi — diceva suor Elisabetta — tutto in me s’illuminò » (Lettera alla signora De S… – 1902.). Il primo effetto di questa presenza della Trinità nell’anima, mediante la grazia, consiste nel renderla capace di gioire di Dio; la sua beatitudine ha inizio sulla terra, poiché, eccetto la visione, già possiede in speranza e mediante l’amore Colui che ne è l’oggetto. E l’Amore infinito tutta l’avvolge e vuole fin d’ora associarla alla propria beatitudine. L’anima esperimenta, così, la Trinità vivente in lei, quella Trinità di cui godrà la visione nel cielo (Lettera a G. de G… – 20 agosto 1903). – « Quando quest’anima ha compreso la sua ricchezza, allora tutte le gioie naturali o soprannaturali che possono venirle dalle creature o anche da Dio, non fanno che invitarla a rientrare in sé, per godere del Bene sostanziale che possiede, e che è Dio stesso; acquista così — dice san Giovanni della Croce — una certa somiglianza con l’Essere divino » (Ultimo ritiro – 11° giorno). Voler enumerare tutti gli effetti della presenza di Dio nell’anima sarebbe come accingersi ad enumerare, fin nei minimi particolari, tutti i benefici suoi, nell’ordine naturale e soprannaturale. – Suor Elisabetta aveva preso l’abitudine di tuffarsi senza posa « nell’intimo suo », dove la fede le rivelava la presenza reale e sostanziale, quantunque invisibile, di Colui che è la sorgente stessa della grazia. « Egli abita in noi per salvarci, per purificarci, per trasformarci in Sé» (Lettera a G. de G… – Febbraio 1905). Al suo Dio presente e vivente in lei, due cose soprattutto chiede: di amarlo fino all’oblìo totale di se stessa, e di essere trasformata in Lui. « Che il regno dell’Amore si stabilisca in pieno nel vostro regno interiore e la forza di questo amore vi porti fino all’oblìo totale di voi stessa… Beata l’anima che è giunta a questo assoluto distacco! » (Lettera alla signora A… – 1906.). « Sì, io credo che il segreto della pace e della gioia consista nel dimenticarsi, nel disoccuparsi di sé. Ma questo non vuol dire non sentire più le proprie miserie fisiche e morali; che anzi, gli stessi santi sono passati attraverso questi stati crocifiggenti; essi però sapevano non fermarvisi, ma, ad ogni istante, si risollevavano dalle loro miserie. E, quando se ne sentivano sopraffatti, non se ne meravigliavano, ben sapendo di « quale argilla siamo formati » (Salmo CII-4.), come canta il Salmista; come lui però soggiungevano: « Con l’aiuto del Signore, sarò senza macchia e mi guarderò dalla mia iniquità» (Salmo XVII-24). « Poiché mi permettete di parlarvi come ad una sorella cara, vi dico che il Signore mi sembra chiedervi un abbandono e una fiducia illimitata in quest’ora dolorosa in cui sentite l’angoscia di vuoti tremendi. Pensate che, intanto, Egli scava nell’anima vostra delle capacità più grandi per riceverlo, capacità in certo modo infinite, come Lui stesso; quindi cercate di mantenervi lieta, almeno con la volontà, sotto la mano che vi crocifigge. Anzi, dirò di più: considerate ogni sofferenza, ogni prova, « come una prova d’amore » che vi manda il buon Dio, direttamente, per unirvi a Sé. Dimenticarvi per ciò che riguarda la vostra salute, non vuol dire rifiutare di curarvi; al contrario, questo è per voi un dovere, ed è la migliore penitenza; ma fatelo con grande abbandono, riconoscente sempre al Signore, qualunque cosa avvenga. E quando il peso del corpo si fa sentire e abbatte lo spirito, non vi scoraggiate, ma andate con fede e amore da Colui che ha detto: « Venite a me, ed io vi solleverò » (San Matteo, XI-28.). – Riguardo all’anima, poi non lasciatevi mai sconfortare dall’esperienza delle nostre miserie, ricordando ciò che dice il grande san Paolo: «Dove ha abbondato il peccato, sovrabbonda la grazia » (Romani V, 20). Io sento che l’anima, quanto più è debole, anzi colpevole, tanto più ha ragione di sperare; e questo atto col quale dimentica se stessa e si getta nelle braccia di Dio, dà a Lui tanta gloria e tanta gioia, più di tutti i ripiegamenti dell’anima sopra di sé e tutti gli esami di coscienza i quali non raggiungono altro scopo che di farla vivere con le proprie infermità; mentre possiede lì, nel centro del suo essere, un Salvatore che la purifica ad ogni istante. Ricordate la bella pagina del Vangelo, in cui Gesù dice al Padre « che ha ricevuto da Lui ogni potere sopra ogni carne, perché a tutti comunichi la vita eterna? » (San Giovanni, XVII-2). Ecco che cosa Egli vuol fare in voi: vuole aiutarvi ad uscire continuamente da voi stessi, vuole che abbandoniate ogni preoccupazione, per ritirarvi in quella solitudine che Egli si è scelta nel vostro cuore; intima, cara solitudine, dove è sempre presente anche quando voi non Lo sentite, dove sempre vi attende e vuole stabilire con voi quell’« admirabile commercium » (Antifona dei Primi Vespri della Circoncisione) che noi cantiamo nella nostra bella liturgia, ineffabile intimità di Sposo a sposa. Le vostre infermità, le vostre colpe, tutto ciò che vi turba, Egli vuole portarvelo via, vuole guarirlo con questo contatto continuo, poiché « è venuto non per giudicare, ma per salvare » (San Giovanni, XII-47). Niente deve impedirvi di andare a Lui; non badate se siete nel fervore o nello scoraggiamento, perché è una triste legge dell’esilio quella di passare così da uno stato all’altro. Ma Lui, oh Lui non cambia mai, e nella sua bontà, è chino sempre su di voi per sollevarvi in alto e stabilirvi in Sé. E se, malgrado tutto, vi sentite oppressa dalla tristezza, desolata e sola, unite la vostra agonia a quella di Gesù nel giardino degli Ulivi, unite la vostra preghiera alla Sua preghiera: « Padre, se è possibile, allontana da me questo calice!…» (San Matteo, XXVI-39.). Vi sembra forse troppo difficile dimenticarvi così? Oh, non vi spaventate! se sapeste come è semplice, invece! Vi confiderò il mio segreto: pensate a questo Dio che abita in voi e di cui voi siete tempio (I Corinti, III-16.). È san Paolo che ce lo dice, e possiamo esserne certi. Allora, a poco a poco, l’anima si abitua a vivere nell’ineffabile Sua compagnia, comprende che porta in sé quasi un piccolo cielo in cui il Dio d’Amore ha stabilito la sua dimora, sente di respirare in un’atmosfera quasi divina, anzi non è più sulla terra che col corpo, ma l’anima abita al di là delle nubi e dei veli in Colui che è l’Immutabile. Non dite che tutto ciò non è per voi, perché siete troppo miserabile; questa, se mai, è una ragione di più per andare a Lui che vi salva; poiché non certo considerando la nostra miseria, ne saremo purificati, ma guardando Colui che è la stessa purezza e santità. San Paolo dice che « Dio ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio Suo » (Romani, VIII-29). Nelle ore più dolorose, pensate che l’Artista divino, per rendere più bella l’opera sua, usa il cesello; e rimanete in pace, sotto il lavoro della Sua mano sapiente. Il grande Apostolo di cui vi parlo, dopo essere stato rapito al terzo cielo, sentiva ancora la propria infermità, e se ne lamentava col suo Signore; ma Questi gli rispose: « Ti basti la mia grazia, perché la virtù si perfeziona tra le infermità » (II Corinti, XII-9.) È consolante per noi, non è vero?… Coraggio, dunque, signora e sorella mia carissima; vi affido, in modo tutto speciale, ad una piccola carmelitana morta a ventiquattro anni in odore di santità; si chiamava Teresa di Gesù Bambino, ed ha promesso, prima di morire, che il suo paradiso l’avrebbe trascorso facendo del bene sulla terra; ed ora la sua grazia è di dilatare le anime, di slanciarle sulle onde dell’amore, della confidenza, dell’abbandono; perché ci ha detto che ha trovato la felicità quando ha cominciato a dimenticare se stessa. Vogliamo invocarla insieme ogni giorno, perché vi ottenga questa scienza dell’oblio di sé, che forma i santi e che dona all’anima tanta pace e tanta gioia? » (Lettera alla signora A… ). In questa lettera, suor Elisabetta ci svela e ci dona il suo segreto più intimo. Per molti anni, l’ultimo ostacolo alla pienezza della santità in lei, fu proprio questa mancanza dell’oblìo totale di sé; e lungamente, nella sua preghiera, si tenne supplichevole dinanzi alla Trinità Santa: « Aiutami a dimenticarmi interamente… ». Venne esaudita, alfine: e, libera ormai, si abbandonò con tutte le sue potenze, al solo esercizio dell’amore. Fu, come abbiamo detto, il segno del trionfo dell’amore e del fiorire pieno della sua vita spirituale: grazia suprema di una spiritualità essenzialmente contemplativa, che attira le anime nel raccoglimento interiore, ma per farle uscire dal proprio io e tenerle occupate soltanto a dar gloria al Signore. L’effetto correlativo di questo dimenticare se stessi è la consumazione nell’unione trasformante, quell’unione in cui, soprattutto al termine della sua vita, suor Elisabetta si fissa con tanto amore. A mano a mano che Dio va compiendo in lei la sua opera di distruzione, si sente come quest’unione trasformante diviene sempre più il suo pensiero familiare, il termine sospirato a cui anela la piccola santa malata, per realizzare la sua brama di « divenire conforme al Crocifisso » e il suo « sogno di gloria ». Ella glorificherà Dio nella misura in cui sarà trasformata in Lui. È lo scopo a cui tende, sempre con lo stesso metodo: tenersi alla divina presenza, lasciarsi purificare e salvare dal contatto continuo con Dio: « Egli è tanto contento di perdonarci, di risollevarci, poi di trasportarci in Sé, nella sua purezza, col suo contatto continuo, coi suoi tocchi divini. Egli ci vuole tanto pure! Sarà Lui stesso la nostra purezza: ma noi dobbiamo lasciarci trasformare, fino alla piena somiglianza con Lui» (Lettera a G. de G… – 20 agosto 1903.). « Egli ha sete di associarci a tutto il Suo Essere, di trasformarci in Lui ».(Alla medesima – 14 settembre 1903). – Mentre componeva l’ultimo ritiro di « Laudem Gloriæ » suor Elisabetta si tuffava e rituffava con delizia nei passi sublimi del « Cantico » e della « Viva fiamma » in cui san Giovanni della Croce descrive quella trasformazione dell’anima nella Trinità che è il culmine della sua teologia mistica; ma, non paga di inebriarsene, si applicava con fedeltà instancabile ad ottenere da Dio questa grazia suprema, « Deus noster ignis consumens » (Ebrei, XII-29.). « Il nostro Dio, scriveva san Paolo, è un fuoco consumante, un fuoco di amore, cioè, che distrugge e trasforma in sé tutto ciò che tocca. Per le anime che, nel loro intimo, sono tutte abbandonate alla sua azione, la morte mistica di cui ci parla san Paolo diviene così semplice, così soave! Esse pensano molto meno all’opera di spogliamento e di distruzione che rimane loro da compiere, che non ad immergersi nella fornace d’amore che arde in esse, e che non è se non lo Spirito Santo, quello stesso Amore che, nella Trinità, è il vincolo di unione fra il Padre e il Suo Verbo. La fede ve le introduce; e là, semplici e quiete, vengono da Lui trasportate nella « tenebra sacra », al di sopra delle cose e dei gusti sensibili, e quindi trasformate nell’immagine divina. Esse vivono, secondo l’espressione di san Giovanni, « in società » con le Tre Persone adorabili; la loro vita è in comune: questa è la vita contemplativa » (« Il paradiso sulla terra, 6° orazione »), « Il grande mezzo per giungere a questa perfezione che il divino Maestro domanda da noi, è ancora e sempre la presenza di Dio, secondo il comando di Dio stesso ad Abramo: « Cammina alla mia presenza e sii perfetto » (Genesi, XVII.1). Senza mai deviare da questa via magnifica della presenza di Dio, anima procede « sola col Solo », sostenuta dalla forza della Sua destra, protetta all’ombra delle Sue ali senza temere le insidie della notte, né la freccia lanciata in pieno giorno, né il male che si insinua nelle tenebre, né gli assalti del dèmone meridiano » (Ultimo ritiro IV). È l’ora dell’unione trasformante; l’anima non aspira più che alla visione beatifica. – « Come il cervo assetato anela le sorgenti dell’acqua viva, così l’anima mia sospira a Te, mio Dio! L’anima mia ha sete del Dio vivo. Quando andrò, e comparirò dinanzi al suo Volto? ». E tuttavia, « come il passero che ha trovato un rifugio, come la tortorella che ha trovato un nido per deporvi i suoi piccoli », così l’anima, giunta a queste cime, ha trovato il suo rifugio, la sua beatitudine, in attesa di passare nella santa Gerusalemme, la « Beata pacis visio »; ha trovato il suo cielo anticipato ove iniziala sua vita di eternità » (Ultimo ritiro XVI). Sa di essere inabitata dalla Trinità Santa, e questo basta alla sua felicità. « Ecco il mistero che canta oggi la mia lira. Come a Zaccheo, il Maestro ha detto a me: «Affrettati a discendere, perché voglio alloggiare in casa tua » (San Luca, XIX-5.). Discendere!… Ma dove?… Nelle profondità della mia anima, dopo essermi separata, alienata da me stessa, dopo essermi spogliata di me stessa; in una parola: senza di me. « Bisogna che io alloggi in casa tua ». È il Maestro che mi esprime questo desiderio, il mio Maestro che vuole abitare in me col Padre e col suo Spirito di amore perché, come si esprime il Discepolo prediletto, io abbia « società » con Essi. «Voi più non siete ospiti o stranieri, ma siete già della casa di Dio » (Efesini, II-19.), dice san Paolo. Ed ecco come io intendo questo « essere della casa di Dio »: vivere in seno alla tranquilla Trinità, nel mio abisso interiore, nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento di cui parla san Giovanni della Croce. – Davide cantava: « Vien meno l’anima mia, entrando negli atrî del Signore » (Salmo LXXXIII2.). Mi sembra che questa debba essere l’attitudine di ogni anima che si ritira nei suoi atri interiori per contemplarvi il suo Dio, per prendervi strettissimo contatto con Lui. Essa vien meno, in una estasi divina, trovandosi dinanzi a questo Amore onnipossente, a questa Maestà infinita che abita in lei. Non è la vita che l’abbandona, ma è lei stessa che, disprezzando questa vita naturale, se ne ritrae, perché sente che non è degna del suo essere così grande, e vuol farla morire, per immergersi nel suo Dio. Come è bella questa creatura così libera, spoglia di sé! È ormai in grado di « disporre ascensioni nel suo cuore, per salire, dalla valle delle lagrime (cioè da tutto quello che è meno di Dio), al luogo che è la sua mèta» (Ibidem, 6), quel luogo spazioso cantato dal Salmista, che è — mi sembra — l’insondabile Trinità: Immensus Pater — Immensus Filius — Immensus Spiritus Sanctus (Simbolo di sant’Atanasio, 9.). Sale, si innalza al di sopra dei sensi, della natura; supera se stessa, supera ogni gioia come ogni dolore, sorpassa tutte le cose, per non riposarsi più fino a che sia penetrata nell’intimo di Colui che ama, e che le darà Egli stesso il riposo dell’immenso abisso. E tutto questo, senza che sia uscita dalla santa fortezza. Il Maestro le ha detto: « Affrettati a discendere ». E ancora senza uscirne, vivrà, a somiglianza della Trinità immutabile, in un eterno presente, adorando Iddio per Se stesso e divenendo, mediante uno sguardo sempre più semplice, più unitivo, « lo splendore della Sua gloria » o, in altre parole, « l’incessante lode di gloria » delle Sue adorabili perfezioni » (Ultimo ritiro XVI).

11). È proprio per farci giungere a questo abisso di gloria, nota san Giovanni della Croce, che Dio ci ha creati a Sua immagine e somiglianza… « Anime create per queste meraviglie e chiamate a vederle realizzate in voi, che cosa fate? « In quali miserevoli nulla perdete il vostro tempo. « Le ambizioni vostre non sono che bassezze; i vostri cosiddetti beni non sono che miserie. Come potete non comprendere che, inseguendo le grandezze della gloria terrena, restate sepolte nella indigenza e nell’ignominia? « Mentre questi tesori incalcolabili vi sono riserbati, voi li ignorate, né altro sapete fare che rendervene indegne » (Cantico spirituale – Strofa XXXIX.). Mossa da un medesimo sentimento di tristezza divina, suor Elisabetta della Trinità, la sera del 2 agosto 1906 — quinto anniversario della sua entrata al Carmelo — ripensando a tutte le grazie attinte da questa ininterrotta presenza di Dio e sprecate da tante anime che, invece, avrebbero potuto viverne come lei, aveva esclamato: « Oh, io vorrei poter dire a tutte le anime quale sorgente di forza, di pace e di gioia troverebbero, se acconsentissero a vivere in questa intimità. Ma non sanno attendere; se Dio non si dona ad esse in maniera sensibile, trascurano la Sua santa presenza; e quando Egli giunge ricco di tutti i suoi doni, non trova nessuno: l’anima è assente, dissipata fra le cose esteriori. Non sanno abitare nelle profondità di se stesse » (Lettera alla mamma – 3 agosto 1906).

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (11)