GIOVANNI G. OLIER
Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI
IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.
CAPITOLO VII
Della virtù di penitenza
III.
L’esercizio della penitenza in ispirito
Colui che aderisce a Dio è un solo spirito con Lui: Chi sta unito col Signore, è un solo spirito ‘con Lui (1 Cor. VI, 17). Ne consegue necessariamente che l’anima, quando è intimamente unita a Dio si rende partecipe delle qualità, dei costumi, dei sentimenti, delle disposizioni di Lui; e perciò si investe anche dello zelo incessante della divina giustizia contro la carne, dimodoché il giusto corruccio di Dio contro la carne ed il peccato essendo impresso in quell’anima ed essendo essa animata dallo Spirito della divina giustizia, essa sì trova continuamente compresa di avversione e di condanna per la propria carne. – La carne tutta sta nel peccato e tende al peccato; la carne è tutta impregnata di ogni sorta di desideri impuri e, nel suo amor proprio e nella sua sensualità, non desidera nulla che per sé medesima; perciò Dio non può amare la carne; ma al contrario sempre la respinge e condanna ( Giov. Olier non vuol dire che tutto quanto l’uomo fa sia peccato, come potrebbe pensare chi guardasse superficialmente le sue espressioni; egli fu sempre strenuo della verità cattolica contro Protestanti, Bajanisti. E Giansenisti. La parola carne qui è presa nel suo senso peggiore, è quella che ha desideri contrari allo Spirito e le cui opere sono descritte da San Paolo nel capo V dell’Epistola ai Galati; quell’anima che nostro Signore ci comanda di odiare; che bisogna crocifiggere con i suoi vizi e le sue concupiscenze; quella inclinazione prepotente al male che portiamo in noi in forza del peccato originale; chi la segue non può piacere a Dio). Così l’anima quando sia passata in Dio, investita dallo zelo e dalla santità di Dio, riprova, condanna ed annienta in sé medesima tutti i desideri perversi che senza posa si innalzano nella propria carne per la soddisfazione dei sensi. Gli occhi, per esempio, secondo i desideri della carne, tendono a ciò che può dar loro gusto e soddisfazione, quindi cercano senza posa nelle creature quanto può contentarli; così pure tutti gli altri sensi esterni e interni. Ma lo Spirito che ha preso possesso dell’anima nostra, vedendo e sentendo in noi le inclinazioni e i desideri impuri che sono i segni della vita della carne e l’espressione della volontà ch’essa ha di soddisfarsi, non manca di imprimerci un sentimento di ripulsa contro questa vita della carne, e di portar l’anima nostra a resistervi, a guardarsi bene dall’aderire ad essa o dal soddisfarla con la ricerca e l’uso di ciò ch’essa desidera. Lo Spirito porta pure i sensi a privarsi di tali cose e a starne lontani, appunto perché sono desideri impuri della carne, la quale va castigata nel suo amore disordinato e nella sua funesta concupiscenza che la porta sempre ad accontentare sé stessa invece di Dio, mentre Dio è il nostro unico fine a cui dobbiamo tendere, secondo il dovere essenziale e capitale della nostra vita. È questa l’azione costante delle Spirito di penitenza, il quale ci porta alla mortificazione di noi stessi e all’intima repressione degli eccessi della nostra carne. Quando questa sia ben castigata, in modo che non goda nessuna soddisfazione inutile, essa si trova in istato di penitenza violentissima e penosissima, che conduce agli estremi; sono spesso agonie affannose, sensibilissime per quelli che sono fedeli a mortificarla e a privarla di ogni inutile soddisfazione.
IV.
Motivi e sentimenti di penitenza.
In onore di Gesù Cristo, e in unione con Lui penitente davanti a Dio, per i miei peccati e per quelli di tutto il mondo, protesto di voler far penitenza in tutti i giorni della mia vita, e di considerarmi in ogni cosa come un povero e miserabile peccatore, come un penitente indegnissimo. A questo fine porterò sopra di me l’immagine di Gesù Cristo, penitente sovrano, ed essa, con la memoria della penitenza interiore e dell’amore del mio Salvatore, sarà per me il ricordo continuo dei motivi che mi obbligano a far penitenza. Sono obbligato a fare ammenda onorevole alla giustizia ed alla santità di Dio Padre; un tal dovere mi viene imposto dal suo amore, dalla sua bontà, e da tatti ì suoi divini attributi. Sono in dovere di far penitenza, perché il Figlio di Dio l’ha fatta per i miei peccati, perché ha meritato per me la misericordia del Padre suo e insieme la grazia di poter compiere la mia penitenza, mediante l’adorabilissimo e preziosissimo tesoro del suo sangue sparso per me su la Croce. Sono in dovere di far penitenza, perché nel battesimo ho ricevuto il Santo Spirito di penitenza onde esserne animato e vivere nei suoi sentimenti in tutta la condotta della mia vita. Dio è giusto, perciò non può né deve perdere nessun diritto sulle sue creature; Egli non mancherà di esercitare sopra di esse una intera vendetta e di prendersi una rigorosissima soddisfazione; o in questo mondo coi suoi flagelli, o con castighi spaventevoli nell’altro.
V.
Pratica della virtù di penitenza.
Il peccatore deve: 1. tenersi sempre presente il suo peccato, 2. conservarsi in una continua confusione, davanti a Dio, davanti al mondo e davanti a sé medesimo, 3. Dolersi con Gesù Cristo dei propri peccati, sempre disposto a subire la vendetta della divina giustizia. – e ciò in unione con Gesù Cristo. – Gesù ha espiato l’avarizia, la superbia e la voluttà con la povertà, i patimenti corporali e più ancora coi dolori interni dell’anima.
L’anima penitente in Gesù Cristo, rivestita dello spirito di penitenza di Gesù Cristo, deve formarsi le medesime disposizioni di Gesù Cristo e assimilarsi la forza e la virtù delle pratiche di Gesù Cristo.
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1° Il peccatore, ad imitazione di Gesù Cristo che si è costituito peccatore e penitente per noi (Qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum, fecit. II Cor. V. 21.); deve sempre tenersi il suo peccato davanti a sé (Peccatum meum contra me est semper. Ps., 4, 5); questa vista continua sarà il fondamento degli altri doveri che i suoi peccati gli impongono verso Dio.
2° Il peccatore, in conseguenza dei suoi peccati, deve, con Nostro Signore, portare sul proprio volto una perpetua confusione; portare una tale confusione dapprima davanti a Dio, come Gesù Cristo che portò davanti al Padre suo la vergogna delle nostre offese, secondo quelle parole Di confusione è stato coperto il mio volto (Operuit confusio faciem meam. Ps. LXVIII, 8); inoltre, restar confuse davanti a tutto il mondo, come ha fatto ancora il Figlio di Dio, il quale dice per bocca del Profeta: « Mi sono allontanato e ritirato dal mondo per dimorare nella solitudine; sono stato forestiero e pellegrino tra i miei fratelli (Ps. LIV, 8 – LXVIII, 9), vale a dire, fra gli uomini e tra i figli santi della Chiesa; avevo vergogna di stare in mezzo a loro, essendo carico di delitti più che tutti gli altri e portando su me stesso l’orribile e vergognoso peso dei peccati di tutto il mondo. Effettivamente mi sono nascosto nella solitudine solo per un certo tempo, ma, in ispirito, vi rimango sempre come indegno di comparire davanti al mondo e tra gli uomini ». – In terzo luogo, dobbiamo essere confusi anche davanti a noi medesimi, non potendo sopportarci nella nostra miseria e nella nostra onta. Così pure, di se stesso diceva il Figlio di Dio per bocca del profeta: Sono diventato di carico a me stesso (Job. VII, 20); provavo gran pena a sopportare me stesso per l’obbrobrio che sentivo sopra di me per tutti quei peccati orribili e odiosi. – Dio, nella sua misericordia mi faccia la grazia di aver parte della santa luce di Gesù Cristo, luce che mi faccia vedere l’orrore dei miei peccati, e mi copra la faccia e lo spirito di confusione davanti al mondo e davanti a me Stesso, ma soprattutto davanti a Dio Padre, affinché io gli dica spesso col Figlio prodigo: « Padre del Verbo Incarnato, che non ardisco chiamar mio Padre, ho peccato contro il cielo, contro gli Angeli ed i Santi che vivono con Voi, ma soprattutto ho peccato contro di Voi medesimo; e col pubblicano, che non osava alzare gli occhi al cielo; « Abbiate pietà di me che sono peccatore ».
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3° In seguito alla confusione che deve sentire per i suoi peccati, il peccatore deve inoltre averne il dolore e la detestazione insieme con Nostro Signore che visse nel sacrificio perpetuo di un cuore contrito ed angosciato per i peccati del mondo. In virtù dei meriti di Gesù Cristo e per la unione con Lui, Dio accetta la contrizione da parte di tutti gli uomini i quali, partecipando allo Spirito di Gesù, piangono, gemono e sono contriti per i loro peccati (Ps. 4, 19). Eterno Padre, per l’amara contrizione e l’abisso dei dolori interni del Figlio vostro (Thren. II, 12), datemi parte al divino Spirito della sua santa e dolorosa penitenza. Il vero penitente dopo tante sue colpe, nella confusione e riprovazione di sè stesso, deve sottomettersi per tutti i momenti della sua vita alla giustizia eterna, infinita e onnipotente di Dio, rimanendo sempre disposto a subire tutti gli effetti della sua vendetta, tutti i castighi che si compiacerà di imporgli. – A questo fine dobbiamo, noi peccatori, vivere sempre in unione di spirito con Gesù Cristo vivente e morente in croce in pena delle nostre colpe, perché il valore della soddisfazione di Gesù, essendoci comunicato, impreziosirà le nostre pene e santificherà i nostri travagli; questi sono sempre leggeri, meschini e sproporzionati alle nostre colpe, ma il merito adorabile di Gesù li renderà accettabili alla giustizia del Padre suo. – Gesù Cristo, dice S. Paolo, è morto per i nostri peccati; Egli era giusto ed ha sofferto per gl’iniqui (Rom. IV, 25); onde presentarci a Dio suo Padre come penitenti mortificati crocifissi nella nostra carne da uno spirito di penitenza, animando così, Egli stesso, i nostri cuori, come da nuova vita, dal desiderio di vendicare sopra di noi medesimi i nostri delitti. – I tre grandi peccati che riempiono il mondo sono: l’avarizia, la superbia e la voluttà; orbene a tre sorte di pene possono pure ridursi le immense soddisfazioni che Gesù Cristo Nostro Signore ha rese al Padre suo sulla Croce, e le pene esterne che Egli ha sofferto: estrema povertà, estrema confusione, estremi dolori nel suo corpo; tre sorte di patimenti ordinati a distruggere i suoi nemici capitali che sono pure tre: il mondo, il demonio e la carne. – La Scrittura, in parecchi luoghi, fa espressa menzione di questi tre patimenti. In merito alla povertà, la quale apparve più completamente sulla Croce, essa dice: Essendo ricco, si è fatto povero per noi. In merito alla sua vergogna e confusione, Egli stesso dice: Sono un verme della terra, l’obbrobrio degli uomini, il rifiuto del popolo. In merito ai patimenti che Gesù soffrì nel suo corpo, il Profeta dice: Non v’è nel mio corpo una minima parte che non sia colpita dal dolore (Isa, I, 6). Ma tutti questi mali erano ben poca cosa in confronto delle pene interne e dell’abbandono interiore che Gesù subiva nell’anima; di questo unicamente Egli si lamentava su la Croce: « Dio mio. Dio mio, perché mi avete abbandonato? » (Matt. XXVII, 46) Il profeta parlando di questo estremo della sua atroce afflizione dice di averlo visto non solo come un lebbroso, da cui stillava da ogni parte fetida marcia, ma pure come colpito nell’anima dalla vendetta di Dio corrucciato contro di Lui; perché era carico dei peccati di tutti gli uomini che insorgevano contro la Maestà divina (Isai, LIII, 4). Gli obbrobri e le ripulse, le oppressioni e i castighi meritati dai peccati che insorgevano contro di Voi, o mio Dio, sono caduti sopra l’anima mia e mi hanno causata la morte. Mi han fatto morire in uno spaventevole accasciamento nel quale immensamente soffrivo per il prolungato ritardo del mio ritorno a Voi e della mia perfetta unione con Voi nella gloria. In questo sta il colmo enorme e spaventoso dei dolori di Gesù, di Gesù infinitamente santo e amante di Dio suo Padre. Egli non respira che l’amore del Padre, non sospira che gli attestati della sua benevolenza, e vedersene respinto da un eccesso terribile e spaventoso della sua ira e del suo furore! Nella previsione di questo dolore spaventevole Egli diceva al Padre: Padre se è possibile, passi da me questo calice » (Matt. XXVI, 29), e parecchie volte per bocca del Profeta: «Dio mio, non mi riprendete nel vostro furore » (Ps. LVII, 1); sopporterò quanto vi piacerà, ma risparmiatemi questo effetto orribile della vostra collera, perché, a paragone di questo, tutti i dolori corporali non sono niente, né sono capaci di saziarmi: Sitio, ho sete ancora di pene esterne; perciò datemi di poter soffrire ancora dopo la mia morte nella mia Chiesa. e che i miei membri bevano al mio Calice, affinché facciano penitenza con me ed Io faccia penitenza in essi.