VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 8

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (8)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935, F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VII

Della virtù di penitenza

Spirito di Gesù. — Davide e San Paolo animati da tale spirito. — Si ottiene con la preghiera; modo di ottenerlo.

La virtù di penitenza è interiore ed esteriore. La penitenza interiore, che è la principale e dà alla penitenza esterna il suo valore, comprende tre disposizioni necessarie: l’umiliazione, la contrizione e l’oblazione di sé stesso alla divina giustizia per subire tutti gli effetti della vendetta che le piacerà d’infliggerci. – Lo spirito di penitenza è lo spirito medesimo di Dio, che è stato infuso dapprima in Gesù Cristo, e in seguito da Gesù Cristo diffuso nella sua Chiesa; esso opera nelle anime vari sentimenti e vi imprime specialmente i sentimenti di penitenza. Ciò si osserva nella persona di Davide, che in anticipazione, come figura del Figlio di di Dio penitente, aveva ricevuto l’abbondanza di tale spirito. Si vede che l’anima di Davide, per l’azione dello spirito di penitenza, era rivestita di quei sentimenti e di quelle disposizioni di cui abbiamo l’espressione nei Salmi che vennero dati alla Chiesa per sollievo e consolazione dei veri penitenti. Questi restano oltremodo consolati nel vedersi animati da sentimenti conformi a quelli che sono espressi nella Scrittura; perché la Scrittura è la regola della loro condotta e della loro vita. Essa esprime la vita interiore di Gesù nelle anime, vita che deve essere la medesima in esse come in Gesù; e questo si è verificato nei suoi membri, sia in quelli che lo hanno preceduto, come in quelli che lo hanno seguito nella Chiesa. S. Paolo nel nuovo Testamento, e Davide nell’antico, esprimono l’interiore penitente di Gesù Cristo. Dalla identità delle espressioni che adoperano l’uno e l’altro, si riconosce chiaramente che furono ispirati dal medesimo Spirito, il quale in Davide prima della venuta di Gesù Cristo, e in San Paolo dopo il ritorno di Lui al Padre, ha operato i medesimi effetti. Davide dice che è stato compreso di timore, di terrore e di spavento alla vista dei giudizi di Dio: Timor et tremor (Ps. CXVIII, 120). S. Paolo ci fa sapere che il timore e le ansie interne non gli causavano minori angosce che le calunnie e le persecuzioni che gli provenivano dai suoi nemici. (II. Cor. VII, 5). Davide nella sua qualità di penitente ci attesta che era disposto a subire nel suo corpo tutto quanto un delinquente deve soffrire (Ps. XXXVII, 18); Paolo ci dice che trattava il proprio corpo come uno schiavo, castigandolo severamente (I. Cor. IV, 27). L’uno e l’altro ci attestano così, con l’espressione dei loro sentimenti, la conformità che esiste tra i penitenti, sie dell’antico come del nuovo Testamento, con Gesù Cristo penitente, il quale, nel suo interiore, era pieno di timore e di terrore alla vista dei giudizi e dei rigori del Padre suo corrucciato contro di Lui, mentre eternamente era colpito dall’odio e dalla persecuzione dei Giudei che lo cercavano per metterlo in croce. In questo stato Gesù continuamente offriva sé stesso al Padre suo per sopportare, nel suo ardente desiderio di dargli soddisfazione, tutti i tormenti che avrebbe sofferto da parte dei Giudei, in penitenza dei nostri peccati. Nel leggere i Salmi, bisogna dunque onorare in Davide lo spirito di penitenza di Gesù Cristo, e con grande religione e raccoglimento venerare le disposizioni dello spirito interiore di Gesù Cristo, fonte di ogni penitenza, che era diffusa nel santo Salmista; bisogna inoltre, con un cuore umiliato, implorare con insistenza, fervore e costanza, ma sopra tutto con umile confidenza, che quello spirito ci venga pure comunicato.

***

Se dopo di aver implorato l’effusione di questo Santo Spirito di cui vediamo gli effetti nell’anima del santo re Davide, non sentiamo in noi in modo sensibile, le medesime disposizioni; non dobbiamo tuttavia rattristarci. Perché dobbiamo sapere che, nella preghiera animata dallo Spirito, non vi sarà da parte nostra il minimo sospiro, che da Dio non attiri qualche bene sopra di noi e in noi: Dio non rifiuta nulla allo Spirito che prega in noi, ma sempre lo esaudisce, come sempre esaudisce Nostro Signore a motivo della sua riverenza (Hebr. V., 71). Sta scritto ancora che nessuna parola interiore si innalzerà a Dio, che non venga esaudita e non ritorni a noi col suo frutto (Ps. CXVIII, 131; Isai, LV, 11). Dio con la sua parola si è impegnato a concedere alla preghiera dell’uomo il dono di questo Spirito che è il cibo dell’anima. Lo dà alla sua Chiesa secondo il bisogno dei suoi figliuoli; a ciascuno dei pargoli che lo domandano Egli distribuisce questo pane. Ma questo divino Spirito, a motivo della sua purezza, è insensibile nella sua azione; quando si dà all’anima come cibo e alimento, lo fa in modo impercettibile. L’anima realmente lo riceve in sé stessa e cresce nella virtù di esso, ma senza averne coscienza. Così, non si vede, né si sente l’aumento di questo spirito, perché consiste in una grazia insensibile, ricevuta nel fondo dell’anima dove non c’è sensibilità. Non si vede crescere il corpo dell’uomo, benché nutrito da una sostanza sensibile; non si vede muoversi la sfera di un orologio, benché il movimento ne sia sensibile; non è quindi da meravigliarsi se non si possono percepire coi sensi le azioni di quel divino Spirito; ma soltanto bisogna aver fede e fidarsi della parola di Dio, il quale concede tutto alla preghiera; e pregare con umiltà, ma con fiducia in Dio, tenendo l’anima nostra aperta davanti a Lui per ricerverne le operazioni. – Potrà darsi che mentre leggiamo i salmi, la bontà di Dio produca nel nostro cuore disposizioni e sentimenti in conformità con ciò che leggiamo, e che proviamo quindi nel cuore una certa operazione di spirito che ci farà gustare ciò che meditiamo e seguire con attenzione, con intelligenza, con compiacenza le parole di Davide: in tal caso non dovremo interrompere questa operazione per continuare le nostre suppliche; bisognerà fermarci lì perché così saremmo esauditi prima di pregare; la meditazione otterrebbe il suo fine nel suo inizio medesimo; le nostre preghiere sarebbero in tal modo prevenute e noi riceveremmo così gratuitamente ciò che i fedeli servitori e le anime forti ottengono dopo molte preghiere e molte umiliazioni. – Daremo un esempio; se nel leggere questo versetto: Domine ne in furore tuo arguas me, neque in ira tua corripias me,Signore, non mi riprendere nel tuo furore e non mi castigare nell’ira tua (Ps. VI, 2), avvenisseche ci fosse data l’intelligenza di questeparole, e che esse facessero sorgere nelpiù intimo di noi stessi una prece e undesiderio conformi a quel di Davide; seavvenisse che ci sentissimo umiliati davantia Dio, domandandogli che nel suo fervore non ci condanni, né ci giudichi nella sua ira, e che questo sentimento tenesse la nostra anima tutta impegnata in un santo fervore al cospetto della divina Maestà, non bisognerebbe cercare nessun’altra occupazione, perché qui vi sarebbe un segno della operazione di Dio; bisognerebbe stare in pace in questo stato, e lasciare operare lo Spirito, cibandoci di questa disposizione. – Che se lo Spirito cesserà di nutrirci o di tenerci occupati in quel modo, allora potremmo passare ai versetti che seguono: ché se infine Dio ritirasse la sua operazione sensibile dall’anima nostra, lasciandocinell’aridità della pura fede, potremmo metterci a pregare in altro modo, servendoci di altro metodo com’è quello che abbiamo esposto più sopra.

I.

Varie sorta di penitenze interiori.

Abbandono a Dio per subire la pena interiore dei nostri peccati. — Gesù Cristo penitente: quanto ha patito. — La penitenza interiore è la più necessaria. — Esempio di Gesù che si assoggetta a San Giovanni.

Dobbiamo abbandonarci a Dio, pronti a sopportare ogni aridità e desolazione, ogni timore, ogni tristezza e ogni dolore, tutti effetti questi di quella penitenza interiore che viene da Dio e non è conosciuta che da Lui solo, e da quelli che la esercitano. Bisogna abbandonarci alla divina giustizia per subire i terrori dei suoi santi giudizi, le ripulse interiori ch’essa ci fa sentire delle nostre anime e di tutte le opere nostre, per sopportare i rigori dei suoi rimproveri e delle sue riprensioni.

***

Era questo lo stato di penitenza interiore in Gesù Cristo, e le sue pene interiori sorpassavano infinitamente i dolori esterni. Gesù fin dal primo momento dell’incarnazione si era abbandonato a Dio per subire questi stati di penitenza, e li ha sempre portati durante la sua vita mortale, perché era venuto in questo mondo per fare la penitenza interiore ed esterna dovuta ai peccatori (Psalm., XXI, 11; XXXVII, 18; Isai, I, 6.). – Gesù Cristo non solamente ha sopportato ogni pena e ogni dolore nelle sue membra per soffrire in tutto il suo corpo, perché i peccatori si prendono soddisfazioni peccaminose in tutte le parti del loro corpo; ma inoltre, ha subìto la massima delle pene corporali dovute al peccato, ossia la morte. Si è fatto obbediente sino alla morte e sino alla morte della Croce che è la più estrema delle pene corporali; questa pena Gesù ha voluto tenersela sempre davanti agli occhi. Durante tutta la sua vita; nell’orto degli ulivi poi ha voluto sentire tutta l’amarezza e l’acerbità nella sua dolorosa agonia. Non solamente ha sofferto le pene esteriori nel massimo grado, ma ancora le pene interiori in tutta la violenza delle passioni alle quali lasciava ogni libertà, perché insorgessero in Lui e lo affliggessero in ogni modo nella parte inferiore dell’anima sua. – Ha sopportato nel suo spirito la vista del disprezzo, della ripulsa, dell’abbandono e dei rigori dell’Eterno Padre che l’aveva caricato della vergogna e della confusione meritata da quei peccati che pur non aveva commessi (Improperia improperantium tibi ceciderunt super me. Ps. LXVIII. 10). Gesù sottostava al rimprovero obbrobrioso che Dio fa ai peccatori nel giudicarli e condannarli, e ciò gli faceva esclamare: Dio mio!… la voce dei miei delitti mi allontana dalla salute (Ps. XXI 2). – Non solo si vedeva circondato da tutti i peccati degli uomini, i quali,  di loro natura, insorgono con audacia contro Dio: per Gesù era questo un peso insopportabile; non solo Egli era oppresso dalle grida e dalle bestemmie che tutti questi peccati vomitano contro la divina Maestà, ma ancora dalla bocca del Padre riceveva le invettive e gli obbrobri dovuti al peccato di cui portava il carico, ed erano questi come altrettanti colpi di tuono che lo schiacciavano e con un giudizio severo e terribile lo respingevano dal Padre.

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Bisogna che un’anima si offra a portare in sé medesima la penitenza interiore nella quale Dio Padre talora da sé medesimo e per la sua propria giustizia mette le anime, penitenza che Lui solo sa operare in noi; è questo l’estremo abbandono cui l’anima possa venir ridotta. Di questa pena parlava Nostro Signore soprattutto nella descrizione delle pene della sua morte. Di questa diceva dapprima, facendo poi un cenno anche alle altre pene esterne. Il salmo Deus, Deus meus, ut qui dereliquisti me? si riferisce soprattutto alle pene interne, in confronto delle quali dolori esterni erano un nulla.Così in confronto della penitenza interiore,ha ben poco valore l’esercizio esterno della penitenza, come il digiuno, la mortificazione corporale, l’astinenza dai piaceri sensibili. Un solo istante di penitenza interna vale più di tutto il resto senza di essa (È da ammirarsi la moderazione con cui, in questo tratto, il servo di Dio parla della mortificazione corporale, soprattutto se si riflette che a quel tempo le macerazioni erano molto in uso ed egli stesso trattava il suo corpo con grande durezza. I santi mentre sono crudeli, si passi la parola, con sé medesimi, sono miti con gli altri. Ci si permetta di ricordar qui un aneddoto della vita del servo di Dio. Padre Yvan, oratoriano di grande austerità, ma rude anche con gli altri, venne un giorno a far visita a Giov. Olier e lo trovò a pranzo coi suoi sacerdoti; la tavola era servita senza lusso, ma pure senza ostentata austerità, trattandosi di preti che seguivano la via comune e dovevano faticar molto. Il Padre Yvan ne restò scandalizzato, e con franchezza eccessiva ma che si doveva compatire per la sua età avanzata, ne mosse rimproveri severi e quasi offensivi al servo di Dio; questo accettò la correzione con sincera umiltà ringraziando il Signore di aver trovato infine una persona che lo avvisasse dei suoi difetti, e se ne dimostrò gratissimo con tutta naturalezza. Padre Yvan durante tutto il colloquio, tenne l’occhio fisso sopra Giov. Olier, e vedendo la dolcezza con cui accettava la rude correzione, ne restò tutto stupito e riconobbe che, pur prendendo il suo cibo secondo il suo bisogno, era mortificato come i più austeri penitenti; e da quel momento lo tenne in una stima particolare, a segno che andava dicendo in ogni occasione: « Il Sig. Olier è veramente un santo, è morto, in lui la natura è spenta»; e si mise a lavorare anche lui al servizio del Seminario fondato di Olier e della Parrocchia di San Sulpizio. La grazia dei santi, non essendo la medesima in tutti, la durezza apparente del Padre Yvan non toglieva nulla alla grande stima che da ogni parte si professava della sua persona e dei suoi consigli. – Cfr. Faillon, Vita di Olier. II, pag. 114). – Questo stato di penitenza interiore opera d’un colpo nell’anima le disposizioni lella penitenza vera e reale, ossia della penitenza essenziale dello spirito. Perché le sue impressioni producono in noi un profondo annientamento e una grandissima confusione, la condanna, l’orrore e la contrizione del peccato, l’umiliazione dell’anima e la sottomissione agli effetti della santa giustizia di Dio sopra di noi. – Beata l’anima che raggiunge uno stato di purezza interiore tale da renderla adatta a subire gli effetti della giustizia divina. Ché se Dio per la nostra infermità o per le nostre disposizioni particolari, non ce ne giudica degni, dobbiamo abbandonarci a Lui per sopportare almeno tutto quanto Egli si degnerà di disporre a nostro riguardo, sia direttamente con la sua divina mano che si estende anche al nostro interiore, sia per mezzo delle creature, come pure talora per mezzo dei demoni. Dio infatti impiega anche i demoni per darci il mezzo di far penitenza; essi ci opprimono quindi con tentazioni oltremodo veementi, dolorose, odiose e spaventose, come quelle di bestemmia, di impurità, di disperazione, d’infedeltà, di gelosia e di tristezza, le quali sono più penose dei patimenti naturali ordinari. – Dio inoltre si serve anche degli uomini per castigarci ed esercitare sopra di noi le vendette della sua giustizia; così, i servi ed i domestici ci saranno molesti, perché pigri, negligenti e infedeli; gli estranei ci saranno di peso e di noia per il loro carattere antipatico, ci daranno incomodo con le loro visite importune, e forse lasceranno capire il foro desiderio di soppiantarci, di tradirci e di burlarsi di noi.  Anche il nostro confessore sarà per noi strumento di penitenza, perché  ci imporrà delle mortificazioni in nome di Dio e secondo ciò che Dio gli ispirerà; ma questo ci dà minor fastidio, perché noi gli siamo sottoposti per nostra volontà ed accettiamo con amore ciò che ci impone.

***

In tal modo Nostro Signore si sottomise a S. Giovanni Battista che teneva il posto dell’Eterno Padre dal quale era stato mandato. Dalla mano di Giovanni Egli ricevette il battesimo che significava l’obbligo della penitenza; così da Giovanni venne pure caricato dei peccati di tutto il popolo. Il capro emissario dal Sommo Pontefice veniva caricato di tutti i peccati d’Israele e poi scacciato nel deserto; di questo rito figurativo san Giovanni realizzò il significato: notiamo che il Battista era figlio di Zaccaria e quindi apparteneva alla stirpe sacerdotale, benché non ne esercitasse la funzione esterna a motivo che era riservato per un’opera più santa di quella della Legge, opera che dava il suo compimento a tutta la penitenza della Legge. Da Lui Gesù Cristo venne, da parte di Dio Padre, caricato anche esteriormente dei peccati di tutto il mondo. Dopo di ché lo Spirito Santo lo cacciò nel deserto come il capro emissario, come la vittima pubblica del peccato, per dare soddisfazione a Dio. Con questo spirito dobbiamo ritirarci nel deserto con Gesù Cristo, lasciando che lo Spirito vi ci conduca e ci separi dal consorzio del mondo, dalla società dei fedeli ed anche dalla gente per bene, per metterci, in ispirito, fuori di quella vita alla quale dobbiamo morire interiormente.

Il.

Dello spirito di penitenza

Lo spirito di penitenza di Gesù Cristo, principio della sua penitenza – Gesù Cristo penitente pubblico e universale, vuole continuare la sua penitenza nel suo Corpo mistico e in ciascuno di noi. – Sete di patimenti in Gesù. – La sua penitenza esteriore è più estesa. — Perfezione dei sentimenti e delle minime azioni di Gesù. – Per essere veri penitenti dobbiamo unirci al divino interiore di Gesù, abbandonarci al suo spirito, accettando quella misura di penitenza che vuole da noi.

Nostro Signore è la pienezza della penitenza; Egli ne porta in sé stesso lo spirito e ne riveste tutta la Chiesa; dimodoché tutta la penitenza che compare al di fuori e all’esterno, se è vera e reale, emana dallo spirito interiore di penitenza che trovasi in Gesù Cristo, donde si diffonde in noi. – Ogni penitenza esterna che non derivi dallo Spirito di Gesù Cristo, non è penitenza vera e reale: Potremmo praticare mortificazioni rigorose ed anche acerbissime, ma se non emanano da Nostro Signore penitente in noi, saranno penitenze cristiane. Unicamente per mezzo di Gesù si fa penitenza; Egli ha incominciato la penitenza quaggiù su la terra nella propria Persona, e la continua in noi, dilatando nei suoi membri ciò che aveva compendiato in sé medesimo. – Non dico soltanto che la penitenza deve farsi per mezzo di Gesù, vale a dire, per i suoi meriti e per la sua grazia; ma dico che la dobbiamo fare realmente in Lui, vale a dire, che Egli, nel suo Spirito, deve esserne il principio. Gesù deve investire l’anima nostra delle disposizioni interiori di annientamento, di confusione, di dolore, di contrizione, di zelo contro di noi medesimi e di forza per esercitare sopra di noi la soddisfazione, in quella misura di pena che Dio Padre vuole ricevere da Gesù Cristo nella nostra carne. –  Gesù Cristo è il Penitente pubblico ed anche il Penitente universale (Bourdelou: « O profondità ed abisso dei disegni di Dio! Tale è la qualità  (di Penitente) che il Salvatore del mondo ha voluto assumere ed ha tanto santamente quanto costantemente sostenuta in tutto il corso della sua adorabile passione … Siccome, secondo la Scrittura, la vera penitenza consiste soprattutto in due cose: la contrizione che ci fa detestare il peccato, e la soddisfazione che lo deve espiare; così, quando dico un Dio Penitente, intendo un Dio compreso dalla più viva contrizione alla vista del peccato dell’uomo, un Dio che ha sacrificato sé medesimo, soddisfa in pieno  il vigore della giustizia, re della giustizia, per il peccato dell’uomo: due obbligazioni che Gesù Cristo aveva prese sopra di sé sino dal primo istante della sua vita e che adempì esattamente nel giorno della sua Passione ». Sermone sulla Passione.); Lui, Lui solo, fa penitenza in noi. Gesù Cristo carica il corpo della Chiesa di strumenti di penitenza e li porta Egli stesso nei Cristiani che sono le sue membra; come avrebbe voluto usarne sulla terra e portarli, Lui solo, nel suo corpo reale, se questo non fosse stato troppo debole e troppo piccolo. Per questo, Gesù Cristo ha voluto, per mezzo della sua Chiesa, dilatare e allargare il suo corpo (Ecclesia quæ est corpus ipsius, et plenitudo ejus. – Eph. I,  23); con la diffusione del suo Spirito, Egli riveste la Chiesa delle industrie della sua penitenza, e così Egli dà soddisfazione a Dio suo Padre nel suo corpo mistico come in un supplemento di sé stesso; Egli soddisfa lo zelo interiore ed i desideri che il suo spirito avea di soffrire, desiderio che non ha potuto saziare nella sua sola Persona. Egli ha preso per sé una parte soltanto della penitenza esteriore, e l’altra la distribuisce fra i singoli suoi membri (Adimpleo era quæ desunt passionum Christi. Col.,  I, 24); ma per se stesso ha riservato fa pienezza dello Spirito interiore, dal quale in tutti i suoi membri vengono compiute tutte le operazioni esterne. – L’interiore di Nostro Signore è più esteso del suo esterno; perché nel suo proprio Spirito Egli contiene l’interiore di tutti i fedeli; mentre nel suo corpo non ebbe che quella penitenza esterna che era ordinata dal Padre suo e che Egli accettò. Orbene, siccome quest’interiore di Gesù Cristo era nascosto, il Padre ha voluto fosse manifestato; ha voluto che la sete ardente che Gesù provava su la Croce, quella sete che gli strappava quell’esclamazione: « Ho sete » (Joan. XIX, 28), fosse conosciuta e che gli uomini ne avessero la spiegazione. Era quella una di soffrire per il Padre suo e per la Chiesa, sete che indicava l’ardore della sua penitenza e il fuoco che infiammava il suo cuore di zelo contro sé medesimo, per distruggere il peccato. – Egli dava ad intendere, con quella esclamazione, che un corpo, benché sia oppresso, consumato e distrutto, benché sia ridotto agli estremi dell’agonia, come era il suo corpo sulla Croce, deve nondimeno vivere nello spirito di penitenza; e che il desiderio di soffrire per i nostri peccati e per tutti coloro che nella Chiesa hanno offeso e offendono ancora la Maestà di Dio, deve sempre rimaner acceso nel nostro cuore. Da qui noi veniamo a conoscere quel comune spirito di penitenza del quale debbono investirsi tutti i membri di Gesù Cristo, col darsi interiormente allo spirito di penitenza della Chiesa. Questo Spirito di penitenza della Chiesa è lo Spirito medesimo di Gesù Cristo ch’Egli diffonde e dilata nei suoi membri, onde avere un amore e uno zelo universale di soddisfare al Padre suo, nella propria sua Persona, per tutti i peccati del mondo. Così Gesù Cristo, con questo Spirito universale, mediante questo Spirito e in questo Spirito, vuole essere presente in tutti i suoi membri per dare, in tutti e in ciascuno, soddisfazione e compiacenza alla divina Maestà.

***

Ed è questa la seconda unione di penitenza che dobbiamo avere con Gesù Cristo. Dobbiamo in primo luogo renderci partecipi della penitenza di Gesù Cristo, facendo penitenza in Lui medesimo. In secondo luogo, dobbiamo unirci pure con Gesù Cristo penitente nei suoi membri, onde investirci di tutti i sentimenti della penitenza interiore, e questa non deve avere limiti in noi, ma deve oltrepassare infinitamente la misura di quella penitenza esterna che dobbiamo esercitare sui nostri corpi. Dio tutto pesa con la misura dello spirito: Egli vede quanto nelle nostre opere vi è dello Spirito divino, e le stima secondo tale misura; perché nelle opere nostre non v’è nulla che meriti stima, se non ciò che viene da Lui mediante il suo Spirito. Donde avviene che in Gesù Cristo ogni minima azione sorpassava tutte le fatiche dei Santi Apostoli e di tutta intera la Chiesa; a motivo della pienezza dello Spirito, della scienza, della luce e dell’amore, ogni minima azione era, in Lui, animata da sentimenti, intenzioni e disposizioni tutte divine, per onorare Iddio. – Infatti, la pienezza dello zelo, della forza, della purezza, che riempiva le opere di Gesù, dava ad esse davanti a Dio, maggior valore e maggior efficacia di tutto quanto dalla Chiesa intera viene meritato o potrebbe essere meritato. Benché animata dal medesimo Spirito, la Chiesa non opera con l’immensità della divinità, con la quale quel divino Spirito operava in Gesù Cristo. In tal modo, benché la Chiesa esprima all’esterno una parte dei pensieri che l’amore della penitenza eccitava in Gesù, per dare soddisfazione al Padre suo; non abbiamo nulla, tuttavia, nella Chiesa medesima che esprima perfettamente l’intensità dei desideri e la forza degli atti interiori di Gesù; non abbiamo nulla che esprima il peso immenso dell’amore del suo Cuore, e l’infinità del suo zelo per dare soddisfazione e compiacimento al Padre suo. Qualche cosa, è vero, se ne può conoscere per la gravezza dei rigori che il suo Spirito opera nella Chiesa, e per la diversità delle pene e sofferenze che Egli stesso porta nei suoi membri, i quali gli servono a compiere e terminare la sua penitenza, ma l’intensità e la perfezione dei suoi sentimenti, soltanto l’eternità ce le potrà svelare. Nulla ce le può manifestare in questa vita, come dice S. Ambrogio: Nessuno quaggiù potrà mai intendere perfettamente l’interiore di Gesù. (Dei consilium humana vota non capiunt, nec quisquam interiorum potest esse particeps Christi).

***

Dobbiamo unirci a questi divini sentimenti di Gesù Cristo, per essere rivestiti di Lui nell’intimo dell’anima nostra. Una tale unione con Gesù Cristo, questa partecipazione al suo spirito è ciò che dobbiamo soprattutto ricercare, perché è ciò che vi ha di più prezioso nella penitenza ed è anche il fondo ogni virtù. Dobbiamo essere penitenti in Gesù Cristo e inebriati in Lui dello Spirito delia vera penitenza: questo Spirito opera dapprima in noi e sopra di noi tutta la penitenza esteriore, la quale non è che una dipendenza, un getto tenuissimo, e come un segno e un’espressione della penitenza interiore; ma poi produce in noi questa penitenza interiore in proporzione della pienezza e dell’abbondanza dello Spirito. Secondo la dottrina di S. Paolo, lo Spirito nei Santi opera insieme e supplica secondo i disegni di Dio, (1 Cor, XII, 6, 11), perciò nel suo zelo ci porta a castigarci noi stessi, e a prestare soddisfazione a Dio; e noi dobbiamo obbedire a questo divino Operaio dei misteri di Dio, come a Colui che assiste ai consigli divini e penetra nel più profondo dei segreti di Dio (I Cor. II, 34). – Egli conosce la misura delle soddisfazioni che Dio esige da noi, e che noi ignoriamo: dobbiamo quindi abbandonarci a questo Spirito interiore, che è un mare e in oceano di penitenza interiore e divina, e protestargli che siamo, con intero abbandono, pronti e disposti a tutto, e che non rifiutiamo nessun castigo e nessun effetto della sua giustizia. Dobbiamo protestargli che siamo universalmente sottomessi a tutti gli ordini di Dio; e che, quando pure dovessimo perdere mille volte la vita nella penitenza, noi siamo pienamente disposti a tutto; che non vogliamo limiti nelle nostre sofferenze, poiché lo Spirito di Gesù Cristo, nel suo zelo, non può aver nessun limite riguardo a Dio suo Padre; che perciò noi abbracciamo in ispirito ogni sorta di pene, onde sopportare tutto quanto Dio desidererà di imporci, o direttamente per sé stesso, o per bocca e per ordine di colui che tiene per noi il suo posto sulla terra, ossia del nostro confessore in cui veneriamo la sua Maestà. In tal modo, bisogna essere uniti a Gesù Cristo penitente su la terra; e come Egli, quando dallo Spirito fu inviato e cacciato nel deserto per fare penitenza, si sottometteva agli ordini di Dio suo Padre, così dobbiamo accettare, in unione col suo Spirito e con le sue disposizioni, le penitenze, che ci verranno imposte. Bisogna accettarle rinunciando completamente al nostro spirito proprio, al nostro proprio giudizio ed alla nostra volontà propria, senza discutere né mormorare, abbandonandoci a tutto, ma senza far mai più di quanto ci sarà comandato.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 9

LA VITA INTERIORE (15)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (15)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

LUCE DIFFUSA

L’UMILTÀ

UN DOLCE INVITO DEL CUORE DI GESÙ

Ce lo riferisce l’evangelista S. Matteo: «Imparate da me che sono mite ed umile di cuore» (XI, 29). Essere umile vuol dire avere e praticare la virtù dell’umiltà. Gesù è il maestro di questa virtù, in sommo grado, e noi non potremo dirci veri figli e seguaci suoi se non impareremo e praticheremo questa virtù sconosciuta e disprezzata dal mondo ch’è poggiato sullo spirito di superbia.

IN CHE COSA CONSISTE.

Da humus, terra, viene humilitas, cioè che sa di terra. L’umiltà è quindi la virtù che induce a riconoscerci fatti dI terra, e perciò, di nessun pregio, di nessun valore. Non è una virtù passiva, come vorrebbe l’americanismo; tanto meno è codardia, ingratitudine o selvatichezza, come la insulta il mondo. L’umiltà è la verità, dice S. Bernardo. È la virtù che ci fa conoscere ciò che siamo, vale a dire creature di Dio tratte dal fango della terra… È il meglio della superbia. La superbia detronizzò lucifero con gli angeli ribelli e li fece dannare per tutta l’eternità; l’umiltà, invece, è il mezzo più pratico e più efficace per entrare nel Paradiso. L’umiltà è – come insiste S. Bernardo – il fondamento e la custodia di tutte le virtù. Senza l’umiltà, tutte le altre virtù non sono più virtù, diventano vizi. Infatti, senza l’umiltà la mortificazione esteriore è ipocrisia; la preghiera senza umiltà è presunzione; la meditazione è illusione e inganno; senza l’umiltà la carità diventerebbe egoismo raffinato; senza l’umiltà, infine, è impossibile conservarci in grazia di Dio. « Qualunque cosa di buono noi facciamo – dice S. Giovanni Crisostomo – sia preghiera, sia digiuno, sia limosina, sia continenza, va in fumo e sparisce se non è accompagnata dall’umiltà » (Hom. 15 in Matth.). «L’umiltà – assicura S. Vincenzo – è la base di tutta la perfezione evangelica, ed il  nocciolo di tutta la vita spirituale; chi possederà quest’umiltà, acquisterà pure con essa tutt’i beni; chi poi ne sarà privo, perderà anche quel bene che ha, e sarà agitato da continue angustie ». – Ecco con quale precisione S. Agostino la esalta: « Se tu mi domandassi qual sia la strada per raggiungere la verità, qual sia la cosa principale nella religione e nella scuola di Cristo, ti risponderò: la prima cosa è l’umiltà; quale la seconda? l’umiltà; quale la terza? l’umiltà; e se cento volte m’interrogassi, cento volte ti darei la medesima risposta » (Ep. 149).

NECESSITÀ DI QUESTA VIRTÙ.

Da quanto abbiamo detto possiamo ben arguire e comprendere il significato completo, assoluto della nobilissima parabola: Il fariseo e il pubblicano al Tempio, narrataci con tanta graziosità ed esattezza di linee da San Luca (XVIII, 9, 14). La preghiera umile apre le porte del Cuore SS. di Gesù e Gesù apre quelle del Cielo. La preghiera superba dissecca la fontana della misericordia del Cuore SS. di Gesù e isterilisce ogni opera buona. Con umiltà, dunque, le nostre anime debbono avvicinarsi a Gesù; con grande umiltà supplicarlo; con immensa umiltà considerare i suoi immensi benefizi per poter dire a Lui, Padre dolcissimo, tutti i sentimenti più vivi della riconoscenza e dell’amore filiale. Ma Gesù fu, in altre circostanze, anche più esplicito nell’indicare che la virtù dell’umiltà è indispensabile. Quando gli Apostoli, avvicinatisi a Lui, confidenzialmente gli chiesero: « Chi è mai il più grande nel regno dei cieli?» Gesù, dopo aver fatto venire a sé un fanciullo, rispose agli Apostoli: In verità vi dico, se non vi cambierete e non diventerete come i pargoli, non entrerete nel regno dei cieli. Chi pertanto si farà piccolo come questo fanciullo, sarà Il più grande nel regno dei cieli (Matt., XVIII, 1-4). Con queste sue dichiarazioni Gesù ha proclamato una grandissima verità e ci ha esortato « a quella profonda mutazione che consiste nella infanzia spirituale, ossia nella pratica dell’umiltà, indispensabile per entrare in Paradiso ». Procuriamo anche di tenere presente allo spirito e di meditare la chiarissima affermazione dell’Apostolo Pietro: Dio resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili (I Petr., V. 5): « L’umiltà non è, dice il Carmagnola, soltanto una virtù di consiglio, e dalla quale possiamo in certe circostanze e per ispeciali ragioni esimerci, no; essa è doverosa per conseguire la vita eterna, ed è doverosa sempre. In cielo vi possono essere dei Santi che non abbiano potuto praticare digiuni e macerazioni; vi possono regnare di coloro che non si mantennero nello stato verginale, ma nessuno può entrarvi, senza che sia stato umile ».

ECCELLENZA DELL’UMILTÀ.

Il divino Maestro non solo ci ha insegnato l’altezza e la preziosità di questa nobilissima virtù, ma, prima di insegnarcela, come sempre ed in tutto, Egli ha voluto praticarla in modo tale che può dirsi la virtù caratteristica di Gesù! Basta riflettere un istante sulla condizione di vita che Gesù si diede nel lasciare il cielo e venire sulla terra. Con molta proprietà l’Apostolo affermò che Gesù exinanivit semetipsum formam servi accipiens (Philip., II, 7), cioè siumiliò tanto da prendere l’aspetto di servodegli uomini… Se vi pensiamo anche perpochi istanti, il nostro cuore non potrà nonsentire la più intensa commozione nel considerarele dolorose, umilissime condizionidi Gesù nella sua vita, dalla culla al calvario!Nessuna meraviglia se coloro cheseguirono realmente Gesù, sentirono di doverpraticare questa virtù, e specialmente i Santi, i quali l’ebbero come distintivo preferito.Ci è, dapprima, maestra insuperabilela Vergine santa. Perché il Signore ha visto l’umiltà della sua serva… Ecco l’esatta motivazionedelle grandezze di Maria… Conl’umiltà di Maria SS. ammiriamo quelladi S. Giuseppe, di S. Giovanni Battista, ditutti i Santi. A voler ricordarne i nomi e gliesempi, sarebbe soverchio. Desideriamo,tuttavia, accennare alla grande umiltà diS. Giovanni Bosco e agli esempi eroici diuna sua figliuola spirituale, la ven. MariaMazzarello; che fu la cofondatrice colsanto don Bosco, delle Figlie di MariaAusiliatrice, la seconda famiglia religiosasalesiana.

L’UMILTÀ EROICA DELLA VEN. MARIA MAZZARELLO.

Il Santo Padre Pio XI, il 3 maggio 1936, dopo la lettura del decreto approvante l’eroismo delle sue virtù, tessendone un alto elogio, fra l’altro, disse: «… È veramente questa, l’umiltà, la nota caratteristica della Venerabile. Una grande umiltà la sua: si direbbe proprio una piena coscienza, e il continuo pratico ricordo dell’umile sua origine, dell’umile sua condizione, dell’umile suo lavoro. Contadinella, piccola sarta di paese, di umile formazione ed educazione; educazione cristiana, è vero, quindi oltremodo preziosa, ma alla quale è mancato, si può dire, tutto quello che comunemente si intende per educazione; anche la più modesta istruzione, sia pure nella più modesta misura. Restava quella semplicità che Iddio, l’unico preparatore di anime, s’era appunto predisposta in così eletta anima; e ci sembra proprio di entrare nei gusti di Dio e della stessa Venerabile, seguendo e studiando il segreto di questa sua vita vissuta e della vita postuma che la Venerabile viene esplicando in tanta sopravvivenza di persone e di opere. » La sua umiltà fu così grande, da invitare a domandarci che cosa vede Iddio benedetto in un’anima umile, veramente, profondamente umile; che appunto per l’umiltà, tanto, si direbbe, lo seduce e gli fa fare fino le più alte meraviglie in favore di quella stessa anima, e altre meraviglie per mezzo di essa… ». Quando si pensa, infatti, al valore dell’anima — il Signore ha dato la sua vita «per me», esclama l’Apostolo — che cosa, adunque, nell’umiltà vede il Signore? La domanda s’impone, specialmente quando si riflette per contrasto, a quello che nell’umiltà vede il mondo: rare volte il mondo si dimostra così insipiente nella sua albagia e nella sua supposta sapienza. Per il mondo questa umiltà e semplicità è povertà nel senso più miserabile e compassionevole della parola. Che cosa invece nell’umiltà vede Iddio? Egli stesso, il Signore, si è presa la cura di scioglierci questo problema che umanamente si presenta in modo scoraggiante. Ce lo ha detto in una delle sue più belle parole di S. Paolo, allorché fa dire all’Apostolo e proprio all’indirizzo dei non umili, dei superbi, di coloro che credono di potersi vantare e gloriarsi in qualche cosa — qualità, gesta, opere — la parola così solenne; così ammonitrice: Quid habes quod non accepisti? Et si autem accepisti, cur gloriaris quasi non acceperis?» Ecco, dilettissimi figli, ecco tutto il segretodell’umiltà; per essa l’anima stima evede reali splendori di verità, maestà di giustizia, dolcezza di riconoscenza; i rapporti, cioè, che devono intercedere fra l’animae Dio; per l’umiltà, l’anima vede che cosa è Dio nella verità; sa che cosa a Dio deve, nella giustizia; compie ciò che è obbligo verso Dio, nella riconoscenza. È qui la sostanza della umiltà nella verità, per risalire all’origine prima, giacché tutto viene da Dio — che cosa tu hai che non abbia da Dio ricevuto? — della umiltà nella giustizia; nell’attribuzione cioè della gloria a Dio: non nobis Domine, sed nomini tuo da gloriam; della umiltà nella riconoscenza intera, completa per i doni, per la liberalità divina; per la perfetta gratuità, propria di Dio, e nella sua scelta e nella sua. larghezza.» Quello che Dio vede nell’umiltà, cioè le vedute di Dio circa l’umiltà sono perfettamente all’opposto di quanto vede il mondo. Che cosa dunque vede Iddio? Vede nell’umiltà, nell’anima umile una luce, una forma, una delineazione dinanzi alla quale Egli non può resistere, poiché gli raffigura nella sua bellezza squisita e nelle linee più fondamentali e costruttive, la fisionomia stessa del diletto suo Figlio unigenito. Ed è questo un pensiero espresso dallo stesso Divino Maestro. E Lui stesso che dice a questo proposito: « Imparate da me». Che cosa imparare? « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore». Veramente noi non riterremo mai abbastanza ciò che dicono queste poche parole: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore ». È il Maestro divino, portatore del verbo di Dio, portatore di tutti i tesori di sapienza, di scienza, di santità, che ci dice: « Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore », come se non avesse altro da insegnare a noi, a questi poveri uomini, a questa povera umanità, che aveva perduto anche le tracce della verità, anche il filo per rintracciarla e che aveva tutto, tutto da imparare. Vien detto ad essa, vien detto a tutti gli uomini: « Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore », come se non avesse altro da imparare, come se, questo imparato, fosse da noi appreso tutto quello che ci abbisogna per la ricostruzione delle anime, per la ricostruzione morale del mondo…

»… Ecco qualche cosa di ben prezioso e di cui sì può ringraziare la ven. Mazzarello, per il ricordo che ce ne dà. Da lei, infatti, ci viene questa indicazione; e tutta la sua vita ed opera sono appunto in questo ordine di idee, in questa divina didascalia e divina scuola di umiltà.

» Ora qui non possiamo non aggiungere che la venerabile Mazzarello — la esemplare, l’antica Figlia di Maria — di Maria SS., altresì, ci ricorda e ci ripete la somma lezione di umiltà, allorché la Vergine Madre di Dio esclamava doversi la sua elezione e gloria all’umiItà. Respexit humilitatem ancillæ suæ.

» La Madre di Dio si chiama la serva, l’ancella di Dio; e perciò, ex hoc beatam me dicent omnes generationes. È bello considerare la venerabile Mazzarello in questa luce, nella luce stessa di Maria. Anch’ella può ripetere: il Signore ha guardato con infinita benignità la mia umiltà, la mia semplicità e per questo: Beatam me dicent omnes generationes. Ecco infatti tutte le genti del mondo già conoscono il nome suo, le case, le opere, le sue Religiose; ecco che proprio in questo giorno che ci richiama e ci ricorda le grandi umiliazioni Della Croce, si mette in vista, con la proclamazione delle virtù eroiche, la possibilità chela Serva di Dio possa un altro giorno ripetere, e in modo più appropriato: Beatam me dicent omnes generationes ».

COME DOBBIAMO ESERCITARCI NELL’UMILTÀ.

Ricordiamo quanto dice S. Tommaso: L’umiltà consiste essenzialmente nel raffrenare la smania di tendere in modo disordinato a cose grandi e nel regolarci secondo la stima esatta, e non esagerata, di noi stessi. Ne consegue che per la pratica dell’umiltà sono necessarie tre cose:

1) Conoscere noi stessi, esattamente, e giungere alla reale convinzione che noi siamo niente e che possiamo fare niente. Di nostro v’è solo il peccato. Se il Signore ha largheggiato verso di noi, con doni di natura, questi accrescono la nostra responsabilità. Cerchiamo di seguire l’esempio del pubblicano e non quello del fariseo. Parleremo di noi stessi, solo quando sarà necessario, e taceremo quello che può tornare a nostra lode, lasciando a Dio la cura di tutto.

2) Acquistata l’esatta conoscenza di noi stessi, modereremo l’innato desiderio di tendere a cose grandi, di esibirci, di pretendere. E poiché – come disse S. Bernardo – l’umiliazione è la strada dell’umiltà, ci sforzeremo di accettare con gioia, o almeno con rassegnazione, i dispiaceri, le contrarietà, i biasimi, le correzioni esagerate e violente che al Signore piacesse di farci incontrare.

3) Il terzo mezzo per praticare l’umiltà è la preghiera, come quella del pubblicano: Signore, abbiate pietà di me, peccatore. – Dobbiamo, inoltre, essere umili sempre: – a) Verso Dio: riconoscendo di aver ricevuto tutto quello che abbiamo unicamente e direttamente da Lui solo, secondo la felice espressione dell’Apostolo: Che cos’hai che tu non l’abbia ricevuto? E se poi l’hai ricevuto, perché ti glori come se non l’avessi ricevuto? – b) Verso il prossimo: ammirando senza invidia e gelosia i doni di natura e di grazia nei nostri fratelli, e unendoci a loro per ringraziarne il Signore. – c) Verso noi stessi: con l’umiltà della mente che riconoscendo il mio nulla, me ne persuaderà facilmente e, perciò, mi renderà diffidente verso me stesso; con l’umiltà del cuore che m’indurrà ad amare la mia miseria, a fuggire gli onori e la gloria mondana, e a tenere un contegno esteriore sobrio, modesto e caro a Dio.

L’UMILTÀ, GIOIA, CONFORTO E UNIONE CON DIO.

L’umiltà è, come abbiamo detto, la verità. La verità è armonia e la tranquillità dell’ordine. L’armonia e la tranquillità portano la pace ch’è gioia e conforto dei nostri cuori. Tutto questo, sempre, quando noi cerchiamo di vivere umilmente, ma soprattutto in certi momenti della vita nei quali il Signore permette che ci sentiamo soli… L’isolamento che induce i superbi alla tristezza e, talora, alla disperazione, porta l’umile a cercare con maggior avidità, e con più grande intensità l’unico Amore, Gesù, per voler vivere sempre unito con lui!

Noi siamo pieni di miserie, ma abbiamo onore insigne d’essere le membra del Cristo: la qual cosa ci procura le attenzioni del Padre nostro celeste.

C. MARMION.

LA VITA INTERIORE (16)

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 7

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (7)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VI.

Della superbia

L’umiltà è il mistero delle virtù e la più difficile ad intendersi, perciò aggiungiamo questo capitolo sulla superbia, che potrà fornire qualche schiarimento e contribuire a far conoscere l’umiltà con maggior chiarezza.

I

Motivi per detestare la superbia.

La superbia è un mostro spaventoso che va sempre crescendo e non ha limiti nei suoi eccessi: il cuore del superbo non è soddisfatto affinché non diventi Dio. Nella sua stolta e sacrilega impresa procede per gradi e va di desiderio in desiderio (superbia eorum qui qui te oderunt ascendit semper, Ps, LXXIII, 23): il demonio, invece, d’un colpo si abbandonò al desiderio più eccessivo dell’orgoglio, esprimendo sfacciatamente la sua pretesa. Mi innalzerò e sarò simile all’Altissimo. Tale fu pure il pensiero che esso ,suggerì ad Adamo: Sarete come Dei (Isa. XIV, 14 – Gen, III, 5). In tal modo, Nabucodonosor e gli altri principi si fecero adorare come divinità. Così pure alla fine dei secoli l’Anticristo siederà sugli altari al posto di Gesù Cristo (Matth. XXIV, 15). Ed è questa nei cuori la pretesa di quest’orribile vizio: il principio della superbia è di apostatare da Dio (Initium superbiæ hominis apostatare a Deo. Eccli. X, 7), la sua pretesa è di mettersi al posto di Dio e diventare nientemeno che Dio. Perciò, il superbo è oggetto di esecrazione per Dio e per gli uomini (Eccli. X, 7). Tutto  l’essere di Dio gli resiste pienamente, per l’interesse naturale che per così dire, Dio ha di conservarsi, anzi, di distruggere ciò che lo vorrebbe annientare. In quella guisa poi che una famiglia tutta intera insorge con il servo traditore che vorrebbe distruggerne il padre che ne è il capo; così tutta la creatura si trova naturalmente compresa di esecrazione contro il disgraziato che, pieno di superbia, tende a detronizzare Domeneddio e distruggerlo. Per questo motivo nel castigo del peccato di superbia nei demoni, tutti gli Angeli di comune accordo si trovarono uniti con Dio per abbatterli e distruggerli. Non è dunque senza fondamento che la Scrittura dice che Dio resiste ai superbi (Jacob. IV, 6) ciò che non dice degli altri vizi; perché il superbo se la prende direttamente con Dio, e ne prende di mira la Persona medesima; perciò Dio resiste a tali insolenti e orribili pretese; e siccome vuole conservare il proprio Essere, Egli abbatte e distrugge tutto quanto insorge contro di esso. – Donde avviene che l’Ecclesiastico, dopo aver detto che l’inizio d’ogni peccato è la superbia, aggiunge: Chi a lei si abbandona sarà colmato di maledizioni, ed essa alla fine lo manderà in rovina. (Eccl., X, 15). Il Signore, quando non solo da sé stesso, ma anche per mezzo delle sue creature avrà colmato i superbi di maledizioni, finirà col distruggerli, non solo nella loro persona, ma pure in tutta la loro generazione. Distruggerà i loro beni e rovinerà le loro case sino alle fondamenta. Poi ancora, onde manifestare l’orrore che prova verso l’orgoglio, ne cancellerà persino la memoria, che è pur la traccia più leggera che l’uomo possa lasciare su la terra; come se qualcuno, dopo distrutta una statua di cui avanzasse qualche ombra, volesse giungere sino alla distruzione di quel po’ d’ombra. – Tale è la severità che Dio esercita contro il superbo, quando vuole distruggere la memoria (Memoriam superborum perdidit Deus. Eccli., X.). –

***

Da quel maledetto disegno del superbo proviene la sua perpetua infelicità in questa vita, in attesa del giudizio di Dio in morte e dopo morte. Infatti, la pretesa del superbo che, nella sua costante ostinazione, persiste nei suoi disegni, si trova sempre di fronte alla mano onnipotente di Dio che gli resiste e lo schiaccia, quindi quale può mai essere la vita di un essere così miserabile? Il superbo sempre si innalza e sempre Dio gli resiste. Il superbo è sempre in moto e in agitazione, e sempre sente il peso della destra di Dio che lo respinge e ne schiaccia l’orgoglio. Se qualcuno si innalza contro Dio, Dio è sopra di lui e lo schiaccia. In tali condizioni quale pace si potrebbe mai avere, quale gioia e quale riposo nello spirito? – Ma oltre che una tale ripulsa da parte di Dio è direttamente opposta alla pretensione del superbo, la sua pena è tanto più grave e universale che questo vizio innalza universalmente tutti i desideri dell’uomo. L’orgoglio, infatti, spinge alla grandezza in tutto ciò che è nell’uomo; e poiché la pretesa del superbo, in sostanza, è di farsi Dio, in cui tutto è infinitamente grande e perfetto, ne avviene che vuol essere lui pure grande in tutto. Il superbo vuol essere grande nelle ricchezze, nei possedimenti, nei mobili, nelle dignità, nelle cariche, negli onori; primeggiare nella bellezza, nella forza, nella scienza; grandeggiare insomma in ogni cosa. Ma siccome non può aver tutto, quanto più estesi sono i suoi desideri, tanto più trova occasioni e motivi di inquietudini e di pena. La privazione lo ammazza, il bene che vede negli altri lo opprime; il superbo, insomma, presenta lo spettacolo più funesto e più penoso che vi sia. Per altro, quale follia e quale accecamento di sentirsi e vedersi così povero, vile e miserabile, eppure volersi considerare come capace di essere tutto e di possedere ogni cosa! Il desiderio del superbo lo innalza e la sua impotenza lo abbatte e lo avvilisce. Tale è la contraddizione che il superbo prova in sé medesimo.

II

Natura della superbia.

Differenza tra desiderio e appetito. — Stato felice dell’uomo prima del peccato. — La superbia è un desiderio eccessivo della propria eccellenza. — Illusioni in proposito. — Come riconoscerle.

La superbia è un desiderio eccessivo della propria eccellenza. Dapprima, notiamo che essa è un desiderio; non è un appetito, ossia una semplice inclinazione. L’appetito è un movimento naturale e necessario, che trovasi in noi senza di noi, e anche contro il nostro desiderio. Ma il desiderio è un movimento libero, una inclinazione che noi liberamente approviamo col nostro consenso; il desiderio è in noi, ed è conforme alla nostra volontà che ne è la madre e la padrona. L’appetito eccesivo di grandezza trovasi in noi in conseguenza del peccato originale, per il principio di quella generazione maligna che ha riempito la nostra carne della sua abominevole corruzione dimodoché la nostra carne ha infettato il nostro spirito, a tal segno che il complesso dell’uomo, rivestito e riempito di questa infezione e di questo seme maledetto, ci rende in sostanza simili al demonio (Joan. XIII, 14). Perciò, agli occhi di Dio, noi siamo orribili, abbominevoli, esecrabili.

***

Dio, formando l’uomo a sua immagine e animandolo dalla sua vita divina, aveva impresso in lui la somiglianza delle sue perfezioni; l’uomo teneva il posto di Dio sulla terra, ed ogni creatura doveva rendergli, come alla persona di Dio, onore, omaggio e rispetto. L’uomo allora era grande e perfetto, essendo intimamente unito e aderente a Dio che si rendeva sensibile in lui; riceveva pure tutti gli onori ed omaggi che si rendono alla divinità, ma unicamente per Dio e in Dio, senza nulla appropriare a se stesso. Stabilito nell’essere e nella vita di Dio, l’uomo contemplava, in Dio e come Dio stesso, la divinità di cui era ripieno; rapito dalla bellezza e dalle perfezioni di Dio, era tutto infiammato del divino amore e, inoltre, trasformato in Dio e tutto deificato. Nella luce ammirabile che rischiarava la sua mente, egli vedeva e contemplava Dio in tutte le creature, ad imitazione della vista che Dio ha di se stesso in tutte le sue opere, secondo queste parole di Mosè: Dio vide tutte le cose che aveva fatte e trovò che erano molto buone (Gen. III, 31). Insomma, in un tale stato ammirabile e divino, nell’aderenza ed intima unione a Dio, l’uomo era un’opera eccellente e perfetta. Allora egli non si appropriava nulla; nulla lo allontanava da Dio; godeva di ogni cosa in Dio; non vedeva sé stesso in nulla, ma non vedeva in sé medesimo che Dio, Dio eccellente, perfetto e degno di ogni onore e di ogni lode. – Così S. Paolo, parlando dei Cristiani, dice che devono giungere sino a tale semplicità da essere una cosa sola con Gesù Cristo, nel quale sta tutta la loro gloria: Qui gloriatur in Domino glorietur. (II Cor. IX, 17).  Dal difetto di tale semplicità e unità nasce in noi l’amor proprio, la ricerca della nostra propria eccellenza. In questo modo, Angeli e uomini si sono perduti, distaccandosi da Dio per attaccarsi a sé medesimi; ricercando la propria eccellenza sono diventati superbi. Donde avviene, come dice la Scrittura, che « il principio della superbia è di apostatare da Dio », staccarsi da Dio per ricercare il proprio interesse. Il demonio tentò di separar uomo da Dio dicendogli: Sarete come dei; esso fece sì che l’uomo distogliesse il suo sguardo da Dio per portarlo sopra sé stesso; quindi gli suggerì e gli insinuò il desiderio di essere Dio e di comparire tale agli occhi di tutta la creazione, per riceverne gli omaggi al posto di Dio, usurpando per sé medesimo tutte le lodi che si rendevano alla divinità.

***

Nell’uomo adunque vi sono due cose: un appetito sregolato, e un desiderio eccessivo di grandezza e di eccellenza propria. L’appetito non è il peccato di superbia, benché sia un avanzo del peccato ed un effetto del demonio che ha corrotto la nostra natura e depravato in noi gli istinti di Dio. Ma il desiderio, l’aderenza, la volontà formata ed attuale di assecondare questo appetito, questo è il peccato di superbia. L’appetito è un movimento cieco della natura corrotta: il desiderio invece è un movimento ragionato e accompagnato dal lume e dall’avvertenza della ragione. Orbene, il male che si fa con avvertenza e con libero consenso è peccato. Se questo desiderio è ardente e per una cosa eccessiva, è peccato grave.

***

In secondo luogo, la superbia è un desiderio della propria eccellenza; vi è una eccellenza e una perfezione che sono lodevoli e che Dio medesimo riconosce: Siate perfetti — ha detto Gesù Cristo — come il Padre celeste è perfetto; e ve n’è un’altra che è viziosa: l’eccellenza in sé stessa e per amor proprio. È buono il desiderio dell’eccellenza quando sia regolato secondo un fine buono; è male quando è ordinato ad un fine cattivo; ma riguardo al fine sovente si è vittima di illusione, per non ingannarci bisogna esaminare gli effetti. Dio ha stabilito che la sua creatura diventi perfetta e ricerchi l’eccellenza, ma unicamente per l’amore di Lui e del prossimo. Vuole che siamo perfetti per amore di Lui, e che facciamo opere buone ed eccellenti affinché Egli ne sia onorato e glorificato. – « Si veggano, — dice Nostro Signore, — le vostre opere buone, affinché Dio. — che è nascosto in cielo e sconosciuto al mondo, — sta veduto e conosciuto sulla terra per mezzo della perfezione e delle opere che compirà in voi. Orbene, per vedere se operiamo per Dio, bisogna osservare se dalle nostre opere buone non vogliamo ricavare stima e lode per noi medesimi, se non ce ne gloriamo punto, se non abbiamo piacere di riceverne stima e onore, se ci prendiamo cura di riferire tutto a Dio col desiderio che Egli solo sia stimato e glorificato in sé stesso e da sé medesimo. Dio vuole pure che vi siano persone buone e perfette, per il bene del prossimo ed il sollievo delle sue miserie. Orbene, per conoscere se assecondiamo questo disegno di Dio, dobbiamo esaminare se dedicandoci al sollievo del prossimo abbiamo per fine il suo bene, ovvero se operiamo per nostro interesse, se guardiamo la nostra persona e ricerchiamo noi medesimi; se ci occupiamo di noi per attirarci la stima e ne proviamo compiacenza; osservare insomma, se ricerchiamo qualche utile per noi medesimi. Così degli altri uffici; molti infatti, o non pensano che a gloriarsi e innalzarsi sopra gli altri e ad attirarsi lodi e onori; o non cercano che lucro e guadagno, questi fini ben s’intende, non sono nelle intenzioni e nei disegni di Dio. – Il superbo ricerca l’eccellenza, non già precisamente per il pregio della bontà, né per unirsi a Dio che è il Padre di ogni eccellenza e l’oceano di ogni perfezione; ma la ricerca per sé medesimo e per il proprio vanto. Così, per quel maledetto amor proprio, si cambia l’ordine elle cose; infatti, secondo l’ordine, ciò che è minore ed imperfetto deve essere riferito a ciò che è eccellente, e non già ciò che è eccellente a ciò che è meno perfetto. – L’Essere di Dio non può entrare in nessun composto di nessun genere; persino in Gesù Cristo, rimangono distanti de due nature divina ed umana. Essendo infinitamente perfetto, l’Essere di Dio, non può riferirsi a cosa alcuna come ad un fine, mentre tutte le cose esistono per Lui: eppure il superbo riferisce Dio a sé stesso. Tale è l’effetto del peccato, di sconvolgere l’ordine e la natura delle cose; ma in particolare tale è l’effetto della superbia, dell’amor proprio, di attirare tutto a sé e di appropriarsi tutto; mentre l’ordine della carità vuole che noi usciamo di noi stessi e ci portiamo nell’Essere perfetto, onde unirci a Lui ed essere perfettamente consumati in Lui. È questa l’ammirabile abnegazione di sé medesimo praticata da chi è animato dalla pura virtù di Dio, il quale santifica la sua creatura e viene in essa onde portarla al suo fine. La creatura si unisce così all’Essere sovrano e perfetto, e dimentica tutto quanto vi è nel proprio essere tanto imperfetto; così si rivolge a Dio che è la sua fonte e dove sta la sua perfezione; e in Dio essa riceverà un essere più eccellente di quello che possiede. Dio, infatti, l’aspetta per consumarla in sé medesimo, rendendola partecipe dell’Essere eminente della sua divinità. L’amor proprio invece cerca di abbassare Dio sino a sé medesimo e farlo servire alla propria superbia. Infatti, per uno spaventoso accecamento, chi segue l’amor proprio considera Dio in sé stesso e nelle sue perfezioni come cosa sua propria, si gloria di tutto ciò che possiede e che è pur partecipazione di Dio, come se fosse cosa sua e provenisse da sé medesimo: così non vede punto la causa che diffonde in lui con immensa carità, quel bene e quelle grazie. Ecco il furto, l’ingratitudine, l’insolenza della superbia. Ché se l’anima infetta dalla superbia non arriva all’eccesso di considerare Dio in sé stesso come cosa sua o di ritenersi indipendente da Dio nei suoi desideri, essa almeno nutre la persuasione che ]’eccellenza dei suoi doni proviene dai propri meriti e dal proprio lavoro; ed è questa un’altra specie di superbia che si chiama arroganza, per la quale l’anima attribuisce a sé medesima e ai suoi meriti ciò che non ha ricevuto che per grazia e misericordia di Dio, mentre Dio è in noi la nostra luce, la nostra buona disposizione, la nostra vita, la nostra virtù e il nostro tutto; senza di Lui non siamo capaci né di pensare, né di volere, né di fare nessun bene in nessun modo.

II.

Dei gradi della superbia.

Il superbo cerca di essere onorato, — anche con le umiliazioni. — Fa su la terra quanto ha fatto il demonio in cielo. Quella falsa e maledetta persuasione di cui abbiamo detto, è il fondamento di tutto l’eccesso della superbia. Quell’accecamento della mente è il principio degli iniqui desideri della volontà. Tantoché in conseguenza di tali funeste illusioni e di tali maledetti errori, l’uomo, confusamente e senza riflessione né esame, crede di essere qualcosa di grande: è questo un vero inganno, perché se si esaminassero un po’ le cose con l’occhio della fede, sì riconoscerebbe facilmente la propria illusione; in conseguenza dunque di quella funesta persuasione di essere da sé qualche cosa di grande, e di aver molto valore per proprio merito, si pretende aver diritto a ricevere da tutti onore, rispetto e lodi; questo si ricerca, sia apertamente, sia di nascosto, con ogni mezzo possibile, fino al punto di umiliarsi e disprezzare sé stesso per essere onorato. Il superbo poi se non riceve quell’onore e quella lode che aspetta e vuole, ne resta offeso e rattristato, disprezza quelli che non lo lodano, quasiché non conoscano il suo merito; si innalza sopra di essi per il disprezzo che ne fa e giunge persino alle ingiurie e alle dispute. Ché se non ottiene l’onore e le lodi, egli però crede di meritarle con tutta evidenza; se qualcun lo loda e lo approva, quegli diventa per lui oggetto di benevolenza e di amore e persino di ammirazione, Oh follìa! Come se gli uomini siano capaci di onorarci! La loro stima, quale vantaggio ci procura? Il loro disprezzo che cosa ci toglie? Queste sono cose per noi assolutamente esteriori e debbono esserci indifferenti. Quali giudici possono mai essere gli uomini? Essi sono o ciechi o maligni. Se sono ciechi, non sono capaci di giudicarci; perciò la Scrittura dice: « Gli uomini non vedono che l’esterno, Dio solo vede l’intimo del cuore » (I Reg. XVI, 7); se sono maligni, faranno l’elemosina di un po’ di adulazione mentre nel loro cuore si burleranno di noi. Gli uomini sono maligni e superbi, quindi l’onore lo vogliono per sé medesimi; state certi che se ve ne rendono, è soltanto con malizia, come dice la Scrittura: « L’uomo cattivo si umilia e si abbassa davanti a voi », per costringervi ad amarlo ed onorarlo, per comperare le vostre lodi col tributarvi le sue, e per ricevere onore più che non ve ne renda. Il superbo si innalza sempre e fugge il disprezzo; se si abbassa non è che per evitare di essere respinto e confuso, e per meritarsi accoglienza e lode. – L’anima, in conseguenza di questa stima, di questa lode e adorazione che desidera, si procura, o riceve, si fissa e si eleva in sé stessa, come su di un trono, al disopra di tutti. Vede sé stessa come una persona singolare (Singulariter sum ego. Ps. CXL, 10.); internamente considera sé stessa come unica nel proprio valore, quindi arriva a credere di essere unica come Dio. Si immagina di essere sapiente più di tutti o di posseder qualche capacità speciale ed unica. – Da qui nascono i disastri e i maledetti effetti della superbia; perché prima essa era ancora timida, non aveva ancora che il proposito e il desiderio di stabilirsi nell’anima, non ne aveva ancora preso possesso, né vi aveva fissato il suo trono e la sua sede; ma appena si sia introdotta nell’anima e vi si sia fortificata, essa incomincia subito a causarvi mali orribili.

***

Tale fu l’opera del demonio in mezzo agli Angeli, nel Cielo, dove fece tre mali spaventevoli; ed è pure il danno che uomini superbi portano nella società umana. In primo luogo, lo spirito che si è stabilito nella cieca persuasione del suo valore singolare, siede in sé medesimo, come il demonio, sul trono di Dio; disprezza Dio e lo bestemmia in sé stesso. Perciò il superbo nella Scrittura viene chiamato Bestemmia (Super capita ejus nomina blasphemiæ. Apoc., XIII, 1). Nell’Apocalisse, il demonio porta sulla fronte questa parola. Nel suo disprezzo di Dio il superbo fa ogni sforzo per innalzarsi e mettersi al posto di Lui. In tal modo si comporta pure l’inferiore arrogante e superbo, quando abbia lasciato penetrare nel proprio spirito la falsa stima di sé medesimo e la persuasione intima e cieca del proprio valore. Benché si nasconda spesso sotto il manto dell’umiltà, perché è questa una virtù molto apprezzata e necessaria per godere un po’ di stima, non di meno egli si fissa nella persuasione che debba essere onorato. Dimodoché se gli accade di essere disprezzato, respinto o condannato, si agita, sì rivolta, condanna, mormora, disprezza, spodesta nel suo spirito ogni potestà superiore, si mette al disopra di tutti, cerca qualcuno che lo ami e lo stimi, si procura amici e soci che con lui si accompagnano e insieme si innalzano in una comune cospirazione. – Un’anima in cui sia così radicata la stima di sé stessa e la convinzione del proprio valore per la considerazione delle sue virtù esteriori, si costituisce al disopra di tutti: essa giudica di tutto e decide di ogni cosa, ma sempre in proprio favore e a condanna degli altri. Segretamente, essa cerca sempre di regnare su tutti gli uomini, o almeno su di una parte di essi, nulla tralasciando per giungere al compimento dei suoi desideri. – Il secondo male che fece il demonio in Cielo fu di distogliere i suoi fratelli dalla sottomissione a Dio, di formare un bando a parte e così dividere, con la sua rivolta, il regno di Dio, rovinare la comunità celeste e distruggere quell’opera che Dio aveva formato con tanta compiacenza. Così, sia per dispetto contro Dio che sta sempre nel suo posto e sul suo trono divino, sia per la smania di essere onorato ed avere devoti adulatori e adoratori, egli sconvolgeva la società e gli ordinamenti del Cielo. – L’uomo superbo causa il medesimo danno nelle comunità. Egli, sia come nemico della superiorità altrui che lo umilia e condanna il suo modo di comportarsi, sia per amore di adulazione e di lode, ovvero per desiderio di appoggio, di conforto e di consolazione nei suoi disinganni e nelle sue desolazioni, non tralascia mai di suscitare scismi e divisioni; animato da un odio segreto, esso vorrebbe distruggere, se potesse, la bontà dei suoi fratelli, benché ne dovesse egli stesso venire in esecrazione al cospetto di Dio. –  Il terzo male di cui si rese colpevole il demonio, fu di disprezzare e sconvolgere la legge di Dio in Cielo e sulla terra. Perché dopo aver distrutto nei suoi fratelli la religione e l’unione che sono le due leggi capitali del Cielo, egli discese su la terra e nel Paradiso terrestre, per sconvolgervi di nuovo con la sua maledetta suggestione, tutta la legge di Dio. Dio aveva detto all’uomo che se mangiava del frutto proibito ne morrebbe; il demonio invece gli disse che se ne mangiasse, non morrebbe punto, ma sarebbe uguale a Dio (Gen. II, 17; II, 4-5). Così fanno i superbi in tutta la società; se la prendono infine con la legge e tentano di sconvolgerla e di distruggerla.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: LEONE XIII “NOBILISSIMA GALLORUM”

Questa lettera Enciclica di S. S. Leone XIII, si rivolgeva ai Vescovi francesi da poco sortiti dalle tristi vicende nazionali che avevano visto le porte del male vicine al trionfo sulla santa Chiesa, attraverso la massonica-illuminata rivoluzione anticristiana, con le conseguenze disastrose seguitene che avevano destabilizzato tutta la società civile e l’organizzazione ecclesiastica di questa Nazione, un tempo fiore all’occhiello della Chiesa di Cristo. Si tratta di un piccolo compendio della Dottrina sociale della Chiesa che avrà tanto sviluppo in seguito nei documenti prodotti dai Sommi Pontefici fino a Pio XII. Le indicazioni contenute nella lettera sono di una chiarezza disarmante e le prospettive negative delineate nella loro inosservanza si sono dimostrate nel tempo, ed oggi ancor più, delle profezie puntualmente e tragicamente realizzate nelle nazioni un tempo cristiane, attualmente apostate dal vero Cattolicesimo ed in preda ad uno sfrenato paganesimo civile ed un ultra modernismo religioso liberticida di anime illuse da un falso pietismo ed da una irreligiosità estrema, giunte ai limiti di un baratro profondo e di uno stagno di fuoco senza speranza di ritorno qualora non intervenga un evento divino diretto.

Nobilissima Gallorum
Leone XIII

Lettera Enciclica

Nei confronti della Chiesa cattolica la nobilissima nazione dei Francesi, in molte e splendide imprese di pace e di guerra, si segnalò con tanto singolare eccellenza di meriti, che ne durerà eterna la riconoscenza e immortale la gloria. Avendo essa tempestivamente, dietro l’esempio del Re Clodoveo, abbracciato la legge di Cristo, ne ottenne, quale testimonianza e insieme premio onorevolissimo della sua fede e della sua devozione, di essere chiamata la Figlia primogenita della Chiesa. Sino da quella età, Venerabili Fratelli, gli antenati vostri furono spesso considerati in grandi e salutari imprese come gli strumenti della stessa provvidenza divina: ma in peculiar modo rifulse la virtù loro nel proteggere in tutta la terra il Cattolicesimo, nel propagare fra le genti barbare la fede cristiana, nel liberare e custodire i luoghi santi della Palestina, tanto che divenne proverbiale quell’antica espressione: “Le opere di Dio attraverso i Francesi”. Per queste ragioni avvenne che, essendosi essi dedicati con tutto il cuore alla difesa del cattolicesimo, poterono in un certo qual modo avere parte nelle glorie della Chiesa, e fondare così in pubblico come in privato un bel numero di istituzioni, nelle quali si ammirano le più luminose prove di religione, di beneficenza, di magnanimità. – I Romani Pontefici Nostri Predecessori furono soliti elogiare nei modi più solenni tali virtù dei padri vostri, e per rendere testimonianza ai loro meriti con paterno affetto vollero spesso esaltare con somme lodi il nome dei Francesi. Amplissime senz’altro sono quelle che Innocenzo III e Gregorio IX, grandi luminari della Chiesa, tributarono ai vostri maggiori. Il primo di essi, in una lettera all’Arcivescovo di Reims, dice: “Noi amiamo il regno di Francia con tale singolarità di affetto, come quello che, più degli altri regni del mondo, si mostrò sempre ossequioso e devoto verso la Sede Apostolica e Noi”. L’altro poi, in una lettera a San Lodovico IX, così parla del regno di Francia: “In esso, dove in nessun caso fu mai possibile sradicare la devozione a Dio e alla Chiesa, non venne mai meno in nessun tempo la libertà ecclesiastica, e non fu mai rimosso l’attaccamento alla fede cristiana: anzi, per la conservazione di tali valori, i re e i sudditi di detto regno non dubitarono di spargere il loro sangue, e di esporre a molti pericoli la vita”. – Iddio poi, autore della natura, dal quale le nazioni ricevono in questo mondo il premio delle virtù e delle buone opere, concesse ai Francesi molte cose ad ampliamento della loro grandezza: le glorie militari, le arti della pace, la celebrità del nome, la potenza dell’impero. Se la Francia, talvolta, dimentica in qualche modo di se medesima e della missione da Dio affidatale, preferì assumere sentimenti ostili verso la Chiesa, nondimeno, per sommo beneficio di Dio non fuorviò in tutta la sua realtà né per lungo tempo. – Avesse potuto uscire incolume da quelle calamità, così funeste alla Religione e allo Stato, che i tempi più vicini a Noi hanno generato! Ma dopo che la mente umana, imbevuta del veleno di nuove opinioni, prese a respingere dovunque l’autorità della Chiesa imperversando con sterminata licenza, si giunse precipitosamente là dove l’impulso trascinava. Infatti, essendo il mortifero veleno delle dottrine penetrato anche nei costumi degli uomini, l’umana società, in gran parte, giunse passo passo a tal punto che sembra volere in tutto separarsi dagli insegnamenti cristiani. A diffondere una siffatta peste nelle Gallie non poco concorsero nel secolo scorso certi filosofi di una sapienza delirante, i quali si diedero a sradicare i fondamenti della verità cristiana, e adottarono tal metodo di filosofare che infiammava vieppiù un amore già acceso per una smodata libertà. Si aggiunse l’opera di coloro che un impotente odio delle cose divine tiene fra loro congiunti in società nefande, rendendoli ogni giorno più desiderosi di togliere di mezzo il Cattolicesimo: se poi a ciò si provino con maggiori sforzi in Francia che altrove, nessuno meglio di Voi, Venerabili Fratelli, può giudicarlo. Pertanto, l’affetto paterno che portiamo a tutte le genti, come Ci spinse altre volte, con lettere indirizzate si Vescovi, ad esortare al loro dovere, secondo le circostanze, specialmente i popoli dell’Irlanda, della Spagna e dell’Italia, così ora Ci consiglia di volgere la mente ed i pensieri alla Francia. – Infatti quei tentativi che abbiamo detto, non sono soltanto di nocumento alla Chiesa, ma tornano altresì a sommo danno della Repubblica, in quanto non può avvenire che uno Stato fiorisca di prosperità quando è stata eliminata la religione. Certamente, ove cessi negli uomini il timore di Dio, viene a mancare il massimo fondamento della giustizia, senza la quale anche i saggi del paganesimo negavano che possa ben governarsi una repubblica, dato che non avrà adeguato peso l’autorità dei Principi, né avranno sufficiente vigore le leggi. Presso ognuno avrà maggior valore l’utilità che l’onestà; vacillerà la saldezza del diritto qualora essa sia garantita soltanto dal timore delle pene; i governanti cadranno facilmente nel dispotismo e i sudditi per un nonnulla si getteranno a sedizioni e a tumulti. – Inoltre, poiché nella natura delle cose non esiste alcunché di buono che non derivi dalla bontà divina, ogni società umana che voglia allontanare Dio dai suoi statuti e dal suo governo, per ciò stesso rigetta gli aiuti della divina beneficenza, ed evidentemente merita che le venga negato il patrocinio celeste. Ne deriva che per quanto appaia mirabile di potenza e fiorente di ricchezze, tuttavia porta chiuso nelle stesse viscere della repubblica il germe della sua morte, né può avere speranza di lunga durata. Ciò va detto alle nazioni cristiane, non altrimenti che ai singoli uomini: è altrettanto vantaggioso il sottostare ai consigli di Dio, quanto è pericoloso il ribellarsene; a dette nazioni accade spesso che nei periodi in cui restano con più fedele cura devote a Dio ed alla Chiesa, quasi per naturale conseguenza s’innalzano ad ottimo stato; quando si fanno ribelli, precipitano. È in facoltà di ognuno osservare tali vicende negli annali di tutte le età, ed avremmo in abbondanza esempi domestici, né troppo da Noi lontani, se il tempo permettesse di annoverare quelli che vide il secolo passato, allorché la procace licenza di molti mise radicalmente a soqquadro l’inorridita Francia, travolgendo in una medesima rovina le cose religiose e le civili. – Per contro, è facile allontanare tali errori che portano con sé la sicura rovina di uno Stato, se nel costituire ed amministrare tanto la domestica quanto la civile società si osservano gl’insegnamenti della Religione cattolica. Essi sono infatti efficacissimi per il mantenimento dell’ordine e per la salvezza della repubblica. – Innanzi tutto, per quanto concerne la società domestica, importa assaissimo che la prole nata da matrimonio cristiano venga tempestivamente istruita nei precetti della Religione, e che quelle arti, con le quali la fanciullezza viene formata alla civiltà vadano associate con la preparazione religiosa. Il separare le une dall’altra è lo stesso che volere veramente che gli animi dei fanciulli rimangano neutrali nei doveri verso Dio; tale disciplina è fallace e dannosissima soprattutto nell’età infantile, perché ciò significa aprire direttamente la strada all’ateismo e chiuderla alla Religione. I buoni genitori debbono assolutamente provvedere a che i propri figli, non appena sono in età di apprendere, si istruiscano nei precetti della Religione, e che nelle scuole non vi sia alcuna cosa che offenda l’integrità della fede e dei costumi. Questa diligenza da usare nella formazione della prole è imposta dalla legge divina e dalla naturale, né i genitori possono per alcun pretesto credersi sciolti da tale legge. In verità, la Chiesa, custode e vindice dell’integrità della fede conferitale dal suo divin Fondatore, deve chiamare tutti i popoli alla sapienza cristiana, ed insieme guardare attentamente di quali precetti e istituzioni venga informata la gioventù che cresce sotto la sua giurisdizione; in ogni tempo condannò apertamente le scuole che chiamano miste o neutre, raccomandando con ripetute istanze ai padri di famiglia che si prendessero a cuore diligentemente una questione di tanta importanza. Obbedendo alla Chiesa in tale materia si procurano grandi vantaggi e contemporaneamente si provvede nel miglior modo alla salute pubblica. Infatti, coloro che nella tenera età non vengono istruiti nella Religione crescono senza alcuna cognizione delle cose più importanti: le sole che possono alimentare negli uomini l’amore delle virtù e metter freno agli appetiti contrari alla ragione. Di tal genere sono le nozioni intorno a Dio creatore, a Dio giudice e vindice, ai premi ed ai castighi da aspettare nell’altra vita, agli aiuti celesti apportati da Gesù Cristo al fine di potere diligentemente e santamente adempiere a quei compiti. Ove siano ignorate queste cose, ogni preparazione degli animi riuscirà malsana: i giovani non assuefatti al timore di Dio sapranno sopportare malamente qualsiasi disciplina dell’onesto vivere, e come coloro che non furono mai avvezzi a negar nulla alle proprie passioni, facilmente saranno sospinti a mettere sossopra gli Stati. In secondo luogo sono sommamente salutari ed altrettanto veri gl’insegnamenti che riguardano la società civile e la reciprocità dei diritti e dei doveri tra la potestà religiosa e quella politica. – Infatti, siccome sono nel mondo due società principali, l’una civile, il cui fine prossimo è di procurare alla famiglia umana il bene temporale e terreno, l’altra religiosa, il cui compito è di condurre gli uomini a quella vera felicità celeste ed immortale per la quale siamo nati, così i poteri sono due. Entrambi dipendono dalla legge eterna e naturale, e ciascuno provvede e dispone da sé nelle cose che sono dell’ordine e del dominio proprio. Peraltro, ogni volta che accada di dover determinare alcune cose nelle quali, quantunque per diverse ragioni ed in modo diverso, conviene che intervengano insieme l’uno e l’altro potere, allora è necessaria e voluta dallo stesso pubblico bene la concordia di ambedue, mancando la quale ne deriva una condizione di cose sempre incerta e mutabile, per cui non è possibile una durevole tranquillità né della Chiesa né dello Stato. Pertanto, dunque, quando su qualche punto fra la potestà religiosa e la civile si è stabilito un accordo, allora senza dubbio se importa alla giustizia che l’accordo resti intatto, altrettanto importa allo Stato; conseguentemente, se l’una e l’altra parte si prestano scambievoli servizi, così ricevono a vicenda determinati vantaggi. – In Francia, sul principio di questo secolo, dopo che furono cessati quei grandi rivolgimenti politici e quei terrori che in precedenza l’avevano funestata, gli stessi moderatori della cosa pubblica compresero che non si poteva restaurare la nazione, oppressa da tante rovine, in maniera migliore che ristabilire la Religione cattolica. Pio VII Nostro Predecessore, precorrendo con l’animo i futuri vantaggi, assecondò i voleri del Primo Console con la maggiore condiscendenza e arrendevolezza che gli furono consentite dal suo dovere. – Allora, essendosi convenuto sui principali punti, furono poste le basi e fu spianata la via sicura e più opportuna per rimettere in piedi e stabilire a poco a poco le cose della religione. Effettivamente, in quel tempo e negli anni che seguirono furono con saggio consiglio stabilite molte cose che apparivano richieste dal benessere e dal decoro della Chiesa. Se ne raccolsero quindi frutti preziosissimi e tali da essere tanto più stimati quanto più le cose sacre in Francia erano state in precedenza abbattute ed oppresse. Restituita alla Religione la sua pubblica dignità, si videro chiaramente rivivere le cristiane istituzioni: ma oh!, quanti beni da questo fatto risultarono alla felicità dello Stato! – Infatti, la nazione, appena uscita da quei turbolentissimi flutti, mentre ricercava ansiosa i saldi fondamenti della quiete e dell’ordine pubblico, si accorse che quei fondamenti che andava cercando le venivano offerti dalla Religione cattolica: dal che apparve manifesto che stringere quell’accordo fu opera di un uomo che sa ottimamente provvedere agli interessi del popolo. Pertanto, quand’anche mancassero altre ragioni, pure quel motivo stesso che spinse allora a trattare della pace, dovrebbe ora spingere a mantenerla. Infatti, essendo dappertutto gli animi accesi dal desiderio di cose nuove, in così incerta attesa dell’avvenire, il gettare fra l’una e l’altra potestà nuovi germi di discordia e, frapponendo ostacoli, impedire o ritardare la benefica influenza della Chiesa, sarebbe cosa imprudente e piena di pericoli. – Per la verità, in questo tempo non senza affanno ed angoscia Noi vediamo profilarsi pericoli di tal natura: alcune cose si sono già fatte o si fanno assolutamente non conformi al bene della Chiesa, dato che alcuni, con animo avverso, hanno preso a calunniare e a rendere odiose le istituzioni cattoliche, e a proclamarle nemiche della società. Né minor angustia e afflizione Ci danno i disegni di coloro i quali, puntando sulla separazione della Chiesa e dello Stato, vorrebbero, presto o tardi, rotto l’accordo solennemente e con tanto vantaggio concluso con la Sede Apostolica. In siffatta condizione di cose Noi certamente non abbiamo tralasciato nulla che sembrasse essere richiesto dalle congiunture dei tempi. Dal Nostro Nunzio Apostolico, ogni volta in cui Ci parve necessario, facemmo fare esposti; e quelli che tengono il governo delle cose pubbliche, dichiararono di riceverli con animo disposto ad equità. – Noi stessi, quando fu promulgata la legge sullo scioglimento delle Congregazioni religiose, significammo i sentimenti dell’animo Nostro in una lettera indirizzata al diletto Nostro Figlio, l’Arcivescovo di Parigi Cardinale della Santa Chiesa Romana. Analogamente, con una lettera inviata nel mese di giugno dello scorso anno al Presidente della Repubblica, deplorammo tutte le altre cose che tornano a danno della salute delle anime, e che non lasciano salvi i diritti della Chiesa. Questo facemmo sia perché eravamo mossi dalla santità e dalla grandezza del Nostro apostolico ministero, sia perché vivamente desideriamo che in Francia venga conservata con gelosa cura ed inviolabilmente la Religione ricevuta dai padri. Per questa via, con questa medesima costanza siamo deliberati a difendere sempre per l’avvenire gl’interessi cattolici della Francia. In tale giusto e doveroso ufficio, abbiamo sempre avuto Voi tutti, Venerabili Fratelli, quali intrepidi cooperatori. Costretti a lamentare la sciagura deliberata contro gli ordini religiosi, avete nonpertanto adoperato quanto era in vostra facoltà, affinché non soccombessero senza difesa coloro i quali avevano ben meritato non meno della società che della Chiesa. In questo tempo, poi, per quanto le leggi lo consentono, le vostre maggiori cure ed i pensieri vostri sono stati rivolti ad apprestare alla gioventù la più larga e solida formazione. Circa i propositi che alcuni vanno macchinando contro la Chiesa, non avete omesso di mostrare quanto danno essi apporterebbero allo Stato medesimo. Né per questo motivo qualcuno potrà fondatamente accusarvi o di essere mossi da qualche rispetto umano, ovvero di essere contrari al governo costituito, perché quando si tratta dell’onore di Dio, quando è posta in pericolo la salute delle anime, è vostro dovere prendere il patrocinio e la difesa di tutte queste cose. – Continuate dunque con prudenza ed energia a compiere il ministero episcopale; ad insegnare i precetti della sapienza celeste, e a dimostrare al popolo quale via esso debba tenere in questa così grande perversità di tempi. Conviene che tutti abbiate una stessa mente ed uno stesso proposito, e quando l’interesse è comune, è necessario che tutti teniate un modo affine nell’operare. Procurate che nessun luogo resti privo di scuole, nelle quali gli alunni siano con ogni maggior diligenza istruiti nella conoscenza dei beni celesti e dei doveri verso Dio: imparino a conoscere intimamente la Chiesa e ad obbedirle fino a rendersi capaci e persuasi che per lei è da reputarsi tollerabile qualsivoglia fatica. – La Francia abbonda di esempi d’uomini preclarissimi, i quali per la fede cristiana si mostrarono pronti a sostenere qualsiasi duro travaglio, e perfino a perdere la vita. In quegli stessi sconvolgimenti che abbiamo ricordato, vi furono molti uomini d’invitta fede, per la virtù e per il sangue dei quali fu salvo l’onore della patria. E anche ai nostri giorni vediamo in Francia, pur in mezzo alle insidie ed ai pericoli, mantenersi abbastanza salda la virtù con l’aiuto di Dio. Il Clero attende al suo ufficio con costanza e con quella carità che è propria dei sacerdoti, sempre pronta e sollecita a giovare al prossimo. Nel laicato numerosi uomini fanno pubblicamente professione della fede cattolica con forte ed impavido petto; in molti modi e assai di frequente attestano con bella gara il loro ossequio alla Sede Apostolica; provvedono con ingenti spese e fatiche all’istruzione della gioventù; soccorrono alle necessità pubbliche con ammirabile liberalità e beneficenza. Ora codesti beni, i quali sono presagio di liete speranze per la Francia, non solo si debbono conservare, ma addirittura aumentare con comune zelo e con la maggior diligenza e perseveranza. Conviene anzitutto avere cura che il Clero si arricchisca di un numero sempre maggiore di idonee persone. I Sacerdoti abbiano come cosa sacra l’autorità dei loro Pastori; tengano per certo che l’ufficio sacerdotale, se non si esercita sotto il magistero dei Vescovi, non sarà mai né santo, né abbastanza utile, né decoroso. È inoltre necessario che ragguardevoli uomini del laicato, ai quali sta a cuore questa comune madre di tutti, la Chiesa, e i discorsi e gli scritti dei quali possono essere di grande utilità per difendere i diritti della Religione cattolica, si adoperino a difesa della religione. Per conseguire poi i frutti desiderati sono necessarie la concordia dei voleri e la conformità delle opere. Di certo i nemici non desiderano niente di più che i Cattolici siano fra loro divisi: questi, dunque, pensino che soprattutto debbono rifuggire dalla discordia, memori di quella divina sentenza: “Ogni regno diviso in parti contrarie va in perdizione”. Ché se, per mantenere la concordia, sia anche necessario che qualcuno rinunci al proprio giudizio e alla propria opinione, lo faccia di buon grado, per amore della comune utilità. Coloro che sono impegnati nello scrivere, si adoperino in ogni modo per conservare questa unione degli animi in tutte le cose; essi inoltre preferiscano il vantaggio comune al proprio; favoriscano le comuni iniziative; si rendano con volonteroso animo docili alla disciplina di coloro che “lo Spirito Santo ha costituiti Vescovi per pascere la Chiesa di Dio”, ed abbiano riverenza per la loro autorità, né inizino mai alcunché senza il beneplacito degli stessi, i quali, allorché si combatte per la religione, vanno seguiti come condottieri. Infine, ciò che la Chiesa ebbe sempre in costume di fare nei tempi calamitosi, così tutto il popolo, seguendo Voi, continui a pregare e a scongiurare Iddio affinché guardi propizio la Francia, e vinca lo sdegno con la misericordia. Nella presente sfrenatezza del parlare e dello scrivere, troppo spesso si recò oltraggio alla divina Maestà, né mancano coloro che non solo rigettano ingratamente i benefici di Gesù Cristo Salvatore degli uomini, ma con empia ostentazione dichiarano in pubblico di non volere conoscere la potenza di Dio. Soprattutto conviene che i Cattolici compensino questa perversità di pensare e di operare con un grande ardore di fede e di pietà, e attestino solennemente che nulla hanno di più sacro che la gloria di Dio, nulla di più caro che la Religione degli avi. Particolarmente coloro che, uniti a Dio con più stretti legami, trascorrono la loro vita nella pace dei chiostri, s’accendano ora in più generosi spiriti di carità, e con umili suppliche, con volontarie penitenze, con l’offerta di se medesimi cerchino di placare la Maestà divina. In questo modo avverrà, speriamo con la grazia del Signore, che gli erranti ritornino sul retto sentiero, e che il nome Francese riviva nella sua genuina grandezza. In tutte queste cose che finora abbiamo dette, dovete riconoscere il bene grandissimo che Noi vogliamo a tutta la Francia. Né dubitiamo che questo medesimo attestato del Nostro particolarissimo affetto valga a confermare e ad accrescere quella salutare ed intima unione che fu sempre tra la Francia e l’Apostolica Sede, e dalla quale in ogni tempo né pochi né lievi beni derivarono a comune vantaggio. – Confortati in questo pensiero, a Voi, Venerabili Fratelli, ed ai vostri concittadini auguriamo la maggior copia delle grazie celesti, in auspicio delle quali ed in pegno della Nostra particolare benevolenza, a Voi ed a tutta la Francia impartiamo affettuosamente nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, l’8 febbraio 1884, anno sesto del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI PASSIONE (2022)

DOMENICA DI PASSIONE (2022)

Stazione a S. Pietro;

Semidoppio, Dom. privit. di I cl. • Paramenti violacei.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani,

comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

« Noi non ignoriamo, dice S. Leone, che il mistero pasquale occupa il primo posto fra tutte le solennità religiose. Durante tutto l’anno, col cercare di migliorarci sempre più, noi ci disponiamo a celebrare questa solennità in maniera degna e conveniente, ma questi ultimi e grandissimi giorni esigono ancor più la nostra devozione, poiché sappiamo che essi sono vicinissimi al giorno in cui celebriamo « il mistero cosi sublime della misericordia divina » (II Notturno). Questo mistero è quello della Passione del Salvatore di cui è ormai prossimo l’anniversario. Pontefice e mediatore del Nuovo Testamento, Gesù salirà ben presto sulla Croce e presenterà al Padre il sangue che Egli verserà entrando nel vero Sancta Sanctorum che è il Cielo (Ep.). « Ecco, canta la Chiesa, brilla il mistero della Croce, dove la Vita ha subito la morte e con la Sua morte ci ha reso la vita » (Inno dei Vespri). E l’Eucaristia è frutto dell’amore immenso di un Dio per gli uomini, poiché istituendola, Gesù ha detto: « Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi. Questo è il calice della nuova alleanza nel sangue mio. Fate questo in memoria di me » (Com.). Cosa fecero gli uomini in risposta a tutte queste bontà divine? « I suoi non lo ricevettero » dice S. Giovanni, parlando dell’accoglienza fatta a Gesù dai Giudei: » Gli fu reso il male per il bene » (4 Ant. della Laudi) e gli furono riservati solamente gli oltraggi: « Voi mi disonorate » dirà loro Gesù ». Il Vangelo ci mostra in fatti l’odio sempre crescente del Sinedrio. [Dopo la festa dei Tabernacoli che ebbe luogo il terzo anno del suo ministero pubblico, Gesù pronunciò nel Tempio le parole del Vangelo d’oggi. Una parte dell’atrio era stata trasformata in deposito perché il Tempio non era ancora interamente ricostruito. I Giudei vi raccolsero delle pietre per lapidare Gesù che si nascose ai loro sguardi, la sua ora non essendo ancora, venuta.] il padre del popolo di Dio, aveva fermamente creduto alle promesse divine che gli annunciavano Cristo futuro e nel Limbo la sua anima che, avendo avuto fede in Gesù, non è stata colpita da morte eterna, si è rallegrata nel vedere il realizzarsi di queste promesse, con la venuta del Salvatore. I Giudei che avrebbero dovuto riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, più grande di Abramo e dei profeti perché  eterno, misconobbero il senso delle sue parole e, dopo averlo insultato trattandolo da invaso dal demonio e bestemmiatore, lo vollero lapidare (Vang.). « Non temere davanti ad essi, gli dice Dio in persona di Geremia, poiché io farò che tu non tema il loro volti. Poiché oggi Io ti ho reso come una città fortificata, come una colonna di ferro, come un muro di bronzo contro i re di Giuda, i suoi principi, i suoi sacerdoti ed il suo popolo. Essi combatteranno contro te, ma non prevarranno: perché Io sono con te, dice il Signore, per liberarti (I Notturno). « Io non cerco la mia gloria, dice Gesù; vi è qualcuno che la cerca e giudica» (Vang.). E per bocca del salmista, Egli continua: « Giudicami, Signore, e discerni la mia causa da quella della gente empia: liberami dall’uomo iniquo ed ingannatore». Questo popolo «bugiardo» (Vang.) afferma Gesù, è il popolo Giudeo. « Liberami dai miei nemici, continua il Salmista; mi strapperai dalle mani dell’uomo iniquo » (Grad.). « Il Signore è giusto. Egli decapiterà i peccatori » (Tratto). Dio infatti, non permise agli uomini di mettere la mano su Gesù prima che la sua ora fosse giunta (Vang.) e quando l’ora dell’immolazione fu suonata, Egli strappò il Suo Figlio dalle mani dei malvagi, risuscitandolo. Questa morte e questa resurrezione erano state annunciate dai Profeti ed Isacco ne era stato il simbolo, allorché, mentre per ordine di Dio, stava per essere immolato da Abramo, suo padre, fu salvato da Dio stesso e sostituito da un ariete, che rappresentava l’Agnello di Dio sacrificato per il genere umano. Gesù doveva dunque nel Suo primo avvento essere umiliato e soffrire; soltanto dopo Egli apparirà in tutta la Sua potenza: ma i Giudei, accecati dalle passioni, non ammisero che una sola venuta: quella che deve prodursi nella gloria e, scandalizzati dalla Croce di Gesù, lo respinsero. Per questo motivo, Dio li respinse a sua volta, mentre accolse con benevolenza coloro che hanno poste le loro speranze nella redenzione di Gesù, ed uniscono le loro sofferenze alle Sue. « Giustamente e per ispirazione dello Spirito Santo, dice S. Leone, i SS. Apostoli hanno ordinato digiuni più austeri durante questi giorni; affinché, con una comune partecipazione alla Croce di Cristo, noi pure facciamo qualche cosa che ci unisca a quello che Egli ha fatto per noi. Come dice l’Apostolo S. Paolo: « Se soffriamo con Lui, saremo anche glorificati con Lui ». Certa e sicura è l’attesa della promessa beatitudine là dove vi è partecipazione alla passione del Signore (IV Lezione). — La Stazione si tiene nella Basilica di S. Pietro, innalzata sull’area dove prima sorgeva il Circo di Nerone, dove il Principe degli Apostoli morì, come il suo Maestro, sopra una Croce. – In ricordo della Passione di Gesù, di cui si avvicina l’anniversario, pensiamo che, per risentirne gli effetti benefici, bisogna, come il Divin Maestro, saper soffrire persecuzioni per la giustizia. E quando, membri della «famiglia di Dio », siamo perseguitati con e come Gesù Cristo, chiediamo a Dio che « custodisca i nostri corpi e le nostre anime » (Or.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLII: 1-2.

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea.

[Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Ps XLII:3

Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me de duxérunt et adduxérunt in montem sanctum tuum et in tabernácula tua.

[Manda la tua luce e la tua verità: esse mi guídino al tuo santo monte e ai tuoi tabernàcoli.]

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea.

[Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, familiam tuam propítius réspice: ut, te largiénte, regátur in córpore; et, te servánte, custodiátur in mente.

[Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, guarda propízio alla tua famiglia, affinché per bontà tua sia ben guidata quanto al corpo, e per grazia tua sia ben custodita quanto all’anima.]

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebræos.

Hebr IX: 11-15

Fatres: Christus assístens Pontifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum, et cinis vítulæ aspérsus, inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ideo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

[“Fratelli: Cristo, essendo venuto come pontefice dei beni futuri, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto, non fatto da mano d’uomo, cioè non appartenente a questo mondo creato, e mediante non il sangue di capri e di vitelli, ma mediante il proprio sangue, entrò una volta per sempre nel santuario, avendo procurato una redenzione eterna. Poiché se il sangue dei capri e dei tori e l’aspersione con cenere di giovenca santifica gli immondi rispetto alla mondezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, il quale, mediante lo Spirito Santo, ha offerto se stesso immacolato a Dio, monderà la nostra coscienza dalle opere morte, perché serviamo al Dio vivente? E per questo Egli è il mediatore del nuovo testamento, affinché, essendo intervenuta la sua morte a redimere dalle trasgressioni commesse sotto il primo testamento, quelli che sono stati chiamati conseguono l’eterna eredità loro promessa, in Gesù Cristo Signor nostro”].

Ci avviciniamo ai grandi misteri della Settimana Santa. La Passione di N. S. Gesù Cristo e la nostra Redenzione — la Redenzione nostra per mezzo della Passione sua — mistero centrale della nostra fede. Il valore del sacrificio di N. S. per noi ce lo illumina S. Paolo nel passo dell’Epistola agli Ebrei che oggi la Chiesa ci fa leggere. Sono poche parole, misurate, contate, direbbe Dante, ciascuna delle quali ha il suo peso e merita la sua attenzione. Eccovele nel loro contesto. Se il sangue degli animali (nella vecchia Legge, nell’economia religiosa ch’essa rappresentava) santifica quelli che sono macchiati d’una purificazione carnale, quanto più non monderà la nostra coscienza il Sangue di Gesù Cristo, che per lo Spirito Santo offrì se stesso immacolato a Dio. Offrì Gesù se stesso. Il Suo fu un sacrificio volontario. Gesù ha voluto soffrire, ha voluto fare la volontà del Padre, fino alla morte; a costo della morte. Nessuno lo costrinse. Volle. Il profumo d’ogni nostro sacrificio, qualunque  esso sia, per qualunque causa (buona, s’intende) sia fatto, è nella sua spontaneità. La bellezza di questo fiore che si chiama il sacrificio è in questa sua freschezza di volontà. « Oblatus est quia ipse votuit: » le parole profetiche di Gesù meravigliosamente si adempiono. Il Vangelo sottolinea questa bella libertà in Gesù, nei momenti in cui le apparenze di una violenza usatagli sono più accentuate: quando gli sgherri credono di essere venuti nel Getzemani a prenderlo di viva forza, quando Pilato crede di avere lui nella sua mano onnipotente di funzionario dell’Impero, la vita di Gesù. Libertà intiera, completa, profonda. E offrì se stesso. Ah fratelli miei! che differenza dai redentori o salvatori umani! e che rilievo ne ridonda per questo Salvatore Divino! Quanto è facile e frequente immolare gli altri: pagare con moneta altrui, versare l’altrui sangue! – Gesù ha versato il suo ed ha ardentemente desiderato si spargesse questo solo. Lo ha versato tutto. Il Suo sacrificio è stato un olocausto, senza riserva. La generosità della spontaneità si compie colla generosità, starei per dire, quantitativa del dono. Dà sempre molto chi dà tutto. E offrì se stesso immacolato. Senza macchia. Le vittime, simboliche, del V. T. vittime materiali dovevano essere materialmente così: pure senza macchia, senza macchia l’agnello senza difetto il bove. Gesù non ebbe peccati suoi da espiare; ed ecco perché ha potuto così largamente espiare i peccati altrui. Le sofferenze, anche del peccatore sono sante, sono, a lor modo, belle. Ma quel sacrifizio sa di espiazione personale. È una giustizia, non una generosità. Il martire delle cause più alte doveva essere purissimo, lo fu. Gesù è l’agnello immacolato. Ci ha tenuto in modo particolare. « Chi di voi potrà convincermi di colpa? » ha detto, ha gridato ai suoi avversari. E offrì, liberamente se stesso (generoso olocausto) immacolato a Dio per « Spiritum sanctum ». A Dio. La causa che Gesù è venuto a difendere, che ha difeso da buon soldato col valore e la morte, colla predicazione, la passione, col Vangelo, con la Croce, è la causa di Dio, la causa religiosa. Perché sulle rovine degli dei falsi e bugiardi regnasse il Dio vero e vivo, perché sulle rovine della Sinagoga sorgesse la grande, universale Chiesa, per questo che significava la maggior gloria di Dio, la maggiore, la vera felicità del genere umano. Egli è caduto martire, Egli si è offerto vittima del più grande sacrificio del mondo.

 [G. Semeria: Le Epistole delle Domeniche O. N. M.- d’I. Roma-Milano, 1939 – nihil obs. P. De Ambrogi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Cur. Arch.]

Graduale

Ps CXLII: 9, 10

Eripe me, Dómine, de inimícis meis: doce me fácere voluntátem tuam


[Líberami dai nemici, o Signore: insegnami a fare la tua volontà].

Ps XVII: 48-49

Liberátor meus, Dómine, de géntibus iracúndis: ab insurgéntibus in me exaltábis me: a viro iníquo erípies me.

[Mi libererai dai nemici accaniti, o Signore: e mi eleverai sopra di quelli che si volgono contro di me: mi libererai dall’uomo iniquo].

Tractus

Ps CXXVIII: 1-4

Sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

[Mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Dicat nunc Israël: sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

[Lo dica Israele: mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Etenim non potuérunt mihi: supra dorsum meum fabricavérunt peccatóres.

[Ma non mi hanno vinto: i peccatori hanno fabbricato sopra le mie spalle.]

V. Prolongavérunt iniquitátes suas: Dóminus justus cóncidit cervíces peccatórum.

[Per lungo tempo mi hanno angariato: ma il Signore giusto schiaccerà i peccatori.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VIII: 46-59

“In illo témpore: Dicébat Jesus turbis Judæórum: Quis ex vobis árguet me de peccáto? Si veritátem dico vobis, quare non créditis mihi? Qui ex Deo est, verba Dei audit. Proptérea vos non audítis, quia ex Deo non estis. Respondérunt ergo Judæi et dixérunt ei: Nonne bene dícimus nos, quia Samaritánus es tu, et dæmónium habes? Respóndit Jesus: Ego dæmónium non hábeo, sed honorífico Patrem meum, et vos inhonorástis me. Ego autem non quæro glóriam meam: est, qui quærat et jdicet. Amen, amen, dico vobis: si quis sermónem meum serváverit, mortem non vidébit in ætérnum. Dixérunt ergo Judaei: Nunc cognóvimus, quia dæmónium habes. Abraham mórtuus est et Prophétæ; et tu dicis: Si quis sermónem meum serváverit, non gustábit mortem in ætérnum. Numquid tu major es patre nostro Abraham, qui mórtuus est? et Prophétæ mórtui sunt. Quem teípsum facis? Respóndit Jesus: Si ego glorífico meípsum, glória mea nihil est: est Pater meus, qui gloríficat me, quem vos dícitis, quia Deus vester est, et non cognovístis eum: ego autem novi eum: et si díxero, quia non scio eum, ero símilis vobis, mendax. Sed scio eum et sermónem ejus servo. Abraham pater vester exsultávit, ut vidéret diem meum: vidit, et gavísus est. Dixérunt ergo Judaei ad eum: Quinquagínta annos nondum habes, et Abraham vidísti? Dixit eis Jesus: Amen, amen, dico vobis, antequam Abraham fíeret, ego sum. Tulérunt ergo lápides, ut jácerent in eum: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo.” Laus tibi, Christe!

“In quel tempo disse Gesù alla turbe dei Giudei ed ai principi dei Sacerdoti: Chi di voi mi convincerà di peccato. Se vi dico la verità, per qual cagione non mi credete? Chi è da Dio, le parole di Dio ascolta. Voi per questo non le ascoltate, perché non siete da Dio. Gli risposero però i Giudei, e dissero: Non diciamo noi con ragione, che sei un Samaritano e un indemoniato? Rispose Gesù: Io non sono un indemoniato, ma onoro il Padre mio, e voi mi avete vituperato. Ma io non mi prendo pensiero della mia gloria; vi ha chi cura ne prende, e faranno vendetta. In verità, in verità vi dico: Chi custodirà i miei insegnamenti, non vedrà morte in eterno. Gli dissero pertanto i Giudei: Adesso riconosciamo che tu sei un indemoniato. Abramo morì, e i profeti; e tu dici: Chi custodirà i miei insegnamenti, non gusterà morte in eterno. Sei tu forse da più del padre nostro Abramo, il quale morì? e i profeti morirono. Chi pretendi tu di essere? Rispose Gesù: Se io glorifico me stesso, la mia gloria è un niente; è il Padre mio quello che mi glorifica, il quale voi dite che è vostro Dio. Ma non l’avete conosciuto: io sì, che lo conosco; e se dicessi che non lo conosco, sarei bugiardo come voi! Ma io conosco, o osservo le sue parole. Abramo, il padre vostro, sospirò di vedere questo mio giorno: lo vide, e ne tripudiò. Gli dissero però i Giudei: Tu non hai ancora cinquant’anni, e hai veduto Abramo? Disse loro Gesù: In verità, in verità vi dico: prima che fosse fatto Abramo, io sono. Diedero perciò di piglio a de’ sassi per tirarglieli: ma Gesù si nascose, e uscì dal tempio” (Jo. VIII, 46 59).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LE CREATURE SCACCIANO IL CREATORE

Il capitolo VIII di S. Giovanni, uno dei più difficili e nel medesimo tempo dei più sublimi di tutto il Vangelo, narra che Gesù per togliere qualsiasi pretesto alla malafede di certa gente, a viso aperto si proclamò per quello che era: il Supremo Bene degli uomini, cioè Dio. Ma appena il Creatore si fece conoscere, le sue creature lo aggredirono con una sassaiola. Il manifestarsi di Gesù si svolge in tre momenti, seguiti da un epilogo tragico: dapprima si manifesta come Luce del mondo, poi come Libertà, infine come Vita. A ciascun momento s’accompagna una suprema promessa e una suprema minaccia: sono gli ultimi tentativi dell’Amore infinito per sollecitare le anime ad amarlo. Ma l’uomo ha un terribile dono: la libertà. L’uomo è libero di rovinarsi, è libero fino al punto di costringere Dio a ritirarsi. – Gesù si proclama Luce. — La festa dei Tabernacoli era finita ed i forestieri erano ritornati ai loro paesi. Gesù nel cortile del tempio parlava dunque a quei di Gerusalemme, tra cui c’erano i suoi nemici già decisi ad ucciderlo. Mentre le sfavillanti luminarie ormai agonizzavano, Egli esclamò: «Io sono la luce del mondo! chi mi segue avrà luce; chi non mi segue camminerà nel buio». A tali parole i Giudei risposero con urli d’ingiuria. – Gesù si proclama Libertà. — Se sentivano che Gesù aveva ragione e nonostante questo l’ingiuriavano, era segno evidente che erano liberi di vedere e di seguire la Verità che brillava davanti a loro. Disse allora Gesù: «Solo il Figlio di Dio può dare la vera libertà. Chi osserva la mia parola sarà libero, chi invece s’abbandona al peccato diventa schiavo del peccato ». – Il Figlio di Dio vedeva la miseranda schiavitù di quegli infelici: costretti a mentire per la paura d’ammettere la Verità che odiavano; costretti ad uccidere il Liberatore per la paura d’essere liberati da quelle maligne passioni che amavano. Bugiardi ed omicidi come il loro padre e padrone, cioè il demonio. – Gesù si proclama Vita— « In verità, in verità vi dico che io sono la Vita. Chi custodirà la mia parola non vedrà la morte in eterno; chi non la custodirà non gusterà mai la vita in eterno ». Davanti alla promessa di vita eterna con cui l’Amore divino cercava di conquistarsi quelle ribelli volontà, scoppiò un maligno scandalo come se tentasse di adescarli con promesse impossibili: « Chi credi di essere? Morirono perfino i profeti. Morì il padre nostro Abramo. E tu dici: «… vivrò in eterno ». Rispose Gesù: « Chi sono, domandatelo pure al padre vostro Abramo che sospirò la mia venuta. E vide che sarei venuto, e trasalì di gioia ». A queste parole inattese, i Giudei si sdegnarono, e cercarono di buttarle in ridicolo: « Non hai ancora cinquant’anni e hai veduto Abramo che è morto da secoli e secoli? ». – L’epilogo tragico. — Di fronte a tanta insolente perfidia, Gesù giudicò inutile proseguire oltre e tagliò il discorso con la più esplicita attestazione: « Prima che Abramo fosse Io sono ». Pesate le parole: se costui che ora come uomo ha poco più di trent’anni, già era prima di Abramo, vuol dire che è sempre stato, che è eterno, che è Dio. – Invece di gettarsi in terra adorando e invocando luce, libertà e vita, i Giudei gridarono alla bestemmia e diedero di piglio ai sassi. S’udì il crepitio violento e rabbioso delle pietre senza bersaglio sul cortile: Gesù era sparito. Avrebbe potuto pietrificare il loro braccio, avrebbe potuto inghiottirli sull’istante nell’inferno: s’accontentò di ritirarsi, perché Dio è paziente. Ma una parola terribile lasciava dietro di sé: « Io me ne vado, ma voi un giorno mi cercherete e morrete nel vostro peccato ». Mai come oggi gli uomini, individui e nazioni, ebbero bisogno di meditare queste pagine del Vangelo. Gli anni torbidi che abbiamo sortito di vivere sono quelli di una grande lotta: la lotta delle creature per scacciare il Creatore. Quando il Papa parla del pericolo del Comunismo non intende parlare di una forma di governo, o un regime economico, ma della minaccia di costringere Cristo ad andarsene via da noi. Se questo pericolo è grande e reale, è perché Cristo già è stato scacciato da troppe coscienze. La cacciata di Cristo dalle nazioni, la cacciata di Cristo dalle coscienze, sono i due dolorosi pensieri per questa domenica di passione. – 1. CRISTO SCACCIATO DALLE NAZIONI. Possiamo fare dei nomi perché più volte sono venuti sulle labbra del Papa che accenti d’un amore sofferente. Nella Russia, nella Spagna, nel Messico, ed in altri paesi si sono fatti e si fanno inauditi sforzi per discacciare Cristo. – a) Io sono la Luce! » proclama Cristo; ma la sua luce celeste è maledetta, è soffocata. Soffocata nelle scuole dove è proibito insegnare la verità cristiana, ma si deve inculcare alla gioventù l’ateismo e il paganesimo. Soffocata nella stampa, perché i giornali cattolici sono soppressi, e si bruciano i libri di preghiera, le Bibbie, i Messali. Soffocata sulle labbra dei sacerdoti massacrati e dispersi, o, dove ancora sono tollerati, come in qualche paese, costretti a tacere molta parte della verità. Perfino dalle tombe dei morti, in Russia è scacciato Cristo perché non possa più diffondere la consolazione della luce perpetua: e i marmi e le lapidi dei sepolcri profanati servono a rinnovare il lastricato delle babeliche città dei Sovieti. – b) « Io sono la Vita! » proclama Cristo. Ma la sua vita è disprezzata come una debolezza, come una malinconia; il suo paradiso è schernito come una favola della nonna. Vogliono il pane e il piacere quotidiano, la potenza e la prepotenza, il dominio e il predominio. Non le sorgenti della grazia ma i pozzi di petrolio, non le buone ispirazioni ma i gas e gli aeroplani. – c) «Io sono la Libertà! » proclama Cristo. Ma la libertà, difesa dai suoi dieci Comandamenti, fu respinta come la peggiore delle schiavitù. La scuola, la stampa, la radio, i cinema, i dischi, le officine, le borse, i mercati, i trattati internazionali gridano la ribellione a Cristo. Ma quale nuova libertà fu dunque instaurata? Quella che non lascia liberi nemmeno di professare la fede della propria coscienza, e di credere al Dio che ci ha creati e redenti. – Ed anche nelle nazioni dove a Cristo non fu dichiarata apertamente la guerra, gli è riserbata la parte del sopportato. La legislazione moderna prescinde dalla esistenza del suo divino amore. Ed è per questo che il mondo moderno è scardinato, e che la vecchia Europa è inquieta e cupa. L’asse intorno a cui deve girare il mondo se vuole ritrovare la pace, è il Vangelo: ad un estremo sta Gesù e il Paradiso, all’altro il Papa e la Chiesa che quaggiù ancora soffre, combatte e prega. – Giorgio Clemenceau, che i francesi chiamarono « Padre della Vittoria », e molti « il tigre », qualche tempo prima di morire considerando la decrescenza della popolazione, la frivolezza, la ricerca dei piaceri, che minacciavano la Francia moderna, disse: «Io non credo a Cristo, e non sono neppure battezzato. Ma son persuaso che l’unica forza che potrebbe salvare la Francia è l’ideale evangelico. Se tutti i Cristiani avessero nelle vene una goccia del sangue di Francesco d’Assisi, io crederei alla resurrezione della patria… ». Preziosa confessione che vale non appena per la Francia ma per tutti gli Stati…  Ma i Cristiani hanno davvero nella loro coscienza, vivo e ardente, l’ideale di Cristo come l’aveva S. Francesco? – CRISTO SCACCIATO DALLE COSCIENZE. Purtroppo, Cristo è perseguitato anche in moltissime coscienze. Per brevità mi limito a cogliere qualche punto del dibattito tremendo e silenzioso che in questi giorni, forse in questo momento avviene fra Cristo e l’anima. — Voce senza strepito di Cristo: «Oggi incomincia il tempo del precetto pasquale. Farai quest’anno la buona Pasqua? ». Dice l’uomo: «Non ho bisogno di far Pasqua, come tanti impostori. Anche senza la Pasqua, io sono sempre stato un uomo onesto che del male ne riceve, ma non ne fa a nessuno, tanto meno a Dio ». — Riprende la Voce interiore: « Non mentire a te stesso: la tua onestà è apparenza per gli altri, non realtà per te che sai tutto. Non è vero che inorridiresti se gli altri, se i tuoi di casa sapessero quello che hai fatto in questo mese, in questo anno, in questi anni? E non inorridisci al pensiero che Dio lo sa? E poi se anche fossi onesto, trascurando il precetto pasquale, cesseresti di esserlo, perché negheresti a Dio un suo diritto ». « Con Dio me la intendo da solo: non c’è bisogno di prete, né di confessione ». — La Voce non si spaventa per questa sdegnosa risposta e sussurra: «Se non te la intendi con la Chiesa non puoi intendertela con Cristo che ha istituito la Chiesa e che ha detto agli Apostoli e ai loro successori, compresi i preti, « chi non ascolta voi non ascolta me ». E se rinneghi la testimonianza del suo divin Figlio come vuoi pretendere d’aver Dio per Padre? ». « Ascoltare la Chiesa, ascoltare i preti… e poi se non è vero niente, né il Paradiso, né l’Inferno, né Dio, né la Madonna… ». — La Voce allora con dolce solennità: « Tu dubiti, sei cieco: accostati con purezza e buona volontà a Cristo che ti illuminerà, ti darà la certezza. Egli è la Luce ». «Se mi accosto a Lui nella confessione, mi imporrà di lasciare certe abitudini, esigerà la rinuncia a quel guadagno; a quella relazione, a quel divertimento; mi imporrà la Messa, la Dottrina cristiana, la Comunione frequente… ». — « Ah tu sei schiavo!» esclama la Voce interiore; « ed ami le tue catene, ed hai paura che Cristo ti liberi: Egli è la Libertà. Se non ti accosti a Lui, sarai l’eterno schiavo dei tuoi peccati e del demonio ». Ma l’uomo rabbioso grida: « Taci: non sono schiavo di nessuno, e faccio quello che voglio io. E voglio scacciare Cristo perché mi rende noiosa e triste la vita». — « Ma è Lui la Vita, la vera Vita » grida la voce. «È una vita impossibile per me, se Egli m’impone quella sua inflessibile legge o se mi strappa dal cuore quella creatura che mi è indispensabile. Se ne vada, se ne vada una benedetta volta, e mi lasci godere in pace ». Così Cristo è costretto a ritirarsi dalla coscienza che non vuol fare Pasqua, e dice forse la terribile minaccia: « Me ne vado: ma un giorno mi cercherete e morrete nel vostro peccato ». – Meglio conchiudere con un pensiero consolante. L’11 ottobre 368 dell’era volgare, una spaventosa catastrofe colpì la città  di Nicea. Nell’oscurità e nel sonno, terribili sussulti di terremoto scossero la splendida città e la rovesciarono. Quasi tutti perirono sotto la rovina. Ma Cesario, il governatore che era ancora pagano, rimase a mezzo sepolto fra le travi del suo palazzo; mentre il suo corpo soffriva spasimi indicibili, nel suo spirito brillò la verità della vita. « Addio mondo crollante e ingannatore! — disse — ora voglio cercarmi un’abitazione che non crolli più ». Estratto dalle macerie chiese il Battesimo, distribuì i suoi beni ai poveri, decise di rinnovare nel Signore la vita. Dio s’accontentò. della sua buona volontà: alcuni giorni dopo il Battesimo, cadde ammalato, e morì che portava ancora la veste bianca dei neo-battezzati. (MIGNE, P. G., XXV, 774). Cristiani, oggi ancora par proprio che tutto il mondo sia sorpreso da un pauroso terremoto morale, par proprio che tutto crolli… gli ordini sociali e le coscienze. Questo doloroso spettacolo d’un mondo senza Cristo spinga ciascuno di voi ad una santa risoluzione: « Farò una buona Pasqua, rinnovellerò in Cristo la mia vita; mi cercherò una dimora che non crolli su me e mi soffochi nell’ora della morte ».

DUE NATURE IN UNA PERSONA. Antequam Abraham fieret ego sum. Gesù poteva dire queste parole, e con tutta merito perché se in Lui v’era natura misurata dal tempo, — la umana, — ve n’era un’altra non misurata se non dalla eternità, — la divina. Come uomo aveva una trentina d’anni appena, cresceva, invecchiava; come Dio era stato e prima d’Abramo e prima d’Adamo, sempre, perché non ha principio né fine: è eterno. Osservate un uomo e vedrete che a formarlo vi concorrono due cose, cioè l’anima e il corpo. E benché nell’uomo altra cosa sia il corpo e altra cosa sia l’anima, pure il corpo e l’anima uniti insieme formano un unico uomo: così benché in Gesù altra cosa sia la natura umana e altra cosa la natura divina, pure in Lui formano una stessissima persona: Gesù Cristo, l’uomo-Dio. I Giudei non l’hanno voluto riconoscere come Dio, l’Eterno che esisteva con Abramo e prima, ed hanno preso le pietre, che stavano ammucchiate per la fabbrica non finita del tempio; e lo volevano lapidare quasi avesse detto una bestemmia. Noi invece crediamo che in quel momento Egli disvelava il mistero della sua incarnazione. Il mondo; come gli antichi Giudei, non vuol conoscere Gesù Cristo perché non vuole amarlo; ma noi invece domandiamo allo Spirito Santo perché aguzzi la nostra mente a penetrare nella persona del Figlio di Dio. Conoscere Dio, conoscere il suo Figlio che ci ha mandato, ecco la vita eterna: tutto il resto è vanità. Hæc est vita æterna ut cognoscant te et quem misisti, Jesum Christum. – GESÙ è vero Dio. « In verità ve lo dico: chi osserva la mia parola non morirà in eterno» dice Gesù nel Vangelo di questa domenica. Strana promessa! Gli imperatori ai sudditi obbedienti concedono contee e marchesati; gli scienziati agli scolari più attenti danno la scienza e i diplomi; i ricchi ai servi fedeli concedono danaro abbondante: beni questi che durano fin quando dura l’uomo quaggiù. Ma chi può donare una vita beata, dopo che il corpo è caduto nel sepolcro, una vita beata che non conosca la morte? Solo Dio. Ebbene, allora Gesù è Dio. – Una volta, in una strada solitaria nelle vicinanze di Cesarea di Filippo, Gesù aveva chiesto cosa dicesse la gente di Lui, E i discepoli gli risposero: « Alcuni dicono che sei Giovanni Battista ricomparso sulla terra, altri dicono che sei Elia o Geremia o uno degli antichi profeti resuscitati ». Ma queste ingenue e grossolane supposizioni non accontentarono Gesù; Egli vuol saper proprio da loro una risposta definitiva. « Ma voi, che dite ch’io sia? » Allora Simon Pietro sentì nel suo cuore una grande illuminazione che lo fece esclamare: « Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente ». La verità era detta finalmente, Gesù era contento. « Beato te, Simone, figlio di Giona! questo non ti è stato rivelato dalla carne o dal sangue ma dal Padre mio ch’è nei cieli ». Gesù Cristo, dunque, è Dio: Egli l’ha detto, gli uomini l’hanno confessato. È la seconda Persona della Santissima Trinità, che col Padre e con lo Spirito Santo vive e regna fin prima d’Abramo, prima che fosse l’uomo, prima che fosse la terra e le stelle. Gesù come Dio è uguale al Padre. A Filippo, che gli chiedeva di vedere il Padre, così rispose: « Chi vede me, Filippo, vede il Padre. Non credi forse che Io sono nel Padre e il Padre in me? Io, il Padre e lo Spirito Santo siamo un Dio solo. Ego et Pater unum sumus. Se non vuoi credere alle mie parole credi alle mie opere » (Giov., X, 30). E le opere lo proclamano Dio. Chi infatti può perdonare i peccati se non Dio? Chi può risuscitare i morti e risuscitare se stesso dopo tre giorni di sepoltura? Chi può sull’attimo mondare dalla lebbra, guarire un moribondo, raddrizzare uno storpio? Chi può far tacere la violenza del vento e quietare un mare in burrasca, se non Dio? E Cristo tutto questo ha fatto: dunque è vero Dio. Vero Dio, Cristiani! E noi, quante volte come i Giudei, invece di adorarlo, abbiamo lanciato sassi contro di Lui! Le bestemmie, le irriverenze alla chiesa dov’Egli abita, i sacrilegi, i peccati non sono forse le pietre che ogni giorno si lanciano contro il Dio incarnato, quasi a lapidarlo? – GESÙ È VERO UOMO. Dio per il peccato d’Adamo era stato offeso, e voleva essere soddisfatto. Ma tra gli uomini nessuno poteva rendere questa soddisfazione al suo Creatore, perché ciascuno, già vilissimo in sé, era caduto anche nella maledizione. Ci voleva dunque Uno che fosse Dio: ma fosse anche Uomo, perché Dio non potendo patire non poteva soddisfare per noi. Ecco il Verbo, perché seconda Persona della Trinità, l’uguale al Padre, l’Eterno, che nel seno di una Vergine prende umana carne e nasce uomo. Et Verbum caro factum est. Uomo come noi: patì il freddo, la sete, la fame, la stanchezza, la melanconia, tutte le nostre debolezze. Tutte, tranne una: il peccato. Oh, com’è sublime la figura di Gesù, quando dall’alto della marmorea gradinata del tempio, nel bagliore tremante dei candelabri giganteschi, riguarda i suoi nemici e grida: « Chi di voi può accusarmi anche di un peccato solo? » Tutti digrignarono i denti, ma nessuno poté raccogliere la sfida terribile. Ricordate voi che domenica è questa che noi celebriamo? La domenica di Passione. Ecco la prova più stringente dell’umanità di N. S. Gesù Cristo: occorreva essere Uomo per soffrire e morire, occorreva essere Dio per dare a questi patimenti un valore infinito. La santa Chiesa, da quest’oggi fino a Pasqua, vuole che i fedeli vadano ricordando ad uno ad uno i dolori della Passione del Salvatore. – Pensate: scendere dal Cielo, camminare per strade polverose e fangose, sotto sole o la pioggia, in cerca di uomini da istruire, da sanare ed eccolo costretto a nascondersi perché gli uomini gli fanno la sassaiola. Istituisce la santa Eucaristia per rimanere sempre quaggiù, per vederci, per sentirci, per confortarci, ed ecco che la sera stessa della istituzione v’è Giuda che sacrilegamente lo riceve e lo tradisce. In queste notti che precedono la Pasqua, pensate alla notte d’agonia: tutti dormivano, ma non poteva dormire Lui che sapeva della sua morte vicina, che sapeva che i suoi patimenti erano sprecati per tante anime disgraziate, e allora da ogni poro stillò sangue, e mandò un gemito: « L’anima mia è triste fino alla morte! » Vedetelo in queste due settimane tutto flagellato, coronato di spine, lordato nel volto maestoso; immaginate d’ascoltare il grido bestiale della folla: « Morte a costui! Sia crocifisso coi ladroni! Noi non lo vogliamo! Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figliuoli! ». Ogni pomeriggio, alle tre, mandate il vostro pensiero e un palpito di compassione a quel lontano venerdì quando una fitta tenda di tenebre velò il sole, e nel buio il pallido corpo del Redentore pareva un rogo di dolore dove ardevano, tutti insieme, i dolori del mondo. La crocefissione è il più crudele e orribile dei supplizi: Gesù l’ha voluto per sé.  Il tradimento degli amici intimi e beneficati è l’umiliazione più atroce: Gesù l’ha voluta per sé. Ha voluto tutta l’amarezza e lo spasimo fino a consumarlo tutto. «Tutto è consumato! ». E fu soltanto per amore di noi. – Ad Antignana, in Italia, Federico Ozanam s’aggravava per un malore mortale. Una notte, il fratello che vigilava al suo letto s’accorse ch’egli piangeva silenziosamente. « Perché sei così triste? — gli chiese abbracciandolo. — Non vedi il tuo fratello vicino a te? Presto ritorneremo alla dolce Francia ». Ma egli, con voce velata di pianto e di amarezza sconfinata, rispose: « Caro fratello! quand’io penso alla passione di nostro Signore e penso che gli uomini ancora fan tanti peccati contro di Lui non posso non piangere ». E dimentico dei propri dolori e del proprio stato mortale, sentendo soltanto il dolore e l’amore di Gesù, piangeva. – O Cristiani, almeno oggi, ch’è la domenica di Passione, ricordiamo anche noi il dolore e l’amore di Gesù. Per la nostra salute discese dal Cielo: e si incarnò per virtù dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria: e si fece uomo: e patì sotto Ponzio Pilato: e fu sepolto. « Passus et sepultus est ». Ricordiamolo oggi, e sempre, ma specialmente nel momento della tentazione. Aveva ragione S. Paolo di gridare: « Se qualcuno non ama nostro Signore Gesù Cristo, — il Dio-Uomo, — sia scomunicato ».

LA PAROLA DI DIO

Poche sono le pagine della storia che possono suscitare in noi tanta pietà, come quella che narra la fine di Luigi XVI. L’infelice re, sorpreso dalla rivoluzione mentre fuggiva, fu costretto a salire la ghigliottina. Dall’alto del palco ferale, pallido come se già lo coprisse l’ala della morte, guardò tutto il suo popolo e desiderò di porger il saluto estremo. « Popolo mio… ». Ma i tamburi rullarono disperatamente a seppellire la voce. Non lo volevano sentire. Una scena simile avvenne attorno a Gesù, nei giorni in cui viveva in Palestina. I giudei non potendo resistere alla parola di Cristo, che smascherava la loro ipocrisia e sbatteva a terra la loro superbia, cercavano di soffocare con le urla la voce divina. «Samaritano! Indemoniato! ». Ma Gesù, calmo e solenne, così fustigava: «Chi è da Dio, ascolta la parola di Dio. Ma voi non la volete ascoltare, perché non siete da Dio; in verità, in verità io vi dico: chi « ascolterà la mia parola non morrà morte, mai». E quelli di nuovo: «Samaritano! Indemoniato! che cosa credi di essere? Da più dei profeti? da più di Abramo? ». E Gesù: « Non ho bisogno di difendermi dai vostri insulti: Dio mi difende e mi glorifica. Ma voi non lo conoscete Dio: io lo conosco perché osservo la sua parola ». I Giudei presero i sassi per lapidarlo: Gesù sparve e uscì dal tempio. Non fremiamo di sdegno contro i Giudei, perché di gente che non vuol ascoltare la parola di Dio ce n’è anche oggi, e non poca, e tra gli stessi Cristiani. E se non è col rullo dei tamburi, se non coi sassi, si sono trovati però più facili ripieghi per non essere disturbati dalla voce salutare del sacerdote che annuncia la parola di Dio. ,Consideriamo noi invece l’importanza della parola di Dio e i motivi per cui la parola divina è resa infruttuosa. Lo spirito Santo diffonda il lume nella nostra mente e l’amore nel nostro cuore, poiché si tratta di valorizzare la sua parola. – LA PAROLA DI DIO È ONNIPOTENTE. Il grande Salomone chiamò la parola di Dio « omnipotens sermo ». E disse egregiamente:  a) La parola: di Dio è onnipotente nell’ordine naturale. In principio, quando ancora e cielo e terra non erano che un ammasso informe e tenebroso come la bocca d’un abisso, echeggiò la parola di Dio. «Sia fatta la luce! » E fuori dal buio balzò magnifica la luce a rischiarare il giovane mondo. E così, dietro al grido di Dio che le chiamava fuori dal nulla, uscirono tutte le creature, e il velo azzurro del firmamento e le acque e la terra: e nel firmamento gli astri; e nelle acque i pesci; e sulla terra le piante con la virtù di produrre il seme, e gli uccelli, e l’uomo. È questa parola che un giorno placò la furia del mar di Genezaret e la raffica di vento che minacciava di travolgere una barca con dodici pescatori. È questa parola che snodò la lingua e riaprì l’udito ad un giovane sordo e muto., È per la virtù di questa parola che il paralitico, da trentotto anni languente sotto il portico della piscina, poté rizzarsi ancora, prendersi il pagliericcio e camminare verso casa sua. A questa parola, i poveri lebbrosi sentivano rifarsi i tessuti corrosi e piagati, sentivano una nuova onda di vita risalir per le vene. E quando questa parola echeggiò imperante sulla tomba d’un amico, perfin la morte inesorabile dovette ascoltarla: e il morto quatriduano balzò fuori alla vita. – b) Onnipotente è questa parola nell’ordine soprannaturale. Gesù trova un uomo immerso negli affari e nelle esosità, che — forse — non aveva mai saputo sollevare d’un palmo il suo cuore sopra l’interesse materiale e gli disse: « Veni, sequere me! ». Quell’uomo è sconvolto: si sente un altro uomo e comincia ad amare ciò che prima aveva odiato, ad odiare ciò che prima aveva amato. C’era una donna, scandalo della città. Il suo cuore era in tumulto: la passione impura l’aveva bruciacchiato, l’aveva lordato come nelle brutture d’un trogolo, ed ora lo sbatteva come un vento di furiosa tempesta. Le dice Gesù: « Donna, va in pace e non peccare ancora ». E quel cuore si spense di ogni fuoco terreno e brutale e solo arse d’un amore purificante verso il Signore. E divenne santa e meritò di veder Gesù appena risorto. «Vox Domini confrigentis cedros » (Ps., XXVIII): è la voce di Dio come una scure che atterra ogni superbia degli uomini. « Vox Domini intercidentis flammam ignis »: è la voce di Dio come un’onda che sgorga da recondite scaturigini a spegnere nei cuori la fiamma delle passioni. «Vox Domini concutientis solitudinem » : è la voce di Dio che sa scuotere l’uomo intorpidito da lunghi anni nella colpa. «Vox Domini, in virtute! Vox Domini in magnificentia! ». c) Non crediate però che la parola di Dio diminuisca di virtù se a noi giunge attraverso la voce di un uomo; – Appena uscì dalla bocca di Giosuè, il sole si arrestò nella sua corsa di fuoco. Appena uscì dal labbro di Mosè, le acque si divisero, ergendosi come una muraglia; e tutto il popolo traversò il Mar Rosso. Adoperata da Elia, il cielo si aperse o chiuse. Annunciata da pochi pescatori, si fece udire in tutto il mondo, fortificò i martiri nell’ora suprema, dissipò i falsi sillogismi dei filosofi, rovesciò la lussuria di Roma, e innalzò sul mondo rigenerato la purezza della croce. La parola di Dio non perde la sua efficacia anche se annunciata da indegni, indegnamente: ella è parola di Dio e prescinde dall’ingegno e dalla santità dei predicatori: opera per virtù propria come i Sacramenti, anzi — sotto questo aspetto meglio dei Sacramenti, perché in questi si richiede alla validità l’intenzione del ministro, mentre la predicazione ne prescinde. Ecco la virtù della parola di Dio! ma perché allora ai giorni nostri, in cui ella è annunciata così largamente, non produce quei mirabili effetti? Perché si ascolta male, o peggio, perché non si ascolta più. – RESISTENZA UMANA ALLA PAROLA DIVINE. a) Gli uomini ascoltano male la parola di Dio. Al tempo delle eresie Dio suscitò un magnifico annunciatore del Vangelo: S. Antonio da Padova. La gente accorreva da ogni parte al suo passaggio, così che le chiese erano troppo anguste, ed il Santo doveva predicare nelle piazze. Il demonio non poté darsi pace. E talvolta, per distrarre gli uditori, incendiava una casa vicina, tal’altra faceva comparire un’invasione di lucertole che strisciavano sui piedi degli ascoltanti. Un giorno, mentre, tutti tacevano e ascoltavano con molto frutto, ecco sopraggiungere numerosi cavalieri a tutta corsa: e distribuivano lettere e plichi alle donne. E tutte incuriosite aprono e leggono e intanto perdono il frutto della divina parola. – Non crediate che il nemico delle anime oggi stia tranquillo: solo che non ha più bisogno di ricorrere a mezzi straordinari, perché i Cristiani troppo facilmente sono disposti ad abusare delle parole di Dio. Alcuni ascoltano la parola di Dio, come fosse parola dell’uomo. Ricercano i pensieri peregrini, e l’armoniosità dello stile che blandisca l’orecchio. Altri l’ascoltano come parola di Dio, ma quello che ricevono, tutto distribuiscono: « Questo accenno è proprio per la tal persona… questo difetto è caratteristico per quell’altra… oh, se ci fosse il tale a sentir queste parole! quadrano per lui… E per sé non tengono nulla: mentre tutta la predica era per loro. Altri ascoltano con spirito di malignità: e vanno a cercare in ogni frase delle maligne o personali allusioni. Altri l’ascoltano con spirito di mondanità: e mentre il ministro di Dio parla,  essi volgono gli occhi in giro per vedere ed essere veduti. Altri ancora sembrano ascoltarla: ma il loro pensiero va e va… dietro, forse, dietro ad invisibili dispacci portati dagli invisibili cavalieri del demonio. Altri infine l’ascoltano, ma con mala voglia, con sbadigli e pisolini. – b) Molti non ascoltano più la parola di Dio. « Non di solo pane vive l’uomo: ma di ogni parola che viene da Dio ». Dunque la parola di Dio è il nostro cibo sostanziale, e chi lo rifiuta si condanna a morire. Qualche pomeriggio di primavera, nella dolce stagione in cui pare che un palpito muovo di vita trascorra, fluttuando, nel mondo, vi accadde senza dubbio di vedere, seduto sulla soglia di casa, o per qualche viottolo solitario, qualche giovane malato di tisi. Vi cammina dolorosamente davanti: ha negli occhi dilatati l’ombra misteriosa della morte, ha le guance scarne, ha un tossire secco come colpetti all’uscio di uno che chiede d’entrare. Il medico scrolla la testa e dice: « Non vedrà le spighe mature. E il padre con un singhiozzo lacerante: «Ma perché, dottore?… ». « Non vedete? il cibo gli fa nausea: non mangia più ». E fa spavento pensare come ai nostri tempi, quest’etisia dell’anima fa stragi in mezzo agli uomini. Entrate in una chiesa, nei pomeriggi delle domeniche durante la spiegazione della dottrina: che solitudine! Pochi vecchi tremolanti e panche vuote. Ma perché? Se proprio volessimo indagare fino a fondo lo troveremmo il motivo: in alcuni un attacco vergognoso ai piaceri del senso, in altri l’insaziabile ingordigia dei beni terreni. Come possono costoro gustare una parola che è tutta austerità ed evangelica povertà? – Il re Artaserse si nutriva con cibi squisitissimi. Ma venuta la guerra, sconfitto, fuggiva ramingo ed affamato per le montagne. Vide una capanna: bussò ma per la sua fame trovò solo un ruvido pan d’orzo. Divorando però lo trovò gustosissimo e cominciò a lamentarsi con gli dei che fino a quel giorno gli avevano tenuto nascosto quel delizioso piacere. Così sarà di noi: quando avremo ascoltato con fede, con umiltà, con docilità la parola di Dio vi sentiremo tanta dolcezza e tanto sapore spirituale, da esclamare con meraviglia: « Come mai non mi ero accorto prima? ».

IL CREDO

 Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 17, 107

Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: retríbue servo tuo: vivam, et custódiam sermónes tuos: vivífica me secúndum verbum tuum, Dómine.

[Ti glorífico, o Signore, con tutto il mio cuore: concedi al tuo servo: che io viva e metta in pràtica la tua parola: dònami la vita secondo la tua parola.]

Secreta

Hæc múnera, quaesumus Dómine, ei víncula nostræ pravitátis absólvant, et tuæ nobis misericórdiæ dona concílient.

[Ti preghiamo, o Signore, perché questi doni ci líberino dalle catene della nostra perversità e ci otténgano i frutti della tua misericórdia.]

COMUNIONE SPIRITUALE

 Communio

1 Cor XI: 24, 25

Hoc corpus, quod pro vobis tradétur: hic calix novi Testaménti est in meo sánguine, dicit Dóminus: hoc fácite, quotiescúmque súmitis, in meam commemoratiónem.

[Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi: questo càlice è il nuovo patto nel mio sangue, dice il Signore: tutte le volte che ne berrete, fàtelo in mia memoria.]

Postcommunio

Orémus.

Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos tuis mystériis recreásti, perpétuis defénde subsidiis.

[Assístici, o Signore Dio nostro: e difendi incessantemente col tuo aiuto coloro che hai ravvivato per mezzo dei tuoi misteri.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (198)

DIO CI LIBERI, CHE SAPIENTI!. CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA! (1)

PER Monsig. BELASIO

TORINO, 1878 – TIPOGRAFIA E LIBRERIA SALESIANA

San Pier d’Arena – Nizza Marittima.

Tip. E libr. Salesiana, Torino 1878

AI NOSTRI LETTORI

La lotta che la Chiesa Cattolica sostiene da diciotto secoli contro la irreligione e l’incredulità, sebbene sotto varie forme, è sempre la stessa. Nei primi secoli del Cristianesimo venne attaccata e messa in dubbio la Divinità del nostro Signor Gesù Cristo, e così quei primi oppositori rifuggendo dalla sua dottrina, non volevano accettare i precetti del suo Vangelo. Più tardi, dagli Eretici tutti si diressero i più vivi assalti contrò l’autorità della Chiesa, e messi in non cale i suoi insegnamenti, si volle scosso ogni giogo di dipendenza dalla sua materna autorità. – In questi ultimi tempi, gli sforzi dell’incredulità mirano ancor più alto, giacché colle moderne dottrine si fa ogni conato per distruggere ogni idea d’esistenza di un Dio Creatore, Conservatore e Padrone di tutte le cose. Per tal guisa, infranto ogni legame di sudditanza, si misconoscono tutte le leggi d’ordine morale, unico valido freno delle umane passioni. Questo genere di attacco riesce tanto più pernicioso in quanto che fondandosi sopra argomenti, che si fanno derivare da un empirico apparato di scienze fisico-geologiche, appoggiate a nuove scoperte e fatti che sì danno per veri a tutta prova, accortamente nascondono con maligno inganno la propria falsità, massime a quelli che digiuni di tali scienze non sono sempre al caso di discoprirne il tradimento. Quando un professore di scienze naturali ti si fa innanzi snocciolando astratti sistemi di forze fisiche, di materia eterna modificantesi in mille guise, di produzioni e riproduzioni spontanee, di uomini preistorici ed altri simili trovati, ed all’appoggio di madornali spropositi viene citando, quali indiscutibili verità, fatti e scoperte, il più delle volte adulterate e false; quando sopra tali dati edificando nuove teorie di origine spontanea delle cose, di leggi fisiche che esistono senza un legislatore che le abbia pria dettate, ma sussistenti per la natura stessa della materia, quindi lo sviluppo di ogni essere l’uno dagli altri derivante fino alla formazione dell’uomo stesso, colle sue facoltà intellettuali e ragionevoli, per poi dedurne la superfluità di una Causa prima, e farsi strada a togliere di mezzo ogni idea dell’esistenza di un Dio Creatore; la maggioranza dei meno istruiti facendo di berretto all’ingarbugliato profluvio di tanta scienza, accoglie come vere le più strane teorie, che poggiano sopra dati onninamente erronei e sopra fatti male interpretati o assolutamente falsi. Quindi pur troppo s’ingenera nelle menti dei più il dubbio sulle principali verità di nostra S. Fede; dal dubbio si passa all’indifferenza, e da questa, secondata dalle passioni di un cuore corrotto, si arriva ad una totale deplorabile incredulità. – A combattere siffatti sistemi venne in buon punto la dotta penna del chiarissimo Mons. Antonio Maria Belasio, il quale in un suo libro intitolato: Le verità cattoliche esposte, al popolo ed ai dotti, nella spiegazione del Credo e la moderna incredulità confusa dalle scienze moderne, mise in piena luce le principali fallacie dei moderni sedicenti Scienziati, e smascherando i molti errori che e nei libri e dalle cattedre, anche nelle piccole scuole si ammanniscono alla gioventù ed al popolo, mette in piena evidenza la necessità di ammettere un Dio Creatore. (*) – Ne deduce quindi il dovere di venerarlo e di obbedirlo ne’ suoi precetti, e come corollario dimostra il dovere di riconoscere e di credere le principali verità della Religione Cattolica, quali ci vengono insegnate dalla buona Madre nostra la S. Chiesa. A rendere più facile l’intelligenza delle questioni che vi sì discutono, vi aggiunse un piccolo trattato di Geologia, che alla portata pur anco dei meno eruditi, presenta una netta idea delle più importanti scoperte della scienza moderna; e con questo poté conchiudere che la nostra S. Religione non solo non paventa gli attacchi che le possono essere diretti all’appoggio di tali scoperte, che anzi le invoca, e facendosi forte della vera scienza, viemmaggiormente si consolida, e più gloriosa e più pura risorge da tali combattimenti. Sicché si deve conchiudere che le moderne scienze colle loro scoperte lavorano al trionfo della Verità cattolica. – Questo prezioso lavoro dovrebbe essere alla mano di tutti, e se ne raccomanda la lettura ad ogni genere di persone; siccome però la sua mole eccede la portata delle nostre mensili distribuzioni, si è pregato il chiarissimo Autore a restringerne la sostanza in un riassunto di minori proporzioni, che possa bastare ai meno capaci di lunghe letture, e che valga pure ad animare i più a procurarsi l’opera di maggior mole, quale arma di prima necessità contro gli odierni attacchi, che si muovono alle credenze di tutti i fedeli”. – Gli errori in voga pur troppo si sono resi popolari, ed in questo nostro fascicolo contenente il riassunto dell’Opera, compilato dallo stesso Autore, questi errori vengono confutati in modo anche popolare, con un brio da allettare ogni classe di lettori, divertendo ed istruendo allegramente ed alla buona. – Questo è quanto offriamo ai lettori delle Letture Cattoliche nel presente fascicolo col titolo: DIO CI LIBERI! CHE SAPIENTI !… CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA! – L’amenità dello scritto ridotto a piacevole conversazione, l’importanza degli argomenti che vi sì svolgono, l’abbondanza di utili e dilettevoli scientifiche nozioni trattate con quella amorevolezza che è propria del chiaro Autore; ci sono garanti che la presente distribuzione riuscirà accetta ai nostri lettori, quale più prezioso regalo, mentre sarà sorgente di utilissimi ammaestramenti per smascherare vittoriosamente le insulse dottrine che a danno della Fede si vanno maliziosamente spargendo fra il popolo e nelle scuole, e in tanti libercoli e giornali, e nelle famigliari domestiche conversazioni. –  Il Signore benedica gli sforzi dell’illustre Autore, e ne lo compensi colla salvezza di qualche illuso.

Per la Direzione: Conte C. CAYS Salesiano.

(*) Purtroppo, Monsignor Belasio, benché sostenuto dall’ottimo intento di smascherare le falsità pseudo scientifiche divulgate giù ai suoi tempi, ed oggi dominanti nella cosiddetta cultura moderna monolitica del pensiero unico (in gran parte falsa ed artificiosa nel suo ridicolo proposito di contraddire alle verità bibliche e alle rivelazioni cristiane), faceva suo il principale inganno sul quale è costruito tutto il “castello fatato” delle teorie astronomiche  e geologiche edificato maldestramente dalle Accademie dal XVII secolo in poi: il Sistema eliocentrico, cioè il novello culto del dio Mitra, fatto proprio e propagandato in tutte le sette massoniche dalla élite mondialista luciferina, fino al punto da giungere alle ricostruzioni cinematografiche di comici sbarchi sulla luna o improbabili fiabesche esplorazioni di pianeti lontani. Ricordiamo, per inciso, che aderire a queste ridicole teorie indimostrate dai fatti, significa oltretutto – per chi crede di essere Cristiano – cadere nell’anatema ipso facto pronunciato dal Concilio di Trento, ribadito pure da diversi documenti magisteriali, ad es. nel decreto Lamentabili sane exitu di S. Pio X, per chi rifiuti il dogma dell’Inerranza biblica …. anatema sit!!!(n.d.r.)

IL SACRO CUORE DI GESÙ (53)

IL SACRO CUORE (53)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE TERZA.

Sviluppo storico della divozione.

CAPITOLO QUINTO

SFORZI SPECIALI PER ORGANIZZARE E PER DIFFONDERE LA DEVOZIONE

II. – LA COMPAGNIA DI GESÙ. IL CARATTERE DELLA SUA OPEROSITÀ (1)

Alle origini della Compagnia di Gesù, non troviamo né la stessa divozione né le stesse intuizioni che abbiamo trovato in S. Francesco di Sales e alla Visitazione. Non abbiamo testimonianze storiche di qualche divozione speciale di sant’Ignazio, nel senso preciso della parola. La preghiera Anima Christi, che egli pose in principio degli Esercizi spirituali (Si sa che questa preghiera esisteva molto prima di sant’Ignazio. Sembra che fosse stata arricchita di un’indulgenza da Giovanni XXII, ed alcuni autori ne attribuiscono l’origine allo stesso Papa), non contiene l’invocazione: Cor Christi, inflamma me, come vi si trova qualche volta fin dal principio del XVII secolo, se non anche prima. Nel Nacional Homenaje, a pagina 100, si attribuisce a lui un’invocazione, nella quale si nominerebbero i sacri Cuori di Gesù e di Maria. Eccola: « Santa Maria, Madre dei nostri cuori, fate che il cuor nostro divenga simile al Vostro ed a quello del Vostro dolce Figlio, Gesù ». Ma il testo sul quale ci si appoggia non dice quello che gli si fa dire. – Le testimonianze che noi abbiamo, non sono d’ordine propriamente detto storico. Un gesuita, il P. Claudio Bernier (+ 1655), diceva d’aver saputo da nostro Signore che il divin Maestro aveva dato il suo cuore ad Ignazio, come altra volta a santa Caterina da Siena. Questo accadeva molto prima delle grandi manifestazioni del sacro Cuore a santa Margherita Maria. Molto dopo (ci sembra nel 1733) un gesuita spagnolo, il Padre Bernardo di Hoyos, ebbe una rivelazione molto più espressiva, ed ecco come la racconta: sentii il santo Fondatore alla mia destra, e San Francesco Saverio alla mia sinistra… e quando ebbi il caro Cuore mio cuore, mi parve che i due Santi gli tributassero i loro omaggi. Allora Gesù fece cenno al nostro santo Patriarca di parlarmi ed a me di ascoltar la dottrina che mi avrebbe insegnata. Il santo allora, con parole formate e con delle idee che trasmetteva a me senza parlare, dichiarò che la divina Provvidenza voleva concedere alla Compagnia la gloria di vedere i suoi figli propagare il culto del sacro Cuore di Gesù, di ottenere dalla Chiesa la festa desiderata, incaricandosi di farla accettare. Il santo stesso e… san Francesco di Sales, hanno ricevuto la missione di promuovere questa impresa, per mezzo delle loro due famiglie religiose, la Visitazione e la Compagnia ». Come vede, è questa una ripetizione della celebre visione di santa Margherita Maria. Storicamente ecco ciò che si constata. Lo spirito di sant’Ignazio è, secondo l’espressione di S. Maria Maddalena dei Pazzi, lo spirito di san Giovanni Evangelista, uno spirito d’amore. Questo spirito sì manifesta nella sua vita e nelle sue Costituzioni. egli Esercizi spirituali non vi è menzione esplicita del sacro Cuore, ma si può dire però che essi dirigono le anime a tale divozione; sia per il modo umano col quale vien loro presentato Gesù, che vuole dalle anime stesse amore e sacrificio; sia per lo studio attento ed amoroso di Gesù, nella sua vita e nella sua morte; per la forza che fa agire e stimola tutto l’amore appassionato dell’uomo per Gesù, in ricambio dell’amore di Gesù per lui. Le meditazioni più terribili, come quella del peccato e quella dell’inferno, finiscono con un colloquio d’amore e di riconoscenza, che potrebbe dirsi un grido del cuore al Cuor di Gesù. Ad ogni momento noi siamo vicini al Cuor di Gesù e come sotto la sua calda influenza; la preghiera Anima Christi non contiene, precisamente, è vero la parola Cuore, ma è piena della sua essenza; la domanda così spesso, così insistentemente ripetuta « di conoscere Gesù intimamente, per amarlo di più e per seguirlo meglio », è tutta nello spirito della divozione; la conformità amorosa di vita e l’unione del Cuore con Gesù, che sono l’anima degli Esercizi, preparano l’esercitante ad entrare in commercio intimo col sacro Cuore, appena che il sacro Cuore gli sarà svelato. – Abbiamo un’ammirabile invocazione di san Francesco Borgia alla piaga del costato; il Cuor di Gesù non vi è nominato, ma non vi manca proprio che la parola cuore. San Luigi Gonzaga è spesso citato come gran devoto del sacro Cuore; ma le due testimonianze che se ne danno, non hanno direttamente alcun valore storico. La pagina è quella di santa Maddalena dei Pazzi, la quale fu udita in una delle sue estasi, dire che Luigi, figlio d’Ignazio, scoccava continuamente dardi d’amore al Cuor del Verbo ». La santa però non diceva « del Verbo incarnato », come alcuni hanno qualche volta tradotto. L’altra testimonianza, ancora meno diretta, riguarda la guarigione miracolosa di Fr. Nicola Celestini, novizio della Compagnia di Gesù a Roma, avvenuta il 9 febbraio 1765, per mezzo di un’apparizione di S. Luigi Gonzaga: « Il Signore, gli disse il santo, da me pregato, ti manda la salute per lavorare ancora alla tua perfezione ed a propagare con tutte le tue forze, la divozione al sacro Cuore, divozione molto cara a tutti i felici abitatori del Paradiso ». E questo avvenne tre giorni dopo il breve di Clemente XIII che accordava, finalmente, l’ufficio e la festa del sacro Cuore. Per avere testimonianze esplicite della devozione al Cuore di Gesù fra i Gesuiti, bisogna adire primieramente a S. Pietro Canisio. Abbiamo visto più sopra (cap. III, par. 3) come il Canisio attinse divozione dal suo maestro Nicola Van Esch e nei suoi rapporti con la Certosa di Colonia; come Dio la sviluppò in lui, con grazie insigni; con quali esercizî la praticava e com’egli impegnava i suoi fratelli in religione a praticarla. Possiamo anche supporre di più; per esempio (e la supposizione è verosimile) possiamo supporre che Pietro Canisio abbia detto a sant’Ignazio, e forse anche ai suoi compagni che erano con lui, la grazia straordinaria ricevuta al momento della sua professione. Ma le supposizioni, per quanto fondate, non si possono dare per fatti storici. – Un altro compagno ed amico di sant’Ignazio, il P. Girolamo Nadal (Egli è riguardato fra i Gesuiti come Uno degli uomini che fecero di più per la Compagnia e specialmente per infonderle lo spirito di S. Ignazio in materia d’orazione e di spiritualità.) (1507-1580), che fu per qualche anno il braccio destro del fondatore, ci ha lasciato tracce della sua divozione al sacro Cuore. Nelle sue note spirituali, ov’egli parla di se stesso in terza persona, designandosi con la parola «qualcuno» (quidam), si legge: « Avendo avuto il presentimento che il Cristo avrebbe trasfuso il suo cuore in quello del suo servo (missurum Christum cor suum ad ejus cor), egli sì domandava con timore, Se questo pensiero non fosse un’illusione presuntuosa (arroganter per illustonem). Egli sentì allora che il Cristo gli concedeva di più ancora (o più di una cosa, plura); cioè che non solamente Egli gli aveva trasfuso il suo Cuore di carne, cioè il suo amore creato, ma altresì il suo Cuore increato ed infinito; e non poteva abbandonarsi interamente a questo pensiero (nec hæc poterat plene cogitare) senza sentire nel suo cuore una grande commozione (motionem) e non so qual forza, che lo faceva cadere come in deliquio (et vim quamdam, in cordis quasi defectionem cogentem) ». Un poco più innanzi si legge: « Elévati verso Dio con lo spirito e il pensiero (spiritu et mente); che il tuo cuore trovi la forza nel Cuore di Cristo, nel celeste soggiorno (consistat vis cordis tui in Corde Christi in cœlestibus); di là tu vedrai Dio nel cuore ed avrai una dolcissima conoscenza di Lui ». – Da ogni pagina di queste note spirituali spira la più grande unione del cuore con Gesù, un’intimità affettuosa con Lui, la dimenticanza di sé, per Lui e per i suoi interessi, un certo gusto dell’umiliazione e del sacrificio per Lui e con Lui, la vita in Lui e come dolce partecipazione al suo spirito; tutti caratteri e tratti che formano i veri devoti del sacro Cuore. – Se noi aggiungiamo a questi fatti quelli che rilevammo sopra, di sant’Alfonso Rodriguez, del P. Baldassare Alvarez, di san Luigi Gonzaga, del P. Nigri moribondo, con i testi di Fr. Decoster, di Salmeron, di Toleto, del Suarez, di Ribadeneira e, senza dubbio, altri ancora (aggiungendovi quello che stiamo per dire dell’immagine), noi avremo i principali esempî di divozione al sacro Cuore, segnalati fin qui, durante il secolo XVI, nella Compagnia di Gesù. Nel XVII secolo fatti e testi si moltiplicano con estrema abbondanza. I fatti mistici non hanno nulla di spiccato ma, i testi ascetici sulla divozione hanno un’estensione ed un’importanza tale da meritare la più seria attenzione dello storico. Per i fatti, il P. de Franciosi, con i tratti della divozione al sacro Cuore, ch’egli ha trovato nei Menologi, o storici della Compagnia di Gesù, ha raccolto anche gli esempi di favori straordinari accordati a Gesuiti devoti del divin Cuore. Ed io mi accontento di segnalarne alcuni. – Il P. Girolamo Dias (1575-1624) si compiaceva di chiudersi alternativamente in ciascuna delle piaghe di Gesù ed al cuore domandava « d’essere sempre leale con lui ». Il P. Giovanni Suffren (1565-1646) aveva fatto sua la pratica santa raccomandata da Luigi di Blois, e tutti i giorni dopo la Messa diceva: « Buon Gesù siate misericordioso per me, povero peccatore. Io rimetto nel vostro dolcissimo Cuore il santo sacrifizio che vi ho ora offerto con tanta tiepidezza e distrazione; degnatevi di correggerlo e di perfezionarlo!». Il P. Giovanni Rigoleuc (1595-1658) domandava continuamente a nostro Signore di cambiargli il cuore e di concedergliene uno nuovo, un cuore largo, libero e magnanimo. Non dice espressamente ch’egli domandasse il Cuore a Gesù, o un cuore simile a quello di Gesù; ma si capisce che doveva essere così; e lo prova anche la divozione speciale ch’egli aveva per i Santi ai quali il Signore aveva cambiato il cuore, trasformandolo nel suo. Il P. Antonio Padilla (1534-1612) diceva morendo a nostro Signore: « Che posso io temere, avendomi Voi detto che mi custodite nel vostro sacro Cuore? E, poichè è così, andiamo dove voi volete; non vi è nulla da temere! ». Il P. Girolamo Ansaldi (1598-1652) mentre celebrava la Messa, fu visto circondato da una nube luminosa nella quale sì vedeva nostro Signore mettere il suo Cuore in quello del suo servo. Come si vede, i fatti particolari non hanno nulla di molto notevole, né di saliente. Perciò soprattutto nella predicazione e negli scritti apparisce la parte notevole che la Compagnia di Gesù ha avuto nella storia della divozione al sacro Cuore, prima di santa Margherita Maria. È una parte tutta di apostolato e di propaganda e tale sarà anche il carattere della missione che nostro Signore affiderà più tardi a santa Margherita Maria. – Ma, avanti di parlare degli scritti, diciamo una parola delle immagini. E veramente non basterebbe per questo una parola; un lungo studio non sarebbe superfluo. Ne abbiamo un primo abbozzo in Desjardins, in Grimoiiard di Saint Laurent e soprattutto in Letierce. In attesa di un lavoro completo di cui sono già stati raccolti gli elementi, debbo qui accontentarmi d’una indicazione generale. Nulla dimostra meglio quanto la profusione delle immagini del Cuor di Gesù, la generalità del movimento che, fin dal XVI secolo, trasportava i Gesuiti verso la devozione al sacro Cuore. – Una tendenza molto diffusa, e che sembra proveniente da S. Pietro Canisio, volle riguardare il Cuor di Gesù, come facente parte col monogramma dello stemma dei Gesuiti. Così lo si trova con il monogramma dappertutto, sui loro libri, sui loro edifici, nelle loro Chiese e nei loro oratori. (Per scegliere solo un esempio, fra centinaia, ho sotto gli occhi la riproduzione di una bella incisione posta in testa di un libro del P. Girolamo Nadal, stampato ad Anversa nel 1593, e del quale un esemplare, fra gli altri, si trova alla biblioteca reale di Bruxelles. Il libro è intitolato: Evangelicæ historiæ imagines. L’incisione rappresenta nostro Signore che stende le mani e dice: Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis; et ego reficiam vos. Al di sopra nel pannello che serve di frontone al magnifico dossale, di cui le colonne inquadrano l’immagine di nostro Signore, due Angeli in ginocchio sorreggono un quadro ovale con raggiera; in mezzo al quadro il monogramma IHS, sormontato, cpme sempre dalla croce posta sulla stanghetta dell’H; al di sotto del monogramma un cuore con tre chiodi confitti nell’aorta e convergenti nel centro). Quasi sempre è ferito da una lancia e combinato in diversi modi con i tre chiodi, secondo l’usanza, divenuta comune nel XVI e nel XVII secolo, di rappresentare le cinque piaghe aggruppandole intorno alla piaga del cuore; qualche altra volta è solo, altra volta unito al cuor di Maria. In tale o tal altro caso particolare, non è sempre facile il decidere se è direttamente il Cuor di Gesù che vien rappresentato o se è il cuor del fedele. Spesso però è il Cuor di Gesù; e, anche quando è combinato con i chiodi, è certo il cuore che si vuol rappresentare, ben più delle piaghe. Ed a più forte ragione quando è isolato; si trova anche perfettamente libero, come Cuore amatissimo ed amabilissimo, senza nulla che richiami la piaga del costato. Per limitarci ad un caso, facciamo una visita alla chiesa dell’antico collegio dei Gesuiti, a Poitiers (oggì Liceo), che è del 1610 circa. Noi vi troviamo almeno quattro volte il Cuor di Gesù, Primieramente, nella prima cappella laterale, dalla parte del Vangelo: ai due lati dell’altare, due fregi architettonici simili; questi contengono in un quadro ovale con raggiera, jl monogramma IHS e, al di sotto, un cuore di forma convenzionale; le fiamme si sprigionano all’aorta; fiamme escono pure da ogni parte. Il cuore tien qui il posto dei chiodi nella riproduzione della sigla della Compagnia, ed è certamente il cuor di Gesù. Nel timpano interiore della porta grande d’entrata, su di un fregio architettonico adornato di palme e di foglie d’olivo, si vede la stessa immagine, monogramma e cuore; ma il cuore è senza le fiamme laterali. Sulla porticina del tabernacolo, in rame cesellato su tartaruga, un fregio rotondo il medesimo monogramma, sormontante un cuore senza fiamme, ma con tre chiodi confitti nell’aorta. Immagine analoghe si vedono negl’intarsi della sagrestia. – Fermiamoci alquanto di più sugli scritti. Gli asceti ed i mistici della Compagnia di Gesù, nel XVII secolo camminando nelle vie tracciate loro da S. Ignazio negli Esercizi spirituali, giungono naturalmente a scoprire il Cuor di Gesù, lo fanno conoscere ai fedeli con ogni mezzo, nella predicazione e nella devozione delle anime,  con il libro e con le immagini. – Il P. Giacomo Alvarez de Paz (1560-1620) nel suo monumentale trattato De inquisitione pacis sive studio orationis, nella seconda parte del quarto libro, giunge alle « affezioni che servono al progresso nel bene ». Naturalmente egli incontra nostro Signore sulla sua strada e riporta tutto a doverci rivestire di Gesù, cioè a riformarci sul divino modello. – Il primo esercizio si occupa delle potenze dell’anima per riformarle sull’anima di Gesù; il secondo ha per oggetto le affezioni del nostro cuore, per ricomporlo a somiglianza di Gesù: « Voi vi eserciterete a riformare il vostro cuore, a togliere e mortificare tutto ciò che potrebbe  impedire d’immedesimarvi in Lui e di attaccarvi vostro Creatore con lo spirito e col sentimento ». Il mezzo per giungere a questo sarà lo studio e l’imitazione del divin Cuore. Tutto il passo è bellissimo, ma troppo lungo per essere riportato qui per intero; perciò per darne un’idea ne riporto qualche brano. « Voi vi sforzerete di entrare nel Cuor di Gesù e di studiarlo, per formare il vostro cuore su questo divino modello. Questo Cuore santissimo è la via che ci conduce all’eterna dimora, che è la divinità del Cristo…; essendo Egli la porta per la quale entriamo nella contemplazione della divinità… Per poter dunque elevarvi fino alla contemplazione dell’amore della divinità, voi procurerete di penetrare, per mezzo di attenta considerazione, nel Cuore del divino Maestro, il più santo ed il più puro di tutti i cuori, cercando con le vostre aspirazioni nella preghiera e mediante i vostri sforzi nell’azione, di renderei il vostro cuore simile a quello di Gesù. Fissando gli occhi dell’anima vostra sul Cuore stesso di Lui, voi lo vedete tutto puro e in dodici diverse specie di purezze. 1. Puro di ogni amore ai beni temporali; 2. di ogni mancanza di retta intenzione; 3. di ogni mondana attrattiva; 4. di ogni desiderio di piacere agli uomini; 5. di ogni pensiero inutile; 6. di ogni cura superflua; 7. di ogni amarezza dannosa; 8. di ogni vana compiacenza; 9: di ogni vana consolazione; 10. di ogni scrupolo o timore ingiusto; 11. di ogni agitazione di impazienza; 12. di ogni macchia di propria volontà. Voi loderete il Signore per tanta purità del suo Cuore e la desidererete, la domanderete con aspirazioni infiammate, lavorando poi, con slancio ed energia, per raggiungerla, riformando così il vostro cuore ». E qui segue una bella preghiera, per ottenere di conoscere e d’imitare la perfezione del divin Cuore: « O Salvatore degli uomini, Cristo Gesù, la cui opera è la nostra redenzione la di cui conoscenza è il principio della nostra salvezza, la cui imitazione è tutta perfezione, apritemi, io ve ne prego, il vostro santissimo Cuore, porta di vita e sorgente d’acqua viva, affinché là io impari a conoscervi e là io beva le acque della vera virtù, che estinguono ogni sete di beni temporali. Voi avete detto: il cuor dell’uomo è tortuoso ed impenetrabile, chi potrà conoscerlo? Io, io solo, il Signore. Ed io dico: santo e puro è il vostro cuore, ma impenetrabile, e chi lo conoscerà? Voi, o Signore, ed in parte colui al quale vi degnerete rivelarlo. Aprite dunque i miei occhi, illuminateli, perché io veda la perfezione del vostro Cuore, perché io cerchi, imitando le vostre perfezioni, di rigettare le immortificazioni del mio, perché io respinga continuamente ciò che non è Voi, ciò che Voi non volete, quello che Voi non amate, e perché io ricerchi con cura Voi, Voi solo e quello che Voi volete ed amate, nella misura con la quale mi comandate o consigliate di amarlo! ». Vengono dopo dodici elevazioni sulle dodici specie di purezze del Cuor di Gesù. Abbastanza varie nei particolari e per le espressioni, nelle grandi linee hanno però molta simmetria fra loro, basandosi tutte sul piano segnato nell’avviso preliminare; lode cioè per la qualità che si considera e si ammira nel Cuor di Gesù; sospiri, rimpianti, aspirazioni, desideri, domande, risoluzioni di mettersi all’opera, attaccandosi a Gesù e cercando d’imitarlo in tal genere di purezza. Ecco la prima elevazione e con questa ci faremo un’idea delle altre. « Io Vi rendo gloria, autore di ogni santità, per la prima qualità di purezza del vostro cuore, che lo rese puro di ogni amore ai beni temporali. Voi non aveste attacco alcuno per quel che è temporale: ma, rigettando ogni superfluo, con grande semplicità di cuore, Voi avete preso solo quel che era necessario alla vostra umanità poveramente (parce), parcamente (anguste), appena l’indispensabile per sostenervi. Oh! s’io imparassi una volta a lasciare i beni temporali, a disprezzare le cose visibili, a non attaccare il cuore a ciò che passa! Oh! se, con cuore calmo, io mi rimettessi per questi beni al vostro beneplacito, e se, sia che me li concediate o me li neghiate, con essi o senza di essi, sapessi restarmene in pace e tranquillo! Concedetemi, ve ne prego, per il vostro santo distacco (nuditatem)… di esser distaccato (nuditatemamem), e di spogliarmi da ogni cosa superflua e visibile, di rigettare tutto ciò che è lusso (curiosa) e che non è secondo il mio stato; e, quanto alle cose necessarie, indispensabili alla vita o conformi al mio stato, per evitare la singolarità, fate ch’io me ne serva senza attacco eccessivo di cuore, senza troppo assoggettarmi ad esse, sforzandomi anche di non sentirne disgusto, per rendermi più conforme al vostro distacco, per poter volare più velocemente verso il mio divino esemplare ». Le altre undici elevazioni proseguono senza interruzione. Infine vi è una preghiera quasi simile a quella del principio. « Ho raccolto questi dodici ruscelli di purezza da quella infinita purezza del vostro Cuore benedetto, e vi prego di accordarmi di domandarveli sempre, d’averne sempre sete e di operare costantemente, secondo la mia domanda ed i miei desideri. Fate che in questo senso io regoli la mia vita, sforzandomi di purificare il mio cuore da ogni attacco sregolato. Imprimete il vostro Cuore sul mio e rendetelo simile al vostro (istud tibi assimila); non permettete che, dovendo io, per il mio stato, esser vostro imitatore, abbia un cuore che non si curi d’imitarvi ». È superfluo notare, mi sembra, l’importanza ascetica di un tale esercizio, né la parte grande che occupa il Cuor di Gesù nel faticoso cammino della perfezione cristiana. Margherita Maria non procederà diversamente, e, d’altra parte, coloro che hanno famigliarità con gli Esercizi di S. Ignazio e con la sua spiritualità, vedranno facilmente l’affinità delle belle pagine di Alvarez de Paz con i principi ed i modi del fondatore della Compagnia di Gesù. Il libro, ove si trovava questo esercizio, fu stampato a Lione nel 1608 e, a brevi intervalli, se ne fecero nuove edizioni. Benché scritto in latino, si può argomentare che esso non fu senza influenza sullo sviluppo ascetico della divozione al Cuor di Gesù, o, se si vuole, sulla parte fatta a questa divozione nell’ascetica di quel tempo. Forse ne riscontreremo qualche traccia nel corso di questo studio. E non solamente in questo punto del suo lavoro il P. Alvarez de Paz rammenta il sacro Cuore: vi si trova altrove anche questa bella preghiera: « Io ve ne prego, per l’amore ardentissimo del vostro divin Cuore e per il vostro Cuore umano trapassato dalla lancia, per il suoi innumerevoli spasimi, imprimete il mio cuore sul vostro trafitto… ». Ed in fine alla preghiera troviamo: « Fortificate il mio cuore con queste sante virtù e riaffermatelo per il vostro santissimo Cuore squarciato ». – Il quinto esercizio di questa seconda parte ha per oggetto il desiderio e la domanda della virtù. Seguendo l’esempio di Van Esch, l’autore le riporta alle cinque piaghe di Gesù. La preghiera al divin Cuore è testualmente quella da noi riportata sopra. – Nel lavoro, celebre ormai, del P. Le Gaudier (1562-35) troviamo ancora varie volte nominato il sacro Cuore; questo lavoro si intitola: La perfezione della vita spirituale. In uno dei capitoli sulla Comunione, egli dice: « Il suo Cuore (e la sua volontà) riempiti del tesoro di meriti, formato di tanti atti… per la gloria di Dio… ardente come una fornace del più infiammato amore, perDio e per noi, sì applichi al nostro (ed alla nostra volontà), sia per consumare i nostri peccati, sia per dargli la misura della sua pienezza per amare Iddio ed il prossimo, respingendo l’amor proprio in guisa che il nostro cuore viva del suo, partecipando alle sue divine qualità, alle sue gioie e delizie, immedesimando la nostra volontà nella sua, per divenir così con lui ed in lui, un sol cuore ed un’anima sola, da poter dire: « Io vivo, ma non io, è Cristo che vive in me ». [1. Continua]