VITA E VIRTÙ CRISTIANE (23)

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (23)

GIOVANNI G. OLIER Mediolani 27-11 – 1935

Nihil obstat quominus imprimetur. – Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XV

Del modo di fare le proprie azioni per il principio della vita cristiana

Rinunciare a noi stessi e al nostro amor proprio. Adorare lo Spirito di Gesù Cristo nell’anima sua santissima.- Abbandonarci allo Spirito Santo perché diffonda in noi le intenzioni medesime di Gesù. — Non è necessario sentire l’azione divina; basta la fede e la volontà. – Nostro Signore sentiva lui pure la ripugnanza nella parte interiore dell’anima. — Lo spirito della religione è spirito di rinuncia.

L’uomo vecchio, in noi, è sempre attivo e quindi sempre ricerca sé stesso, perché in noi la carne, nello stato in cui si trova, non può che cercare i propri interessi. Poiché essa non vuole punto elevarsi a Dio, né portarsi a Lui, ma unicamente e senza posa ricerca sé medesima, bisogna al principio di ogni opera, riprovarne tutte le tendenze e tutte le intenzioni. Perciò la prima disposizione che dobbiamo avere nelle nostre azioni è di rinunziare a noi medesimi e al nostro amor proprio. La seconda cosa che dobbiamo fare è di adorare lo Spirito di Gesù Cristo che ne eleva l’anima a Dio in tutta la purezza, la santità e la giustizia possibile. Lo Spirito di Dio nell’anima di Gesù infondeva tutte le intenzioni più sante e tutte le più pure disposizioni possibili, perciò vi rendeva a Dio Padre tutta la somma di onore, di lode e di gloria che il Padre poteva riceverne. – La terza cosa è di domandare a questo divino Spirito che diffonda in noi le disposizioni dalle quali Egli vuole animarci per la gloria di Dio. Infine, bisogna abbandonarci allo Spirito Santo affinché si degni elevare l’anima nostra a tutte quelle intenzioni che saranno di suo compiacimento durante tutta l’opera che incominciamo, conservandoci uniti a Lui in tutto ciò che dovremo fare. – L’interiore di Gesù Cristo consisteva nel suo divino Spirito, che ne riempiva l’anima di tutte le intenzioni e disposizioni con le quali Dio poteva essere onorato da Lui e da tutta la sua Chiesa; orbene, questo divino interiore deve starci sempre davanti agli occhi come la sorgente e il modello di tutte le interne disposizioni delle anime nostre. Anzi bisogna offrire sovente a Dio quel divino interiore di Gesù, come supplemento al nostro che è così deficiente, perché davanti a Dio serva di riparazione per le nostre colpe. Nostro Signore medesimo si è degnato di offrire spesso a Dio, a questa intenzione, i suoi interni sentimenti.

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Bisogna notare inoltre che, per essere uniti con lo Spirito di Nostro Signore onde vivere nella vita cristiana e operare santamente, non è necessario che sentiamo in noi questo Spirito, né che gustiamo sensibilmente in noi i sentimenti e le disposizioni di Gesù Cristo; basta vi ci uniamo per la fede, ossia con la volontà e con un vero e reale desiderio. Ed è ciò appunto che lo Spirito Santo ci dà, perché operiamo conforme al desiderio di Nostro Signore medesimo e così siamo adoratori in ispirito e verità. Gesù Cristo, infatti, il vero ed unico Religioso e Adoratore del Padre, diceva che il Padre suo domandava Adoratori in ispirito e verità (Joan. IV, 23), vale a dire, veri Religiosi e Adoratori che siano veramente distaccati da sé stessi, senza ricerca del proprio interesse, e realmente siano intimamente uniti al suo Spirito: ed in ciò consiste la vera religione interiore e cristiana. – Quando abbiamo in noi lo Spirito Santo mediante la grazia e viviamo distaccati dal peccato, per operare nella vita e nella santità di questo divino Spirito, basta che l’anima nostra si tenga unita a Lui per la parte più elevata e più sottile che chiamasi col nome di spirito. Inoltre, dobbiamo dire, a consolazione delle anime pure e sante, che Nostro Signore medesimo, soprattutto nel tempo della sua Passione, serviva il Padre suo per lo spirito, ossia per la parte superiore dell’anima sua, senza nulla. sentire nella parte inferiore e sensibile. – La parte superiore, in Gesù Cristo Nostro Signore, era nella gloria, e nella pienezza della sua luce vedeva tutte, assolutamente tutte le intenzioni adorabili con cui sì poteva rendere omaggio al Padre. Egli si investiva di queste intenzioni, aderendo allo Spirito che gliele suggeriva e le operava in Lui; ma essendo l’anima sua immersa in un oceano di disgusti, di aridità e di amarezze. Egli provava ripugnanza per quelle cose cui l’anima sua nella parte superiore abbracciava con una volontà infinitamente perfetta, per la gloria del Padre suo. Così, non dobbiamo inquietarci per le aridità e le ripugnanze della carne purché facciamo il nostro dovere e che la parte superiore dell’anima nostra, ossia la nostra mente e la nostra volontà, aderisca allo Spirito Santo, che sta in noi per operare secondo le sue intenzioni e i suoi desideri. Dobbiamo tenerci uniti allo Spirito Santo con un puro spirito di sacrificio, e nella fede, vale a dire, per una conoscenza oscura e insensibile ma tuttavia certa, che Dio sta in noi col suo santo e divino Spirito onde aiutarci nella nostra debolezza per la quale da noi stessi non siamo capaci di elevarci a Dio. Quando il Signore vede che accogliamo quei buoni desideri che Egli forma in noi: quando vede che abbiamo la volontà di operare unicamente per la sua gloria, che ci diamo interamente a Lui e cerchiamo il soccorso della sua grazia, allora ci abbraccia, ci eleva, ci santifica e fa che operiamo in ispirito e verità: ma non permetterà che l’anima lo senta, e ciò per divezzarla dalla carne e conservarla in una più grande santità e in un maggior distacco da sé stessa. È questo lo spirito di tutta le religione cristiana, spirito che a tutti i fedeli dà la vita con la virtù di operare nella santità e nella giustizia. In questo spirito, adunque dobbiamo incessantemente immergerci, distaccandoci da noi stessi, giusta il precetto di Nostro Signore: Colui che vuole seguirmi, rinunci a sé  stesso, prenda la sua croce e venga dietro a me (Matth. XVI, 24). Il vero discepolo di Gesù Cristo che vuole vivere come Lui, deve rinnegare sé medesimo in tutta verità come ha fatto Gesù Cristo; deve evitare di compiacersi in sé medesimo; Cristo non ebbe riguardi a sé stesso, Christus non sibi placuit (Rom. XV, 3) ma stare interamente unito con quel divino Spirito che esso possiede in sé medesimo e seguirlo, imitando la condotta  di Gesù Cristo, che non ha mai fatto la sua volontà. Gesù Cristo viveva in una perfetta aderenza allo Spirito di Dio suo Padre, e teneva l’anima sua sempre unita a Lui nella parte superiore e principale mentre permetteva che nella sua carne e nella parte inferiore dell’anima sua sorgessero ripugnanze e contraddizioni: Tale era la contraddizione che Egli subiva in sé stesso contro sé stesso. Così, se vogliamo seguire Nostro Signore. dobbiamo aderire continuamente allo Spirito per una decisa volontà che ci mantenga sempre fermi in ogni nostro dovere in mezzo alle croci ed alle contraddizioni, e ci elevi a Dio, senza che ci prendiamo compiacenza in noi medesimi, mentre la nostra carne, la quale vuole tutto al contrario di ciò che deve volere e perciò non può star soggetta, è sempre in contraddizione con quello Spirito divino. La carne desidera il contrario di ciò che lo spirito desidera: orbene, in tale contraddizione, bisogna che quella parte di noi che è lo spirito aderisca allo Spirito Santo, con cui deve essere perfettamente unita nei desideri e nella volontà, partecipando alle qualità di Lui che sono infinitamente lontane e al disopra della carne, benché nella parte inferiore, l’anima sia ancora aderente alla carne. In tal modo dobbiamo costantemente odiare l’anima nostra in quanto essa anima la carne e deve subire in sé stessa questa contraddizione come una croce continua e perpetua. Se alcuno vuol venire con me. rinneghi sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua. Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam et sequatur me (Luc. IX, 23).

FINE

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. PIO XI “VIGILANTI CURA”

Si tratta di una lettera Enciclica della massima importanza, perché affronta un argomento che diventava allora, ed oggi ancor più, rovente e destabilizzante per la salute dell’anima degli esseri umani, in particolare per i Cristiani: la salvaguardia della moralità degli spettacoli cinematografici. Tali spettacoli, come ognuno sa, hanno raggiunto oggi un grado di amoralità elevatissimo con rappresentazione di atti dichiaratamente osceni e vergognosi, ben al di sotto dei più orripilanti istinti animaleschi, rappresentando sessualità esplicita di ogni tipo, etero ed omo sessuale, scene pedopornografiche di inaudita violenza, vere porcherie che farebbero rivoltare maiali e topi, mandrilli ed animali sottoposti ai più turpi istinti bestiali. Il tutto è catalogato poi come espressione “artistica” e coronato da premi prestigiosi che hanno oramai assunto risvolti vomitevoli proposti ad un pubblico di ogni età ed estrazione sociale, a cominciare dai cartoni animati pieni di messaggi occulti ed esplicite devianti scenografie. Tutto questo senza alcuna protesta da parte di genitori, associazioni varie, anzi con il beneplacito più o meno palese non solo delle combriccole di perdizione pseudo filantropiche, ma di strutture sedicenti religiose per lo più appartenenti all’area protestante-modernista. Che orrore! Si respira l’orrore di vomitevoli violenze ed oscenità in tutte le sale cinematografiche del mondo ove si entra pure con biglietti sempre più costosi così da rappresentare un simbolo elitario e progressista. L’elenco di spettacoli teatrali, musicali, cinematografici, con evidenti oscenità obbrobriose, scandalose, sarebbe troppo lungo e servirebbe solo a mostrare il terreno guadagnato nella odierna società dal “nemico dell’uomo” e dal paganesimo trionfante. Passiamo quindi alla lettura di questo documento che come una fragile diga di un fiume impetuoso, non è riuscito a frenare la rivolta dell’inferno contro il Cristianesimo vacillante degli ultimi secoli.

LETTERA ENCICLICA DI PAPA PIO XI 
SUL CINEMA

VIGILANTI CURA

Contesto storico

Vigilanza continua della Santa Sede

Nel seguire con occhio vigile, come richiede il nostro pastorale ufficio, l’opera benefica dei nostri confratelli nell’episcopato e di tutto il popolo fedele, ci è stato sommamente gradito l’intendere i frutti che ha già raccolti e i progressi che va tuttora facendo quella provvida impresa da oltre un biennio iniziata, quasi una santa crociata, contro gli abusi degli spettacoli cinematografici, affidata in modo particolare alla “Legione della decenza”. Questo ottimo esperimento ci porge ora la desiderata opportunità di manifestare, con maggiore ampiezza, il nostro pensiero sopra un argomento che riguarda da vicino la vita morale e religiosa di tutto il popolo cristiano. Anzitutto esprimiamo la nostra riconoscenza alla gerarchia degli Stati Uniti e ai fedeli suoi cooperatori per le importanti opere già compiute dalla “Legione della decenza” sotto la sua direzione e guida. Ed è la riconoscenza nostra tanto più viva, quanto più profonda era l’angoscia che sentivamo al riscontrare ogni giorno i tristi progressi – magni passus extra viam – dell’arte e dell’industria cinematografica nella rappresentazione del peccato e del vizio. Ogni qualvolta si è presentata l’occasione noi abbiamo ritenuto dovere del nostro altissimo ufficio di richiamare su ciò la sollecita attenzione non soltanto dell’episcopato e del clero, ma di tutte le persone rette e sollecite del pubblico bene. – Già nell’enciclica Divini illius Magistri, abbiamo lamentato che “questi potentissimi mezzi di divulgazione (come il cinema), che possono riuscire, se ben governati da sani principi, di grande utilità all’istruzione ed educazione, vengono purtroppo spesso subordinati all’incentivo delle male passioni ed all’avidità del guadagno”. E nell’agosto 1934, rivolgendoci ad una rappresentanza della Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica, dopo avere rilevato la grandissima importanza che questo genere di spettacoli ha raggiunto ai nostri giorni e la influenza larghissima che esercita sia nel promuovere il bene, sia nell’insinuare il male, ricordavamo, infine, che bisogna pur applicare al cinema, perché non attenti continuamente alla morale cristiana, o semplicemente umana, secondo la legge naturale, “la concezione che deve reggere e regolare il grande dono dell’arte. Ora, l’arte ha quale compito suo essenziale, e come la sua stessa ragione d’essere, quella di essere perfettiva dell’entità morale che è l’uomo, e perciò deve essere essa stessa morale”. E concludevamo, fra la manifesta approvazione di quelle elette persone – ancora ci è caro ricordarlo – col raccomandare la necessità di rendere il cinema “morale, moralizzatore, educatore”. Ed anche recentemente, nell’aprile cioè del corrente anno, ricevendo in gradita udienza un gruppo di delegati del Congresso Internazionale della Stampa Cinematografica, tenutosi in Roma, prospettavamo di nuovo la gravità del problema: caldamente esortavamo tutte le persone di buona volontà a nome della religione non solo, ma anche a nome del vero benessere morale e civile dei popoli, perché si adoperassero con ogni mezzo che fosse in loro potere, quale appunto la stampa, affinché il cinema possa diventare davvero un coefficiente prezioso di istruzione e di educazione, e non già di distruzione e di rovina per le anime. – Sennonché, l’argomento è di tanta gravità per se stesso, e per le condizioni presenti della società, che crediamo necessario ritornarvi sopra; né solo con raccomandazioni particolari come nelle occasioni precedenti, ma con riguardo universale, al bisogno cioè non delle sole vostre diocesi, Venerabili Fratelli, ma di tutto l’orbe cattolico. È necessario, infatti, e urgente il provvedere che, anche in questa parte, i progressi dell’arte, della scienza e della stessa perfezione tecnica e industria umana, come sono veri doni di Dio, così alla gloria di Dio e alla salvezza delle anime siano ordinati, e servano praticamente all’estensione del regno di Dio in terra, affinché tutti, come ci fa pregare la santa Chiesa, profittiamo di essi in modo da non perdere i beni eterni: Sic transeamus per bona temporalia ut non amittamus aeterna (orazione della terza domenica dopo Pentecoste).

L’esperienza americana

Ora è certo, e da tutti riscontrato agevolmente, che i progressi dell’arte e industria cinematografica, quanto più meravigliosi erano divenuti, tanto più perniciosi ed esiziali si mostravano alla moralità ed alla religione; anzi alla onestà stessa della convivenza civile. Ciò riconobbero gli stessi dirigenti dell’industria negli Stati Uniti, quando confessarono la responsabilità loro propria, di fronte al pubblico, anzi alla società intera; mentre nel marzo 1930, con un libero atto, posto di comune accordo, solennemente sancito dalle loro firme e promulgato per la pubblica stampa, presero insieme un impegno solenne di tutelare nell’avvenire la moralità dei frequentatori del cinema. In questo codice si dava la promessa che non verrebbe mai più prodotto nessun film atto ad abbassare il livello morale degli spettatori, o tale da porre in discredito la legge naturale e umana, o da ingenerare simpatia per la violazione di essa. Sennonché, nonostante una sì saggia determinazione spontaneamente presa, i responsabili si mostrarono incapaci di attuarla, e i produttori apparvero non disposti a sottostare ai principi che si erano obbligati ad osservare. Essendosi, perciò, l’impegno suddetto dimostrato scarsamente efficace e continuandosi nel cinema l’esibizione del vizio e del delitto, sembrava ormai quasi preclusa la via dell’onesto svago mediante i film. In questa crisi, voi, o Venerabili Fratelli, foste fra i primi a studiare come si potevano tutelare le anime di coloro che erano affidati alle vostre cure, e deste inizio alla “Legione della decenza”, come a una crociata per la pubblica moralità, intesa a ravvivare gli ideali dell’onestà naturale e cristiana. Lungi da voi ogni pensiero di danneggiare l’industria cinematografica: anzi indirettamente la premuniste dalle rovine, alle quali sono esposte le forme ricreative che vanno degenerando in corruzione dell’arte. – Le vostre direttive suscitarono la pronta e devota adesione dei vostri fedeli: e milioni di Cattolici americani sottoscrissero l’impegno della “Legione della decenza”, obbligandosi a non assistere a nessun film che riuscisse di offesa alla morale cattolica e alla corretta norma di vita. Così possiamo dire con gioia che pochi problemi degli ultimi tempi hanno unito tanto strettamente Vescovi e popolo, quanto siffatta collaborazione a questa santa crociata. Né solamente Cattolici, ma ragguardevoli protestanti, israeliti ed altri molti, accettarono la vostra iniziativa e si unirono ai vostri sforzi per ridare sagge norme, artistiche e morali, al cinema. Ci è di sommo conforto il rilevare il notevole successo della crociata, perché il cinema, sotto la vostra vigilanza e la pressione esercitata dall’opinione pubblica, ha presentato un miglioramento dal lato morale. Delitti e vizi vennero riprodotti meno di frequente; il peccato non venne più così apertamente approvato ed acclamato; non si presentarono più in maniera così proterva false norme di vita all’animo tanto infiammabile della gioventù. Sebbene in alcuni circoli si fosse predetto che i pregi artistici del cinema sarebbero stati gravemente danneggiati dalle insistenze della “Legione della decenza”, pare tuttavia che avvenga proprio il contrario. Infatti, esse hanno dato non piccolo impulso agli sforzi per avviare sempre più il cinema a nobiltà di intendimenti artistici, indirizzando alla riproduzione di opere classiche e a spettacoli originali di non comune pregio. E neppure gli investimenti finanziari dell’industria cinematografica risentirono danno, come era stato gratuitamente predetto; giacché molti, che erano rimasti lontani dal cinema per le offese alla morale, ritornarono a frequentarlo, quando poterono vedere proiettate vicende oneste, non offensive dei retti costumi né pericolose per la virtù cristiana. Quando s’iniziò la vostra crociata, fu detto che gli sforzi di essa sarebbero stati poco durevoli, e gli effetti del tutto transitori, perché, diminuita a poco a poco la vigilanza dei Vescovi e dei fedeli, i produttori sarebbero stati nuovamente liberi di ritornare ai metodi di prima. È facile capire perché alcuni di costoro desiderino poter ritornare ai soggetti equivoci, che eccitano le basse passioni e che voi avete proscritto. Mentre la produzione di film realmente artistici, di vicende umane virtuose, richiede sforzo intellettuale, fatica, abilità e, talvolta, un più notevole dispendio, al contrario riesce spesso relativamente facile provocare il concorso al cinema di certe persone e categorie sociali con film che accendano le passioni e sveglino gli istinti inferiori latenti nei cuori umani. Invece, una incessante e universale vigilanza deve persuadere i produttori che non si è dato inizio alla “Legione della decenza” come ad una crociata effimera, la quale possa venire presto trascurata e dimenticata, ma perché i Vescovi degli Stati Uniti intendono tutelare ad ogni costo la moralità della ricreazione del popolo, in ogni tempo e sotto qualunque forma avvenga. La ricreazione, infatti, nelle sue molteplici forme, è divenuta ormai una necessità per la gente che si affatica nelle occupazioni della vita; ma essa dev’essere degna dell’uomo ragionevole, e perciò sana e morale; deve sollevarsi al grado di un fattore positivo di bene e suscitatore di nobili sentimenti. Un popolo che nei suoi momenti di riposo si dedica a divertimenti che offendono il retto senso del decoro, dell’onore, della morale, a ricreazioni che riescono occasione di peccato, specialmente per i giovani, si trova in grave pericolo di perdere la sua grandezza e la stessa potenza nazionale.

Parte dottrinale

L’importanza e il potere del cinema

È indiscutibile che fra i divertimenti moderni il cinema ha preso negli ultimi anni un posto d’importanza universale. Né occorre far notare come siano milioni le persone che assistono giornalmente agli spettacoli cinematografici; come in sempre maggior numero si vadano aprendo le sale per tali spettacoli presso tutti i popoli sviluppati e in via di sviluppo, come infine il cinema sia diventato la più popolare forma di divertimento, che si offra, per i momenti di svago, non solamente ai ricchi, ma a tutte le classi della società. D’altra parte non si dà oggi mezzo più potente del cinema ad esercitare influsso sulle moltitudini, sia per la natura stessa delle immagini proiettate sullo schermo, sia per la popolarità dello spettacolo cinematografico, infine per le circostanze che l’accompagnano. La potenza del cinema sta in ciò, che esso parla mediante immagini. Esse, con grande godimento e senza fatica, sono mostrate ai sensi anche di animi rozzi e primitivi, che non avrebbero la capacità o almeno la volontà di compiere lo sforzo dell’astrazione e della deduzione, che accompagna il ragionamento. Anche il leggere, o l’ascoltare, richiedono uno sforzo, che nella visione cinematografica è sostituito dal piacere continuato del succedersi delle immagini concrete e, per così dire, viventi. Nel cinema parlato si rafforza questa potenza, perché la comprensione dei fatti diviene ancora più facile e il fascino della musica si collega con lo spettacolo. – Purtroppo, i balli e i varietà, che talvolta s’introducono negli intermezzi, accrescono l’eccitamento delle passioni. Che se il cinema è veramente lezione di cose, che ammaestra in bene o in male, più efficacemente, per la maggiore parte degli uomini, dell’astratto ragionamento, occorre che essa sia elevata ai fini di una coscienza cristiana, e liberata degli effetti depravanti e demoralizzanti. Tutti sanno quanto danno producono i film cattivi nelle anime. Essi divengono occasioni di peccato; inducono i giovani nelle vie del male, perché sono la glorificazione delle passioni; espongono sotto una falsa luce la vita; offuscano gli ideali; distruggono il puro amore, il rispetto per il matrimonio, l’affetto per la famiglia. Possono altresì creare facilmente pregiudizi fra gli individui e dissidi fra le nazioni, fra le classi sociali, fra le intere razze. D’altro canto, i buoni film possono invece esercitare un’influenza profondamente moralizzatrice sugli spettatori. Oltre a ricreare, possono suscitare nobili ideali di vita, diffondere preziose nozioni, fornire maggiori conoscenze della storia e delle bellezze del proprio e dell’altrui paese, presentare la verità e la virtù sotto una forma attraente, creare, o per lo meno favorire, una comprensione fra le nazioni, le classi sociali e le stirpi, promuovere la causa della giustizia, ridestare il richiamo della virtù e contribuire quale aiuto positivo al miglioramento morale e sociale del mondo.

La popolarità e l’impatto del cinema

Queste considerazioni acquistano tanto maggiore gravità da ciò, che il cinema parla non a singoli, ma alle moltitudini, ed in circostanze di tempo, di luogo, di ambiente quanto mai propizie a suscitare non comune entusiasmo per il bene, come per il male, e a condurre a quella esaltazione collettiva, che può assumere – come l’esperienza purtroppo insegna – forme addirittura morbose. Le immagini cinematografiche sono, infatti, mostrate a gente che sta seduta in una sala oscura, ed ha le facoltà fisiche e spirituali per lo più rilassate. Non c’è bisogno di recarsi a cercare lontano queste sale; esse sono attigue alle case, alle chiese e alle scuole del popolo, sicché il cinema viene ad avere un influsso della massima importanza nella vita quotidiana. Inoltre, le vicende raffigurate nel cinema sono svolte da uomini e donne particolarmente scelti e per le loro doti naturali e per l’uso di espedienti tali, che possono anche divenire strumento di seduzione, soprattutto per la gioventù. Il cinema vuole per di più, a suo servizio, il lusso delle scenografie, la piacevolezza della musica, il realismo inverecondo, ed ogni forma di capriccio nello stravagante. E per ciò stesso il suo fascino si esercita con particolare attrattiva sui giovani, sugli adolescenti e sulla stessa infanzia. Così, proprio nell’età in cui si sta formando il senso morale e si vanno svolgendo le nozioni ed i sentimenti di giustizia e di rettitudine, dei doveri e degli obblighi, degli ideali della vita, il cinema, con la sua diretta propaganda, prende una posizione schiettamente preponderante. E, purtroppo, oggi, molto frequentemente la prende in male. Sicché al pensare a tanta strage di anime di giovani e di fanciulli, a tante innocenze che si perdono proprio nelle sale cinematografiche, viene alla mente la terribile condanna di nostro Signore contro i corruttori dei piccoli: Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare (Mt XVIII,6).

La necessità della vigilanza

E, dunque, una delle necessità supreme del nostro tempo vigilare e lavorare perché il cinema non sia più scuola di corruzione, ma si trasformi anzi in prezioso strumento di educazione ed elevazione dell’umanità. E qui ricordiamo con compiacenza che qualche governo, impensierito dell’influenza del cinema nel campo morale ed educativo, ha creato, mediante persone probe ed oneste, e specialmente padri e madri di famiglia, apposite commissioni di censura, come pure ha costituito organismi di indirizzo della produzione cinematografica, cercando di ispirarla a opere nazionali di grandi poeti e scrittori. Pertanto, se era sommamente giusto e conveniente che voi, Venerabili Fratelli, esercitaste una speciale vigilanza sopra l’industria cinematografica del vostro paese, che è particolarmente progredita ed ha non poca influenza nelle altre parti del mondo, è peraltro dovere dei vescovi di tutto l’orbe cattolico di unirsi, per vigilare su questa universale e potente forma di divertimento e insieme d’insegnamento, per far valere come motivo di proibizione l’offesa al sentimento morale e religioso e tutto ciò che è contrario allo spirito cristiano ed ai suoi principi morali, non stancandosi di combattere quanto contribuisce ad attenuare nel popolo il senso della virtù e dell’onore. Tale obbligo spetta non solo ai vescovi, ma altresì ai fedeli ed a tutti gli uomini onesti, amanti del decoro e della santità della famiglia, della nazione, e in generale della società umana.

Conseguenze pratiche

Gli standard della produzione

Vediamo ora in che cosa deve consistere questa vigilanza. L’aspetto morale del problema della produzione dei film sarebbe risolto alla radice, se ci fosse modo di avere una produzione cinematografica informata pienamente ai principi della morale cristiana. Non sarà mai troppo ampia la nostra lode a tutti quelli che si sono dedicati, o si dedicheranno, al nobilissimo intento di elevare il cinema ai fini dell’educazione, e alle esigenze della coscienza cristiana, adoperandosi a questo scopo con competenza di tecnici, e non di dilettanti, per evitare ogni perdita di forze e di denaro. Ma poiché sappiamo quanto sia difficile organizzare tale industria, specialmente per ragioni di ordine finanziario, e siccome d’altra parte occorre influire su tutta la produzione perché essa non compia opera dannosa ai fini religiosi, morali e sociali, è necessario che i pastori di anime vigilino sui film prodotti ed offerti universalmente al popolo cristiano. Circa l’industria stessa dei film, Noi esortiamo i Vescovi di tutti i paesi, ma in modo speciale voi, Venerabili Fratelli, a far appello a quei Cattolici che hanno una partecipazione a questa industria. Pensino essi seriamente ai loro doveri ed alle responsabilità che hanno, come figli della Chiesa, di usare della loro ingerenza ed autorità perché i film, che essi producono, o aiutano a produrre, siano conformi ai principi di sana moralità. Il numero dei Cattolici che sono esecutori, direttori, autori o attori nei film non è piccolo, e purtroppo la loro ingerenza nella produzione di essi non è stata sempre in accordo con la loro fede e con i loro ideali. Voi, o Venerabili Fratelli, farete bene ad impegnarli perché mettano la loro professione in accordo con la loro coscienza di uomini rispettabili e di seguaci di Gesù Cristo. Anche per questo, come per ogni altro campo di apostolato, i pastori di anime troveranno certamente degli ottimi cooperatori in coloro che militano nelle file dell’Azione Cattolica; ai quali non possiamo mancare di rivolgere in questa lettera Un caldo appello, perché vi prestino tutto il loro contributo e la loro operosità senza stancarsi o venir mai meno.

Gli obblighi morali

Di tempo in tempo, i vescovi faranno bene a ricordare all’industria cinematografica che essi, tra le cure del loro pastorale ministero, devono adoperarsi ad ogni forma di onesta e sana ricreazione, perché sono tenuti a rispondere dinanzi a Dio della moralità del loro popolo, anche quando si diverte. Il loro sacro ministero li obbliga a dire chiaro e aperto che un divertimento malsano e impuro distrugge le fibre morali di una nazione. Ricordino, altresì, all’industria cinematografica che quanto essi chiedono non riguarda solo i Cattolici, ma tutto il pubblico del cinema. – In particolare voi, Venerabili Fratelli degli Stati Uniti, giustamente potete insistere su ciò che dicemmo, avere l’industria cinematografica del vostro paese riconosciuta la propria responsabilità di fronte alla società. Procurino, poi, i Vescovi di tutto il mondo di lumeggiare agli industriali del cinema che una forza così potente e universale può essere utilmente indirizzata ad un altissimo scopo di miglioramento individuale e sociale. Perché, infatti, si deve far solo questione di evitare il male? I film non devono riuscire un semplice divertimento, né occupare soltanto ore frivole e oziose, ma possono e devono con la loro magnifica forza illuminare e positivamente indirizzare al bene.

Proposte concrete

La promessa

Ed ora, attesa la gravità della materia, riteniamo opportuno scendere ancora a qualche indicazione pratica. Anzitutto, come già abbiamo accennato, tutti i pastori di anime procureranno di ottenere dai loro fedeli che facciano ogni anno, come i loro confratelli americani, la promessa di astenersi da film che offendano la verità e la morale cristiana. Questo impegno o questa promessa può farsi specialmente nelle Chiese o nelle scuole, e con la premurosa cooperazione dei padri e delle madri di famiglia, cui in ciò incombe la responsabilità. I Vescovi potranno altresì valersi a questo scopo della stampa cattolica, la quale illustrerà la bellezza e l’efficacia della promessa di cui si tratta.

La classificazione dei film

L’adempimento di questa promessa esige che il popolo conosca chiaramente quali film sono leciti per tutti e quali leciti con riserve, quali sono dannosi o positivamente cattivi. Il che richiede che, il più spesso possibile, vengano redatti e stampati appositi elenchi dei film classificati, in modo da portarli a notizia di tutti. Sarebbe in sé desiderabile che si potesse stabilire una lista unica per tutto il mondo, perché per tutti vige una stessa legge morale. Sennonché, trattandosi di spettacoli che toccano tutte le classi della società, grandi e piccoli, dotti e ignoranti, è chiaro che il giudizio su di essi non può essere dappertutto lo stesso. Infatti, le circostanze, gli usi e le forme variano nei vari paesi: perciò non sembra cosa pratica stabilire una sola lista per tutto il mondo. Tuttavia, se in ogni nazione si pubblicherà un proprio elenco dei film distinti per classi, come sopra abbiamo detto, in tal caso vi si segua una conveniente norma comune.

Gli uffici nazionali

Perciò è del tutto necessario che in ogni Paese i Vescovi istituiscano un ufficio permanente nazionale di revisione, con lo scopo di promuovere i film buoni, classificare tutti gli altri e farne giungere i giudizi ai sacerdoti ed ai fedeli. Esso molto opportunamente potrà venire affidato agli organismi centrali dell’Azione Cattolica, la quale, appunto, dipende dai Vescovi. In ogni caso, però, è necessario sia bene stabilito che l’opera di classificazione, per riuscire efficace ed organica, deve essere nazionale e curata da un unico centro responsabile. Qualora, poi, gravissime ragioni locali lo richiedessero veramente, i Vescovi nella propria diocesi, per mezzo delle loro commissioni diocesane di revisione, potranno, sulla stessa lista nazionale – che deve applicare norme adattabili a tutta la nazione – far uso di criteri più severi, come può richiederli l’indole della regione, censurando anche dei film che fossero ammessi nella lista nazionale. Il menzionato ufficio curerà inoltre l’organizzazione dei cinema esistenti presso le parrocchie o in sedi di associazioni cattoliche, in modo da assicurare a queste sale dei film opportunamente riveduti. Mediante l’organizzazione poi di tali sale, che per l’industria rappresentano spesso dei buoni clienti, si potrà esigere che la stessa industria produca film corrispondenti pienamente ai nostri principi, i quali saranno poi facilmente proiettati non soltanto nelle sale cattoliche ma anche nelle altre. Comprendiamo che l’impianto di un tale ufficio esigerà non piccoli sacrifici e rilevanti spese per i cattolici. Tuttavia, la grande importanza del cinema e la necessità di tutelare la moralità del popolo cristiano, ed anche la moralità dell’intera nazione, rende questo sacrificio più che giustificato. L’efficacia, infatti, delle nostre scuole, delle nostre associazioni cattoliche ed anche delle nostre Chiese viene menomata e messa in pericolo dalla piaga dei film cattivi e perniciosi. L’ufficio deve essere costituito da membri che tanto siano competenti in ciò che riguarda il cinema quanto radicati nei principi della moralità e della dottrina cristiana; essi dovranno, inoltre, avere la guida e l’assistenza diretta di un sacerdote scelto dai Vescovi.

La cooperazione internazionale

Opportune intese o scambi di indicazioni e di informazioni fra gli uffici dei vari Paesi potranno rendere più efficace ed armonica l’opera di revisione dei film, pur tenendo conto delle condizioni e circostanze diverse. Così, infatti, si potrà, mediante il concorso di tutti gli scrittori cattolici, raggiungere una mirabile unità di idee, di giudizi e di azione. Questi uffici approfitteranno opportunamente non solo delle esperienze fatte negli Stati Uniti, ma anche del lavoro nel campo cinematografico compiuto dai Cattolici di altri paesi. Qualora, poi, i membri di questo ufficio – con tutte le migliori intenzioni e disposizioni – dessero in qualche difetto, come avviene in tutte le cose umane, sarà cura dei Vescovi, nella loro prudenza pastorale, e ripararlo nel modo più efficace, e tutelare quanto è possibile l’autorità e la stima dell’ufficio stesso, rafforzandolo con qualche membro più autorevole o sostituendo quelli che si fossero dimostrati meno atti a sì delicata mansione. Se tutti i Vescovi accetteranno la loro parte nell’esercitare tale onerosa vigilanza sul cinema – del che noi non dubitiamo, giacché conosciamo bene il loro zelo pastorale – certo compiranno una grande opera per la tutela della moralità del loro popolo nelle ore di svago e di ricreazione. Essi meriteranno l’approvazione e la cooperazione di tutti, cattolici e non cattolici, contribuendo così ad assicurare l’avviamento di questa grande potenza internazionale, che è il cinema, all’alto intento di promuovere i più nobili ideali e le più rette norme di vita. Ad avvalorare pertanto questi voti ed auguri, che ci sgorgano dal cuore paterno, noi imploriamo l’ausilio della grazia divina; in auspicio della quale impartiamo, con effusione di animo, a voi, Venerabili Fratelli, ed al clero e popolo a voi affidato, l’Apostolica Benedizione.

Roma, S. Pietro, 29 giugno, in occasione della Festa dei SS. Pietro e Paolo, 1936, XV anno del nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

DOMENICA QUINTA DOPO PASQUA (2022)

DOMENICA V DOPO PASQUA (2022)

Semidoppio. – Paramenti- bianchi.

La liturgia continua a cantare il Cristo risorto e ci invita, in questa settimana delle Rogazioni, ad unirci a quella preghiera con la quale il Salvatore ha chiesto a Dio di far partecipe, con l’Ascensione, la propria umanità di quella gloria che, come Dio, possiede fin dall’eternità (Off.). Anche noi possederemo un giorno questa gloria, poiché ci ha liberati dal peccato con la virtù del Suo Sangue (Intr., Comm.). Poiché Gesù Cristo partendosi da noi ci ha lasciato come consolazione « di poter pregare in nome suo, onde la nostra gioia sia perfetta », cosi domandiamo a Dio « per nostro Signore » di non rimanere senza frutto nella conoscenza di Gesù, affinché, credendo alla sua generazione da parte del Padre, (Vang.) noi meritiamo di entrare con lui nel Regno di suo Padre.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Isa. XLVIII: 20

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiate usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja.

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

Ps LXV: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: dà a Lui lode di gloria].

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

 Orémus.

Deus, a quo bona cuncta procédunt, largíre supplícibus tuis: ut cogitémus, te inspiránte, quæ recta sunt; et, te gubernánte, éadem faciámus.

[O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi súpplici di pensare, per tua ispirazione, le cose che son giuste; e, sotto la tua direzione, di compierle.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli.

Jac. I: 22-27

Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit. Qui autem perspéxerit in legem perfectam libertátis et permánserit in ea, non audítor obliviósus factus, sed factor óperis: hic beátus in facto suo erit. Si quis autem putat se religiósum esse, non refrénans linguam suam, sed sedúcens cor suum, hujus vana est relígio. Relígio munda et immaculáta apud Deum et Patrem hæc est: Visitáre pupíllos et viduas in tribulatióne eórum, et immaculátum se custodíre ab hoc sæculo.

“Carissimi: Siate osservanti della parola, e non uditori soltanto, che ingannereste voi stessi. Perché se uno ascolta la parola e non l’osserva, egli rassomiglia a un uomo che contempla nello specchio il suo volto naturale. Contemplato, se ne va, e subito dimentica come era. Ma chi guarda attentamente nella legge perfetta della libertà, e persevera in essa, diventando non un uditore smemorato, ma un operatore di fatti, questi sarà felice nel suo operare. – Se alcuno crede d’essere religioso, e non frena la propria lingua, costui seduce il proprio cuore, e la sua religione è vana. Religione pura e senza macchia dinanzi a Dio e al Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni, e conservarsi incontaminati da questo mondo”.

STUDIO E CURIOSITA’.

L’esposizione cristiana — ed è il Cristianesimo che noi, sulle orme degli Apostoli veniamo esponendo in queste spiegazioni — oscilla tra le verità più alte, trascendenti addirittura ed i concetti più umili, più pratici. Qualche volta il pensiero apostolico vola, tal altra cammina per vie piane, quasi trite. Abbiamo volato con Paolo, camminiamo oggi con S. Giacomo. Il quale è molto preoccupato dei pericoli della speculazione pura, anche religiosa. È facile illudersi e credere, per illusione, che il parlare molto di una cosa, o il meditarla profondamente, lo specularvi d’intorno voglia dire amarla per davvero. Illusione funesta sempre; ma più funesta quando la materia della illusione, sia religiosa; quando si creda religiosità o religione perfetta la speculazione teologica la più sottile e più alta. La speculazione ci vuole, perché noi uomini, anche nel campo religioso siamo esseri intelligenti, razionali: vogliamo capire. È un bisogno ed un dovere, è un ossequio a Dio: l’ossequio dell’intelligenza. Ma non basta, ma non è la cosa più importante. Perciò l’Apostolo dice ai fedeli: siate osservanti della Legge, non solo curiosi di essa. Mettetela in pratica, non appagatevi di conoscerla a perfezione. E continua osservando che il fare diversamente, il preferire la speculazione curiosa all’osservanza pratica, il guardare e sentire al fare, ancora il separare quello da questo, è un’illusione, un auto inganno. – E dopo avere insistito su questo concetto fondamentale, non con l’abilità del sofista, ma collo zelo dell’apostolo, conclude in un modo e con una formula anche più severamente e modestamente pratica, che per le sue qualità apparenti, può anche scandalizzare, ma che importa rammentare sempre per fare del buon Cristianesimo, fare della religione autentica. La quale consiste, dice l’Apostolo (e adopera la parola « religione pura ed immacolata presso Dio e il Padre ») nel « visitare i pupilli e le vedove tribolate ed oppresse, custodendo il proprio cuore senza macchia fra la corruttela del nostro secolo ». Visitare i pupilli e le vedove tribolate, oppresse; notoriamente i deboli sono stati il bersaglio della perversità vile. E nessuno è così tipicamente debole come la vedova coi suoi orfanelli. Le anime pagane approfittano di queste debolezze per opprimerle e spogliarle ed angariarle: prendono quel poco che c’è, spogliano di quel nulla che è rimasto. Le anime pagane… le quali proprio così, proprio in questo assalto ostile, cupido avido al poco benessere di questi deboli, si rivelano tali: pagane. Ed è inutile che ostentino così facendo, così trattando il prossimo, sentimenti buoni di adorazione, di amore per il loro Dio, per Iddio. L’abito religioso su queste anime egoistiche è una maschera, che non inganna nessuno, certo non inganna Dio. La pietà verso di Lui si rivela e traduce in modo irrefragabile solo nella carità operosa, benefica verso i poveri, anzi verso quei poveri che non sono più poveri, verso quelli dei quali chi fa il bene non ha nulla da umanamente ripromettersi, tanto sono poveri e miseri! I pupilli e le vedove, bersagliati, oppressi. Il linguaggio apostolico è di una singolare chiarezza. Senza questa carità o attuata, o almeno sinceramente voluta, non c’è religione, c’è una lustra di Cristianesimo. Ma basta questa carità, perché si possa dire religiosa un’anima? Basta? Delicato problema, ma a cui si può sicuramente rispondere: Se c’è in un’anima carità sincera, senza secondi fini, senza alterazioni innaturali, c’è la religione, almeno embrionalmente. Non c’è ancora la pienezza, c’è già il principio: non c’è ancora l’albero, c’è già il germe. Non siamo all’arrivo; siamo alla partenza per… verso la religione, verso Dio. Ecco perché noi possiamo predicare a tutti i nostri uditori, a quelli che hanno ancora la fede e a quelli che non l’hanno forse mai avuta, che forse l’hanno disgraziatamente perduta: siate caritatevoli, cioè fate la carità, e avrete nell’anima l’aurora e il meriggio di Dio.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Alleluja

Allelúja, allelúja.

Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúja.

[Il Cristo è risuscitato e ha fatto sorgere la sua luce su di noi, che siamo redenti dal suo sangue. Allelúia.]

Joannes XVI: 28

Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúja.

[Uscii dal Padre e venni nel mondo: ora lascio il mondo e ritorno al Padre. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann XVI:23-30

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Amen, amen, dico vobis: si quid petiéritis Patrem in nómine meo, dabit vobis. Usque modo non petístis quidquam in nómine meo: Pétite, et accipiétis, ut gáudium vestrum sit plenum. Hæc in provérbiis locútus sum vobis. Venit hora, cum jam non in provérbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiábo vobis. In illo die in nómine meo petétis: et non dico vobis, quia ego rogábo Patrem de vobis: ipse enim Pater amat vos, quia vos me amástis, et credidístis quia ego a Deo exívi. Exívi a Patre et veni in mundum: íterum relínquo mundum et vado ad Patrem. Dicunt ei discípuli ejus: Ecce, nunc palam loquéris et provérbium nullum dicis. Nunc scimus, quia scis ómnia et non opus est tibi, ut quis te intérroget: in hoc crédimus, quia a Deo exísti.

[“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: In verità in verità vi dico, che qualunque cosa domandiate al Padre nel nome mio, ve lo concederà. Fino adesso non avete chiesto cosa nel nome mio: chiedete, e otterrete, affinché il vostro gaudio sia compito. Ho detto a voi queste cose per via di proverbi. Ma viene il tempo che non vi parlerò più per via di proverbi, ma apertamente vi favellerò intorno al Padre. In quel giorno chiederete nel nome mio: e non vi dico che pregherò io il Padre per voi; imperocché lo stesso Padre vi ama, perché avete amato me, e avete creduto che sono uscito dal Padre. Uscii dal Padre, e venni al mondo: abbandono di nuovo il mondo, e vo al Padre. Gli dissero i suoi discepoli: Ecco che ora parli chiaramente, e non fai uso d’alcun proverbio. Adesso conosciamo che tu sai tutto, e non hai bisogno che alcuno t’interroghi: per questo noi crediamo che tu sei venuto da Dio”].

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

LA PREGHIERA E LA VITA ETERNA

Lontano dalla casa paterna, in cammino verso una terra ignota, Giacobbe giunse sul finir del giorno in una landa solinga e brulla. Era stanco; e, presa una delle pietre che erano colà, se la mise sotto il capo e si addormentò. In sogno vide una scala drizzata in alto, il cui piede poggiava sul deserto e la cui cima toccava il firmamento. Dio stesso era seduto sul gradino supremo, e due lunghe teorie d’Angeli, l’una che discendeva l’altra che ascendeva, percorrevano la scala misteriosa, recando messaggi. Quando il patriarca si svegliò dal suo sonno, disse: « Veramente il Signore abita in questo luogo, ed io non lo sapevo » (Gen., XXVIII, 16). Di questa scala misteriosa, oggi, vi voglio parlare. Non crediate cercarla lontano da voi, perché il luogo donde essa s’innalza è il vostro cuore. Questa scala è la preghiera. Per essa gli Angeli, messaggeri di amore, salgono e scendono: salgono portando a Dio i bisogni, le necessità, i desideri degli uomini e scendono portando agli uomini le grazie, i doni, i favori di Dio. E il Signore noi lo troviamo sempre in cima a questa scala, sempre pronto a tendere l’orecchio misericordioso per raccogliere il gemito e il sospiro che sale dal basso. Che mirabile cosa è la preghiera! Una volta Dio adirato sta per lanciare lo sterminio contro il popolo d’Israele. Mosè prega: e Dio ritira la sua vendetta. Un’altra volta il popolo eletto, dopo una giornata di battaglia, è sorpreso dalla sera senza aver potuto dare il colpo decisivo; eppure era necessario che il nemico non avesse una notte in mezzo da potersi rifare. Allora Giosuè prega: ed ecco il sole arrestarsi sull’orizzonte e prolungare la giornata di qualche ora. Tre fanciulli innocenti son cacciati per ordine d’un re iniquo nella fornace ardente. Nel fuoco pregano: e la fiamma perde la sua natura distruggitrice e li accarezza senza bruciarli. Daniele è calato in una caverna piena di leoni, affamati. Il profeta prega e le belve accovacciate a’ suoi piedi gli fanno una fedele compagnia. La terra di Palestina è tormentata dall’arsura; ogni erba è morta, e i campi gemono, screpolandosi per il secco. Elia prega: e il cielo in poco tempo si annuvola e piove. Ma perché dovrò io contare altri esempi? Udite tutti la parola che Gesù Cristo ci grida oggi dal suo Vangelo: Amen, Amen! In verità, in verità! « Qualunque cosa chiederete al padre in mio nome, l’otterrete: ve lo dico Io! Su dunque, domandate, perché il Padre vi ama ed è contento se gli chiedete grazie Domandate! Petite, ut gaudium vestrum sit plenum. Da soli, con le nostre forze soltanto, non siamo capaci che di fare il male. Ogni nostro dovere, anche il più piccolo è superiore alle nostre energie: è necessario per compiere salutarmente che Dio ci aiuti con la sua grazia. Ma, di solito, non si ottiene grazia se non per la preghiera. Tanto meno poi si può entrare in Paradiso, senza di essa: si entrerà senza il battesimo di acqua, ma senza la preghiera, no! Domandate, se volete la vostra allegrezza ». Ma perché allora un dovere tanto essenziale è così trascurato? Perché nel mondo non si prega più? La preghiera è indispensabile agli uomini. Eppure non si prega. Ecco la contraddizione che dobbiamo meditare per ricavarne un proposito di salvezza. – LA PREGHIERA È INDISPENSABILE. A Roma, Daria la santa sposa di Crisanto fu imprigionata, perché era cristiana ed aveva convertito una folla di donne dall’idolatria alla vera religione. Ogni tormento fu escogitato per lei; ogni seduzione diabolica fu messa in opera per rovesciare la sua virtù. Da ultimo fu condotta in luoghi infami, ma Daria levati gli occhi e le mani al cielo pregò. Ed ecco vicino a lei apparire un leone fulvo e maestoso, pronto ad azzannare chiunque osasse molestarla ancora. Dum in oratione fixa est, leonis tutela a contumelia divinitus defenditur (Brev. Ambr., Die XXI Oct.). O Cristiani, e la nostra anima in questa vita non è circondata da terribili nemici come santa Daria? Quanti tormenti il demonio non escogita anche per noi! Quante tentazioni non mette in opera! Anzi il mondo intiero, in mezzo al quale viviamo, è una tentazione continua, esasperante. Tutte le condizioni della vita, tutte le cose che ci attorniano, sembrano d’accordo in una lega infernale per tramare la nostra perdita. Se siamo ricchi, le ricchezze ci fanno dimenticare l’anima inclinandoci verso i sedimenti sensuali. Se siamo poveri, la povertà ci inasprisce, e ci fa maledire la Provvidenza divina. Quando gli affari vanno bene ci abbandoniamo all’allegria mondana. Quando vanno male, ci lasciamo abbattere dalla disperazione. Quando ci troviamo onorati e collocati in alto, subito la superbia ci gonfia. Quando siamo calunniati e disprezzati, l’odio e la vendetta mordono il nostro cuore. Se siamo giovani e sani, ci sono le passioni gagliarde dei sensi. Se siamo vecchi e malati, ci sono i malumori e le mormorazioni. Nel fondo di miseria in cui è costretto a vivere, quale speranza di salute resta ancora all’uomo? la preghiera. Essa è il leone della nostra forza. Non c’è salvezza, senza la preghiera! Non siete Cristiani, senza la preghiera! a) Ecco un’anima che trovasi alle prese con una tentazione sensuale che la domina, con una abitudine di peccato dalla quale è tiranneggiata: di giorno e di notte, in solitudine e in compagnia. Essa si lamenta, vorrebbe liberarsene, e la forza le manca. C’è un rimedio solo: la preghiera. Come la lucerna trema se l’olio scarseggia, e si spegne se l’olio le manca, così la fede è incerta quando si prega poco, ed è morta quando non si prega più. « Signore! — gridava S. Pietro — aiuta la mia fede, ché io temo ». b) Ecco infine altre anime: accasciate sotto il peso delle tribolazioni, sono stanche di patire, sono stanche di piangere. Eppure, nuove disgrazie, altri dispiaceri costringono a patire ancora, a piangere ancora. Anche per queste c’è un rimedio, ed uno solo: la preghiera. Come i polmoni sofferenti hanno bisogno di un largo e fresco respiro, così il loro cuore ambasciato ha bisogno di tanta preghiera. « C’è qualcuno di voi in tristezza? — scrive S. Giacomo — Preghi e gli passerà » (Giac., V, 13). E Gesù buono dice: «Voi che faticate e sopportate venite a me per ristorarvi ». Per andare a Gesù bisogna salire la scala dell’orazione. – EPPURE NON SI PREGA. La fanteria e la cavalleria numerosissima di Oloferne assediò un giorno la città di Betulia. Alcune spie si presentarono al capitano sanguinario e gli dissero: « Oloferne! se vuoi vincere gli Israeliti senza combattere, togli a loro l’acqua e metti guardie a tutte le fontane, sicché non vi possano attingere senza perire a fil di spada ». Oloferne tagliò l’acquedotto che dava da bere alla città; e poiché vide che non lungi dalle mura v’erano delle fonti, a cui di sfuggita gli assediati correvano a bere, ordinò che fossero custodite in ogni momento. Passati venti giorni in cui al popolo di Betulia si distribuiva l’acqua a dosi sempre più scarse, la città non ebbe più goccia da bere. Allora uomini e donne, giovani e fanciulle, si radunarono a piangere e ad urlare. « Noi moriamo di sete davanti agli occhi del nostro nemico. Arrendiamoci tutti spontaneamente all’arbitrio di Oloferne » (Giud., VII). Oloferne, o Cristiani, è il demonio ed il suo antico stratagemma non l’ha dimenticato. Far morire le anime di sete! Togliete la preghiera dal mondo, e tutto il mondo assetato si abbandonerà a discrezione nelle mani dell’eterno nemico. Volgete lo sguardo intorno: perché il mal costume e l’incredulità dilagano? Perché tanta rovina di anime? Perché non si prega più! Io parlo di tante famiglie dove non solo si è dimenticato l’Angelus Domini a mezzogiorno, ma anche il Rosario alla sera. Io parlo di tanti e di tante che passano tutte le mattine e le sere senza pregare Dio, ed è molto per loro farsi un segno della croce mentre si spogliano o si vestono. Parlo di tutti quelli che non hanno provato ad ascoltare altra Messa, fuor di quella di precetto, che non hanno provato a ricevere la santa Comunione se non in tempo pasquale. Parlo di quelli che hanno l’abitudine di mormorare o di bestemmiare, ma non quella di ripetere ferventi giaculatorie. Povera gente, come farà a salvare l’anima? Ma io non sono capace di pregare. Non immaginate che per pregare sia necessario un lume speciale, una secreta conoscenza dei misteri della fede, un metodo scientifico. Niente di tutto questo: la preghiera è il sospiro che si leva dall’anima commossa davanti alla sua miseria. L’anima parla a Dio, come un amico all’amico; s’affligge d’averlo offeso; si sforza di piacere a Lui, e a Lui solo. Quando parlate con vostro padre, quando gli narrate i vostri crucci e gli chiedete aiuto, forse che andate rimuginando le parole, e almanaccate le cose che gli dovete dire? No: ognuno dice quello che dal suo cuore trabocca. Così dobbiamo fare con Dio, ch’è nostro Padre, quando preghiamo. – Ma io non ho tempo di pregare, sono troppo occupato dagli affari. O Cristiani, chi dice così non ha capito niente di quello che è la preghiera. Senza la preghiera non potete salvare l’anima; e salvar l’anima è l’affare più vero e più necessario. Ma io m’annoio a pregare e mi distraggo continuamente. È perché il vostro cuore è immerso nelle vanità del mondo: voi amate le creature, le ricchezze, le passioni e non volete bene al Signore. Anche gli Israeliti quando cominciarono a riempire il loro ventre coi frutti della terra, perdettero il gusto della manna che scendeva dal cielo (Gios., V, 12). Ma io non prego più perché non ottengo niente. O non pregate bene, o non pregate abbastanza, oppure v’ingannate. Anche quando sembrerà a voi di non essere esauditi, ricordatevi che Dio nella sua bontà sta preparandovi grazie molto più grandi di quelle che gli chiedete. – Il convento di S. Francesco da Paola in Calabria era aggrappato alla costa d’un monte. Forse per lo sgelo, e forse per altro, un mattino di primavera si staccò dalla vetta un macigno colossale che rotolando di balza in balza devastava le foreste ed ogni cosa sul suo cammino. All’orrendo rimbombo i frati escono in cortile e vedono: fu un urlo di terrore. Ma S. Francesco, ch’era in mezzo a loro, sollevò le mani e pregò. Ecco il macigno balzare un’ultima volta e poi fermarsi miracolosamente, non molto sopra al convento. Qual forza misteriosa lo aveva arrestato nella discesa irrefrenabile? La preghiera. Nella vita, ci sono dei giorni in cui sopra il nostro capo sta per cadere un macigno e schiacciarci: forse è una sciagura materiale e più spesso è una sciagura spirituale. Talvolta è sopra la nostra famiglia che gravita la sventura, talvolta è sopra un’intera nazione. Oh se non ci fosse la preghiera ad arrestare la valanga della vendetta di Dio? Oh se non ci fossero tante anime nei conventi e nelle clausure e nelle famiglie stesse che pregano per i peccati del mondo, quanti si troverebbero addosso la morte, improvvisa come un macigno che rotoli dall’alto, e dalla morte sarebbero già stati travolti nell’eterna rovina!

I DIFETTI DELLA PREGHIERA. « Come si spiega allora, — pensano alcuni, — che molte volte ho pregato ed il Signore ha fatto il sordo con me? » Non diamo la colpa al Signore quando la colpa è tutta nostra: se non abbiamo ottenuto è perché abbiamo pregato male. Non accipitis eo quod male petatis (Giac. IV, 3). E S. Agostino spiega: « Non ricevete o perché voi siete cattivi, o perché domandate cose cattive, o perché pregate malamente ». Non accipitis eo quod mali, mala, male petatis. Consideriamo, ad uno ad uno, questi difetti che rendono vana la nostra preghiera. – EO QUOD MALI. Il re Antico si vide perduto (II Macc., IX). Era stato scacciato da Persepoli vergognosamente; ed anche i suoi generali, Nicanore e Timoteo, erano stati sconfitti dai Giudei. Il Signore poi, che tutto vede, lo faceva spasimare con un lancinante dolore di visceri. E quasi non bastasse, mentre spingeva a corsa impetuosa il suo cocchio, il cavallo impennatosi lo sbalzò sulla strada, ammaccandolo in tutte le membra. Quando quest’uomo perfido, che aveva sognato di comandare alle onde del mare e di pesare sulla sua stadera le cime dei monti, si vide sbattuto a terra, quando vide la sua carne sfasciarsi e marcire viva in un fetore a cui egli stesso non sapeva più resistere, allora rivolse a Dio la sua preghiera. « È giusto ch’io mi sottometta al Signore… ». E pregandolo, promise che avrebbe dato libertà a Gerusalemme che poco prima aveva pensato di ridurre a cimitero; promise di restituire l’oro e l’argento che aveva sacrilegamente rubato nel tempio; promise di rispettare quei Giudei che non reputava degni neppur di sepoltura ma che avrebbe voluto sterminare e lasciarli in preda agli avvoltoi e alle belve; promise perfino di farsi circoncidere e diventare anch’egli uno del popolo di Dio. Quante promesse! E quale fervore in questa preghiera! Eppure i dolori non cessarono, eppure non guarì. Tra le montagne selvagge e rocciose, lungi dal suo paese, abbandonato da tutti, come l’ultimo miserabile del mondo, disperatamente moriva Antioco, il re. Perché Dio, che è sì buono, non ha esaudito la sua preghiera? Orabat hic autem scelestus (Macc. IX, 13). Con cuore iniquo e senza aver rinnegato alla sua malizia, costui pregava Dio, a quo non esset misericordiam consecuturus, dal quale non avrebbe giammai ottenuto grazia. Pensiamo un poco: noi, che spesso ci lamentiamo di non essere esauditi nella preghiera, come stiamo di coscienza? Come pretendere che Dio ci ascolti se siamo in peccato? Il peccato ci fa servi del demonio: e noi dopo aver servito il demonio, abbiamo il coraggio di domandare la paga al Signore? Il peccato ci fa nemici di Dio: e noi pretendiamo che Egli aiuti i suoi nemici i quali si beffano in Lui, e saranno peggio che prima? Il Signore non è come gli uomini che vedono appena la vernice esterna, ne scruta nel cuore. Possono essere belle e buone le parole che gli diciamo, ma se il nostro animo è cattivo non saremo esauditi; bensì riceveremo il rimprovero che Gesù lanciò in faccia agli ipocriti farisei: « Questa gente mi onora con la bocca, ma il loro cuore è lontano da me. Vi dico che mi onora inutilmente ». (Mt. XV, 8). Quante volte ancor noi abbiamo pregato con la bocca mentre il nostro cuore era lontano: con una creatura, con un divertimento, con una passione, col demonio. Perciò non fummo esauditi. – EO QUOD MALA. « Finora, — diceva Gesù, — non avete chiesto cosa alcuna nel mio nome: domandatela e la riceverete ». Che cosa significa domandare nel Nome del Salvatore? Significa chiedere cose che riguardano la nostra eterna salvezza. A quanti Gesù potrebbe rispondere la parola che disse ai figli di Zebedeo: « Voi non sapete cosa domandate » (Mt. XX, 22). Purtroppo la nostra debolezza ci china verso terra e ci mette la benda sugli occhi circa l’ultimo fine della vita. Infatti, che cosa si domanda da tanti? Forse la luce della verità, forse l’amore della virtù, l’aumento della grazia? No, non è così. Si domanda una vita senza croci, piena di ricchezze, di onori, si domanda che questa terra che è valle d’esilio diventi un paradiso. E spesso questi beni sono la rovina di molte anime. Quanti se non fossero stati ricchi ora sarebbero in Paradiso; quanti se non fossero saliti tanto in alto tra gli uomini, ora non sarebbero discesi tanto in basso tra i demoni; quanti, se a tempo opportuno avessero avuto una croce, una malattia, la morte, ora non gemerebbero per sempre nel fuoco eterno! Ecco perché Iddio, che ha la vista più lunga della nostra, non sempre ci esaudisce quando gli chiediamo i beni del mondo. Chi è quella madre che darebbe a suo figlio per giocare un rasoio, le forbici, gli aghi? E voi pensate che Dio non faccia per le anime nostre quello che anche noi sappiamo fare con i nostri figliuoli? Il Signore disse un giorno a Salomone: « Domandami quel che vuoi e l’avrai ». Oh se facesse a noi questa domanda! Chiederemmo subito una vita lunga come quella di Matusalem, una forza terribile come quella di Sansone; chiederemmo ricchezze infinite. Invece Salomone rispose: « Dammi, o Signore, lo spirito della sapienza che guidi i miei passi sulla retta strada, e non ti abbia ad offendere mai ». E Dio fu commosso da questa risposta e aggiunse: « Giacché non mi hai domandato un bene fugace del mondo, ma un bene eterno, abbiti non solo la sapienza, ma anche un regno florido e ricchezze, e onori, tutto ». Ricordiamo anche noi, quando preghiamo, la parola di Gesù: « Cercate soprattutto il regno di Dio e la sua giustizia; il resto vi sarà dato per giunta ». – EO QUOD MALE PETATIS. La preghiera talvolta non è esaudita perché fatta male: senza umiltà, senza sostanza, senza fiducia. a) Senza umiltà: Due uomini entrano nel tempio a pregare. Uno è un fariseo, l’altro è un pubblicano. Il fariseo, dritto davanti a Dio, non fa che esaltare se stesso e umiliare gli altri: « Grazie, o Signore, che non m’hai fatto un ladro, un ingiusto, un disonesto come gli altri, come quel pubblicano là in fondo ». Il pubblicano invece, là in fondo, non osava neppure levare gli occhi dal suolo e si batteva il petto e singhiozzava: « Signore, sii buono anche con me che son peccatore ». « Guardate — concluse Gesù, narrando la Parabola, — guardate che dal tempio uscì giustificato solo il povero ed umile pubblicano (Lc., XVIII, 14). b) Senza costanza: Un uomo, a mezzanotte in punto, batte alla porta d’un suo amico. « Amico, prestami tre pani. M’è capitata gente che ha fame in casa, ed io non ne ho più, nemmeno una briciola ». L’amico non viene neppure alla finestra e di dentro gli risponde: « Senti, mi dispiace, ma ho già chiuso tutta la casa. Io sono a letto, i miei figli anche: non vorrai farci alzare per darti del pane!… ». L’altro in piedi davanti alla porta chiusa non si scoraggia e comincia a battere. Batte una volta, due, tre… L’amico non può più dormire. Se non per amicizia, ameno per levarsi quella seccatura, si alza e lo esaudisce (Lc., XI, 5). Dunque bisogna pregare, senza scoraggiarsi, fin quando si ottiene quel che si domanda. Oportet semper orare et numquam deficere. Non lasciamoci vincere dal silenzio del Signore: più tarda la grazia e più bella sarà. Trenta anni ha pregato santa Monica per il suo figliuolo, ma poi quale grazia! Suo figlio fu un santo. c) Senza fiducia: Una donna vien dalla terra di Chanaan per far la sua preghiera a Gesù: « Signore! Figliuolo di Davide, pietà di me, che ho una figlia indemoniata! ». Gesù non la guarda, non le risponde nemmeno una parola. Non respondit ei verbum. Ma essa vuol essere esaudita. Gli va dietro, e non guardata piange, e non ascoltata prega, tanto che gli Apostoli ne sentono compassione: « Maestro — dicono — lasciala andare, non vedi come grida? — Gesù allora si volge e le dice burberamente: « Io son venuto per i Giudei e non per i Cananei ». La povera donna non è vinta da questo reciso rifiuto: vuole essere esaudita e va dietro sempre e non guardata piange e non ascoltata prega. Non capisci, — la rimprovera Gesù, — ch’io non posso strappare il pane di bocca ai figli per darlo ai cani? ». E quella donna accetta d’essere come un cane, anzi si chiama cagnolino; e nell’impeto della sua fede, risponde: « Sì, è vero, ma i cagnolini hanno le briciole che cadono dalla mensa del padrone. Anche per me, dunque una briciola, anche per mia figlia indemoniata una briciola… ». Gesù allora non poté più resistere e le rispose: « La tua fede è grande; sia fatto come tu vuoi ». In quel momento sua figlia guariva. È questa la fiducia delle nostre preghiere? –  Quando il re Demetrio mandò contro i Giudei un esercito poderoso, un capitano espertissimo, Giuda Maccabeo, raccolse i suoi soldati impauriti, e raccontò loro una visione che li rallegrò tutti. « Non temete! — disse; — nel cuor della notte m’è apparso un personaggio venerando per età e gloria e circonfuso di una magnifica maestà. A me che meravigliato guardavo, una voce disse: « Questi è l’amico dei fratelli e del popolo d’Israele, questi è colui che molto prega per noi e per la città santa: Geremia è, il profeta di Dio ». Allora Geremia, stendendo la destra, mi consegnò una spada d’oro, dicendomi: « Ricevi la spada santa dono di Dio, con la quale abbatterai i nemici d’Israele mio popolo ». Confortati da queste parole, i valorosi attaccarono battaglia, pregando. La vittoria fu compiutamente splendida: ritornando giubilanti attraverso i campi insanguinati s’accorsero che il capitano dei nemici era tra i morti. Allora, alzato un grido di trionfo, benedissero il Signore onnipotente (II Macc., XV). Cristiani, che siete impauriti davanti agli assalti continui delle tentazioni e del mondo, Cristiani che siete oppressi dalle tribolazioni, Cristiani che soffrite stanchi e aggravati, alzate gli occhi al cielo: nella gloria di Dio Padre v’è Uno sempre intento a pregare per noi. Semper vivens ad interpellandum pro nobis (Ebr., VII, 25). Assai più fortunati noi siamo dei guerrieri di Giuda, perché chi intercede senza posa per noi, non è un profeta, non è un semplice uomo, ma è lo stesso Figlio di Dio, Gesù Cristo. Ecco perché Egli stesso, nel suo Vangelo, ha promesso che la nostra preghiera sarà sempre esaudita: « Se voi domandaste qualsiasi cosa al Padre, in mio Nome, non vi sarà negata. Ma finora non avete mai pregato in mio Nome: su! Domandate e avrete; chiedete ed ogni vostra brama sarà compiuta ». La preghiera è la spada d’oro che Cristo consegna a ciascuno di noi: solo con essa supereremo ogni lotta della vita e abbatteremo il nostro nemico d’inferno. Solo con essa si sono formati i santi: noi ci meravigliamo davanti alla purezza di S. Luigi Gonzaga, all’umiltà di S. Carlo Borromeo, alla carità di S. Filippo Neri, come di cose favolose e impossibili. Sì, sarebbero state davvero cose favolose e impossibili, se questi uomini avessero pregato così poco e così male come noi. – Questa volta non è della preghiera in generale che vi voglio parlare. Già tutti avete sentito e siete convinti che la preghiera è necessaria all’anima, come al corpo il respiro; che chi prega si salva e chi non prega si danna. Oggi invece vi parlerò di un dovere quotidiano, dovere indispensabile che distingue il Cristiano di fede viva, dal Cristiano di fede morta. Nell’Antico Testamento, v’era una legge che obbligava gli Ebrei ad offrire due sacrifici al giorno: uno all’alba, l’altro al tramonto. Unum offeretis mane et alterum ad vesperum (Num., XXVIII, 4). Nel Nuovo Testamento, noi pure dobbiamo innalzare, al principio e alla fine di ogni giorno, un sacrificio di lodi che appunto si chiama preghiera del mattino e della sera.LA PREGHIERA DEL MATTINO. Milton, nel suo poema Il Paradiso perduto, descrive Adamo che, appena creato, apre gli occhi a contemplare le meraviglie del mondo. Vede i fiori coloriti, il verde dei boschi, vede l’azzurro del firmamento disteso sulla sua testa, e rapito in estasi manda un grido. « Mi slanciai e saltai verso il cielo come per toccarlo!» fa dire il poeta al primo uomo. Spontaneo come quello di Adamo deve essere, tutte le mattine appena apriamo gli occhi, lo slancio del nostro cuore impaziente di elevarsi a Dio. Comincia un altro giorno: un’altra pagina del libro di nostra vita. Oh se tutte le pagine cominciassero col santo Nome di Dio, di Gesù Salvatore, di Maria madre amorosissima, del nostro Santo protettore, del nostro Angelo custode, come ci troveremmo lieti quando, finita l’ultima pagina, dovremo consegnare il libro nelle mani della Giustizia Divina!…  Tutto prega alla mattina. Ecco ad oriente il cielo si sbianca: non sentite in questo momento come un invito universale a pregare? Venite adoremus Dominum, qui fecit nos! È la voce dei monti che si districano dalle tenebre; è la voce delle valli che come cappe smeraldine, si riempiono di luce; è la voce delle acque vicine o lontane, è la voce dei campi delle piante dei fiori; è la voce dei passeri che garriscono insieme sulla gronda del vostro tetto; è la voce del sole levante, del sole bello radioso, del sole, immagine di Dio nel suo grande splendore. Questi milioni di voci, che sorgono da ogni parte della terra, sono voci di adorazione e di ringraziamento: ma è una musica senza parole. Ci vogliono le parole: ma queste non le può dire che l’uomo. Non le potete dire che voi. E non le direte? Iddio ha sempre avuto un gran desiderio delle primizie. Dalla storia sacra conosciamo che i primi frutti del campo erano per Lui; i primi agnelli del gregge; le prime bestie dell’armento; il primo figliuolo d’ogni famiglia era per Lui. Questo suo amore per le cose prime, incontaminate, Dio lo conserva ancora ed esige da noi la primizia di ogni giorno. Il mondano quando si sveglia pensa ai piaceri, perché suo dio è la passione ed a lei offre le sue primizie. L’uomo avaro e affarista pensa all’interesse, perché suo dio è il danaro, e a lui offre le sue primizie. L’uomo superbo è smanioso d’emergere pensa agli onori, perché suo dio è l’ambizione e a lei offre le sue primizie. Ma noi, che siamo Cristiani di nome e di fatto, noi che per Dio abbiamo il Signore del cielo e della terra, il Creatore delle visibili cose e delle invisibili, doniamo a Lui le primizie di ogni nostra giornata. Ci sono alcuni che, per pigrizia o per occupazioni, spesse volte cedono alla tentazione di rimandare le preghiere: « Le dirò. dopo; prima devo far questa o quella osa; prima devo mangiare… ». L’esperienza insegna che orazioni tramandate sono orazioni tralasciate. E poi, se anche avessimo a dirle più tardi, non sarebbero primizie e perderebbero molto di valore. Nella santa scrittura Dio si paragona ad un viaggiatore mattutino che sta in piedi vicino alla porta, e batte perché gli sia aperto. Ecce sto ad ostium et pulso. Cristiani, non siate maleducati con Dio! Non fatelo attendere in anticamera! Ma la prima parola di ogni giorno sia: « avanti, Signor mio e Dio mio ». Per fortuna a questo mondo ci sono cuori generosi. Non solo si accontentano al mattino delle preghiere comuni, ma vogliono offrire a Dio una grande primizia: la S. Messa. Beate queste anime, a cui è dato di capire quello che altri non capiscono. Nel primo scampanio esse ascoltano la squilla del Gran Re e accorrono in Chiesa. Se è vero che il lavoro impedisce a molti d’ascoltare la S. Messa ogni giorno, è non meno vero che altri la trascurano per la sola pigrizia di alzarsi per tempo. Segno è che non riescono a comprendere che tesoro si gettano dietro le spalle. Io ripeterò le parole che S. Ambrogio diceva ai Milanesi: « È una vergogna che il primo raggio del sole vi trovi inerti nel letto, e che la luce venga a colpire occhi ancora imbambolati da una sonnolenta spossatezza; questo raggio ci rimprovera il lungo tempo perduto per i meriti e l’oblazione del sacrificio spirituale. Prevenite dunque l’aurora!… » (In Ps., CXVIII, n. 22). Si legge nel Vangelo che, essendosi Gesù avvicinato al letto di una fanciulla di dodici anni per risuscitarla, la prese per mano dicendo: « Fanciulla, alzati ». Ecco ciò che vi dice la mattina Gesù: vi comanda d’alzarvi e vi porge la mano. È una mano divina: stringetela, adoratela, baciatela con le vostre preghiere. Così trascorreranno i giorni e gli anni: alla fine dei secoli sentirete ancora la medesima voce, e vedrete la medesima mano: « Alzati! ». Sarà il risveglio di un giorno senza tramonto.LA PREGHIERA DELLA SERA. Una sera, uno dei più grandi ingegni del medioevo, il celebre Lanfranco, allora studente e più tardi Vescovo di Cantorbery, camminava verso Roano. Nel traversare una foresta, fu assalito e derubato dai ladri che poi lo legarono, mani e piedi, ad un albero e, tiratogli il cappuccio sugli occhi, lo abbandonarono. Tremante di spavento, umido di rugiada notturna, immobile, con gli occhi sotto il nero del cappuccio, comprese d’essere esposto a certa morte. Lontano s’udiva l’urlo di qualche belva randagia… Perduta ogni speranza umana, si ricordò di Dio, si ricordò ch’era sera e che era bene pregarlo. Cominciò le orazioni che fanciulletto tante volte aveva recitate, giunte le manine, a piè del letto; ma dopo le prime parole non seppe proseguire: non le ricordava più. Confuso e vergognoso di se stesso, si rivolse a Dio singhiozzando così: « Come, o Signore, da tanto tempo studio nelle università, e non so a memoria neppure la maniera d’invocarvi e di pregare ». Allora fece voto di consacrarsi a Dio, se fosse potuto scampare da quel pericolo. E così fu, poiché all’alba seguente alcuni viandanti lo liberarono. Lanfranco corse tosto nel convento più vicino e si fece monaco. Ed al tramonto d’ogni sera, quando la campanella invitava a preghiera, egli arrossendo s’inginocchiava. Anche ai nostri tempi, e più numerosi che mai ci sono uomini a cui si può applicare questo racconto in tutta la sua estensione. Anche essi sono in viaggio, devono attraversare la foresta del mondo anch’essi, e nemmeno mancano assassini e bestie feroci. Anch’essi alla fine della loro giornata sono forse caduti nelle mani del nemico delle anime; sono stati presi, legati col legame del peccato… Una cosa sola potrebbe liberarli: la preghiera. Ma essi non sanno più pregare; ne hanno perduta l’abitudine, hanno dimenticato perfino le parole. Da mesi e da anni, alla sera, si gettano stanchi ed infelici a dormire senza mai levare il cuore a Dio, senza neppure un segno di croce forse, così come le bestie sopra il loro strame. Ah, Cristiani, nessuno di noi rimanga in questo povero stato! Alla sera ricordiamoci dell’obbligo di ringraziare Dio che un altro giorno ha concesso alla nostra vita, un giorno pieno talvolta di gioie e talvolta di dolori, e sempre di grazie e di benedizioni. Ricordiamoci dell’obbligo di domandare perdono a Dio di tante offese nuove aggiunte alla grave somma delle vecchie. Infine, ricordiamoci di supplicarlo perché la notte passi tranquilla e il giorno veniente ci trovi migliori. – Tra le orazioni della sera, due pratiche non si possono trascurare: il santo Rosario e l’Esame di coscienza. L’una è una dolce catena di rose mistiche che lega i figli coi genitori e tutta la famiglia con la Vergine Maria; l’altro è un piccolo conto delle perdite e dei guadagni spirituali. « Sentite; — diceva ai primi Cristiani S. Giovanni Crisostomo, — voi tutti avete un registro in cui scrivete ogni giorno le entrate e le uscite; certamente non andrete mai a dormire prima d’aver fatto i vostri conti; ma la vostra coscienza non è anch’essa un libro aperto in cui dovete notare ogni sera il guadagno e la perdita, l’amore e l’ingratitudine? Ogni sera quindi, prima d’addormentarvi, prendete a tu per tu la vostra anima e ditele: « Su anima mia, su facciamo i conti: che bene hai fatto? che male hai fatto? ». Allora vi sorgerà spontaneo l’atto di ringraziamento per l’aiuto ricevuto dal Cielo, l’atto di dolore per la nostra cattiveria, e il sincero proposito di un migliore domani.- Infelici le case ove discende la notte senza preghiera! Intorno ad esse invano s’aggirano gli Angeli invisibili, invano aspettano nella malinconia. Infelici le famiglie dove la madre trascura questo suo dovere, dove il padre manca per divertirsi nelle osterie, dove i figliuoli cresciuti nell’età e nel male sono in giro, chi sa dove… chi sa dove… E ritorneranno a notte alta, sotto le stelle numerose nel cielo: ma nessuna stella è accesa nell’anima loro. – « Diciamo le preghiere della sera »disse alla  sua donna un padre di famiglia  sofferente da anni di una seria malattia. Da un pezzo nella casa si era dimenticato di pregare, ma dopo che il Signore aveva mandato quella prova, un barlume di fede era ritornato. Appena la madre incominciò le orazioni, rientrarono i figliuoli adulti dai loro divertimenti serali e rimasero a bocca chiusa, distratti. Il povero padre li sogguardava, e lagrime silenziose gli rigavano la faccia patita. «Che hai da piangere? », gli chiese la donna sottovoce. «Io morrò: — rispose amaramente, — e quando sarò sotterra nemmeno un suffragio riceverò dai miei figliuoli: essi hanno dimenticato le preghiere; non sanno pregare più ». La madre allibì, e tremò tutta. Il cuore le diceva ch’ella senza colpa non era della cattiva educazione religiosa dei figli. Oh quanti genitori, sentendosi morire, usciranno in quel grido straziante! « Quando sarò sotterra non un suffragio avrò dai miei figliuoli: essi non pregano, né sanno pregare più! ».  E la colpa di chi sarà stata?..

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps LXV: 8-9; LXV: 20

Benedícite, gentes, Dóminum, Deum nostrum, et obœdíte vocem laudis ejus: qui pósuit ánimam meam ad vitam, et non dedit commovéri pedes meos: benedíctus Dóminus, qui non amóvit deprecatiónem meam et misericórdiam suam a me, allelúja.

[Popoli, benedite il Signore Dio nostro, e fate risuonare le sue lodi: Egli che pose in salvo la mia vita e non ha permesso che il mio piede vacillasse. Benedetto sia il Signore che non ha respinto la mia preghiera, né ritirato da me la sua misericordia, allelúia].

Secreta

Súscipe, Dómine, fidélium preces cum oblatiónibus hostiárum: ut, per hæc piæ devotiónis offícia, ad cœléstem glóriam transeámus.

[Accogli, o Signore, le preghiere dei fedeli, in uno con l’offerta delle ostie, affinché, mediante la pratica della nostra pia devozione, perveniamo alla gloria celeste].

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCV: 2

Cantáte Dómino, allelúja: cantáte Dómino et benedícite nomen ejus: bene nuntiáte de die in diem salutáre ejus, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore, allelúia: cantate al Signore e benedite il suo nome: di giorno in giorno proclamate la salvezza da Lui operata, allelúia, allelúia].

Postcommunio

Orémus.

Tríbue nobis, Dómine, cæléstis mensæ virtúte satiátis: et desideráre, quæ recta sunt, et desideráta percípere.

[Concedici, o Signore, che, saziati dalla forza di questa mensa celeste, desideriamo le cose giuste e conseguiamo le desiderate.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (204)

O SCUDO DELLA FEDE (204)

LA VERITÀ CATTOLICA

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. E libr. Sales. 1878

ISTRUZIONE I.

Io credo in Dio

Voi siete qui per imparare le cose più necessarie, che hanno da far tanto bene alle vostre persone. Ma io, bisogna che ve lo dica subito per imparare è necessario che vi fidiate di chi v’ha da mostrare e che cominciate a credergli con un po’ di buona fede. È questa la prima disposizione che deve avere chi vuole essere istruito. Vedete che anche il Parroco quando si vuol che egli battezzi uno, e che lo ammetta tra i fedeli ad imparare la verità della Religione e a vivere da buon Cristiano, prima di tutto domanda a chi dev’essere battezzato, e ai padrini per lui: se egli crede: « credis in Deum? » Quasi gli dicesse che prima d’ogni altra cosa si debba credere, e credere in Dio. Eh! ma pensate anche voi: noi ci troviamo qui creati da Dio in mezzo a tutte le cose fatte da Lui; ben tocca a Lui dirci adunque ciò che Egli vuole da noi, e ciò che è bene che facciamo. Così il Parroco con quella semplice parola che tutti intendono: « credi tu in Dio » dà dalla parte di Dio il primo avviso e più necessario, dà la più ragionevole, la più grande lezione che viene all’uso tutti i dì, cioè, che per imparare, prima di ogni altra cosa bisogna cominciare dal credere a chi merita fede. Questo io vi spiegherò quest’oggi e vi farò vedere che, se è necessario prima di tutto credere per poter vivere in questa nostra vita, è necessario più ancora credere in Dio per salvarci. Miei fratelli, noi siamo qui radunati intorno al sacro altare nel bacio santo di carità; ed adoriamo qui in mezzo di noi nel SS. Sacramento Gesù Cristo proprio in Persona. Gettiamoci a terra a Lui dinnanzi e preghiamolo si che ci faccia conoscere come nella dottrina che facciamo in Parrocchia, Egli è il Padre che presiede al convito; e che Egli è il Signore il quale fa distribuire il pane delle anime colla sua Parola, ancora che ci faccia grazia di farcelo passare per le povere mie mani. Voi poi, o Maria Santissima, presentateci a Gesù benedetto da buona Madre ponendoci la vostra mano sul nostro capo e pregatelo si degni essere con noi, come il padre in tavola coi suoi figliuoli diletti. – Intanto tra noi, o fratelli, io vi supplico per amor di Dio e di Maria Santissima, parliamoci cuore a cuore; e voi con tutta la vostra bontà fate buon viso a me che vi parlo in nome di Gesù Cristo. Colla semplicità di buoni figliuoli, ripetetemi intanto, come faremo sempre per fissar chiaramente di che cosa abbiam da trattare; quello che noi in questa istruzione abbiam da comprendere bene: essere per noi uomini un dovere il credere; e così niente di più ragionevole e di più giusto, niente di più caro e necessario per salvarci che il credere in Dio. – Abbiamo detto ché per imparare e poter sapere qualche cosa è d’uopo credere, e avere un po’ di buona fede. La Chiesa difatti per insegnarci nella Dottrina le cose più necessarie in nome di Dio, comincia subito dal farci dire: Io credo in Dio. Così ci mostra che prima di tutto è necessario avere buona fede in Dio il quale è il Creatore del mondo; ché ogni bene viene da Lui, e tutto da Lui dipende; e  perciò niente noi possiamo far di più giusto che assoggettare la nostra ragione e volontà a Dio, riposandoci in Lui con fede; e non perché intendiamo noi colla nostra mente che siano vere e buone le cose che Egli ci manifesta; ma ci fidiamo interamente a Lui, perché Dio è somma verità e sommo Bene, non può né ingannarsi né voler ingannare. Questa fede poi è un grandissimo dono e tutto di Dio. Egli è ben vero che noi colla nostra ragione (Constitutio Dogmatica DE Fide CATHOLICA; prima sessio — Sacrosancti Oecumenici Coneilii Vaticani.) possiamo conoscere che vi deve essere il Creatore d’ogni cosa; ma è anche vero che noi colla sola nostra ragione non arriveremo mai a conoscerlo in Sé stesso, né ad abbandonarci nelle sue mani con buona fede. No, no; da noi soli non vorremo né cercar tanto di conoscerlo, né credere in Lui, e nemmeno servirlo bene ed amarlo, a fine poscia di possederlo in paradiso. Noi, senza aiuto divino tutt’altro che credere ed affidarci a Dio come al Sommo Bene nostro, noi ci occuperemmo tutti quasi solo di noi, e ben poco vorremmo pensare a Dio. Bisogna che lo confessiamo, e che diciamo chiaro, che ogni lume ed ogni ben perfetto viene da Dio, e che Dio solo può provvedere a tutto il bene per noi, e provvedere a tutto il bene per noi vuol dire salvarci. E Dio, per salvarci, comincia dal mandar a noi questo lume di fede il quale solleva la nostra ragione a pensare a Lui, comincia dal concederci questa grazia che muove il nostro cuore ad avere fede in Lui, e ad affidarci onninamente alla sua bontà. La fede adunque è un dono del Cielo, per mezzo del quale noi crediamo in Dio. – Intendete qui subito, o cari, la grande misericordia di Dio con noi Cristiani. Dio nel santo Battesimo ci comunicò questo dono di fede per sollevare la nostra mente sopra tutti i lumi della nostra ragione a conoscerlo; Dio nel Battesimo ci mise questa grazia della fede nell’anima nostra, questa virtù di credergli, e fidarci di Lui; colla ferma sicurezza che Egli, il quale fa tutto ch’è buono, per sua bontà ci farà conoscere tutto che è bene per salvarci. Questa grazia di credere a Dio, e fidarci di Lui, è la fede (Siffatto dono della fede resta come una radice fitta nell’anima nostra. E pur troppo può restare morta in mezzo a tante cose mondane pei nostri peccati: ma come una scintilla sotto la cenere se viene riscossa riluce; così la fede in noi se viene riscossa da certi avvenimenti accompagnati dai tocchi della grazia che batte all’anima, si ridesta, ed illumina la mente. Si può dire che la grazia della fede allora fa come una madre crudelmente disprezzata la quale quando il povero suo figlio non pensa neppur più a lei, in un bel momento lo abbraccia alla vita e gli dice: « figliuolo, ti hai da salvare.»  È dunque la fede il principio, il primo fondamento, la radice della nostra giustificazione: perché, credendo così in Dio, noi facciamo il primo atto di giustizia, e il Primo atto di giustizia della nostra vita è riconoscere che Dio è il Creator di tutto, è il Padre di tutti i beni, è anzi il Sommo Bene: e che niente è più ragionevole, né più giusto che credere, cioè avere fede in Dio, Padre dei lumi e di tutti i beni il quale ci fa questa grazia di credere così perfettamente in Lui.). – È dunque la fede una virtù che Dio per tutta sua bontà infonde nelle anime nostre, colla quale ci illumina, ci inspira, ci aiuta a fidarci interamente di Lui e a credere in Lui di tutti buon animo. – E qui noi abbiamo da comprendere ben subito come se non abbiamo questa fede in Dio, noi commettiamo una brutta ingiustizia quando, fidandoci più di noi medesimi, che non di Dio Santissimo; e che essendo così ingiusti e cattivi è impossibile che piacciamo a Dio e siamo ammessi nel numero dei suoi figliuoli. (Conc. Tridentino, sess. VI, c. 5, VATICANO, luogo citato). Bisogna adunque prima di tutto credere in Dio … – Deh non vi fate il broncio in sul bel principio per farmi intendere che voi eravate venuti qui per sentire di belle e buone verità, riserbandovi poi di ragionarvi sopra; quasi che non mi vogliate dire: « eh via! non siamo i bambini noi da doverci far credere subito. » No no: ragionerete finché vorrete; ma anche nelle cose del mondo, per conoscere una qualche cosa, bisogna sempre cominciare col credere: e se uomo s’incapricciasse di non voler proprio mai credere niente, non verrebbe a saper mai niente. Immaginatevi che uno volesse imparare a leggere; bisogna bene che egli creda al maestro che la prima lettera si chiama A, e che la seconda si chiama B. Ché se con superbia il testereccio si ostinasse a non credere mai, potrebbe bene star li per ispazio di tempo a larghi occhi sulla carta stampata a lampanti caratteri; ma non verrebbe mai al punto di saper leggere una sola parola. Laddove in credendo al maestro impara ad unire le lettere, comincia compitare, e si avvia alla lettura. Allora poi mano mano leggendo i libri più buoni e dotti può diventare anche uno dei più sapienti uomini del mondo. Ah si sì! vuolsi cominciare dal metter giù quella matta superbia di pretendere di cavar tutto dal nostro cervello e di voler sapere tutto da noi: s. Agostino che era sì certo, uno dei più sapienti uomini del mondo, diceva che, fossimo pur di sommo talento forniti, bisogna che incominciamo a credere con umiltà, se vogliamo intendere anche le più grandi e sublimi cose — crede ut intelligas — Vedete difatti che senza credere non potreste neppur conoscere chi voi siate. E perché sapete voi di essere i figli dei tali? Voi non vi ricordate certo di essere nati da loro…., ma lo credete. Perché tenete voi che ì vostri campi e le vostre case che non avete comprato da voi, siano vostri davvero? Perché credete ai testamenti ed alle carte di contratti. Eh, se voi vorreste avere per certo solo quello che vedete e toccate, le vostre cognizioni si allargherebbero ben pochi metri intorno a voi. E come potete essere sicuri che vi sono tante città, che forse non vedrete mai? Perché credete a chi lo dice. Come sapete voi che vi siano state altre persone, e che qualche cosa si sia fatta prima di voi nel mondo? Perché credete a chi velo narra, o a chi ve lo scrisse nei libri. Così noi crediamo ai vivi, crediamo ai morti; ma intanto sempre crediamo. Né vale il dire che ai nostri giorni anche il popoletto ha gli occhi aperti, e che non si ha più a credere, ma ragionare. No: perché anche proprio voi avete creduto alla madre che colla sua affettuosa parola fu la prima ad insegnarvi a ragionare; balzati fuori dalle braccia della mamma, correste alla scuola a credere nei maestri. Cresciuti poi tant’alti e baldi di gioventù, vi credeste di essere emancipati e di essere liberi e pensare a vostro modo? Signori no! Allora i compagni intorno a farvisi ai panni, pigliarvi all’assalto, e farvi credere tutto che vogliono, per menarvi a loro modo: e voi credere subito ai loro discorsi, prestar fede alle loro gazzette, giurare sui libri che manipolarono tanto benino, per farvene bere di quelle!….. Ora potete forse vantarvi di non creder ai buoni vostri padri, alle affettuose madri vostre, e meno al Prete (che, a conti fatti, sono coloro che vi vogliono un ben della vita); mentre vi adattate vilmente a credere ai tristi; anche quando vi accorgete che sono tali? E ve ne fate vanto voi stessi, quando vi date d’intendere di pensare e vivere alla moda: ché le mode poi non sono altro che i pensieri e capricci degli altri che vi circondano. Così gloriandovi di esser uomini del mondo alla moda, vi gloriate di credere come credono gli altri. — Oh che disgrazia! regolarvi a maniera delle pecore matte! lasciarvi menare da vili a bere, voglio dire a credere a tutti i tristi cialtroni, e forse stentare solamente a credere in Dio! Ditemi ora, che avete capito come è necessario credere, per saper qualche cosa e vivere da uomo; Così niente è più giusto che credere prima in Dio. Ora vediamo che niente è più ragionevole, niente è più necessario che credere in Dio. Ripetetemi ora in grazia adunque che cosa abbiam da considerare adesso? Noi abbiamo da considerare, che niente è più giusto, niente è più ragionevole, che niente è più necessario che credere in Dio: » – Io comincerò col raccontarvi un fatto che vi tornerà a grado.Un dì a Parigi il buon avvocato signor Guillemin disse ad un avvocatino che faceva pratica al suo studio: « signor Lacordaire, credete voi in Dio ed allasua santa religione? » Io? rispose il giovane lisciandosii baffi con una cert’aria d’ineredulo « ma,signor avvocato principale, io?….. Non credo niente,io, » E il bravo signor Guillemin : « Ah no, signor avvocatino di così belle doti d’ingegno essendo voi fornito non potete rispondermi così; poiché, se voi non credeste proprio niente, sareste simile al candi casa ed al cavallo della scuderia i quali non credonoproprio a nulla. Ma voi credete almeno che siete qui!» E l’avvocatino « Oh sì; perché io mi sento che sono qui » — « Credete che siete nato dai vostri buoni genitori: e crederete che i vostri signori genitori sono nati anch’essi dai loro padri e dalle loro madri e così via via; finché si viene al primo padre e alla prima madre, i quali non si poterono fare da se stessi quando non erano al mondo; ma dovettero per necessità essere stati formati dal Creatore » « Oh, sì, rispose. l’avvocatino coll’accento della più schietta sincerità,al Creatore io credo!» « Dunque, di ripicco a lui il grande avvocato Guillelmin, se voi credete al Creatore, dovete credere che il Creatore che noi adoriamo,è Dio; e dovete credergli quando v’insegna Egli e come dovete adorarlo, e come dovete salvarvi: ilche è tutta la Religione », L’ avvocatino vi pensòsopra…., vi pensò bene; e conoscendo che bisogna credere, e credere in Dio, questo fu il principio della sua conversione, e della sua salvezza. Abbandonata l’avvocatura si rendé frate, e divenne il celebre Padre Lacordaire che diffuse in Francia con santa eloquenza le verità del Vangelo, e morì da santo. Per salvarci anche noì dobbiamo cominciar di qui; « Io debbo credere in Dio ». – Adunque vi ho detto, che niente è più ragionevole che credere in Dio. Ascoltate, che ve ne renderete persuasi. Se noi ci vediamo dinanzi un bell’orologio, in cui le ruote e gli ordigni son così ben ordinati a segnare le ore esattamente, sì che la molla scatta a suonarle appuntino; noi non ci sogneremo mai di dire che quei pezzetti di lucido ottone e ferro di cui e ruote e molle furono fatte, quand’erano ruvidi metalli ancor là per terra si sognassero un bel dì di serrarsi a cerchio per diventar le meravigliose ruote, di stendersi e poi girarsi intorno a far le molle, d’intrecciarsi in catenelle, insomma di congegnarsi insieme, mettersi d’accordo in quel movimento, e pigliar concerto tra loro e stare tutti ben attenti a fine di segnare e scoccar le ore a tempo. Per sognare questo, bisogna anche aver perduta la testa! Ma sì veramente, diremo che quel bel lavorio fu fatto da un abile orologiere. Così pure al solo aprire gli occhi al mondo dobbiamo conoscere e credere per necessità di ragione che vi è il Creatore il quale fece ogni cosa e regola l’universo. Difatti, il profondo filosofo Platone (che non era Cristiano) a nome di tutti gli uomini ragionevoli esclamava con solenne parola: « Oh! oh! Esiste questa grande fabbrica ed architettura dell’universo; dunque, esiste il grande Architetto. Per questo la nostra Madre Chiesa a fine di cominciare a richiamare all’ordine queste teste di uomini, che vanno a vapore in sognando errori, grida, sul bel principio del Concilio Vaticano: Figliuoli, anche colla ragione tutti possono conoscere che vi è il Creatore; ma coloro che si sono perduti di buon senso stanno incapricciati a negare che colla ragione non conosciamo che vi è Dio Creatore. Guardatevi da loro, teneteli in conto di uomini scomunicati. Come abbiamo detto che niente è più ragionevole, così diciamo anche che niente è più necessario che il credere in Dio, se vogliamo alla meglio vivere in questa povera vita. Perocché, ove non si credesse in Dio, ciascun uomo potrebbe far ciò che gli salta in testa; e i capricci più sconsigliati e i più orrendi delitti metterebbero sossopra la società, e gli uomini che finirebbero coll’ammazzarsi gli uni gli altri. Ascoltate, ascoltate ciò che dice un uomo di trista memoria e grand’empio, Giacomo Rousseau, il quale si dava vanto di non volere egli credere; ma credeva che era ben necessario che tutti credessero. « Io non vorrei, diceva, avere un servo il quale non credesse in Dio; perché se gli facessero gola i miei danari, saprebbe tirare ì suoi conti, e studiato modo di farla franca, una qualche notte mi pianterebbe un coltello nel cuore e se li piglierebbe; e questo potrebbe fare tranquillamente, perché dagli uomini si è messo al sicuro, e in Dio non crede. » Poveri noi, se gli uomini non credessero più affatto in Dio! (Quì, cari miei, io che conosco bene come va il mondo, in veggendo la smania ai nostri giorni di levar via tutto che fa ricordare che abbiamo un’anima e che vi è Dio; e chiudersi Chiese e togliersi via i religiosi e le monache per non voler che si preghi, e che neppur si pensi più a Dio, vorrei dare un buon avviso a chi dirige lo stato, ed è: di non distruggere almeno; ma conservare alla men trista quei grandi luoghi in cui si faceva la Preghiera della fede: non per la ferma speranza che nutra che siano restituiti alla Religione: poiché quei grandiosi edifizi tolti alle così dette mani morte se li arraffano mani vive, vive dai lunghi artigli e sono cacciati giù in certe voragini che son le ventraie dei libertini – da cui solo la man di Dio li può trappar fuori. Neppure vorrei dar quest’avviso di conservar quelle case perché io tema che venga distrutta la Religion santa di Dio; la Religione è come un grand’albero di una gran vecchia radice approfondita dentro una Pietra contro cui chi do il cozzo, rompe sempre le corna. Se per distrugger l’augusta pianta le si taglia un qualche ramo, geme come la vite la quale subito mette tralci, più ricchi di grappoli: e, se le si strappa un germoglio che traligna, se, colla roncola le si fa cadere un ramiticcio in seccume, subito getta fuori più floridi polloni. Ma ben adunque vorrei dar il consiglio di conservare i grandi locali religiosi, per formare dei ricoveri di pazzi, e delle larghe prigioni da tenervi incatenati i ribaldi i quali escono terribilmente al mancar miserevolmente della fede in Dio. Ah!  Miei fratelli, la povera nostra famiglia umana, se non credesse in Dio proprio più, andrebbe in rovina!). – Eh sì! che ve ne accorgete troppo voi anche nelle vostre case che i vostri figli quanto meno credono in Dio, si fanno tanto più cattivi contro le povere madri e spaventano i capi delle famiglie. E perché, si potrebbe dire, han da rispettare i genitori, che rappresentano Dio, se in Dio non credono? Vedete che si disgiungono i matrimoni, sicché uomini crudeli, dopo di avere consumate e martoriate le povere mogli, le lasciano in tristo abbandono! E perché si hanno da amarle, quando non garbano più, se non credono che sono uniti insieme ad esse a fine di aiutarsi a servire Dio? Lo dite pur voi che l’uomo non si può fidare oggimai più di nessuno, che crescono i ladri, che i contadini saccheggiano le campagne, che certi signori rubano in grande. Epperché non dovranno rubare, mentre la roba è di chi se la piglia, quando non sì crede in Dio? Voi salvate, o fratelli, i figli vostri, le famiglie vostre, la roba vostra, e fin le vostre persone col credere in Dio, voi, i figli e tutti coloro che compongono la famiglia. Egli è impossibile potere salvare una società, quando affatto non si creda in Dio. Sarebbe inutile domandare alle nazioni milioni e milioni di lire per costruire fortezze da tenervi incatenati i malvagi, perché senza credere in Dio, diventerebbero malvagi tutti! Sarebbe inutile assoldare eserciti di poliziotti per metter le mani sul collo ai malfattori, perché potrebbero anch’essi diventare i manutengoli dei commettimale! Ma, mi si dirà, eh non si potrebbe fare rispettare la rispettare la giustizia?… Ma che dite Quando non si crede in Dio, ciascuno può alla sua volta dire « è giusto ch’io mi prenda tutto quello che è buono per me! » Ah! che il mondo allora diventerebbe un’aspra orrida selva, in cui gli uomini come le tigri e i leoni, si scannerebbero l’un l’altro a fine di torsi di bocca la preda; eh sì che sarebbero ben più feroci di quelle belve; perché colla ragione si farebbero più maliziosi a commettere il male. Lo vediamo noi talora, che alcuni tristi, senza più credere in Dio, compiono tali atrocità, che non farebbe niun feroce animale! Né io parlo a caso; la storia moderna ce ne dà una grande prova e spaventosa. Udite: nella rivoluzione di Francia l’anno 1799 uomini increduli alzarono l’orrido grido « Non vi è Dio, e noi siamo liberi di fare quello che ci talenta. » Allora fattisi essi orda di assassini feroci in soli tre mesi scannarono novantaquattromila persone!… Col furor di demoni furibondi ammazzavano e ammazzavano incessantemente, collo scherno e solo pel piacere d’ammazzare !!! Ma… ma subito, appresso a loro altri assassini sorsero ad ammazzar quei carnefici; finché in quell’uccidimento universale un capo carnefice galeotto d’inferno, Robespierre, alzò il suo braccio tuffato nel sangue umano e scrisse a caratteri tremendi sul frontone del palazzo della giustizia « bisogna credere che esiste Iddio »; e propose questo vero per legge fondamentale della repubblica… Ma se niente è più giusto, niente più ragionevole, niente più necessario, per poter vivere alla meglio in questa povera vita che il credere in Dio, è tanto più necessario credervi per salvare l’anima nostra. Fermiamoci un momento a pensare a noi. In mezzo a tanti dissennati, furiosi, ed assassini dei quali sarebbe pieno il mondo, ove non si credesse in Dio, tristi noi! non potremmo sapere né donde veniamo, né che cosa abbiamo da fare, né dove andiamo a terminare. Noi meschini, saremmo come un povero augellino il quale scosso chi sa da che luogo, in una notte d’inverno scura scura, al lume di una finestra vola dentro una sala; in cui, oh che incanto! spira un’aura tiepida e olezzano fiori di primavera. Batte le aline e comincia a cinguettare: girando di qua, di là, senza accorgersi si trova uscito: di fuori ahi che un augellaccio cogli unghioni l’artiglia. Ei mette uno strido!… la civetta l’ha già divorato!… Anche noi, buttati nel mondo all’improvviso qui vorremmo folleggiare allegramente; ma ve? ve’, che quando pure non vogliamo pensarvi, senza fare posa, corriamo a gettarci….. ahimé! in gola alla morte!… Alla morte!… – Eh, signori, chi non temerà della morte?… Finché siam robusti nel frastuono del mondo possiamo ben correre da matti colla benda agli occhi fino al precipizio; ma arrivativi sull’orlo, nell’orror della morte, nell’abbandono delle forze, in tremendo silenzio, al colpo che ci fa cader senza vita si spezza la benda… O allora ci rimbomba spalancato davanti l’abisso dell’eternità; e noi cadere dentro, senza conoscerla affatto! Ah diamo indietro atterriti con l’eternità davanti al pensiero! Perché, miei cari, noi possiamo sforzarci di non voler credere all’eternità ma noi ne abbiamo già tal sentore, che se ci fermiamo a pensarvi, ci soffoca l’anima: Abbracciamoci nel petto spaventati e gridiamo tra noi: « SÌ… prima di affrontare l’eternità per restarvi sempre, noi abbiam bisogno di conoscere questa eternità tremenda in cui andiamo a terminare; ma per avere idea viva dell’eternità abbiamo bisogno di credere in Dio…. il quale solo ci dice che cosa sia eternità…. Ah sia ringraziato Dio il quale fin d’ora ci fa conoscere che possiam trovarci nell’ eternità in paradiso! Eh chi, chi non sentirà ora il bisogno di dire: « io credo in Dio che mi ha creato pel Paradiso? (Voglio dirvi ancora, che se noi siamo persuasi essere il credere in Dio il più giusto, il più ragionevole, il più necessario nostro dovere per tutti. per noi Cristiani è il dovere più caro e più consolante. Oh! se sapeste al contrario in quali stranezze certi uomini, che si dan l’aria di esser più sapienti di tutti! danno la povera testa, per non voler. credere in Dio! Dicono le più spaventose, ma insieme le più matte cose che immaginar si possano. Per dirvene alcune: ebbervi dei vecchi filosofi che sognarono essere le stelle che coi loro movimenti menano in terra gli uomini al loro destino. Altri poi sognarono che l’universo fu da prima pieno di atomi, come quei granellini di polvere che girano in aria. Eglino li fecero girare nella Ior fantasia; e gira e gira quei granelli si avviacinarono, e così uniti formarono la terra; e si congegnarono a formarsì in piante, poi s’impastarono in corpi animati e si disposero in mille e mille vene, in milioni di nervi sottilissimi e così ben diramati tra le carni, tutto unendosi insieme formarono corpi vivi e diventarono così svariati animali. Ma se voi la prima cosa domandate a tutti loro: chi abbia in prima create le stelle, e chi abbia plasmato quei granelli da far andare intorno con tanto giudizio; quale risposta fanno essi? niuna ragionevole. E per vero, a che domandare la ragione di queste cose ad uomini, che non credono nella ragione di ogni cosa che è Dio? Eppure dopo tanti errori non volendo ancor niente imparare dall’esperienza anche ai nostri tempi uomini orgogliosi, e testardi nell’empietà che non vogliono in alcun modo credere a Dio. Costoro i quali si danno l’aria di saper tutto colla lor testa, proprio nei belli nostri dì sognano le più triste cose del mondo. – Inorridite sol di questa! Non hanno vergogna di dire che con tutte le cose dell’universo, noi e i sassi e le piante e le bestie, siamo tutti insieme una sola sostanza: quindi una cosa sola che si va travolgendo; e ora si fa sasso duro, poi si sviluppa in pianta; poi diventa animale; e poi si muta in nostra persona!…. Così ché, se ve la lasciate dare ad intendere da queste povere menti, noi tutti insieme siamo una sola persona; e l’anima crudele di Nerone che scannava la propria madre, e l’anima così bella e santa di s. Luigi che moriva per assistere gli appestati; e anche noi, proprio noi, qui siamo carne ed ossa e un’anima sola cogli assassini che in quest’ora aguzzano il coltello per sgozzare i nostri prossimi! Proprio adunque noi, una sola persona coi più tristi malfattori? Dio benedetto! Queste torbide menti gonfie d’orgoglio sono come dice lo Spirito Santo quasi fiotto di fiero mare in burrasca, fluctus feri maris de spumantes suas confusiones!). La Chiesa vede che la povera famiglia degli uomini anderebbe tutta in rovina, e sarebbe cosa disperata se sì desse ascolto ai cattivi che negano Dio, e siccome essa è stabilita da Dio stesso per salvare tutti, in questo ultimo tempo mise un grido d’allarme per avvisare che tutti pensino a salvarsi, fino ai suoi nemici. Proprio come gli Apostoli della Chiesa nascente, i quali, ricevuto lo Spirito Santo, uscirono sulla porta del Cenacolo con s. Pietro alla testa gridando di adorare per Salvatore Gesù Cristo affinché si salvassero tutti anche quei disgraziati che lo avevano crocifisso, medesimamente la Chiesa adunatasi nella persona dei Vescovi del mondo nel Concilio Vaticano a Roma sulla Pietra che sta sempre salda in mezzo a tutte le rovine, fin sul bel principio si ferma con essi sulla porta del Concilio, e come rivolgendosi indietro da farsi sentire anche agli infedeli che sono fuori, e fino ai suoi nemici, grida forte nella prima Costituzione che, se vogliono conservare un resto di ragione, di buon senso e di umanità e non distruggere da indemoniati ogni ben sulla terra, bisogna credano in Dio, e scappino via come dai figliuoli del diavolo e scomunicati, da coloro che dicono che la ragione umana è indipendente, e che quindi può intendere tutto da sé, senza alcun bisogno di credere in Dio. Si! Costoro sono scomunicati. (Const. 1a Concilii Vaticani, Def. de fide in CAN. 1). E perché vi sono dei poveri disgraziati che fan contro alla propria ragione, e sono così cattivi da volere fino negare che vi sia Dio Creatore e Signore di tutte le visibili e le invisibili creature, costoro, dice la detta Costituzione, siano scomunicati, e voi guardatevi da loro come dai maledetti che non fanno più bene, se non si convertono. (Conc. Vat. De fide 1. c. 1). Se poi vi saranno alcuni così svergognati da aver l’audacia di dire che non esistono che queste materiali cose: « (C — C. 2); se vi saranno uomini così perduti e senza buon senso da dire che questo mondo materiale e Dio Creatore Onnipotente ed infinito sono la istessa sostanza, fuggite, fuggite da questi che sono scomunicati; essi di fatto non son più degni di essere della famiglia dei figliuoli di Dio cui disonorano così orribilmente. A questo modo la Chiesa condannando questi orribili errori grida forte, e vorrebbe farsi sentire fin dagli infedeli, perché almeno conservino un certo resto di ragione umana e non si perda l’umana famiglia. Ma io ho già nominato varie volte la Chiesa, senza avervi spiegato che cosa ella sia; perché io tratto con voi come coi ben amati figliuoli di Lei nella candida semplicità che vuole l’Evangelio. Voi siete nati di famiglie cristiane in seno alla Chiesa e perciò la conoscete già, come i bambini la madre. Il bambino, benché non sappia la storia dei dolori e dell’amor della madre, pur in vedendola nella faccia che ella è tanto buona per lui, che le porge il seno; la conosce nel cuore dagli occhi, e le dice tutto colla prima parola « mamma »: poi s’abbandona in braccio a lei, e palpitando cuore a cuore d’accordo, si sente subito dire da lei le belle cose che gli fan tanto bene. Medesimamente anche voi, senza che io vi abbia spiegato che la Chiesa è la gran famiglia cristiana; che alla Chiesa di Gesù Cristo diede per Capo il Papa e l’assicurò, che non fallirebbe mai nell’insegnare le verità della fede; e che al Papa sono uniti i Vescovi come le membra, per regolare i fedeli, voi la conoscete già in qualche modo la Chiesa. Sicché già fin dal primo momento che i vostri genitori vi menarono in casa della Madre nostra (e noi qui vi abbiamo detto: ascoltate ché vi parliamo in nome della Chiesa,) voi vi siete accorti che i fedeli vanno d’accordo col Parroco, il parroco s’intende col Vescovo; che i parroci e i Vescovi sono uniti col Papa; e così voi conoscete che tutti uniti, come in un corpo in questa nostra gran famiglia la Chiesa, quando siete alla Dottrina, vi trovate come tra le braccia di vostra madre, la quale vi dice tutto che è bene per voi. E per dirci tutto che ci ha da far bene, in sul bel principio ci fa ripetere «io credo in Dio. » Questa gran madre nostra, la Chiesa fa come la genitrice dei Maccabei. Udite bel fatto che veramente è una edificazione. Quel crudo tiranno che era il re Antioco, il quale martoriava coi più squisiti tormenti i fedeli Ebrei, per far loro abbandonare la religione del vero Dio, aveva fatto trucidare sugli occhi di quella povera madre sei de’ suoi figliuoli. Pensate! Ella se li vedeva davanti buttati là cadaveri l’un sopra l’altro macellati orribilmente!… E qui, e qua sparsi per terra, i piedi e le mani troncate, le lingue loro strappate di gola, e fino i capelli colle pelli della testa stracciate via. Vi restava l’ultimo figliuol giovinetto. A lui quel mostro d’Antioco faceva le più lusinghiere promesse di ricchezze, di onori; assicuravagli un paradiso in terra da godersi per sempre quando attestasse di non credere in Dio… Dall’altra parte, se volesse continuare a credere in Dio, gli faceva vedere preparati coltelli e tenaglie, e un toro di bronzo infuocato da abbrucciarlo dentro vivo. In quell’orrido cimento, ecco, si slancia in mezzo la madre tra il tiranno e il figlio gridando: a me a me, che voglio dar io un buon parere al figliuol delle mie viscere… L’abbraccia nel petto e figliuol del cuor mio, non son io che ti creai; guarda, guarda al Cielo e colassù è Dio, il Creator che t’ha dato tutto! Cara la vita mia, sappi morir per Dio! » Egli morì martire; e noi li veneriamo tutti santi colla madre quei sette figli il dì primo d’Agosto. – Or miei cari fratelli, anche noi siamo in un mondo che non vuol più sentire parlare di Dio. La Chiesa vi abbraccia nel petto e vi grida: figliuoli! questa gentaglia è tutta intesa a far danari e godere, e par che vi dica in faccia con uno scherno da maligno demone: a che pensate voi a Dio? buona gente: siete ancora tanto ignoranti? E che ha da far Dio con noi? » Ma noi alla nostra volta risponderemo: stiamo a vedere che hanno creato il mondo questi miserabili! Vermi che da poc’ora strisciano nel fango e che a momenti resteranno nel loro fango schiacciati e sprofondati nell’inferno. Ah! noi un po’ di ragione l’abbiamo ancora da credere che vi è Dio che tutto creò: e noi siamo ancor tanto buoni da credere in Dio, più che a tutti ì più cattivi del mondo i quali tentano di fargli guerra. Terminerò, per farvi coraggio in questi poveri tempi, col raccontarvi un bel fatto avvenuto proprio qui in questo nostro paese d’Italia. Fuvvi un tempo, non dissimile dal nostro, in cui eretici paterini col furor di demoni in carne, per far guerra a Dio, volevano toglier via le leggi della Chiesa, sconsacrare il matrimonio, distruggere le famiglie, metter tutto a ruba, e gittar gli uomini come un branco di bestie feroci a sguazzare in orrende carnalità. Avrebbero allora, come vorrebbe fare certa bordaglia d’adesso, fatto del nostro paese il ricettacolo d’ogni ribalderia. Un fanciulletto in Verona, scivolando via di mezzo a quei tristi, che erano pure nella sua casa, spesso correva nella Chiesa cattolica alla dottrina, quale appunto noi facciamo e voi che qui venite. Un dì un cattivo della sua famiglia, disse sgridandolo; sapete voi, che questo pezzo di piccol santuccio di Pedrino usa alla dottrina dei preti? Ohé cattivello! e che cosa hai tu imparato alla dottrina? Il fanciulletto con bel coraggio: ho imparato, risponde franco, ho imparato a dire: io credo in ‘Dio! e sì veramente io credo in Dio; e perché credo in Dio, credo per conseguenza che non siete voi che mi avete creato: perché credo in Dio, voglio vivere come comanda Iddio; perché credo in Dio, voglio andar alla Chiesa, e adorarlo senza rispetto umano; perché voglio salvarmi in Paradiso con Dio. Fattosi religioso combatté poi sempre per difendere la religione, finché gli eretici assassini un bel dì da un bosco gli saltarono alla vita, e lo colpirono di coltello nella testa. Ahi! scorreva giù il sangue dalla faccia, ed egli, bagnato il dito in esso cadendo per terra scrive, (sentite, e piangete!) scrive col suo sangue: io credo in Dio Pa… Voleva scrivere ancora sulla terra il resto della parola Padre; ma volò in Cielo a ripeterla col linguaggio dei beati. Questi è s. Pietro martire. Anche voi, anche voi andate a casa dopo questa dottrina, e dite ai cattivi: non mi lascerò ingannare da voi; ho imparato che bisogna credere in Dio, e perciò voglio vivere come vuole Iddio, perché tocca a me mettere in salvo l’anima mia, per essere in Paradiso con Dio. Ecché, figliuoli? non vi sentite come di stare meglio? di avere cioè ascoltato una parola che faccia bene al vostro cuore; e quasi di aver dato un buon cibo all’anima vostra? Non è vero che la Chiesa ci ha trattato da madre in questa dottrina? Gettiamoci dunque alle ginocchia di Gesù qui con noi nel Sacramento. Ma, aspettate: ché prima di partire dalla Chiesa vogliamo fare come buoni figliuoli i quali nell’andar via dalla tavola della madre pigliano con bella confidenza un qualche bocconcino o confetto il più buono da portarsi seco ritornando a casa propria. Così noi faremo sempre, dopo la dottrina, un po’ di esame; e poi raccoglieremo le verità che abbiamo spiegato per vedere un po’ quanto abbiamo da fare dopo le cose udite. Fermiamoci adunque: io farò con voi l’esame; poi verremo alla pratica e vi farò un po” di Catechismo.

AVVISO.

Terminata la predicazione, mentre il popolo è tutto impressionato delle grandi verità che il buon predicatore ha scolpito nei loro cuori in questo istante di solenne silenzio si fa fare l’esame. Noi non abbiamo pretensioni di sorta: ma, del frutto che se ricava ci appelleremo all’esperienza di quelli che lo praticheranno. Dopo un momento di silenzio, quando il popolo è in ginocchio si ripiglia come per formulare il fato esame.

1° Voi ben vi accorgete che tutto il male viene nel mondo dal non credere in Dio.

2° Vedete troppo anche voi che il demonio e il mondo cercano tutte le maniere per impedire che pensiamo a Dio, sì, che di Dio non si parla ormai più nelle nostre famiglie e neppur anco nelle scuole alla gioventù studiosa.

Pratica.

1° Noi, sì, crediamo in Dio Creatore di tutto: e vogliamo sempre credere in Dio, e non lasciarci ingannar dai tristi che non vorrebbero che noi credessimo in Dio.

2° Ringraziamo Dio che ci ha dato la grazia di credere in Lui. Crediamogli: Egli è il Sommo Bene, faremo quello che Egli ci farà conoscere di dover fare per essere poi con Lui beati in Paradiso.

Catechismo.

Se dunque prima di tutto bisogna credere in Dio ed aver la fede in Lui, ditemi se vi ho spiegato bene fin da principio, e rispondetemi:

D. Prima di tutto che cosa è necessario fare per salvarci?

R. Prima di tutto per salvarci è necessario credere in Dio, cioè avere fede in Dio. (s’insegna a ripetere).

D. Che cosa è la fede?

R. La fede è una virtù infusa da Dio nelle anime nostre, con cui Dio ci illumina, ci inspira, ci aiuta a fidarci interamente a Lui, a credere in Lui e a credere tutte le verità che ci fa insegnare dalla Madre Chiesa. Ora andremo a casa e ci ricorderemo sempre, ditelo neh!! con me, che siamo ben contenti di essere Cristiani, e di credere tutto quello che Dio ci fa insegnare dalla Madre Chiesa: e, in ogni luogo fuggiremo dai cattivi, che parlano contro di Dio e contro la nostra Santa Religione.

LA VITA INTERIORE (26)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (26)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

TENEBRE DISSIPATE

LA POVERTÀ DI SPIRITO

Su la Patria, ottimo mensile degli emigrati  italiani nell’Argentina, è stato pubblicato, anni or sono, il seguente articolo:

NECESSITÀ DI VITA REGOLATA E CALMA.

«Il milionario americano Wheeter Arturo, straordinariamente seccato dal rumore delle automobili, che va facendosi sempre più intenso negli Stati Uniti, ha comprato dai monaci di Cerne, per 750.000 dollari, l’Isola di Browsea, ove si recherà a vivere, il più presto possibile, lontano da tutti i rumori. » Questo. milionario, odiatore del fracasso, della velocità, dei records sportivi ed assetato di silenzio; merita d’essere ricordato ai posteri, non tanto per l’esempio — che potrà essere difficilmente imitato da coloro che non hanno la fortuna di possedere la bellezza di 750 mila dollari per comperarsi un’isola — quanto per il significato profondo del suo gesto.

» Chi non ricorda gli inni, americani e non americani, alla vita intensa, avida di tutte le soddisfazioni e di tutte le gioie, in movimento perennemente in corsa sulle piste rumorose della felicità ricercata nelle scoperte della tecnica e nell’apoteosi della Natura?

» Il clamore assordante, diabolico, senza posa, dei veicoli in corsa non era che la espressione esteriore caratteristica dell’ansia terribile che padroneggiava e tormentava le anime, assumendo via via impeti di dramma e bagliori di tragedia.

» La guerra mondiale fu lo sbocco logico di quell’ansia terribile.

» Dal crollo immane popoli e individui si levano ora, cercando confusamente la propria pace. I popoli risalgono verso le antiche fonti, riannodano con doloroso amore le vetuste tradizioni già bestemmiate e infrante; gl’individui, sempre più numerosi, riposano appagati nella ritrovata pienezza della vecchia fede.

» E dai rumori delle strade, degli sports, della perenne dissipazione delle anime si anela al silenzio.

» Senza fuggire la vita, che non è sempre possibile né consigliabile, anche l’uomo moderno deve seguire il monito della sapienza antica, sequestrarsi qualche volta e qualche istante dal turbine umano, fare un’isola intorno al proprio cuore, rifugiarsi nella parte migliore di sé, ascoltare se stesso e Dio. Da questa solitudine e da questo silenzio nascono i grandi pensieri e le grandi forze che governano il mondo ».

ISOLARSI DALLE COSE CREATE.

È una verità conosciutissima quella che afferma, come la molteplicità e la soverchia estensione nella ricerca delle cose, sia contraria alla profondità della conoscenza delle cose stesse. La citrullissima teoria dell’americanismo, secondo la quale le virtù passive — a differenza delle attive — meritano disprezzo, è relativamente di fresca data; da che mondo è mondo; però, molti, troppi sono vissuti e vivono dominati dalle inezie, infatuati dei beni effimeri; avvinti da sciocchezze, da tutto ciò. che si esprime nella parola « leggerezza ». Poco tempo fa, a mensa di conoscenti, con parecchi invitati, ho compianto un povero Legale che, mentre gli altri compivano lodevolmente l’ufficio che a mensa si compie, continuava a esaltarsi nel riferire l’elenco vario e numeroso delle sue… conoscenze! — Ah! il generale X? È un mio amico di lunga data!… Il prefetto della provincia? Lo conobbi ai bagni!… Sì, conosco il nipote di S. Em. il Cardinale!… Feci il servizio di permanente alle dipendenze dirette di S. E. il Generale Cadorna!… — E chi più ne ha più ne metta. Chi sa quando avrebbe terminato di esaltare la sua prosopopea se uno de’ commensali, quasi sottovoce, non fosse uscito in questa dichiarazione: «Lo dirò al babbo, ch’è il questore di…; affinché, occorrendo, si rivolga a lei, egregio signore, per le sue informazioni ». Parlasse questi sul serio, come si dice, o con ironia, fatto sta ed è che il millantatore, o venditore di fumo, si tacque mortificato, e cercò di rifarsi in parte sulle diverse vivande che vennero presentate in seguito. Questo è uno dei sintomi. Oggi, si può ben dire, l’austerità, la severità, i digiuni, le mortificazioni, la temperanza, non trovano più il loro clima. A questo clima si cerca e si vuole sostituire il coronemur nos rosis di oraziana e pagana memoria. V’è poi un’altra categoria di persone, simile a questa, la quale nella via del bene, nella ricerca di Dio, vuole troppe cose… Perché l’anima possa veramente progredire nella ricerca e nel possesso di Dio, deve, riconoscendo la completa e assoluta vanità delle cose create, distaccarsi da esse e legarsi sempre più intimamente con tutto quello che riguarda direttamente Dio stesso. Lavorandosi, come si suol dire, energicamente su questo punto, l’anima giunge a disinteressarsi quasi completamente di tutto ciò che è creatura, per concentrare e fissare tutta la sua attività nel Creatore. Nulla più di questo giova al progresso della vita spirituale. Come per gli interessi della vita naturale il raccogliere la propria attività su pochi propositi e pochi oggetti, è condizione assoluta di prospero successo, così, e tanto meglio, per gl’interessi spirituali. I troppi pensieri, le troppe idee, gli eccessivi desideri inaridiscono lo spirito e snervano l’attività umana. L’uomo di poche idee, ma precise e ben chiare; di pochi desideri, ma decisi e risoluti, trionfa senza difficoltà di tutti coloro che, volendo troppe cose, finiscono con stringerne nessuna.

« La forza della volontà, frazionata e diluita su troppi oggetti, non riesce a condurne in porto nessuno; non è volere molte cose, ma volere molto poche cose ed anche una cosa sola, che assicura l’esito dell’impresa » (A. Gorrino, o. c., pag. 421).

RENDERE LIBERO IL CUORE.

Quando il nostro spirito si trova ingombrato e preoccupato da troppi desideri, da soverchio numero di pensieri e di preoccupazioni, pure essendo tutti e tutte di ordine sovrannaturale, è impedito di muoversi con libertà nel servizio di Dio. – Avviene lo stesso di quanto accade a un fiore delicato e fine se avvolto da un denso e intricato fogliame. Il fiore presto avvizzisce. Ma se il fiore viene liberato dall’efflorescenza esuberante che lo circonda, riprende presto la sua vita, si sviluppa, emana soavissimo profumo, rivela il suo essere prezioso e gradito. Così è della vita del nostro spirito. Non molte cose, ma poche, anzi, magari una sola, ma bene. Quando sentiamo di amare intensamente e realmente Gesù, allora sentiamo pure nausea per tutte le cose della terra. Conosciamo allora la necessità del concentramento del nostro io, delle nostre attività, delle nostre dedizioni… Riconosciamo, in quel caso, molto facilmente, quanto poco valgano i mille umani accorgimenti e infingimenti; proviamo, anzi, ripugnanza per le mille frivolezze e futilità cui, purtroppo, la maggior parte delle creature umane dà tanto peso…; riconosciamo che il nostro cuore ha bisogno d’essere liberato dalle soprastrutture ingombranti, dall’inutile vegetazione che lo soffoca.

BEATI I POVERI DI SPIRITO.

Quando il cuore si è reso libero da tutto ciò che è fragile e insipido, da tutte le vanità illusorie, da tutte le foglie secche portate e riportate dal vento, allora non abbiamo più bisogno di nulla, all’infuori di Dio. La povertà di spirito ci fa possedere l’unica ricchezza. Iddio è questa unica vera ricchezza. Se adunque, ci esorta S. Gregorio Magno, volete divenire ricchi tendete al Regno celeste… ». « Quanto più eviteremo di crearci esigenze, di essere schiavi della comodità e del lusso, e procureremo di ridurre, a francescana semplicità, la nostra vita, tanto più ci sentiremo invasi da un senso di vera libertà, apportatrice di gioie intime e veraci » (A. Cavagna. Squilli di gioia, pag. 351). Così possiamo ben comprendere come la prima delle beatitudini predicata da Gesù sia quella della povertà di spirito. Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli (MATT., V, 3). «La povertà di spirito è più che lo spirito di povertà poiché con questo si rinuncia ai beni materiali della vita, mentre la prima importa la rinuncia anche ai beni superiori alla materia, come l’onore, la stima, la libertà, l’indipendenza, la gioia del successo, ecc. ecc.

» È il vero impoverimento dell’anima, la quale diventa indifferente e incapace di formare ed esprimere desideri per qualsiasi cosa che non sia Dio e il suo volere.

» Il povero di spirito non desidera nulla delle cose del mondo; la vita, l’intelligenza, le attitudini, il successo sono per lui cose indifferenti, quando non coincidono col volere divino. È sempre lo stesso, va sempre bene, poiché si compie sempre la volontà di Dio.

» Avere la povertà di spirito significa avere lo spirito povero e mancante di ogni sorta di bene proprio ed anche dei desideri stessi di tale bene; vuol dire non solo non possedere beni tra le vanità terrene, ma neppure desiderabili, od anche pensarci solamente.

» È quel sentimento espresso da S. Francesco di Sales il quale diceva di se stesso: Io voglio poche cose e quelle cose stesse le voglio molto poco e, se dovessi rinascere, vorrei non avere alcun desiderio» (A. GORRINO, 0. C., pag. 423).

DIO SOLO, UNICO VERO BENE!

La povertà di spirito non si applica solo ai beni materiali. Si applica, anche, ai beni spirituali più di quanto vi si pensi, ed espone l’anima alla ricerca assoluta dell’unico vero bene, Dio. Ah! se questa verità fosse ben compresa da tutte le anime e, in modo particolarissimo, dalle anime religiose! Suole accadere che molte anime spendono energie preziose non per cercare Dio, ma per raggiungere i doni spirituali, le virtù, le grazie che avvicinano a Dio. È necessario amare e cercare Dio per se stesso; se Dio, poi, disporrà che noi lo vediamo e lo possediamo per mezzo de’ suoi doni, noi saremo disposti a fare come piacerà a Dio… E qui, data l’occasione, affermiamo chiaramente il principio: TUTTO deve servire a Dio, per Dio…; nulla dobbiamo cercare all’infuori di Dio. Egli è un Padre: non pretende l’esito felice, la riuscita vittoriosa…: pretende, invece, soltanto il mostro sforzo che deve accompagnare la mostra volontà nella ricerca di Lui solo, o dei mezzi, da Lui solo disposti, per giungere a Lui. – Ogni anima che riflette con serietà su di se stessa, non può fare a meno di conoscere la sua assoluta miseria, la sua abbiettezza, e di essa, come della sua povertà, non si avvilirà. Ne godrà, anzi, perché così il Signore le apparirà tanto più grande ed amabile e tanto più l’avvicinerà a Dio… quanto più il sentimento della propria indegnità le sembrerà allontanarla. Santa Teresa del Bambino Gesù così, a questo riguardo, scrisse: Oramai mi rassegno a vedermi sempre imperfetta ed anzi trovo in questo la mia gioia! (Storia, VII). Ma noi, nel constatare le nostre imperfezioni, diciamo anche così? No. Non diciamo così. Noi, ordinariamente, viviamo di amor proprio, e ci lamentiamo, e facciamo disperare coloro che, per divina disposizione, preposti al nostro bene, diventano i bersagli del nostro egoismo. Ma seguiamo ancora la Santa: Più tardi, può darsi che il mio tempo mi appaia ancora pieno di molte miserie, ma io non mi stupisco più di nulla, né io mi affliggo nel vedermi essere la stessa debolezza; al contrario è in questo che io trovo la mia gloria e mi attendo ogni giorno di scoprire in me nuove imperfezioni (Storia IX). Ora, queste parole piene di umiltà e di santa rassegnazione, hanno già la loro radice in quelle che l’Apostolo Paolo scriveva ai Corinti: Volentieri troverò la mia gloria nelle mie infermità, perché risieda in me la virtù di Cristo (II Cor., XII, 9). Ma non è a queste anime, forse, che suole rivelarsi Gesù? Ecco le parole precise di Matteo (XI, 20): Hai celato le tue verità ai sapienti e ai prudenti per rivelarle ai bambini. Le predilezioni sono per questi piccoli: Chi è bambino, venga da me (Prov., IX, 4). Su questa piccolezza come ognuno bene deve sapere, il Signore pone la base della sua grandezza: Chiunque si sarà umiliato come questo bambino, sarà maggiore nel regno dei cieli (MATT., XVIII, 4).

CONCLUDENDO.

È necessario, adunque, possedere Dio, vivere uniti a Lui; e, perciò, poter fare a meno di tutti gli aggeggi e le sovrastrutture di questa vita. Un solo pensiero, un solo affetto può e deve riempire la nostra anima: Dio! Ogni altra cosa è aridità, fumo, fango, parvenza, NON REALTÀ. Perciò:

1) Anima fedele, non turbarti se ti senti povera e meschina.

2) Onori, stima, considerazioni, agiatezza e fortuna, sono illusioni.

3) Se gli uomini pensano male, e ti giudicano male, non dartene pena. Tu, potresti pensare assai peggio di te, poiché ti conosci.

4) Non attenderti nulla da nessuno, mai. Non la riconoscenza, non la comprensione, non la benevolenza. Non angustiarti se altri ti passano avanti, e, vilmente favoriti, occupano il tuo posto. Qualunque angolo… è sufficiente per la tua pochezza.

5) «Se ti senti arida e distratta nelle preghiere e negli atti di pietà: se il servizio di Dio ti parrà arido e freddo senza alcuna consolazione; se il tuo spirito rimane vuoto e inerte durante la meditazione dei misteri della bontà divina, non affliggerti per questo e pensa che non sei buona a niente e rimani ferma nel dare a Dio quel poco di cui sei capace » (A. Gorrino, o. c., pag. 427). – Non temiamo adunque.

Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli. Risorti con Gesù Cristo, nostro capo, non dobbiamo più cercare e gustare le cose della terra, ma quelle del cielo, ove Gesù ci aspetta.

S. Paolo, Ai Col., III, 1-2.

LA VITA INTERIORE (27)

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 22

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (22)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XIV

Della carità verso il prossimo

II.

Segni della vera e perfetta carità verso il prossimo.

La vera carità è universale, senza sensibilità, instancabile e senza egoismo. – Si rallegra dei beni altrui come se fossero suoi. – esempio di Gesù Cristo, — di santa Elisabetta. – di di Maria SS.; dei Beati; — della Chiesa della terra.

La vera e perfetta carità si fa conoscere dal grande amore che si ha per tutti gli uomini. Essa vorrebbe tutto infiammare, a segno di trasformarsi in fuoco, ardore e zelo per portar dappertutto la conoscenza e l’amore di Dio. Questa carità universale non deve essere una chimera, come si vede in molti che si mostrano infiammati di zelo generoso, ma per ispirito di superbia; il loro amor proprio si compiace nelle cose grandi e vuole occuparsi in opere appariscenti e straordinarie. La vera carità deve mostrarsi verso qualunque prossimo in particolare, a tutti si deve voler bene e far del bene per quanto si può, prestando a ciascuno, nelle sue necessità, l’assistenza dei nostri beni e dei nostri conforti, e procurando di accontentare, con dolcezza e con cordialità cristiana, tutti  coloro che ci domandano qualche sollievo. – La pura carità è scevra di tenerezza esteriore e sensibile, di estrema espansività. Essa attira i cuori a sé con tale purezza che, mentre li conquista tutti, e per una segreta azione di Dio, se li tiene intimamente vincolati e uniti, pure esternamente non li tiene legati: è questo un effetto della libertà dell’amor santo e puro che tiene liberi da legami sensibili ed esteriori coloro che sono legati ed uniti in Dio. Questa divina carità non si esaurisce né si stanca mai; essa dà modo al prossimo di ricorrere a noi in qualunque luogo e in qualunque occorrenza, senza timore di ripulsa. – Un altro effetto meraviglioso che sempre l’accompagna e ne è un segno infallibile, è questo ch’essa mantiene tutto nella unione, senza mai attrarre nessuno a sé stessa in modo da separarlo dagli altri, né distratto dai propri doveri né dai propri obblighi. Essa nel suo amore mantiene tutte le cose in una vicendevole unione, è come un centro dove tutte le linee convergono e vengono a riunirsi. Mentre la falsa carità divide le persone unite onde attirarle esclusivamente a sé medesima, la vera carità tiene unite le persone più distanti per le loro inclinazioni; e per opera delle sue cure le persone più divise sono mantenute in società.

***

La perfetta carità verso il prossimo ci fa godere, con Lui, per i suoi beni come se fossero nostri. In quella guisa che Dio si compiace nei beni del Figlio suo, e il Figlio suo si compiace pure dei beni dello Spirito Santo come di beni suoi propri: così dobbiamo rallegrarci del bene di Dio nel prossimo, considerandolo come bene nostro. Donde avviene che, se abbiamo in noi la carità perfetta veramente operata da Dio nel nostro cuore. Dio gioirà e si dilaterà in noi in presenza dei beni del prossimo.

***

Così Nostro Signore, per l’operazione dello Spirito Santo (In Ipsa hora exultavit Spiritu Sancto. Ecc. X, 21) provava una grande gioia interiore alla presenza dei suoi Apostoli che gli riferivano gli effetti ammirabili che il Padre suo operava sopra le loro persone; godeva di vederli rivestiti dei doni e delle ricchezze del suo Spirito, godeva inoltre Gesù Cristo in anticipazione, per tutte le operazioni di cui, per i meriti della sua morte, la sua Sposa sarebbe un giorno da quel divino Spirito ornata ed arricchita. Era questo un mistero nascosto agli occhi dei sapienti e dei prudenti; esso non sarebbe conosciuto che dai piccoli, perché questi, essendo sottomessi alla direzione della Chiesa e dei suoi Capi, vedrebbero che la cosa più debole nella natura, vale a dire, il Figlio di un operaio, povero, meschino e miserabile agli occhi del mondo, muoverebbe tutto il mondo e rovescerebbe tutti gli Stati, le monarchie e gl’Imperi, per la virtù e l’efficacia del suo dito, che è lo Spirito Santo nei- suoi. doni; questi doni, riguardo allo Spirito Santo considerato nella sua sostanza, non sono che come il dito dell’uomo in confronto di tutto il corpo.

***

Così in San Giovanni Battista (Luc. I) e in Sant’Elisabetta, lo Spirito di Dio godeva per la gloria della Vergine Santissima. Stupenda grandezza di Maria innalzata alla dignità di Madre di Dio e di Sposa nell’Eterno Padre! Principio insieme col Padre della generazione temporale del Verbo, essa operò con Lui nell’Incarnazione ciò che Egli fa da solo nell’eternità. L’eterno Padre l’ha associata alla propria fecondità nella generazione reale del Figlio suo, ed è questa l’operazione più ammirabile, la grandezza più divina di cui una creatura possa essere onorata. La più alta, più sublime e più perfetta virtù dell’Altissimo è la sua fecondità. Ed è questa ch’Egli comunicava alla Vergine, come alla sua Sposa, per operare in essa la generazione temporale del Verbo Eterno. In pari tempo Maria era costituita Tempio dello Spirito Santo, nella pienezza più pura e più abbondante che fosse possibile. Siccome era destinata ad essere Madre di Gesù Cristo, essa aveva ricevuto la pienezza della grazia, come l’Angelo dichiarava con queste parole: Ave gratia plena, Vi saluto piena di grazia (Luc. I, 28). Perciò Maria è la creatura più pura, più divina e più perfetta che possa esservi. Da tale pienezza e perfezione procede appunto la sua fecondità materna, come la fecondità di Dio nasce dall’esuberanza della sua perfettissima sostanza e del suo Essere divino. In tal modo, le piante non producono il frutto che dalla sovrabbondanza e dal sovrappiù della linfa che possiedono. – Ma questa Madre ammirabile, benché fosse già ripiena della perfezione necessaria alla fecondità divina, riceveva ancora grazie e doni in una sovrabbondanza oltremodo prodigiosa. Per questo l’Angelo le diceva: Spiritus Sanctus superveniet in te, Lo Spirito Santoscenderà sopra di voi (Luc. I, 35), per operare invoi cose grandi, che sorpassano tutta lapienezza dei beni che Egli vi ha già comunicati.Era questo l’oggetto della gioiadi Sant’Elisabetta che si rallegrava dellagloria e della esaltazione della sua cugina,come se fosse sua fortuna propria. Parimenti,la Vergine SS.. contemplando nelsuo seno Gesù Cristo presente con la pienezzadella divinità del Padre, esultavapure in ispirito; si rallegrava dei beni conferitia Gesù Cristo in virtù della pienezzadi Dio che stava in Lui e lo aveva rivestitodei tesori della sua sapienza e della suascienza. Era questo il grande oggetto dellagioia di Maria: Esulta il mio Spirito inDio mio Salvatore! (Luc. I, 27).La Vergine si rallegrava e godeva, inoltre, perché il Figlio suo rivestirebbe poie riempirebbe la Chiesa della sua pienezza(Joan. I, 16), poiché, col suo divino Spirito, renderebbetutti i fedeli partecipi della suagloria e dei suoi doni.

***

Così ancora i Santi tutti del cielo si rallegrano dei doni che possiedono e se ne rallegrano gli ini per gli altri; ciascuno di essi prende parte alla felicità di tutti come se fosse la sua propria. Infatti, quei doni sono tutti comuni in virtù della comunicazione vicendevole, reale e perfetta che se ne fanno gli uni agli altri; avendo essi una dimora comune gli uni negli altri, si comunicano a vicenda tra loro i doni di Dio. Per un’ammirabile somiglianza con la SS. Trinità, i Santi fruiscono di una specie di circuminsessione, dimorando gli uni negli altri, come le Persone divine ed eterne dimorano l’una nell’altra per la loro circuminsessione. Nostro Signore c’insegnava appunto questo mistero con queste parole « Come io sono nel Padre mio e mio Padre è in me (Joan. XVII, 23) per la comunicazione della sua sostanza e della sua vita, e che nondimeno il Padre rimane tutto ciò che è ed io pure rimango tutto ciò che sono: così pure di voi. Io sono similmente in voi e voi siete tutti consumati in me, come mio Padre ed io siamo identificati nella semplicità ed unità di una medesima essenza. – E come mio Padre ed io siamo distinti per il nostro carattere personale, benché i nostri beni siano comuni e che dei tesori e delle ricchezze della sostanza divina che ci è comune, nulla sia da noi posseduto in proprio: così di voi, benché siate tutti consumati in me, ciascuno però rimane ciò che è, ciascuno conserva il suo essere particolare, ciascuno conserva la distinzione dei suoi doni, delle sue grazie e del suo carattere proprio ». Tale è lo stato dei Santi; essi possiedono tutto Gesù Cristo, il quale è la loro sostanza comune; ciascuno possiede tutto lo Spirito e tutta la vita di Gesù Cristo, purtuttavia uno non è l’altro, ma ciascuno conserva il suo carattere proprio e il suo dono proprio.

***

Così, nella S. Chiesa della terra non meno che in quella del Cielo, tutti i fedeli in particolare possiedono Gesù Cristo nella sua pienezza, tutti sono partecipi dei suoi doni, tutti ricevono comunicazione delle sue intime disposizioni, tutti hanno parte al suo Spirito, il quale è uno Spirito di gioia che si dilata nel darsi e nel diffondersi nel cuore dei fedeli; perciò tutti devono rallegrarsi dei beni di tutti, come se fossero propri. Così vediamo che quando questo Spirito viene dato a qualche anima in particolare, tutte le anime pure ne risentono e ne provano gioia. S. Antonio al suo tempo era appunto una di quelle anime in cui lo Spirito di Dio si prendeva le sue maggiori compiacenze; perciò la sua morte riempì la Chiesa di dolore, perché quel medesimo Spirito cessò di comunicarsi a lui, su la terra, in quella gioia e in quella effusione di cui le anime della Chiesa militante erano rese partecipi, quando egli lo riceveva. – Dio in tutto sia benedetto, per i beni che fa alla Chiesa nel Cielo, come di quelli che comunica alla Chiesa della terra, e dei quali ciascuno in particolare viene reso partecipe!

17 MAGGIO (2022) SAN PASQUALE BAYLON

17 maggio: S. Pasquale Baylon, Confessore

1. – Pasquale è un figlio della grazia. Egli nacque il 16 maggio 1540, giorno della grande festa di Pentecoste, a Torre Hermosa in Spagna, da genitori poveri, ma profondamente cristiani. Fin dalla più tenera infanzia Pasquale mostrò uno spiccato sentimento religioso e una particolare attrattiva per il Santissimo Sacramento dell’Altare. Non conosceva gioia più grande di quella di esser portato in chiesa dalla mamma e di assistere alla santa Messa. Il bambino, non appena capace, si trascinava carponi a mani e piedi in chiesa e si arrampicava sui gradini dell’altare per essere vicino al Signore. Dall’età di sette anni Pasquale fu messo a guardare le pecore. I suoi genitori non potevano mandarlo a scuola, ma Pasquale portava con sé al pascolo un libro e si faceva indicare dai passanti l’una o l’altra lettera dell’alfabeto. Imparò così a leggere e a scrivere. Il suo interesse era unicamente rivolto ai libri e agli scritti di argomento religioso. Ben presto Pasquale dovette recarsi all’estero come pastore. Anche lì resistette con decisione al cattivo esempio e agli allettamenti degli altri pastori. Si sentiva sempre più attratto alla vita religiosa. A diciott’anni si presentò dai francescani di Monteforte presso Valenza e fece domanda di ammissione in convento. Questa gli fu negata. In realtà solo per metterlo alla prova i francescani lo posero a servizio come pastore presso un contadino delle vicinanze. Finalmente nel 1564 gli fu concesso l’abito come fratello converso. Pasquale condusse una vita religiosa perfetta e santa. – Ebbe una particolare devozione per il Santissimo Sacramento dell’Altare. Morì il 17 maggio 1592 a Villareal, fu beatificato nel 1618, canonizzato nel 1690 e, nel 1897, fu da Leone XIII proclamato celeste patrono di tutte le Leghe eucaristiche.

2. -« To ti rende, o Padre, perché hai nascoste queste cose ai savi e agl’intelligenti e le hai rivelate ai pargoli » (Vangelo). Quanto più elevata dev’essere un’opera, tanto più piccolo e insignificante è lo strumento di cui Dio si serve. Egli vuole così mostrare che Lui è veramente il Signore onnipotente e infinito. Nessun uomo deve potersi gloriare dinanzi a Dio. Questo è il modo di procedere di Dio nel chiamare i suoi Santi. « Solleva da terra il misero per collocarlo tra i principi, tra i principi del suo popolo » (Ps. CXII,12, 7 8). « Ha esaltato gli umili » canta la Vergine di Nazareth nel Magnificat (Luc. 1, 52). Pasquale è un povero pastorello che non ha mai la possibilità di frequentare una scuola; che passa la sua vita tra incolti pastori. Chiede l’ammissione in convento e questa gli viene in un primo tempo negata: i superiori non hanno fiducia in lui e lo lasciano aspettare ancora diversi anni prima di accoglierlo. Pasquale si piega e porta pazientemente la prova. Diventato religioso si sottomette con tutta fedeltà alla regola, pratica la povertà come nessun altro in convento e, secondo la testimonianza dei suoi confratelli e superiori prende come norma della sua condotta l’obbedienza in tutte le cose. Nel rinnegamento della propria volontà giunge fino all’eroismo. In un convento riceve dal Guardiano molti rimproveri e rabbuffi infondati. Pasquale si prende le aspre parole con assoluta calma e impassibilità. Il Cielo lo colma di grazie d’ogni genere. Il frate completamente ignorante di questioni teologiche, si mostra al corrente dei più profondi misteri della fede ed è in grado di compilare scritti dogmatici e di dare risposte che suscitano lo stupore dei più grandi teologi del tempo. Ha inoltre il dono della profezia, il dono del discernimento dei cuori, il dono dei miracoli, soprattutto della guarigione di malattie. Ha infine la grazia della preghiera. Già come giovane pastorello egli conduce una vita eremitica santificata dalla preghiera. Valli e colline sono testimoni delle sue estasi, nelle quali egli contempla le cose divine. Nelle fredde notti invernali, nonostante il gelo e la neve all’intorno, egli passa ore ed ore in preghiera  e contemplazione. Spesso solo il chiarore dell’alba lo riscuote dalla sua profonda preghiera. Così Dio esalta in Pasquale, nell’umile frate, la bassezza, la piccolezza, l’umiltà. Egli avrebbe avuto la capacità di assolvere gli studi necessari per il sacerdozio. Si cercò anche di influenzarlo in questo senso. Ma egli vuol rimanere semplice frate e si ritiene, come S. Francesco, indegno del sacerdozio. « Io ti rendo lode, o Padre, perché hai nascosto queste cose ai savi e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli ». – « 0 Dio, tu hai infuso nel tuo beato confessore Pasquale una mirabile devozione per i sacri misteri del tuo Corpo e del tuo Sangue » (Colletta). Fin dal tempo in cui Pasquale vive nel mondo, arde di tenero amore per il Signore eucaristico. Più che mai dopo che è entrato in convento. Di giorno e di notte ci si può imbattere nel portinaio del convento immerso in adorazione dinanzi al Santissimo. È vero che per il suo servizio di portinaio egli è continuamente chiamato via dall’altare dal suono del campanello. Ma non appena ha sbrigato le sue faccende alla porta si affretta a ritornare dinanzi all’altare e prosegue la sua adorazione con lo stesso raccoglimento, come se non ne fosse stato affatto distolto e interrotto. Dopo poche ore di sonno leggero, di buon ora è già nuovamente in chiesa, genuflesso dinanzi al Santissimo, le mani aspanse, gli occhi fissi al Tabernacelo, spesso per molte ore. A volte è rapito con tale potenza che il suo corpo, sollevato da terra, rimane sospeso in aria. Nel suo amore per il Santissimo Sacramento egli si sente spinto a servire continuamente la santa Messa, non di rado otto e più volte consecutive. Riceve la santa Comunione quanto più spesso gli è permesso e gli è possibile. Il pensiero del Signore nel Sacramento dell’altare lo segue dovunque. Sulla via per recarsi ad un convento in Francia il povero frate francescano soffre ogni sorta di maltrattamenti e d’ingiurie da parte degli Ugonotti. Gli vengono gettate contro delle pietre. Tormentato dalla fame, domanda l’elemosina – ed è preso per una spia, battuto e gettato in prigione. È sicuro di morire. Come per miracolo viene liberato, ma solo per sopportare nuovi maltrattamenti per il resto della via. « Credi che Dio sia presente nel Sacramento che voi consacrate e chiamate Messa?» gli domanda un Ugonotto. « Si, lo credo e proclamo ad alta voce che Dio è veramente e sostanzialmente presente nella specie del pane ». Nuovi maltrattamenti. Il desiderio di Pasquale di diventare martire dell’Eucaristia si sarebbe allora adempiuto, se Dio non avesse miracolosamente protetto il suo servitore: le pietre che dovevano colpirlo volarono oltre la sua testa. Soltanto una pietra lanciata con tutta furia gli spezza la spalla sinistra lasciandolo offeso per tutta la vita. Ritorna vivo dopo due mesi al suo convento. Egli si rammarica soltanto di una cosa: di non aver potuto dar la sua vita per la sua fede nell’Eucaristia. Sulla bara, al momento della consacrazione, apre ancora due volte gli occhi per adorare il Signore che s’immola. – Possa la nostra le e il nostro amore per la Santissima Eucaristia trovare continuamente alimento nella fede e nell’amore di S. Pasquale per il Santissimo Sacramento!

3. – Dal contatto fervoroso col Signore eucaristico, il santo frate attinge virtù in abbondanza: la perfetta purezza da ogni peccato; l’amore della povertà, della verginità, della castità; l’umiltà; lo spirito di sacrificio, di preghiera, di santo amore di Dio e del prossimo. « Dimmi chi pratichi e ti dirò chi sei! ». Non abbiamo noi quello stesso Salvatore nel Tabernacolo, nel sacrificio dell’altare, nella santa Comunione? E allora? La Chiesa non possiede nulla di più sublime, nulla di più santo, nulla di più meraviglioso della santa Eucaristia: essa racchiude il migliore e più grande dono di Dio: Lui stesso, fonte e origine di ogni grazia e santità, Gesù Cristo. Avessimo noi la viva fede di S. Pasquale! Quanto avremmo cura allora di mantenere l’anima nostra nel sole!

Preghiera

O Dio, che infondesti nel tuo beato confessore Pasquale una mirabile devozione per i sacri misteri del tuo Corpo e del tuo Sangue, concedi propizio che meritiamo di conseguire quella pinguedine di spirito che egli ebbe da questo divino banchetto. Amen.

(B. Baur O. S. B.: I Santi nell’Anno Liturgico, Herder Ed. Roma, 1958)

LA VITA INTERIORE (25)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (25)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

TENEBRE DISSIPATE

L’ALLEGRIA

Dopo aver trattato del dolore come fonte di vita interiore, è bene mettere in risalto che anche l’allegria vera ci conduce a una vita di stretta relazione con Dio.

ERRORE COMUNE.

«Due sono gl’inganni principali, con cui il demonio suole allontanare i giovani dalla virtù. Il primo è far loro venire in mente che il servire al Signore consista in una vita malinconica e lontana da ogni divertimento e piacere. Non è così, cari giovani. Io voglio insegnarvi un modo di vita cristiana, che vi possa nel tempo stesso rendere allegri e contenti, e additarvi quali siano i veri piaceri, talché voi possiate dire col santo Profeta Davide: Serviamo al Signore in santa allegria: Servite Domine in lætitia. Tale appunto è lo scopo di questolibretto: insegnare a servire il Signore e astare allegri». Così il santo don Bosco in:Il Giovane Provveduto, indirizzandosi ai giovanetti…Questo inganno non è, però, solamente presentato ai giovanetti. Il demonio si sforza di presentarlo, orpellato più o meno bene, a tutte le anime e molte, purtroppo,ne rimangono prese. La persuasione,errata, che ne consegue, rimane, purtroppo,la seguente: il peccato e la colpa sono apportatori di gioia; la gioia vera consistenell’assaporare il frutto proibito; e quindi, la pratica della vita cristiana, l’eserciziodelle virtù sono sinonimi e fonte di malinconia e di tristezza.La dottrina cattolica insegna tutto il contrario:il peccato è fonte di mestizia e di avvelenamento spirituale: la pratica della virtù porta all’allegria santa e serena.

LA « SOCIETÀ DELL’ALLEGRIA ».

Quando il santo don Bosco, giovinetto, riuscì, dopo tanti stenti e sacrifici, a stabilirsi nella cittadina di Chieri per iniziarvi gli studi regolari che gli avrebbero poi aperte le porte del seminario, del sacerdozio, del suo apostolato grande quanto il mondo, seguendo le divine aspirazioni, raccolse intorno a sé tutti i compagni di scuola… « La carità in lui era fin d’allora diffusiva. Desiderava, voleva, anzi, darsi davvero tutto a tutti ». Per questa sua spontaneità nel dare e nel darsi generosamente, e con la narrazione spigliata di piacevoli racconti, con l’attrattiva dei giochi ordinari e di altri di prestigio, e, soprattutto, coll’aiuto nell’indirizzo per lo svolgimento dei compiti scolastici, gli avvenne anche a Chieri quello che già eragli accaduto ai Becchi, alla Cascina Moglia, a Murialdo, a Castelnuovo. A questo si aggiunga la parola viva e scolpita, la parola affabile, il tratto affettuoso, avvincente… e non si proverà più nessuna meraviglia se diremo che si vide presto circondato da un numero discreto di compagni, di amici, docili e pronti al suo cenno e alla sua parola. Tanto docili, tanto obbedienti, che, per mezzo di essi e con essi, fondò la Società dell’allegria. La società dell’allegria aveva uno statuto proposto da Giovannino Bosco e approvato dai soci, di due soli articoli, la cui osservanza garantiva la buona condotta religiosa e morale de’ singoli soci. Ecco i due articoli nella loro semplice ed esatta espressione:

1) Ogni membro della società dell’allegria deve evitare ogni discorso, ogni azione che disdica ad un buon Cristiano.

2) Dev’essere esatto nell’adempimento dei doveri scolastici e dei doveri religiosi.

Potremmo trarre diverse e molteplici conseguenze. Ne trarremo una sola, e diremo che i soci della società dell’allegria avevano nell’osservanza dei due articoli dello statuto della loro società il mezzo di fuggire il peccato, ogni peccato, e di praticare bene il proprio dovere, tutti i loro doveri. Il peccato porta il rimorso, che toglie la gioia, la pace, l’allegria; per contrario la pratica della vita cristiana nell’adempimento dei nostri doveri genera la pace, la gioia, l’allegria santa. I piaceri del mondo portano amarezza e malinconia, desolazione, angoscia; la preghiera, il raccoglimento, il sacrifizio, l’esercizio della virtù porta la felicità, l’allegria.

IDDIO È GIOIA.

Chi ha gioia vera, possiede Dio, poiché Dio è gioia, è allegria. Se noi potessimo dire, osserva molto finemente il padre Faber, che la vita di Dio consiste in un attributo piuttosto che in un altro, dovremmo dire che consiste nella sua gioia. Gesù lasciò il cielo per la terra, per portarci quella gioia, quell’allegria sana e santa che il peccato ci aveva tolto. « Ma gli uomini non vogliono sapere della sua gioia. Le porte di molti cuori, come quelle di Betlemme, si richiudono sgarbatamente per non accogliere la sua insistente offerta di vera gioia. Ed egli è stanco. Sono duemila anni, che ripete, con la medesima delicata e imperturbabile premura, la sua offerta di gioia. » Altri invece, a suo posto, sono ascoltati; proprio e solo quelli che portano il rimorso, l’infelicità, la tristezza. » Vedetelo seduto vicino al pozzo di Giacobbe e in ciascheduno dei nostri tabernacoli, in un atteggiamento dignitosamente triste. Iddio, esclama il S. Curato d’Ars, vuol renderci felici e noi non lo vogliamo! Noi ci stanchiamo di lui, e ci diamo al demonio! Noi fuggiamo il nostro amico e noi cerchiamo il nostro carnefice! Noi commettiamo il peccato, noi sprofondiamo nel fango… Non è una vera follia, che potendo godere le gioie del cielo in vita unendoci a Dio coll’amore, ci rendiamo degni dell’inferno legandoci al demonio? » (A. M. Cavagna, Squilli dî gioia, pag. 167, Milano, 1933). – Concludendo: il piacere non dà la vera gioia. Perfino D’Annunzio deve confessare: « come tutti i fiumi sboccano nell’acqua amara del mare, così tutti i piaceri sboccano nell’amarezza del disgusto ». Parole tremende che meritano tutta la meditazione di ogni anima nel peccato. Renato Bazin, nella vita di Carlo De Foucauld, ricordando il periodo passato nei piaceri, osserva: Egli era triste, in fondo al cuore, triste, di un’antica tristezza. Aveva ben potuto vivere nel piacere: la tristezza non era che aumentata. Ma quando si trovò nel deserto, divenuto eremita e penitente, Carlo De Foucauld esclamò con gioia riconoscente: Io sono l’uomo più felice del mondo. È necessario che confessiamo anche noi con S. Agostino: Non sarà più, o Signore, che io mi reputi beato quando una gioia qualunque allieterà il mio cuore. Vi ha una gioia, che non è concessa agli empi, ma soltanto a coloro che ti servono con amore disinteressato e questa gioia sei tu. Ecco la vita beata; godere in te, di te, per te; la felicità è questa e non altra.

VITA DI GIOIA.

Enumerando l’apostolo Paolo i frutti che porta la venuta dello Spirito Santo, dopo la carità, così asserisce: Fructus Spiritus Sancti gaudium et pax: i frutti dello SpiritoSanto sono la gioia e la pace (Gal., V, 19).Queste parole dell’Apostolo trovano unaddentellato in queste altre di Gesù riferiteda san Giovanni (XIV, 26, 27): La pacelascio a voi, dò a voi la mia pace; ve la doio, non in quel modo che la dà il mondo. Nonsi turbi il vostro cuore e non s’impaurisca.Le parole dell’apostolo Paolo e quelle di S. Giovanni ci persuadono che la vita nostra spirituale dev’essere permeata da un senso di pia allegrezza. Tutto questo, anzi, risulterà chiaro alla nostra mente e alla nostra anima, ricordando quanto sopra abbiamo riferito. Qui, però, desideriamo riaffermarlo, ponendo a base della nostra affermazione, l’idea della Provvidenza divina, sapiente e amorosa, che ci fa considerare tutti gli avvenimenti della nostra povera vita in questa valle di lagrime con serena confidenza, con tranquillità e sicurezza. Dio ci assiste e guida sempre amorosamente, come un padre; e noi non dobbiamo preoccuparci di nulla, tranne che di essere docili nel lasciarci guidare. Egli vuole solo e sempre il nostro bene. Ecco le parole di Davide che, con molta proprietà e precisione, sviluppano questo pensiero: Aveva sempre il Signore dinanzi agli occhi miei poiché Egli sta alla mia destra, affinché io non vacilli. Per questo ha gioito il mio cuore ed esultò la mia lingua; di più: anche la mia carne riposerà nella speranza. Poiché tu non abbandonerai l’anima mia nel soggiorno dei nostri morti; né permetterai che il tuo santo vegga la corruzione. Tu mi hai fatto conoscere le vie della vita; mi ricolmerai di gioia col tuo volto; vi sono delizie senza fine alla tua destra. Certamente, dobbiamo essere santamente allegri per questa paterna e divina assistenza, nonostante î dolori fisici e morali, nonostante la pena per i peccati commessi, nonostante tutte le presenti, possibili afflizioni. Anche questo ha radice nelle affermazioni di Gesù: In verità, in verità vi dico: voi piangerete e gemerete e il mondo godrà; ma la vostra tristezza si muterà in gioia (Giov., XVI, 20). Questa affermazione di Gesù è fin d’ora dolce e amabile conforto nelle nostre pene, di modo che le anime desiderose della vita interiore godono del loro pianto e de’ loro dolori, secondo l’Apostolo Paolo: quasi tristes, semper autem gaudentes (II Cor., VI, 10).

Rimani con me, o Signore, e si la mia vera gioia (300 giorni di ind.).

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 21

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (21)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XIV

Della carità verso il prossimo

Essendo noi creati a somiglianza di Dio, dobbiamo amarlo come Egli ama sé medesimo. — L’amore vicendevole delle divine Persone, motivo, tipo e modello della carità verso il prossimo. – Amare il prossimo come Gesù Cristo è amato dal Padre e ama noi.

Dio. nel creare l’uomo a sua immagine e somiglianza non gli ha comunicato soltanto il proprio essere, la propria vita e le proprie divine perfezioni; ma ha voluto ancora che esso fosse simile a Lui nelle operazioni. Perciò Dio, come ama se medesimo in tutto quanto è, e in tutta l’ampiezza del suo Essere e del suo potere, non potrebbe avere per sé medesimo, un amore maggiore: così ha fatto all’uomo il comando espresso di amarlo con tutto il cuore, con tuta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze. Dio vuole che l’uomo, tutto quanto, sia interamente impegnato ad amarlo, e in questo amore si perda e si consumi. E siccome Egli, per sè stesso, è tutto Amore, e fuori di sé tutto ha fatto per amore di sé medesimo, così vuole pure che l’uomo unicamente per amore di Dio usi delle sue proprie forze ed eserciti la sua propria attività. Orbene, Dio non solamente ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, ma ha pure formata la società umana sul modello della società delle persone della SS. Trinità. Perciò. nell’istesso modo che, in questa adorabile società, il Padre ama il Figlio suo come sé stesso e ama sé stesso nel Figlio suo, e lo stesso è da dirsi dell’amore del Figlio verso il Padre e verso lo Spirito Santo, come dell’amore dello Spirito Santo verso il Padre e il Figlio: così Dio vuole che l’uomo ami il prossimo suo come sé medesimo. Donde avviene che ci ha dato questo comandamento: amerete il vostro prossimo come voi stessi (Deuter. VI, 6), comandamento che Gesù chiama simile al primo (Matth., XXII. 36) perché è conforme alla vita divina ed eterna delle persone della SS. Trinità. In tal modo appunto, Nostre Signore ci ha amati; parlando dell’amore che porta agli uomini, dice che è simile all’amore che il Padre porta a Lui: Come mio Padre mi ama, così vi ho amati (Giov. XV, 9), ossia il medesimo amore che il Padre ha per me, io l’ho per voi; ciò che ci dimostra che l’amore che Egli ha per noi è sul modello di quell’amore che il Padre porta a Lui medesimo, ed è un’imitazione di quell’amore che ciascuna Persona divina porta all’altra, amandola come un’altra sé medesima. Nostro Signore vuole pure che gli uomini si amino tra loro allo stesso modo. Perciò diceva ai discepoli: Amatevi l’un l’altro come vi ho amati, Sicut dilexi vos (Giov. XV, 12). Come l’amore che il Padre ha per me è la forma dell’amore che ho avuto per voi, così voglio che voi pure vi amiate l’un l’altro sul modello dell’amore che io stesso ho per voi, affinché il vostro amore sia tutto conforme e simile a quello di mio Padre.

I.

Condizioni della carità verso il prossimo.

Amare il prossimo come Dio ama se stesso in Lui. — Amare Dio nel prossimo come lo amiamo in noi. La carità non deve aver limiti, ad imitazione dell’amore con cui Dio ama se stesso nel suo Verbo. — Come ci ha amati Gesù Cristo.

Le qualità e condizioni dell’amore verso il prossimo, devono essere simili a quelle dell’amore con cui Dio ama se stesso nel Figlio suo e con cui il Figlio ama gli uomini: dobbiamo amare gli uomini come Dio ama il Figlio suo e come il Figlio ama gli uomini. – Perciò, gli esempi esterni dell’amore di Gesù Cristo verso gli uomini devono essere il modello di ciò che la carità ci obbliga di fare esternamente per il prossimo; e il suo Spirito interiore ch’Egli ci ha dato deve reggerci ed animarci interiormente di quella medesima carità. Perché non si può né praticare né adempiere perfettamente quel santo precetto, senza l’opera di quello Spirito che è Dio medesimo. Dio abita in noi,  ma abita anche nel prossimo, e nel prossimo, mediante il suo Spirito, ama pure sé stesso; perciò, ci fa amare il prossimo come Egli ama sé medesimo. Egli si trova tutto nel prossimo, e siccome dappertutto ama sé medesimo secondo il suo proprio merito, perciò nel prossimo Egli ama sé stesso infinitamente. Epperò, siccome Egli anima il nostro cuore e lo riempie del medesimo suo amore, quindi ci stabilisce nella sua vita, nei suoi movimenti e nelle sue medesime inclinazioni; perciò l’anima cristiana, assecondando i sentimenti e le disposizioni del divino Spirito, ama il suo Dio, nel prossimo, del medesimo amore e con lo stesso ardore con cui ama Dio in sé medesimo. L’anima deve amare sé stessa unicamente in Dio, vale a dire, in quanto Dio l’anima e la riempie: deve amare sé stessa in Dio, come Dio ama sé stesso, perché è resa partecipe della vita di Dio. Così essa deve amare col medesimo amore il suo Dio e sé medesima; e siccome Dio trovasi pure nel prossimo, amare con l’amore medesimo con cui ama Dio in sé medesima.

****

Dio, amando sé stesso nel suo Verbo, si dà infinitamente a Lui, in tutta pienezza, senza nulla riservare né dei suoi beni né della sua gloria; Egli è tutto nel Verbo, in Lui stabilisce la sua dimora, in Lui trova la propria beatitudine come in sé medesimo; e benché ciò faccia per necessità, non lascia però di farlo per amore, tantoché lo fa per amore necessario: la necessità in Dio non può essere un impedimento all’amore, perché Dio è Amore in tutto sé stesso. Così dobbiamo fare, noi pure, riguardo al prossimo: dobbiamo amarlo con tutta la nostra persona, comunicarci a Lui di cuore e d’anima, con l’aiuto e con l’assistenza; in una parola, non dobbiamo avere nulla che non siamo disposti a dargli, senza nessuna riserva. – I primi Cristiani, perché vivevano della vita di Dio, secondo la regola dell’amore che Dio prescriveva loro e che lo Spirito Santo faceva lor seguire, avevano tutto in comune come Gesù Cristo ha tutto in comune col Padre suo: Tutte le cose mie sono tue, e tutte le cose tue sono mie (Joann. XVII, 10). E come in Dio non v’è che un solo Spirito, una sola volontà vivente in tre Persone con perfetta unità di sentimenti, di pensieri e di desideri, così i primi Cristiani, come sta scritto, non avevano che un’anima, un cuore e una stessa volontà (Act, IV, 32). In tal modo i Santi in Cielo vivono in una perfetta unità: tale deve essere pure quella di tutti i fedeli sulla terra.

***

Nostro Signore, in questo, ha mostrato che Egli per il primo praticava quanto prescriveva agli uomini, e che adempiva la legge del Padre suo. Essendo il primogenito tra i suoi fratelli, Egli doveva per il primo ubbidire perfettamente al Padre e servire a noi di modello e di forma per la condotta perfetta della nostra vita. Egli imitava il Padre suo nell’amore eterno che il Padre gli porta; quindi, nella sua vita, manifestava che ci ama come suo Padre l’ba amato da tutta l’eternità (Joan. XV, 9). Vi ho amato come il Padre mio mi ha amato. Mio Padre mi dà tutta la sua sostanza, ed Io vi comunico la mia nel mio santo Sacramento e nella Comunione. – Mio Padre mi comunica e mi dà la sua vita: ed Io vi dò la mia vita, non solo l’ho sacrificata sulla Croce, non solo vi ho dato il mio sangue sino all’ultima goccia, ma pure vi comunico anche il mio Spirito che è la mia vita. – Mio Padre mi comunica le sue ricchezze e i suoi tesori, ed io vi comunico i doni del mio Spirito. – Mio Padre mi dà la sua fecondità, cosicché dò origine ad una persona divina, e Io vi dò la mia stessa fecondità per produrre e generare dei figliuoli a Dio ed alla vita eterna. – Mio Padre mi ha dato ogni potere in Cielo e sulla terra, mi ha dato potere sopra la natura per farne ciò che voglio e cambiarne l’ordine quando e come mi piace; ed Io. con la presenza del mio Spirito, vi ho dato la forza e la virtù di compiere gli stessi prodigi ed altri più grandi ancora. quando ne sia bisogno per la gloria del Padre mio e per il bene della sua Chiesa. Non ho nulla ch’Io non vi doni; tutto quanto è in me, tutto desidero vi sia comune con me, nello stesso modo che tutto quanto il Padre mio possiede, tutto mi è comune in Lui. – Infine, come il Padre mio mette in me tutto quanto ha e tutto quanto è in sé medesimo, così Io metto in voi tutto quanto ho e tutto quanto sono. Ecco la legge della vera e perfetta carità verso il prossimo.

UN’ENCICLICA AG GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. PIO XI – “

Questa lettera Enciclica di S. S. Pio XI, fu scritta in occasione della grande depressione economica del ’29, nella quale il sovrano Pontefice lanciava una pacifica crociata di carità e solidarietà cristiana a favore dei soggetti più deboli ed in difficoltà in quelle drammatiche condizioni di vita. Anche oggi le condizioni economiche e sociali stanno rapidamente progredendo verso una situazione ancor peggiore dell’epoca, oltretutto infestata a livello mondiale da veleni di ogni genere, chimici e biotecnologici, da empie ideologie amorali e da spaventosi errori dottrinali e spirituali, ben più nefasti del modernismo che ha imperversato sottotraccia nel secolo scorso, ed è esploso nella cristianità corrotta e sacrilega col c. d. Vaticano II, ove un nido di cobra, di bungari e di vipere assassine e assetate di anime da condurre nello stagno di fuoco eterno, si è unito in un progetto infernale guidato dalla sinagoga neopagana e demoniaca degli adepti adoratori del baphomet e del pachamama. Sed non prævalebunt, ci assicura il divin Maestro, ed anzi l’azione del soffio della sua bocca e quella del Cuore Santissimo della Vergine Maria, trionferà senza dare scampo alcuno ai nemici di Dio, del suo Cristo e della sua unica vera Chiesa … et IPSA conteret

LETTERA ENCICLICA

NOVA IMPENDET
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA,SULLA CRISI ECONOMICA DEL 1929

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Un nuovo flagello minaccia e in gran parte già colpisce il gregge a Noi affidato, e più duramente la porzione più tenera e più affettuosamente amata, cioè l’infanzia, gli umili, i lavoratori meno abbienti e i proletari. Parliamo della grave angustia e della crisi finanziaria che incombe sui popoli e porta in tutti i paesi ad un continuo e pauroso incremento della disoccupazione. Vediamo infatti costretti alla inerzia e poi ridotti all’indigenza anche estrema, con le loro famiglie, tanta moltitudine di onesti e volenterosi operai, di null’altro più desiderosi che di guadagnare onoratamente col sudore della fronte, giusta il mandato divino, il pane quotidiano che invocano ogni giorno dal Signore. I loro gemiti commuovono il Nostro cuore paterno e Ci fanno ripetere, con la medesima tenerezza di commiserazione, la parola uscita già dal Cuore amatissimo del Divino Maestro sopra la folla languente di fame: «Ho compassione di questa folla »[1]. Ma più appassionata si rivolge la Nostra commiserazione alla immensa moltitudine di bambini, le vittime più innocenti di queste tristissime condizioni di cose; implorano pane, « ma non c’era chi ne desse loro »[2], e nello squallore della miseria sono condannati a vedere sfiorire quella gioia e quel sorriso che la loro anima ingenua cerca inconsciamente intorno a sé. – Ed ora si avvicina l’inverno, e con esso tutto il seguito delle sofferenze e privazioni che la gelida stagione porta ai poveri ed alla tenera infanzia specialmente, per cui è da temersi che venga aggravandosi la piaga della disoccupazione che sopra abbiamo deprecato; in modo che non provvedendosi alla indigenza di tante misere famiglie e dei loro bimbi abbandonati, esse siano — che Dio non voglia! — sospinte all’esasperazione. – A tutto ciò pensa con trepidazione il Nostro cuore di Padre, e pertanto come già fecero in simili occasioni i Nostri predecessori ed ancora ultimamente il Nostro immediato Predecessore Benedetto XV di s.m., alziamo la nostra voce e indirizziamo il Nostro appello a quanti hanno sensi di fede e di amore cristiano: l‘appello quasi ad una crociata di carità e di soccorso. La quale, mentre provvederà a sfamare i corpi, darà insieme conforto ed aiuto alle anime; farà in esse rinascere la serena fiducia, allontanandone quei tristi pensieri che la miseria suole infondere negli animi. Spegnerà le fiamme degli odi e delle passioni che dividono, per suscitarvi e mantenervi quelle dell’amore e della concordia, e il più stretto e più nobile vincolo della pace e prosperità individuale e sociale. – È dunque una crociata di pietà e di amore e senza dubbio anche di sacrificio quella a cui tutti richiamiamo, quali figli di uno stesso Padre, membri di una medesima grande famiglia che è la famiglia stessa di Dio, tutti partecipi quindi, come i fratelli di una stessa famiglia, sia della prosperità e della gioia, come dell’avversità e del dolore che colpiscono i nostri fratelli. – A questa crociata richiamiamo tutti come ad un sacro dovere inerente a quel precetto tutto proprio della legge evangelica e da Gesù proclamato come precetto suo massimo e primo fra tutti i precetti, anzi compendio e sintesi di tutti gli altri, il precetto della carità che tanto inculcò a simile proposito e ripetutamente, quasi tessera del suo pontificato in quei giorni di odi e di guerra implacabili il Nostro carissimo Predecessore. – Ora Noi additiamo questo soavissimo precetto, non solo come dovere supremo e comprensivo di tutta la legge cristiana, ma altresì quale atto e sublime ideale, proposto in modo più speciale alle anime più generose e più aperte ai sensi della gentilezza e della perfezione evangelica. – Né crediamo dovervi insistere con molte parole, tanto appare evidente che questa sola generosità di cuori, questo solo fervore di anime cristiane col loro impeto santo di dedizione e di sacrificio per la salvezza dei fratelli e segnatamente dei più compassionevoli e bisognosi, com’è lo stuolo innocente dei bambini, riusciranno a superare, nello sforzo della concordia unanime, le più gravi difficoltà dell’ora presente. E poiché da una parte effetto della rivalità dei popoli, dall’altra causa di enormi dispendi, sottratti alla pubblica agiatezza, e quindi non ultimo coefficiente della straordinaria crisi presente è senza dubbio la corsa sfrenata agli armamenti, non possiamo astenerCi dal rinnovare la provvida ammonizione Nostra e dello stesso Nostro Predecessore, dolenti che non sia stata finora ascoltata ed esortiamo insieme Voi tutti, Venerabili Fratelli, perché con tutti i mezzi a vostra disposizione di predicazione e di stampa vi adoperiate a illuminare le menti e ad aprire i cuori secondo i più sicuri dettami della retta ragione, e molto più ancora della legge cristiana. – Ci arride la speranza che ciascuno di Voi possa essere il punto di riferimento della carità e della generosità dei propri fedeli, ed insieme il centro delle distribuzioni dei soccorsi da loro offerti. Se in qualche diocesi si trovasse più opportuno, non vediamo difficoltà che facciate capo ai rispettivi Metropoliti oppure a qualche Istituzione caritativa di provata efficienza e di vostra fiducia. – Già vi abbiamo esortato ad usare tutti i mezzi per voi disponibili, la preghiera, la predicazione, la stampa, ma vogliamo essere i primi a rivolgerCi anche ai vostri fedeli, per pregarli « in visceribus Christi », a rispondere con generosa carità al vostro appello, fin d’ora facendo tutto quello che voi verrete mettendo nei cuori, dopo averli portati a conoscenza di questa Nostra lettera enciclica. – Ma poiché tutti gli sforzi umani non bastano all’intento senza l’aiuto divino, innalziamo tutti fervide preci al Datore di ogni bene perché nella Sua infinita misericordia abbrevi il periodo della tribolazione, e anche a nome dei fratelli che soffrono ripetiamo più che mai intensa la preghiera che Gesù stesso Ci ha insegnato: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano ». – Ricordino tutti, a loro incitamento e conforto, che il Redentore riterrà come fatto a se stesso quel che noi avremo fatto per i suoi poveri, e che, secondo un’altra sua consolante parola, aver cura dei bambini per amor suo è come aver cura della sua stessa Persona.

La festa infine che oggi la Chiesa celebra Ci fa ricordare, quasi a conclusione delle Nostre esortazioni, le commoventi parole di Gesù che dopo aver, secondo la frase di San Giovanni Crisostomo, innalzato mura inespugnabili a tutela delle anime dei bambini, soggiungeva: «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli poiché vi dico che i loro Angeli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli ». E saranno questi Angeli che nel Cielo presenteranno al Signore gli atti di carità compiuti da cuori generosi verso i bambini, ed essi pure otterranno, a tutti coloro che avranno preso a cuore una causa così santa, le più copiose benedizioni. – Inoltre, avvicinandosi ormai l’annuale festa di Gesù Cristo Re, il cui regno e la cui pace abbiamo auspicato fin dagli inizi del Nostro Pontificato, Ci sembra grandemente opportuno che in preparazione di essa si tengano nelle varie chiese parrocchiali solenni tridui per implorare da Dio pensieri di pace e i suoi doni. In auspicio dei quali impartiamo a voi, Venerabili Fratelli, e a tutti coloro che corrisponderanno al Nostro paterno appello l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 2 ottobre, festa dei Santi Angeli Custodi, dell’anno 1931, decimo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI