LO SCUDO DELLA FEDE (211)

LO SCUDO DELLA FEDE (211)

LA VERITÀ CATTOLICA (IX)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. E libr. Sales. 1878

ISTRUZIONE IX

L’uomo

Siamo creati da Dio, che ci ama da padre; e siamo creati, per conoscerlo, amarlo, per adorare insomma il Creatore, il Padre, il Sommo Bene che è Dio, e per essere con Lui beati per sempre in Paradiso. Ecco tutto quello che ci debba più importar di sapere; questo è il principio della vera sapienza. La ragione nostra, contenta di aversi sentito a dire dalla cara parola di Dio che il Signore creò tutte le cose nel mondo, per sua bontà, per avere poi noi sempre con Lui felici, allarga il cuore consolandosi di questa speranza, che poi infine è poi tutta la grande nostra speranza. Ben potrei dirvi qui: o figliuoli, andate là, conservatevi sempre nel cuore questa gran verità di Dio. Non ci resta che attaccarci a Gesù Cristo, Figliuol di Dio, che, come vi ho detto, si è fatto uomo e morì sulla croce, per condurci salvi con Dio. Viviamo secondo la sua santa legge: e in tutto quello che facciamo nella nostra vita diamo gloria a Dio, che vuole usarci tanta misericordia. Ma ahi, che alcuni disgraziati, abbandonato Iddio che è benedetto in eterno, come il demonio, si arrabattono per strascinare anche noi col demonio lontani da Dio! Non par da credersi, ma è pur troppo vero, gli svergognati!… tentano di darci d’intendere, che veniam dalle bestie noi! e ci vorrebbero avvoltolare nel fango con loro. – Oh i tristi! non pensano che ci renderebbero troppo più miserabili delle bestie istesse; perché, almeno le bestie non conoscendo niente, non si trovano disperate alla morte. Ma noi uomini!… senza Dio in vita!… ma noi uomini… senza Dio poi nella morte!… Ah Gesù benedetto, salvate me e questi miei cari figliuoli dalla disperazione di morir senza fede in Voi! Noi sì, noi vogliamo morire nel bacio del vostro amore! E Voi con quella parola che vien dai palpiti del Vostro cuore, fatemi spiegar chiaramente, quanto sia contro la fede, contro la ragione, contro il buon senso, il dir che la terra si sia da se sola trasmutata in piante, che le piante si siano poi mutate in animali, e che gli animali si siano cambiati in uomini. Oh Maria nostra Madre benedetta, ma sentite, che tenterebber di farci!…. Eh vorrebbero strapparci via da Gesù nostro che vuol condurci con Voi al Padre in Cielo, e buttarci giù colle bestie nel fango, e mandarci a perdere in vita bestiale! – E voi, o figliuoli, fissatevi ben in mente ciò che io voglio dimostrarvi, cioè che Dio, creato il mondo, le piante e gli animali, creò noi superiori a tutte le creature in terra ad immagine sua per servirlo in terra, e poi per averci seco beati in Paradiso. Fatemi grazia a ripeterlo (si fan ripetere) vi ho da dimostrare che Dio creato il mondo; le piante, gli animali, creò noi superiori ecc. Intanto ascoltatemi con attenzione, perché qui si tratta d’imparare a difendere le nostre persone contro questi nemici del genere umano, che tentano di farci il più indegno insulto, col confonderci colle bestie, e farci imbestiare con quelle. Io vi ho già spiegato nella istruzione precedente come Dio creata e disposta la terra, per mantenere in essa tutte le creature terrene, creò poi le piante e gli animali. Ma lì per creare l’uomo, per farci intendere come l’uomo è tutt’altra creatura ben diversa dalle altre tutte, e come le altre cose create in terra sono anzi ordinate per l’uomo, prima di crearlo (per parlare umanamente), Dio Stesso sì consigliò col Figliuol suo e coll’Eterno Amore, lo Spirito Santo col dire « Ora che son create tutte queste cose, facciamo l’uomo che comandi a loro; ma facciamolo ad immagine e somiglianza nostra – faciamus hominem ad immaginem et similitudinem mostram, quasidire « egli creato così, ci conoscerà, eseguirà i nostricomandi; e Noi ammetteremo lui servo fedele, agodere della nostra eterna felicità. »Per questo, tutt’altro che confonderci colle bestie,e farci dell’istessa natura, ci creò anzi ad immaginesua per poter Egli amar Noi, come padre; e noi amare Lui, come i figli amano naturalmente i padri loro. Quindi ci collocò in mezzo di questo mondo di cose, da Lui preparate, come un padre colloca i suoi figliuoli in mezzo ai possedimenti suoi che provvide per loro. Volendo poi Egli che noi le governassimo vivendo secondo la sua santa volontà, la quale fu tanto buono di farci conoscere, ci mise in mezzo a questo visibilio di creature terrene e senza ragione; quindi per metterci in relazione a trattare con loro, ci diede il corpo; ma poi ci diede l’anima ragionevole, per innalzarci a trattare con Lui e rendergli onore e gloria, e adorazione in nome ditutto. Onde noi pel corpo camminiamo coi piedi in terra; ma coll’anima siam destinati a comunicare con Dio in cielo. Siamo, è vero, grevi qui col peso del corpo materiale attaccati alla terra; ma coll’anima nostra spirituale voliam oltre le basse cose del mondo, liberi e ragionevoli, come gli Angioli, capaci con essi ad amare il sommo bene Iddio in Cielo. Così tutte noi creature insieme, cominciando dai granelli di polvere (atomi) e salendo su sempre le une sopra le altre, fino a’ più grandi Angioli Serafini in Cielo, formiamo una gran catena, che dal più basso della terra, arriva fino a’ piedi del Trono dell’altissimo Iddio. Su, su, dunque noi di grado in grado, su dal tempo all’eternità sempre a lodare, ad amare la somma bontà di Dio. Ah via da noi la brutta gente, che ci vuol gettar giù a vivere, come le bestie. E per tutta ragione ci dicono che siam simili agli animali. Ben è vero che tutte le creature hanno una certa somiglianza fra di loro; ma restano divisi in ordini diversi nella diversa natura lor propria: si avvicinano, dirò così, tra di loro per somiglianza; ma si allontanano per l’essere lor naturale tutto diverso. Quindi non si mischiano mai, né si confondono da cambiarsi le une nelle altre di specie di diversa classe. E siccome abbiamo detto che tutte le creature formano come una catena; bene appunto, come gli anelli di una catena avvicinandosi gli uni agli altri si legano insieme, ma non sì confondano; così le diverse specie di creature si trovan vicine, si aiutano, si sostengono le une colle altre, sempre distinte e diverse fra loro: sicché sassi e terra la materia morta insomma non diventano mai piante: né le piante non si cambian in bestie: e tanto più poi le bestie non si trasmutano in uomini. – Ora vi spiegherò, come una classe di creature può essere simile, ma resta sempre diversa dalle creature di altra classe. Vedete difatti che le piante sono vicine alla terra, anzi vi penetran dentro, e paiono talvolta simili alla terra; ma non son terra morta, no; perché le piante sono vivaci, e germogliano altre simili piante: così gli animali hanno delle somiglianze colle piante, poiché han dentro di loro tanti fili, fibre, costole, e vene come quelle; ma non son piante, no; perché gli animali senton di vivere, vanno da loro in cerca, coll’inclinazione, che si sentono dentro, (istinto), di tutto quello che li può soddisfare. Quindi pure noi uomini abbiamo un corpo animato, come hanno gli animali; ma siam ben al tutto diversi e da loro lontani, perché abbiamo la forza della ragione da dominar sopra di loro. Sicché al considerarci tanto superiori a quelli, noi siamo obbligati ad esclamare « Oh! Signore, quanto è ammirabile la vostra bontà con noi! – Domine quam admirabile est Nomen tuum: Voi avete assoggettate  a’ nostri piedi tutte le creature della terra, e poco men che gli Angioli ci avete innalzati verso il Cielo; minuisti paulo minus ab Angelis (Psal. VIII.). Eh noi, collocati in tanto onore da Dio, vorremmo noi lasciarci mettere insieme colle bestie brutte senza ragione? Homo cum in honore comparatus est iumentis ‘insipientibus? (Sal.) Figliuoli di bestie voi, che m’intendete per bene, spiegherò meglio e metterò sott’occhio come le creature di specie diverse e di ordini superiori possono aver somiglianza fra loro; benché sieno di tutt’altra natura. Voi forse avrete veduto come d’inverno l’umidità e i vapori gelati hanno sui vetri delle finestre la somiglianza di tanti rami, e saprete come dentro le montagne, dove si scavano i metalli, il rame, l’argento, l’oro si trovano dispersi in mezzo del sasso in forma di ramificazioni, che somigliano le piante: ma anche voi sapete però che quei giri giri di gelo sui vetri, che quei rami di metallo sparsi nelle viscere dei monti non sono né rami, né piante; poiché non hanno dentro quella forza di crescere, di vegetare, di far sementi, di germogliare altre piante simili a loro. Hanno un bel somigliare alle piante; ma sono cosa morta e non mai pianto vivaci. Ascoltate ancora: le piante hanno filamenti sottili di dentro che sembrano nervi, hanno delle vene come i corpi degli animali: e vi sono delle piante che hanno costoline e fili così sottili, che, appena toccate, restano scomposte e piegano giù le foglie, (come fa l’erba sensitiva, che si chiama sensitiva appunto, perché par che senta; benché non senta in modo alcuno) Ma perché non vi è dentro quella forza di vita animale, per cui gli animali hanno l’istinto di conservarsi, e vanno a cercare ciò che sentono che fa bene a loro, si ritirano da ciò che fa male, così mostrano di sentirsi di vivere: le piante con tutte le lor fibre e vene saran sempre piante; e non animali mai. Finalmente possono gli animali imitar le operazioni degli uomini. Lo stordo e il pappagallo possono articolare parole, altri animali fan versi e moine che somigliano agli atti degli uomini; ma perché non hanno la forza della ragione, saranno sempre bestie. Questa forza poi di germogliare nelle piante non può venire in loro dalla terra; perché la terra non l’ha; ma viene dalla parola di Dio Che le creò: questa forza degli animali di sentire ciò che vedono, toccano, fiutano, assaggiano, e di muoversi al piacer loro, non può venir dalla terra e dalle piante; perché esse non l’hanno; ma viene da Dio che li creò tali. Così questa forza della ragione per cui noi siam creati sopra gli animali e li dominiamo è una comunicazione di un Lume che viene da Dio. Sì veramente è Dio che diede all’uomo colla sua parola, che creò la potenza di eseguir quello che Egli vuole, e di comandare a tutte le creature. E fu sempre così. Mentre non vi fu mai animal così svelto, così ardito, così forte, da poter neppure tentare di assoggettare il più meschinello di uomo, a prestargli i suoi servigi. Gli uomini sempre maneggiarono le cose create secondo la lor volontà, gli uomini dominarono sempre sugli animali. –  Eppure ci vorrebbero darci d’intendere che discendiam dalle bestie!… Oh! ma voi, mi direte, chi è matto così da poterlo sognare? — Chi?… Vel dico io, per non lasciarvi ingannare. Sono uomini, che si vantano di essere sapienti, e perdono la testa, da parlar come stolti — dicentes se esse sapientes, stulti facti sunt. E siedono fin sulle cattedre delle più grandi scuole (le università), e vendono certi lor strani sogni, come fossero oro colato di prette verità da loro scoperte. E a vederli! e a sentirli! con quel loro gran fare in robone da professori, dettare in nome della scienza, stranezze da far spiritare i nostri più eletti giovani. Buon, che i giovani non sono come i paperi, i quali bevono grosso nel guazzo fangoso delle loro grandi oche. Quindi è vero che i bravi giovani danno la berta a quei venditori di favole; ma è poi anche purtroppo vero che alcuni pochi, e voi li conoscete che sono i più grami, ritornati da quelle scuole, per darsi l’aria di sapere un gran che più che la buona gente, la quale ha più giudizio di loro, pretendendo di far aprire gli occhi agli ignoranti dicono le più brutte, le più matte cose del mondo. Quasi il buon popolo non avesse, per grazia di Dio, tanto di cognizione, da non sapere distinguere gli uomini dalle bestie; si vantano di aver tanto studiato, figuratevi! fino a credersi bestie essi stessi. Per me, mi consolo con voi, benedetti figliuoli, perché venite alla dottrina; poiché fin anco quel povero incredulo di Voltaire, ci dice chiaro, che in fatto di sapere come furono create le cose, e per qual fine siamo creati noi uomini, ne sa più la vecchiarella contadina, che va tutte le feste alla dottrina del Parroco, e ne sanno di più anche i fanciulletti, che cinguettano appena il catechismo. Sì proprio, ne sanno di più di coloro che si vantano di saperlo di propria testa; i quali, se si ascoltassero, ci farebbero disperare coi loro, lasciatemi dire, spropositi da cavallo: come questo che dicono che la terra si mutò in piante; e che le piante si mutarono in animali; e poi gli animali in noi: così da trovarci poi noi uomini belli fatti dalle bestie in noi trasformate! Ebbene ecco adunque quel che insegna la dottrina cristiana: e voi lo intenderete bene; perché va tanto d’accordo colla nostra ragione. La quale ben debba restar soddisfatta nel conoscere come fummo creati noi, consolandosi dal sentirci tanto amati da Dio. Vi ricorderete che nella passata istruzione vi ho già detto, come Dio creò la terra, le piante, gli animali: ed ora per non lasciare darvi d’intendere che dalla terra vennero le piante e che dalle piante gli animali e che da loro poi nascessero gli uomini; vi dirò come è Dio Onnipotente, che creò nelle piante e negli animali la forza di produrre altre piante, altri animali della istessa natura di loro, quando disse colla sua parola: che crescessero e si moltiplicassero; ma ciascuno di essi nella loro propria specie, secondo il proprio genere: in species:… secundum genus suum; cioè secondo lanatura in cui Egli ha creato le diverse classi diloro. Dimodoché dalle piante si producessero altre piante, dagli uccelli nascessero simili uccelli, daipesci simili pesci, da tutti gli altri animali animali di simil natura. E poi già anche voi colla vostra ragione e col vostro buon senso conoscete, come vedete coll’esperienza di tutti i di, che le cipollenon producono mai cavoli, che dai cavoli non nascono serpenti, né dai serpenti nascono colombe, come da tutte bestie nascono sempre bestie della natura di quelle che le generarono. Questo sì è sempre veduto dacché mondo è mondo. Si trovano difatti negli antichi sepolcri (massime nelle montagne d’Egitto, dove si scavarono degli antichi sepolcrico sì grandi che si chiamano necropoli, cioè le città de’ morti) si trovano grani, serpenti, gatti e scimmie. Ebbene? sono proprio gli stessi grani, che ancor seminati da noi danno gli stessi grani, gli stessi serpenti, che strisciano ancor là nelle sabbie abbruciate dell’Africa, sono gli stessi gatti delle nostre cucine e le scimmie colle quattro zampe istesse, che sì arrampicano sugli alberi ai nostri dì. Le quali, si vede, che non si sognarono mal nel lunghi, almeno sei mila anni, di farsi scimmie un po’ migliori. – Ma insomma anche noi, per poco che vogliamo pensarvi, vedendo che le piante e gli animali sono così ben formati, e come dentro di loro son così ben congegnate tutte le parti, che formano i loro organi con cui possono vivere, ben conosciamo che tutto fu disposto da chi li voleva far vivere nel loro modo; cioè furono creati da Dio, che solo poté pensarle colla sua Mente Divina e colla sua Onnipotenza le poté formare. Eh si che dobbiamo esser ben certi, che la terra, per sognarsi un dì di cambiar se stessa in piante, che prima non aveva, bisognava bene che avesse pensato avanti come dovevano essere fatte le piante (figuratevi se la terra poteva pensare!): poi che le piante, per sentirsi la voglia di diventare animali, bisognava, che avessero anch’esse pensato che cosa fossero gli animali, e che avessero potuto crearli animati così, mentre esse animate non erano. Ascoltate ancora: anche gli animali poi per sentir l’ambizione di diventare uomini, sì che dovevano studiar ben la maniera di crearsi dei figliuoli un po’ migliori, e di quella bellezza, che non avevano ancora mai veduto tra quei brutti ceffi, e che inventassero delle anime le quali avessero la ragione, da mettervi dentro: perché già di ragione gli animali non seppero averne mai. Bisognava insomma che la terra, le piante, gli animali avessero una mente capace d’immaginarsi col pensiero creature al tutto nuove, diverse, e che poi avessero la forza onnipotente da poter essi crearle!….. Oh vedete disgrazia di coloro che non vogliono credere in Dio Eterno Creatore di ogni cosa! diventano matti così, da credere che la terra sia essa l’onnipotente creatore; creatori sian le piante, e creatori degli uomini, sian le bestie! non sono pazzi frenetici che hanno perduto il bene della ragione? Noi, che per grazia di Dio siamo ragionevoli ancora, facciamo il più bell’uso della ragione umana col dire insieme con tutto il genere umano « io credo in Dio Creatore del cielo e della terra. » Via adunque tante stranezze mostruose, cui si trovano ridotti ad inventare quei poveri disgraziati che non vorrebbero confessar che Dio creò noi uomini tanto superiori, come v’ho detto finora, a tutti gli animali: poiché ci creò ad immagine sua: come vi spiegherò adesso. – Vi ho già detto come Dio ci ha fatto intendere che ci voleva creare superiori a tutte le creature in terra, da comandare ad esse. Perciò volendoci creare colla ragione ad immagine sua, ci formò un corpo appunto adattato a servire all’anima ragionevole: parlerò del corpo nostro e poi dell’anima. – Anche qui Dio, per adattarsi al modo di pensare di noi, ci fa intendere come volendo creare l’uomo ragionevole gli formò, o quasi per dir così, impastò di sua mano la creta, per formare questo corpo nostro. Dio fece come un ingegnoso architetto. Questi nel costruire un grande edifizio, dispone in esso in bell’ordine tutte le membra di dentro, per servire ai bisogni di chi è destinato ad abitarlo; ma poi il bravo, di fuori in sulla facciata, coi più belli ornamenti esprime tutto il suo pensiero, e fa sì, che al solo contemplar quella, s’intenda e il fine per cui l’edificio è fabbricato, e s’indovinino le membra ben disposte di dentro: improntando così su di essa tutto il suo pensiero, e lasciandovi vedere sopra un lampo del suo genio. Così Iddio formò di terra il corpo umano facendo, che tutte le parti del corpo fossero esattamente adattate a servire ai bisogni dell’anima che pensa, che ragiona, e dispone di tradurre in atto i suoi pensieri, diversa in tutto dall’anima sensitiva degli animali. Egli lasciò in tutto in tutto quello l’impronta della sua sapienza, ma nel volto come una figura dell’Immagine sua, però la fece trasparire più viva. Contemplate di fatto come ebbe formato il corpo; in modo di stare sulla pianta de’ piedi fermo e sicuro, colla vita dritta che posa sui larghi fianchi con dignità; colle braccia snelle e le mani pronte ad eseguire i più industriosi e delicati lavori; con quella bella testa che posa con grazia sulle spalle in aria di comandare, e la gira con scioltezza a tutto d’intorno in ogni a lì per dire, che egli ha da tener d’occhio i suoi interessi per tutta la terra, e poi fare eseguire i suoi comandi a tutte le creature. Ci ha fatto poi il petto più largo in proporzione, perché il cuore dovea palpitar più forte, quanto sarebbero più vivi gli affetti dell’anima, capace di amar senza fine. Ma sul volto poi vuol che si esprima tutto che vi è dentro nell’uomo. Nel volto quegli occhi che girano inquieti sopra tutte le creature; ma per essi l’anima uscirà fuori ben sovente, come a cercare nel cielo il ben che non trova sopra la terra. Sul volto poi i più teneri sentimenti di lei ed i gravi pensieri ed i dolori di lei che non ha consolazione qui e la maestà di re della terra: mentre in quel sorriso di pudica bellezza si esprime l’anima innocente che ride in terra, come un angelo in cielo. Insomma nel volto traluce un raggio della bellezza di Dio, perché Dio v’infuse dentro ad abitarvi un’anima immagine di sé medesimo, poiché è ragionevole. Formatolo così, quando poi l’ebbe vivificato poté pigliarlo per mano, farlo sorgere in piedi, e dirgli: « piglia possesso e signoria di questo mondo che io assoggetto al tuo dominio.» – Ora vi ho da cercar di spiegarvi come l’anima è immagine di Dio e ragionevole. Dio bontà infinita voleva avere delle creature in terra, come vi ho già spiegato, le quali lo conoscessero e lo amassero; per potere amarle anch’Esso coll’amore di padre. Ora vedete ben voi come i padri amano nei figli l’immagine propria, e come sono capaci di far tutto il bene per loro, care immagini di sé medesimi; ebbene, Dio appunto creò noi uomini proprio ad immagine sua, per amarci, come il padre ama i suoi figliuoli. Fa Iddio di noi come tanti ritratti di Sé, piccole immagini, e come in miniatura; ma veri ritratti, che al possibile in qualche modo gli somigliamo. Ora vi spiegherò alla meglio come siamo creati somiglianti a Dio. Come nella piccolissima pupilla dell’occhio umano si vedono in piccolo tutte le cose dell’orizzonte, e fino una parte del cielo di sopra; così nell’anima, quale è creata da Dio si vede un’immagine proprio sua, e fino una somiglianza degli attributi di Lui. Difatti Dio è un Lume Eterno che conosce Se Stesso; e noi abbiam le anime, che conoscono anch’esse. Creandole par dica Iddio « creature mie, voi mi conoscete colla ragione in qualche modo, almen che Io sono: ebbene, cercatemi, che Io mi vi lascerò trovare; diliges Dominum ex tota mente tua » Dio è una Volontà benevolissima, é tutto amore eterno: ebbene Dio ci ha creati capaci d’amare, e par che ci dica « amatemi, che io vi amerò ». Dio fa tutto colla sua santa volontà, a sua libera elezione; ebbene Dio nel crearci, affinché gli diamo la prova di amarlo di buona volontà, ci mise in mezzo a queste cose create, che domandano anch’esse di essere da noi amate; onde noi dicessimo alle creature « tacete, tacete perché noi più che voi, vogliamo amare Iddio, l’amiam più di tutto, più di noi stessi; poiché Egli è il Sommo Bene diliges ex toto corde tuo ». Dio è somma Giustizia, e ci dice« siate giusti; perché, se non siete giusti, non possoamarvi: » e noi per essere giusti, dobbiamo amare più Dio, che lo merita più che tutte le creature.Ma io voglio dirvi qui ciò, che veramente deve farci tremare il cuore della tenerezza più viva. Voi lo sapete che Dio è così grande nella sua Divina Bontà da amarci tanto, fino a farsi uomo e morire per noi. Ebbene anche in questo ha voluto che l’anima nostra gli rendesse immagine della sua bontà. Poiché quando colla grazia sua divina conosciam Dio che merita d’essere stimato, d’essere amato infinitamente, più di noi medesimi: pere ssere giusti verso di Lui, lo vogliamo amare ditanto amore, da voler morire e dare la vita per provache l’amiam più di noi medesimi!…. Ora potremo capire un poco come Dio creandoci con tanta bontà così, ci debba dire (lasciatemi parlar così col cuore n mano) « creature del mio amore, care immaginette di Me Medesimo, figliuoli miei, la mia bontà divina non è contenta mai, per vostro riguardo, finché Io non vi avrò a vivere con me beati in Paradiso ». Ma come potrete farlo, o Signore?… E Diorisponde: « V’immergerò nella mia beatitudine infinita, eterna, vi darò tutto Me Stesso, Ego ero merces tua ». Ecco adunque che siam creati ragionevoli, cioè coll’anima capace di conoscere, di amare e di essere beati con Dio: ah maledetta la bestemmia che troppo insulta Dio ed insulta noi creati che siamo come figliuoli di Dio, capaci d’imitarlo nella sua bontà, destinati a vivere eternamente con Dio, maledetta a bestemmia, che ci dice figliuoli di bestie! No: gli uomini non soffrirono mai un insulto peggiordi questo di sentirci a dire figliuoli di bestie. AImeno i pagani, benchè, meschinelli! non adorassero il vero Dio tutt’altro, che far bestia l’uomo, volevano dell’uomo fare un dio; e quando volevano adorare il dio della bellezza dicevano che quel dio era una bella creatura umana: e quando poi volevano figurarlo, non scolpivano l’immagine d’una brutta scimmia, no; ma scolpivano un’immagine di persona umana risplendente di tale bellezza, che per loro pareva divina. Quando poi essi volevano rappresentare il dio re del loro cielo, non scolpivano un gran bestione, no!….; ma si scolpivano nel Giove di Fidia un uomo sfavillante di un lampo di bellezza ancora che pur pareva divina. Adunque anche i poveri pagani credevano anch’essi, o almeno avevano un sentore, che I’uomo creato da Dio rappresentava l’immagine di Dio Stesso. E noi Cristiani abbiam da star lì tranquilli e senza sdegno a sentirci dire, che noi siamo le più grandi bestie? Ah costoro che non vogliono intendere, che noi uomini ragionevoli capaci di essere amati come figliuoli da Dio, costoro sì, che meritano di esser chiamati, come li chiama s. Paolo uomini animali: animalis homo non percipit quæ Dei sunt.Deh! facciamo almeno il viso dell’armi, e vogliodire, ributtiamo da noi questi indegni bestemmiatori; e se li sentiamo abbaiarci appresso tali bestialità, corriamo a coprire le venerate immagini deinostri Santi; affinché non vi mettano su il grugnoquesti uomini imbestiati, ad insudiciarle della loro orrida bava! Deh, che s. Luigi Gonzaga, quell’angelo in carne, com’era, non si senta dire che egliè figliuolo dello schifoso macaco! Deh, che quella grand’anima di s. Carlo Borromeo tutto carità,com’era, immagine della bontà di Dio, non si senta dire che egli è figliuolo di quell’orsaccio di orangotano! Deh che quelle angeli che vergini sante,Agnese, Cecilia, Catterina e Rosa, fiori del Paradiso che spuntarono su questa aiuola della terra innaffiate dal Sangue di Gesù Cristo, non si sentano dire che sono sorelle carnali di quel mostro di scimpanzè,che fa orrore a vederlo! E quelle sante Margherita ed Elisabetta, care madri dei poveri e tutti i santi immagini viventi di Dio, che Egli fece veder sulla terra nella sua misericordia, per guidarci col loro esempio per mano dove ci aspettano in Paradiso, deh deh che non si sentano a dire di Paradiso che esse sono carne d’ossa dei feroci gorilla, che hanno il grugno di jena! Eh noi figliuoli di questi orrendi mostri? ah no! Dio li ha fatti troppo brutti e schifosi e troppo orrendi, per avvisare noi, che noi siamo da loro al tutto diversi, e che le dobbiamo sdegnosamente ributtare lontane da noi come brutte bestie; mentre noi siamo immagini viventi di Dio. Noi, che abbiamo, come figliuola di nostra famiglia, e per madre dell’anime nostre, Maria. Oh Madre benedetta Maria, la più bella immagine del Ss. Iddio in persona umana! Certo che pensava a voi il Creatore Iddio, quando impastava, per dir così, la creta da formare il corpo umano da infondervi poi l’anima ragionevole, e così creare l’uomo ad immagine di Sé Medesimo. – Dio fin d’allora nel principio del tempo contemplava Voi, che sareste nata Immacolata, e si compiaceva di Voi, come dell’opera sua più bella in figliuola dell’uomo. Noi pensiamo che Dio dicesse « questa creatura sarà così santa, e al possibile degna di Voi, o Figliuol mio, sicché Voi la potrete pigliare per Madre e formarvi in quel seno, puro come il Paradiso, il Vostro Corpo e infondervi Anima per opera del Nostro Amore Eterno; e così nascere Uomo e Dio in una sola Persona: come l’uomo in anima ed in corpo forma una persona sola. Ah intendiamo adesso che cosa è l’uomo! è creatura ragionevole, immagine viva di Dio, destinato a mostrar sulla terra una figura, un’immagine insomma, che aiutasse a fare intendere in qualche modo il miracolo più grande della bontà di Dio: e come noi siamo anima e corpo in una sola persona umana, così rappresentassimo Dio fatto Uomo in una sola Persona Divina, Gesù nostro Salvatore benedetto, Dio fatto uomo, per far noi uomini beati in Dio. Viva Dio! che per Gesù suo Figlio siamo immagini non solo di Dio; ma siamo anche figliuoli del Sangue suo Divino.

Pratica.

Amiamo Dio sopra ogni cosa e viviamo come Figliuoli uniti di sangue al Figliuolo Eterno Sostanziale di Dio.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (19)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (19)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO IV.

In che senso il popolo cristiano partecipa al sacerdozio di Gesù Cristo.

L’Apostolo san Pietro, volendo esortare i primi Cristiani a unirsi a Nostro Signore Gesù Cristo per progredir nella santità, richiama i loro titoli di nobiltà : « Voi siete, egli dice, una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo di acquisto, per predicare le perfezioni di Colui che vi ha chiamato dalle tenebre all’ammirabile sua luce; voi che una volta non eravate suo popolo e che siete ora il popolo di Dio » (S. Petr. II, 9-10). Bellissime parole molto atte a farci intendere tutta la dignità del Cristiano. Se il popolo di Israele era detto una volta il popolo eletto per le tante meraviglie che per lui operò il Signore, che dire ora del popolo cristiano che lo stesso Figlio di Dio si acquistò col prezzo del suo sangue? Incorporandoselo col Battesimo, Gesù volle farlo partecipare in un determinato grado anche al regale suo Sacerdozio. Riserba, è vero, il carattere sacerdotale ai soli suoi Sacerdoti, come già sopra spiegammo, ma vuole che anche ogni Cristiano abbia vera parte, sebbene secondaria, ai poteri e agli uffici del Sacerdozio, e che non si contenti di ricevere i doni. divini, ma che concorra attivamente, sempre però subordinatamente, alla celebrazione del santo Sacrificio della Messa, all’amministrazione di certi sacramenti e all’esercizio dell’apostolato; il che lo obbliga ad essere egli pure nello stesso tempo ostia e sacrificatore. Ecco ciò che intendiamo ora spiegare, affinché i pii fedeli divengano sempre più collaboratori del sacerdote.

ART. I. — PARTE CHE HA IL CRISTIANO NELLA CELEBRAZIONE DEL SANTO SACRIFICIO DELLA MESSA.

L’asserzione che il semplice Cristiano concorre attivamente anch’esso alla celebrazione del santo sacrificio della Messa è fondata sul dogma della nostra incorporazione a Cristo, che abbiamo già precedentemente esposto. Quando Gesù per mano dei suoi Sacerdoti offre il santo Sacrificio, essendo Capo di un Corpo mistico di cui i Cristiani sono le membra, anche tutti i Cristiani offrono il Sacrificio con Lui. Difatti le membra di un corpo non sono puramente passive; ma, ricevendo dal capo il moto e la vita, reagiscono a loro volta e partecipano attivamente a tutti gli atti del capo; avviene ciò che dice san Paolo « se patisce un membro, tutte le membra patiscono con lui; se Gioisce un membro, tutte le membra gioiscono con lui! » I. Ep. Cor., XII, 26). Specialmente nel santo Sacrificio della Messa, dice sant’Agostino (De civ. Dei, 1. X, 6), i Cristiani, unendosi col loro Capo e tra loro in una stessa preghiera, offrono il corpo e il sangue della vittima divina e con Lei offrono se stessi alla santissima Trinità. Così il Pontefice eterno trae a sé e a sé unisce l’intiera sua Chiesa, con tutti e singoli i suoi membri, e s’immola con Lei in un medesimo olocausto.

1° Ne abbiamo bella prova nelle preghiere e nei riti della Messa  (« Conviene tener presente il carattere speciale della sinassi religiosa nella Chiesa primitiva. A differenza dei moderni che, in chiesa, senza intender nulla, si contentano di unirsi in ispirito al Sacerdote che prega, gli antichi volevano he l’actio (la Messa e la parte precipua della santa Messa, cioè il canone) fosse veramente sociale, collettiva, eminentemente drammatica, così che non soltanto il Vescovo, ma il presbitero, i diaconi, il clero, i cantori, e il popolo, ciascuno avesse la propria parte distinta da rappresentare » (SCHUSTER, Op. cit., Vol. I, p. 7).

a) Se consideriamo le preghiere, vediamo che il celebrante non parla che raramente in proprio nome, ma che si volge a Dio e offe il santo Sacrificio in nome di tutti i fedeli, in nome dell’intero popolo cristiano, di cui è il rappresentante ufficiale. – Che l’offerta del santo Sacrificio sia fatta in nome di tutta la Chiesa, è chiaro specialmente dalle preghiere dell’Offertorio. Elevando il calice il Sacerdote dice; « Ti offriamo, o Signore, il calice salutare, supplicando la tua clemenza che,al cospetto della divina tua Maestà, tu lo riceva in odore di soavità per la salute nostra e per quella di tutto il mondo ». E subito dopo offre associato alla vittima divina l’intero popolo cristiano: « In ispirito di umiltà e con animo contrito, deh! siamo da te accolti, o Signore, e così si faccia oggi il nostro sacrificio al tuo cospetto che piaccia a te, o Signore Iddio ». Il popolo cristiano è dunque anch’esso, sebbene in modo secondario, sacrificatore e vittima. Risulta di qui imperiosa la necessità per ogni Cristiano di conformare la vita alle parole, ossia di avere un cuore veramente contrito e umiliato onde offrire degnamente col sacerdote la materia del Sacrificio. – Viene poi la preghiera alla santissima Trinità, fatta essa pure in nome di tutti, « in memoria dei vari misteri di Nostro Signore, in onore della Vergine Santissima e dei Santi ». Quindi il Sacerdote, baciato l’altare, si volta al popolo e gli dice queste significative parole: « Pregate, o fratelli, affinché il sacrificio mio e vostro sia accettevole presso Dio Padre onnipotente ». A nome di tutti i fedeli in generale e di ciascuno in particolare, l’inserviente risponde: « Riceva il Signore il sacrificio dalle tue mani, a lode e a gloria del nome suo, e a vantaggio pure nostro e di tutta la Chiesa sua santa ». – Nel momento solenne del Prefazio, prima di cominciare il Canone, corre tra il Sacerdote e i fedeli un sublime dialogo, che mostra quale parte attiva prenda il popolo cristiano al Sacrificio. « In alto i cuori », dice il Sacerdote: « lì teniamo sollevati al Signore », rispondono i fedeli. « Rendiamo grazie al Signore Dio nostro », ripiglia il celebrante: « È cosa degna e giusta », risponde il popolo. Allora con volo sublime il Sacerdote penetra i cieli e si associa a Gesù glorioso, mediatore di Religione, e per mezzo di Lui agli Angeli e ai Santi e a tutti i fedeli della terra, e, in nome loro, proclama la santità e la gloria della santissima Trinità e benedice Colui che dall’alto dei cieli sta per discendere sull’altare. Poi il Sacerdote offre anticipatamente la Vittima divina per tutta la Chiesa, pei suoi capi, per tutti i suoi membri, e in particolare per certe persone da lui designate: « Ricordati, o Signore, dei tuoi servi e delle tue serve… e di tutti i circostanti, i quali ti offrono questo sacrificio di lode ». – Disceso Gesù sull’altare nella consacrazione, il Sacerdote lo leva in alto fra le sue mani e tutta l’assemblea si prostra ad adorarlo; quindi, associandosi nuovamente i fedeli, continua a pregare: « Memori, o Signore, noi tuoi servi, ma anche il santo tuo popolo, della passione, risurrezione e ascensione di Cristo Figlio tuo e Signor Nostro, offriamo alla preclara tua Maestà l’ostia pura, l’ostia santa, l’ostia immacolata… Supplici ti preghiamo, o Dio onnipotente, ordina che queste cose (Gesù vittima divina e con Lui il suo Corpo mistico) siano portate per mano del santo Angelo tuo sul tuo sublime altare, nel cospetto della divina tua Maestà, affinché quanti parteciperemo a questo Sacrificio, siamo riempiti di ogni benedizione celeste e « di grazia ». Un venerando autore del secolo XII, sant’Oddone di Cambrai (In exposit, Can., dist. III), così commenta queste parole: « L’ostia dev’essere portata sopra il sublime altare di Dio. Ora che cosa può voler dire questo se non che per mezzo dell’offerta di noi stessi, unita a quella del Verbo, vogliamo essere ricevuti e come assorbiti in Dio? » È chiaro quindi che nella santa Messa il Cristiano non solo offre a Dio la materia del Sacrificio, ma diviene in qualche modo vittima con Gesù Cristo nella perfettissima unità del suo Sacrificio.

b) Se dalle preghiere della Messa passiamo ai riti che le accompagnano, ne vediamo uscir fuori in modo efficacissimo la parte attiva dei fedeli nel santo Sacrificio. L’uso di infondere alcune gocce di acqua nel vino, che deve poi essere cangiato nel sangue di Cristo al momento della consacrazione, fu sempre costante nella Chiesa latina, la quale vede in questo rito il simbolo dell’unione dei fedeli con Cristo sacrificatore. « Quando nel calice l’acqua viene mescolata col vino, dice san Cipriano (Epist. LXII ad Cæcilium, 12-13), tutto il popolo si unisce col Signore. Non si può offrire acqua sola o solo vino; se si offrisse solo vino, significherebbe che il sangue di Cristo comincia ad essere senza di noi; se acqua sola, significherebbe che il popolo comincia ad essere senza Cristo; quando invece l’uno e l’altro si mescolano insieme, allora il Sacramento spirituale e celeste si compie ». I membri di Cristo, che sono i fedeli rappresentati nell’acqua, vengono allora collegati col loro Capo che è Cristo, significato nel vino. Senza questa unione infatti, come spiega bene il P. Giraud (Prétre et hostie, cap. XXIII), il mistero pare incompleto; perché  o Cristo rimane solo, quasi che il capo potesse essere separato dalle membra, oppure la Chiesa è isolata da Cristo; il che sarebbe la sua morte e la sua rovina. Anche altri riti esprimono quest’unità di Cristo e dei suoi fedeli nel Sacrificio della Messa. Quando – dice Bossuet  (Explication de quelques avi difficoultée sur les  prières a de la Messe, L’Eglise s’offre elle-meme)  – il Sacerdote poco prima della consacrazione stende le mani sui sacri doni, lo fa per indicare che offre se stesso e i Cristiani colle oblate che sta per consacrare; come una volta, nell’antica Legge, si poneva la mano sulla vittima per dire che l’offerente si univa con lei e con lei si consacrava a Dio. Risulta chiaro da questo complesso di preghiere e di cerimonie che tutti i fedeli hanno una parte attiva nella celebrazione del santo Sacrificio.

2° Tuttavia vi sono di quelli che vi prendono parte in modo più speciale e che ne colgono quindi frutti più copiosi; e sono coloro che danno al Sacerdote la elemosina perché celebri secondo la loro intenzione. Ad intelligenza di questa pratica, richiamiamo brevemente ciò che si faceva nell’antica Legge e nei primi tempi della Chiesa. Quando un Israelita voleva offrire un sacrificio a Dio, conduceva al sacerdote la vittima, per esempio una pecora; e il sacerdote la immolava e la offriva al Signore a nome del fedele. Qualche cosa di simile avveniva nei primi secoli cristiani; molti fedeli portavano al Sacerdote la materia del Sacrificio, il pane e il vino; era quindi in un certo senso la loro vittima e il loro sacrificio che il Sacerdote offriva onde essi venivano ad averci parte più attiva di coloro che, non avendo portato nulla, si contentavano di assistere alla Messa. Ora, nella presente disciplina ecclesiastica, ciò che tiene il posto dell’offerta fatta dai Cristiani dei primi secoli è l’onorario, o elemosina o stipendio che si voglia dire, che i pii fedeli danno al Sacerdote; ecco perché il Sacerdote, pur dicendo la santa Messa per tutta la Chiesa, la applica in modo speciale secondo l’intenzione di chi dà l’elemosina. Di qui si spiegano le parole del Canone:« Ricordati, o Signore… di coloro che ti offrono questo sacrificio di lode ». – Ci riesce ormai facile l’intendere come il fedele che assiste alla santa Messa o dà l’onorario, non è soltanto un semplice spettatore, ma vi prende parte attiva, verissima, nobilissima, vantaggiosissima, di cui deve ben persuadersi e rendersi ben conto. Egli è in un certo senso sacerdote, perché prende parte alla celebrazione del Sacrificio, e, benché non rivestito del carattere sacerdotale, viene però ad avere alcune delle prerogative sacerdotali. Assistere alla Messa il più spesso possibile, dare la corrispettiva limosina per aver più larga parte ai frutti del Sacrificio, associarsi intimamente al celebrante nell’offerta che fa della vittima divina, comunicarsi frequente e con Gesù offrire se stesso al Padre, tale deve essere la sincera brama di un Cristiano pio e la più grande delle sue consolazioni.

ART. II. — PARTE CHE HA IL CRISTIANO NELL’AMMINISTRAZIONE DI CERTI SACRAMENTI.

Sebbene la parte che gli spetta nell’offerta del sacrificio della Messa sia importantissima, il fedele non può, a rigor di termini, essere detto ministro del Sacrificio, essendo questo titolo riserbato al Sacerdote. Ma ci sono due Sacramenti in cui il semplice fedele è veramente ministro; e sono i sacramenti del Battesimo e del Matrimonio.

a) Infatti ogni fedele può, in caso di necessità, amministrare il battesimo, e, purché segua la forma essenziale prescritta dalla Chiesa, l’atto da lui compiuto avrà tutto il suo valore sacramentale. Verrà rimesso il peccato originale e Dio prenderà possesso dell’anima del battezzato per farsene un tempio prediletto. Non è lecito, è vero, a una persona secolare di amministrare il Battesimo fuori del caso di necessità, perché è ufficio riserbato al Sacerdote e al diacono; ma, se lo amministrasse, ne produrrebbe certamente l’effetto. Or chi non vede qui quanto sia grande il potere anche del semplice fedele, dacché, con poche gocce d’acqua versate sulla fronte di un bambino e con una breve formola, diviene la causa ministeriale di cui Dio si serve per causare la rigenerazione di un’anima, per renderla figlia di Dio, sposa di Cristo, abitazione dello Spirito Santo?

b) Ma se il fedele non è ministro del sacramento del Battesimo se non in casi straordinari, è invece ministro ordinario del sacramento del Matrimonio. È bene richiamare spesso ai Cristiani questa verità, perché molti purtroppo, anche fra le persone colte, hanno su questo punto idee assai confuse. E ciò proviene dal fatto che ignorano come Nostro Signore volle che il sacramento del Matrimonio fosse essenzialmente costituito dal consenso degli sposi e che ne fossero veri ministri le due parti contraenti. La Chiesa, per ottime ragioni, ha stabilito sotto pena di nullità che tale consenso sia dato dinanzi a persone che ne possano ufficialmente attestare l’esistenza, cioè dinanzi al proprio parroco e a due testimoni. Ma, ripetiamolo, i veri ministri del sacramento sono gli sposi stessi; e per mezzo loro, col loro ministero, Dio conferisce la grazia sacramentale che li aiuterà poi ad adempiere cristianamente i doveri del proprio stato. – Chi dunque non vede l’alta dignità del matrimonio, che dev’essere, come dice san Paolo, « onorato in tutto »? (Ep. Ebr., XII, 4). Oggi, che tanto si deplora la decadenza di questo stato di vita, è bene ricordarsi che, se presso certe classi di persone il matrimonio gode poca stima, nel pensiero di Dio rimane sempre cosa sacra, e che è un vero sacramento, e che l’amore scambievole che gli sposi si debbono deve modellarsi sull’amore di Nostro Signore per la sua Chiesa: « L’uomo è capo della donna, come Cristo è capo della Chiesa… Voi, o mariti, amate le vostre spose come Cristo amò la Chiesa e diede se stesso per lei, per santificarla… onde presentarsela gloriosa, santa e immacolata » (Ep. Efes, V, 23-27). Gli sposi quindi si considerino come persone destinate all’eterna felicità del paradiso dove non può entrar nulla di inquinato e di sozzo, come « templi dello Spirito Santo » (I Ep. Cor., VI, 19), e serbino quindi la debita modestia, badando di non offuscare né nell’anima né nel corpo quel limpido oro della purità in cui il Signore vuole ravvisare la sua immagine. Restino insomma sempre degni di quel sacramento di cui sono stati ministri. – Partecipando dunque, in modo limitato ma vero, ad alcuni degli uffici sacerdotali, i Cristiani non debbono dimenticare che è anche obbligo loro di partecipare pure alla santità del sommo Sacerdote e imitarne le virtù, ognuno secondo il proprio stato. Così s’accosteranno ogni dì di più all’ideale proposto da san Pietro: « Voi siete una stirpe eletta, un regale sacerdozio, una nazione santa, per celebrare le perfezioni di Colui che vi vi ha chiamati dalle tenebre all’ammirabile sua luce ».

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (4)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (4)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed.Brescia, 1957.

CAPITOLO PRIMO

ITINERARIO SPIRITUALE

II.

CARMELITANA

1) Il suo ideale di Carmelitana — 2) Grazie sensibili  del postulandato — 39 ) Le purificazioni del noviziato — 4) Vita profonda.

Quando Elisabetta Catez fu accompagnata nella sua celletta di Carmelitana, la si udì mormorare: « La Trinità è qui ». Fino dal primo atto comune, in refettorio, tutte poterono notare la pia fanciulla, appena terminato il suo pasto frugale, congiungere modestamente le mani sotto la mantellina e, chinati gli occhi, entrare in profonda orazione. La suora incaricata del servizio, osservandola, disse fra sé: « È cosa troppo bella perché duri ». Ma s’ingannava. Il Carmelo di Digione possedeva una santa – (Notizie intorno al Carmelo di Digione. È noto come la venerabile Madre Anna di Gesù, compagna e collaboratrice di S. Teresa nell’opera di riforma del Carmelo in Spagna, venne in Francia ove poté fondare il primo monastero, a Parigi, nel sobborgo S. Giacomo, il 18 ottobre 1604. Subito nell’anno seguente, 1605, la stessa Madre Anna di Gesù fondava il Carmelo di Digione, che ebbe la gloria di ricevere i primi voti offerti a Dio secondo la riforma Carmelitana stabilita anche in Francia. Fu animato sempre dallo spirito più integro di S. Teresa, fino all’ora in cui le Carmelitane furono espulse lontane dai loro monasteri, durante la grande rivoluzione. Restaurato nel 1854 dalla Rev.ma Madre Maria della Trinità, il Carmelo di Digione riprese con lei lo spirito e le tradizioni dell’Ordine carmelitano in Francia, le quali furono fedelmente mantenute dalle due Madri che seguirono: la Rev.da Madre Maria del Cuore di Gesù, e la Rev.da Madre Maria di Gesù, la futura fondatrice del Carmelo di Paray-leMonial. La Madre Germana di Gesù che le succedette, restò priora dal 1901 al 1906, cioè durante tutto il soggiorno di Elisabetta della Trinità; quindi, per vent’anni, a intervalli regolari, il Carmelo di Digione ebbe la grazia di averla ancora come Superiora. La Madre Germana di Gesù fu una grande figura di Carmelitana. Anima di pace e di orazione, di un iene zelo per l’esatta osservanza, ella fu veramente la priora provvidenziale che doveva offrire a suor Elisabetta della Trinità il piano di vita regolare in cui l’anima sua di contemplativa avrebbe potuto liberamente fiorire, in un’atmosfera di silenzio e di raccoglimento. E, con tutta verità, la serva di Dio, ben consapevole e piena di riconoscenza per quella influenza materna, poteva scrivere in un biglietto intimo trovato dopo la sua morte (e che portava sulla busta questa significativa parola: « Segreto per la nostra Rev.da Madre »): « Io porto la Vostra impronta ». – Fino alla sua prima allocuzione in capitolo, presente tutta la Comunità — e anche suor Elisabetta — la nuova Madre priora così tracciava il programma spirituale del suo governo: « Custodire con ogni perfezione possibile, nello spirito tutto apostolico della nostra santa Madre, questa regola e queste Costituzioni che ella ci ha trasmesse dopo averle osservate con sì grande perfezione ». Tale fu la cornice di perfetta vita religiosa in cui suor Elisabetta poté realizzare tanto rapidamente il suo ideale di Carmelitana.).

1) Il formulario che suor Elisabetta della Trinità riempì, in forma ricreativa, otto giorni dopo la sua entrata al Carmelo, ci rivela il suo stato d’animo alle soglie della vita religiosa. I tratti più caratteristici della sua fisonomia spirituale vi appaiono già nettamente segnati: il suo ideale di santità: vivere d’amore per morire di amore — il suo culto appassionato per la divina volontà — la sua predilezione per il silenzio — la sua devozione all’anima di Cristo — la parola d’ordine della sua vita interiore: seppellirsi nel più profondo dell’anima per trovarvi Dio. Nulla è dimenticato, neppure il suo difetto dominante: la sensibilità. Vi manca soltanto quel lavoro di spogliamento che sarà opera delle purificazioni passive del noviziato, e la grazia suprema che trasformerà la sua vita, dandole il senso della sua vocazione definitiva: essere una lode di gloria alla Trinità.

— Qual è, a vostro parere, l’ideale della santità?

— Vivere d’amore.

— Qual è il mezzo più rapido per giungervi?

— Farsi piccolissima e darsi totalmente, per sempre.

Qual è il santo a voi più caro?

— ll discepolo prediletto che riposò sul cuore del divino Maestro.

— Quale il punto della Regola che preferite?

— Il silenzio.

— Qual è la nota dominante del vostro carattere?

La sensibilità.

— E la vostra virtù prediletta?

— La purità. «Beati i cuori puri, perché vedranno Dio ».

— ll difetto che vi ispira più orrore?

— L’egoismo.

— Date una definizione dell’orazione.

— L’unione di chi non è con Colui che è.

— Qual è il vostro libro preferito?

— L’anima di Cristo: Essa mi svela tutti i segreti del Padre che è nei Cieli.

— Avete grandi desideri del Cielo?

— Ne ho talvolta la nostalgia; ma, tranne la visione di Dio, già lo possiedo nell’intimo dell’anima mia.

— Quali disposizioni vorreste avere nel momento della morte?

— Vorrei morire amando, e cadere così nelle braccia

di Colui che amo.

— C’è un genere di martirio che preferireste?

— Mi piacciono tutti, ma specialmente il martirio di amore.

— Quale nome vorreste avere in Cielo?

— Volontà di Dio.

— Qual è il vostro motto?

– Dio in me e io in Lui.

Secondo la sua grazia personale, ella vive in profondità il suo ideale di Carmelitana. Va dritta all’essenziale: la solitudine, la vita di continua orazione, la consumazione nell’amore. – « La Carmelitana è un’anima che ha guardato il Crocifisso, che l’ha veduto offrirsi come vittima al Padre per le anime, e, raccogliendosi sotto la grande visione della carità di Cristo, ha compreso la passione d’amore dell’anima di Lui e, come Lui, vuole donare se stessa. Sulla montagna del Carmelo, nel silenzio, nella solitudine, in un’orazione non interrotta mai, perché continuata attraverso tutte le occupazioni, la Carmelitana vive già come vivrà in Cielo, « di Dio solo ». Colui che formerà un giorno la sua beatitudine e la sazierà nella gloria, già si dona a lei; non si allontana mai, dimora nell’anima sua; anzi, ancora di più: tutti e due non sono che Uno. Perciò, essa è famelica di silenzio, per ascoltarlo sempre, per penetrare sempre di più nell’Essere Suo, infinito. È immedesimata in Colui che ama e da per tutto Lo trova, in tutto Lo vede risplendere » (Lettera a G. de G… – 7 agosto 1902.). « Questa è la vita al Carmelo: vivere in Lui. Allora, le rinunce, le immolazioni diventano, in certo modo divine. L’anima vede in tutto Colui che ama e tutto la porta a Lui. È un cuore a cuore continuo. L’orazione è l’essenza della vita al Carmelo » (Lettera a G. de G… – 14 settembre 1902.). – Il punto della Regola che preferisce è il silenzio; e, fino dai primi giorni, è entusiasta della massima familiare alle antiche Madri Carmelitane: Sola col Solo.

2) Come per lo più accade, le prime fasi della vita religiosa di suor Elisabetta della Trinità furono caratterizzate da un’onda di consolazioni sensibili. Il Signore avvia lentamente le anime verso le cime. Le conduce al Calvario attraverso il Tabor. Suor Elisabetta, spesso, se ne andava alla sua superiora a dirle: « Madre, non posso reggere a questo peso immenso di grazie ». Appena giunta in coro e inginocchiatasi, sì sentiva compenetrata da un raccoglimento profondo, irresistibile. L’anima sua pareva come immobilizzata in Dio. – Passava nei chiostri, silenziosa e raccolta, senza che nulla potesse distrarla dal suo Cristo. Lo trovava dovunque. Un giorno, mentre attendeva a riordinare la casa, una suora la vide talmente compresa della presenza di Dio, che non osò avvicinarsele. Fuorché nelle ore di ricreazione — in cui suor Elisabetta si mostrava gaia e spontanea, d’una grazia incantevole, parlando con ciascuna delle consorelle di ciò che sapeva far loro piacere — tutto il suo esteriore rivelava un’anima posseduta da Dio. Questo raccoglimento di tutte le sue potenze quasi assorbite in Dio le faceva commettere, anche nella recita dell’Ufficio, delle dimenticanze involontarie di cui si accusava con sincera umiltà. La grazia la portava. – Così trascorsero i mesi del postulandato. L’8 dicembre ebbe luogo la cerimonia della vestizione, presenziata dal Padre Vallée. Tutta presa dalla gioia del dono totale al suo Signore, suor Elisabetta, quel giorno, non si accorse nemmeno di quanto accadeva intorno a lei, interamente, posseduta da Colui che l’aveva rapita. La sera, quando si ritrovò nella sua celletta sola col suo Cristo, era esultante, e dal cuore le saliva a Dio il cantico della riconoscenza. Per tutta una vita d’amore, essa era finalmente « Sola col Solo ».

3) Fino a quell’ora, la grazia divina l’aveva portata. Ma le mancava di assaporare a lungo il suo nulla, di sentirsi miserabile e capace di ogni male, e divenire così, attraverso tale esperienza, più comprensiva della fragilità delle sue consorelle. E il Signore, per un lungo anno, l’abbandonerà a se impotenze, ai suoi scoramenti, ai dubbi sull’avvenire, persino sulla sua vocazione. Sarà necessario che, la vigilia della sua professione, un Sacerdote venga a rassicurarla, e a manifestare la volontà di Dio alla sua anima smarrita. Disparve la soave facilità dell’orazione. Non più colpi d’ala; l’anima si trascinava penosamente; ed essa lo sentiva. La sua natura d’artista rimaneva inerte, la sua sensibilità moriva. Quante volte la povera novizia se ne ritornava dalla sua Madre maestra esponendole candidamente le impotenze, le lotte, le tentazioni, il martirio della sua sensibilità che stava attraversando le notti tremende descritte da san Giovanni della Croce! Per coadiuvare il lavoro di Dio, la Madre Germana di Gesù, che si era resa conto dell’eccessiva sensibilità di Elisabetta fin dalla sua entrata al Carmelo, la conduceva con bontà, ma con fermezza. La giovane postulante godeva di passeggiare sulla terrazza, a tarda sera, durante il silenzio rigoroso; la vista del firmamento dava all’anima sua l’impressione del contatto con Dio. Una sera, mentre il monastero era immerso nel più profondo silenzio, passò di là Madre Germana. E la novizia, l’indomani, si sentì rivolgere queste parole: « Non si viene al Carmelo per sognare contemplando le stelle. Andate a Lui con la pura fede ». – In seguito, per provarla, non lasciava passare alcuna occasione di riprenderla anche delle imperfezioni minime, delle più lievi dimenticanze. Suor Elisabetta baciava umilmente la terra, e se ne andava. Sapientemente, la Madre Germana di Gesù disciplinava una tenerezza che avrebbe potuto facilmente divenire pericolosa; e la coraggiosa figliola lasciava fare, perché comprendeva più di ogni altro e per esperienza quanto aveva bisogno di vegliare continuamente sul suo cuore. Quando era ancora giovinetta, si era attaccata, in modo un po’ esagerato, ad un’amica che incontrava quasi tutti i giorni al Carmelo, e con la quale i colloqui intimi si prolungavano. Aveva bisogno di scriverle spesso, di leggere e rileggere le sue lettere, soprattutto le frasi in cui l’amica sua la assicurava che era lei la più cara. – Questo sguardo retrospettivo, a questo punto, sul suo passato di fanciulla, diffonde una luce singolare sulla sua psicologia religiosa. « Sorellina mia – le scriveva – non siamo che una, non ci separiamo mai. Se credi il sabato faremo la santa Comunione l’una per l’altra; sarà il nostro contratto, sarà l’« Uno » per sempre. D’ora innanzi, quando Egli guarderà Margherita, guarderà anche Elisabetta; quando darà all’una, darà anche all’altra, perché non vi sarà più che una sola vittima, una sola anima in due corpi. Forse sono troppo sensibile, Margherita, ma sono stata così felice quando mi hai detto che sono io la tua sorella più cara! Mi fa tanto bene rileggere quelle righe. Quanto a te, lo sai che sei tu la mia sorella diletta fra tutte; c’è bisogno che te lo dica? Quando eri malata, sentivo che nulla, neppure la morte, avrebbe potuto separarci. Oh, io non so quale di noi due il Signore, chiamerà a sé per la prima; ma neppure allora avrà termine la nostra unione, nevvero? anzi, raggiungerà allora la sua consumazione. Come farà bene parlare a Colui che amiamo della sorella che ci avrà preceduto in cielo, vicino a Lui! Chi sa? Forse ci chiederà di versare per Lui il nostro sangue. Che gioia, subire insieme il martirio! Non posso pensarci; sarebbe troppo bello… Intanto, diamogli il sangue del nostro cuore, & goccia a goccia » (Lettera a M. G… – 1901). – Si sente, attraverso a queste righe, un po’ di esaltazione sentimentale; e la testimonianza raccolta dalle labbra stesse di quest’amica ci obbliga a riconoscere in Elisabetta eccessiva tenerezza di cuore. Ma chi potrebbe meravigliarsi di queste debolezze dei santi? Santa Margherita Maria non si lasciò arrestare anch’essa, un istante, da un affetto troppo umano per una delle sue consorelle, affetto che dal cuore purissimo di Gesù le veniva rimproverato? San Tommaso, che fu un grande dottore e un grande santo, insegna che nessuno sulla terra, può interamente sottrarsi alle colpe della fragilità; ne sfuggono persino ai più perfetti. Ci sarebbe da scrivere un bel libro – e quanto consolante per noi – sui difetti dei santi e sul lavoro compiuto da loro, e dalla grazia in loro, per correggersi. Appena Elisabetta Cadez si accorse che il suo cuore era schiavo, gli ridonò tutta la sua libertà, senza violenza, con delizia squisita, ma con fermezza eroica. « Margherita cara, ho qualche cosa da confidarti; ma non vorrei farti soffrire. Sai, questa mattina. mentre ero vicina a te in Cappella, sentivo che ciò era bello, ancor più bello delle nostre care conversazioni; e, se tu acconsenti, trascorreremo così, accanto a Lui, l’una vicina all’altra, il tempo che passavamo in giardino. Ti dò dispiacere con queste mie parole? Dimmi, sorellina mia, non l’hai sentito tu pure come me? Credo di sì. Oh, dimmelo semplicemente! Sai che alla tua Elisabetta puoi dire tutto » (Lettera a M. G.). – «Dopo questo atto di generoso distacco — ci diceva quest’amica intima — l’ho sentita allontanarsi ». Nella fase delle purificazioni passive subìte da suor Elisabetta durante il noviziato, avvenne qualche cosa di analogo, ma di molto più profondo. Tutti i suoi sensi dovettero passare attraverso questo assoluto distacco, il solo che rende liberi. Ma intorno a lei, nessuno mai, fuorché la sua superiora, suppose questa fase di angoscia purificatrice. Tutto quello che sembrava dovesse consolarla, la lasciava indifferente o la turbava. Un ritiro predicato dal Padre Vallée, del quale ella seppe apprezzare come sempre la bella e profonda dottrina, riuscì a liberarla da quest’agonia intima. Il Padre stesso non la capiva più e ripeteva con tristezza: « Che avete fatto della mia Elisabetta? Me la avete cambiata…. ». Ma le creature non c’entravano. Quel mutamento, per lui incomprensibile, dipendeva da Dio. In quel rude anno di prova, suor Elisabetta acquistò una fede più forte e un’esperienza del dolore che la renderà capace di comprendere e di consolare altre anime provate da Dio; divenne più virile; definitivamente stabilita in una vita spirituale tutta basata sulla pura fede, vita che, d’ora innanzi, scorrerà calma sotto lo sguardo di Dio, al sicuro da ogni ridestarsi della sensibilità; questo, il risultato essenziale di tale periodo di purificazione. Insieme al pieno equilibrio morale, anche le forze fisiche ritornarono. Il Capitolo del monastero l’ammise alla professione; e la bella notizia le fu comunicata il giorno di Natale. Come in tutte le circostanze più importanti della sua vita, suor Elisabetta si rifugia nella preghiera onnipotente di Cristo che s’immola sull’Altare; ma questa volta, con una particolare intensità; e tutta una novena di sante Messe implora dal Sacerdote, amico venerato, che era stato il primo confidente delle sue aspirazioni alla vita religiosa quando, piccina ancora, gli saltava sulle ginocchia. Quindi, sotto il suo velo abbassato, suor Elisabetta disparve. La comunità la vedeva passare per i chiostri come un’ombra, col volto sempre velato, e l’avvolgeva nella sua fraterna preghiera. – Ma quel ritiro in preparazione alla professione, cominciato con una prospettiva tanto lieta, divenne ben presto penosissimo, ridestando il problema dell’avvenire e della vocazione. Bisognò ricorrere a un religioso di profonda esperienza, che la rassicurò; e suor Elisabetta credette alla parola del sacerdote come alla voce di Cristo. Al Carmelo, si usa trascorrere la notte che precede la professione in una veglia santa di preparazione. Suor Elisabetta era in coro, tutta raccolta nel suo Dio, tutta protesa nell’offerta a Lui della propria vita, scongiurandolo di prenderla per la Sua gloria. E il Maestro divino le si fece sentire. « La notte che precedette il gran giorno, mentre ero in coro in attesa dello Sposo, compresi che il mio cielo cominciava sulla terra, il cielo nella fede, con la sofferenza e l’immolazione per Colui che amo » (Lettera al Canonico A… – 15 luglio 1903). – Si iniziava una nuova fase di vita spirituale. Sofferenze di una sensibilità non ancor del tutto purificata, scrupoli e angosce per dei nonnulla, tutto questo è ormai passato; d’ora innanzi, ella procederà sulla via del suo Calvario con la confidenza serena e incrollabile di una sposa che si sa tanto amata; avanzerà, tra le sofferenze più eroiche, con la maestà di una regina.

4) L’indomani della sua professione, suor Elisabetta della Trinità si impegnò decisamente nella conquista della perfezione religiosa, senza esaltazione della sensibilità, ma con slancio nuovo, e con la forza calma ed eroica che la condurrà, di sacrificio in sacrificio, fino alla immolazione del Calvario. Tutto il suo programma di vita interiore fu la realizlazione del suo nome: suor Elisabetta, cioè « Casa di Dio. abitata dalla Trinità ». E veramente, questa presenza di Dio a cui l’anima tende attraverso a tutto, è proprio l’essenza della vita carmelitana vissuta nella più costante tradizione dell’Ordine. Nel suo Castello dell’anima santa Teresa vi ritorna continuamente: « L’intimità con le Tre Persone divine » costituisce la verità centrica della sua dottrina mistica. Suor Elisabetta della Trinità, per una grazia speciale, trovò l’attrattiva più spiccata della sua vita interiore. Le sue lettere, le conversazioni in parlatorio, le sue poesie, le risoluzioni dei suoi ritiri, tutto converge in questa divina abitazione nell’intimo; che fu, lo dice ella stessa, « il bel sole irradiante tutta la sua vita… Dal giorno in cui compresi questa verità, tutto fu luminoso per me » (Lettera alla sienora B…1906). «Il mio continuo esercizio è rientrare in me stessa e perdermi in Coloro che vi abitano » (Lettera a G. de G… – Fine del settembre 1903). Man mano che gli anni della sua vita religiosa scorrevano, l’anima sua si seppelliva sempre più nella Trinità pacifica e pacificatrice che, ad ogni istante, le comunicava qualche cosa della sua eterna vita. C’erano ancora talvolta, è vero; in fondo al suo essere, dei leggeri turbamenti; ma tutto in lei si andava acquetando, e taceva. « Come si è felici quando si vive nell’intimità col Signore, quando la vita si trasforma in un cuore a cuore con Lui. in uno scambio di amore, quando si sa trovare il Maestro divino nel profondo dell’anima! Allora non si è mai soli. e si ha bisogno di solitudine per godere della presenza di questo Ospite adorato. Tutto s’illumina e la vita è tanto bella ». ( Lettera a F. de S… – 28 aprile 1903). « Mi chiedete quali sono le mie occupazioni al Carmelo; potrei rispondervi che, per la carmelitana, non ce n’è che una: Amare, pregare »  (Lettera alla signora A… – 29 giugno 1903.). « La vita della carmelitana è una comunione con Dio dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina. Se Egli non riempisse le nostre celle e i nostri chiostri, come sarebbero vuoti! Ma noi Lo vediamo in tutto perché Lo portiamo in noi; e la nostra vita è un paradiso anticipato » (Lettera a F. de S… – 1904). – Il ritmo soave di questa vita spirituale è semplicissimo e si svolge intorno ad alcuni motivi essenziali, sempre gli stessi; custodire il silenzio e credere all’Amore che è lì, nel profondo dell’anima, per salvarla. Vi sono ancora molte notti oscure e molte impotenze; ma che cosa importano le fluttuazioni involontarie di una anima che vive alla presenza dell’Immutabile? A poco a poco, tutto si calma e si divinizza. – Così trascorreva la vita di suor Elisabetta della Trinità. In quel Carmelo fervoroso in cui tante altre anime grandi vivevano di Dio, per la Sua gloria, non immaginiamocela quasi un essere straordinario, segnata a dito come santa. Nei monasteri, per lo più, non si canonizzano le anime se non quando si sono perdute. A Digione, suor Elisabetta della Trinità era semplicemente la novizia sempre fedele che, come tante altre, da vera carmelitana, passava « tutta nascosta, con Cristo, in Dio » (I Coloss. III, 3).

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (18)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (18)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO III.

Maria Santissima e il Sacerdote.

« Dio, dice l’Olier (J. J. Olier, Traité de SS. Ordres, III parte, cap. 6) ha fatto due prodigi nella Chiesa : il Sacerdote e la Vergine santissima ». Il pio autore svolge poi il suo pensiero mostrando l’analogia che corre tra l’ufficio del sacerdote e quello di Maria. È ciò che intendiamo di fare qui anche noi ispirandoci alle sue idee. – Pur non avendo ricevuto il carattere sacerdotale, Maria è:

1° la Madre del Sommo Sacerdote, e quindi Madre in modo speciale di tutti i Sacerdoti;

2° la cooperatrice di Gesù nell’opera sacerdotale della Redenzione;

3° ha in grado eminente lo spirito sacerdotale. Onde noi Sacerdoti dobbiamo avere una divozione speciale a questa divina Madre.

Art. I. — MARIA MADRE DEL SOMMO SACERDOTE.

Richiamiamo la scena dell’Incarnazione. Dio invia l’Angelo Gabriele a Maria, a richiederla del suo consenso al doppio mistero dell’Incarnazione e della Redenzione; perché, rispettandone la libertà, non vuole associarsela in questa grand’opera se prima ella liberamente non vi acconsente. Ora, come già sopra dicemmo, il Verbo diviene Sacerdote nel momento stesso che s’incarna nel seno di Maria: l’incarnazione stessa è, a così dire, la consacrazione sacerdotale di Gesù. Illustrata da lume divino, Maria lo conosce: sa che il Figlio di Dio non può adempiere la sua missione di Salvatore se non facendo l’ufficio di Sacerdote e di vittima per tutto il genere umano. Pronunziando quindi il suo fiat, acconsente liberamente a divenir Madre di Colui che, Sacerdote e vittima, offrirà per la nostra redenzione il solo sacrificio degno di Dio. Nel momento stesso che Maria lo concepisce, Gesù è rivestito del Sacerdozio: Ella quindi diventa Madre di Gesù in quanto Sommo Sacerdote. È Lei che gli dà quel corpo e quel sangue, senza di cui non potrebbe essere Sacerdote e vittima; ed è così associata al suo Sacerdozio.

b) Maria, dunque, non è paga di dare il suo consenso, dà pure parte della sua sostanza per formare l’umanità santa del Salvatore, passa qualche cosa di Lei in Colui che sarà insieme Sacerdote e vittima. Risulta quindi formato della sostanza di Maria quel corpo che sarà un dì immolato sul Calvario, quel sangue che sarà versato per noi, quel Sacrificatore che offrirà l’uno e l’altro. – Così Maria viene a fare un ufficio simile a quello del Sacerdote consacratore, un ufficio anzi che è in qualche modo superiore. Nel momento della Consacrazione il Sacerdote produce Gesù sull’altare, dandogli l’essere sacramentale, ma non lo produce già, come Maria, della propria sostanza. Possiamo anche aggiungere che se noi, Sacerdoti cattolici, abbiamo il mirabile potere di dare a Gesù la sua esistenza sacramentale, lo dobbiamo a Maria che, per la prima, e della propria sostanza, concepì e partorì quel sacro corpo che noi riproduciamo sugli altari. (L’aveva capito bene la Madre MARIA DI Gesù, la quale esprime il suo pensiero così: « Essendo necessarie mani immacolate per ricevere il Figlio di Dio e per restituirlo e offrirlo al Padre come il dono sublime e il sacrificio del mondo. Dio elesse la Vergine Maria. È Lei, aureo canale che porta questo dono divino, è Lei che lo recò ai Sacerdoti, e si direbbe che è pur Lei che lo riprende ora dalle loro mani per offrirlo lassù, nella parte più arcana del santuario dei cieli. Oh! Quanto, dunque, il Sacerdote deve essere unito a Maria! Poiché è Lei la via per cui Egli passa nel ricevere il sacro dono dell’altare, e nel restituire a Dio questo dono sublime! » (Manoscritto, di cui alcune parti furono pubblicate da Dom VANDEUR, La sainte Messe et les écrits de la Mère Marie de Jesus, pagina 25). Oh! grazie, eterne grazie, o Madre divina! sempre che consacreremo, vi faremo ossequiosa offerta di quel Gesù eucaristico il quale non discende ora tra le nostre mani se non perché, venti secoli fa, discese nel virgineo vostro seno.

c) Madre del Sommo Sacerdote, la Vergine santissima riceve la missione, come dice il Papa Pio X: di custodire, di nutrire la vittima e di offrirla, a suo tempo, sull’altare. (Enciclica Ad diem illum pel Giubileo dell’Immacolata Concezione, 2 febbraio 1904).

Maria sarà dunque l’educatrice di Gesù, Sacerdote e vittima, e Gesù trarrà da Lei in parte quella squisita sensibilità, quel cuore pieno di tanta compassione e di tanta misericordia che lo renderà il più pietoso degli uomini, che ne farà un Sacerdote il quale prenderà parte ai nostri dolori, piangerà sulle nostre miserie, pregherà per noi con gemiti ineffabili (Heb. V, 2, 7). Maria è dunque la Madre del Sommo Sacerdote, e quindi Madre in modo speciale di tutti i Sacerdoti della nuova Legge. Come dicemmo più sopra, Maria è madre di tutti i Cristiani in quanto sono membri del Corpo mistico del divino suo Figlio. Ora in questo Corpo mistico il Sacerdote tiene un posto d’onore: rappresentante visibile del Sacerdote invisibile, rivestito del suo carattere sacerdotale e dei suoi poteri, mediatore tra il cielo e la terra, il Sacerdote è veramente un altro Cristo, sacerdos alter Christus. A questo titolo partecipa alla dignità di capo o testa del Corpo mistico, non certo per la stessa ragione di Nostro Signore, ma dipendentemente da Lui, come suo rappresentante visibile e suo strumento, e come colui che riceve grazie non solo per sé, ma anche per distribuirle agli altri specialmente coll’amministrazione dei sacramenti. Quindi Maria, che è Madre di tutti i Cristiani in quel grado che sono uniti a Cristo, è specialmente Madre del Sacerdote che di Cristo fa le veci sulla terra, « pro Christo legatione fungimur! ». La materna sua sollecitudine è dunque in modo particolare per loro. Ardentemente bramosa che, per ben adempiere la nobile missione loro affidata, siano copie viventi del suo divin Figlio, li porta, a così dire, nel seno, li partorisce alla vita sacerdotale, formando nel loro cuore Gesù Cristo col suo spirito e colle sue virtù. Onde noi Sacerdoti dobbiamo avere in Lei una confidenza più filiale dei semplici fedeli, dobbiamo andare a Gesù per Maria, pregarla spesso per la santificazione nostra e per quella di coloro che ci sono affidati; specialmente poi per le cause che riputiamo disperate; memori che nulla vi è di disperato quando si ricorre all’intercessione di Colei che è detta da san Bernardo « omnipotentia supplex ».

ART. II. — MARIA ASSOCIATA ALL’OPERA SACERDOTALE DI GESÙ:

A) Madre del Sommo Sacerdote, Maria doveva pure essere associata al suo ufficio di sacrificatore e di vittima.

a) E lo è sino dal primo momento dell’Incarnazione. C’è un’armonia perfetta tra i sentimenti della Madre e quelli del Figlio. Nell’istante in cui Gesù si offre al Padre dicendo: Eccomi pronto a fare la vostra volontà, l’umile Vergine si offre anch’essa al Padre, pronunciando parole assolutamente simili: « Ecco l’Ancella del Signore, sia fatto a me secondo la tua parola » (S. Luca, I, 38). È lo stesso spirito che li anima e li fa vibrare all’unisono. Quindi, in modo secondario ma vero, Maria viene associata a quell’atto di offerta del Verbo incarnato che è già atto sacerdotale, e dà così anch’Ella principio al suo ufficio di sacrificatrice e di vittima.

b) E lo continua nel giorno della presentazione di Gesù al Tempio. Il Verbo Incarnato, che si era già interiormente offerto al Padre nel seno di Maria, vuole ripetere pubblicamente l’offerta nel Tempio di Gerusalemme, che era allora il solo asilo della vera Religione, e vuole esservi presentato per le mani della Madre. « Gesù era proprietà di Maria, nota l’Olier (Explic. des cerem. de la Grand Messe, L. VI, c. 11); ora, avendo Dio proibito che gli si offrissero vittime furtive e volendo che gli fossero offerte da coloro a cui appartenevano, Gesù-Vittima non gli poteva essere presentato che col consenso e per le mani della sua Madre santissima ». Mentre Gesù rinnova pubblicamente la sua offerta, la santa Vergine gli si associa in quest’offerta e consegna il Figlio nelle mani del Padre, dicendogli interiormente: « Gesù si è già offerto a Voi nel mio seno e ha posto nelle vostre mani tutto il diritto che aveva su se stesso. Ma, poiché è mia proprietà, avendolo voi dato a me, vuole che ve lo presenti anch’io e ceda tutto il diritto che ho su di Lui. Cedo dunque il mio tesoro nelle vostre mani, e vi offro ciò che vi è di più grande in cielo e in terra, affinché per questo voto solenne e questa pubblica offerta di Religione Egli sia totalmente vostro ». (J. J. Olier, Vie interieur de la S.te Vierge, ed. Jeard, 1875, p., 143-144). – Il vecchio Simeone, ispirato da Dio, assicura Maria che l’offerta è stata gradita. Egli, che da sì lungo tempo aspettava fiduciosamente il Messia, si dichiara ora pronto a morire, « perché, dice, i miei occhi videro la tua salute, o mio Dio, quella salute che hai preparata al cospetto di tutti i popoli; la luce che deve dissipare le tenebre delle Nazioni e illustrare il popolo tuo Israele ». Ma aggiunge che quel bambino sarà un dì fatto segno di contradizione e che una spada trafiggerà l’anima di Maria! (S. Luc. I, 25-35). Maria dunque verrà associata al sacrificio di Gesù come è associata ora alla sua offerta, ed eserciterà con Lui, benché in modo secondario, gli uffici sacerdotali.

c) È appunto ciò che vediamo sul Calvario. Nel momento che il divino Crocifisso, dopo aver sofferto lunga e dolorosa agonia, si offre vittima sull’altare della croce, Maria se ne sta ritta appiè di quella croce, in atteggiamento di sacrificatrice. Gesù è cosa sua: è quindi necessario che Ella dia il suo consenso all’immolazione della vittima; e lo fa liberamente, unendosi a Gesù stesso, sommo Sacrificatore; offre così, sebbene in modo secondario, la grande vittima, quella che sola può restituire a Dio tutto l’onore toltogli dal peccato, riparare tutte le nostre offese, espiarle, e meritarci tutte le grazie necessarie alla salute. Ma alla parte di sacrificatrice Maria aggiunge quella di vittima; perché tutti i dolori fisici e morali del Figlio hanno un’eco dolorosa nel suo cuore materno. Vedendo così atrocemente patire Colui che ama molto più di se stessa, sostiene tanti martirii quanti sono i colpi e le ingiurie che Gesù riceve; e, se non fosse stata sorretta da virtù superna, sarebbe morta le cento volte prima di veder spirare il Figlio. Avete quindi ragione, o Madre dei dolori, di essere chiamata Regina dei Martiri, perché, non il vostro corpo, ma l’anima vostra, il vostro cuore, fu torturato, fu crocifisso, fu trafitto: « tuam ipsius animam gladius pertransibit ».

d) Associata al sacrificio di Gesù, Maria avrà, come Lui, una pienezza di grazia a cui noi tutti parteciperemo: sarà mediatrice universale di grazia! e per le sue mani verranno distribuite le grazie spirituali meritate dal Figlio.A questo modo la Vergine santissima, pur non avendo il carattere sacerdotale, compì sublimemente uffici pari a quelli del sacerdote. – Il P. Hugon, (La Vserge-Prétre, 30 ed., Paris, 1912, p. 20)? uno dei più autorevoli nostri teologi, spiega molto bene questo punto. « Maria non dà a Cristo la nascita eucaristica e non lo immola sull’altare, ma gli diede la prima volta la nascita corporale, che viene rinnovata dalla consacrazione; lo offrì sul Calvario in quel sacrificio unico di cui la Messa è ricordo e riproduzione. Maria non assolve i peccatori nel tribunale della penitenza, ma per Lei giunge loro il beneficio della giustificazione. Maria non produce la grazia, come i Sacerdoti, coll’efficacia del carattere sacerdotale, ma tutte le grazie, anche le sacramentali, passano per l’universale sua mediazione, in quel modo che tutte un dì le meritò con merito di convenienza. Maria non consacra i Sacerdoti, come fa il Vescovo, ma ottiene loro col suo merito de congruo e coll’attuale sua impetrazione la grazia della sacra Ordinazione e le disposizioni richieste per ricevere con frutto il sacro rito »,

B) Anche noi sacerdoti, associati all’opera sacerdotale di Cristo, dobbiamo essere, come Maria, sacrificatori e vittime.

a) Sacrificatori; studiamoci di offrire la sacra vittima con disposizioni simili a quelle di Maria appiè della croce, non mossi da orgoglio, da vanità o da interesse, ma unicamente perché Dio sia glorificato e le anime santificate. Specialmente all’altare noi siamo i Religiosi di Dio, quando, tenendo fra le mani la Vittima pura, santa, immacolata, la offriamo alla santissima Trinità, appropriandoci i sentimenti di religione profonda che Gesù, il Figlio diletto, offre alle tre divine Persone. Ah! certo, gli ossequi nostri non valgono gran che, ma quelli di Gesù hanno valore infinito, e Dio guarda i nostri come non facenti ormai che una cosa sola con quelli di suo Figlio. Quindi, nonostante la nostra indegnità, noi, col santo Sacrificio della Messa, lo glorifichiamo come si merita. Oh! qual grande efficacia acquistano le nostre preghiere unite a quelle di Gesù che teniamo fra le nostre mani! Gesù appoggia allora con tutto il peso dei suoi meriti infiniti le umili suppliche che porgiamo al Padre per noi e per i nostri fratelli. Allora specialmente si avvera in tutta la sua forza la promessa di Nostro Signore!: « Et quodcunque petieritis Patrem in nomine meo, hoc faciam: ut glorificetur Pater in Filio ». Sì tutto ciò che chiediamo al Padre in nome del Figlio, che sta rinnovando sull’altare la mistica sua immolazione, ci viene certamente concesso, perché altrimenti ne andrebbe dell’onore del Padre e del Figlio. Ed essendo nostro dovere di adorare pure Gesù stesso, vero Dio e vero uomo, rammentiamoci che Maria è la più perfetta adoratrice del Figlio, e che i nostri ossequi, i quali, nonostante la nostra buona volontà, rimangono sempre così imperfetti, hanno bisogno, per riuscire accetti, di passare per il Cuore Immacolato di Maria.

b) Perché le nostre adorazioni e preghiere siano più efficaci, dobbiamo, come Maria a piè della croce, acconsentire anche noi ad esser vittime. Celebrando il santo Sacrificio della Messa, che è poi la ripetizione del Sacrificio del Calvario con la sola differenza che l’immolazione mistica vi prende il posto dell’immolazione cruenta, non dobbiamo dimenticare le parole che il Vescovo ci disse nel giorno della nostra sacerdotale ordinazione: « Agnoscite quod agitis, imitamini quod tractatis, quatenus mortis dominicæ mysterium selebrantes, mortificare membra vestra a vitiis et concupiscentiis omnibus procuretis ». Sì, sta qui la nostra immolazione e il nostro martirio: combattere vigorosamente in noi e nelle anime la triplice concupiscenza; immolar quotidianamente le cattive tendenze della nostra natura, che non scompaiono interamente se non al punto della morte; dichiarare guerra spietata al vizio; lottare energicamente contro le seduzioni e le attrattive del mondo: fare anzi di più, consacrarci, sacrificarci interamente al servizio delle anime, onde far conoscere e amare Gesù, senza cercare noi stessi, bramosi anzi che ci dimentichino, affinché Dio sia meglio conosciuto ed amato: « Dum omni modo Christus annuncietur » (Filip., I, 18). Ecco il martirio quotidiano che il Signore vuole da noi Sacerdoti. Regolandoci a questo modo, avremo, come Maria, lo spirito sacerdotale.

ART. III. — MARIA POSSIEDE IN GRADO EMINENTE LO SPIRITO SACERDOTALE.

Lo spirito sacerdotale consiste nel dimenticar se stessi e non pensare più che alla gloria di Dio e alla salute delle anime, perché non si è Sacerdoti per sé ma per gli altri. Ed è appunto questo lo spirito che ammiriamo in Maria. Come Gesù non cercò la gloria sua ma quella del Padre e diede la vita per le sue pecorelle, così Maria, dimentica di sé, non pensa che a glorificar Dio e a collaborare alla salute delle anime.

a) Questa brama, questo bisogno di glorificar Dio risplende nel giorno della Visitazione. Elisabetta, vedendo gli effetti soprannaturali causati dall’ingresso di Maria in casa sua, la saluta Madre di Dio, benedetta fra tutte le donne. Maria respinge subito ogni sua lode, e, levando in alto la mente ed il cuore, canta la gloria di Colui che solo ha diritto di essere lodato perché solo ha operato queste meraviglie: « L’anima mia, dice nel suo Magnificat, glorifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore ». In cambio di accettare per sé le lodi della cugina, amorosamente benedice Colui che « volse lo sguardo alla bassezza della sua ancella ». Tutte le generazioni la proclameranno certamente beata, ma solo perché l’Onnipotente operò in Lei cose grandi. Ella non c’entra per nulla: Dio solo ne dev’essere benedetto; Dio, che pose in opera la forza del suo braccio; che ha confusi i superbi e innalzati gli umili; che ha colmati di beni gli affamati e lasciati a mani vuote quelli che si credevano ricchi. Tali erano i sentimenti abituali dell’umile Vergine: unica sua ambizione glorificare, benedire, esaltare il Signore; quindi il suo cuore vibrava all’unisono col cuore di Gesù, Sommo Sacerdote, che la sua gloria e la sua vita aveva sacrificato per onorare il Padre.

b) Questa sua piena conformità di volere Maria ben la mostrò quando il divino suo Figlio, salendo al cielo, le chiese di rimanere ancora sulla terra dopo la sua ascensione. È evidente che era questo per lei il più eroico dei martirii. Maria non aveva vissuto che per Gesù, e meglio di san Paolo avrebbe potuto dire: « Per me il mio vivere è Gesù! ». Non aveva quindi che un’unica brama: seguirlo, contemplarlo, amarlo, glorificarlo per tutta l’eternità. Eppure, quando Gesù le affida la missione di rimanere ancora a lungo in mezzo ai discepoli, per edificarli, istruirli, animarli coi suoi consigli e coi suoi esempi, Maria acconsente a questo nuovo martirio e s’immola per le anime come s’era immolata per Dio.

c) Se ne va coi discepoli al Cenacolo, insegna loro a perseverare unanimi nella preghiera, e attira così su di loro una copiosa effusione dei doni e delle grazie dello Spirito Santo. Ritirata nella casa di san Giovanni, che le era stato dato per figlio, vive nella sua intimità e gli rivela i segreti che il Verbo Incarnato le aveva confidati nei trent’anni della sua vita nascosta. Quei tesori Maria li aveva conservati nel suo cuore e amorosamente meditati, e meglio di ogni altro poteva istruire quell’Apostolo che doveva un giorno far conoscere alla Chiesa nascente le glorie del Verbo Incarnato, fonte di luce, di vita e di amore. – Abbiamo buon fondamento di pensare che la Madre della divina Sapienza non sia stata estranea a quella dottrina così sublime che san Giovanni espone nel quarto Vangelo. Del resto anche altri Apostoli e futuri evangelisti, come san Luca, vennero ad attingere alla medesima fonte certi particolari intimi della vita nascosta del Salvatore. Maria fu così la Madre della Chiesa nascente, esercitando l’apostolato, non in modo pubblico e ufficiale, ma in quel modo modesto ed ascoso che si addice alle vergini cristiane, Divenne a questo modo il modello più perfetto dello spirito sacerdotale e meritò di esser detta Regina degli Apostoli, Regina e Madre dei Sacerdoti, Regina et Mater sacerdotum.

c) Se vogliamo quindi progredire nello spirito sacerdotale od apostolico, non possiamo far di meglio che chiederlo istantemente per intercessione di Colei che attirò sui discepoli una sì ricca effusione dei doni dello Spirito Santo. Maria otterrà anche per noi adagio adagio e progressivamente la trasformazione che venne operata negli Apostoli in un sol tratto il dì della Pentecoste. Anche noi dimenticheremo, come loro, i particolari nostri interessi per non pensare più che alla gloria di Dio e alla salute delle anime. In cambio di esser vittime del rispetto umano, di aver paura della persecuzione, di paventare il patire, ci rallegreremo di dover sostenere gli oltraggi, le calunnie, le umiliazioni, lieti di poter soffrire per il nome di Gesù. In cambio di cercare la stima e l’affetto dei mondani, non avremo che un unico pensiero, quello di predicare coll’esempio più ancora che colla parola le massime del Vangelo e l’amore del divin Crocifisso. Così il nostro apostolato riuscirà più fecondo. E poiché piacque alla divina bontà di distribuire tutte le grazie per le mani di Maria, è chiaro che, se chiediamo colla sua intercessione quelle che ci sono necessarie per la santificazione nostra e per quella delle anime a noi care, le otterremo più sicuramente e più copiosamente; perché, come dice san Bernardo, è volere di Dio che riceviamo tutti i favori spirituali per mezzo di Maria: « Sic a voluntas eius qui totum nos habere voluit per Mariam » (Sermone sulla Natività della Beata Vergine Maria, Numero 7). – O Vergine benedetta, voi che, senza avete il carattere sacerdotale, foste eletta ad esse la Madre del Sommo Sacerdote Gesù e dei suoi rappresentanti sulla terra, voi che con spirito eminentemente apostolico esercitaste uffici simili ai nostri, degnatevi di abbassare sui vostri Sacerdoti il materno vostro sguardo, e vedendone la incapacità ad adempiere la nobile loro missione di religiosi di Dio e di santificatori delle anime, formate in noi lo spirito e le virtù di vostro Figlio, affinché con Lui e per lui possiamo glorificar Dio e condurre molte anime al suo seno.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (3)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (3)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO PRIMO

ITINERARIO SPIRITUALE

Carmelitana:

Tutto, in lei, porta l’impronta di questa predestinazione. Prima di penetrare nelle profondità di quest’anima per analizzarla, uno sguardo d’insieme si impone. Elisabetta della Trinità non è divenuta santa che dopo undici anni di lotta e incessanti ritocchi di cesello. Anche dopo aver trascorsi al Carmelo molti anni di silenzio e di fedeltà, dovrà subire dalla mano divina le supreme purificazioni con le quali Iddio introduce le anime eroiche nella pace immutabile dell’unione trasformante, al di sopra di ogni gioia e di ogni dolore.

I

VITA INTERIORE NEL MONDO

1) Capricci di bimba — 2) Conversione — 3) Feste mondane

— 4) Opere di apostolato — 5) Vacanze estive —

6) L’«agere contra» — 7) Prime grazie mistiche —

8) L’incontro col Padre Vallée.

1) Figlia e nipotina di militari, Elisabetta Catez portava nelle vene un sangue combattivo, pronto alla reazione. Aveva ereditato un’indole focosa. Un giorno — aveva appena tre o quattro anni — si chiuse da sé in una stanza, e percuotendo la porta con tutta la forza dei suoi piedini, strepitava fino all’esasperazione. La sua prima infanzia, fino ai sette anni, fu attraversata da questi grandi scoppi di collera, indomabili. Bisognava aspettare che l’uragano si quietasse da sé. Allora la mamma le faceva capire il suo torto, e le insegnava a vincersi per amore. « Questa bimba ha una volontà di ferro — diceva la sua istitutrice. — Quando vuole una cosa, deve ottenerla, ad ogni costo ». La morte del babbo, quando era tanto piccola ancora, la lasciò sola con la mamma e con la sorella Margherita, creatura timida e soave, che le fu compagna indivisibile di tutte le ore, fino alla sua entrata al Carmelo. Nessun altro grave incidente familiare venne a turbare il corso della sua vita che si svolgeva, sempre a Digione, in un’atmosfera serena e cristiana.

2) La prima Confessione operò nell’anima di Elisabetta ciò che lei chiamerà la sua conversione, quella scossa benefica che risvegliò in lei il senso del divino e ad esso la orientò (« Ricordi »). Da quel giorno, cominciò a lottare risolutamente contro i suoi difetti dominanti: la collera e la sensibilità; e persisterà in questo rude combattimento spirituale fino ai diciott’anni. Il Sacerdote che la preparava alla Prima Comunione e la conosceva bene, diceva ad un’intima amica della mamma sua: « Con un temperamento simile, Elisabetta Catez diventerà una santa o un demonio ». Il primo contatto con Gesù nascosto nell’Ostia santa fu decisivo. « Nelle profondità dell’anima, ella sentì la voce di Lui ». « Il Maestro divino prese così bene possesso del suo cuore che da allora ella non aspirò che a donargli la sua vita» (Poesie – « L’anniversario della mia Prima Comunione », 7-9 aprile 1898). Avvenne allora in lei un mutamento così rapido e profondo, che sorprese quanti l’avvicinavano. Elisabetta progrediva a gran passi verso quel calmo dominio di sé che doveva ben presto emanare da tutta la sua persona. Un giorno, dopo la S. Comunione, le parve di udir pronunciare, in fondo all’anima, la parola: « Carmelo ». Fu una rivelazione. Un’altra volta, ancora nel suo quattordicesimo anno, sentirà una chiamata interiore del divino Maestro, durante il ringraziamento della Comunione; e senza indugio, per essere sua e unicamente sua, fece il voto di verginità. Morirà ad esso fedele, pura come un giglio. – Le poesie che compose dai quattordici ai diciannove anni non risuonano che dei nomi di Gesù tanto amato, della sua Mamma celeste, del suo buon Angelo custode, dei santi, di Giovanna d’Arco, « la vergine che non può essere offuscata » (Poesie – « Giovanna d’Arco», ottobre 1895). Ma l’attrattiva più irresistibile è il Carmelo; e i suoi versi cantano gli attributi della carmelitana; la veste di saio e il bianco velo, il rosario dai poveri grani di legno, il cilicio che martoria le carni, l’anello di sposa di Cristo (Poesie – « Agli attributi della Carmelitana », 15 ottobre 1897). Abitando vicinissima al suo diletto Carmelo, spesso se ne va sulla terrazza, e a lungo « triste e pensosa » (Poesie – « Ciò che vedo dal mio balcone », ottobre 1897) – s’immerge con lo sguardo anelante, nel Monastero. Tutto le parla al cuore: la Cappella ove si cela il suo Signore, il suono dell’Angelus, i mesti rintocchi dell’agonia che si odono talvolta. e le celle dalle finestrine minuscole, dal mobilio poverissimo, le celle che accolgono il riposo delle vergini dopo una lunga giornata di preghiera redentrice. Lontana ancora dal sogno — ha soli diciassette anni — sente che la sua anima langue. Un Sacerdote amico di famiglia si fa mediatore fra lei e la mamma; ed Elisabetta tenta di evadere da questo triste mondo seduttore. Ma non è che un istante. La mamma rimane inflessibile; non le resta che attendere l’ora di Dio nella preghiera e nella fiducia. E l’attenderà.

3) Ricominciano, allora, le feste mondane e le riunioni più svariate che si moltiplicavano ininterrottamente. La signora Catez vi spingeva la figliola, ma con discrezione, pur senza volerla distogliere dalla sua vocazione, forse accarezzando segretamente la speranza che Dio non gliel’avrebbe pesa. Elisabetta non si faceva pregare; le bastava che quella fosse la volontà della mamma, e prendeva parte a tutte le riunioni, con spigliatezza elegante e serena, « non mostrando affatto di annoiarsi », come ripetono concordemente i testimoni della sua vita. Nessuno avrebbe potuto supporre in Elisabetta Catez la futura carmelitana, la cui vita interiore così intensa e tutta celata nell’intimo del suo Cristo doveva dare alla Immutabile Trinità una testimonianza sì commovente di silenzio e di raccoglimento. Elegante sempre, il suo vestire era semplice, ma irreprensibile. Ripetutamente fu chiesta in isposa. Per una delle sue ultime serate, non volendo lasciar supporre la sua partenza, comprerà dei guanti nuovi. Così Elisabetta partecipava serenamente alla vita della società in cui viveva, non rifuggendo che da un’unica cosa: dal peccato.

4) A Digione, nel corso dell’anno, Elisabetta si dedica alle opere parrocchiali: canto corale, catechismo ai bambini o a qualche piccola neocomunicanda un po’ tarda d’ingegno, oggetto di canzonatura da parte delle compagne minori; ed altre opere di beneficenza che sollecitano il suo concorso. S’incarica persino del patronato per le povere bimbe della manifattura tabacchi; e quelle monellucce le si affezionano al punto, che bisogna tener loro nascosto il suo indirizzo perché non le invadano la casa. Divenuta poi suor Elisabetta della Trinità, continuerà a seguirle nella vita e a proteggerle con la sua silenziosa preghiera di Carmelitana. – Con tatto squisito, Elisabetta si adatta a tutto ed a tutti. Ama l’infanzia per la sua purezza, e Dio le ha dato un’attrattiva meravigliosa per interessare i piccoli. In occasione di riunioni familiari, ne ha talvolta una quarantina intorno a sé, e li diverte in tutti i modi. Le piacciono tanto i quadri viventi, specialmente di Gesù fra i dottori; compone lei stessa piccole rappresentazioni musicali, ma soprattutto ha un’arte insuperabile nel combinare danze di bimbi. Ed eccola, intenta ad abbigliare tutto quel mondo che deve comparire sulla scena. Poi, quando i nervi si sono calmati, si preparano le seggiole in giardino, e si incomincia la lettura; tutti i visetti sono intenti ascoltando avidamente. Qualche volta, i più piccoli l’assediano di inviti perché vada a giocare con loro; ed ella accondiscende, sorridendo. Durante il mese di Maria, la schiera piccina che Elisabetta trae seco alle sacre funzioni, la costringe negli ultimi banchi, il più vicino possibile all’uscita. « E appena il Tabernacolo viene rinchiuso — racconta un’amica d’infanzia — la tiravamo fuori, con noi, a passeggio; e allora, con un’immaginazione vivissima, ci raccontava storie fantastiche. Elisabetta Catez era sempre pronta ad adattarsi a tutti ». – Rileviamo quest’ultimo particolare: nel Chiostro, come già nel mondo, suor Elisabetta rifuggirà da ogni singolarità. Insieme agli altri invitati, saprà apprezzare le squisite torte di Francina, la cuoca più brava in tutta Digione, e riderà di cuore degl’interminabili pranzi, così abbondanti da far invocare pietà, perché si faranno sentire almeno per tre giorni.

5) Le vacanze riconducono regolarmente la partenza da Digione e il periodo dei lunghi viaggi. Ed ecco come Elisabetta visitò la Svizzera, le Alpi, il Giura, i Vosgi, i Pirenei, e gran parte della Francia. Le sue lettere ce la mostrano, gaia e festeggiata, nel turbine delle visite di, i familiari ed amici, talvolta più strettamente unita a qualche anima eletta che le è dato incontrare, ma più spesso amica di tutte indistintamente le giovinette della sua età; con tutte, per sentimento di carità e finezza di educazione, ella conversa e ride gaiamente. – « Il nostro soggiorno a Tarbes (Alti Pirenei.) non è stato che un succedersi ininterrotto di divertimenti: concerti, danze, gite. Gli abitanti di Tarbes sono molto piacevoli: ho conosciuto parecchie signorine, tutte carissime, una più dell’altra. Con X…, squisita intenditrice di musica, non sapevamo distaccarci dal pianoforte, e i negozi di Tarbes non bastavano a fornirci nuova musica da leggere » (Lettera alla signorina A. C. – Tarbes, 21 luglio 1898). – « Oggi partiamo per Lourdes; e mi si stringe il cuore al pensiero di lasciare la mia Yvonne. Se sapessi quanto è cara; e che carattere, veramente ideale! Quanto alla signorina X… è guarita perfettamente, anzi è più giovane, più elegante che mai e, soprattutto, è sempre immensamente buona. Ieri l’altro ha festeggiato i miei diciott’anni regalandomi una graziosissima guarnizione per abito, color pervinca. Scrivimi presto. Ora devo lasciarti per chiudere le valigie; ma ti penserò tanto, a Lourdes. Di là, faremo un giro nei Pirenei. Sono innamorata di queste montagne che contemplo mentre ti scrivo; mi sembra che non potrò più rinunciarvi » (Lettera alla signorina A. C. – 21 luglio 1898). – Luchon l’entusiasma più di ogni altra città. « Essa merita davvero la sua definizione di regina dei Pirenei. La posizione è incantevole; vi abbiamo trascorso due giorni, in un entusiasmo sempre crescente. Abbiamo potuto fare la escursione della valle del Lys, in un grande landò a quattro cavalli, con le cugine di R…, le Di-S…, che abbiamo ritrovate a Luch Le signore ci hanno affidato a persona di conoscenza che faceva anch’essa quella escursione fino all’Orrido. Eravamo a 1801 metri, affacciate a quell’abisso spaventoso; eppure, Maddalena ed io lo trovavamo così bello, che desideravamo quasi di lasciarsi portare da quelle acque. Ma la nostra guida, per quanto entusiasta. non era dello stesso parere; e si mostrava molto più prudente di noi che camminavamo sull’orlo del precipizio senza menomamente soffrire di vertigini. Le signore che, durante la nostra escursione, erano state tutt’altro che tranquille, ebbero un sospiro di sollievo, vedendoci tornare » (Lettera alla signorina D. Agosto 898). Elisabetta passa, così, dagli uni agli altri amici, godendo di una vita quanto mai piacevole, come a Lunéville, invitata a colazione dagli uni, a pranzo dagli altri, partecipando a numerose partite di tennis con delle signorine gentilissime » (Lettera alla signorina A. C. – Luglio 1897), ma senza che le rimanga per sé nemmeno un istante. Il 14 luglio, al Campo di Marte, assiste alla rivista cui l’hanno invitata le numerose amicizie di famiglia nell’ambiente militare. Figlia di ufficiali, si entusiasma per le esercitazioni della cavalleria… « Immaginatevi tutti quei caschi e quelle corazze scintillanti al sole… Questo abbagliante spettacolo si completa, a sera, nei boschetti del parco, con un’illuminazione fiabesca, un po’ alla veneziana… ». – Ma in mezzo a queste feste mondane, il suo cuore serba la nostalgia del Carmelo. Partiti gl’invitati, Elisabetta senza sforzo alcuno, si ritrova col suo Cristo che non ha lasciato mai. A Tarbes, per sottrarsi un istante alla rumorosa allegria mondana, si rifugia presso il Carmelo, e la suora commissionaria la trova dietro la grata del parlatorio, in ginocchio. Ella bacerebbe volentieri tutte le mura di quella Casa di Dio. Lourdes è vicinissima, e per tre giorni vi si raccoglie presso la Vergine della Grotta. Vacanze e mondanità si allontanano dal suo spirito senza alcun sforzo; inabissata nella preghiera, immobile dinanzi alla Grotta, supplica a lungo l’Immacolata di custodirla pura come Lei, e si offre vittima per i peccatori (Poesie – « L’Immacolata Concezione  » 8 dicembre 1898.). Niente può distrarla dal suo Dio. Più tardi, dal suo Carmelo di Digione, potrà scrivere alla mamma nel post-scriptum di una lettera: « Venerdì, quando sarai in treno, non dimenticarti di fare orazione; è molto vantaggioso, me ne ricordo » (Lettera alla mamma – Luglio 1906.). Parlerà così per  esperienza. – Le ricchezze profane delle grandi città che attraversa la lasciano indifferente. Per lei, Marsiglia è Nostra Signora della Guardia (Lettera a M. L. M… – 6 ottobre 1898), e Lione si riduce a Fourvières (Lettera ad A. C. – Estate 1898. ). A Parigi, dove si reca con la mamma e la sorella per la celebre Esposizione Universale del 1900, due cose sole attirano la sua attenzione: Montmartre e Nostra Signora delle Vittorie: « Siamo andate due volte all’Esposizione; è molto bella; ma io detesto tutto quel chiasso, quella  folla, Margherita rideva di me e diceva che avevo l’aria di chi viene dal Congo » (Lettera a M. L. M. – Estate 1900.).

6) L’agere contra fu la generosa parola d’ordine di questo primo periodo della sua vita. A diciannove anni, segna ancora nel suo diario: « Oggi, ho avuto la gioia di offrire al mio Gesù molte vittorie sul mio difetto dominante; ma quanto mi sono costate! E proprio in questo riconosco la mia debolezza… Quando ricevo un’osservazione che mi sembra ingiusta… sento il sangue ribollirmi nelle vene, tanto il mio essere si ribella… Ma Gesù era con me; sentivo la sua voce in fondo al cuore, e allora ero pronta a tutto sopportare per amor Suo » (Diario – 30 gennaio 1899). Ogni sera, per constatare se veramente progredisce nella via della perfezione, segna in un quadernetto le vittorie e le sconfitte. Cerca di digiunare all’insaputa della mamma; ma dopo tre giorni, la vigile signora Catez se ne accorge e la rimprovera severamente; e, ancora una volta, Elisabetta obbedisce. Dio non vuole condurla per il cammino delle grandi mortificazioni dei santi, né ora né durante tutto il suo soggiorno al Carmelo. La silente Trinità attende da lei un’altra testimonianza. « Dato che non posso impormi delle mortificazioni devo persuadermi che la sofferenza fisica non è che un mezzo — quantunque eccellente — per giungere alla mortificazione interiore e al distacco completo da se stessi. O Gesù, mia vita, mio amore, mio sposo, aiutami! Bisogna che io giunga, a qualunque costo, a fare sempre, in tutto il contrario della mia volontà» (Diario – 24 febbraio 1899).

7) Dio non poteva tardare a ricompensare con tocchi segreti della grazia i continui sforzi di Elisabetta per trionfare della sua natura. L’ascetica conduce alla mistica e ne costituisce la necessaria salvaguardia. Con l’abituale suo buon senso, santa Teresa diceva: « Orazione e mollezza non vanno d’accordo » (Cammino di perfezione – Capitolo IV.). Ed è naturale. La Viva Fiamma d’amore suppone la dolorosa salita del Monte Carmelo con le sue notti oscure, con le sue purificazioni attive e passive, tali da far tremare i più risoluti. Ma troppo si dimenticano anche le lunghe estasi contemplative dell’autore degli Esercizi Spirituali nella sua cella di Roma, dove sant’Ignazio mormorava, rapito: « O beata Trinitas! ». Non già che si debba negare in modo assoluto ladiversità di tendenze e di indirizzi nelle vie dello spirito;ma la verità evangelica riassume tutte queste sfumature,e i Santi di tutte le scuole si ricongiungono, oltrepassandole.Giunti alla vetta, tutti sono trasformati nel Cristo,immedesimati nella sua beatitudine di Crocifisso.Il combattimento spirituale contro i suoi difetti e iltrionfo sulla natura condussero Elisabetta alle prime manifestazionidi quelle grazie mistiche che dovevano trasformarela sua vita, dapprima lentamente e con tocchi successivi,quasi passo per passo; poi, dopo la sua professione,con movimento calmo e ininterrotto; finalmente, nell’ultimafase dei sei mesi di infermeria, a grandi voli verso lepiù alte cime dell’unione trasformante.Ella stessa non si rese conto di queste prime mozionidivine, (ricevute nel corso di un Ritiro nel gennaio 1899) che parecchi mesi dopo, leggendo le opere di santa Teresa.Questa rivelazione del suo diario è di capitale importanzanella storia della sua vita spirituale; segna, per lei, l’iniziodella vita mistica, dopo un duro combattimento spiritualeche durava da più di quindici anni e che, in realtà, noncesserà mai.« Leggo, in questo momento, il Cammino di perfezione di santa Teresa; m’interessa immensamente e mi fa un gran bene. Santa Teresa dice cose sì belle sulla orazione ela mortificazione interiore, quella mortificazione interiore acui voglio giungere ad ogni costo, con l’aiuto di Dio. Se,per ora, non posso impormi grandi sofferenze corporali,posso almeno, ad ogni istante, immolare la mia volontà…L’orazione! Come mi piace il modo in cui la santa trattaquesto argomento, là dove parla della contemplazione, quel grado di orazione in cui Dio fa tutto, e noi non facciamonulla, in cui Egli unisce a sé l’anima nostra così intimamente,da non essere più noi che viviamo, ma Dio che vive in noi… Oh, io vi ho riconosciuto gli attimi di rapimento sublimea cui il Maestro divino si è degnato elevarmi così spessodurante questo Ritiro e anche dopo. Che cosa potrò dargliio, in cambio di tanti benefici? Dopo queste estasi, questisublimi rapimenti nei quali l’anima dimentica tutto il restoe non vede che il suo Dio, come par dura e penosa l’orazioneordinaria, e quanta fatica ci vuole per raccogliere leproprie potenze! Come costa e come sembra difficile! » (Diario – 20 febbraio 1899). – Dio elevava già Elisabetta Catez ai gradi superiori di orazione; lo si vedeva sensibilmente nell’ora della preghiera. Entrava nella Chiesa parrocchiale; si dirigeva lentamente, per la navata di centro, fino al suo posto; s’inginocchiava e subito appariva invasa da un raccoglimento profondo: e restava a lungo così, immobile, tutta piena di Dio. La sua amica più intima fu sempre colpita dal mutamento improvviso che si manifestava in Elisabetta, appena entrata in Chiesa e in preghiera: « Non era più lei ». Inoltre, da qualche tempo, esprimeva in fondo all’anima dei fenomeni strani che non sapeva spiegarsi. Si sentiva abitata. « Quando vedrò il mio Confessore — diceva — gliene parlerò ».

8) In quest’epoca, incontrò, al monastero del Carmelo, un Religioso Domenicano che doveva dare alla sua vita interiore un orientamento decisivo. La Madre Germana di Gesù, priora e maestra di noviziato di suor Elisabetta, autrice dei Ricordi, ha giustamente notato che « questo incontro provvidenziale » ricorda, per i suoi effetti soprannaturali, quello che riferisce santa Teresa nel Capitolo Castello dell’Anima (Cap. I). La santa scrive, infatti, che un grande teologo dell’Ordine di san Domenico (il celebre prof. Banez dell’Università di Salamanca) nel confermarle, dal punto di vista dottrinale, la presenza di Dio da lei sperimentata nell’orazione, le dette, con la completa sicurezza che porta seco la verità, una grande consolazione. Mentre Elisabetta timidamente interrogava l’eminente Religioso sulla natura dei movimenti della grazia che esperimentava da qualche tempo, e che le davano l’impressione dell’inabitazione divina, il Padre Vallée, con la potenza della parola ispirata che lo caratterizzava, le rispose: « Ma certamente, figliola mia; il Padre è in te; il Figlio è in te, lo Spirito Santo è in te ». E le spiegò, da teologo contemplativo quale egli era, come, per la grazia del Battesimo, noi diveniamo quel tempio spirituale di cui parla san Paolo: e come, insieme allo Spirito Santo, la Trinità tutta intera vi è presente con la sua virtù creatrice e santificatrice, facendo sua dimora in noi, venendo ad abitare nel segreto più intimo dell’anima nostra, per ricevervi, in una atmosfera di fede e di carità, il culto interiore di adorazione e di preghiera che Le dobbiamo. – Questa esposizione dogmatica la rapì. Ella poteva dunque, seguendo con tutta sicurezza l’impulso della grazia, abbandonarsi alla sua attrattiva interiore e abitare nel più profondo dell’anima sua. Durante questo colloquio, si sentì presa da un raccoglimento irresistibile. Il Padre parlava ancora, ma Elisabetta Catez non lo ascoltava più. « Ero ansiosa che tacesse », dirà più tardi, alla Priora. – In questo particolare, c’è già suor Elisabetta della Trinità tutta intera: avida di silenzio sotto l’effusione della grazia. Da parte sua, il Padre Vallée diceva di quest’ora decisiva: « L’ho vista slanciarsi verso la mèta come una freccia ». – Elisabetta era una di quelle anime che, una volta incontrata la luce, non se ne allontanano più. Da quel giorno, tutto si trasforma e s’illumina; ella ha trovato la sua via. D’ora innanzi, la Trinità sarà l’unica sua vita.

(Ricevuto il consenso definitivo della mamma alla sua vocazione religiosa (26 marzo 1899), Elisabetta aveva potuto riprendere le sue visite al Carmelo, interrotte per otto anni; e furono esse, il suo sostegno negli ultimi due anni passati nel mondo. Vi ritrovava, come priora, la Madre Maria di Gesù che, la sera della sua Prima Comunione, le aveva dato in parlatorio un’immagine dove aveva scritto questo pensiero per spiegarle il significato del suo nome: (Elisabetta, cioè « Casa di Dio»). « Nasconde, il tuo nome, un mistero — che in te si compie in questo dì solenne. — Figliola, il tuo cuore è sulla terra, — la casa di Colui che è Dio d’amore ». – La Madre Maria di Gesù era una anima trinitaria. La sua ardente devozione alla Trinità santa era scaturita improvvisamente da una grazia ricevuta a 14 anni, durante una processione delle Rogazioni. Mentre si univa alle prime invocazioni al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, le fu rivelata interiormente questa misteriosa, ma reale presenza delle Tre Persone divine nell’anima. « Da allora — dirà più tardi — ho cercato sempre di raccogliermi nel profondo in cui Esse dimorano ». Fondatrice del Carmelo di Paray-le-Monial, intitolò il suo bel monastero alla SS. Trinità a cui si accede attraverso il Cuore di Gesù. E fu la Madre Maria di Gesù colei che dette a Elisabetta Catez il nome di Suor Elisabetta della Trinità, quel nome di grazia divenuto tutto il programma della sua vita religiosa. Elisabetta si recava regolarmente dalla Madre, come il piccolo gruppo delle postulanti extramuro che si stringevano intorno alle grate del Carmelo. Madre Maria di Gesù le formava allo spirito carmelitano e la futura novizia le rendeva conto della sua vita di orazione. Poi, anche quando poté essere un po’ divezzata da una direzione spirituale continuata e stabile, Elisabetta era però felice di andare a chiedere alla Maria e consigli e lumi per il progresso della sua vita spirituale. Prima di stabilire i suoi propositi del santo Ritiro, la consultava; e le sembrava che le decisioni di Lei venissero da Dio stesso. Così quelle ore re di parlatorio le facevano tanto bene.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (17)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (17)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO II

Art. III. — GESÙ VIVE NEL SACERDOTE COLLA PARTECIPAZIONE DELLA SUA SANTITÀ.

Poiché il Sacerdote fa sulla terra gli uffici di Gesù Cristo, ne deve pure partecipare le disposizioni interiori e la santità; altrimenti vi sarebbe contrasto tra la sua missione e i suoi atti: se tutto è santo nel suo ministero, potrà forse la sua vita essere una vita volgare? Sarebbe un’incoerenza e una mostruosità! Nostro Signore nol volle; e perché i suoi Sacerdoti fossero santi, nell’ultima Cena pregò il Padre con accenti che ci fanno ancora balzare il cuore di commozione profonda al rileggere quella bella preghiera che è giustamente detta la preghiera sacerdotale di Gesù (S. Giov. XVII). « Per loro Io prego. Non prego per il mondo, ma per quelli che mi hai dati, perché sono tuoi… Padre santo, conservali nel tuo nome quelli che mi desti, affinché siano una cosa sola come noi. Quando ero con loro, Io li conservavo nel tuo nome quelli che mi desti, e li custodii così che nessuno di essi andò perduto, tranne il figlio della perdizione, affinché si adempia la Scrittura… Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li guardi dal male. Non sono del mondo, come neppure Io sono del mondo. Santificali nella verità: la parola è verità. Come tu mandasti me nel mondo, così io pure mandai loro nel mondo; e per loro io sacrifico me stesso, affinché anch’essi siano santificati nella verità ». – Quanto sono consolanti queste parole per noi Sacerdoti cattolici! Dobbiamo vivere in mezzo al mondo, per istruirlo, preservarlo dal male, medicarne e guarirne le ferite. E come potremo sfuggirne il contagio? Avremmo tutto da temere se fossimo soli; ma Gesù pregò per noi, e dall’alto dei cieli e dal fondo del tabernacolo continua pur sempre a pregare per noi. Viene anzi a vivere in noi colle sue virtù e a comunicarcele, purché dal canto nostro sappiamo unirci strettamente a Lui e con pii desideri e con sante preghiere attrarlo nel più intimo dell’anima nostra, e collaborar con lui. – Appunto questo chiede la Chiesa nel conferire gli Ordini sacri. Quando andiamo a prostrarci ai piedi del Vescovo per ricevere la prima tonsura, la Chiesa prega Dio a preservarci da ogni peccato, « eos sine macula in sempiternum custodias », e ci invita a rivestirci dell’uomo nuovo creato nella giustizia e nella santità; il che non possiamo fare se non rivestendoci dello. Stesso Gesù Cristo, fonte di ogni santità. Quando ci conferisce gli Ordini minori, prega perché attraiamo in noi Gesù, il Religioso del Padre; onde, animati del suo Spirito, pratichiamo la virtù della religione nell’esercizio degli uffici sacri che ci vengono affidati. Al suddiaconato, chiede per noi lo Spirito Santo e i suoi doni, onde possiamo serbare perfetta castità e recitare per tutta la vita l’Ufficio divino in nome di tutto il popolo cristiano. Pei diaconi, che diventano cooperatori del Sacerdote nell’offerta del santo Sacrificio, la Chiesa chiede una purità anche più perfetta, perché possano portare fra le mani il Dio di ogni santità. A predicare poi fruttuosamente il Vangelo, esige che vivano conforme alle massime evangeliche e ritraggano in sé le virtù di Gesù Cristo. A questo fine dà loro lo Spirito Santo colla divina sua fortezza, perché resistano a tutte le tentazioni e pratichino tutte le virtù. Quando poi si tratta del Sacerdozio, le sue esigenze si fanno anche più insistenti: vuole che siamo, come Gesù, vittime e sacrificatori nello stesso tempo e che pratichiamo lo spirito di sacrificio e di santità; vuole che meditiamo giorno e notte la legge di Dio per osservarla noi e insegnarla altrui; vuole che la nostra carità sia così ampia che ci avvolga l’anima come la pianeta nella primitiva sua forma avvolgeva il corpo. Ne è da stupire; perché, come nota san Tommaso, che in ciò compendia la dottrina dei Padri: « essendo noi coi sacri Ordini incaricati di fare i più santi uffici del ministero eucaristico, dobbiamo avere una santità interiore più grande di quella richiesta dallo stato religioso ». (Sum. Theol., II.II, q. 184, a. 8). Onde l’autore dell’Imitazione, volgendosi al religioso divenuto Sacerdote, gli osserva: « Non alleggeristi mica il tuo carico, ma sei legato anzi con più stretto vincolo di disciplina e obbligato a maggior perfezione di santità. Il Sacerdote dev’essere ornato di tutte le virtù e dare esempio di buona vita agli altri ». (Lib. IV, cap. V; paragr. 2, IIl part. c. F). A conseguire questo nobile ideale, o almeno accostarvisi sempre più, i sacerdoti « non devono avere altra vita interiore che quella del Figlio di Dio, onde poter dire come san Paolo: Vivo, ma non più io, vive in me Gesù Cristo: vita che richiede che abbiano lo stesso spirito di Gesù Cristo, che ne dà loro le stesse disposizioni, che li anima degli stessi sentimenti, che li applica e li innalza a Dio per porgergli i doveri che Egli peso, come Sacerdote, incessantemente gli porge (J. J. OLIER, Traîté des SS. Ordres). Gesù vive dunque nei suoi Sacerdoti colla comunicazione dei suoi poteri, in virtù del carattere sacerdotale e colla partecipazione delle sue virtù; dobbiamo quindi aver per loro la più profonda venerazione.

ART. IV. — CONCLUSIONE: I NOSTRI DOVERI VERSO IL SACERDOTE.

Si possono compendiar tutti in una parola sola: considerare il Sacerdote come un Gesù Cristo vivente sulla terra: allora soltanto se ne avrà davvero la stima che si merita. Qualunque ne possa essere la nascita, l’educazione, l’aspetto esterno, il Sacerdote è il rappresentante visibile del sommo Sacerdote, è un altro Cristo. Ecco la ragione che gli dà diritto alla stima e alla venerazione di tutti quelli che hanno la fede. Come uomo ha, certo, le sue doti e i suoi difetti; Dio volle così, perché potesse sentir maggior compassione verso le debolezze e le miserie umane. Ma, quando esercita gli uffici del sacro ministero, Gesù vive ed opera in lui; e Gesù quindi bisogna in lui considerare. Avremo allora per lui un religioso rispetto, una sincera ubbidienza; e ci sarà caro il collaborare con lui e pregare per lui.

a) Lo rispetteremo come il rappresentante di Gesù Cristo.

Ecco, per esempio, un sacerdote che predica la parola di Dio: può darsi che sia poco valente nell’arte del dire, ma dacché predica il Vangelo, ha diritto di essere rispettosamente ascoltato; perché può dire in tutta verità: « La mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato » (S. Giov, VII, 16), io non sono che Messaggero e il messaggio è tale che esige la vostra attenzione. Non è quindi il caso di criticare la parola di Dio, bisogna ascoltarla con docilità e col sincero desiderio di metterla in pratica: ci si troverà sempre di che edificarsi. Il santo Curato d’Ars non era oratore: ma quante anime non convertì colla sua parola semplice, un po’ antiquata se si vuole, ma pure così evangelica! – Vi presentate al sacro tribunale della penitenza? può darsi che troviate un confessore ancor giovane ed inesperto. Eppure la sua assoluzione vale quella del più abile dei direttori; quando infatti dice: Io ti assolvo, è Gesù Stesso che per suo mezzo vi rimette i peccati. Non è davvero proibito di cercare un direttore saggio ed esperimentato; ma, anche quando l’avrete trovato, rammentatevi che i suoi consigli non valgono se non per quel tanto che nella sua persona voi vedete e ascoltate Iddio.

b) Questo stesso principio ci renderà facile l’ubbidienza ai suoi ordini: quando il Sacerdote comanda in nome di Dio, si ubbidisce allo Stesso Dio: « Chi ascolta voi, ascolta me? » (S. Luca, x, 16). Del resto è questo il modo di attirare sopra di noi le benedizioni divine e di agevolare al Sacerdote il suo così difficile ministero, secondo che nota san Paolo: « Ubbidite alle vostre guide e state sottomessi, perché essi vigilano a pro delle anime vostre, come obbligati a renderne poi conto; onde facciano questo con gioia e non gemendo; il che sarebbe senza alcun vantaggio per voi! » (Heb. XIII, 17). Il riguardo e la deferenza che qui san Paolo raccomanda ai Cristiani verso i superiori ecclesiastici dovrà mostrarsi anche fuori degli atti del ministero sacerdotale. Oggi che tanti nemici della Chiesa infuriano rabbiosi contro il Sacerdote appunto perché è il rappresentante di Dio, i fedeli si faranno un onore di sostenerlo colla loro simpatia, colla loro benevolenza, e colla loro premura di assecondarlo nelle sue opere. Egli è il rappresentante di Dio, è vero, e trova nel tabernacolo il migliore suo conforto; ma è anche uomo, e, come san Paolo, si sente vivamente inanimato quando vede che i fedeli corrispondono al suo zelo con l’affettuosa loro collaborazione: è lieto allora di poter loro dire: « Voi siete il mio gaudio e la mia corona » (Fil. IV, 1). Se egli, che per amor di Dio e delle anime ha rinunziato alle gioie della famiglia, trova nella grande famiglia cristiana che gli sta intorno un compenso ai suoi sacrifici, ne trae maggiore ardore al duro lavoro che deve fare, e la stima di cui gode non fa che aumentare la benefica sua efficacia sulle anime.

c) Ci sarà quindi caro il collaborare con lui. I tempi che corrono esigono dal Sacerdote un lavoro immenso; è lavoro non solo di conservazione ma di conquista. Se si vuole che una parrocchia non muoia, bisogna continuamente rifarla, fondarvi opere per i fanciulli, opere per i giovani e per le giovani, opere per gli uomini e per le madri cristiane. Ora, per formare tutte queste varie associazioni, il Sacerdote ha bisogno del concorso dei migliori tra i suoi parrocchiani, concorso pecuniario, ma anche e soprattutto concorso personale; perché da solo non potrebbe bastare a tante cose. Senza trascurare il grosso del popolo, il sacerdote bada a formarsi un’eletta schiera di persone che possano mettersi ai suoi ordini e praticar l’apostolato con lui e sotto la sua direzione. È questa l’Azione Cattolica, tanto raccomandata in questi ultimi tempi dai Sommi Pontefici, e che consiste nella Partecipazione di laici fervorosi e pieni di buona volontà all’apostolato gerarchico per introdurre lo spirito cristiano nell’individuo, nella famiglia e nella Società. È dunque un dovere per i fedeli il collaborare col Sacerdote sia per l’insegnamento del Catechismo, sia per la visita degl’infermi e dei poveri, sia per le opere sociali come per le opere direttamente religiose. È questa collaborazione del sacerdote e della parte eletta dei suoi parrocchiani e delle sue parrocchiane quella che assicura la buona riuscita del suo apostolato.

d) E pregheremo pure molto per i Sacerdoti. Vi è forse chi crede che i Sacerdoti non ne abbiano bisogno, ma è errore gravissimo. I Sacerdoti, è vero, passano molto tempo in preghiera, glorificando Dio in nome del popolo cristiano e chiedendo per lui copiose grazie: ma hanno tante responsabilità e debbono essere così santi, anche in mezzo ai pericoli che incontrano persino nell’esercizio del loro ministero, che hanno bisogno di essere costantemente sorretti dalle preghiere dei fedeli, e specialmente delle anime pie. Santa Teresa ne era così persuasa che faceva continuamente pregare secondo questa intenzione: e vi sono pure molte comunità religiose e molte anime generose che fanno lo stesso (Così l’intendeva e così praticava la Madre MARIA DI Gesù, la quale scriveva ad una consorella: « Coraggio, sorellina mia! Dedicarsi alle anime è bello, è grande; ma dedicarsi a procurare la pura gloria di Dio nelle anime dei Sacerdoti è così bello, è così grande, che bisognerebbe aver mille vite e mille cuori da sacrificare immolandoli a un sì nobile fine » (Lettere, p. 204). Così pensava pure la Madre LUISA MARGHERITA CLARET de La Touche, fondatrice dell’Alleanza sacerdotale universale degli amici del Sacro Cuore; come si legge nel suo libro: Le Sacre Coeur et le Sacerdoce e negli estratti delle sue opere pubblicati dal P. Heris O. P. sotto il titolo: Au service de Jesus Prétre). – Preghiamo dunque gli uni per gli altri: ci guadagneremo tutti; perché, come dice il Pontificale, navighiamo tutti sulla stessa nave e la sicurezza dei passeggeri dipende dall’abilità del pilota.

e) Questa preghiera deve estendersi anche alle vocazioni ecclesiastiche. In molte diocesi si recita ogni domenica questa semplice preghiera: « O mio Dio, dateci dei Sacerdoti! dateci dei santi Sacerdoti! e fateci docili ai loro insegnamenti! ». Ora che i nostri nemici hanno fatto e fanno di tutto per diminuire il numero e l’autorità dei Sacerdoti, è proprio la più urgente delle preghiere. A Parigi, per esempio, vi sono parrocchie di 15.000 anime che hanno appena sei sacerdoti: uno per ogni 7.500 fedeli; nella provincia poi, un gran numero di parrocchie, quasi diecimila, sono senza sacerdoti, e molti parroci debbono servire due, tre, perfino cinque parrocchie. Il che significa che già fin d’ora vi sono moribondi che non possono ricevere i sacramenti, fanciulli che non sono istruiti nella Religione, e molti adulti che sfuggono interamente alla benefica efficacia del Sacerdote. Il male si va allargando e, se non ci si rimedia, il numero dei pagani e dei comunisti non tarderà a dominare in Francia e i delitti si moltiplicheranno; perché la morale senza la Religione è un’utopia (È veramente doloroso per un cuore cristiano ciò che dice qui l’Autore sopra la grave scarsità di clero in Francia e la progressiva scristianizzazione del popolo. In Italia, dobbiamo vivamente ringraziare la divina Provvidenza che coi Patti del Laterano, col Trattato e coll’inseparabile Concordato, siasi aperta un’era di belle speranze per la Religione; ma occorre anche da noi lavorare alacremente, specialmente alla soda istruzione religiosa della gioventù delle scuole medie. Questo insegnamento religioso nelle Scuole, affermato nel Concordato, deve considerarsi nelle condizioni odierne come uno dei mezzi principali per cristianeggiare la nostra gioventù. Così si potranno adagio adagio riparare le molte rovine religiose accumulate da alcune generazioni per l’opera nefasta di governi infeudati alle sette. E coll’accresciuta Religione nella gioventù cresceranno pure le vocazioni ecclesiastiche scarseggianti anche da noi. – N. d. T.). – L’opera quindi più urgente è di Pregare per le vocazioni ecclesiastiche. E anche di aiutare queste vocazioni con tutti i mezzi possibili. Siete ricco? Perché non fondate nei nostri Piccoli e nei nostri Grandi Seminari posti franchi che diano modo a giovinetti, ben disposti ma poveri di beni di fortuna, di prepararsi al sacerdozio? Avete figli, o vi occupate dell’educazione di giovinetti? E perché non inclinare verso l’altare alcuni di quelli che mostrano animo grande e nobile, che sono pii, attivi, energici, pronti a tutte le generose imprese? Non si tratta già di spingerli contro la loro volontà al Sacerdozio, Dio ne guardi! ma di inclinare i loro pensieri da quella parte, di farli pregare per chiedere la grazia di conoscere bene la loro vocazione e di generosamente seguirla. Quanti giovinetti non presero animo di aspirare a questa sublime dignità se non quando ci si videro incoraggiati da anime benevoli! O genitori cristiani, se mai alcuno dei vostri figli vi chiedesse di entrare in Seminario, badate bene di non ostacolare questa legittima sua aspirazione col pretesto di volerlo poi erede del vostro commercio e della vostra industria. Che gli diciate di riflettere bene e di prender consiglio da persona prudente prima di entrar negli Ordini sacri, questo è vostro diritto e vostro dovere; ma il distorlo con mezzi più o meno abili da questa sublime vocazione, sarebbe un invadere il campo della coscienza, un usurpare i diritti di Dio, un preparare la sventura vostra e quella di vostro figlio. Pensate invece che l’onore più grande che Dio possa farvi è di scegliere un dei vostri per trasformarlo in un altro Cristo; e che si apre con ciò per tutta la vostra famiglia una fonte di copiose benedizioni. – « Se non avessimo il sacramento dell’Ordine, diceva il santo Curato d’Ars, non avremmo Nostro Signore. Chi è che l’ha posto là in quel tabernacolo? È il Sacerdote. Chi è che accolse l’anima vostra al primo suo entrare nella vita? Il Sacerdote. Chi la alimenta per darle la forza di fare il suo pellegrinaggio? Il Sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola nel sangue di Gesù Cristo? Il Sacerdote, sempre il Sacerdote. E se quest’anima viene a spiritualmente morire, chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il Sacerdote. Non vi verrà fatto di richiamarvi un solo beneficio di Dio senza incontrare, accanto a questo ricordo, la figura del Sacerdote ». Se mediteremo bene queste parole piene di tanta efficacia, ripeteremo spesso e con fervore la preghiera approvata dal Papa Pio X per ottenere la santificazione del clero:

« O Gesù, Pontefice eterno e divino Sacrificatore, voi, che, in un incomparabile impeto di amore per gli uomini vostri fratelli, avete fatto scaturire dal vostro Sacro Cuore il Sacerdozio cristiano, degnatevi di versare pur sempre nei vostri Sacerdoti le vivifiche onde dell’infinito vostro amore.

« Vivete in loro; trasformateli in voi; rendeteli colla vostra grazia strumenti delle vostre misericordie; operate in loro e per loro; e fate che, rivestiti di voi colla fedele imitazione delle adorabili vostre virtù, operino in nome vostro e colla forza del vostro Spirito le opere fatte già da Voi per la salute del mondo.

« O divin Redentore delle anime, vedete quanto grande è la moltitudine di coloro che dormono ancora nelle tenebre dell’errore; contate il numero di quelle pecorelle infedeli che camminano sull’orlo del precipizio; considerate la quantità di poveri, di affamati, di ignoranti e di deboli che gemono nell’abbandono.

« Tornate, o Gesù, tornate a noi nei vostri sacerdoti; rivivete davvero in loro; operate per mezzo loro e correte di nuovo il mondo, insegnando, perdonando, consolando, sacrificando, riannodando i sacri vincoli dell’amore tra il cuore di Dio e il cuore dell’uomo. Così sia »

(A tutti i fedeli che reciteranno ogni giorno questa preghiera composta dalla Madre LUISA MARGHERITA (v. sopra), S. S. Pio X ha concesso l’indulgenza di 300 giorni una volta al giorno, e l’indulgenza plenaria la prima domenica o il primo venerdì del mese. Queste indulgenze sono applicabili alle anime del Purgatorio.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII “GRANDE MUNUS”

Questa bella lettera Enciclica è dedicata al culto dei Santi fratelli Cirillo e Metodio: vengono ricordate le gloriose vicende umane dei Santi slavi ed il culto viene reso universale nella santa Chiesa Cattolica. In particolare viene sottolineato il massimo rispetto mostrato dai Santi fratelli, nei confronti della Sede Apostolica alla quale riferivano costantemente la loro indefessa opera in favore della conversione e dell’adesione dei popoli slavi all’unità della Chiesa di Cristo. Esempio questo di vero e santo ecumenismo che consiste appunto nel raccogliere tutto il gregge di Cristo in un’unico ovile e sotto un unico Pastore, ben diversamente dall’apostasia della falsa chiesa-sinagoga dell’uomo del Vat. II che ha trasformato questo santo concetto, nell’accoglienza e mescolanza acritica di tutte le pseudo-fedi e di tutte le false religioni demoniache in un unico sincretismo (meglio il neologismo sincretinismo), calderone e confusione di idee, di cosmogonie strampalate. stralunate teologie e fantasie infernali di ogni genere … pachamama docet… Il demonio si è impadronito ormai di tutto l’orbe terrestre e la Chiesa di Cristo sembra soccombere, ma noi sappiamo che le forze del male – compresi i falsi profeti del Novus (dis)Ordo, gli eretici fallibilisti lefebvriani e i sedevacantisti scismatici – non praevalebunt. Quindi in tutta serenità noi, pusillus grex, ci godiamo questa “chicca” magisteriale e celebriamo la santità dei santi fratelli slavi invocandone l’intervento che riporti tante nazioni traviate dall’errore panteista, nella pace della Chiesa di Cristo.

GRANDE MUNUS

LETTERA ENCICLICA
DI SUA SANTITÀ
LEONE PP. XIII

A tutti i Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati,
Arcivescovi e Vescovi del mondo cattolico
che hanno grazia e comunione con la Sede Apostolica.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Il grande compito di diffondere il nome cristiano, affidato in modo particolare al Beato Pietro, Principe degli Apostoli, ed ai suoi successori, spinse i Pontefici Romani a mandare annunziatori del Santo Vangelo in tempi diversi ai vari popoli della terra, come era richiesto dalle circostanze e dalla volontà del misericordioso Iddio. Pertanto, come destinarono Agostino curatore di anime presso gli Inglesi, Patrizio presso gli Irlandesi, Bonifacio presso i Germani, Villebrordo presso i Frisii, i Batavi e i Belgi, ed altri sovente presso altri popoli, così concessero a Cirillo e a Metodio, uomini santissimi, di esercitare l’apostolico ministero presso i popoli Slavi, i quali, grazie alla loro premura e al loro impegno, conobbero la luce del Vangelo, e da una vita selvatica furono condotti ad una società umana e civile.  – Se gli Slavi, memori dei benefici, non cessarono mai di celebrare Cirillo e Metodio, Apostoli nobilissimi, con non minore studio la Chiesa Romana li ebbe sempre in grande culto, rendendo onore all’uno e all’altro in molte occasioni mentre vissero, e custodendo le ceneri di uno di essi quando morì.  – Fin dall’anno 1863 agli Slavi della Boemia, Moravia e Croazia, i quali solevano festeggiare ogni anno Cirillo e Metodio il 9 marzo, fu concesso dalla benignità di Pio IX, Nostro Predecessore di immortale memoria, di celebrare per l’avvenire quella festa il 5 luglio, e di onorare la memoria di Cirillo e Metodio con la sacra officiatura. Né passò molto tempo che, all’epoca del grande Concilio Vaticano, molti Vescovi supplicarono questa Sede Apostolica affinché il culto di quei Santi e la decretata solennità si estendessero a tutta la Chiesa. Ma poiché la proposta fino ad oggi non ha avuto seguito, ed essendosi in quelle contrade mutato lo stato della cosa pubblica, Ci parve giunta l’opportunità di soddisfare i popoli Slavi, della cui incolumità e salute siamo grandemente solleciti. Dunque, poiché non possiamo permettere che in alcuna cosa venga meno ad essi la Nostra paterna carità, vogliamo ampiamente estendere ed accrescere il culto religioso di quegli uomini santissimi, i quali, come una volta, spargendo il seme della Fede cattolica tra le genti Slave, le richiamarono dalla morte alla salvezza, così ora col celeste loro patrocinio le difenderanno validamente. E perché più chiaramente emerga quali sono questi personaggi che proponiamo alla venerazione ed al culto dell’orbe cattolico, Ci piace narrare brevemente la storia delle loro gesta.  – Cirillo e Metodio, fratelli germani, nati a Tessalonica da nobilissima famiglia, in tenera età si trasferirono a Costantinopoli per imparare le umane discipline nella principale città dell’Oriente. Né stette nascosta la scintilla dell’ingegno, che già fin d’allora splendeva nei due giovanetti; infatti l’uno e l’altro impararono moltissimo e rapidamente, soprattutto Cirillo, il quale conseguì nelle scienze tale lode che in segno di onore singolare fu chiamato Filosofo. Non andò molto che Metodio si fece monaco. Cirillo fu poi ritenuto degno dall’imperatrice Teodora, su consiglio del Patriarca Ignazio, di istruire nella fede cristiana i Khazari, che abitavano oltre il Chersoneso, i quali avevano chiesto a Costantinopoli ministri idonei nelle cose sacre. Egli accettò tale incarico di buon grado. Pertanto, recatosi in Crimea tra i Tauri, studiò per qualche tempo, come alcuni affermano, la lingua di quel popolo, e nello stesso tempo gli avvenne, e fu ottimo auspicio, di trovare le ceneri di San Clemente I P. M., che non gli fu difficile riconoscere, sia per il ricordo degli anziani, sia per l’ancora con la quale quel fortissimo martire fu gettato in mare per ordine dell’imperatore Traiano e, come si sapeva, successivamente tumulato.  – Impadronitosi di questo tesoro così prezioso, penetrò nelle città e nelle case dei Khazari; i quali, istruiti dai suoi precetti e mossi dalla grazia di Dio, distrutte le tante superstizioni, furono da lui condotti a Gesù Cristo. Ottimamente costituita questa nuova comunità cristiana, egli diede una memorabile prova di temperanza e di carità, rifiutando tutti i doni offerti dagli indigeni, eccettuato l’affrancamento degli schiavi che professassero il Cristianesimo. Poscia Cirillo ritornò rapidamente a Costantinopoli e si rinchiuse nel monastero di Policrone, nel quale Metodio si era già ritirato. Frattanto la fama delle cose da lui felicemente operate presso i Khazari era giunta a Ratislao, Principe della Moravia. Questi, mosso dall’esempio dei Khazari, chiese all’imperatore Michele III alcuni operai evangelici di Costantinopoli; né ebbe difficoltà ad ottenere quello che richiedeva. Pertanto, la virtù nobilitata da tanti fatti e la manifesta volontà che Cirillo e Metodio avevano di giovare al prossimo fecero sì che essi venissero destinati alla missione nella Moravia. Mentre viaggiavano per la Bulgaria, già iniziata alla Religione cristiana, in nessun luogo si lasciarono sfuggire l’opportunità di diffondere la religione. Incontrati ai confini del Principato da gran moltitudine di popolo, furono ricevuti in Moravia da moltissima disponibilità e con straordinaria gioia. Né tardarono un momento dall’intraprendere ad educare gli animi nelle dottrine cristiane ed a confortarli con la speranza dei beni celesti. Ciò fecero con tanta efficacia e con tanto operoso impegno, che in poco tempo il popolo Moravo abbracciò con tutto l’animo la religione di Gesù Cristo.  – A tale opera non poco giovò la conoscenza della lingua Slava, che Cirillo aveva imparato prima, e molto servirono i libri del nuovo e dell’antico Testamento che egli aveva tradotto nella lingua di quel popolo. Per la qual cosa tutta la nazione degli Slavi deve moltissimo a questo uomo, poiché da lui ricevette non solo il beneficio della Fede cristiana, ma anche quello della civiltà: infatti Cirillo e Metodio trovarono per primi quelle lettere con le quali è rappresentata ed espressa la lingua Slava, della quale, non a torto, sono ritenuti i padri. – Da così lontane e separate province la fama aveva recato a Roma il felice annunzio di quelle imprese. E avendo Nicolò I, Pontefice Massimo, ordinato ai due ottimi fratelli di venire a Roma, questi senza indugio obbedirono e, messisi in viaggio per Roma, portarono con sé le reliquie di San Clemente. A tale notizia, Adriano II, che era succeduto al defunto Nicolò, accompagnato dal Clero e dal popolo per testimoniare un grande onore, uscì incontro agli illustri ospiti. Il corpo di San Clemente, glorificato da improvvisi prodigi, con solenne pompa fu portato nella Basilica innalzata al tempo di Costantino sui ruderi della casa paterna del coraggiosissimo martire. Poi Cirillo e Metodio, presente il Clero, resero conto al Pontefice Massimo dell’Apostolica missione alla quale santamente e laboriosamente si erano dati. E poiché fu loro contestato che avevano operato contro il costume degli antichi e contro regole santissime, in quanto avevano usato la lingua Slava negli uffici sacri, addussero ragioni così forti e sicure che il Pontefice e tutto il Clero li lodarono ed approvarono.  – Allora ambedue, dopo aver fatto, secondo la formula cattolica, la professione di fede e aver giurato che si sarebbero mantenuti fedeli al Beato Pietro e ai Romani Pontefici, furono creati e consacrati Vescovi dallo stesso Adriano, e molti loro discepoli furono iniziati a vari gradi dei sacri Ordini. – Era però divinamente stabilito che Cirillo finisse in Roma il corso della sua vita il 14 febbraio 869, maturo più nella virtù che negli anni. Furono fatti pubblici funerali, e con magnifico apparato, quello stesso che si usa per i Romani Pontefici; fu posto con ogni onore in quel sepolcro che Adriano aveva preparato per se stesso. Il sacro corpo del defunto, poiché il popolo romano non permise che si trasportasse a Costantinopoli, benché ne facesse accorata domanda la madre, fu portato alla Chiesa di San Clemente e sepolto vicino alle ceneri di questi, che Cirillo aveva per tanti anni custodite con venerazione. E mentre si portava la sua salma per la città, tra il canto solenne dei salmi, con una pompa piuttosto di trionfo che di funerale, parve che il popolo romano volesse tributare all’uomo santissimo un saggio degli onori celesti.  – Ciò fatto, Metodio, per ordine e sotto gli auspici del Pontefice Massimo, ritornò Vescovo in Moravia, ad esercitarvi i consueti uffici del ministero apostolico. In quella provincia, divenuto con tutto l’animo un esemplare del gregge, si diede tutto agl’interessi cattolici con uno zelo che cresceva di giorno in giorno; resistette fortemente a faziosi innovatori, perché con insane opinioni non guastassero il nome cattolico; istruì nella religione il principe Suentopolco che era succeduto a Ratislao; ammonì il medesimo, che non curava il proprio dovere, lo riprese e infine lo punì con l’interdetto da ogni cosa sacra. Per tali motivi si attirò l’odio dell’empio e impurissimo tiranno, dal quale fu cacciato in esilio. Ma richiamato dopo poco tempo, con opportune esortazioni ottenne che il Principe desse segno di ravvedimento e comprendesse il bisogno di riacquistare con un nuovo tenore di vita l’antico comportamento. È poi meraviglioso che la vigilante carità di Metodio, superati i confini della Moravia, come già ai tempi di Cirillo era arrivata ai Croati e ai Serbi, così ora abbracciava gli Ungari, il cui Principe, di nome Cocelo, egli istruì nella Religione cattolica e mantenne nella carica; i Bulgari, i quali unitamente al loro re Bogoris confermò nella fede cristiana; i Dalmati, con i quali divideva e ai quali comunicava i celesti carismi, e i Carinzi, per i quali molto operò al fine di condurli alla conoscenza ed al culto dell’unico vero Dio.  – Ma ciò gli procurò dei guai. Infatti, alcuni della nuova comunità cristiana, portando invidia ai fatti preclari e alla virtù di Metodio, intervennero presso Giovanni VIII, successore di Adriano, accusando lui, innocente, di sospetta fede e di violata tradizione dei maggiori, i quali nelle sacre funzioni avevano solitamente usato soltanto la lingua latina o la greca, e nessun’altra. Allora il Pontefice, assai preoccupato dell’integrità della fede e dell’antica disciplina, comandò a Metodio di recarsi a Roma per difendersi e liberarsi delle accuse. Questi, sempre pronto a obbedire e confortato dalla testimonianza della propria coscienza, nell’anno 880, presentatosi dinanzi a Giovanni, ad alcuni Vescovi ed al Clero urbano, facilmente provò che egli aveva sempre professato ed insegnato quella fede che, in presenza di Adriano e con la sua approvazione, aveva dichiarato e confermato con giuramento presso il sepolcro del Principe degli Apostoli. Quanto alla lingua Slava, usata nelle sacre funzioni, lo aveva fatto per giuste ragioni, con il consenso dello stesso Pontefice Adriano, non contraddicendovi le Sacre Scritture. Con tale discorso egli si liberò da ogni sospetto, tanto che il Pontefice subito lo abbracciò, e di buon grado gli conferì la potestà arcivescovile e approvò la sua missione nella Slavonia.  – Inoltre, scelti alcuni Vescovi che dovevano dipendere da Metodio, e della cui opera egli si sarebbe giovato nell’amministrazione delle cose sacre, il Pontefice, munitolo di lettere commendatizie, lo rimandò in Moravia con pieni poteri. Tutte queste cose il Sommo Pontefice volle poi confermare con lettere mandate a Metodio, quando di nuovo egli dovette subire l’invidia dei malevoli. – Pertanto, sicuro nell’animo, unito con strettissimo vincolo di carità e di fede al Sommo Pontefice e alla Chiesa Romana, Metodio perseverò con sempre maggior impegno ad espletare la missione assegnatagli; né il positivo frutto della sua opera si fece a lungo desiderare. Infatti, avendo dapprima egli stesso condotto alla fede cattolica Borzivoio, Principe dei Boemi, e poscia Ludmilla, sua moglie, con l’aiuto di un sacerdote, in breve ottenne che fra quella gente il nome cristiano si divulgasse assai e per ogni dove. – Nello stesso tempo si adoperò per introdurre la luce del Vangelo nella Polonia, dove entrò e dove fondò la sede episcopale di Leopoli, dopo avere attraversato la Galizia. Successivamente, come alcuni raccontano, recatosi nella Moscovia propriamente detta, fondò il trono pontificale di Kiev. Con questi allori non certo caduchi, tornò ai suoi in Moravia. Sentendo avvicinarsi la morte, scelse il proprio successore, e dopo avere esortato alla virtù il Clero e il popolo con le ultime raccomandazioni, placidamente uscì da quella vita che per lui era stata la via verso il cielo. – Come Roma pianse Cirillo, così la Moravia pianse la morte di Metodio; celebrò con dolore la sua perdita e onorò in tutti i modi i suoi funerali.  – Di questi fatti, Venerabili Fratelli, torna a Noi graditissimo il ricordo; Ci commuoviamo non poco quando osserviamo splendidamente iniziata fin da tempi remoti l’unione delle genti Slave con la Chiesa Romana.  – Effettivamente questi due propagatori del nome cristiano, dei quali abbiamo parlato, se ne andarono da Costantinopoli presso popoli pagani, tuttavia fu necessario che la loro missione fosse interamente comandata da questa Sede Apostolica, centro dell’unità cattolica, o regolarmente e santamente approvata, come fu fatto più volte. Infatti qui, nella città di Roma, essi resero ragione dell’opera intrapresa e risposero alle accuse; qui, presso i sepolcri di Pietro e Paolo effettuarono il giuramento della Fede cattolica e ricevettero la Consacrazione episcopale, insieme con il potere di costituire la sacra Gerarchia, conservando la diversità degli Ordini.  – Infine, qui fu autorizzato l’uso della lingua Slava nei santissimi riti, e quest’anno si compie il decimo secolo dacché Giovanni VIII, Pontefice Massimo, scrisse a Suentopolco, Principe della Moravia, queste parole: “Approviamo giustamente che le lodi dovute a Dio risuonino nella lingua slava, e comandiamo che nella medesima lingua si narrino gli elogi e le opere di Gesù Cristo Signor Nostro. Né alcunché si oppone alla sana fede o alla dottrina, sia che si cantino le messe nella stessa lingua slava, si che si leggano il santo Vangelo o le lezioni divine del Nuovo e Antico Testamento, bene tradotte ed interpretate, e si salmeggi nelle altre ore della ufficiatura”. Dopo molte vicende, Benedetto XIV sanzionò tale consuetudine con lettera apostolica del 25 agosto 1754. I Pontefici Romani, poi, tutte le volte che furono richiesti di aiuto dai Principi che comandavano sui popoli convertiti al cristianesimo per opera di Cirillo e Metodio, non permisero mai che si avesse a desiderare la loro benignità nel soccorrere, la loro umanità nell’istruire, la loro benevolenza nel consigliare, la loro buona volontà in tutte le cose che potevano. Fra gli altri, Ratislao, Suentopolco, Cocelo, santa Ludmilla, Bogoris sperimentarono, secondo le circostanze e il tempo, l’insigne carità dei Nostri Predecessori.  Né con la morte di Cirillo e di Metodio cessò o si indebolì la paterna sollecitudine dei Romani Pontefici per i popoli Slavi, ma sempre rifulse nel tutelare presso di loro la santità della religione e nel conservare la prosperità pubblica. Infatti Nicolò I mandò da Roma, presso i Bulgari, sacerdoti che istruissero il popolo, e i Vescovi di Populonia e di Porto perché ordinassero quella nuova comunità di cristiani. Del pari, a proposito delle frequenti controversie dei Bulgari intorno al diritto sacro diede amorevolissime risposte, nelle quali anche coloro che per nulla sono favorevoli alla Chiesa Romana, lodano ed ammirano la somma prudenza. E dopo la luttuosa calamità dello scisma, è merito di Innocenzo III l’avere riconciliato con la Chiesa Cattolica i Bulgari; e poi di Gregorio IX, di Innocenzo IV, di Nicolò IV, di Eugenio IV di averli mantenuti nella compiuta riconciliazione. Similmente verso i popoli della Bosnia e dell’Erzegovina, ingannati dal contagio di prave opinioni, in modo insigne risplendette la carità dei Nostri Predecessori, cioè di Innocenzo III e di Innocenzo IV, i quali si adoperarono per sradicare l’errore dagli animi; di Gregorio IX, Clemente VI e Pio II, che si adoperarono per fermare stabilmente in quelle regioni i gradi della sacra gerarchia. – Né si deve credere che Innocenzo III, Nicolò IV, Benedetto XI e Clemente V abbiano rivolto piccola od ultima parte delle loro cure ai Serbi, dai quali tennero provvidissimamente lontane le frodi, escogitate astutamente per contaminarne la Religione. Anche i Dalmati e i Liburni, per la costanza nella fede e per l’adempimento dei loro doveri, si meritarono singolare favore e grandi lodi da Giovanni X, Gregorio VII, Gregorio IX e Urbano IV. Infine, nella stessa Chiesa di Srijem, distrutta nel sesto secolo da invasioni barbariche e successivamente ricostruita con amorosa pietà da Santo Stefano I, re dell’Ungheria, sono molti i monumenti della benevolenza di Gregorio IX e di Clemente XIV. – Pertanto, Ci pare doveroso rendere grazie a Dio che Ci ha offerto l’occasione opportuna di far cosa gradita alla gente Slava e di esserle utile certamente con non minore premura di quella che mostrarono in ogni tempo i Nostri Predecessori. A questo Noi miriamo, questo desideriamo unicamente: di adoperarci in ogni modo affinché tutte le genti Slave vengano istruite dal maggior numero di Vescovi e di Sacerdoti; affinché si confermino nella professione della vera fede, nell’obbedienza alla vera Chiesa di Gesù Cristo e ogni giorno di più sentano per esperienza quanta ricchezza di beni ridondino dalle istituzioni della Chiesa Cattolica sulla società domestica e su tutti gli ordini della cosa pubblica. – Quelle Chiese certamente esigono gran parte delle Nostre cure; né vi è cosa che più desideriamo quanto il provvedere alla loro comodità e alla loro prosperità, a unirle tutte a Noi con quel perpetuo legame di concordia che è il massimo e migliore vincolo di salute. Resta che Iddio, ricco di tutte le misericordie, arrida ai Nostri propositi e assecondi quanto abbiamo intrapreso. Frattanto Noi poniamo quali intercessori presso di Lui Cirillo e Metodio, maestri della Slavonia, dei quali, come vogliamo amplificarne il culto, così confidiamo non Ci mancherà il patrocinio celeste. – Pertanto, ordiniamo che il 5 luglio, giorno stabilito da Pio IX di felice memoria, sia inserita nel Calendario Romano e della Chiesa universale e si faccia ogni anno la festa dei santi Cirillo e Metodio con Officio e Messa propria, di rito doppio minore, come venne approvato dalla Sacra Congregazione dei Riti.  – A Voi tutti poi, Venerabili Fratelli, ordiniamo che curiate la pubblicazione di questa Nostra Lettera e comandiate che le cose in essa prescritte siano osservate da tutti i sacri ministri che celebrano l’Ufficio divino della Chiesa Romana, ciascuno nelle proprie chiese, province, città, diocesi e case dei Regolari. Infine vogliamo che per Vostra esortazione e Vostro consiglio, in tutto il mondo si preghino Cirillo e Metodio, perché con quel favore di cui godono presso Dio, in tutto l’Oriente tutelino gli interessi cristiani, implorando costanza per i cattolici e il proposito di riconciliarsi con la vera Chiesa per i dissidenti. – Queste cose, come furono sopra scritte, così comandiamo siano stabili e ferme, nonostante le Costituzioni apostoliche emanate dal Pontefice San Pio V, Nostro Predecessore, e da altri sulla riforma del Breviario e del Messale romano, e nonostante gli statuti e le consuetudini, anche immemorabili, e ogni altra cosa contraria. – Auspice dei doni celesti e pegno della Nostra particolare benevolenza, a Voi tutti, Venerabili Fratelli, e a tutto il Clero e al popolo affidato ad ognuno di Voi, impartiamo con tutto l’affetto nel Signore la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 settembre 1880, anno terzo del Nostro Pontificato.

DOMENICA V DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA V DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La liturgia di questa Domenica è consacrata al perdono delle offese. La lettura evangelica mette in risalto questa lezione non meno che quella d’un passo delle Epistole di S. Pietro, la cui festa è celebra in questo tempo: infatti la settimana della V Domenica di Pentecoste era in altri tempi detta settimana dopo la festa degli Apostoli. – Quando David riportò la sua vittoria su Golia, il popolo d’Israele ritornò trionfante nelle sue città e al suono dei tamburi cantò: « Saul ha ucciso mille e David diecimila! ». Il re Saul allora si adirò e la gelosia lo colpì. Egli pensava: « Io mille e David diecimila: David è dunque superiore a me? Che cosa gli manca ormai se non d’essere re al mio posto? » Da quel giorno lo guardò con occhio malevolo come se avesse indovinato che David era stato scelto da Dio. Così la gelosia rese Saul cattivo. Per due volte mentre David suonava la cetra per calmare i suoi furori, Saul gli lanciò contro il giavellotto e per due volte David evitò il colpo con agilità, mentre il giavellotto andava a conficcarsi nel muro. Allora Saul lo mandò a combattere, sperando che sarebbe rimasto ucciso. Ma David vittorioso tornò sano e salvo alla testa dell’esercito. Saul allora ancor più perseguitò David. Una sera entrò in una caverna profonda e scura, ove già si trovava David. Uno dei compagni disse a quest’ultimo: « È il re. Il Signore te lo consegna, ecco il momento di ucciderlo con la tua lancia ». Ma David rispose: « Io non colpirò giammai colui che ha ricevuto la santa unzione e tagliò solamente con la sua spada un lembo del mantello di Saul e uscì. All’alba mostrò da lontano a Saul il lembo del suo mantello. Saul pianse e disse: « Figlio mio, David, tu sei migliore di me ». Un’altra volta ancora David lo sorprese di notte addormentato profondamente, con la lancia fissata in terra, al suo capezzale e non gli prese altro che la lancia e la sua ciotola. E Saul lo benedisse di nuovo; ma non smise per questo di perseguitarlo. Più tardi i Filistei ricominciarono la guerra e gli Israeliti furono sconfitti; Saul allora si uccise gettandosi sulla spada. Quando apprese la morte di Saul non si rallegrò ma, anzi, si stracciò le vesti, fece uccidere l’Amalecita che, attribuendosi falsamente il merito di avere ucciso il nemico di David, gli annunciò la morte apportandogli la corona di Saul, e cantò questo canto funebre: « O montagne di Gelboe, non scenda più su di voi né rugiada, né pioggia, o montagne perfide! Poiché su voi sono caduti gli eroi di Israele, Saul e Gionata, amabili e graziosi, né in vita, né in morte non furono separati l’uno dall’altro » (Bisogna riaccostare questo testo a quello nel quale la Chiesa dice, in questo tempo, che S Pietro e S. Paolo sono morti nello stesso giorno). – Da tutta questa considerazione nasce una grande lezione di carità, poiché come David ha risparmiato il suo nemico Saul e gli ha reso bene per male, così Dio perdona anche ai Giudei; non ostante la loro infedeltà, è sempre pronto ad accoglierli nel regno ove Cristo, loro vittima, è il Re. Si comprende allora la ragione della scelta dell’Epistola e del Vangelo di questo giorno: predicano il grande dovere del perdono delle ingiurie… « Siate dunque uniti di cuore nella preghiera, non rendendo male per bene, né offesa per offesa » dice l’Epistola. « Se tu presenti la tua offerta all’altare, dice il Vangelo, e ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia la tua offerta davanti all’altare, e va prima a riconciliarti con tuo fratello ». — David, unto re di Israele. dagli anziani a Ebron, prende la cittadella di Sion che divenne la sua città, e vi pose l’arca di Dio nel santuario (Com.). Fu questa la ricompensa della sua grande carità, virtù indispensabile perché il culto degli uomini nel santuario sia gradito a Dio (id.). Ed è per questo che l’Epistola e il Vangelo ribadiscono che è soprattutto quando noi ci riuniamo per la preghiera che dobbiamo essere uniti di cuore. Senza dubbio la giustizia di Dio ha i suoi diritti, come lo mostrano la storia di Saul e la Messa di oggi, ma se esprime una sentenza, che è un giudizio finale, è soltanto dopo che Dio ha adoperato tutti i mezzi ispirati dal suo amore. Il miglior mezzo per arrivare a possedere questa carità è d’amare Dio e di desiderare i beni eterni (Or.) e il possesso della felicità (Epist.) nella dimora celeste (Com.), ove non si entra se non mediante la pratica continua di questa bella virtù.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI: 7; 9 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus.

[Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Ps XXVI: 1 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timébo?

[Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò?]

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus.

[Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Oratio

Orémus.

Deus, qui diligéntibus te bona invisibília præparásti: infúnde córdibus nostris tui amóris afféctum; ut te in ómnibus et super ómnia diligéntes, promissiónes tuas, quæ omne desidérium súperant, consequámur.

[O Dio, che a quanti Ti amano preparasti beni invisibili, infondi nel nostro cuore la tenerezza del tuo amore, affinché, amandoti in tutto e sopra tutto, conseguiamo quei beni da Te promessi, che sorpassano ogni desiderio.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet III: 8-15

“Caríssimi: Omnes unánimes in oratióne estóte, compatiéntes, fraternitátis amatóres, misericórdes, modésti, húmiles: non reddéntes malum pro malo, nec maledíctum pro maledícto, sed e contrário benedicéntes: quia in hoc vocáti estis, ut benedictiónem hereditáte possideátis. Qui enim vult vitam dilígere et dies vidére bonos, coérceat linguam suam a malo, et lábia ejus ne loquántur dolum. Declínet a malo, et fáciat bonum: inquírat pacem, et sequátur eam. Quia óculi Dómini super justos, et aures ejus in preces eórum: vultus autem Dómini super faciéntes mala. Et quis est, qui vobis nóceat, si boni æmulatóres fuéritis? Sed et si quid patímini propter justítiam, beáti. Timórem autem eórum ne timuéritis: et non conturbémini. Dóminum autem Christum sanctificáte in córdibus vestris.”

[Carissimi: Siate tutti uniti nella preghiera, compassionevoli, amanti dei fratelli, misericordiosi, modesti, umili: non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma al contrario benedite, poiché siete stati chiamati a questo: a ereditare la benedizione. In vero, chi vuole amare la vita e vedere giorni felici raffreni la sua lingua dal male e le sue labbra dal tesser frodi. Schivi il male e faccia il bene, cerchi la pace e si sforzi di raggiungerla. Perché gli occhi del Signore sono rivolti al giusto e le orecchie di lui alle loro preghiere. Ma la faccia del Signore è contro coloro che fanno il male, E chi potrebbe farvi del male se sarete zelanti del bene! E anche se aveste a patire per la giustizia, beati voi! Non temete la loro minaccia, e non vi turbate: santificate nei vostri cuori Gesù Cristo”].

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929]

LA PACE

Anche l’Epistola di quest’oggi è tolta dalla I. lettera di S. Pietro. È naturale che, scrivendo ai Cristiani dispersi dell’Asia minore, tenga sempre presente la condizione in cui si trovano: sono pochi fedeli tra numerosi pagani, e sono sotto la persecuzione di Nerone. Come devono diportarsi? devono vivere in stretta unione fra di loro, mediante la misericordia, la compassione, la condiscendenza; essendo stati chiamati al Cristianesimo a render bene per male, affinché abbiano per eredità la benedizione celeste. Non trattino con la stessa misura quelli che fanno loro del male. La vita felice è per chi raffrena la lingua, evita il male e procura di aver pace con il prossimo. Del resto i giusti non sono abbandonati dal Signore, e nessuno può loro nuocere, se sono zelanti del bene. Quanto alla persecuzione, beati loro se hanno a soffrire qualche cosa per la Religione cristiana. Siano, quindi, calmi, senza ombra di timore: onorino, invece, e temano Gesù Cristo. Anche noi, dobbiamo procurare di vivere una vita felice, per quanto è possibile tra le miserie e le persecuzioni di questo mondo. Sforziamoci di vivere in pace, ciò che ci è possibile con l’aiuto di Dio, anche tra le tempeste di quaggiù.

Graduale

Ps LXXXIII: 10; 9

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice super servos tuos.

[O Dio, nostro protettore, volgi il tuo sguardo a noi, tuoi servi]

V. Dómine, Deus virtútum, exáudi preces servórum tuórum. Allelúja, allelúja

[O Signore, Dio degli eserciti, esaudisci le preghiere dei tuoi servi. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XX: 1

Alleluja, alleluja Dómine, in virtúte tua lætábitur rex: et super salutáre tuum exsultábit veheménter. Allelúja.

[O Signore, nella tua potenza si allieta il re; e quanto esulta per il tuo soccorso! Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt. V: 20-24

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nisi abundáverit justítia vestra plus quam scribárum et pharisæórum, non intrábitis in regnum coelórum. Audístis, quia dic tum est antíquis: Non occídes: qui autem occídent, reus erit judício. Ego autem dico vobis: quia omnis, qui iráscitur fratri suo, reus erit judício. Qui autem díxerit fratri suo, raca: reus erit concílio. Qui autem díxerit, fatue: reus erit gehénnæ ignis. Si ergo offers munus tuum ad altáre, et ibi recordátus fúeris, quia frater tuus habet áliquid advérsum te: relínque ibi munus tuum ante altáre et vade prius reconciliári fratri tuo: et tunc véniens ófferes munus tuum.”

(In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Se la vostra giustizia non sarà stata più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli. Avete sentito che è stato detto agli antichi: Non uccidere; chi infatti avrà ucciso sarà condannato in giudizio. Ma io vi dico che chiunque si adira col fratello sarà condannato in giudizio. Chi avrà detto a suo fratello: raca, imbecille, sarà condannato nel Sinedrio. E chi gli avrà detto: pazzo; sarà condannato al fuoco della geenna. Se dunque porti la tua offerta all’altare e allora ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta all’altare e va prima a riconciliarti con tuo fratello, e poi, ritornato, fa la tua offerta).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956).

A PROPOSITO DELLA CARITÀ CRISTIANA

« A proposito della carità cristiana, come stai di coscienza? ». « Quanto alla carità sono a posto: io non faccio del male a nessuno, sono gli altri invece che ne vogliono a me e me ne fanno; non tocco mai roba d’altri, sono gli altri che non rispettano la mia ». Se anche noi siamo tra questi che alla svelta e alla buona accomodano la coscienza su un punto estremamente delicato, rischiamo, secondo il Vangelo di questa Domenica, di finire in compagnia degli Scribi e dei Farisei. Dice infatti Gesù: « Se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Sapete che fu detto in antico: non uccidere, se non vuoi essere condannato. — Ma io vi dico che non basta più non uccidere per non essere condannati: bisogna non adirarsi, non insultare, non tenere rancore. Con questi sentimenti in cuore nessuno può degnamente avvicinarsi all’altare: ritorni indietro prima a riconciliarsi col suo fratello, e poi s’accosti al Signore ». La legge antica di Mosè, scritta per un popolo fanciullo e rozzo, colpiva gli atti e le abitudini esteriori; la legge nuova di Gesù, data ad uomini spiritualmente più sviluppati, colpisce più interiormente. Non basta tagliare la pianta, bisogna svellere dal suolo le recondite radici che la possono rigenerare. Le radici dell’omicidio o d’ogni rissa brutale e cruenta sono la collera e il rancore covati nell’animo. Gesù colpisce il peccato alla sua radice. Osserviamo con umile attenzione il nostro cuore, esaminando se non vi siano rimaste propaggini maligne o parassite pronte a esplodere in parole e in atti che offendono la carità. – Distinguerò tre qualità di cuori umani: cuore malevolo, un poco simile a quello dei farisei, che non fa il male, ma forse lo desidera e ha invidia del bene; cuore benevolo, simile a quello umile e mite di Gesù, pronto a compatire, aperto al soccorso generoso; tra questi due v’è il cuore indelicato che non ha sentimenti maligni, ma neanche le finezze della bontà cristiana. – 1. CUORE MALEVOLO. È quello che si fa un male del bene altrui: come Caino che si rodeva il cuore per la fortuna che toccava ai sacrifici di suo fratello, che riuscivano graditi a Dio. È quello che si fa una malattia della salute altrui: par quasi che il benessere degli altri sia sottratto a lui. È quello che si fa un’umiliazione delle lodi altrui: le sente come un’ombra che oscura le sue ostentate qualità, vorrebbe dissiparle rivelando difetti nascosti, colpe passate, ma senza farsi accorgere del suo malanimo. È quello che si sente lieto quando sopraggiunge qualche danno al prossimo e magari lo compiange ma con parole che nel loro tono tradiscono il maligno piacere che dentro gusta. Agli occhi di chi ha il cuore malevolo le virtù del prossimo prendono l’aspetto odioso del vizio. Ecco una persona pia che frequenta la Chiesa, e vive raccolta e laboriosa nella sua casa: ma agli occhi del malevolo essa è una bigotta ammuffita. Ecco una persona generosa che volentieri offre per le opere buone della parrocchia, per i poveri, per le missioni; ma agli occhi del malevolo essa è una vanitosa che desidera comparire e aspira a qualche ufficio onorifico. Se una persona è prudente e riservata per non mordere la fama di nessuno, subito vien giudicata doppia e infingarda. – 2. CUORE INDELICATO. Senza essere avviluppati da queste malevole radici, ci sono però molti cuori che non hanno delicatezza alcuna verso il prossimo e i suoi diritti. Pagano sempre i loro debiti, è vero: ma non si fanno scrupolo di pagare il più presto possibile, di regolare senza dilazioni infinite la fattura del commerciante. Non pensano gli incomodi che recano, i crucci che impongono, le bestemmie che fanno dire. Altri hanno l’istinto dell’onestà e non ruberebbero un quattrino. Ma se nel saldare un conto s’accorgono d’uno sbaglio in loro vantaggio, si guardano bene dall’avvisare, o dal portare indietro quelle lire che sono tenute indebitamente. Così senza rimorsi rimettono in circolazione le monete false, ingannando gli altri con la scusa di essere stati a loro volta ingannati. Altri ancora non defraudano la mercede agli operai o ai servi; ma credono d’essere furbi economi quando riescono a far lavorare il più possibile e a pagare il meno possibile, approfittando di circostanze speciali per sfruttare il dipendente. Non è economia questa, ma nel Cristianesimo si chiama ingiustizia. Ci sono di quelli che non maltrattano i loro dipendenti: ma non una parola di correzione spirituale, d’amore, di elevazione. Eppure, quanto bene potrebbero fare per la loro posizione sociale se provvedessero un poco anche all’educazione morale delle persone a loro sottomesse! E riguardo all’elemosina non c’è forse molto da rimproverarci? Se si scorge un povero per strada si passa a tempo sul marciapiede opposto e si volge altrove lo sguardo. Se gira di casa in casa la questua per qualche opera urgente della parrocchia, o raccomandata dall’Arcivescovo o dal Papa, ci sono porte sorde che non sentono battere. Ed è Cristo sofferente che chiede per via, è Cristo bisognoso che batte alla porta. – 3. CUORE BENEVOLO. Il gesto della donna pietosa che uscì incontro a Gesù grondante sudore e sangue, e gli asciugò col suo bianco lino il volto adorabile, non sarà più dimenticato. Ma anche la delicata giustizia, la fine carità con cui i cuori benevoli trattano e consolano il prossimo, non sarà mai dimenticata da Gesù. Il Cristiano sa bene che nel prossimo è ancora Gesù, quel Gesù che ha detto di fare agli altri come vorremmo che gli altri facessero a noi; e che ogni delicatezza usata verso il più misero degli nomini la riterrà rivolta verso di Lui. Due cose sa fare il cuore benevolo per conservare la pace, per diffondere la gioia in mezzo al prossimo. Sa sopportare, scusare, accettare volentieri e quasi con gioia tutti quei contrasti che dipendono da diversità di carattere. Soltanto facendo così è possibile la concordia nelle famiglie e tra gli amici. Sa inoltre sopportare, accogliere, accettare volentieri con indulgente affetto i contrasti voluti dal prossimo, non senza qualche malizia. Il cuore benevolo vince il male col bene. – S. Francesco di Paola fabbricava il suo monastero. Egli stesso lavorava come un semplice operaio. Un giorno, che trasportava sulle spalle una trave enorme, incontrò un amico pure gravato d’un peso. « Aiutami, amico! » supplicò il santo. Ma l’altro gli rispose: « Come volete che v’aiuti se io stesso sono insufficiente a portare il mio peso? ». Il santo insisté: « Aiutami, non essere di così poca fede! ». L’altro impietosito lasciò appoggiare la cima della trave enorme sulla sua spalla e la sentì leggera e sopportabile. Anzi sentì che anche il suo peso si era fatto lieve e con sua meraviglia s’accorgeva di camminare più speditamente di prima. Cristiani, se vogliamo che la vita ci diventi facile e gioiosa, curviamoci con carità cristiana verso il peso dei nostri fratelli. – – IL PERDONO. Qual è il comandamento più difficile della nostra santa religione? Non la verginità. Gesù l’ha insegnata ma non l’ha imposta a tutti. Le anime generose sono libere di consacrarsi a Dio attraverso questo occulto martirio. Non la povertà. Se Gesù dalla montagna disse che i poveri son beati, non comandò però che tutti vendessero la loro roba per distribuire il danaro ai poveri, ritirarsi poi negli eremi o nei conventi. Il comandamento più difficile del Cristianesimo è l’amore dei nemici. Questo è per tutti: non solo i frati, non solo le monache, ma tutti devono amare e perdonare ai loro nemici. – Gesù diceva alle turbe: « Avete sentito che bisognava amare il prossimo e si poteva odiare il nemico; ma Io vi dico: amate i vostri nemici, beneficate quelli che vi odiano, pregate per i vostri persecutori e calunniatori. Se la vostra giustizia sarà solo come quella dei farisei che amano gli amici e odiano i nemici, non entrerete mai nel paradiso. E quand’anche venite all’altare, con nelle mani un dono e con nel cuore un astio, tornate pure indietro che la vostra supplica non sarà ascoltata fin tanto che non avrete pace col vostro fratello ». Vade reconciliari fratri tuo. E non dice Cristo: … reconciliari inimico tuo perché tra i Cristiani, figli del medesimo Dio di carità, non dovrebbe esistere nemmeno la parola nemico, ma solo quella di fratello. Se alcuno nel suo cuore nutre un rancore, consideri come l’esempio di Dio, l’esempio dei santi, il nostro guadagno stesso ci spingono a perdonare. – 1. L’ESEMPIO DI DIO. Un re volle un giorno tirare i conti con i ministri. E cominciò da uno che gli doveva mille talenti; ma il poveretto non aveva nemmeno il becco di un quattrino. Il re, come era legge, comandò che fosse venduto lui, la sua donna, i suoi figli, la sua roba. Lo sventurato si buttò a terra, s’aggrappò ai ginocchi del sovrano, e tra i singhiozzi giurava che gli avrebbe reso fino l’ultimo soldo, purché avesse avuto pazienza d’aspettare. Il re, che aveva un Cuor d’oro, non solo pazientò un poco, ma sempre: e gli condonò tutto il debito. Quel ministro fece un salto di gioia e uscì. Combinazione volle che incontrasse un suo collega che gli doveva una somma di denari. Vederlo, saltargli addosso, fu la medesima cosa. E tenendolo per la strozza gli urlava negli orecchi: « Pagami, che è ora ». Quel servo, soffocato e nero in quella morsa, gemeva : « Porta pazienza e vedrai che ti pagherò proprio tutto ». Ma il ministro lo fece imprigionare (Mt., XVIII).  Questa limpida parabola del Signore ci presenta come in uno specchio l’esempio della generosità di Dio e della grettezza umana. Estote misericordes sicut et Pater vester misericors est (S. Lc., VI, 36). Siate misericordiosi come Dio. Come Dio che pendente dalla croce, schernito e scarnificato, stende le sue braccia per stringere in un palpito d’amore i suoi crocifissori e grida: « Padre, perdona! ». Solo Dio poteva dare quest’esempio. E ce lo diede affinché gli uomini imparassero. Ma se gli uomini non l’impareranno, neppure a loro verrà perdonato. – 2. L’ESEMPIO DEI SANTI. Perché l’esempio di un Dio non sembrasse a taluni troppo lontano dalla natura nostra piccina, il Signore suscitò i Santi a praticare il comandamento dell’amore più sublime. E Santo Stefano, lapidato fuori le mura della città, congiunse le mani e pregò per quelli che l’uccidevano. E Sant’Ambrogio, per molti anni, diede il vitto ad uno che l’aveva aggredito. E san Carlo perdonò all’uomo brutale che aveva sparato contro di lui mentre pregava la Vergine nella cappella. E sublime è pure il perdono di S. Giovanna d’Arco, la fanciulla venuta di Lorena a salvare la Francia dagli Inglesi. La povera Giovanna, dopo aver levato l’assedio d’Orléans, dopo aver condotto Carlo VII di trionfo in trionfo fino all’incoronazione di Reims, fu disprezzata, abbandonata e tradita. Dio ormai le significava che la sua missione era compiuta: solo, mancava il supremo sacrificio della vita. A Compiégne fu fatta prigioniera, venduta agli Inglesi, che la condannarono al rogo. Ed apparve sulla piazza a Rouen a solo diciott’anni condannata a morire e non tremava: e non venne nessun francese a salvarla, e non venne il re a salvarla; il re banchettava lontano senza un palpito di compassione per la fanciulla venuta di Lorena a salvare la Francia e la corona. Quando le fiamme avvolsero in una tormentosa aureola quelle membra innocenti, ella alzò gli occhi pieni di speranza, e gridò a voce alta che perdonava al re, ai Francesi, ed anche agli Inglesi che la bruciavano. Si isti et istæ cur non ego? Ma io non posso vincere la ripugnanza che sento a perdonare a quella persona …  » — Esagerazione, risponde S. Gerolamo, Dio non comanda cose impossibili. Ma quella persona mi ha fatto del male! ». — Non c’è bisogno di perdonare a quelli che ci fan del bene. « Ma cosa dirà il mondo? ». — Dirà che siete un Cristiano. « Ma il mio onore? ». — Il vostro onore è nell’obbedienza a Dio. « Ma quella persona non merita il mio perdono! ». — L’ha meritato Gesù Cristo. Non dobbiamo perdonare perché meritano il nostro, perdono, ma perché Gesù Cristo l’ha detto: Ego autem dico vobis: diligite inimicos vestros.« Ma approfitterà del mio perdono per diventar peggiore ».— Sia pure: ma voi diventate migliore. – 3. IL NOSTRO GUADAGNO. Plinio racconta che Druso, tribuno della plebe, odiava Quinto Cepione; andava lungo il Tevere meditando la vendetta; voleva ucciderlo, voleva coprirlo di calunnie. E l’odio l’accecò: volle bere il veleno, pensando che tutto il popolo avrebbe imputato la sua morte a Quinto, e ne avrebbero fatto giustizia sommaria. Chi non perdona è stolto come Druso, e ingoia la sua condanna: una triplice condanna. La condanna da parte di Dio, perché viola il suo comando principale. Mihi vindicta (Ebr., X, 30). La condanna da parte di Cristo, perché rifiuta il distintivo dei suoi discepoli. hoc conognoscent omnes quia discipuli mei estis. (Giov., XIII, 35). La condanna da parte di noi stessi, ed ogni volta che preghiamo ripetiamo la condanna. Dimitte nobis sicut et nos dimittimus (Mt., VI, 12). E Dio dirà: De ore tuo, te iudico. Dopo che Giuseppe ebbe sepolto le ossa del vecchio padre sulla terra di Chanaan, ritornò in Egitto con i fratelli. Ma questi cominciarono a temere: « Chi sa dicevano, che morto il padre, non si abbia a ricordare dell’antica ingiuria e non voglia renderci tutto il male che abbiamo fatto? » (Genesi, L, 14-17). E, tremando, gli mandarono a dire: « Tuo padre, morendo, ti chiamava per nome per scongiurarti di perdonare ai tuoi fratelli… È tuo padre morente che ti prega… » Giuseppe, al ricordo del padre morto, scoppiò in lacrime, e disse: « Non temete: Io nutrirò voi e i vostri figli ». Cristiani, che nel cuore, forse da anni, nutrite un astio, o un odio, o una vendetta contro il vostro prossimo, perdonate! È Gesù Cristo morente che ve lo manda a dire. — I PECCATI CONTRO IL PROSSIMO. Oltre all’omicidio e al furto ci sono altri peccati che offendono il prossimo, e ci tolgono la grazia. Udite la parola di Gesù: « Se la vostra giustizia sarà appena come quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete sentito che c’è un comandamento: non uccidere: chi uccide è reo di giudizio. Ma io vi dico che basta essere in ira col proprio fratello per diventare colpevoli. Basta dirgli un insulto per essere condannati. Basta un’ingiustizia per meritarsi il fuoco della geenna. Se taluno nell’avvicinarsi all’altare sentirà d’aver qualche cosa contro il suo prossimo, prima vada a far pace, e poi ritorni a far l’offerta, che allora soltanto sarà gradita ». Dunque, in noi nulla deve essere ostile al prossimo: non il cuore, non la mente, non la bocca. Non il cuore con l’odio, non la mente col giudizio temerario, non la bocca con la mormorazione e la calunnia. Questo è l’insegnamento nuovo di Gesù. Chi lo rifiuta, non è Cristiano, perché i Cristiani — secondo la definizione di Cristo — son quelli che si amano tra di loro. – 1. NON IL CUORE CON L’ODIO. La mattina della Pentecoste del 1066, per ragione della sua fede, il diacono Arialdo fu orribilmente percosso e ferito nella chiesa della Metropolitana, così che per la città s’era sparsa la voce che fosse morto. Gli amici del santo ed i suoi seguaci, riavutisi dal primo sgomento, accorrono a salvarlo. Insanguinato e fuori dei sensi lo trasportano nella vicina chiesa di Rosone, ora detta di S. Sepolcro. Intanto, sotto l’atrio e sulla piazza, s’affollano migliaia di ardenti e valorosi Milanesi, in arme, pronti a combattere per la salute d’Arialdo e per l’integrità della fede cattolica e romana. Già da tutti si anelava alla rivincita, già Erlembaldo Cotta « che aveva gli occhi d’aquila e il petto di leone » sventolava il temuto vessillo di Pietro, simbolo certo di vittoria, già si pregustava il piacere di una giusta vendetta, quando apparve in mezzo Arialdo. Aveva fasciata la testa e ancora grondava sangue. « Figliuoli! » gridò, reggendosi a stento sulla persona dolorante. « Figliuoli, amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano. Per il grande mistero che oggi celebriamo, per il precetto che Cristo ci diede, vi prego e vi comando: deponete le armi. Fate la pace ». (PELLEGRINI, I santi Arialdo ed Erlembaldo, pag. 320). Ecco come agivano i santi! Ecco come dobbiamo agire noi, se, come i santi, vogliamo essere gli imitatori di Gesù. Le cause principali dei rancori che dividono gli uomini sono tre: l’antipatia, l’interesse, la superbia. a) Io non gli perdono, — dicono alcuni — perché ha un carattere che m’è insopportabile, la mia anima si ribella al solo vederlo ». Un Cristiano non si deve lasciar guidare dalla simpatia o dal bello o dal brutto umore, ma bensì da principii di fede. E la fede c’insegna che per quanto ci spiaccia, per quanto non sia di nostro gusto, tuttavia è nostro fratello, come noi è figlio di Dio, come noi è cittadino del cielo, come noi salvato da Gesù, come noi erede delle eterne promesse. b) « Io non gli perdono, — dicono altri ancora — perché mi ha rovinato negli interessi, ha rubato il pane a’ miei figlioli, ha tentato di rovesciare la mia fortuna ». Sia pure: ma alimentando l’odio in cuor vostro, credete forse di guadagnare? Per consolarvi dei mali patiti, ve ne aggiungete un altro e gravissimo: la perdita della vostra anima. Sì, perché sta scritto che colui che non perdona, non sarà perdonato. Per vendicarsi di un’eredità terrena che vi è stata contesa, voi rifiutate la eredità eterna. c) « Io non gli perdono, — dicono infine altri — perché mi ha disonorato in pubblico e in privato: ha divulgato ciò che era segreto, mi ha addossato colpe immaginarie ». Prima di tutto domandatevi se il vostro prossimo non abbia diritto di muovere questi medesimi rimproveri contro di voi, domandatevi se non avete mai malignato sulla buona fama degli altri. E poi, con l’odio, potete cancellare le impressioni sinistre che quei discorsi hanno diffuso? Non è forse meglio rispondere alle cattive lingue col mostrare una condotta irreprensibile piuttosto che col rancore? Certo che perdonare ai nostri offensori, chiunque siano, è un atto che costa. Se non costasse nulla non c’era nemmeno bisogno che Gesù Cristo ce ne facesse un comandamento. – 2. NON LA MENTE CON IL GIUDIZIO TEMERARIO. Un arguto filoso cinese (Lich Tze) ci racconta questo casetto: « Un tale che aveva perduto un’accetta cominciò a nutrire dei sospetti sul figlio del vicino. Senza farsi accorgere, lo teneva d’occhio: il modo di camminare, l’aspetto, le parole, le movenze, gli sembravano proprio quelle di un ladro. Non c’era nemmeno da dubitare. Per caso un giorno, vuotando la fossa del concime, ritrovò l’accetta perduta. Allora tornò a guardare il figlio del vicino: il modo di camminare, l’aspetto, le parole, le movenze, gli sembrano in tutto e per tutto quelle di un gentiluomo ». Credo che non solo in Cina, ma anche altrove avvenga così. È troppo facile lasciarsi andare a giudizi precipitati! Si incontra, in un giorno d’allegria, un uomo un po’ alticcio, e subito si dice: quello è un ubriacone. Una mancanza che pensavamo fatta in segreto viene a sapersi in pubblico; si sospetta di qualche persona e subito si giudica: è una spia. Si è vista, una volta o due, una donna che nelle strette della miseria ha preso qualche frutto dal campo d’un vicino, e tosto si pensa: è una ladra. C’è un povero che sul cammino ci domanda un soldo d’elemosina, lo si guarda e si conclude: — deve essere un impostore che al suo paese ha casa e terra al sole — e non gli si dà niente. Ebbene, quelli che si comportano così hanno la mente contraria al prossimo. « Perché giudichi il tuo fratello? — scrive S. Paolo. — Perché lo disprezzi? Chi te ne ha dato il diritto? Un giorno tutti staremo alla pari davanti al tribunale di Cristo » (Rom., XIV, 10). Non giudicare che allora non sarai giudicato. – 3. NON LA BOCCA CON LA MORMORAZIONE. Inventare un difetto o una colpa, per togliere l’onore al prossimo, è un atto così vile e ripugnante, di cui tutti sentono la gravità. Invece non tutti sentono la gravità della mormorazione. « Ma io ho detto soltanto la verità ». Non basta per iscolparti. Quante cose, pur vere, sul conto tuo che non vuoi che gli altri mettano in circolazione! « Ma erano cose che si sapevano già da tutti ». Se si sapevano da tutti, era proprio inutile che le avessi a contare un’altra volta. E invece tu hai goduto delle cadute altrui, tu con piacere diabolico le vai dipingendo a vivi colori dinanzi agli occhi degli altri. È un peccato di superbia la mormorazione; perché ci svela la pagliuzza che è nell’occhio del prossimo e ci nasconde la trave ch’è nel nostro. È un peccato di bassa invidia, perché ci spinge a macchiare e sminuzzare l’onore di quelle persone che ci fanno ombra. È una malignità a sangue freddo, perché va a colpire una persona assente che non può difendersi. È un peccato di scandalo, perché trascina al male quelli che ascoltano. È un peccato d’ingiustizia perché ruba al prossimo quello che gli è più caro: l’onore. Quando la lingua diventa nera e virulenta — ha detto un medico dell’antichità — la morte è vicina. Ebbene, si vedono persone che vanno in chiesa, ascoltano la Messa, recitano il Rosario: eppure la loro lingua è nera per la mormorazione e velenosa come un serpente. Cattivo segno, perché sulla loro anima sta la condanna di Gesù: Reus erit gehennæ ignis. – Condussero davanti a Gesù un’anima caduta in grave peccato. Gesù poteva odiarla perché aveva offeso la sua divina maestà; poteva giudicarla perché aveva infranto la legge più sacra; poteva parlare male di lei che male aveva agito. Eppure si curva sulla terra in un silenzio grande. « Pronuncia la tua sentenza, Maestro! » urlavano gli Scribi e i Farisei. Costretto da quelle insistenze, il Signore si drizza ed esclama: « Chi tra voi è senza peccato, per primo scagli la pietra contro di lei ». O Cristiani! se ancora non vi siete persuasi che nulla in voi vi deve essere contrario all’amore del prossimo, né il cuore né la mente né la bocca, io vi ripeterò la parola di Gesù: « Se la vostra coscienza non vi rimprovera nulla davanti a Dio, scagliate pure la vostra pietra contro il vostro fratello ». – Ma perché questa condanna d’insufficienza alla giustizia degli Scribi e dei Farisei? Per due motivi che raccomando alla vostra attenzione: 1) perché curavano soltanto le apparenze; 2) perché dicevano e non facevano. – 1. CURAVANO SOLTANTO LE APPARENZE In una delle sue prediche, S. Antonio di Padova raccontava questo episodio. Una giovane figliuola commise un giorno un peccato molto grave che la gettò in uno stato indicibile d’amarezza, di confusione, di inquietudine. « Come avrò io il coraggio di raccontare questa nefandezza al mio confessore? Che penserà di me? Che dirà egli? ». Intanto si confessa senza dire tale colpa: si accosta sacrilegamente alla santa Comunione, lacerata da terribili rimorsi. Si trova come in un inferno. Agitata giorno e notte dai rimproveri della coscienza e dal timore di dannarsi, per esserne liberata si dà alle lagrime, ai digiuni, alla preghiera… ma invano! La memoria dei suoi sacrilegi le sta sempre nel cuore come una lama che tremi nella piaga. Le viene il pensiero di entrare in convento, farsi monaca ed ivi fare una confessione generale; e infatti vi entra e comincia la confessione. Ma tosto assalita dalla vergogna, accenna alla sua colpa in una maniera così indeterminata che il confessore non poté capir nulla. La sua agitazione divenne insopportabile, e implacabile, per quanto facesse di penitenze e di preghiere. E tutte le sue consorelle la stimavano per una santa; a lei ricorrevano per consigli e direzione e finalmente la elessero loro superiora. Continuando in questa vita ipocrita, fu sorpresa da grave malattia e ridotta in fin di vita. Poteva confessarsi, almeno allora, ma non lo fece per la maledetta vergogna di farsi conoscere così come era. Qualche giorno dopo la sua morte, stando le religiose in orazione per lei, apparve loro in sembianze orribili e disse: « Mie sorelle, non pregate per me; io sono dannata all’inferno per aver sempre taciuto un peccato commesso nell’età di diciotto anni e per essermi tante volte accostata sacrilegamente alla santa Comunione ». Che cosa le era giovata tutta l’ammirazione e la stima delle sue consorelle? Cosa le era fruttato l’essere stata eletta superiora con quei sacrilegi sull’anima? E che importa a noi apparire esternamente buoni, zelanti della legge di Dio, quando nel cuore avessimo il peccato, l’inclinazione sempre assecondata al vizio? Anche le tombe all’esterno sono sontuose, forse artistiche e di grande valore: ma a che serve questa arte per colui che vi è sepolto? Vi accontentereste voi di un piatto all’esterno molto bello, pulito, elegante, ma poi nell’interno sporco e ributtante? E allora stiamo attenti a quello che passa nell’intimo del nostro cuore, altrimenti siamo Scribi e Farisei. – 2. DICEVANO E NON FACEVANO. « Fate pure tutto quello che vi diranno gli Scribi e i Farisei: essi sono i successori di Mosè nell’insegnare la Legge. Ma non fate come essi sogliono fare, perché dicono e poi non fanno » (Mt., XXIII, 1.3). Altro difetto che Gesù rimprovera a questa gente e che non vuole sia commesso dai suoi è la incoerenza, la disuguaglianza tra quello che dicevano e quello che poi di fatto mettevano nella pratica. Ci raccontano S. Epifanio e S. Girolamo, che vissero fra i Giudei, che ancora ai loro tempi c’erano di questi Farisei che continuando le consuetudini dei loro antenati, scrivevano sopra piccole strisce di pergamena le parole della Legge e poi le applicavano alle vesti perché spesso il loro sguardo leggesse i voleri di Dio e perché li avessero a disposizione per dirli agli altri. Ma a che servivano questi accorgimenti esteriori, quando non sapevano praticare i precetti appresi e fatti apprendere agli altri? Anche i demoni dell’inferno conoscono molto bene tutti i comandamenti di Dio! Si presentò, una volta, ad un vecchio anacoreta un giovane tutto pieno di desiderio di perfezione, per chiedergli che dovesse fare per divenire perfetto: « Devi imitare — rispose seriamente il vecchio — i cani da caccia! Quando scorgono una lepre non si accontentano di abbaiare, di far capire che hanno visto la selvaggina, ma la rincorrono con tutta forza, non badano a difficoltà della strada, né si danno pace finché l’abbiano raggiunta. Allo stesso modo devi fare tu riguardo alla santità: tendere ad essa… finché non l’abbia conseguita; così e solo così potrai essere perfetto ». E S. Marciano solitario, sorpreso un giorno nella sua spelonca da un cacciatore, ed interrogato da lui, cosa mai facesse là dentro solo ed ozioso: « E tu — rispose — cosa fai? ». « Io, come vedi, prendo le lepri e i cervi: mia occupazione è la caccia ». « Ed io, in questo luogo, vado a caccia del mio Dio né mai cesserò dall’inseguirlo finché non l’abbia raggiunto in possesso eterno ». Conoscere, dire e poi non fare è il mestiere dei Farisei condannati da Gesù; è il mestiere, per usare, in senso inverso, il paragone forse troppo rude, ma tanto chiaro di quel padre del deserto, di quei cani da caccia che abbaiano quando vedono la lepre o il cervo, ma non fanno un passo per raggiungerli. Paragonateli pure così a quei genitori che dicono ai figliuoli di andare alla chiesa per la S. Messa e per la Dottrina cristiana e loro per i primi non vanno. Fin quando i figli sono piccoli ubbidiranno, perché temono la forza e il castigo; ma lasciate crescere ancora qualche anno e capiranno subito che se i genitori per i primi non fanno quello che dicono, è segno che forse si può anche non ubbidire e accontentare i propri comodi. Anche le nostre campane chiamano il popolo alla Chiesa, mentre esse non vanno: ma le campane non hanno l’anima da salvare. Sulle strade quante volte voi trovate le pietre che dicono al passeggero dove si può andare, da una parte o dall’altra, ma sono forse dei secoli che dicono la stessa cosa e non hanno mai fatto un passo. ma dalle pietre non si pretende di più. Dagli uomini invece il Signore ha il diritto di richiedere le azioni. « Non colui che dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre ». – Per lo stanco pellegrino che attraversa il deserto il vedere da lungi le palme che si innalzano magnifiche verso il cielo è una festa di gioia. In mezzo alle sabbie infuocate, sotto un cielo bronzeo, esse parlano di frescura e di ristoro. E sono e dànno davvero ombra confortatrice le foglie ampie e folte, e sono davvero ristoro i frutti gustosi e nutrienti. Proprio come la palma ha da essere il Cristiano. Deve avere belle le foglie delle apparenze e delle parole, ma soprattutto deve essere « ricco dei frutti delle opere buone. » Iustus ut palma florebit (Ps., XCI,.13).

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XV: 7 et 8. Benedícam Dóminum, qui tríbuit mihi intelléctum: providébam Deum in conspéctu meo semper: quóniam a dextris est mihi, ne commóvear.

[Benedirò il Signore che mi dato senno: tengo Dio sempre a me presente, con lui alla mia destra non sarò smosso.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris: et has oblatiónes famulórum famularúmque tuárum benígnus assúme; ut, quod sínguli obtulérunt ad honórem nóminis tui, cunctis profíciat ad salútem.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche, e accogli benigno queste oblazioni dei tuoi servi e delle tue serve, affinché ciò che i singoli offersero a gloria del tuo nome, giovi a tutti per la loro salvezza.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXVI: 4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. 

[Una cosa sola chiedo e chiederò al Signore: di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita].

Postcommunio

Orémus.

Quos cœlésti, Dómine, dono satiásti: præsta, quæsumus; ut a nostris mundémur occúltis et ab hóstium liberémur insídiis.

(O Signore, che ci hai saziato col dono celeste; fa che siamo mondati dalle nostre occulte mancanze, e liberati dalle insidie dei nemici.)

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (210)

LO SCUDO DELLA FEDE (210)

LA VERITÀ CATTOLICA (VII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. E libr. Sales. 1878

Torino, Tip. E libr. Sales. 1878

ISTRUZIONE VIII.

Creazione della terra – delle piante – degli animali. La creazione dell’uomo

Nella dottrina la Chiesa col candor d’una madre sicura d’esser ben compresa da’ suoi figliuoli, ci ha già fatto conoscere che Dio colla sua onnipotenza creò il cielo e la terra, le creature cioè visibili ed invisibili. Io vi ho già parlato di Dio, Che creò gli Angeli; ora vi debbo spiegare che Dio creò la terra e le cose, che vi sono in essa. Voi avrete bene scolpita nel cuore la cara verità, che Dio è Padre, e che ama noi uomini proprio coll’amore di Padre Divino. Ebbene, appunto, come i padri preparano tutto il ben che possono pei loro figliuoli, così Dio prima di creare noi, ebbe le cose per noi preparate: ed è così bella cosa e fa tanto bene sapere come Dio dispone le creature in questa terra, prima di crear noi; che Dio medesimo ha la bontà di raccontar proprio colla sua parola, come creò prima la terra, poi le piante e gli animali; e poi creò noi uomini (Il Belasio dimentica – in Genesi (?!) – che dopo la terra, Dio nel IV giorno, creò i luminari del cielo: il sole, la luna, le stelle, i corpi celesti, quando cioè c’era già il firmamento (II giorno), la terra e il mare (III giorno)! Ma forse il Belasio nel suo zelo di divulgatore non si accorgere della plateale eresia che commette sposando l’idiozia dell’eliocentrismo, teoria antibiblica gnostico-esoterica, poi massonica, e non supportata da nessuna concreta prova scientifica! Secondo il suo esposto, Dio Spirito Santo – Autore delle Sacre Scritture secondo il Concilio di TRENTO – si è sbagliato nel non avere seguito le teorie del big ben, dell’eliocentrismo, della vorticosa rotazione terreste, della superficie curva dell’acqua, delle palle ruotanti nello spazio, della pressione atmosferica in un mezzo aperto…. e dei tanti assurdi enunciati fantasiosi pseudoscientici … forse per questo la terza Persona della Santissima Trinità non ha mai avuto il premio Nobel come tanti kazari Illuminati!? – ndr. -). Ben io vorrei parlare a cuore a cuore con voi, raccontandovi tanta bontà del Padre nostro Celeste. Ma che volete? Io debbo mettervi in guardia contro dei cattivi, che vorrebbero, tristi! che non s’adorasse, anzi neppur si pensasse che vi sia Dio; quasi le cose si fossero fatte da loro sole, per forza di natura, cercando d’imbrogliarvi la mente con parole oscure. Io vi mostrerò col candor della parola divina: come Dio in bell’ordine creata la terra: creò le piante, gli animali; poi creò noi uomini, per adorarlo in nome di tutto il creato nel tempo, e per adorarlo beati per sempre nell’eternità. O Gesù, Salvatore benedetto, datemi la chiarezza e la carità della vostra così santa, tanto sublime, ma tanto chiara parola, da farmi intendere anche ai più semplici. E voi, o Maria SS. fatemi parlare a questi figliuoli colla cara semplicità d’una madre, affinché possa scolpire loro ben in cuore questa grande verità, che ha da farci bene per tutta la vita — che Dio creato il cielo, creò la terra, le piante, gli animali, creò poi noi ad immagine sua, per adorarlo. Io vi ho dunque da spiegarvi in questa dottrina, ripetetemelo in grazia (si fan ripetere Dio creò la terra, le piante, ecc.). La prima cosa che Dio volle insegnarci e che più importa sapere prima di tutto, è che Dio in principio creò il cielo e la terra in principio creavit Deus cœlum et terram. Sentite poi, come ci dice collasua parola stessa, con qual ordine ebbe create e ordinate tutte le cose. Creata che ebbe la terra, la terra era coperta di tenebre e di acque; e Dio creò la luce; e quindi Egli fece uscire fuori delle acque le montagne e il terreno asciutto (si vede che evidentemente la Bibbia del Belasio avesse mancante la pagina delle creazione dei luminari … il sole, la luna, le stelle, non ne accenna mai, forse ha paura di contraddire la pseudoscienza astronomica…! oh il rispetto umano … – ndr. -); poi dopo creò lepiante e gli animali, e finalmente creò 1’uomo. Ecreò tutto in ordine, in sei tempi diversi o giorni, come li chiama la parola-di Dio.Sarebbe pur bene metterci subito qui a considerare con quant’ordine e con quanta bontà Dio creò tutte le cose. Ma io vi ho detto che vi sono dei cattivi, oh i disgraziati! che si mettono dalla parte del diavolo a far la guerra a Dio, per non farlo adorare. Questi nemici di Dio pur troppo imparano dal demonio l’astuzia di mettersi al coperto, come egli si nascose nel serpente, per ingannare gli imprudenti. Anch’essi ingannano la povera gente con parole oscure. Anche voi li avrete sentiti menar sempre per bocca la parola natura; e sovente li udite a dire: che la natura fa questa, e quest’altra cosa…. e che questa; o quest’altra è una legge di natura. Ma che cos’è mai questa natura? Vel dirò io; la parola natura è una parola che esprime un pensiero: della nostra mente, con cui noi immaginiamo come di mettere insieme nella nostra tutte le cose da Dio create, colle leggi con cui sono da Lui conservate e governate. Adesso vi spiegherò il loro inganno. Coloro colla smania di far dimenticare Iddio, non lo nominano  mai; nominano invece tutte le cose insieme colla parola natura. Fanno credere che la natura faccia tutto da sé, quasi che tutte le cose siano sempre state da loro, e colle lor forze facciano andare in ordine l’universo. Così man mano fatto scomparire dal mondo il nome di Dio, fanno poi dimenticare affatto Dio stesso; e invece di Dio Creatore onnipotente si fanno d’una parola quasi un tal dio fantastico, la natura; quasi le leggi e la forza, con cui Dio conserva il mondo da Lui creato, siano l’onnipotenza di questo fantastico dio natura. Eccovi, pur troppo; che si stampano i libri, nei quali (senza un riguardo al mondo e senza rispetto ai cari nostri giovani che ci tradiscano perfidamente), per insegnare a loro, come sono state fatte le cose, cominciano a dire, senza altra ragione (ma colla sola loro parola, che si dan l’aria di far credere infallibile troppo più che la parola di Dio) ed assicurano lì con tutta sfrontatezza, come se lo sapessero essi di certo, che le materiali cose, cioè questa materia colle sue forze è sempre stata regolata dalle leggi della natura. Ora io vi dirò che è vero che vi sono delle cose materiali create, che appunto si chiamano materia; e Dio stesso ci fa intendere che Egli creò questa materia in principio, quasi preparando il materiale da formarne poi le creature della terra. Dio poi creò la materia così fatta e mise dentro in essa tali forze e disposizioni da poter con esse far stare unite le parti dei corpi, e compor con essi e far andare questo mondo universo. Vi è dunque la materia creata con delle forse a lei unite, e disposte da Dio per ordinare tutto secondo la sua volontà. E qui per spiegare più chiaro vi osserverò, che anche voi avrete ben veduto come due goccioline d’acqua, l’una e l’altra vicine vicine, si uniscono insieme, e sapete anche che alcune gocce d’acqua sparse per terra assorbono la polvere e formano pallottoline di fango. Vi è dunque dentro  di quel po’ di acqua, e dentro la polvere una forza, un’attrazione che le fa unire e stare insieme. Ma per poco che abbiamo di ragione, ben intendiam che è Dio, che mise le materiali cose, per formare con quella materia e con quelle forze queste così svariate creature del mondo. E di fatto. immaginatevi di entrare a visitare un qualche gran laboratorio in cui si fabbricano macchine a vapore. Oh! Quanti vedete, e spranghe, e rocchetti, e piuoli di ottoni e di ferro belli in mille belli modi lavorati; e là una caldaia pel vapor preparata. Veramente, sol che osserviate quei denti e quelle incavature e tutti altri oggetti con bel lavorio così finiti, che pare aspettino d’essere congegnati insieme: voi ben vi accorgete subito che tutte quelle cose son preparate dal macchinista, che aveva in prima in mente (il fine prestabilito) di metterle insieme e formar la macchina a vapore. Egli per questo con lungo studio e grand’ingegno lavorò secondo il disegno, che aveva in mente, ad uno ad uno tutti quegli ingredienti, per congegnarli insieme, e poi mettervi dentro la caldaia e l’acqua, e sotto il fuoco: e con tutto quel gran lavoro far andar la stupenda macchina, che è sempre una meraviglia a vedere. A questo modo voi intendete che Dio, Creatore onnipotente e sapientissimo, creò tutte le particelle della materia e granellini o atomi, come li chiamano; e li creò così ben disposti, e diede lor quelle forze e così adattate da stare insieme, e formare queste cose materiali, i corpi; e con tutto questo ben ordinato insieme, far andar in ordine questa ammiranda immensa macchina del mondo universo. – Or via, mi dite voi: se quando, con un piacere, che è incanto! vedete venire fuori a voi innanzi sbuffando la macchina, quasi tronfia della sua potenza, e tirarsi appresso sulle rotaie sì gran numero di carri; vi balzasse davanti uno stordito a dirvi con gran serietà che non è vero che l’abbia costrutta un gran macchinista; ma che quelle ruote e spranghe e quelle scannellature, e denti tanto ben lavorati erano già stati lì nella terra, senza che nessun l’avesse buttati, e che arrabattandosi si trovarono per caso così ben congegnati; e che allora e la caldaia, e l’acqua, e il fuoco vi saltarono dentro da loro stessi (già, però senza saperlo); e che trovassero le strade con quelle filatezze di ben disposte rotaie di ferro, e tutto per caso; voi per tutta risposta, gli direste « il poverino di pazzo ha dato il cervello a pigione. » Or via, mi dite, quando voi contemplate questo gran mondo di meraviglie tutto pieno di miracoli della sapienza e dell’onnipotenza di Dio: se vi venisse davanti un signor tale in berretto e robone da professore, con un’aria da stralunato, per farsi intendere che studiò tanto tanto! e con una serietà da far ridere, e vi leggesse in un suo libro (ascoltate la gran sapienza), che egli sa che tutte le cose in prima erano una nebulosa, e vuol dire un gran nebbione, o un gran polverone di granellini (atomi) e che gira gira, senza però che mai nessuno l’abbia fatto girare, quei granellini si trovarono così ben insieme a caso, da formare il cielo e le stelle, il sole, la terra. A caso poi quel nebbione polveroso fa andare le stagioni tanto bene regolate; e fa formar le piante e gli animali e provvede a tutti in milioni di modi così ammirandi, e tutto a caso, capite! Senza un’anima che vi pensasse, senza un occhio da vedervi dentro: e così far andar in ordine tutto il mondo universo: il dir tutto questo non è la più matta cosa del mondo? Ah! se noi abbiamo già detto che è matto, chi dice che la macchina a vapore non fu fabbricata da un macchinista: chi poi dice che il mondo si fu creato senza l’onnipotenza del Creatore; sarebbe il più gran stordito e matto del mondo. Eh…. non sono io, vedete che lo dico, ma lo dice lo stesso caporione degli increduli, Voltaire, il quale confessa che negare che vi sia il Creatore, è l’ultimo eccesso della follia. (Disc. Univ., vol. 3° pag. 484: Du prétendu ath. des Chinois.) – Fortunati dunque voi, o miei fratelli, che venite alla dottrina, e quest’oggi avete imparato dalla parola stessa di Dio la prima verità, che è necessaria da tener ben ferma nel cuore, per non perder la testa, e diventar poi cattivi: e poi udirete con quant’ordine creò le altre cose della terra, e poi noi uomini. Intanto intendete che la prima verità, più necessaria da ricordarsi è che Dio in principio creò il cielo e la terra. A ditemi, in grazia, ripetendolo (si fan ripetere) « Che la prima verità, da ricordarsi sempre, è che Dio in principio creò il cielo e la terra ». Rendiamo ora gloria a Dio esclamando insieme — « Credo in Dio Padre Onnipotente Creatore del cielo e della terra!… e a Lui solo gloria per sempre. » – Ma ora è della terra, che io ho da parlare: e debbo dirvi che Dio creò la terra, e che quindi creò le piante, dopo le piante creò gli animali; e infine creò l’uomo. Ditemi, in grazia, che cosa vi ho da spiegare adesso (si fan ripetere). « Ci ha da spiegare che Dio creò la terra, e che quindi…. » State attenti. Quando diciamo la terra intendiamo di dire tutto l’insieme delle materiali cose, che noi guardiamo come morte: cioè la materia inorganica, il che vuol dire che non ha quelle disposizioni di parti così ordinate, da far vegetare le piante, e vivere gli animali. Ebbene, Iddio per creare il mondo, come pensava nella sua sapienza, creò il materiale di cui voleva formare le altre cose, e fece ogni particella, così disposta e vi mise nella materia tanto di forze così adattate, da farne poi il suo volere. Con queste forze le particelle stanno unite insieme, e quelle che stanno attaccate più fortemente diventano più dure: e formano il gran corpo solido della terra: di modo che le più leggere e le più molli, come ì gas, l’aria, i vapori, tendono ad uscire da quelle; e le materie più molli, come le acque strette in mezzo sgorgano fuori. Onde la terra restò tutta circondata di acque. Vedete subito qui, che la parola di Dio nella dottrina v’insegna proprio quello che vengono a conoscere, come è vero, con buon giudizio studiando i geologi: che sono coloro che cercano collo studio di conoscere come fu formata la terra. E non l’avevano da trovar vero?… Figuratevi! lo dice la parola di Dio! Udite ora: lo Spirito del Signore girava sopra la terra — Spiritus Dei ferebatur super aquas: Creò la luce e fece saltare fuori dalle acque le montagne e la terra arida. Qui potete anche voi immaginarvi, che tirati fuori in alto i monti, allora restarono scavati abissi smisurati; in cui Dio raccolse le acque; e così formò i mari. Come poi aveva creata la luce, ed infuso così aveva il calore in quelle morte cose, le acque, spinte dal calore in vapori si alzarono in nubi per aria, come vediamo tutto dì. Le nuvole; poi caddero in pioggia, che penetrarono nelle screpolature delle montagne. Allora gorgogliarono in fonti, e giù per le balze i ruscelletti, si raccolsero in grossi fiumi, precipitando in mare; frangendo tra le rupi in fragore che par di udir come acclamassero plauso: « grande è la gloria di Dio? »: e il mare sbattendosi contro i confini segnati dal dito di Dio, pareva che rispondesse tuonando: « Dio è l’onnipotente! » In tanto tutte le cose obbedivano Dio: præceptum posuit et non præteribit (ps. CXLVIII). Ben parve d’allora, e poi,sempre, che terra e fiumi e tutte cose create alzino leloro voci a render chiarissima testimonianza, che l’universofu creato da Dio: « Firmavit orbem terræ… elevaverunt flumina voces… mirabiles elationes maris: mirabilis in altis Dominus. Testimonia tua credibilia facta sunt nimis » (Ps. XXII). Dio allora guardò le cose create e vide che andavano bene; ma ancora non era tutto quello cheEgli voleva. Allora Dio mise dentro nella terra un’altra forza per creare le piante, e le creò colla sua parola. E qui pensate un po’anche voi che questa forza, con cui Dio creò le piante, non era prima nella terra. Dio ve la mise dentro, dopo che la terra si è consolidata e ben disposta. E poi tanto vero che questa forza non era nella terra, che anzi è contraria alla forza che unite le sue particelle; perché questa forza le divide, e scomponendo il terreno cava fuori dal suolo, e tira nell’interno delle piante tutte le materie che le fanno crescere; esse ne assorbono anche dall’acqua e dall’aria e le trasmutano nelle sostanze proprie. – Dio creò poi la forza che fa vegetare le piante, con questa sua parola « terra, germina le piante! » Allora avreste veduto la terra, che era arida e nuda, coprirsi di un bel manto di velluto d’erbette: e ve’ già molte alzarsi su arditelle, e spiegare davanti al Creatore fiori ridenti d’ogni più svariata bellezza; guardare esse il cielo, come gl’innocentini nostri guardano col sorriso in faccia alla mamma. Molte altre. poi ingrossarsi in alberi, slanciarsi colla lor vetta fin fra le nubi; e sui loro rami piegati presentare ricchezza di frutti. Ben noi qui vorremmo dire « o erbe, e piante, e legni fruttiferi, benedite il Signore. » Ma le piante, sì, guardano il cielo; ma sono mute e non sentono niente! – Quindi Dio disse coll’onnipotente sua parola « animali, uscite creati fuori dalle acque. » Egli disse, e furon creati. Allora sì, che unvisibilio di animali saltò fuori sulla faccia della terra. I mari, l’aria e il terreno dovunque brulican tutti d’essi: Oh che meraviglia! Essi vedono, odono, sentono, coi sentimenti del corpo hanno il senso di ciò che loro fa bene, e lo cercano; sentono avversione di ciò che loro fa male, e lo ributtano. Così si conservano. Dio, Che diede la forza di generare i loro piccini, mostrò pure a formarsi i loro nidi adattati, e mostrò a far loro da madre in tante belle maniere, che è una grazia a vedere. Li ha provveduti di vestimenti che van loro sì bene alla vita. Volano, corvettano, corrono, ronzano, fanno i lor versi, e godono tutti del bene, che è loro preparato da Dio. In contemplarli noi vorremmo esclamare: « Su, animali….. almen voi che sentite di goder del bene da Dio, su pesci dalle acque, su uccelli dall’aria, su bestie dai campi, benedite e lodate il Signore Che tutti creò. » Ma qui tra loro non vi è un che intenda re terra e piante e animali non sanno dir niente a Dio; e neppur si accorgono, né intendono che Dio vi sia! E Dio guardò allora la terra, le piante, gli animali, e disse « van bene »; ma tra queste creature mie qualche cosa vi manca. »… Vi mancava l’uomo. Per farvi intendere come Dio nella sua sapienza volesse creare l’uomo che potesse intendere e fare in terra ciò che Egli ordinasse, dirovvi: come a Parigi vi è un grandissimo giardino detto il giardino delle piante. Immaginatevi una estesissima campagna, circondata da mura; e dentro piani e monticelli, boschi e acque; e tra mezzo di loro animali d’ogni specie. Ora pensate voi, se quella grande estensione di terra fosse lasciata chiusa, senza mai che vi entrasse persona, quale sarebbe mai diventata? Arido selvaggio luogo! Scosceso il terriccio, i monticelli irti di sassi come aridi ossami: tra loro le acque scavare burroni, ristagnare in paludi, covacciuoli di rettili schifosi: triste boscaglie cadenti sui boschi già marci: le pianure diventate grillaie: qua e là spine e sterponi: poi un ruggire di belve, e le più feroci divorar le altre. Oh!… lasciate che il re vi mandi un coltivatore di bello ingegno a tutto ordinare. Allora quel gran chiuso diventa il più delizioso soggiorno. Rigogliosi boschetti di pellegrine piante colle chiome di svariati verdi in contrasto: ombrose valli, ed in mezzo ai dolci pendii, ruscelletti che scorrono, baciando l’erbe su loro inclinate, per mantenere quei laghi a specchi di purissime acque: dappertutto fiori i più belli e le più pregiate frutta: e qui e là ricoveri, ove son governati gli animali d’ogni genere. E perché niente manchi a quell’incanto, un palazzo in mezzo a Museo in cui cioè si conservano i più rari oggetti, dall’insettuccio che gira dentro una scatolina come nel suo gran mondo, fino alla smisurata balena capace da contener dentro nel suo carcame, altro che uno! ma una buona dozzina di Gioni. Allora sì che entrano i visitatori sempre nuovi e ammirano la scienza e l’arte del buon coltivatore, e glie ne lodano, a grand’onore del sovrano, al quale tutto quel mondo di meraviglie è dovuto. Ora pensate, come Dio guardando il mondo da sé creato, e vedendo che non vi era in mezzo di quel gran mondo di creature neppure una sola, che intendesse almeno un poco!…. Avrà dovuto dire (per parlar noi qui tra noi, come Egli parlasse da uomo) « qui io debbo creare una persona da poter farle intendere, come voglio che sia tutto ordinato. » Racconterovvi un bel fatto che farà capir meglio. Michelangelo Buonarotti, forse il più grande artista del mondo, colla potenza del genio che ad immagine di Dio inventa, e in certo qual modo crea i grandi pensieri, voleva figurare qual doveva essere, come era in mente di lui, quel gran condottiero Mosè mandato da Dio a proclamare al popolo d’Israele i suoi comandamenti. Allora scolpiva in marmo la più bella statua, che mai sì fosse. In questa statua, ecco come figurò Mosè. Lo mise lì scolpito in atto di comandare in nome di Dio colle due tavole della legge strette sul petto, colla faccia in aria di maestà divina, nell’alta fronte due grandi occhi fissi in atto di contemplare il cielo, e gli rizzò sull’alta fronte, come due raggi di luce, con cui pareva comunicasse con Dio. Michelangelo contemplava quella sua bella statua in sublime incanto…… ma rapito sopra ragione……. alzò il martello e diede giù un colpo sulla spalla di sasso, esclamando: « parlami !… » ma la statua era sasso morto!….. Sì, rimbombò lo studio…. sì, rispose l’eco…. ma né la statua, né studio, né l’eco dicevano niente!…. né gli rispondevan d’un « grazia! » Allora il grande artista gettò per terra il martello, e dovette esclamare « la persona che parla e che ama, la vien solo da Dio?… » Sì, sì, miei cari figliuoli, solleviamoci al gran pensiero di Dio: quando creato l’universo, gettava lo sguardo su quel suo mondo di meraviglie; ma non s’incontrava mai in una persona intelligente che cercasse di Chi lo creò: e di conoscere la sua santa volontà! Né gli era dato di vedersi d’innanzi uno che Gli si offrisse pronto ad obbedire ai suoi comandamenti! No, non s’incontrava in due occhi che guardando il cielo almeno dicessero « vorremmo amarsi… » Dio poi, che ama tanto le cose fatte con tutta giustizia, non vedeva una persona ragionevole che pensasse…. a fare…. a fare un po’ di giustizia! E sapete quale è la prima giustizia da farsi?… Ve lo dirò, udite la gran verità!… La prima giustizia da farsi è riconoscere che Dio è il gran padrone Creatore d’ogni cosa: e che perciò si debba onorare, servire, adorare, insomma rendere tutta la gloria a Lui: ché a Lui solo tutto è dovuta. No, no, non vi era sulla terra finalmente chi amasse teneramente Dio così buono con tutte le creature! Allora Dio non poté far altro, lasciatemi dire così, non poté far altro, che guardare a Se stesso: e raccogliendosi come a consulta nella SS. Trinità sua, dovette dire « una mente che intenda, un cuor che ami bisogna che venga da Noi… facciamo l’uomo ad immagine e similitudine nostra!… » –  Contempliamo, figliuoli, contempliamo adorando con quanto amore Dio impastasse la terra, per formare il corpo nostro, da infondervi dentro quest’anima nostra quasi un soffio di vita, immagine della sua Vita divina!… – Come il sapiente architetto, quando fabbrica un edifizio, vi costruisce dentro tutte le membra della casa in modo, che tutte le parti servano ai bisogni per cui la fabbrica vien finita; e poi sulla facciata dell’edifizio vi mette i più belli ornamenti, e vi scolpisce l’impronta del suo pensiero; sicché al contemplare una bella facciata d’una gran chiesa par che avvisi d’entrar dentro con tutto il rispetto; così Dio formando il corpo umano tutto adattato a servire ai bisogni dell’anima ragionevole, che voleva spirarvi dentro, stampava poi nella faccia umana quasi un lampo della sua divina beltà, che avvisasse di rispettare nell’uomo Lui stesso Creatore di tutto. Quando poi ebbe formato il corpo, col soffio della sua divina onnipotenza infuse nel corpo un’anima intelligente, lasciando scorrere sopra essa un raggio di luce della sua Mente divina. Questo raggio, questo lume di cognizione, è la ragione umana: e questo lume di cognizioni scalda il cuore dell’uomo e gli mette in movimento, i palpiti dell’amore. Così poté l’uomo conoscere il Creatore ed amarlo. Vi spiegherò questa cara verità con più chiare parole. Dio creò noi uomini ragionevoli ad immagine sua in modo che, come Egli conosce tutto, ci creò capaci di conoscere anche noi: in modo che, come Egli conosce ed ama in Se medesimo, il Sommo Bene; anche noi conoscessimo che noi non saremo mai felici, finché non giungiamo a possederlo in Paradiso. Non posso spiegare mai abbastanza!… ma per dire meglio vorrei dirvi ancora che Dio. creato, che ebbe l’uomo, lo sollevò in piedi colla sua mano, e gli disse « ora tu che intendi, e che ami, e sospiri il sommo Bene, per star sempre bene con Lui; guarda al cielo, cerca in Me stesso; ché ti ho creato, per averti beato in Paradiso! » –  Lo capite adunque che cosa è mai l’uomo!……. Quis est homo?… Chi siamo noi? e che mai dobbiamo fare?… Eh, cari mici figliuoli, anche voi avete ben veduto che, quando si è fabbricato un grand’edifizio, vi s’innalza sopra una bella statua ritta verso del cielo, per incoronarlo. Ebbene, cosi che Dio creato il mondo nostro, creò noi per innalzarci sulla cima di tutte le creature e di qui a slanciarci verso di Lui a dargli gloria. Su, dunque, innalziamo gli occhi, le braccia, il cuore, tutta la persona, per dare sempre gloria a Dio, che tutto creò. Voi forse avrete anche veduto con tante pietre ben lavorate, innalzare come una piramide, una torre: e poi sopra di essa mettervi una punta, una fiammella o ancor meglio una croce; ebbene, così pure tutte le creature formano come una piramide, e noi siamo collocati sopra d’essa. Su, su, dunque, attacchiamoci a Gesù innalzatosi in croce, ad elevarci con Lui al cielo, per sommergerci nel Sommo Bene. Sì, sì, figliuoli miei, venitemi appresso, ché la terra, le piante gli animali formano come una grande scala, e noi altri uomini siamo col corpo nostro come coi piedi sull’ultimo gradino della terra; ma coll’anima ci slanciamo verso del cielo. Su, su, ci grida s. Paolo, facciamo presto, per potere dalla terra alla morte volare in Paradiso. Adesso sì che capirete che noi uomini siamo, come un piccol mondo, in noi stessi. Vedete di fatto, come insegna s. Gregorio, che in noi vi è un po’ di tutte le creature. È vero, o no? Ditelo voi, se non siam terra colla terra, con questo grave corpo di terra? E ve’ che come le piante metton le foglie, così noi uomini mettiamo fuori le unghie ed i capelli, e vegetiamo colle piante; noi siamo ancora animati cogli animali. Ma, perché poi abbiamo un’anima che pensa, che ama, per cui siamo capaci di vivere in vita eterna, noi siamo poco meno degli Angeli (Ps. VIII), ché vivono essi, e noi dobbiamo vivere con essi di beatitudine eterna in Dio. Deh! ora che ci siamo sollevati cogli Angeli in sino a Dio, ritorniamo col pensiero alle creature in terra, ed in mezzo a tutte cose create, mentre viviamo qui in basso con loro, prestiamo del nostro amore alla terra, alle piante, agli animali, perché tutti amino Iddio: o meglio, se queste creature non conoscono e non lo possono amare, amiamolo noi anche a nome di tutte, lodiamo, serviamo, adoriamo Dio in terra, come lo adoreremo per sempre in Paradiso. – Così mi par d’avervi spiegato che Dio, creata la terra, le piante, gli animali di questo mondo nostro, creò noi uomini per conoscerlo, amarlo, servirlo, adorarlo qui per sempre Lui Sommo Bene in Paradiso

Esame.

I. O figliuoli, noi siam così fortunati d’essere stati creati per conoscere, amare, servire qui Dio, per essere con Lui beati in Paradiso: adunque questo deve essere il primo nostro dovere, il dovere di tutta la nostra vita, fare tutto per servire e dar gloria a Dio. E ora pensate un po’: abbiam noi mai fatto tutto per servire ed onorar Dio fin ora…

II. Quanto tempo abbiam mai occupato per pensare a far tutto per Dio…

III. Con qual rispetto, con qual amore abbiamo noi trattato con Dio?…

IV. Almeno almeno gli abbiamo consacrato al suo onore i pochi giorni di festa, che Egli si ha riserbato tutti per sé?

V. Come l’abbiamo adorato nelle nostre orazioni?…

Pratica.

Dio creò tutto 1’universo, ma nol creò già buttandolo lì e quasi andandosi via da esso; non creavit et abiit, come dice s. Agostino. Ma Dio è dappertutto,Egli contiene tutto, e tutto sostiene, e conserva. Sicché il mondo, dice Linneo, uno dei più dotti fra tutti coloroche studiano, è un magnifico santuario, in cui cì siedevelata la Maestà di Dio, e diffonde da per tutto, sempre intutte le creature i doni della sua bontà. Egli apre la mano etutte restano ripiene delle sue benedizioni; noi dobbiamo adunquerendergli dappertutto la nostra adorazione.È vero, non lo vediamo coll’occhio di carne; maanche un povero cieco, se fosse nella sala del re, non vedrebbe il re sul trono; ma se qualcun lo toccasse del gomito e gli dicesse all’orecchio « amico, il re ti tien gli occhi addosso, sai?…. eh se lo offendi… poverino, ti può castigar sul momento!… » Al povero orbo parrebbe di sentire il respiro del re, resterebbe come oppresso dalla sua maestà reale. O cari, o cari, fate da amico all’anima nostra, e ditele all’orecchio: Dio ti vede, Dio ti vede! e che fai quando non pensi a servir Dio… Ah ah, tu sei in peccato!… Ma pensa che Egli odia tanto il peccato, che minaccia di abbruciar del suo sdegno ilpeccatore… Ah se sono in peccato davanti a Lui!… Meschino a me, dove mi nascondo? … se fuggo via, da Lui, in Lui mi trovo…. se mi nascondo sottoterra…. Egli è là! se volo sopra dei cieli, incielo sono in Lui….Tremendo Iddio che reggete i mondi!… Santissimo Dio che odiate tanto il peccato fin a sacrificarevostro Figlio, per toglierlo via dal mondo!Ed io commetto il peccato ancora in braccio a Voi!…Gesù mio, nascondetemi Voi, o che io son sprofondato nell’Inferno! Dunque cominciamo subito, edomani mattina appena svegliati; diamo il primo pensiero a Dio… diciamo: Io sono in Dio… Quando ancor siete fra il sonno e la veglia, sentite il galloche sbatte l’ali, e manda il canto al Creatore, è perdirvi « su, figliuoli, il cuore a Dio! Sentite la rondinella,che cinguetta sulla vostra finestra, è per dirvi « svegliatevi,dite subito una parola a Dio offrendovi a servire a Lui!» Vedete un raggio di color di rosa, che vi penetra in istanza, è per dirvi che il mattino della vita èla gioventù: fortunati giovani, se mandate gl’incensi delle vostre adorazioni, come mandano i fiori nell’aurora i loro profumi: e noi già vecchi diciam als. Profeta: « Signore, oggi comincio anch’io questa giornata, che mi concedete, una giovine vita tutta a servire a Voi. »….. Oh un suono?….. che vuol dire questo suono?… È l’Ave, Maria… e vuol dire: « Su, figliuoli, diam la mano alla Madonna che la ci meni col cuore a Gesù in Sacramento che abita qui tra noi compagno del nostro peregrinaggio! La via, andate a casa ai lavori… e se mangiate un boccon di pane, e bevete alla fonte di fresche acque, e segodete ogni ben di Dio baciate, con rispetto col cuorela Mano di Dio, che ve li ha preparati. Se coglietela frutta, raccogliete le spighe, se guadagnate un qualche cosa, dovreste cader in ginocchio con questo sospiro: « Oh quanto è buono il Padre nostroche provvede di tutto i suoi figliuoli! »Voi andate a casa col cuore pieno di questo granricordo, che vi farò dire con queste poche parole,che imparate a ripetere…. « Farò tutto a gloria di Dio! » Questo ricordo nel mondo cristiano fece grandi santi e tanti, che la Chiesa nella sola religione dei Gesuiti, per questa massima lasciata per memoria da santIgnazio, ha la consolazione d’aver più di settemila tra martiri e santi in Paradiso. Ora anche noi ripetiamola insieme « Farò tutto a gloria di Dio. » Questa gran massima popolò il Paradiso di Santi.

Catechismo.

D. Ditemi su dunque, chi creò il cielo e la terra

e tutte le cose che sono in esse?

R. Iddio.

D. Perché Dio creò prima la terra, le piante, gli animali, e poi creò noi uomini dopo?

R. Per preparare le cose create per noi, affinché noi l’adorassimo in nome di tutte le creature.

D. Per qual fine adunque Iddio ci ha creati?

R. Per conoscerlo, amarlo, servirlo, in somma per adorarlo in terra, poi conoscerlo, amarlo, adorarlo per sempre in Paradiso in Lui beati.

D. Per qual fine dobbiamo vivere in terra?

R. Per far tutto a gloria di Dio e servirlo secondo la sua santa volontà, giacché tutto viene dalla bontà di Dio.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (16)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (16)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle MissioniROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO II

In che modo il sacerdote partecipa al sacerdozio di Gesù Cristo.

Gesù, Sommo Sacerdote della nuova Legge, non muore e non ha quindi bisogno di successori: dall’alto dei cieli continua a esercitare il suo sacerdozio. Ma, risalito alla destra del Padre, Ei non è ormai più visibile a noi. Eppure noi, essendo composti di anima e di corpo, abbiamo bisogno di qualche cosa di sensibile per innalzarci a Lui, sacerdote invisibile. Nostro Signore ben lo sapeva; e quindi, prima di lasciare la terra, istituì, come dice il Concilio di Trento (Sess. XXII, cap. I e can. 2), un sacerdozio visibile, per continuare quaggiù il suo sacrificio e i suoi uffici sacerdotali in modo adatto alla natura umana. Con ciò Gesù non cessava già di essere l’unico Sommo Sacerdote, ma veniva a vivere, in quanto sacerdote, in uomini scelti da Lui e dalla sua Chiesa. Vivrà in loro colla comunicazione dei suoi poteri, in virtù del carattere sacerdotale, e colla partecipazione delle sue virtù. Onde avrà non dei successori ma dei rappresentanti visibili. Il Sacerdote cattolico sarà quindi un altro Cristo, sacerdos alter Christus: in nome suo e colla sua autorità farà gli uffici sacerdotali e guiderà le anime al Sacerdote invisibile e, per Lui, a Dio. Quale rispetto, quale venerazione non dobbiamo dunque avere pei Sacerdoti di Cristo!

ART. I. — GESÙ VIVE NEL SACERDOTE COLLA COMUNICAZIONE DEI SUOI POTERI.

.a) Nell’ultima Cena Gesù aveva offerto un vero Sacrificio: cangiando il pane nel suo corpo e il vino nel suo sangue, aveva, sotto le specie del pane e del vino, offerto al Padre e immolato in modo mistico quella vittima che il giorno appresso avrebbe offerta e immolata in modo cruento sul Calvario. Quindi aveva aggiunto: « Fate questo in memoria di me » (S. Luca, XXII, 19). Ora che intendeva Gesù con queste parole? Due cose intendeva: prima di tutto che il Sacrificio eucaristico da Lui offerto doveva essere istituzione permanente e obbligatoria; e poi che gli Apostoli e i loro successori ricevevano il potere di offrire questo medesimo Sacrificio. – Ed è appunto ciò che avvenne, a cominciare dai tempi apostolici ai nostri giorni: i primi Cristiani erano assidui alla preghiera e alla « frazione del pane » (Act. II, 24, 26);  ed oggi ancora dovunque il Sacerdote cattolico porta il Vangelo, ivi pure consacra l’ostia ed offre il divino Sacrificio. – Ma è da notar bene che questo potere di consacrare e di offrire la vittima divina non viene esercitato da un uomo se non in quanto opera in persona di Gesù Cristo. Infatti il sacerdote dice: « questo è il mio corpo »; ora il pane viene cangiato non nel corpo suo ma nel Corpo di Gesù Cristo; è quindi vero che è un altro Cristo, che parla e opera in nome di Lui. Del resto, chi mai potrebbe operare questo mirabile cangiamento di sostanza, questa transustanziazione, come la chiama la Chiesa, se non chi è rivestito del potere stesso di Dio? Ecco perché san Giovanni Crisostomo, parlando della consacrazione eucaristica, dice ai Cristiani del suo tempo: « Non è già un uomo che fa che il pane e il vino da voi offerti diventino il corpo e il sangue di Cristo, ma è Cristo stesso crocifisso per noi. Rappresentante visibile di Gesù, il Sacerdote, ritto in piedi, pronuncia le parole della consacrazione; ma è la potenza e la grazia di Dio che lavora » (In prod. Iudæ, I, 6.). È dunque Gesù vivente nel Sacerdote che opera questa mirabile trasformazione.

b) Ed è pur Gesù che, per mezzo del Sacerdote, rimette i peccati. La sera della Risurrezione gli Apostoli se ne stavano radunati nel Cenacolo, quando il Maestro appare all’improvviso in mezzo a loro e dice: « Pace a voi! ». Quindi diede loro solennemente l’ufficio e il potere di rimettere i peccati: « Come il Padre mandò me, anch’Io mando voi… Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi; e a chi li riterrete saranno ritenuti? ». Sono ormai venti secoli che il Sacerdote cattolico corre il mondo, riceve la confessione dei peccatori pentiti, giudica con autorità suprema della sincerità delle loro disposizioni, e rimette i peccati a quelli che crede sufficientemente contriti. Ora, chi può rimettere i peccati? chi può ridar la vita a chi è spiritualmente morto? chi può restituire insieme coll’amicizia di Dio la grazia e le virtù infuse? Nessuno certo se non Colui in cui vive Gesù sommo Sacerdote, giudice supremo dei vivi e dei morti, e distributore di tutti i doni divini.

c) Per Gesù e con Gesù il Sacerdote amministra i sacramenti. Istituiti da Gesù per comunicare la grazia, i sacramenti non hanno efficacia se non in quanto sono conferiti da Gesù vivente nel Sacerdote; difatti il comunicare come causa principale la vita divina non è cosa propria di uomo mortale, ma soltanto di Dio o dell’Uomo-Dio. Sia quindi Pietro o Paolo colui che battezza, è sempre Gesù che battezza in loro e col battesimo conferisce una partecipazione della vita divina. Si dica lo stesso degli altri sacramenti.

d) Gesù vive pure nei suoi Sacerdoti a predicare il Vangelo. Prima di salire al cielo, il divino Maestro, volendo perpetuare sulla terra il suo ufficio di Dottore, apparso agli Apostoli su un monte della Galilea, disse loro queste parole: È stato dato a me ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque ad ammaestrare tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che Io vi ho comandato. Ed ecco che Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo » (Matth. XXVIII, 16-20). Gli Apostoli e i loro successori si spargono nel mondo e ammaestrano gli uomini nelle verità divine; insegnano non le scienze umane, non la via che conduce alle ricchezze e agli onori, ma la scienza divina, la via che conduce a Dio. La dottrina che insegnano non è dottrina loro ma è dottrina di Cristo che manda e che parla per bocca loro. « Facciamo ufficio di ambasciatori di Cristo, come se Dio stesso vi esortasse per mezzo nostro » (I Ep. Cor., V, 20). E, secondo la promessa del divino Maestro, lo Spirito Santo stesso viene a insegnar loro tutte le cose, e a richiamare e far loro capire tutto ciò che Gesù insegnò (S. Giov., XIV, 26.). Onde Nostro Signore chiaramente aggiunge: « Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me » (S. Luca, X, 6). È dunque Gesù che parla per bocca dei predicatori evangelici. Quindi, quando il Sacerdote offre il santo Sacrificio, quando rimette i peccati, quando amministra i sacramenti, quando predica il Vangelo, non è lui che parla od opera, è Gesù che vive in lui; e così il Sacerdote è un altro Cristo. Il che intenderemo anche meglio studiando il carattere sacerdotale.

Art. II. — GESÙ VIVE NEL SACERDOTE IN VIRTÙ DEL CARATTERE SACERDOTALE.

Essere ambasciatore di Cristo, parlare ed operare in suo Nome, sarebbe già alta e nobile missione. Ma il sacerdote è ancora qualche cosa di più: coll’ordinazione sacerdotale non solo riceve i mirabili poteri che abbiamo descritti, ma viene pure interiormente trasformato e consacrato in modo simile a quello onde sono consacrati il pane eucaristico e l’olio della cresima. È san Gregorio Nisseno che lo afferma, adoperando paragoni che non sono da prendersi alla lettera ma solo in senso analogico o proporzionale. « Il pane prima è pane comune; ma, santificato che sia dalla consacrazione, è detto e diviene veramente il corpo di Cristo. Parimenti l’olio mistico, parimenti il vino, cose di poco pregio prima della benedizione, santificati che siano dallo Spirito, operano e l’uno e l’altro mirabili effetti, Questa stessa virtù fa pure che il Sacerdote, per mezzo della consacrazione sacerdotale, diviene augusto e venerando e rimane separato dalla plebe. Ieri ancora confuso col popolo, passa tutto a un tratto ad essere direttore, capo, dottore di pietà, iniziatore agli arcani misteri. E tutto ciò avviene senza che nulla si cangi nel suo corpo e nel suo aspetto esteriore, ma una forza invisibile e la grazia gli hanno trasformato l’anima » (Per il giorno dei lumi, P. G. XLVI, 581.). Questa consacrazione che trasforma il Sacerdote non è se non il carattere sacerdotale che gli viene conferito, e che gli s’imprime nell’anima un indelebile sigillo spirituale. Sant’Agostino lo paragona all’impronta dell’imperatore incisa sulle monete e al segno corporale ond’erano in passato segnati i soldati. Questo carattere aderisce talmente all’anima che non ne può essere separato anche se il Sacerdote venga sventuratamente a perdere lo stato di grazia; egli è, a così dire, incorporato e vi resterà sino alla morte, anzi perfino nell’eternità. – Il carattere sacerdotale, dice san Tommaso (Summ. Theol. III p., q. 63, a, 3 e 4.) è una rassomiglianza col sommo sacerdote Gesù Cristo, è una vera partecipazione al suo Sacerdozio, che rende il Sacerdote simile a Cristo in quanto capo del Corpo mistico, e ne fa un altro Cristo, un riflesso della sacerdotale sua fisonomia. È questa la ragione per cui il Sacerdote può fare, sotto l’azione di Cristo, ma in modo vero e reale, gli uffici che il sommo Sacerdote Gesù fece sopra questa terra: è un altro Cristo e opera per la sua virtù e sotto la sua dipendenza. – Oh! quanto è eminente la dignità del Sacerdote! I Padri non temono di paragonarla alla dignità di Maria santissima. Colui che Maria generò nel suo seno, il Sacerdote lo produce sull’altare; Colui che Maria portò in braccio e diede al mondo, il Sacerdote lo porta in mano e lo dà alle anime; Colui che Maria offrì sul Calvario, il Sacerdote l’offre sull’altare. Onde possiamo dir coll’Olier (Traitè des SS. Ordres, 3 partie, ch. VI): « Dio ha fatto due prodigi nella Chiesa: il Sacerdote e la Vergine santissima ». Conviene quindi che la santità del Sacerdote si avvicini a quella di Maria.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (17)