M. M. PHILIPPON
LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (5)
Prefazione del P. Garrigou-Lagrange
SESTA RISTAMPA
Morcelliana ed.Brescia, 1957.
CAPITOLO PRIMO
ITINERARIO SPIRITUALE
III
VERSO L’UNIONE TRASFORMANTE
Quando, il 21 novembre 1904, suor Elisabetta della Trinità compose di getto, senza la minima correzione, la sua elevazione sublime alla Trinità non aveva ancora raggiunte le ultime vette dell’amore. E non a caso, fino dalla seconda frase della sua preghiera, immediatamente dopo il primo atto di adorazione alla Trinità, suor Elisabetta, ricadendo su di sé, implora: « Aiutami a dimenticarmi interamente! ». Dopo tre anni di vita religiosa, un ostacolo fin allora insormontabile ingombra la sua vita spirituale: il proprio io. Non è giunta ancora a quel distacco sovrano delle anime che, dimentiche di se stesse, non hanno più altra occupazione che amare. Ebbene, sarà questo l’impegno e il lavoro degli ultimi due anni: lavoro, dapprima, lento e faticoso, sostenuto per diciotto mesi da fedeltà nascoste; poi rapido, quasi fulmineo, quando, dalla sera della domenica delle Palme, Dio, piombando su di lei come sulla sua preda, verrà a compiere Egli stesso nel corpo e nell’anima sua la divina opera di distruzione e di consumazione. Giungerà allora all’unione trasformante, non sul Thabor, ma, come l’aveva desiderato, nella somiglianza a Gesù Crocifisso e nella conformità alla Sua morte. È la fase più sublime di questa vita, ed è quella che ci rimane da analizzare. Da molti mesi, suor Elisabetta della Trinità soffriva di un malessere così penoso che, senza il soccorso di Dio, avrebbe dovuto soccombere. Addetta com’era all’ufficio di portinaia, doveva fare un vero sforzo per salire i primi gradini della scala, quando veniva chiamata; non si reggeva in piedi. « La mattina, dopo la recita delle Ore minori — confesserà poi alla sua Madre Priora — mi sentivo già spossata e mi domandavo come avrei potuto arrivare fino a sera. Dopo Compieta, la mia viltà giungeva al colmo, tanto che ebbi a volte la tentazione di invidiare una mia consorella dispensata dal Mattutino. Il tempo del silenzio rigoroso lo passavo in una vera agonia; la univo a quella del mio divino Maestro, standomene vicina a Lui. presso la grata del coro. Era un’ora di puro patire che mi otteneva però la forza per il Mattutino che recitavo, riacquistando una certa facilità di applicarmi a Dio. Ma poi, mi ritrovavo nella mia impotenza; e, protetta dall’oscurità risalivo alla meglio in cella, appoggiandomi al muro » (Ricordi). AI principio della Quaresima del 1906. dopo la ricreazione del mezzogiorno, suor Elisabetta. aprendo a caso come soleva fare, il suo caro san Paolo, incontrò questo versetto: « Ciò che io bramo è conoscere Lui, è la partecipazione ai Suoi patimenti, la conformità alla Sua morte » (Filipp. III, 10). Queste ultime parole la colpiscono: la conformità alla Sua morte. Sono forse l’annunzio della prossima liberazione? In piena Quaresima, si manifestano i sintomi di una grave malattia di stomaco; e, dopo la festa di san Giuseppe, suor Elisabetta della Trinità era definitivamente in infermeria. Lo sapevo che san Giuseppe sarebbe venuto a prendermi quest’anno — diceva tutta lieta. Eccolo già che viene ». Si organizzò una vera crociata di preghiere: ma invano, ché il male progrediva. Suor Elisabetta esultava. Oltrepassando ogni considerazione sulle sue cause seconde, ella chiamava quella malattia misteriosa: la malattia dell’amore. « È Lui che mi lavora e mi consuma; io mi dono, mi abbandono all’opera sua, contenta fin d’ora di tutto ciò che farà ». – La domenica delle Palme, sopraggiunse una sincope ad aggravare improvvisamente il suo stato, tanto che fu chiamato, nella notte, un Sacerdote. Suor Elisabetta, con lo sguardo luminoso, le mani giunte, stringendo al petto il bel Crocifisso della sua professione, ripeteva con invocazione ardente: « O Amore, Amore! ». « Ho assistito molti malati — diceva il Sacerdote che le aveva amministrato l’Estrema Unzione — non ho visto mai un simile spettacolo ». – Il venerdì santo pareva che dovesse spirare; ma la crisi fu superata; anzi, la mattina del sabato, le infermiere meravigliate la trovarono inginocchiata sul letto. Il ritorno alla vita fu quasi una delusione per lei. « La sera della domenica delle Palme ho avuto una forte crisi e ho creduto che fosse giunta finalmente l’ora di prendere il volo verso le regioni infinite, per contemplare svelatamente quella Trinità che è ora mia dimora, quaggiù. Nella calma silenziosa della notte, ho ricevuto l’Estrema Unzione e la visita del mio Gesù. Credevo che Egli avrebbe scelto quell’istante per rompere i miei legami. Che giorni ineffabili ho passato, nell’attesa della grande visione! » (Lettera a G. de G… – Maggio 1906). – « A voi, che siete sempre stato il mio confidente, so di poter dire tutto. La prospettiva di andare a vedere presto, nella sua ineffabile bellezza, Colui che amo e di inabissarmi in quella Trinità che è già il mio Cielo quaggiù, dà all’anima mia una gioia immensa. Quanto mi costerebbe se dovessi ritornare sulla terra; La terra mi pare così brutta uscendo dal mio bel sogno! Soltanto in Dio tutto è puro, bello e santo » (Lettera al Canonico A… – Maggio 1906.). Questa crisi violenta l’aveva avvicinata al mondo invisibile. Abituata a vivere al disopra delle cause seconde, suor Elisabetta comprese, fino dal primo istante, la ragione provvidenziale di quella malattia; vi scoprì la mano di Dio, il suo « troppo grande amore » che più intensamente la incalzava e, immediatamente, aderì al piano divino. « Se Dio mi ha reso un po’ di vita — disse a se stessa — non può essere che per la Sua gloria ». Sì: Dio voleva sollevarla e stabilirla sulla più alta cima della montagna del Carmelo dove, secondo il celebre scritto di san Giovanni della Croce, « non c’è più che l’onore e la gloria di Dio ». – Nell’estate del 1905, qualche mese prima di questa crisi, mentre si intratteneva intimamente con una consorella durante una licenza (Le « licenze » sono alcuni giorni nei quali le suore possono visitarsi nelle celle e intrattenersi insieme,), aveva trovato, in san Paolo il suo definitivo nome di grazia: « Laudem gloriæ » e, da allora, tutti gli sforzi della sua vita interiore si volgevano in questo senso. La cosa avrebbe potuto languire, col tempo. Dio tagliò corto. Avviene spesso così. Egli lascia che le anime avanzino col loro passo nelle vie divine; poi, intervenendo all’improvviso, prende Lui personalmente la direzione della loro vita nei minimi particolari; finalmente, nello slancio di una grazia irresistibile, le rapisce a sé. Si serve delle cause seconde; una grande prova che schianta tutta una vita, una malattia che sembra condurre alla morte…! in realtà, è l’ora divina del Calvario che tutto «compie e perfeziona. – Così fu per suor Elisabetta della Trinità. La crisi fulminea della sera delle Palme e del venerdì santo fu il segnale della liberazione suprema, fu l’entrata definitiva nella unione trasformante. Da quel momento, estranea a tutte le cose della terra, viveva quaggiù con l’anima già immersa nella eternità. Le consorelle che entrarono maggiormente nella sua intimità confessano che fu per esse la rivelazione di una santa. « Sentivamo che stava per lasciarci ». — « Non potevamo più seguirla; era già una creatura dell’al di là ». La si vedeva procedere nella via del dolore « con la dignità di una regina », secondo l’espressione usata da un testimonio, senza saper che era l’espressione stessa di suor Elisabetta. Appariva con evidenza che, quanto più il suo essere fisico si andava disfacendo, altrettanto l’anima, sempre più beata, oltrepassando se stessa, si obliava. Da un unico pensiero era dominata, sempre: la lode di gloria alla Trinità; da un unico desiderio: consumare la sua vita a bene delle anime; da un unico sogno: morire trasformata in Gesù Crocifisso.
« Mi indebolisco di giorno in giorno, e sento che ormai il mio Signore non tarderà molto a venire a prendermi. Esperimento e gusto gioie ineffabili: le gioie del dolore… Sogno di essere trasformata prima di morire in Gesù Crocifisso » (Lettera a G. de G… – Fine di ottobre 1906.). – Gli ultimi mesi di quest’anima essenzialmente trinitaria furono tutti pervasi dal pensiero del Crocifisso; tanto è vero, come afferma santa Teresa, che anche negli stati mistici più elevati, il ricordo dell’Umanità di Cristo non deve indebolirsi mai. Colui che, come Dio, è il termine, come Uomo rimane sempre la via che a Dio conduce: il Calvario è il solo cammino per giungere alla Trinità. Al pensiero costante della gloria della Trinità santa, pensiero che domina luminosamente tutta la vita interiore di suor Elisabetta, si unisce l’intima contemplazione del Crocifisso. « Configuratus morti eius »: ecco l’altro pensiero che non mi abbandona mai, che mi dà forza nei patimenti. Se sapeste quale opera di distruzione sento in tutto l’essere mio! È la via del Calvario ormai aperta dinanzi a me; e io sono felice di camminarvi, come una sposa a lato del divino Crocefisso. Il 18 di questo mese, avrò 26 anni; non so se questo nuovo anno della mia vita si compirà nel tempo o nella eternità: e vi chiedo, come una bimba al Padre suo, di volermi consacrare, durante la santa Messa, come un’ostia di lode alla gloria di Dio. Consacratemi così interamente, che io non sia più io, ma Lui; così che il Padre, guardandomi, possa riconoscere Lui in me. Che io divenga « conforme alla sua morte », che io soffra in me ciò che manca alla sua Passione per il suo Corpo mistico: la Chiesa. E poi, bagnatemi nel Sangue di Cristo, perché mi renda forte della sua stessa forza » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1906.).Così, la vita spirituale, di suor Elisabetta si riduceva sempre più all’essenziale: la trasformazione in Cristo per amore, l’intimità filiale di quasi tutti gl’istanti con la Vergine santa, il senso trinitario del suo Battesimo. Il movimento della sua vita interiore rapita nell’anima del Crocefisso, diviene ben presto semplicissimo: la gloria della Trinità: e basta. Essa è giunta, oramai, alla superiore unità dell’anima dei santi che hanno raggiunto Cristo in pienezza. Tutto il resto, o rientra in questa unicità, o scompare. Nell’anima sua tutto si armonizza. Il « palazzo della beatitudine o del dolore » per lei, è tutt’uno; ma il desiderio della sofferenza non esclude quello del Cielo che, anzi, l’attrae sempre di più, da che il suo spirito ha preso contatto con gli ultimi capitoli dell’Apocalisse sulla Gerusalemme celeste, divenuto ora la lettura delle sue lunghe notti d’insonnia. Mai la si vide così divina insieme e così umana. La sua tenerezza si manifestava soprattutto verso le sue sorelle di religione. « Il cuore di Cristo non fu mai così espansivo come nell’ora suprema, in cui stava per abbandonare i suoi. Anch’io, sorellina mia (Così scrive ad una postulante che una circostanza speciale aveva ricondotta in famiglia, e della quale, nel Carmelo, era stata l’angelo, secondo gli usi dell’Ordine, la suora incaricata di iniziare una postulante alle abitudini della Comunità -N. d. T.-.), non ho provato mai, come ora, un bisogno così grande di avvolgerti nella mia preghiera. Quando i miei dolori si fanno più acuti, mi sento talmente spinta a offrirli per te, che non potrei non farlo. Chi sa perché! Ne hai forse bisogno in modo speciale? Sei afflitta da qualche pena? Le mie te le dono tutte, perché tu ne disponga pienamente. Se tu sapessi come son felice al pensiero che il mio Maestro divino sta per venire a prendermi! Come è bella e ideale la morte per coloro che Dio ha custoditi, affinché non cercassero le cose visibili che sono passeggere, ma le invisibili che non hanno fine! In Cielo, io sarò più che mai il tuo angelo. So quanto la mia sorellina ha bisogno di essere custodita, in quella Parigi dove è costretta a vivere. San Paolo dice che Dio ci ha eletti in Lui, prima della creazione del mondo, affinché siamo santi e immacolati al suo cospetto, nell’amore (Efes. I, 4); ed io, con tutta l’anima, pregherò che questo grande decreto della sua volontà si compia in te. Ascolta, quindi, il consiglio del medesimo Apostolo: Camminate in Gesù Cristo, radicati in Lui, edificati in Lui, fortificati nella fede, crescendo in Lui sempre di più (Coloss. II, 7). Mentre contemplerò la bellezza ideale nella sua luce infinita, le chiederò di imprimersi nell’anima tua perché fin d’ora, su questa terra in cui tutto è macchiato, tu sia bella della Sua bellezza, luminosa della Sua luce. A Dio. Ringrazialo per me, perché la mia gioia è immensa. Ti dò appuntamento nell’eredità dei santi. Là, nel coro delle Vergini, generazione pura come la luce, noi canteremo lo stupendo cantico dell’Agnello e il Sanctus eterno, sotto l’irradiazione del Volto di Dio. Allora, dice san Paolo, saremo trasfigurati di luce in luce, assumendo la stessa figura di Lui (II Cor., 3-18). Ti abbraccio con tutto l’affetto del mio cuore, e sono il tuo angelo per l’eternità » (Lettera a C… B… – Fine dell’estate 1906.). La sera del 2 agosto 1906, anniversario della sua entrata al Carmelo, suor Elisabetta, non riuscendo a prender sonno, si siede presso la finestra, e vi rimane quasi fino alla mezzanotte, in colloquio col suo Signore. Quella fu per lei una serata divina: « Il cielo era così calmo, così azzurro! Nel monastero regnava un silenzio profondo… Ed io rivivevo col ricordo questi cinque anni pieni di tante grazie » (Lettera alla mamma – 3 agosto 1906). – Sentendo avvicinarsi lo spogliamento supremo, ella chiede alla sua Madre Priora di poter entrare in ritiro la sera del 15 agosto, per prepararsi al suo passaggio alla eterna vita; ne dà notizia ad una consorella, annunziandole in un biglietto che parte con Janua cœli per alcuni giorni di preghiera e di raccoglimento: « Laudem Gloriæ » entra questa sera nel noviziato del Cielo per ricevervi la veste di gloria, e ha bisogno di venire a raccomandarsi alla sua suor A… “Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza — dice san Paolo — li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rom. VII, 29). Ecco ciò che vado a farmi insegnare: la conformità al mio Maestro adorato, il Crocifisso per amore. Allora, potrò adempiere il mio ufficio di Lode di gloria e cantare già il Sanctus eterno, nell’attesa di intonarlo negli atri divini della casa del Padre » (Biglietto ad una delle sue consorelle). Fu proprio in quelle sere e in quelle notti di silenzio con Dio, in cui sentiva che il Maestro divino la incamminava verso il suo Calvario, che, per desiderio della sua Madre Priora, compose « L’ultimo ritiro di Laudem gloriæ », per dirle come concepiva il suo ufficio di lode di gloria. Fino all’ultima settimana, la si vide trascinarsi alle « Laudi notturne », e là, tutta raggomitolata in un angolo della tribuna, estrarre fin l’ultima stilla dal suo essere esausto. Nella misura che le permetteva la debolezza estrema, restò fedele sino all’ultimo alle minime osservanze del suo Ordine. Spesso, durante insonnie interminabili, soffriva nel corpo e nell’anima un vero martirio; allora, con grande spirito di fede, si rifugiava presso la sua Madre Priora che ella chiamava suo sacerdote, incaricato da Dio di consumare il suo sacrificio supremo. – « Ore 11. Dal palazzo del dolore e della beatitudine. Madre mia, mio sacerdote, la vostra piccola « Lode di gloria » non può dormire; soffre. Ma nell’anima sua, per quanto vi passi l’angoscia, regna però tanta calma. Ed è stata la vostra visita che mi ha recato questa pace di cielo. Aiutatemi a salire il mio Calvario! Sento così fortemente la potenza del vostro sacerdozio sull’anima mia, e ho tanto bisogno di voi. – Madre mia, sento che i miei “Tre” mi sono tanto vicini. Sono sopraffatta più dalla gioia che dal dolore. Il Signore mi ha ricordato che qui Egli vuole che io rimanga, e che non tocca a me scegliere le mie sofferenze; mi inabisso dunque insieme a Lui nel dolore immenso, con tutti i miei timori e le mie angosce » (ottobre 1906). – « Madre, amato mio sacerdote, la vostra piccola ostia soffre molto, molto; è una specie di agonia fisica; e si sente così vile! vile fino a gridare. Ma l’Essere che è Amore, pienezza d’Amore, viene a trovarla, a tenerle compagnia, l’associa a sé, mentre le fa comprendere che, fin quando la lascerà sulla terra, le dispenserà sempre il dolore » (ottobre 1906). – Mai si poté sorprendere in lei la minima debolezza, anche fra le più acute sofferenze; il suo bel sorriso non l’abbandonò mai. Nelle ultime settimane che furono un vero martirio, il dono della forza |si manifestò in lei stupendamente. Le fu chiesto, un giorno, se soffriva molto; essa fece un gesto come per indicare che le venivano straziati i visceri… e il volto le si contrasse; poi, riprese subito la sua amabile serenità. Proprio in questo stato di estrema spossatezza, la rivide il Padre Vallée, per l’ultima volta, il 15 ottobre. Fu colpito dall’opera di distruzione compiuta da Dio in quest’anima, rendendola così ineffabilmente, così devotamente bella; e la invitò ad elevarsi ancora di più, elevarsi in uno sforzo supremo fino all’amore che oltrepassa anche il dolore. Ed essa, consolata da quest’ultima visita del suo Padre, ascese quelle vette che Egli le aveva fatte intravedere. Questi stati superiori di unione trasformante, sul Calvario, non hanno più nulla di paragonabile a quanto accade sulla terra. Il 29 ottobre, grazie ad un lieve miglioramento, poté scendere in parlatorio e rivedervi tutti i suoi cari. Le avevano condotto le sue nipotine, « due bei gigli tutti candore ». La mamma loro le fece inginocchiare presso la grata, e suor Elisabetta, sollevando il grande Crocifisso della sua professione, le benedisse. Nel momento dell’addio, ebbe il coraggio di dire alla mamma: « Mamma, quando la nostra suora commissionaria verrà ad avvertirti che ho finito di soffrire, tu ti prostrerai in ginocchio esclamando: — Mio Dio, tu me l’avevi data, tu me l’hai presa; sia benedetto il tuo Santo Nome» (Quando la signora Catez, avvertita dalla suora commissionaria, si recò nel parlatorio dove la salma della sua figliola era esposta, ebbe un grido di dolore. Allora, un’amica che l’accompagnava le disse: Ricordatevi ciò che vi ha detto Elisabetta ». La coraggiosa madre se ne ricordò; e, cadendo in ginocchio mormorò: « Mio Dio, tu me l’avevi data, tu me l’hai presa. Sia benedetto il tuo santo nome! ».). – Il giorno seguente, suor Elisabetta della Trinità non poteva più lasciare l’infermeria. Alla sera, fu presa da un tremito fortissimo che tutta la scuoteva nel suo lettuccio; la notte, sembrò che il cielo le si aprisse nuovamente: bisognava far presto. E, fin dalla mattina del 31, le fu rinnovata la grazia degli ultimi Sacramenti. La Chiesa cantava i primi Vespri della festa di Ognissanti, e suor Elisabetta, non potendo ormai più scrivere, dettò un ultimo messaggio: « Ecco; io credo che sia giunto il gran giorno desiderato ardentemente del mio incontro con lo Sposo unicamente amato, adorato. Ho la speranza di potermi trovare, stasera, fra “quella grande moltitudine”, contemplata da san Giovanni dinanzi al Trono dell’Agnello in atto di servirlo notte e giorno nel suo santo tempio. Vi do appuntamento in questo bel capitolo dell’Apocalisse, e nell’ultimo che eleva così bene l’anima al di sopra della terra, nella visione in cui sto per immergermi… per sempre… ». A mezzogiorno, tutte le campane della città suonarono l’Angelus. «Ah Madre! — esclamò — queste campane mi dilatano il cuore; suonano per la partenza di Laudem gloriæ. Mi faranno morire di gioia, queste campane. Partiamo, dunque! ». E tendeva le braccia al cielo. – Il 1° novembre, festa di tutti i Santi, verso le 10 del mattino, sembrava giunta l’ora suprema, e la comunità si riunì in infermeria per recitare le preghiere degli agonizzanti. Suor Elisabetta, sollevandosi dalla sua prostrazione, assicuratasi che tutte le suore erano presenti, chiese loro perdono. Poi, per compiacere al desiderio che le esprimevano, mormorò, come in un sospiro, queste frasi: « Tutto passa… Alla sera della vita, non rimane che l’amore… Bisogna fare tutto per amore… Bisogna dimenticarsi sempre… Il buon Dio gradisce tanto che ci si dimentichi. Ah, se l’avessi fatto sempre! ». Cominciarono, da allora, nove giorni di penosa agonia. Distesa sul suo letto come sopra un altare, gli occhi chiusi, la vita concentrata tutta nel profondo dell’anima, la santa vittima pregava. Quando si cercava di consolarla per la dolorosa privazione della santa Comunione che non poteva più ricevere: « Lo trovo sulla croce — diceva — Egli mi dona la vita ». Violentissimi dolori al capo fecero temere una meningite; fu scongiurata con continue applicazioni di ghiaccio il quale si fondeva istantaneamente. Le pareva di avere il cervello in fiamme; la parola, che diveniva quasi inafferrabile, rivelava una divina unione consumata. Il suo volto emaciato e irriconoscibile, assumeva talvolta in modo impressionante i lineamenti dolorosi del santo Volto. Sembrava un Cristo in croce. Tre settimane prima, aveva confidato alla sua Madre Priora: « Se il mio Signore mi facesse scegliere fra la morte in un’estasi o nell’abbandono del Calvario, sceglierei quest’ultima per assomigliare a Lui ». E il Signore l’aveva pienamente esaudita: era la desolazione del Calvario, nell’intimo come al di fuori. Dopo una crisi violenta, la si era udita esclamare: « O Amore, Amore, consuma tutta la mia sostanza per la tua gloria! Che essa possa distillarsi goccia a goccia per la tua Chiesa ». L’antivigilia della morte, il medico non le nascose la estrema debolezza del suo polso; ne esultò, e trovò la forza di dire: « Fra due giorni, sarò in seno ai miei “Tre”. Sarà la Madonna, questo essere tutto luce, che mi prenderà per mano per condurmi al Cielo ». Il medico, incredulo, si meravigliava di una tale gioia; e suor Elisabetta gli parlò allora dell’adozione divina, del grande mistero dell’Amore che si china su di noi… Questi ultimi slanci l’avevano interamente esaurita; si poté però sentirla mormorare ancora, quasi in tono di canto: « Vado alla Luce, all’Amore, alla Vita! ». Furono le ultime parole intelligibili. Il venerdì, 9 novembre, alle cinque e tre quarti del mattino, si piegò sul lato destro, col capo arrovesciato all’indietro. Il volto le si illuminò; i suoi begli occhi, da otto giorni chiusi e quasi spenti, si aprirono, fissandosi con espressione ineffabile in un punto un po’ al di sopra della Madre Priora, inginocchiata presso il suo letto. Era bella come un Angelo. Le suore che, intorno a lei, recitavano le preghiere degli agonizzanti, non potevano distaccarne lo sguardo. – Poi, senza che fosse dato loro di sorprenderne l’ultimo respiro, si accorsero che suor Elisabetta non era più. Era l’alba della « Dedicazione », una delle feste a lei più care. Mentre, in coro, alla presenza delle sue spoglie mortali, le suore cantavano le lodi della Casa di Dio: « Beata pacis visio », suor Elisabetta, già nell’immutabile visione di pace e negli splendori della celeste Gerusalemme, che era stato il pensiero più assiduo degli ultimi suoi giorni, era unita alla moltitudine dei Beati che, con le palme in mano, ripetono incessantemente il cantico: « Santo, santo, santo, il Signore onnipotente che era, che è, che sarà, nei secoli dei secoli ». – Con essi, prostrandosi, adorando e gettando ai piedi del trono dell’Agnello la sua corona, ricompensa del suo martirio d’amore, ella ripeteva senza posa: « Dignus es, Domine. Sì, Tu sei degno, Signore, di ricevere onore, potenza, sapienza, forza e divinità » (Apoc. V). Alla presenza della Trinità Santa, suor Elisabetta era divenuta Lode di Gloria per l’eternità.