QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
(Indulgentia trium (3) annorum. Indulgentia septem (7) annorum per mensem octobrem, post recitationem sacratissimi Rosarii, necnon qualibet anni feria quarta. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidiana orationis recitatio in integrum mensem producta fueri: (Leo XIII Epist. Encycl. 15 aug. 1889; S. C. Indulg., 21 sept. 1889; S. Paen. Ap., 17 maii 1927, 13 dee. 1935 et 10 mart. 1941).
Dagli Atti del papa Pio XII
La Chiesa, madre provvidentissima di tutti, consacra massima cura nel difendere e promuovere la classe operaia, istituendo associazioni di lavoratori e sostenendole con il suo favore. Negli anni passati, inoltre, il sommo pontefice Pio XII volle che esse venissero poste sotto il validissimo patrocinio di san Giuseppe. San Giuseppe infatti, essendo padre putativo di Cristo – il quale fu pure lavoratore, anzi si tenne onorato di venir chiamato «figlio del falegname» – per i molteplici vincoli d’affetto mediante i quali era unito a Gesù, poté attingere abbondantemente quello spirito, in forza del quale il lavoro viene nobilitato ed elevato. Tutte le associazioni di lavoratori, ad imitazione di lui, devono sforzarsi perché Cristo sia sempre presente in esse, in ogni loro membro, in ogni loro famiglia, in ogni raggruppamento di operai. Precipuo fine, infatti, di queste associazioni è quello di conservare e alimentare la vita cristiana nei loro membri e di propagare più largamente il regno di Dio, soprattutto fra i componenti dello stesso ambiente di lavoro.
Lo stesso Pontefice ebbe una nuova occasione di mostrare la sollecitudine della Chiesa verso gli operai: gli fu offerta dal raduno degli operai il 1° maggio 1955, organizzato a Roma. Parlando alla folla radunata in piazza san Pietro, incoraggiò quell’associazione operaia che in questo tempo si assume il compito di difendere i lavoratori, attraverso un’adeguata formazione cristiana, dal contagio di alcune dottrine errate, che trattano argomenti sociali ed economici. Essa si impegna pure di far conoscere agli operai l’ordine prescritto da Dio, esposto ed interpretato dalla Chiesa, che riguarda i diritti e i doveri del lavoratore, affinché collaborino attivamente al bene dell’impresa, della quale devono avere la partecipazione. Prima Cristo e poi la Chiesa diffusero nel mondo quei principi operativi che servono per sempre a risolvere la questione operaia.
Pio XII, per rendere più incisivi la dignità del lavoro umano e i princìpi che la sostengono, istituì la festa di san Giuseppe artigiano, affinché fosse di esempio e di protezione a tutto il mondo del lavoro. Dal suo esempio i lavoratori devono apprendere in che modo e con quale spirito devono esercitare il loro mestiere. E così obbediranno al più antico comando di Dio, quello che ordina di sottomettere la terra, riuscendo così a ricavarne il benessere economico e i meriti per la vita eterna. Inoltre, l’oculato capofamiglia di Nazareth non mancherà nemmeno di proteggere i suoi compagni di lavoro e di rendere felici le loro famiglie. Il Papa volutamente istituì questa solennità il 1° maggio, perché questo è un giorno dedicato ai lavoratori. E si spera che un tale giorno, dedicato a san Giuseppe artigiano, da ora in poi non fomenti odio e lotte, ma, ripresentandosi ogni anno, sproni tutti ad attuare quei provvedimenti che ancora mancano alla prosperità dei cittadini; anzi, stimoli anche i governi ad amministrare ciò che è richiesto dalle giuste esigenze della vita civile.
[Ex Brev. Rom.]
Sancta MISSA
Incipit
In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Sap. X:17 Sapiéntia réddidit justis mercédem labórum suórum, et dedúxit illos in via mirábili, et fuit illis in velaménto diéi et in luce stellárum per noctem, allelúja, allelúja.
[La sapienza ai santi ha pagato la ricompensa delle loro fatiche: li ha guidati per una via stupenda; diviene per essi riparo di giorno e luce di stelle durante la notte, alleluia, alleluia] Ps CXXVI:11 Nisi Dóminus ædificáverit domum, in vanum labórant qui ædíficant eam.
[Se non fabbrica la casa il Signore, vi faticano invano i costruttori]
Sapiéntia réddidit justis mercédem labórum suórum, et dedúxit illos in via mirábili, et fuit illis in velaménto diéi et in luce stellárum per noctem, allelúja, allelúja.
[La sapienza ai santi ha pagato la ricompensa delle loro fatiche: li ha guidati per una via stupenda; diviene per essi riparo di giorno e luce di stelle durante la notte, alleluia, alleluia]
Oratio
Orémus.
Rerum cónditor Deus, qui legem labóris humáno géneri statuísti: concéde propítius; ut, sancti Joseph exémplo et patrocínio, ópera perficiámus quæ præcipis, et præmia consequámur quæ promíttis.
[O Dio, creatore del mondo, che hai dato al genere umano la legge del lavoro; concedi benigno, per l’esempio e il patrocinio di san Giuseppe, di compiere le opere che comandi e di ottenere la ricompensa che prometti].
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses. Col. III:14-15, 17, 23-24 Fratres: Caritátem habéte, quod est vínculum perfectiónis, et pax Christi exsúltet in córdibus vestris, in qua et vocáti estis in uno córpore, et grati estóte. Omne quodcúmque fácitis in verbo aut in ópere, ómnia in nómine Dómini Jesu Christi, grátias agéntes Deo et Patri per ipsum. Quodcúmque fácitis, ex ánimo operámini sicut Dómino, et non homínibus, sciéntes quod a Dómino accipiétis retributiónem hereditátis. Dómino Christo servíte.
[Fratelli, abbiate la carità, che è il vincolo della perfezione. Trionfi nei vostri cuori la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati nell’unità di un sol corpo: e vivete in azione di grazie! Qualunque cosa facciate, in parole od in opere, tutto fate in nome del Signore Gesù Cristo, rendendo grazie a Dio Padre, per mezzo di lui. Qualunque lavoro facciate, lavorate di buon animo, come chi opera per il Signore e non per gli uomini: sapendo che dal Signore riceverete in ricompensa l’eredità. Servite a Cristo Signore.]
Alleluja
Allelúja, allelúja. De quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos, et ero protéctor eórum semper. Allelúja. V. Fac nos innócuam, Joseph, decúrrere vitam: sitque tuo semper tuta patrocínio.
[In qualsiasi tribolazione mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò sempre il loro protettore. Alleluia. V. O Giuseppe, concedici di vivere senza colpe. e di godere sempre la tua protezione. Alleluia].
Evangelium
Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Matthǽum. Matt XIII: 54-58 In illo témpore: Véniens Jesus in pátriam suam, docébat eos in synagógis eórum, ita ut miraréntur et dícerent: Unde huic sapiéntia hæc et virtútes? Nonne hic est fabri fílius? Nonne mater ejus dícitur María, et fratres ejus Jacóbus et Joseph et Simon et Judas? Et soróres ejus nonne omnes apud nos sunt? Unde ergo huic ómnia ista? Et scandalizabántur in eo. Jesus autem dixit eis: Non est prophéta sine honóre nisi in pátria sua et in domo sua. Et non fecit ibi virtútes multas propter incredulitátem illórum.
[In quel tempo, Gesù giunto nel suo paese, insegnava loro nella sinagoga, così che meravigliati si chiedevano: «Di dove gli vengono questa sapienza e i miracoli? Non è costui il figlio del falegname? Sua madre non si chiama Maria, e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi? Da dove, dunque, gli viene tutto questo?». Ed erano scandalizzati riguardo a lui. Ma Gesù disse loro: «Non c’è profeta senza onore, se non nella sua patria e nella sua casa». E non fece là molti miracoli, a causa della loro incredulità].
OMELIA
(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.
GRANDEZZA E BONTÀ DI SAN GIUSEPPE
Il piccolo figliuolo di Giacobbe, una mattina svegliandosi, diceva ai suoi fratelli e a suo padre: « Io ho sognato una bellissima cosa. Mi trovavo sospeso non so per quale virtù, in mezzo all’azzurro del cielo: ed ecco il sole, la luna e undici stelle fermarsi in giro a me; e adorarmi ». Dopo averlo ascoltato, tutti sgranarono gli occhi e non compresero il significato: quel bambino sarebbe un giorno diventato il Viceré d’Egitto, e suo padre e sua madre e i suoi undici fratelli si sarebbero prostrati a’ suoi piedi implorando un po’ di pane e di misericordia. Il fanciullo sognatore narrò ancora un’altra visione: « Si era nel campo in una giornata ardente di mietitura. Io mieteva ed anche voi mietevate: quand’ecco il mio covone levarsi da solo e starsene ritto mentre i vostri, curvi attorno ad esso, l’adoravano ». I fratelli, tra invidiosi e irosi, scoppiarono a ridere. « Forse che tu sarai il nostro Re? Forse che noi saremo i sudditi della tua minuscola potestà? ». Essi non sapevano come l’avvenire avrebbe dato ragione a quei sogni. Noi invece lo sappiamo dalla storia sacra. Ma noi sappiamo anche come Giuseppe figlio di Giacobbe non è che un’immagine profetica di Giuseppe, il padre putativo di Gesù, lo sposo della Vergine Maria. È per lui che in modo più grande e più vero si realizzarono i sogni dell’antico Giuseppe. Vidi quasi solem et lunam et stellas undecim adorare me. Il sole di giustizia e di verità che illumina ogni uomo che viene al mondo è Gesù Cristo. La luna di grazia e di candore è Maria che nella Scrittura è detta splendida più che la luna. Ebbene, nella quieta dimora di Nazareth, Gesù e Maria si curvavano ubbidienti al cenno di Giuseppe, capo della santa famiglia, e lo veneravano affettuosamente.
Vidi consurgere manipulum meum et stare; vestrosque manipulos circumstantesadorare. La Chiesa è simile ad un’ampia campagna pronta per la mietitura: S. Giuseppe, patrono della Chiesa universale, vi sta ritto in mezzo a custodirla e a benedirla; mentre intorno a lui accorrono i fedeli da ogni parte. Oh come è grande, come è buono San Giuseppe! Della sua grandezza e della sua bontà dobbiamo parlare quest’oggi, ch’è la sua festa.
GRANDEZZA DI GIUSEPPE
Un retore famoso tesseva un giorno nell’aeropago l’elogio di Filippo il Macedone. Decantate le nobili origini del suo eroe, le ricchezze, la potenza, il coraggio, le vittorie, tacque un istante come se non avesse più nulla d’aggiungere. Ma poi subitamente gridò: « Tutto questo è nulla. Egli fu il padre d’Alessandro, il conquistatore del mondo; ecco la sua gloria immensa». Anch’io, se vi facessi passare ad una ad una le virtù di S. Giuseppe, potrei infine concludere: « Tutto questo è nulla, la sua gloria eterna è di essere stato il padre custode di Gesù, Salvatore del mondo, e d’essere stato il casto sposo della vergine Maria, Madre di Dio. Per ciò egli è al disopra dei santi. Questi sono i suoi titoli di nobiltà: consideriamoli singolarmente.
a) Sposo di Maria. — Benché Giuseppe e Maria rimanessero per tutta la vita vergini, vivendo insieme come vivrebbero gli Angeli, tuttavia contrassero un legittimo matrimonio; e così S. Giuseppe fu suo sposo vero. Ora, la sposa — come dice anche S. Paolo — è soggetta allo sposo: Maria quindi fu soggetta a S. Giuseppe. Pensate, quanto onore! Sposo di Maria significa essere sposo della creatura più grande che vi fu mai in cielo e in terra, della creatura che fu Madre di Dio. – Sposo di Maria significa essere sposo della Regina degli Angeli, degli Arcangeli, dei Patriarchi, dei Profeti, degli Apostoli, dei martiri; della Regina senza macchia; della Regina di pace.
b) Padre di Gesù. — Giuseppe non fu, è vero, il padre naturale di Gesù, perché il Figlio di Dio si fece uomo incarnandosi nel seno purissimo di Maria Vergine per opera dello Spirito Santo. Eppure nel Vangelo più volte è chiamato col nome di padre. Dopo d’aver descritto il mistero della presentazione al tempio, dopo d’aver ricordato le profezie di Simeone, l’Evangelista aggiunge: « Erano suo padre e sua madre meravigliati » (Lc, II, 33). E la Madonna stessa nella gioia di ritrovare il Bambino tra i dottori ricorda S. Giuseppe col nome di padre: « Tuo padre ed io, piangendo, t’abbiamo molto cercato ».
Perché, se non cooperò alla sua generazione, S. Giuseppe fu chiamato Padre di Gesù? Per due motivi: perché fu sposo di Maria, e perché di padre ebbe tutta l’autorità e la responsabilità. – Il primo motivo è spiegato da S. Francesco di Sales. « Supponete che una colomba, volando dal suo becco lasci cadere un dattero in un giardino. Il frutto caduto dall’alto s’interra, e sotto l’azione dell’acqua e del sole germoglia, cresce, e diventa una bella palma. Questa palma di chi sarà? Evidentemente del padrone del giardino, come ogni altra cosa è sua che in esso vi nasca. Ora: quella colomba raffigura lo Spirito Santo che lasciò cadere il dattero divino, — il Figlio di Dio, — nel giardino conchiuso dove ogni virtù è fiorita, — il seno di Maria. — E Gesù nacque da Maria; ma appartenendo essa di pieno diritto al castissimo suo sposo, anche Gesù, — palma celeste, — almeno in qualche modo appartiene a Giuseppe ». – Il secondo motivo è spiegato da S. Giovanni Damasceno: « Non è appena la fecondità nel generare che ad alcuno dà il diritto di chiamarsi padre, ma anche l’autorità nel governare, e la responsabilità della vita ». E fu S. Giuseppe che lo sottrasse ad ogni pericolo, che lo allevò in casa sua, che lo fece crescere. Fu S. Giuseppe che insegnò un mestiere al Figlio di Dio, che comandò a lui come a un garzone. E chissà come tutto tremava in cuore, e come gli si inumidivano gli occhi, quando Gesù gli diceva: « Padre! ».
c) Più grande dei Santi. — Se Iddio destina una persona a qualche sublime ufficio, lo riveste di tutte le virtù necessarie per bene adempirlo. Così avendo eletto Maria ad essere sua Madre, la riempì di grazia sopra ogni creatura. Allo stesso modo, in proporzione, avendo eletto S. Giuseppe alla dignità di suo padre putativo e di sposo della Vergine, lo colmò di grazie immense, come nessun altro santo. – Il Vangelo chiama Giuseppe « uomo giusto ». E S. Girolamo spiega che quella parola « giusto » significa che egli possedeva tutte le virtù. Mentre gli altri santi si segnalarono particolarmente chi nell’una chi nell’altra virtù, egli fu perfetto egualmente in tutte le virtù. Per questo il 31 dicembre 1926, nella Basilica di S. Pietro, Pio XI cantando solennemente le litanie dei Santi, immediatamente dopo l’invocazione alla Madonna soggiunse quella a S. Giuseppe : — Sante Joseph intercede prò nobis.
2. BONTÀ DI GIUSEPPE
Re Assuero, una notte che non poteva prendere sonno, si fece leggere gli annali del suo regno. Il lettore nella quietudine notturna rievocava le gesta del re insonne: le battaglie sanguinose, le vittorie sonanti di grida, i movimenti più trepidi di gioia, e quelli spasimanti di pericolo, ed arrivò ad una congiura. Una congiura ordita da due ufficiali nella stessa reggia: fatalmente il re sarebbe caduto sotto le lame dei cospiratori, se la sagacia vigilante del primo ministro non fosse giunta a svelare la trama iniqua a tempo opportuno. «Fermati!» esclamò Assuero balzando sul letto d’oro… «Chi dunque mi ha salvato? ». « Il primo ministro, sire ». « E quale ricompensa si ebbe? ». « Finora nessuna ». Allora ordinò che al levar del sole il primo ministro fosse rivestito con abiti regali, e cavalcasse il suo cavallo più bello e girasse per le strade di tutta la città, mentre un araldo gridasse davanti a lui: — Così è onorato colui che il re vuol esaltare. — Questi ordini furono eseguiti: e chiunque aveva bisogno di grazia si rivolgeva al primo ministro, sicuro d’essere esaudito dal re. – Ma anche S. Giuseppe, o Cristiani, ha salvato la vita del Re del Cielo, — di Gesù Bambino, — quando la congiura d’Erode ha cercato di soffocarlo nel sangue. E pensate voi che verso il suo salvatore il Re del Cielo sia meno generoso di Re Assuero? Come potrà Iddio negare una grazia quando colui che gliela chiede è San Giuseppe? Si capisce allora come S. Teresa poteva dire: « Non si è mai sentito che alcuno abbia ricorso alla bontà di S. Giuseppe e non sia stato esaudito. Se non mi credete, per amor di Dio vi supplico a farne la prova, e mi crederete ». Gesù predicando alle turbe insegnava: « Chi avrà dato anche solo un bicchier d’acqua chiara all’ultimo povero di questo mondo in nome mio, avrà gran mercede ». Quale mercede non avrà dunque in Paradiso S. Giuseppe che, non appena un bicchier d’acqua all’ultimo poverello, ma per trent’anni ha nutrito e protetto in casa sua il Figlio di Dio? Rallegriamoci: presso il trono dell’Altissimo abbiamo un protettore onnipotente e buono, che può e desidera soccorrerci in tutti i travagli della vita. La vita è un peso, ha detto S. Paolo, e noi lo esperimentiamo ogni giorno: peso per i dolori, peso per i lavori, peso per la morte.
a) Ricorriamo a S. Giuseppe nel dolore. — Tutta la vita non la passò forse in patimento? Ricordate la notte di Natale: nell’albore del verno bussò invano di porta in porta, e fu costretto a porre nella greppia delle bestie il Figlio di Dio. Ricordate la sua fuga, lontano dai parenti, dal paese, dalla bottega, da’ suoi affari. Ricordate i tre giorni di affannosa ricerca, quando lo smarrì in Gerusalemme. Oh! insegni anche a noi a far la volontà di Dio quando siamo tribolati; ci dia la pazienza di vivere in questa valle di lacrime; ci conforti.
b) Ricorriamo a S. Giuseppe nel lavoro. — Ci sono alcune volte in cui gli affari vanno male, ed il guadagno manca; in cui ci sembra d’andare in rovina, noi e la nostra famiglia. Alziamo lo sguardo a lui: queste angustie egli le ha provate. Chi sa quante volte nella bottega nazarena si sarà sentito accasciato sotto la fatica,e quante volte anch’egli avrà visto i suoi modesti affari prendere una cattiva piega,e forse avrà pianto nel timore di far duramente soffrire la Vergine e il Figlio, di cui aveva la custodia e la responsabilità. Questo santo che prima di noi ha provato quello che soffriamo noi, non ci negherà nulla.Ma avanti d’esigere che ci ascolti, bisogna sforzarci sull’orma delle sue virtù. Siamo onesti nel lavoro come onesto era lui?
c) Ricorriamo a S. Giuseppe per una buona morte. — Morir bene è la cosa più importante di questo mondo. Eppure non è cosa facile: i progressi della civiltà, automobili, treni, velivoli, navi, hanno segnato un crescendo di morti improvvise; la corruzione dei costumi ha segnato un crescendo di morti impenitenti. Occorre il protettore per una morte buona: è S. Giuseppe.
Ed invero nessuno ha fatto una morte buona come la sua. Quando Gesù non ebbe più bisogno di chi lo nutrisse e lo allevasse, egli si sentì male ed entrò in agonia. Da una parte aveva la Madonna che piangeva e pregava; dall’altra aveva Gesù che gli sosteneva la testa languida e gli sussurrava: « Grazie di tutto quello che mi hai fatto; ora muori in pace. Muori nel mio bacio, e discendi al Limbo ove annunzierai che l’ora della redenzione è ormai giunta. Pochi anni, e passerò di là a prenderti per sollevarti nel Paradiso che dischiuderò con le mie mani che saranno trafitte ». S. Giuseppe non risponde che non ha più la forza: solo accenna a sorridere e muore. – «Oh che anch’io possa morire così! » sospira ognuno di noi, pensando a quelle beata fine. Questa sarebbe la grazia più bella e più grande che S. Giuseppe ci possa fare. Ma la morte del Giusto, o Cristiani, l’otterrà soltanto chi nella vita l’avrà imitato ed invocato.
Bónitas Dómini Dei nostri sit super nos, et opus mánuum nostrárum secúnda nobis, et opus mánuum nostrárum secúnda, allelúja. [E’ con noi la grazia del Signore Dio nostro: essa conferma su di noi l’opera delle nostre mani, conferma l’opera delle nostre mani, alleluia].
Secreta
Quas tibi, Dómine, de opéribus mánuum nostrárum offérimus hóstias, sancti Joseph interpósito suffrágio, pignus fácias nobis unitátis et pacis.
[O Signore, questa offerta che è frutto del lavoro delle nostre mani, per l’intercessione di san Giuseppe ci sia pegno di unità e di pace].
Praefatio de S. Joseph
… Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beáti Joseph débitis magnificáre præcóniis, benedícere et prædicáre. Qui et vir justus, a te Deíparæ Vírgini Sponsus est datus: et fidélis servus ac prudens, super Famíliam tuam est constitútus: ut Unigénitum tuum, Sancti Spíritus obumbratióne concéptum, paterna vice custodíret, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Coeli coelorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:
[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno: noi ti glorifichiamo, ti benediciamo e solennemente ti lodiamo di S. Giuseppe. Egli, uomo giusto, da te fu prescelto come Sposo della Vergine Madre di Dio, e servo saggio e fedele fu posto a capo della tua famiglia, per custodire, come padre, il tuo unico Figlio, concepito per opera dello Spirito Santo, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode:]
CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: MAGGIO 2022
MAGGIO È IL MESE CHE LA CHIESA DEDICA ALLA SS. VERGINE MARIA, LA MADRE DI DIO.
Motivi per far bene il mese di Maggio.
Il mese di Maggio consacrato a Maria dalla pietà cristiana è una scelta di preziosi ossequi che si presentano dai Fedeli a Madre sì amabile. Voi che vi accingete a praticarlo già li conoscete e già siete persuaso che Maria dopo Gesù meriti tutto il nostro amore, e che l’onorarla affettuosamente debba riuscirvi d’immenso vantaggio; tuttavolta, perché lo imprendiate più animosamente, vi perseveriate con più costanza e ne raccogliate frutti più copiosi, considerate di questo bel mese 1.°la convenienza, 2.° il merito, 3.° gli effetti.
I. La convenienza. La divozione alla $s. Vergine deve essere nella Chiesa, siccome è chiaro, di ogni stagione, di ogni età, di ogni condizione di persone. In tutti i tempi una madre ha diritto all’amore de’ suoi figliuoli, in tutti i tempi una Regina ha diritto all’ossequio dei suoi sudditi, una benefattrice alla riconoscenza di chi da lei ha ricevuto favori, come in ogni tempo il debole, il povero, il derelitto ha bisogno di chi può difenderlo, accoglierlo ed arricchirlo. Però è anche vero essere necessario, acciocché non si raffreddi l’amore e non si intepidisca la servitù, che a quando a quando con una dirò così comunicazione più affettuosa si stringano i legami soavi dell’amore e della dipendenza. Ma allora qual cosa più opportuna che consacrare al culto affettuoso di lei un intero mese, qual cosa più conveniente che scegliere di tutto l’anno quel mese appunto che è il più bello, il più gradito di tutti, quando cioè le nuove bellezze onde si riveste la natura, c’ invitano a sollevarci sino all’opera più meravigliosa della grazia qual è Maria?
II. Il merito poi di questo esercizio voi potete raccoglierlo sia dall’oggetto nobilissimo a cui è diretto, sia dall’oblazione che voi le fate. L’oggetto è quella gran donna che fu sì altamente onorata dalla Trinità sacrosanta, dal divin Padre che la scelse a primogenita, dal divin Figliuolo che la volle per madre, dal divino Spirito che la elesse per sposa. L’oggetto è quello che tutti gli Angeli riconoscono per loro Regina e tutte le generazioni chiamano beata. Quando dunque potrete ergere dopo Dio i vostri pensieri ad oggetto in sé più nobile ed eccellente? L’oblazione che voi le fate è degli atti più sublimi che abbia la Religione cristiana. In primo luogo per amore di Lei voi attenderete per un intero mese alla considerazione della divina legge, di quella legge cioè chiamata dal Profeta legge immacolata, legge che converte le anime, testimonio fedele del Signore, fonte di sapienza pei parvoli: Lex Domini immaculata, convertens animas, testimonium Domini fidele, sapientiam præstans parvulis (Ps. XVIII. 8), la cui meditazione come è stata sì altamente inculcata da Gesù Cristo, così è stata sempre il pascolo più delizioso dei Santi, la salvaguardia più sicura contro ogni vizio e l’eccitamento più gagliardo ad ogni anche più eccelsa virtù. Colla considerazione delle verità della fede si congiunge l’efficacia della santa orazione, la quale impetra quello che nella meditazione si è scoperto a noi necessario. E chi può dire quello che vaglia ad impetrar di grazie un popolo intero che raccolto ai piè di Maria, e adoperandola quale Interceditrice efficace, si rivolge alla Misericordia di Dio? Aggiungete quegli atti di virtù che sotto nome di ossequi e di fiori spirituali si presentano a Maria i quali tanto accrescono il valore della preghiera: aggiungete i sacramenti che nel corso del mese od almeno in sul termine si ricevono devotamente: aggiungete l’acquisto delle sante Indulgenze che i sommi Pontefici hanno conceduto sì largamente: aggiungete il rispetto umano che altri vince nel mostrarsi assiduo alla Chiesa, la diligenza che esercita, il buon esempio che porge, ed intenderete di quanto merito debba riuscir presso Dio questo ossequio renduto alla sua gran Madre.
III. E da questo merito raccogliete poi gli effetti che ne proverranno. Per me due ve ne propongo in particolare. Chiunque voi vi siate imprendete questo bel mese non può fallire che siate o giusto o peccatore. Se foste del novero di questi, che cosa non dovete sperare per la vostra riconciliazione con Dio? Maria è l’esca dolcissima secondoché rivelò essa stessa a santa Brigida, con cui Iddio trae a sé i peccatori: ed Ella imitando il suo figliuolo ne corre in traccia eziandio quando come pecorelle smarrite essi fuggono dal suo seno materno. Pensate come accoglierà poi quelli che non solo non la fuggono, ma le si avvicinano, ma quasi non dissi coi lor belati la cercano e le domandano aiuto! Oh come parlerà al loro cuore, oh come le stringerà al suo seno! Se per converso siete di quelli che già possiedono la divina amicizia, quanto non dovete sperare un aumento singolar di fervore ed una copia maggiore di aiuti per la vostra perseveranza? Se Maria ha tanta cura che non si perdano neppure i peccatori, quanta non ne avrà che perseverino i giusti che Lei invocano, che a Lei si affidano? Gesù dice che nessuno gli rapirà quelli che sono suoi. Non rapiet eas quisquam de manu mea (Joan. VIII. 28); ma crediamonoi che Maria lascerà che le siano involatii suoi cari? Finalmente non può Marianon coprir col manto della sua protezionepiù affettuosa quelli che la onorano con unmese intero di ossequi. E come no? Se anchetalora pel piccolo ossequio d’un’invocazione, diuna limosina, di un digiuno, di un benché minimoatto di virtù, ha ottenuto le grazie piùpreziose ai suoi devoti, possiamo noi pensareche un’accolta di tanti ossequi e così nobilidebbano rimaner senza una di quelle occhiateche bastano a salute? Lo creda chi può pensarcosì meschinamente di sì grande Signora. Pernoi risolviamo solo di dedicarle con tutto l’affetto e con tutta la costanza questo bel mesee non temiamo ch’Ella sia mai per deludere lanostra fiducia. – Nel che del resto non sarà neppur per mancarci la sua amorosa assistenza. Saprà ben essa rendercelo soave, rendercelo utile sia colle parole che dirà Ella al nostro cuore, sia colle grazie che ci otterrà da Gesù. Chi ne ha fatto già l’esperienza altre volte sa che io dico il vero, chi non l’ha fatta ancora, si provi a farlo con fervore e lo vedrà. Per me non dubito che giunto al termine potrà ognuno sperar che questo mese sia quello che l’abbia a consolare ne’ secoli eterni.
(S. Franco: Il mese di Maggio, Venezia, Tip. Emiliana Editr. 1865)
PIA EXERCITIA
325
Fidelibus, qui mense maio pio exercitio in honorem beatæ Mariæ Virginis publice peracto devote interfuerint, conceditur :
Indulgentia septem annorumquolibet mensis die:
Indulgentia plenaria, si diebus saltem decem huiusmodi exercitio vacaverint et præterea sacramentalem confessionem instituerint, ad sacram Synaxim accesserint et ad mentem Summi Pontificis oraverint.
Iis vero, qui præfato mense preces vel alia pietatis obsequia beatæ Mariæ Virgini privatim præstiterint, conceditur: Indulgentia quinque annorumsemel, quolibet mensis die;
Indulgentia plenariasuetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem obsequium peregerint ; at ubi pium exercitium publice habetur, huiusmodi indulgentia ab iis tantum acquiri potest, qui legitimo detineantur impedimento quominus exercitio publico intersint (Secret. Mem. 21 mart, 1815; S. C. Indulg., 18 iun. 1822; S. Pænit. Ap., 28 mart. 1933).
[Ai fedeli che praticheranno un pio esercizio in onore della Beata Vergine Maria, si concedono 7 anni (se in pubblico) o 5 anni (se in privato) di indulgenza per ogni giorno del mese, e indulgenza plenaria s. c. se praticato per almeno 10 giorni]
CANTICUM, HYMNI ET ANTIPHONAE
320
Magnificat
anima mea Dominum:
Et exsultavit spiritus meus in Deo salutari meo.
Quia respexit humilitatem ancillæ suæ: ecce
enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes.
Quia fecit mihi magna qui potens est: et sanctum nomen eius.
Et misericordia eius a progenie in progenie timentibus eum.
Fecit potentiam in brachio suo: dispersit superbo mente cordis sui.
Deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles.
Esurientes implevit bonis: et divites dimisit inanes.
Suscepit Israel puerum suum, recordatus misericordia è suæ.
Sicut locutus est ad patres nostros, Abraham et semini eius in sæcula.
(Luc., I, 46).
Indulgentia trium annorum.
Indulgentia quinque annorum, si canticum in festo Visitationis B. M. V. vel quolibet anni sabbato recitatum fuerit.
(5 anni nella festa della Visitazione e in qualsiasi sabato dell’anno)
Indulgentia plenaria s. c.
(20 sept. 1879 et 22 febr. 1888; S. Paen. Ap., 18 febr.1936 et 12 apr. 1940).
Il secondo errore eguale al primoé il negare la creazione, sognandoinvece le trasformazioni.
(DARVINISMO).
Spez. Io la ringrazio, signor parroco. Oh! se venissero un po’ a ragionar con lei così alla buona quei tali, intenderebbero che gli increduli li ingannano: per poi tradirli all’uopo orrendamente. Ma che vuole? par che il diavolo li aizzi come cani ad abbaiare una e poi un’altra bestialità, là a casaccio… Veda di fatto, che mentre si vantano essi di non credere più niente, si sbracciano a far credere a noi (e solo perché lo dicono essi) che tutte le creature che vediamo vennero fuori dalla terra, senza che vi sia entrato Dio a formarle!
Par. È proprio così! chi non vuole più credere in Dio, è come un navigante che ha perduta la bussola in mar torbido e fortunoso, va trabalzato dall’uno scoglio all’altro, finché si sprofonda a naufragare. Voi ricordate lor di tener l’occhio alla bussola; che è la fede in Dio, se non vogliono, pazzamente perdere fino il buon senso. Tutti che credono al Creatore, col solo buon senso vedendo come le piante son prodotte da altre simili piante, e come gli animali son generati da animali parimenti della specie istessa, guardano le diverse specie delle piante e degli animali, come tante catene in cui gli anelli discendono l’un giù dagli altri. Come tengono poi per certo, senza neppur pensarvi sopra, che i primi anelli sono fissi alla volta da cui discendono; così sono pure. Certi che la prima pianta e il primo animale scendon giù dalla mano di Dio che li sostiene a continuare la loro discendenza. Udite come l’ebbe «dimostrato una buona donnicciola colla massima. semplicità. – Si racconta che Voltaire vedendo una donna che accarezzava una gallina, si sentiva in vena di scherzare: e « buona donna; le disse, vi è ben cara questa gallina? » — Ed essa: Eh signore, mi dà lei un ovo tutti li dì? — Ed il filosofo: « Ma quella gallina, com’è che voi l’avete avuta? » — E quella: « Mi è nata in casa da un ovo. » — « E quest’ovo da chi mai? » — « Da un’altra gallina. » — « Ma e la gallina prima?… — Allora quella: « Eh, signore, lo sanno fino i bambini che vanno al catechismo, che Dio creò il cielo e la terra e tutte le cose che sono in essi. » Voltaire restò lì sopra pensiero un istante!.. Poi: « Oh la brava, perché tu credi al catechismo, parli meglio di tutti questi che pretendono di saper tutto e non sanno spiegare niente !… » Tacque qui; ma il signor di Voltaire poteva dire ancora che quella buona massaia mostrava di aver più buon senso di quel tale così dotto astronomo (lo van dicendo di Arago), il quale sopra morte interrogato, se avesse nelle vita sua adorato ben Iddio? rispose: « Non ho avuto tempo di pensarvi! » Almeno la brava donnicciola teneva d’acconto la gallina, perchè le piaceva l’ovo da lei fatto; e quel dotto senza cuore ammirava le stelle, e si dimenticava di Dio che le creò!…
Spez. Lasciate fare a me, che lo voglio raccontare anch’io, per dare una buona rimbeccata a quei superbi, che non vogliono sentir parlare di Dio. – Ma io vorrei saper rispondere proprio a tono, quando dicono là, che le piante, gli animali e fin gli uomini vengon tutti prodotti dalla terra?
Par. Eh eh, adagio adagio a ma’ passi, dite loro; perché chi va saltellando tra gli abissi, cade certo a rompicollo. Ma sapete che avete fatti i grandi salti con queste poche parole! Dalla terra siete saltato alle piante, dalle piante agli animali, e dagli animali fino agli uomini. Pare a voi la poca cosa eh?…. Ma non sapete che dall’uno all’altro di questi generi di creature vi è una differenza tanto grande, un vero abisso di distanza che nessun uomo può misurarlo colla mente! Ve lo farò capire. Se aveste: voi scavata la terra in fondo in fondo (come la scavarono i geologi, cioè quegli scienziati che la vanno rovistando per conoscervi qualche cosa); avreste trovato, come. quelli, che là non vi era neppur un segno di piante e d’animali. Era dunque là la terra; e chi sa per quanto tempo? in prima come cosa morta senza produrre niente affatto.» – Ora, per cominciare poi a formar le prime piante, sì che dovette la terra pensar tanto come doveva formarsi bene le radici, i fusti e tante foglie, e stender quei filamenti sottilissimi, ed intrecciar le costoline e far i buchi da passare dentro gli elementi, e poi e poi… eh non so io, né sanno gli altri dir ben tutti come sieno formati quegli organi così minuti. Pensarlo?… Sarebbe ancora poco; e poi è più ancora mettersi a far tutto! Eppure quelle teste matte, come se niente fosse il poter fare tanti miracoli di cose, dicon li, con una parola « che la terra si è sviluppata in piante!» Come la san lunga!… Ma poi la terra quando si è fatta piante di se stessa, e le dovette venir voglia di diventare animali, bisognava che inventasse che cosa fossero gli animali dei quali non s’era mai veduto neppur uno; e poi s’andasse a provvedere chi sa dove? quelle tali cose che si chiamano anime che fan muovere e sentire. Poiché sentire e muover e muoversi spontaneamente come fanno gli animali, deve esser ben diverso dallo stare lì piantati come un albero insensibile… Aspettate!. Ma e poi quando la terra fattasi piante ed animali, questi si sentirono l’ambizione di diventare uomini da comandare a tutti; allora sì! che dovettero studiar bene di crearsi dei figliuoli un po’ migliori, e di quella bellezza che non si avevano mai veduti tra quei brutti ceffi di scimmioni d’ogni specie. E poi e poi, che inventassero delle anime capaci d’imparare a ragionare: ché di ragione gli animali non ne vollero mai sapere. Bisognava dunque che la terra, altro altro che far evoluzioni e trasformarsi da una specie all’altra come sono le creature! bisognava adunque che la terra prima se le sapesse tutte immaginare? anzi anzi, aver la potenza di far tutto e la sapienza di far tutto in così bell’ordine! Bisognava adunque che la terra fosse sapientissima, onnipotente provvidentissima da sapere, da potere crear tutto, e tutto conservare… Oh vedete che disgrazia, di coloro che se non vogliono credere in Dio Creatore. onnipotente; diventano. Così matti da credere che sia la terra creatore onnipotente, creatori anche le piante, e creatori di noi uomini siano le bestie!
Spez. Che sapienti!… Ma hanno perduto proprio la testa. Ma abbiate la bontà di darmi la risposta che io possa dare, quando diranno: che le creature, o gli esseri, come dicono essi, son così simili tra loro che certe piante si confondono colla terra e certi animali si confondono colle piante e certi uomini colle bestie, sicché dicono: che si conosce che le cose si trasformarono l’una nell’altra.
Par. Eh! ne avrebbero stavolta detta una mezzo vera, ché proprio certi uomini si confondon colle bestie, alla maniera che dicono ed operano senza ragione! È però vero che le creature terrestri si somigliano in qualche cosa che tutte hanno insieme con sé. Tutte hanno della materia di cui son formati tutti i corpi; ma oltre la materia che le piante han dentro loro, essi han gli organi che le compongono, e cogli organi la forza di vegetare, e questa forza non è cosa materiale. Così pure gli animali hanno fili, vene, organi insomma adattati a loro; ma col corpo organizzato han la forza di sentire, han l’istinto di muoversi e andar a cercare ciò che loro è necessario, e questa forza di sentire non è cosa materiale, né una conformazione di parti organizzate come sono le piante; ma è l’anima per cui essi sono animati. Così anche degli uomini poté dire un gran dotto, che è S. Gregorio, che noi uomini in certo qual modo siamo esseri materiali come la terra, vegetanti come le piante, animati come gli animali. Ma se in queste cose siamo simili agli animali, noi nel corpo animato, abbiam però poi anche l’anima ragionevole, per cui siam diversi assai assai e superiori a tutti; poiché coll’anima ragionevole siamo simili fino agli Angeli. Ma a divertirvi, voglio raccontarvi un fatterello che darebbe una lezione assai solenne, per far capire come noi uomini siam diversi da tutt’altre creature. Fu un di un maestro che nella scuola tecnica parlava di tutto e spiegava anche quello che non aveva mai studiato, credendosi licenziato in ogni scienza come un professore enciclopedico che conoscesse tutte le cose, e più altro ancora. Solo perché aveva passeggiato sotto i portici dell’Università, e udito cinguettar di Darvinismo, voleva dare prova di tutto il suo sapere con far solennemente una gran lezione. E là a sciorinare, che in tutto l’universo era materia, che si era trasformata da terra in piante e da piante in animali, eccetera, eccetera!… E siccome i paperi a gracchiare dall’oca grande, così egli aveva imparato da un grande professore a conchiudere vociando: (con divozione si direbbe) Oh metamorfosi della materia, sacra parola, al solo pronunciarti mi sento destar nel petto un senso di profonda venerazione…» poi ai suoi scolari: « Colti giovani, siate spregiudicati e non lasciatevi ingannare da qualche sentimento di debolezza!… » Quei giovani che si ridevano sotto labbra di quel sciocco buffone… ai quali bastava l’animo di fargliene delle belle, vollero mettere in pratica la lezione in un modo assai bizzarro, da cavargli la voglia di replicarla al solito. Lo aspettaron uniti insieme in corpo all’uscio della scuola, e all’uscirne fu un battere le mani a lui tutti d’intorno. Ei si ringalluzziva tutto dicendo in suo cuore: « che gran lezione ho mai fatto io! eh! Se sono un professore da esser chiamato all’Ateneo!» Ma gli arditi gli si serraron alla vita, e il sollevaron tra le braccia in alto in alto… Egli, che credeva lo portassero in trionfo, a gridar subito: « Troppo ono…. e muta il grido in «ahi! » quando lo stramazzarono per terra. Meschinello!.. rotta la testa!.. mise un gemito « son rovinato!… aiuto! » Ma gli scolari nello sghignazzio, da buoni spregiudicati senza sentimento: « È proprio terra il signor maestro! è caduto come una gran motta di terra!..» — Ma il povero maestro grida: « Aiuto! aiuto!… mi sento morire!… Ho paura!..» Ed essi a scherno: « Eh eh, signor maestro, e se si muore?… è niente è niente, è un po’ di terra che fa la sua evoluzione!..» Io credo che allora anche il maestro maledisse il Darvinismo!
Spez. La ci andava una simile lezione a questo sciocco che voleva fare lo scienziato! È tanto spiritoso il brutto giuoco, che muove più il riso che la compassione! Ma mi dica ancora, perché io possa rispondere a’ miei signori: Non potrebbero le piante e gli animali diventar migliori per la coltura e collo svilupparsi sempre in meglio farsi col tempo di una razza più bella?
Par. Rispondete che per diventare migliore una cosa, deve essere in prima già la cosa che la si debba migliorare. Così voi potete nel vostro orto; come il Darwin nel suo, coltivare le cipolle, e diventeranno più grosse; saranno però sempre cipolle; coltivate i cavoli, ma non si cambieranno in. Bestioline di nessuna sorta; coltivate i piccoli polli, non diventeranno mai le graziose colombine. Da tutte piante, come da tutte bestie, vengon su piante e nascon sempre bestie della stessa natura di quelle che le hanno prodotte. Questo si è sempre veduto dacché mondo è mondo. Si trovan diffatti negli antichissimi sepolcri di mille e mille anni fa grani; serpenti e scimmie che erano stati imbalsamati coi cadaveri umani; ebbene, son proprio gli stessi grani, i quali, ancor seminati da noi, danno grani come quelli antichissimi, e sono gli stessi serpenti che strisciano ancor là nelle sabbie abbruciate dell’Africa, gli stessi gatti delle cucine nostre e le istesse scimmie colle quattro zampe istesse che s’arrampicano sugli alberi oggidì; le quali poi, si vede, che mai non si sognaron, almen per sei mila anni, di farsi scimmie un po’ migliori. Insomma, le piante e gli animali vengon su coi loro caratteri particolari dal seme o germoglio, come l’ha creato Iddio. Così spunta una piantolina dal suo guscio, ma essa è già il piccol albero che potrà diventar grande come il castagno della regina Giovanna da tener all’ombra i cento cavalieri; ma più o men grossa, è sempre la pianta istessa. – Degli animali poi è da dire lo stesso. Nasca pur piccina la bestiolina, ma in sé ha già tutte quelle ossa che si vanno consolidando, e tutti quei muscoli e nervi e le più minute vene; sicché può diventar crescendo un grosso elefante; ma non cambierà mai: perché pel trasformarsi, cioè mutarsi in altro, sol cambiasse un osso solo, non potrebbe vivere come elefante, quale fu creato da Dio.
Spez. Oh! le belle cose che mi spiegate chiaramente! Ma essi piglian tutto in grosso, e dicono che certi animali si cambiano in altri animali più perfetti, migliorando la loro specie.
Par. Più perfetti?… ma ogni specie di animali ha tutte le parti necessarie per esser perfetta nella sua qualità; Dite loro: che l’uomo che più s’intende dell’anatomia degli animali, perché studiò tanto ciascun organo del loro corpo, il signor Cuvier, osservò che tutte le parti degli animali sono così create per servire all’animale di quella specie. Per esempio, dice egli, l’animale che mangia carne, non solo si conosce dagli artigli e dagli unghioni, ma ogni piccol muscolo del suo corpo è proporzionato alla forza, all’agilità, insomma a tutto ciò che si richiede dalla sua maniera di vivere. Sicché (lo dice egli) il dire che un animale possa trasmutarsi in altro, è un mostrar di avere, (notate, son sue parole,) la più grande ignoranza.
Spez. To? che me li ha bollati, in regola questi che pretendono, senz’aver studiato, darsi il vanto di mostrarsi gli scienziati, solo perché si vantano di non credere. Diede loro la patente di solenni ignoranti.
Par. Ma raccontate un fatto che darà prova che il signor Cuvier gliela poteva dare. Un dì nelle cave di calce di Montmartre presso Parigi furon « trovate delle ossa, che egli conobbe non poter essere d’alcun degli animali che vivono ai nostri dì. Quindi pensò che quelle grand’ossa dovevano averne altre corrispondenti per far andare insieme il corpo degli animali. Pensò che sopra quelle ossa si dovevano stendere dei muscoli di carne in un tal modo; e così via via si mette a disegnare l’animale intiero come se l’immaginava egli che doveva essere. Fu poi trovato l’animale intiero; e si vide, meraviglia! era proprio simile al disegnato. Replicò poi la prova; da altre poche ossa di animali sconosciuti disegnò esattamente quali dovean essere quegli animali, e non la sbagliò mai. E sapete il perché? Perché conobbe esattamente che ciascun animale ha tutte le sue parti da Dio create per poter vivere. secondo la sua specie e la sua natura; né un animale potrebbe vivere, se mutasse un proprio osso, un nervo nella forma di un osso o d’un nervo che hanno animali di altra specie.
Spez. Eppure avrebbe da udirli come quei creatori a fantasia essi sanno la maniera, per cui gli animali di una vanno adagino mutandosi in animali di un’altra specie. E vanno dicendo che la inclinazione e la gran voglia di arrivare a pigliarsi qualche cosa, di godere e far sempre migliore vita fanno sviluppare negli animali le membra che hanno; e perfino, ma la senta una bella! perfino fanno lor nascere le membra che non si avevano prima.
Par. Oh oh! è proprio bella bella; ma però la potrebbe mutare in brutta pei poveri galantuomini… Ma sa egli, che se le inclinazioni, le brame potessero crear le membra che non si hanno, molti furfantoni che hanno tanta inclinazione, una brama viva viva, una calda foia ch’abbrucia a lor le carni addosso, oh se vel dico io! come metterebbero fuori certe alacce sulle spalle, da volare da grifoni nelle finestre ad arraffare nelle stanze l’oro che fa a loro tanta gola!… Quante si dicono stoltezze, mio caro, quando si ha perduto il ben di Dio ?…. Voi potete far intendere a chi ha ancora un po’ di ragione, che l’esercizio può bensì far diventare più robuste e grosse le membra che il Signore ha dato agli animali… ma non farne venire delle nuove?… Oh oh non mai! Io credo che neppur quando uom sogna, ei fantastica di aver le ali.
Spez. Sì, veramente sono. anch’io ben persuaso che col non credere più in Dio, si perde proprio la testa! Ma ascolti ancora quest’altra; e mi suggerisca come possa far loro credere che diventano ridicoli! Volendo dire che nell’universo tutto è materia e forza, non han vergogna di dire anche: che aggiungendo forza a forza si compongono le ragioni degli uomini, come io compongo i miei impiastri!
Par. E voi pigliate subito loro di bocca le loro parole istesse. O i miei belli scienziati, troppo bene mi avete detto, che tutto essendo materia e forza solamente, ogni atomo è sempre unito colla sua forza, e che ogni forza, la sia pur piccina piccina, ha sempre unito il suo granellino di materia. Adunque per far di un animale irragionevole un uomo ch’abbia la ragione, bisognerà metter nella bestia un’altra forza. Così aggiungendo forza a forza, aggiungeremo materia a materia… L’avete fatta la gran bella scoperta! Da bravi, avanti avanti, e per formare un uomo più dotto, fate un bestione ancor più grosso del mammouth… Ah ah sarà questo il sapientone, proprio il vero vostro Salomone!
Spez. Bisogna ridere per forza, anche quando non si ha voglia!
Par. Deh non ridete. Poiché è cosa che fa piangere il pensare che con tanti spropositi non solo si fa’ perdere la fede ed il buon senso, ma si fa spegnere ogni sentimento di bontà! Perché assuefandosi anche coloro che non sono malvagi ancora, a dir sempre così cattive cose alla spensierata, si finisce poi per crederle senza pensarvi più che tanto. Quindi col parlar sempre di materiali cose, coll’aggiungervi che tutto è sola Materia, si guardan fino le persone come fossero cose materiali, da servirsene, quando sì possa, a volontà. Avvisate i vostri amici, che avran forse da pentirsene. Quand’avranno i loro figli educati a queste scuole, ed in famiglie non sentiranno che parlar d’interessi e di far servire le persone a far meglio gl’interessi loro proprii… potranno poi far certi calcoli fin sulle persone dei loro padri… Raccontate questo fatto per far intendere a quella buona gente, che « cosa si potrebbe volere far finanche di questa povera carne umana. Inorridite alla crudeltà di questo calcolo innanzi alla pietà cristiana, udendo solamente a raccontarlo. Un dì una giovine sposa in un santo cimitero inginocchiata sulla tomba della buona sua madre, deponeva appié della croce. una corona di violette del pensiero con in mezzo un cuor fatto di rose, e a quella pietà il suo giovine sposo col cappello in mano dietro a lei pregava anch’esso. Poco lontano appoggiato le spalle ad una colonna un tale cupo cupo, col cappello all’americana giù sulla fronte, segnava alcune cifre sopra un suo portafoglio; e in quella dava di sbieco un’occhiata su quei due ridendo. A quel segno di confidenza lo sposo a lui: « Signore, disse, voi forse scrivete un qualche bel pensiero venuto anche a voi in questo luogo d’inspirazioni così care e sublimi?… » E l’altro crollando il capo con un far di beffa: « Superstizioni, esclama, superstizioni tanto dannose al progresso… Eh eh,. signore; bisogna elevarsi. Sopra questi bassi sentimenti… La scienza, la scienza, e non più superstizioni! Ora la scienza insegna che tutto quello che succede. non è che evoluzione della materia… Che mi parlate d’inspirazioni dell’anima? Se tutto è materia, egli bisogna trar partito dalla materia… Io faccio appunto il calcolo che il corpo di un cadavere pesa in media tanti chilogrammi: dunque da un cadavere si può cavare tanti chilogrammi di olio e tanti di colla; e poi colle ossa spolpate tanti chilogrammi di calce… Che gran capitale va perduto per la superstizione della Religione cristiana! » – Il giovine sposo diede in dietro un passo per ribrezzo, e la signora atterrita nascondevasi dietro al consorte, parendole in quel grifo uno sguardo da iena, che agognasse cogli unghioni di ferro a dissotterrare il cadavere della santa sua madre!
Spez. Mi sento venirmi fredda anch’io la vita, quando io penso che se la scienza di quei sapienti va innanzi ancor un poco, ve’ che mi vorranno gettare in una gran caldaia; pu pu!… fan troppo orrore. – Ma costoro, signor parroco, se non si credon di essere che materia, perché fan tanti calcoli per far l’interesse di un pizzico di materia?
Par. Mio buon signor amico, bisogna conoscerli per bene, e vorrei lo capissero tutti i cari nostri, come costoro guardano tutti gli altri come cose materiali da maneggiarsi senza sentimento; ma solo riserbano a se stessi di potere servirsi di tutti, per fare il proprio interesse. Pur vantandosi d’esser i soli sapienti, vanno dicendo d’esser filantropi, che amano tanto il popoletto!
Spez. L’ho sempre detto io:
DIO CI LIBERI!… CHE SAPIENTI?… CI VORREBBERO: FAR PERDERE LA TESTA … Ma dirò anche sempre : CHE FILANTROPI… FAN L’AMORE AL POPOLO COLLE UNGHIE E CO DENTI!….
Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI
IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 – F. MOZZANICA V. G.
CAPITOLO X.
Della dolcezza
Perfezione della dolcezza. — È partecipazione della dolcezza medesima di Dio. – E il contrassegno del vero zelo — non si trova per lo più che nelle anime innocenti. –Dio per comunicarci le sue virtù segue due vie, quella dell’effusione e quella dell’acquisto.
La virtù di dolcezza è fa più alta perfezione del Cristiano; essa, infatti, presuppone in noi l’annientamente da tutte quanto è nostro e la morte di ogni interesse proprio; dimodochè il disprezzo non ci irrita più e neppure la perdita dei beni e della tranquillità della vita vale a farci perdere la nostra pace. – In voi, dice S. Paolo, sia soffocata e consumata qualsiasi radice di amarezza (Ephes. IV, 31; Hebr. XII, 15). Ora, questo si fa per mezzo di Gesù Cristo Nostro Signore; perché Gesù Cristo, abitando nel fondo dell’anima nostra con la pienezza della divinità, assorbe nella sua carità il nostro amor proprio, il quale è la causa dell’ira. In tal modo, l’anima nostra trovasi nella pace e nella dolcezza; ed anche nei casi in cui l’interesse proprio in apparenza sembra ferito, essa non ha né asprezza né amarezza. L’amor proprio si irrita e si accende tutto di vivissimo fuoco, quando si ha la pretesa di rapirgli ciò che gli appartiene, Perciò, se vogliamo che l’anima nostra goda la vera dolcezza, è necessario che tutto quel fondo di amor proprio che si estende e si porta verso la creatura, sia inabissato in Dio. Come vi sono parecchi gradi di umiltà, vi sono pure varie sorte di dolcezza. Ma la dolcezza vera, fondata e perfetta, è quella del cuore: di essa parlava Nostro Signore, quando diceva: Imparate da me, ch’io sono dolce ed umile di cuore. Ora, questa dolcezza di cuore deve essere talmente radicata in noi che niente la possa alterare, e non le rimanga più nulla né della carne né di sé medesima, ma sia tutta immersa e come perduta in Dio, ossia nell’essere, nella vita, nella sostanza, nelle perfezioni di Dio. In tale stato, l’anima tutto opera nella dolcezza; quando pure agisce con zelo, è sempre con dolcezza, perché l’amarezza e l’acrimonia non hanno più luogo in essa, come non possono aver luogo in Dio. – La carne e l’uomo vecchio hanno uno zelo falso e contraffatto. il quale per quanto esteriormente abbia qualche somiglianza con lo zelo dell’uomo nuovo, in fondo ne è molto dissimile: il primo è sempre pieno di amarezza e di asprezza, il secondo è tutto animato dalla dolcezza. Uno dei maggiori contrassegni per discernere lo zelo della carne da quello dello Spirito Santo è appunto questo; il vero zelo di Dio viene acceso in noi dalla considerazione del bene del prossimo, mentre lo zelo falso dell’uomo vecchio trovasi sempre eccitato dal nostro interesse proprio; e questo viene chiamato la collera, la quale è un appetito, una tendenza, un moto di ardore per ritenere o cercare ciò che ci appartiene. La vera dolcezza non si trova quasi mai che nelle anime innocenti, nelle quali Gesù ha stabilito la sua dimora continua fin dalla loro santa generazione e nelle quali è cresciuto nel complesso di tutte le sue perfezioni. Nelle anime penitenti, la dolcezza si trova raramente; perché il peccato le ha private di un’infinità di perfezioni, ed ha fatto regnare in esse il disordinato interesse di mille cose di cui l’abitudine si è formata e contratta con una fervente attività; anime penitenti sono quindi obbligate lavorare con molta fatica e violenza, per distruggere l’uno dopo l’altro tutti questi vizi della carne, riacquistare le Virtù contrarie, e così, in Gesù Cristo, riparare quanto avevano perduto. Siccome poi per ottenere questi effetti ci vuole molto tempo e occorrono molte mortificazioni, pochi ve ne soro che siano perseveranti e che lavorino all’acquisto della virtù con quella grande fedeltà che è necessaria onde ricuperare quanto hanno perduto col far getto della grazia del loro battesimo, e quindi ristabilirsi, in Gesù Cristo, nella pienezza delle vie divine.
***
Vi sono due vie differenti per le quali Dio comunica agli uomini le sue virtù. Nella prima, Egli le comunica per un puro effetto della sua bontà e liberalità, senza esigere alcun lavoro da parte della sua creatura. Nell’altra, esige fatica nella creatura, e non concede la virtù se non dopo violenti sforzi e in seguito ad una prolungata fedeltà. La prima può chiamarsi via di infusione: la seconda via di acquisto. La prima è rara nella Chiesa, a meno che Dio non abbia qualche disegno particolare sopra qualche anima, e per lo più, non viene usata che per gl’innocenti; la seconda non è meno rara, perché sono pochi quelli che perseverano con costanza e fedeltà. – La via d’infusione è dolce: ciascuno vorrebbe possedere per questa via le virtù non meno che gli altri doni: ma la via di acquisto è dura e nessuno la vorrebbe. Quest’ultima nondimeno è per tutti i peccatori e per tutta la Chiesa; mentre l’infusione è soltanto per gli innocenti e per poche altre anime su fa terra. Gli innocenti mentre crescono in Gesù Cristo, crescono pure in tutte le virtù, a motivo che Gesù Cristo nelle loro anime gode di un dominio estesissimo, per cui le riveste, le copre, le investe delle sue proprie virtù, col dono continuo e privilegiato della sua presenza. Egli in queste anime opera tale una trasformazione ch’esse non sono più sé medesime ma sono Gesù Cristo vivente e regnante in esse, Gesù Cristo che possiede e consuma tutto il loro essere. E siccome Egli è tutto consumato e trasformato in Dio perché Dio è perfettamente stabilito in Lui, così delle anime nelle quali Egli vive; Egli le consuma e le trasforma interamente in sé medesimo. Orbene, poche sono le anime in cui Gesù Cristo operi questi effetti, poche le anime nelle quali non rimanga qualche fondo di amor proprio, sorgente dell’amarezza e dell’ira che si accende per il proprio interesse; donde avviene che vi sono pochi Cristiani animati da perfetta dolcezza.
con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.
Ristampa della 4° edizione – Riveduta.
LUCE DIFFUSA
LA RICONOSCENZA E IL RINGRAZIAMENTO
NEGLIGENZA INESPLICABILE.
Noi siamo soliti, almeno, a parole, dire, ripetere a sazietà, il «grazie» a chi ci fa, o sembra farci, un qualunque beneficio, o ci concede un favore, anche se insignificante. Non indaghiamo se, e fino a che punto, questi «grazie, grazie » abbiano radici nel cuore e disposizioni pratiche corrispondenti nella volontà. Tuttavia, se questo nostro sentimento di riconoscenza, questa manifestazione di ringraziamento è abbastanza comune verso i nostri simili, non lo è, purtroppo, egualmente verso Dio nostro Padre e massimo benefattore. – Il fatto fu, e lo è continuamente ancora, constatato da molti santi, da tante anime pie che se ne mostrarono, e se ne mostrano sconsolati: «se vi è cosa di cui non si sappia spiegare la completa assenza nella religione pratica della maggior parte degli uomini — dice il P. Faber (Tutto per Gesù. Torino – S.E.I., pag. 215.) — è il ringraziamento. È ben difficile esagerare la negligenza che molti dimostrano riguardo a questo dovere; si fanno certamente poche preghiere, ma si fanno meno ancora ringraziamenti. Se un milione di Pater e di Ave s’innalzano dalla terra per domandare a Dio di allontanare da noi tutti i mali e per far discendere le sue grazie, quante di queste preghiere si diranno poi per ringraziare Dio dei mali da cui ci ha liberati e delle grazie che ci ha date? Ohimé! è troppo facile trovare la causa di questa ingratitudine: alla preghiera ci spinge naturalmente il nostro interesse, ma la riconoscenza è inspirata solo dall’amore ». Il corsivo di queste ultime righe è mio; ed è per rimarcare questa dolorosa affermazione che, purtroppo, corrisponde alla realtà dei fatti!
IL DOLORE DEL CUORE DI GESÙ.
Proprio per questa mancanza di riconoscenza, dopo la guarigione miracolosa dei dieci lebbrosi, Gesù, come fedelmente san Luca (XVII, 12-17) riferisce, uscì in una espressione piena di dolore, vedendo che uno solo fra i dieci, ed era un samaritano, aveva sentito il dovere di ritornare da Lui per ringraziarlo. « E come (Gesù) stava per entrare in un villaggio, gli si fecero incontro dieci lebbrosi, che si tennero a distanza ed, elevando la voce, esclamarono: “ Gesù, Maestro, abbi pietà di noi! ’’. A quella vista Egli disse loro: Andate a mostrarvi ai sacerdoti. » E mentre vi andavano, furono guariti.
» Or, uno di essi, vedendosi guarito, tornò indietro glorificando Dio ad alta voce, e si gettò con la faccia a terra davanti ai piedi (di Gesù) a ringraziarlo; ed egli era un Samaritano.
» Prese allora a dire Gesù: Non sono stati guariti tutti e dieci? E dove sono gli altri nove? Non s’è trovato nessun’altro, che sia tornato a rendere gloria a Dio, se non questo straniero?
» E a lui soggiunse: Alzati, va’; la tua fede ti ha salvato ». Una semplice considerazione. Risalta evidente, nei lebbrosi, il contrasto tra la condotta anteriore e quella posteriore alla guarigione. Prima della guarigione, il desiderio d’essere esauditi « li rendeva ossequiosi e prudenti; stavano in distanza per timore di irritarlo (Gesù) con l’avvicinarglisi troppo…; alzavano la voce dicendo: “ Gesù, Maestro, abbi pietà di noi”. Compiuto poi il miracolo, nove di loro, pieni di una gioia egoistica, andarono a presentarsi ai sacerdoti: ma uno, “uno solo… vedendosi guarito… si prostrò al piedi di Gesù e lo ringraziò » (Faber, op. c., p. 216). Di qui la sorpresa, la meraviglia, l’afflizione del Cuore di Gesù. La riconoscenza, ch’è un dovere d’amore, era stata soffocata dall’egoismo… negli altri nove lebbrosi guariti. – A parecchi secoli di distanza, Gesù ci fa sentire ancora lo stesso lamento. Santa Matilde, in preghiera davanti al santo Tabernacolo, aveva domandato a Gesù che cosa gli piacesse di più nell’uomo, e Gesù così, benevolmente, le rispose: « Il mio più vivo piacere è ch’egli mediti con profonda riconoscenza, e ricordi sempre sempre le ingiurie che ho sofferte nei miei trentatré anni, la miseria in cui vissi, gli affronti sopportati dalle mie creature ed infine quanto soffersi in Croce morendo nella più amara ed atroce delle morti per amore dell’uomo, per redimere l’anima sua col mio prezioso Sangue e farne una sposa fedele. Vorrei che ognuno mi fosse grato per un tanto beneficio, di gratitudine tenerissima, come se tutto avessi sofferto solo per lui ». Ogni anima deve ritenere rivolto a se stessa questo invito di Gesù, ricordare queste parole, meditarle, conformare e coordinare, secondo il giusto e santo desiderio del Maestro divino, i pensieri, le parole, le opere.
IL RINGRAZIAMENTO È DOVEROSO.
Non solo per un bisogno del cuore nostro; non solo pel desiderio giustissimo e per il diritto che ne ha Gesù, ma, anche perché la riconoscenza è vivamente consigliata, suggerita, comandata dai Santi e dai Padri della Chiesa. La miglior guida, in questo, come dice il P. Faber, è l’autorità della S. Scrittura. L’apostolo Paolo scrivendo agli Efesini, dice che Noi dobbiamo rendere grazie di tutte le cose a Dio Padre in nome di Gesù Cristo (Ef., V, 20). Ai fedeli di Corinto dice: «Fratelli, sempre rendo grazia per voi al mio Dio, per la grazia di Dio che vi è stata data…» (I Cor., 1-4). E ancora: « Dobbiamo abbondare con tutta la semplicità che opera in noi, ringraziando Dio» (II Cor., IX, 11). Ecco l’ammonimento che dà ai Filippesi: « Non desiderate nulla, ma in ogni occasione esprimete il vostro desiderio a Dio con la preghiera, con le suppliche e col ringraziamento » (Filip., IV, 6). – E ai Colossesi: «Poiché avete ricevuto il Signor nostro Gesù Cristo, camminate in lui, appoggiati su di lui e edificati in lui e confermati nella fede come l’avete appreso, rendendo, per mezzo di lui grazie abbondanti » (Col., II, n). Più avanti, ancora: « Non trascurate la preghiera, ma vigilate attentamente nei vostri ringraziamenti » (Col., IV, 2). Rivolto a Timoteo, afferma che: « ogni creatura di Dio è buona, e non bisogna rifiutare nulla di ciò che si riceve con ringraziamento» (I Tim., IV, 3). Indirizzandosi ai Romani dice: « E il carattere dei Gentili era tale che, sebbene conoscessero Dio, non lo glorificavano come Dio e non lo ringraziavano » (Rom., I, 21). La lode e il ringraziamento sono la delizia più grande degli Angeli e dei Santi in Paradiso; saranno anche la nostra occupazione, per così dire, più gradita in cielo. – Nell’Apocalisse di S. Giovanni, il linguaggio degli Angeli, dei seniori e di tutte le creature viventi si riduce alle seguenti parole: Amen! Benedizione e gloria, sapienza, grazia, onore, potenza e forza al nostro Dio, in tutti i secoli! Amen. – Gesù disse a santa Brigida che il ringraziamento è uno dei fini dell’istituzione del S. Sacrificio della Messa: Il mio corpo, le disse, è ogni giorno immolato su l’altare, affinché gli uomini che mi amano si ricordino più spesso dei miei benefici. Ringraziate Dio, dice san Bernardo, e voti ne riceverete dei favori sempre più grandi. – S. Lorenzo Giustiniani, nel suo Trattato dell’obbedienza, così si esprime: «Chi volesse, egli dice, contare tutti i benefici di Dio, somiglierebbe a chi si sforzasse di racchiudere le potenti acque dell’immenso oceano in un piccolo vaso… E più avanti: Mostrate soltanto a Dio che voi siete riconoscenti di quello che vi ha dato, ed Egli verserà sopra di voi dei favori sempre più abbondanti ». – San Paolo della Croce, durante una sua grave malattia, passava le ore e i giorni nel ringraziare e lodare Dio, ripetendo sovente con particolare attenzione e devozione quelle parole del Gloria in excelsis: « Noi ti ringraziamo per la tua grande gloria ». Alla maggior gloria di Dio era la frase, la giaculatoria, il motto araldico preferito di S. Ignatio di Lojola, lasciato in eredità alla Compagnia di Gesù. – Una grande caratteristica del santo don Bosco fu la sua immensa riconoscenza: verso Dio soprattutto; per Maria SS. Ausiliatrice, che chiamava la sua Regina potente, la sua ispiratrice, e alla quale tutto solo e sempre attribuiva; pei suoi collaboratori, pei suoi benefattori, pei suoi alunni stessi, per chiunque gli avesse fatto anche il minimo benefizio… La gratitudine è l’anima della religione, dell’amore filiale, dell’amore a quelli che ci amano, dell’amore alla società umana, dalla quale ci vengono tanta protezione e tante dolcezze. Tutte le astuzie per giustificare l’ingratitudine, sono vane; l’ingrato è vile. Così il mite e grande Silvio Pellico che, per avere molto sofferto, era specialmente indicato e qualificato nel ringraziare anche per le minime attenzioni che gli si usavano.
MOTIVI DI RICONOSCENZA.
Noi dobbiamo ringraziare continuamente il Signore per tutti i suoi benefizi. Anzitutto pei suoi benefizi generali, cioè quelli che concede a tutti gli uomini indistintamente, come: la creazione, la conservazione, la redenzione, il perdono dei nostri peccati, tutte le grazie della santa umanità di Gesù, i gloriosi privilegi della Madre di Dio e tutto lo splendore degli Angeli e dei Santi. Indi, dobbiamo ringraziare il Signore per tutti i favori, pubblici e privati, che, nella sua misericordia, diede a ciascuno di noi personalmente, individualmente. Tutti i grandissimi beni dell’anima e del corpo; la grazia dei sacramenti, le sante ispirazioni, gli aiuti speciali per la nostra perfezione e santificazione. – Di più: san Giovanni Crisostomo voleva pure che si ricordassero con particolare riconoscenza i benefizi nascosti che Dio ci diede a nostra insaputa. « Il Signore, egli dice, è una sorgente abbondante di clemenza, le cui acque scorrono su di noi e intorno a noi, anche quando non lo sappiamo ». – Per questi, e per tanti altri motivi di ringraziamento, la Chiesa ci insegna il modo di manifestare a Dio la nostra gratitudine. Nel prefazio della S. Messa si trovano queste belle parole: Vere dignum et justum est… nos tibi semper et ubique gratias agere: è cosa veramente degna e giusta che noi ti ringraziamo sempre, o Signore… Sempre e ovunque, perché — in qualunque luogo — non v’è momento, che non sia un benefizio del Signore. Presso il popolo giudaico vediamo con grande ammirazione che non appena il Signore aveva concesso qualche benefizio al suo popolo, questi cantava subito un inno di lode e di ringraziamento a Dio suo massimo, insuperabile benefattore. Ci risuonano nell’anima le parole del Salmista: Quid retribuam Domino pro omnibus quæ retribuit mihi? — Che potrò io mai rendere al Signore per tutti i benefizi che ho da Lui ricevuti? — Come non ricordare, qui, il meraviglioso cantico della Vergine Santissima quando, nell’entrare in casa della cugina Elisabetta, uscì in quel meraviglioso: Magnificat anima mea Dominum? Questi esempi, questi motivi debbono indurre anche le anime nostre a cantare le glorie del Signore, a dirgli di continuo tutta la nostra più filiale riconoscenza! Questo, però, non basta. Il modo e il mezzo più bello per ringraziare Dio pei suoi benefizi, è quello di farne buon uso, servendoci dei benefizi e dei doni stessi per aumentare la sua gloria e procurare la salvezza della nostra anima.
NELLE TRIBOLAZIONI DELLA VITA.
Se, generalmente parlando, poche sono le anime che sentono e comprendono appieno la necessità del ringraziamento, della laus perennis al Creatore per tutti i favori e i benefizi da Lui ricevuti, pochissime sono, certamente, quelle che comprendono il dovere della riconoscenza, del ringraziamento a Dio per le tribolazioni, per i dolori, per le contrarietà d’ogni genere che Dio manda, o permette, alle anime. Difficilmente gli uomini ricordano che Dio è Padre, e soprattutto Padre buono, Padre tenerissimo che vuole solo il nostro bene, e che pel nostro bene tutto dispone con ordine, peso e misura. Se questo concetto fosse sempre tenuto presente dalle anime, non vi dovrebb’essere difficoltà di sorta a persuaderci della verità delle parole di Giobbe: Se abbiamo ricevuto con gioia i benefici dalla mano del Signore, perché non dovremmo accettare, egualmente, i mali che egli ci manda? «Non crediamo, dice il P. Faber (Op. cit, p. 236-7), che si esiga da noi un sacrificio troppo grande, quando ci viene raccomandato di ringraziare Dio di tutte le afflizioni, di tutte le tribolazioni a cui fummo sottoposti nel passato e che soffriamo ancora presentemente… – San Giovanni d’Avila soleva dire che un solo Deo gratias di un cuore afflitto vale più di parecchie migliaia di esclamazioni simili in mezzo alla prosperità ». « No, dice sant’Antioco, noi non possiamo dire di una persona ch’è veramente riconoscente, finché non l’abbiamo veduta ringraziare di cuore Dio in mezzo alle avversità… San Giovanni Crisostomo, nelle sue omelie su l’Epistola agli Efesini, dice che noi dobbiamo ringraziare Dio anche per l’inferno e per i tormenti che vi si soffrono, perché nulla ci aiuta tanto a dominare le nostre passioni, quanto il pensiero di quei supplizi. – Come possiamo accettare le tribolazioni?- Facciamo nostro il pensiero del Tissot (La vita interiore semplificata, pag. 288. Torino, 1913). Dobbiamo accettare le sofferenze con gratitudine, non con gioia, perché questa non dipende da noi. Da noi dipende la riconoscenza; da Dio la gioia. Come regola generale, teniamo la massima favorita di S. Francesco di Sales: nulla chiedere, nulla rifiutare. Questa massima può servire molto bene di formula alla condotta cristiana attraverso le desolazioni e le consolazioni. L’anima, poi, che vuole realmente amare Gesù e seguirlo, gli sarà altresì riconoscente per le sofferenze ch’egli ha, per noi, sopportate. – Come non ricordare, senza commuoversi intensamente, tutte le prove di amore nel dolore, nel sacrificio totale di sé, nel rinnegamento assoluto e perfetto, nella desolazione completa che Gesù volle soffrire per la redenzione delle anime nostre? Giustamente possiamo ricordare e ripetere: Tota Jesu Christi vita, crux fuit et martyrium. Non basta. Gesù dispone, nella sua infinita sapienza, che i dolori da noi sofferti con rassegnazione e per amor suo, in questa vita, siano ordinati a farci evitare le sofferenze del Purgatorio…
IL MALE DELL’INGRATITUDINE.
Per mostrare quanto grave male sia l’ingratitudine, ricordiamo ancora il dolore provato da Gesù nel vedersi comparire davanti, per ringraziarlo, soltanto uno dei dieci lebbrosi da lui beneficati e guariti. Uno solo dei dieci sentì e compì il grave dovere della riconoscenza! Presso gli uomini, l’ingrato è giudicato vile, è disprezzato, odiato, fuggito, costretto a vivere nell’isolamento e nell’abbandono. « Ma se il vizio dell’ingratitudine è odioso in faccia agli uomini, ed è da tutti giustamente condannato; tanto più lo è in faccia a Dio, e da lui perciò è severamente condannato. L’ingratitudine arresta il corso dei benefizi di Dio, dissecca la sorgente della pietà, e mette ostacoli a tutti i disegni di Dio su di noi » (Morino, Il Tesoro evangelico, III, pag. 363). Perché tanto dispiacciono a Dio gli ingrati? Perché, più col fatto che colle parole, essi dicono a Dio che non hanno più bisogno di Lui. E in seguito a tale condotta che il Signore ha fatto sentire i penosissimi lamenti verso i Giudei! … Popule meus, quid feci tibi? Aut in quo contristavi te? Responde mihi! Quia eduxi te de terra Aegypti parasti crucem Salvatori tuo! – Gli Israeliti dimostrarono ingratitudine a Mosè che in nome di Dio li aveva liberati dalla schiavitù d’Egitto; dimostrarono ingratitudine a Dio che nel deserto li aveva nutriti con la manna, cibo disceso dal cielo; dimostrarono ingratitudine per essere stati avviati alla terra promessa… Per tutti questi e per altri molti segni di ingratitudine, gli Israeliti de’ quali Dio si lamentò, furono da lui maledetti e nessuno di essi penetrò in quella terra promessa. Quante anime cristiane, già tanto beneficate da Dio, non entreranno nel regno dei cieli per la loro ingratitudine! È straziante il lamento che Dio fece sentire al suo popolo per mezzo del profeta Isaia: Udite, o cieli, e tu, o terra, ascolta: ho nutrito ed esaltati dei figli, ma essi mi hanno disprezzato. Il bue distingue il suo padrone, e il giumento la greppia del suo signore, ma il mio popolo non mi riconosce e non vuole intendermi: oh! guai a questo popolo ingrato e prevaricatore! Perché il Signore non si disgusti, non si stanchi di noi, non abbia a punirci severamente, cerchiamo di dirgli e dargli, in teoria e in pratica, tutta la nostra più viva, più sentita, più filiale riconoscenza.
LA GRATITUDINE E IL RINGRAZIAMENTO CI PORTANO ALLA SANTITÀ.
Narrano i biografi di santa Geltrude ch’ella si offerse, una mattina, durante la celebrazione della S. Messa, proprio nel momento dell’elevazione, in ringraziamento al Padre celeste per tanti benefizi da Lui ricevuti, e comprendendo poi che in quell’offerta doveva unirsi ai sentimenti del Cuore di Gesù, si prostrò con la faccia per terra e così disse al Padre Celeste: Mi offro con Gesù per tutto quello che può contribuire meglio alla vostra gloria. Appena detto questo Ebbe immediatamente la gioia sovrumana di vedere Gesù prostrato alla sua destra, e di sentire da Lui le seguenti parole: Io e quest’anima siamo una cosa sola. E subito la Santa di rimando a Gesù: « Oh Signore! anch’io sono tutta vostra ». Dice il Faber (Tutto per Ges, p.270): «Il crescere in santità non è altro che ricevere continuamente nuove grazie con le quali Dio ricompensa ciascuno degli atti con cui noi corrispondiamo alle grazie che già ci ha fatto, e noi sappiamo che nessuna cosa può attirare su di noi grazie così abbondanti o invitare Dio a versare su di noi i suoi tesori, quanto la divozione del ringraziamento ». Se la lode e il ringraziamento sono la vita degli Angeli e dei Santi e saranno la nostra occupazione nel Paradiso, il lodare e il ringraziare Dio ora, mentre siamo su la terra, nel pellegrinaggio in questa valle di lagrime, non è forse, un paradiso anticipato, e perciò l’unione nostra con Dio? – « Nulla, dice il Tissot (La vita interiore semplificata, Torino,1913), è forse così potente quanto questo ringraziamento per il progresso spirituale dell’anima; nulla porta la vita con tanta abbondanza ed impetuosità fino nelle intime fibre, poiché nulla apre così pienamente la via .a Dio. Questa sola pratica basterebbe a santificare l’anima in poco tempo; sarebbe in me la garanzia di tutte le virtù e la condizione del loro progresso ». – In breve: la riconoscenza e il ringraziamento a Dio ci fanno vivere contenti e soddisfatti di tutto nella vita cristiana; ci sorreggono nel lavorare e sopportare tutto per la gloria di Dio; ci aiutano a considerare proprio come nostri gli interessi di Gesù. Queste considerazioni vengono avvalorate dal seguente pensiero di S. Bernardo: «Il mare è origine di tutte le sorgenti e di tutti i fiumi; ma di tutte le virtù e di ogni scienza è principio Gesù Cristo: la continenza, la purezza del cuore, la rettitudine della volontà, traggono la vita da questa fonte. Pel ringraziamento questo fiume celeste ritorni al suo principio, affinché continui ad irrigare la terra». Giustamente quindi il pio autore dell’Imitazione di Cristo poté dire: « Sii dunque grato per ogni piccola cosa, e sarai fatto degno di riceverne delle maggiori » (V, 21).
Signore, che posso rendervi io, povera creatura, per tanti benefici? Che posso rendervi che non sia indegno di voi? Benché voi non abbiate bisogno dei miei beni (Salmo XV, 2) è tuttavia giusto ch’io riconosca la vostra bontà infinita verso di me.
Mediolani 27-11 – 1935 – Nihil obstat quominus imprimetur., Can. F. LONGONI
IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.
CAPITOLO IX.
Della pazienza
La pazienza è quella virtù che ci fa sopportare in pace, ed anche con gioia, le pene di questa vita, e tutte quelle tribolazioni che Dio si compiace di mandarci. La pazienza, per essere cristiana, deve, con gli occhi della fede, considerare Dio come l’autore di tutte le avversità e di tutte le contrarietà che ci accadono. Deve anche sopportare le afflizioni spirituali e le pene interne; e tutte per la virtù dello Spirito di Dio, che dapprima risiedette nella sua pienezza in Gesù Cristo, e venne poi comunicato anche a noi dal Battesimo e dagli altri Sacramenti.
I.
Gradi della pazienza,
1. Soffrire in pace. -— 2. Desiderare di soffrire. — 3. Soffrire con gioia, — ad esempio di Gesù Cristo.
Tre sono i gradi della pazienza; Nostro Signore ce li ha indicati nel Vangelo e si è compiaciuto di darcene l’esempio. Il primo è di soffrire le nostre pene in pace, con rassegnazione, conservandoci in una perfetta sottomissione agli ordini di Dio. Così Giobbe, in mezzo alle sue afflizioni, diceva, in una perfetta pace e con un intero abbandono alla volontà divina: Dio mi aveva dato tutto, Dio mi ha tolto tutto; sia benedetto il suo santo Nome! (Giob. I-21) – L’anima paziente non si lamenta né contro Dio né contro il prossimo; non si inquieta menomamente nel suo cuore per il proprio male, essendo animata dalle stesse disposizioni che le anime del Purgatorio, le quali con una sublime pace soffrono la violenza del fuoco e dei tormenti. Questo primo grado della penitenza viene espresso in queste parole di Gesù: Beati coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia, e che la soffrono in pace e con sottomissione agli ordini santi della Divina Provvidenza. Gesù Cristo ce ne ha dato l’esempio col sottomettersi volontariamente a tante pene, passando per ogni sorta di patimenti, tranquillo come la pecora che si lascia menare al macello (Act. VIII, 22).
* * *
Il secondo grado, è di desiderare ardentemente di patire. Ciò si è veduto nei martiri, che avevano il cuore infiammato di un tal desiderio così intenso da lasciar comparire anche esternamente il loro grande amore per i patimenti. Così S. Andrea, alla vista dei tormenti, esclamava: O buona croce che da tanto tempo così ardentemente desideravo! San Lorenzo si lamentava nel veder ritardato il suo martirio; e S. Teresa, nei trasporti del suo amore, esclamava: Aut pati, aut mori. O soffrire o morire! Nostro Signore esprimeva questo secondo grado della pazienza con queste parole: Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia (Matth. V, 6), e che sospirano di patire perché in essi si compiano i disegni di Dio, il Quale vuole che tutti i Cristiani soffrano con Gesù Cristo, e in Lui e con Lui prestino soddisfazione alla divina giustizia. Gesù ha voluto pure darcene l’esempio col manifestarci il suo ardente e continuo desiderio di soffrire, quando diceva: « Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, Desiderio desideravi » (Luc. XXII, 15;XII, 50). Egli considerava il sacrificio della Pasqua come un solo sacrificio con quello della Croce che doveva comprendere ed includere ogni patimento per questo motivo manifestava un grande desiderio di mangiare coi Discepoli quell’ultima Pasqua. – Il terzo grado è di soffrire con piacer e con gioia. Così gli Apostoli e i primi Cristiani se ne ritornavano dai tribunali pieni di gioia perché erano stati degni di soffrire per Gesù Cristo. S. Paolo, nelle sue Epistole, attesta ai fedeli che li vuole compagni della sua gioia nelle sue afflizioni e nelle sue pene (Fil., 7). Non solo ci manifesta la gioia che prova nel patire, ma afferma che trionfa nelle sue infermità e si gloria delle sue sofferenze (II Cor., XII, 9; Gal., VI, 14). S. Giacomo dice pure che il nostro cuore deve essere ripieno di ogni gioia in ogni pena e tentazione (Jacob, I, 2). – Nostro Signore esprimeva questo terzo grado con queste parole: Beati voi, quando gli uomini vi perseguiteranno e lanceranno contro di voi ogni sorta di maledizioni e calunnie; allora rallegratevi (Matth. V, 11). Ce ne ha dato pure l’esempio, poiché sta scritto: Propostosi il gaudio, sostenne la Croce, Proposito sibi gaudio sustinuit crucem (Hebr., XII, 2)
II
Motivi della pazienza.
Siamo creature, – peccatori – cristiani. — Gesù Cristo deve vivere in noi e trionfare in noi pure sulla carne. — Obbligo speciale dei Sacerdoti. – Efficacia e modo dell’azione di Gesù Cristo in noi.
Siamo obbligati alla pazienza, in primo luogo per la nostra qualità di creature; Dio è sovrano padrone della vita e della morte; da Lui tutto in noi assolutamente dipende, Egli ha quindi diritto di disporre di noi come gli piace. Il vasaio, dice S. Paolo, è padrone della creta per farne quel vaso che crede meglio (Rom. IX, 21); e dopo, del vaso che ha fatto dispone a suo piacimento; lo spezza, lo rompe; lo rifà, lo impasta, fo piega, lo schiaccia e gli dà quella forma che vuole. – Tale è la nostra condizione riguardo a Dic; essendo noi opera delle sue mani, Egli può far di noi tutto ciò che vuole. Che spezzi e rompa, che uccida o mortifichi, che ci getti nel più profondo dell’inferno o ce ne ritiri, questo è affar suo e dipende dalla sua mano; a noi non rimane che di sopportare in pace, adorando la sua volontà, i suoi giudizi e i suoi disegni, abbandonandoci completamente al suo beneplacito. In secondo luogo, siamo peccatori; in questa qualità, dobbiamo subire gli effetti della giustizia di Dio e del suo corruccio. Tutti i castighi che Egli manda in questo mondo sono un nulla in confronto di ciò che abbiamo meritato, e di ciò che ci farebbe soffrire, se non si degnasse di usarci misericordia trattandoci in questa vita con dolcezza e clemenza. Ricordiamoci dei castighi con cui Dio ha colpito i peccatori, come vediamo nella Scrittura: riflettiamo ai tormenti dei dannati. alle pene che i demoni per un solo peccato soffrono e soffriranno eternamente; con questi pensieri sopporteremo non soltanto con pace, ma anche con gioia, tutti i nostri patimenti, per quanto possano essere grandi. Infatti, che cosa v’è nell’Inferno che a noi non sia dovuto? Quali supplizi vi sono laggiù che non abbiamo meritato? Anzi abbiamo meritato mille volte di più, perché anche nell’Inferno Dio lascio ancora posto alla sua misericordia, e di questa siamo indegni. Non deve forse questo pensiero indurci a sopportare con pazienza qualsiasi pena o tribolazione di questa vita, tanto più che Nostro Signore dichiara che tali afflizioni sono segni del suo amore per noi. Quelli che amo, li riprendo e li castigo (Apoc. III, 19). – In terzo luogo, siamo Cristiani; in questa qualità, dobbiamo esser disposti a soffrir molto. A questo fine appunto siamo stati introdotti nella Chiesa, poiché Nostro Signore non ci ha accolti come Cristiani nella sua Chiesa, se non per prolungare sulla terra la sua propria vita. Ora. Qual è stata la vita di Gesù Cristo, se non una vita di condanna della carne? Perciò, Gesù Cristo deve umiliare e assoggettare in noi la carne, seguendo quelle vie che Egli sa e giudica più utili per esserne completamente vittorioso. Ha incominciato a riportarne la vittoria nella sua propria carne, e vuole continuare a vincerla in noi medesimi, per manifestare in ciascuno di noi come un indizio e un saggio della vittoria universale che ne ha riportata nella sua Persona. La Chiesa ed i Cristiani, a confronto del mondo intero, non sono che un pugno di carne; tuttavia, Egli desidera di essere ancora vincitore della carne in essi, per manifestare la sua vittoria e dare prove sicure e splendenti del suo trionfo. Con questo sentimento, il Cristiano deve rimanere perfettamente fedele allo Spirito, ed abbandonarsi interamente a Lui per vincere la carne e distruggerla in tutto. Le occasioni non gli mancano in questa vita, perché deve sopportare gli assalti del mondo, il disprezzo, le calunnie, le persecuzioni cui viene fatto segno; poi le violenti rivolte della carne sempre ribelle; inoltre, le tentazioni che gli vengono dal demonio: e infine, quelle prove che vengono direttamente da Dio, come le aridità, l’abbandono, ed altre pene interiori, con cui Egli ci affligge allo scopo di aiutarci a crocifiggere interiormente la nostra carne.
***
I sacerdoti poi hanno un obbligo speciale di portar pazienza, perché devono possedere la perfezione del Cristianesimo; e questa non può stare senza la pazienza. La pazienza è un indizio che l’anima è intimamente unita a Dio e stabilita nella perfezione. Bisogna, infatti, che essa viva eminentemente in Dio, e sia da Lui pienamente posseduta, perché sopporti pene e tormenti con pace e tranquillità, ed anche vi trovi la gioia e la felicità del suo cuore. Bisogna che sia ben profondamente inabissata in Dio e che Dio se la tenga con tanta potenza e tanta forza, perché la carne non abbia la forza di trarla a sé e di farle accettare i propri sentimenti e le proprie ripugnanze verso le pene ed i patimenti. In tale stato. L’anima giunge alla massima perfezione cui possa elevarsi in questa vita, poiché essa è conforme a nostro Signore nella perfetta sottomissione che Egli praticò verso Dio nei suoi patimenti. Gesù Cristo, infatti, benché nella sua carne provasse somma ripugnanza per la croce, non ascoltò la carne né i desideri della carne, ma sempre visse in una perfetta conformità con la volontà del Padre suo. I sacerdoti adunque, essendo Cristiani perfetti, scelti in mezzo alla Chiesa per stare e servire davanti al Tabernacolo di Dio, devono essere attenti in un modo particolare a praticare questa virtù. È questo il loro carattere speciale, il contrassegno che li deve distinguere; la loro pazienza li disporrà a portare l’onorifica dignità di cui sono investiti e li farà riconoscere come servi e familiari di Dio. – Sacerdoti e Pastori devono possedere la pazienza in grado eminente; poiché, in Gesù Cristo e con Gesù Cristo sono sacerdoti, e vittime per i peccati del mondo. Gesù Cristo, il nostro Sommo Sacerdote, ha voluto essere la vittima del suo sacrificio e si è costituito Ostia per tutto il popolo. I sacerdoti sono come sacramenti e figure di Gesù Cristo. Gesù vive in essi per continuare il suo sacerdozio, e li riveste dei suoi propri sentimenti e delle sue disposizioni interiori del pari che del suo potere e della sua Persona, perciò vuole che siano stabilmente animati dallo spirito interiore e dalle disposizioni di Ostia per offrire e sopportare, per far penitenza, insomma, ed immolarsi alla gloria di Dio per la salvezza del popolo. – I sacerdoti non solo devono, ad imitazione di Nostro Signore, essere vittime per il peccato con la penitenza, con le persecuzioni e le pene interiori ed esterne, ma devono ancora essere vittime di olocausto; questa è la loro vocazione. Non basta quindi che soffrano, come Gesù Cristo, ogni sorta di pene, sia per i propri peccati, sia per i peccati del popolo dei quali portano il peso; devono inoltre essere, con Gesù Cristo perfettamente consumati interiormente nell’amore. Lo Spirito di amore dà forza e potenza per sopportare le pene e le afflizioni per quanto possano essere grandi; e siccome Egli è infinito, ci dà forza e potenza quanto è necessario per sopportare tutte quelle che ci possono capitare nella nostra vocazione. Tutti i tormenti del mondo non sono nulla per un cuore generoso che sia ripieno della virtù di un Dio che può portare sopra di sé mille e mille pene, molto più violente di tutte quelle con le quali il mondo e il demonio potrebbero affliggerci. S. Paolo alludeva appunto a questo spirito quando diceva: « Omnia possum in eo qui me corfortat, tutto io posso in Colui che è la mia forza » (Fil. IV, 13). Perché Dio abitava in lui, qualsiasi pena gli sembrava cosa da nulla. In questo medesimo Spirito eterno, immerso e onnipotente, il grande Apostolo chiamava momentanee e leggiere le sue tribolazioni: « Momentaneum et leve » (II, Cor. IV, 17). Perché Gesù le soffriva e le sopportava Lui, facendogli, con la sua presenza, vedere e sentire qualche cosa della sua eternità; perciò l’Apostolo considerava tutto il tempo di questa vita come un istante brevissimo. Così pure, Nostro Signore, col farci scoprire interiormente la sua potenza e la sua forza capace di portare mille mondi, ci fa riconoscere che il suo carico è leggero « Onus meum leve » (Matth. XI, 20). Talora Egli ci priva del sentimento sensibile del suo potente aiuto, affinché sentiamo il peso della tribolazione, nella debolezza della nastra carne e nell’infermità in cui l’anima nostra viene ridotta da tale privazione. Ma con questa specie di abbandono Egli vuole ottenere nelle anime nostre due grandi effetti. Il primo è d’ispirarci il disprezzo di noi medesimi e delle debolezze della carne: il secondo d’infonderci una grande stima di Dio e della sua forza, perché quando sentiamo la nostra debolezza, ci troviamo costretti, per necessità, a ricorrere a Dio e a stare in Lui. onde essere fortificati e sorretti per fare e soffrire a gloria sua tutto quanto gli piacerà.
con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.
Ristampa della 4° edizione – Riveduta.
LUCE DIFFUSA
L’AMORE PER DIO
L’AMORE PURO.
Dio è per noi il Padre più affettuoso. Tanto ci ha amato, e ci ama, che non esitò a permettere, e volere, il sacrificio del suo unico Figliuolo. Ci ha colmato di benefizi che non è possibile numerare. Ci ha perseguitato, e ci perseguita, col suo amore. Per noi ha creato il premio eterno e ci vuole salvi nell’eternità felice, in unione con lui. Dovremmo volere e sapere amarlo tanto non da riuscire a ricompensarlo, ché sarebbe impossibile, ma in modo da potergli dire: eccomi, o Signore, sono tutto tuo, e ti voglio amare ad ogni costo, per sempre, interamente e unicamente. Tu sei l’unico Amore, la sola Realtà. Poiché l’amor puro è l’amore di Dio interamente staccato è liberato dall’amor proprio, dovremmo sentirci tanto generosi da ripetere l’atto di amore puro espresso da santa Teresa: « Se io vi amo, o Signore, non è punto per il Cielo che mi avete promesso; se io temo di offendervi, non è neppure per l’inferno che avete minacciato: ciò che mi attrae verso di Voi, o mio Dio, siete Voi, Voi solo: è di vedervi inchiodato sulla croce col corpo straziato, nelle angosce della morte. E il vostro amore si è fatto così padrone del mio cuore che se anche non vi fosse il Cielo, io vi amerei ugualmente; quando anche non vi fosse l’inferno, io avrei timore di Voi. Nessun vostro dono può provocare il mio amore: perché anche non sperando ciò che spero, io vi amerei ugualmente come vi amo » (Storia di santa Teresa dei Bollandisti. Tomo II, cap. 31). Con questa espressione di amore non v’è in atto, nessun sentimento di speranza, né un desiderio di ricambio o di ricompensa; perciò così si ama Dio soltanto per il bene di lui stesso e non per il nostro. Se non che, questo è solo possibile, momentaneamente, cioè come atto transitorio. L’amore, cioè la carità, non può esistere nella nostra volontà se non come conseguenza della speranza. Non solo, dunque, noi dobbiamo cercare di amare Dio per sé, per le sue perfezioni, ma anche perché è il mostro vero bene; perché a Lui dobbiamo tendere continuamente, e in Lui dobbiamo vivere. Cioè: per la nostra unione con Lui!
ATTRAZIONE E SACRIFICIO GENEROSO DEL CUORE.
Trovo, in un libro (G. MAINETTI, Una educatrice nella luce di S. Giovanni Bosco. Torino – L.I.C.E.) molto interessante, riflessi di un’anima ardente di amore pel suo Dio, fino all’immolazione. Narra l’autrice: « È un mattino ardente di sole nel cielo puro e su la terra lussureggiante di vegetazione: 5 agosto: primo anniversario della vestizione religiosa di Madre Maria Mazzarello (ora Venerabile) e delle sue prime compagne. – 5 Agosto 1873. – Nelle mani del Fondatore S. Giovanni Bosco, la giovine discendente dei Conti Bellegarde de Saint Lary, depone il suo passato di speranze, di umiliazioni, di lotte, di patimenti, e anche di aspirazioni che non hanno più ragione di essere, nel suo cuore, per incominciare una nuova vita; fu una tappa, una sosta: ora bisogna riprendere il cammino scabro ancora, ma illuminato da un’altra luce, da un’altra speranza… Depone gli ornamenti del mondo, per rivestire quelli della vergine sposa di Dio. Suor Emilia Mosca è novizia. – Un anno dopo: 14 giugno 1874. – Fuori biondeggiano le spighe; luccicano i pampini sotto il bel sole che ricerca i grappoletti ancor verdi sui tralci; dentro la cappellina ornata a festa della bianca solitaria casa, otto giovani novizie pronunciano i sacri voti di povertà, castità, obbedienza: voti temporanei avanti alla Chiesa; perpetui nel sentimento, nel desiderio, nella volontà delle otto giovani suore. Li riceve don Bosco, il Fondatore santo. Poi la voce di lui si leva dolce e solenne nel trepido silenzio, a commentare il detto del divino Maestro: Nessuno che, dopo aver messo mano all’aratro, volga lo sguardo indietro, è atto per il Regno di Dio (Luca, IX, 62). – Una protesta si dipinge sui visi ombrati dal sacro velo; una protesta di fedeltà, per sempre). Per ogni anima, la vera letizia che non ha confine è questa: sentirsi figlia e sposa dell’Amore Divino!
LE STIGMATE DELL’AMORE.
La prova dell’amore è nel dolore serenamente accettato dalle mani di Dio: è nel compimento della sua santa volontà, qualunque essa sia, con tutte le nostre forze. Il dolore suol essere, sempre, la vera tempera dell’amore. L’amore per Gesù ha sostenuto i martiri e le vergini nel duro cimento. Parlo di Agnese, di Cecilia, di Sebastiano… L’amore per Gesù attrasse i giovani cuori a seguirlo generosamente nell’abbracciare la croce, e nel rinnegarsi; l’amore di Gesù fu luce e conforto inenarrabile, insuperabile alle anime desiderose di rivivere le sofferenze e la passione del maestro Divino. – Nella Messa di san Francesco d’Assisi v’è una sequenza molto bella che desidero qui ricordare (Cfr. il Messale Francescano; e OLGIATI, La pietà cristiana. Milano, 1935.): «La sequenza canta Francesco che, ritiratosi nella caverna di un monte, prega, proteso a terra, sino a che la serenità non sia concessa alla sua anima. Con la mortificazione egli riduce in tal modo il suo corpo, da non essere più se non l’ombra di sé; il suo cibo è la Scrittura; le cose della terra egli respinge con disdegno. Mentre in una profonda e silenziosa tristezza medita i misteri della Passione, un personaggio celeste, che porta i segni di Gesù Crocifisso, glieli imprime nella carne. Il suo corpo è piagato dalle sante stigmate; egli è ferito alle mani ed ai piedi e, trafitto nel lato destro, è tutto coperto di sangue». Ed ecco la mirabile dichiarazione: Non impressit hos natura, Non tortura mallei. Queste stigmate non gli furono fatte dalla natura; i chiodi non vi furono conficcati dal martello. Tutto è opera dell’amore… Dell’amore di Francesco per l’unico, vero, intero, perfetto Amore, per Gesù! – Ricordiamo ancora. Nel maggio 1920, Benedetto XV canonizzò undici suore Orsoline martiri della Rivoluzione Francese. Le vergini spose di Gesù, andarono al patibolo colla più grande gioia dello spirito per l’incontro, tanto bramato, dello sposo celeste. « Il Commissario della Rivoluzione le aveva condannate alla morte. Intorno al loro piccolo Crocifisso, avevano per tutta la notte implorato da Gesù la forza e la grazia per sostenere il martirio. Nelle loro anime la preghiera aveva portato la fortezza. E la più schietta e serena letizia splendeva sui loro volti. AI mattino furono condotte le sante vergini dinanzi ai loro carnefici, per venir trasportate al patibolo. Era costume che i condannati a morte dovessero essere spogliati di tutto: solo una tunica era ad essi lasciata. Ed i carnefici strapparono alle suore le sacre vesti, indossate nella primavera della vita, quando l’anima giovanile brilla d’amore verginale. Come vittime innocenti, esse non si opposero; ma tra le mani tenevano quasi un tesoro prezioso: la loro corona del santo Rosario. « Lasciateci la nostra corona », risposero ai carnefici che volevano strappare loro anche questo caro segno della loro pietà. « A che vi servirà un Rosario sopra il patibolo? », osservarono i carnefici. Anche il giudice rise; e diede ordine che venissero loro legate le mani e che i Rosari fossero posti sopra il loro capo, a formarne una corona. Le sante vergini ne furono contente… Andarono al martirio, collo stesso entusiasmo col quale, un giorno, dopo il noviziato, avevano offerto al Signore i loro voti solenni. Quando raggiunsero la ghigliottina, vollero baciare le mani dei carnefici, salutarono come trionfatrici la folla che assisteva commossa. Poste in fila onde ascendessero con ordine i gradini insanguinati del patibolo, era tanto il desiderio del martirio, che il boia dovette usare la sua forza, perché tutte volevano essere le prime a morire per Gesù, E mentre le anime delle sante eroine volavano in cielo a ricevere il premio della loro virtù, cadevano le loro teste, incoronate dal bell’emblema della Vergine del Rosario » (Cfr. OLGIATI, o. c., pag. 382-3). « NON VIVITUR IN AMORE NISI PER DOLOREM… » Sia benvenuto sempre il dolore: è la vera strada dell’amore. Solo così potremo ripetere con salda convinzione e totale aderenza l’espressione paolina: sovrabbondo di gioia nelle mie tribolazioni. Queste conducono all’Amore di Dio; l’amore di Dio ci porta all’unione con Dio!
L’abbandono, cioè l’amorosa sottomissione ai voleri di Dio, è condizione essenziale del vero progresso nell’Unione con Dio.
Mediolani 27-11 – 1935 – Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI
IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 , F. MOZZANICA V. G.
CAPITOLO VIII.
Della mortificazione
V.
Pratica della mortificazione
Esame, — Proponimenti: 1. rinunciare alla nostra vita propria, — imitando Gesù Cristo. — Vita di Dio in noi. — 2, lasciare piena libertà all’azione di Dio. — La mortificazione è la condizione della presenza di Dio in noi.
Dopo aver considerato i motivi che ci obbligano a praticare la mortificazione, ed essercene ben convinti, dobbiamo esaminare, con sentimento di confusione davanti a Dio, quanti anni abbiamo passati in una vita immortificata. Allora noi si viveva in noi stessi e secondo il nostro amor proprio, dolendoci per qualsiasi cosa che ci contrariava, né potendo soffrire cosa che fosse opposta alle nostre inclinazioni e ai nostri desideri naturali. Una tale condotta è in opposizione con esempio di Gesù Cristo nostro modello; Gesù non ha mai seguito le inclinazioni umane né i desideri naturali. Cristo non ha mai cercato di piacere a se stesso; Christus non sibi placuit (Rom. XV, 3). Quante volte ci siamo dati all’impazienza? Quanti desiderii di amor proprio abbiamo assecondati? Insomma, per quanti anni abbiamo vissuto non da Cristiani, ma da pagani, mentre l’unico principio della nostra condotta era la nostra soddisfazione e la nostra carne, né ci curavamo dello Spirito Santo che interiormente ci manifestava il nostro dovere e vi ci portava con efficace amore?
***
In seguito a questo esame, dobbiamo risolverci a fare due cose. La prima sarà di studiarci, per mezzo della meditazione, di rinunciare a noi stessi e a questa vita propria che è vita di condanna; di far quanto possiamo per resistere a quei desideri della carne che ad ogni momento nascono in noi, e per sopprimere i movimenti sregolati e disordinati della natura, la quale non è un principio di vita cristiana.
La vita cristiana proviene in noi dallo Spirito vivificante che Dio ci dà nel battesimo, nel quale siamo fatti figliuoli di Dio, animati dalla sua medesima Vita, riempiti di una medesima sostanza, per cui dobbiamo, in tutto, essere mossi e diretti da Lui. – Gesù Cristo sia in ciò il nostro modello: Egli, infatti, si lasciava perfettamente go.vernare dallo Spirito di Dio suo Padre; orbene, noi pure abbiamo il medesimo Spirito. Gesù Cristo non operava mai che secondo la luce del Padre suo: così noi non dobbiamo operare che secondo la fede, la quale è un’ammirabile partecipazione della medesima luce divina (1 Piet. II, 9). Gesù Cristo non operava mai che dietro la mozione dello Spirito divino; così noi dobbiamo nei nostri atti essere sempre mossi dalla carità che Egli infonde in noi perché sia il principio delle opere nostre. Gesù Cristo non operava che nella virtù dello Spirito divino, così non dobbiamo operare che nella forza di quel medesimo Spirito che abbiamo ricevuto nel battesimo e che ci venne comunicato in pienezza nella Confermazione. Questa vita cristiana, che procede dalle Spirito e dallo Spirito è animata, è la vita di cui Dio vive in se stesso e di cui vivono i Santi nel Cielo. Dio si compiace di comunicarci la sua vita nascosta (Vita vestra est abscondita cum Christo in Deo. Colos., II, 3); l’ha rinchiusa in noi in queste mondo, e la manifesterà nel giorno dell’eternità in cui farà vedere chiaramente quale era la perfezione, la santità, la sapienza, la carità e la forza con cui Egli operava in noi. E sarà questo uno degli oggetti della beatitudine dei Santi, nei quali Dio esporrà la bellezza e la ricchezza della sua vita (Col. III, 3). – Al contrario, uno dei più grandi e più sensibili tormenti dei reprobi sarà la maledizione delle opere della carne che essi vorrebbero tutte abolite e distrutte, per non portarne più la pena. Dio, tuttavia, ne darà continua visione a quei disgraziati, che vedranno con ispavento tutti gli effetti che la corruzione della carne avrà operati in essi in questa vita. – Per i miserabili dannati sarà spaventevole la visione degli orribili effetti delle opere della carne; in quel modo che per i beati sarà oltremodo deliziosa la vista delle opere dello Spirito. I Santi, infatti, saranno rapiti di gioia nel vedere la bellezza che sarà il frutto delle loro opere ela santità sureminente con la quale la Maestà di Dio avrà esercitata la sua azione nelle loro anime. – La seconda cosa cui dobbiamo risolverci è una immediata conseguenza della prima; e sarà di lasciare che Dio operi in noi e ci animi del suo Spirito in tutte le nostre opere, poiché Egli vuole essere in noi il principio di qualsiasi atto. O benedizione! O gioia! O inconcepibile felicità! che Dio voglia così vivere nella carne e animarla, perché essa compia opere degne dell’eternità, nelle quali Egli senza fine troverà la sua gloria.
***
Questi sono i due esercizi coi quali dobbiamo dar principio in noi alla vita interiore e divina: bisogna metterci con impegno a mortificarci; poi, essendo morti alla carne, procurare di vivere nello Spirito. Senza di ciò non faremo mai nulla; ogni altro esercizio non servirà che a rovinarci. Tutto il resto è come un unguento che inasprisce il nostro male e non lo guarisce, un palliativo e non un rimedio: Tutto è illusione e abuso, se non si lavora sopra questi principi. Bisogna quindi risolverci alla santa mortificazione per la virtù dello Spirito Santo; perché se avremo cura, per la sua divina virtù, di respingere i sentimenti e le suggestioni abominevoli della carne, noi vivremo, come dice S, Paolo, mentre se vivremo secondo l’impulso dei desiderii e delle suggestioni della carne, noi morremo (Rom. VIII, 13). Se saremo fedeli a mortificare la nostra carne nelle sue concupiscenze e nei suoi desideri, Dio si renderà presente in noi; Egli si unirà intimamente con noi; e maggiore sarà la nostra cura di mortificarci e di rinunciare a noi stessi anche nelle minime cose in cui la carne potrebbe ricercare sé medesima, maggiore sarà pure l’amore con cui Dio ci vivificherà e ci animerà. – Per giungere alla contemplazione non v’è via migliore della purificazione di noi medesimi, con la quale eliminiamo da noi tutto ciò che non è Dio, e rendiamo l’anima nostra pulita e pura come uno specchio nel quale quel sole che è Dio si compiace di imprimersi e tenersi presente. In questo consiste la vera vita dei Cristiani, essa è una partecipazione della vita medesima dei beati nella contemplazione della verità di Dio a loro sempre presente dovunque si trovino.
VI.
Considerazioni su l’immortificazione
Ingiuria al Padre. – a Gesù Cristo, – allo Spirito Santo. – Trionfo del demonio. – Disordine nell’uomo. – Confusione per voi; tristezza e rimorso per l’ora della morte. – Avvilimento dell’anima. – Equità della mortificazione.
1° Noi facciamo una speciale ingiuria all’Eterno Padre, quando rifiutiamo di privarci per la sua gloria del godimento d’un miserabile piacere, rimanendo insensibili sia alla considerazione della sua presenza, come all’autorità del uo comando, ed alla minaccia dei suoi castighi, insensibili persino alla promessa. dei torrenti immensi delle sue delizie che saranno il premio della mortificazione.
2° Quale confusione per il Figlio di Dio! Aver sofferto tanto per obbligarci a resistere ai nostri sensi, eppure, né il sentimento di tante grazie e di tanti doni che Egli ci ha meritati, né l’esempio che ci ha dato, né la forza che ci ha acquistata possono nulla sopra di noi! E da parte nostra quale disprezzo della vita, del sangue e della morte di Gesù Cristo!
3° Quale affronto per lo Spirito Santo! Egli risiede in noi per opprimere la carne nelle sue pretese, per stabilire il suo impero sopra l’assoggettamento dei nostri sensi, delle nostre passioni e di noi medesimi; eppure questa divina e augusta Persona, questo Dio vincitore di tutto il mondo, questo augusto Re di tutte le creature, si vede ridotto ad essere schiavo dei nostri sensi, assoggettato ad una passione, vinto dalla carne e troppo spesso rovesciato dal suo trono e scacciato dalla sua dimora!
4°Quale soggetto di superbia per il demonio, mentre esso nella creatura trionfa del Dio vivente, e vede assoggettati sotto i suoi piedi il Cristiano e insieme il suo Dio! Quale vergogna per noi che venga commesso, per mezzo nostro, un sì orribile attentato: un Dio schiavo sotto i piedi del demonio!
5° Quale disordine nell’uomo! Quale sconvolgimento nel suo essere! L’appetito inferiore che dovrebbe essere soggetto allo Spirito, ne è invece il padrone, e la carne è sovrapposta allo spirito; in una parola, il padrone in noi è divenuto lo schiavo. Dio ha tanto fatto per ristabilire per mezzo del suo Figlio l’ordine primitivo della nostra condizione, e noi d’un colpo rovesciamo i suoi meriti, il suo sangue, la sua grazia e tutta l’opera sua, tutti i disegni del Padre, tutte le fatiche del Figlio, tutti gli sforzi e le operazioni dello Spirito Santo.
6° Qual frutto riceviamo da un istante d’immortificazione, se non il rimorso nel cuore, la confusione che ci fa arrossire per la vergogna, ed infine la condanna eterna?
7° Il piacere è Passato, e la pena resta: il piacere è stato di brevissima durata, la soddisfazione è stata leggerissima, ma i disagi dureranno in eterno,
8° Quale tristezza per l’anima all’ora della morte, quando vedrà nel languore senza vita quelle membra con le quali avrebbe potuto acquistare gradi di gloria immortale, e si troverà invece, per colpa della sua immortificazione priva di speranza e priva di merito nelle sue opere!
9° Quale dispetto essa proverà pure in quell’ora contro se stessa, per essersi miseramente perduta in soddisfazioni di cui, sotto la luce di Dio, vedrà l’iniquità e la viltà, soddisfazioni che non avranno più allora nulla di quelle ingannevoli attrattive, di quelle fallaci illusioni che la seducevano e l’immergevano nel peccato!
10° Quale gioia, al contrario, non sentirà allora l’anima che in questa vita sarà stata fedele e costante nella mortificazione! Quale gioia nel vedere le sue membra allora ormai inutili e senza vita, aspettare di vivere della vita gloriosa di un Dio risorto, il quale, con la sua vita di travagli e di pene, ha conquistato per i suoi membri afflitti e crocifissi con Lui, la pienezza della gioia e della beatitudine che dal Padre suo deve ricevere in essi, per aver sofferto ed essersi mortificato in essi!
11° Qual terrore nel vedersi presentata ad un giudice così esatto, giusto e rigoroso! Dio accoglierà l’anima con gradimento tanto maggiore quanto più essa avrà sofferto in questa vita; la castigherà invece con tanto maggior rigore quanto più essa sarà stata indulgente per sé stessa, quanto più per la propria soddisfazione avrà assecondato le voglie della carne e le suggestioni del demonio.
12° O’ anima cristiana, rifletti perché il tuo Dio ti ha creata e perché nella sua Misericordia ti ha rigenerata! Non già perché vivesti nell’impurità e nell’immondezza della carne, ma perché t’innalzassi alla santità di Dio medesimo (1 Tess. IV, 7). La volontà di Dio Padre, nel riformarci secondo la sua propria immagine, è di farci santi come Lui (1 Tess. IV, 5). Dio è santo e vuole che i suoi figliuoli siano santi (1 Piet. I, 6). – Il Figlio suo, dice S, Paolo, è risuscitato a questo fine, affinché camminiamo in una vita nuova, vale a dire nella santità. Per questo pure ci ha dato il suo divino Spirito di santità: e per questo dimora in noi onde fare di noi i suoi templi e santificarci in tutto. Il suo disegno è di fare di tutti i Cristiani. nella sua Chiesa, altrettanti angeli, e come spiriti separati dalla carne per la santità (1 Cor. III, 17).
13° O anima! Che cosa fai tu? Che cosa sei divenuta? Dov’è la santità e la perfezione delle tue vie? Tu che eri così bella come la luna, eletta come il sole, immacolata per la grazia del battesimo! (Cant. VI, 9).
14° Che cosa ne è ora di quello splendore di Dio e dove mai sei ridotta? Sei diventata più nera dei carboni (Thren. IV, 8). Eccoti per causa della tua immortificazione e dell’aderenza alla carne, più nera del carbone, più sporca di uno straccio coperto di fango e di marcia: Quasi pannus menstruatæ (Isa. LXIV, 6).
15° Sorgi dal tuo avvilimento e dalla tua confusione: ritorna a Dio tuo Createre, fiduciosa che ti purificherà! Saresti anche più nera di un Etiope, egli ti renderà più bianca della neve. Invoca il Signore, nella sua bontà e nelle sue misericordie che sono maggiori della sua giustizia!
16° Mercè la confessione dei nostri peccati, preveniamo l’ira della sua giustizia: evitiamo le pene col punire noi medesimi, offrendo soddisfazioni per le nostre colpe e castigando la nostra carne per mezzo di quelle medesime cose nelle quali essa ha peccato. La soddisfazione in Gesù Cristo, la penitenza animata e vivificata dal suo spirito, vale tutto per un’anima che si è investita di Lui, che è pienamente animata dall’intenzione di piacere alla giustizia del Padre senza riserva e di fargli ammenda onorevole, mediante un puro sacrificio di amore, di buona e pura volontà!
17° Da ultimo, cosa può esservi mai di più potente contro l’immortificazione che il pensiero che siamo peccatori, e come tali non dobbiamo più ricevere nessuna gioia dalle creature? Queste non debbono più servire che a crocifiggerci e a castigarci, invece di rallegrarci e consolarci; anzi. Come delinquenti, dobbiamo crocifiggerci noi medesimi incessantemente e in tutto; perché la crocifissione è il supplizio che Dio istituito e consacrato per punire il peccato e farne giustizia – La crocifissione, è una pena universale che colpisce e fa soffrire tutta la carne; è la morte totale dei sensi e di tutto noi medesimi, e non solamente un supplizio che colpisca solamente qualche membro e produca la morte mediante qualche pena particolare.
Un’Enciclica scritta con il cuore e la vera fede cattolica del Santo Padre Pio XII, capolavoro di eloquenza dottrinale e di vera sdapienza cristiana… Ci mancano le parole per definire la bellezza e la gioia che scaturisce dalla lettura di un documento che inquadra la dottrina del diviun Maestro Gesù, così com’è stata illustrata e definita dai Santi Padri, dai teologi e dai Dottori della Chiesa nel corso dei secoli cristiani. Nulla a che vedere con le attuali elucubrazioni dei modernisti luciferini adoratori del baphomet signore dell’universo nei riti demoniaci delle messe nere del Novus Ordo del patriarca degli “Illuminati” Montini, degli adepti della massoneria attualmente insediata nei sacri palazzi e nelle diocesi usurpate dell’orbe un tempi cristiano, che osano definirsi ingannevolmente cattolici, professando dottrine blasfeme ed urticanti come quelle che incitano alle pratiche ed ai “peccati che gridano vendetta agli occhi di Dio”. Questo capolavoro magisteriale da solo smaschera il satanismo insito nelle ideologie moderniste che sdoganano ad esempio l’omosessualità, o le assurde teorie di genere come “amore” tra uomini, cancellando volutamente il termine corretto di “vergognosa passione” e “infimo desiderio della carne”, che fanno rivoltare dallo schifo anche i demoni che le fomentano. Ma non sciupiamo l’animo gioioso con cui ci accingiamo a leggere e godere spiritualmente della Lettera di S. S. Pio XII
«Sacra virginitas»
La consacrata verginità
25 marzo 1954!
AI Venerabili FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E ALTRI ORDINARI IN COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA
INTRODUZIONE: Una candida legione. Elogio paterno.
I. Vera idea della condizione verginale: Per il regno dei cieli; « Spose di Cristo »; seguire l’Agnello; Verginità ed apostolato: spirituale libertà; Superiorità morale; Onore alla Chiesa.
II. Contro alcuni errori: Dominio dei sensi, Operai della Chiesa, Verginità feconda.
III. La verginità è un sacrificio: Virtù difficile. Aiuti divini; Vigilare e pregare; Fuggire le occasioni: Il pudore cristiano; Mezzi soprannaturali; L’esempio di Maria.
IV. Timori e speranze: Dare figli alla Chiesa: Nuovi martiri cristiani.
INTRODUZIONE
La sacra verginità e la castità perfetta consacrata al servizio di Dio sono certamente, per la chiesa, tra i tesori più preziosi che il suo Autore le abbia lasciato, come in eredità. Per questo motivo i santi padri sottolineavano che la verginità perpetua è un bene eccelso di carattere essenzialmente cristiano. Essi osservano a buon diritto che, se i Pagani dell’antichità richiedevano dalle vestali un tale tenore di vita, questo era temporaneo, e quando nell’Antico Testamento si comanda di conservare e praticare la verginità, si trattava soltanto di una condizione preliminare al matrimonio (cf. Es XXII, 16-17; Dt. XXII, 23-29; Eccli. XLII, 9); Sant’Ambrogio aggiunge: «Noi leggiamo che anche nel tempio di Gerusalemme vi erano delle vergini. Ma che cosa dice l’Apostolo? « Tutte queste cose avvenivano in figura (1Cor X, 11) per preannunciare il futuro ». – E, certamente, fin dai tempi apostolici questa virtù cresce e fiorisce nel giardino della chiesa. Quando negli Atti degli Apostoli- (At XXI, 9) si dice che le quattro figlie del diacono Filippo erano vergini, più che la loro giovinezza, si vuole indicare uno stato di vita. Non molto tempo dopo, Sant’Ignazio di Antiochia ricorda nel suo saluto le vergini, che costituivano già, insieme con le vedove, un elemento importante della comunità cristiana di Smirne. Nel II sec. — come attesta s. Giustino — « molti e molte volte, di sessanta e settant’anni, si conservano intatti sin dall’infanzia, per l’insegnamento di Cristo ». Poco alla volta si accrebbe il numero di uomini e donne che avevano consacrato a Dio la loro castità; e nello stesso tempo il loro compito nella Chiesa acquistò importanza maggiore, come più diffusamente abbiamo esposto nella Nostra Costituzione apostolica Sponsa Christi. – Inoltre i santi padri — come Cipriano, Atanasio, Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Girolamo e Agostino e non pochi altri — nei loro scritti celebrarono la verginità con altissimi elogi. Questa dottrina dei Santi Padri, arricchita nel corso dei secoli dai Dottori della Chiesa e dai Maestri dell’ascetica cristiana, influisce certo molto tra i Cristiani d’ambo i sessi nel suscitare e confermare il proposito di consacrarsi a Dio con la perfetta castità e di perseverare in essa fino alla morte. – Il numero dei fedeli così consacrati a Dio, dall’origine della Chiesa fino ai nostri giorni, è incalcolabile: gli uni hanno servato intatta la loro verginità, gli altri hanno votato al Signore la loro vedovanza dopo la morte del consorte; altri, infine hanno scelto una vita casta dopo aver fatto penitenza dei loro peccati; ma tutti hanno questo di comune tra loro: che si sono impegnati ad astenersi per sempre, per amore di Dio, dai piaceri della carne. Ciò che i Santi Padri hanno proclamato circa la gloria e il merito della verginità, sia a tutte queste anime sacrate di invito, di sostegno e di forza a perseverare fermamente nel sacrificio e a non sottrarre e prendere per sé una parte anche minima dell’olocausto offerto sull’altare di Dio. – La castità perfetta è la materia di uno dei tre voti che costituiscono lo stato religioso ed è richiesta nei chierici della Chiesa ordinati negli ordini maggiori e nei membri degli istituti secolari (Cost. Apost. Provida Mater, art. III, § 2, 1947), ma è praticata pure da numerosi laici, uomini e donne che, pur vivendo al di fuori dello stato pubblico di perfezione, rinunziano completamente, di proposito o per voto privato, al matrimonio e ai piaceri della carne per poter servire più liberamente il loro prossimo e unirsi a Dio più facilmente e intimamente. – A tutti i dilettissimi figli e figlie, che in qualsiasi modo hanno consacrato a Dio il loro corpo e la loro anima. rivolgiamo il nostro cuore paterno e li esortiamo vivamente a confermarsi nel loro santo proposito e a restarvi diligentemente fedeli. Vi sono, però, oggi alcuni che, allontanandosi in questa materia dal retto sentiero, esaltano tanto il matrimonio da anteporlo alla verginità; essi disprezzano la castità consacrata a Dio e il celibato ecclesiastico. Per questo crediamo dovere del nostro Apostolico Ufficio proclamare e difendere. al presente in modo speciale, l’eccellenza del dono della verginità, per difendere questa verità cattolica contro tali errori.
I. VERA IDEA DELLA CONDIZIONE VERGINALE
Anzitutto vogliamo osservare che la parte essenziale del suo insegnamento circa la verginità, la Chiesa l’ha ricevuta dalle labbra stesse dello Sposo divino. Quando infatti i discepoli si mostrarono colpiti dai gravissimi obblighi e fastidi del matrimonio che il Maestro aveva loro esposto, gli dissero: « Se tale è la condizione dell’uomo verso la moglie, non conviene sposarsi» (Mt XIX,10). Gesù Cristo rispose che non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è concesso; alcuni infatti sono impossibilitati al matrimonio per difetto di natura, altri per la violenza e la malizia degli uomini, altri invece si astengono da esso spontaneamente e di propria volontà « per il regno dei cieli »; e concluse: « Chi può comprendere, comprenda » (Mt XIX, 11-12).- Il Maestro divino allude non agli impedimenti fisici per il matrimonio ma al proposito della libera volontà di astenersi per sempre dalle nozze e dai piaceri del corpo. Facendo il paragone tra coloro che spontaneamente rinunciano ai piaceri del corpo e quelli che sono costretti a rinunciarvi dalla natura o dalla violenza umana, non c’insegna forse il divin Redentore che la castità deve essere perpetua, affinché sia realmente perfetta? – I Santi Padri, inoltre, e i Dottori della Chiesa hanno insegnato apertamente che la verginità non è una virtù cristiana se non la si abbraccia «per il regno dei cieli» (Mt 19,12), cioè per poter attendere più facilmente alle cose celesti, per conseguire più sicuramente l’eterna salvezza, per poter condurre infine più speditamente, con diligente operosità, anche gli altri al regno dei cieli. Non possono, quindi, arrogarsi il merito della verginità quei cristiani e quelle cristiane che si astengono dal matrimonio o per egoismo o per sfuggirne gli oneri, come avverte sant’Agostino, o anche per ostentare con superbia farisaica l’integrità dei loro corpi: il concilio di Gangra (Asia Minore) condanna chi si astiene dal matrimonio come da uno stato abominevole, e non per la bellezza e la santità della verginità. L’Apostolo delle genti, ispirato dallo Spirito Santo, ammonisce: «Chi non è sposato, è sollecito delle cose di Dio, del modo di piacere a lui… E la donna non sposata e vergine pensa alle cose di Dio per essere santa di corpo e di spirito» (1Cor VII, 32.34). Ecco lo scopo principale, la prima ragione della verginità cristiana: aspirare unicamente alle cose divine e dirigervi la mente e lo spirito; voler piacere a Dio in tutto; pensare a lui intensamente, e consacrargli totalmente corpo e spirito. – I Santi Padri hanno sempre interpretato in questa maniera la parola di Cristo e la dottrina dell’apostolo delle genti: fin dai primi tempi della chiesa si stimava verginità la consacrazione fatta a Dio del corpo e dell’anima. San Cipriano richiede dalle vergini «che, per essersi consacrate a Dio, si astengano da ogni piacere carnale, consacrino a Dio il corpo e l’anima … e non siano sollecite di abbigliarsi o di piacere ad alcuno, tranne che al loro Signore». Il Vescovo di Ippona precisa: «La verginità non è onorata perché tale, ma perché consacrata a Dio … e noi non lodiamo le vergini perché tali, ma perché sono vergini consacrate a Dio con devota continenza». 13 I prìncipi dei teologi, san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura si richiamano all’autorità di sant’Agostino per insegnare che la verginità non ha la fermezza della virtù, se non si fonda sul voto di conservarla sempre illibata. Difatti la dottrina di Cristo intorno all’astinenza perpetua del matrimonio viene praticata nel modo più ampio e perfetto da coloro che si obbligano con voto perpetuo alla sua osservanza: né si può giustamente affermare che sia migliore e più perfetto il proposito di coloro che intendono riservarsi la possibilità di liberarsi dall’impegno. – I Santi Padri hanno considerato questo vincolo di castità perfetta come una specie di matrimonio spirituale fra l’anima e Cristo; alcuni di essi, anzi, sono giunti fino a paragonare con l’adulterio la violazione del voto fatto. 16 Perciò sant’Atanasio scrive che la chiesa cattolica è solita chiamare le vergini: spose di Cristo. 17 E sant’Ambrogio, scrivendo concisamente della vergine esclama: «La vergine è sposa di Dio». Gli scritti del dottore di Milano attestano, già al VI secolo, la grande somiglianza tra il rito della consacrazione delle vergini e quello della benedizione nuziale, ancora in uso oggi. – Perciò i santi padri esortano le vergini ad amare il loro Sposo divino più di quanto amerebbero il proprio marito e a conformare sempre i loro pensieri e le loro azioni alla sua volontà. « Amate di tutto cuore il più bello dei figli degli uomini – scrive loro sant’Agostino – voi ne avete tutta la facoltà: il vostro cuore è libero dai legami del matrimonio… Dal momento che avreste dovuto portare un grande amore ai vostri sposi, quanto più dovete amare Colui per amore del quale voi avete rinunziato agli sposi? Sia fisso nel vostro cuore Colui che per voi è stato infisso sulla croce ». Tali sono, d’altra parte, i sentimenti e le risoluzioni che la chiesa stessa richiede dalle vergini il giorno della loro consacrazione, quando le invita a pronunciare le parole rituali: «Ho disprezzato il regno del mondo e tutto il fasto del secolo per amore di nostro Signore Gesù Cristo, che ho conosciuto, che ho amato, e nel quale ho amorosamente creduto». È quindi solo l’amore di lui che spinge con dolcezza la vergine a consacrare interamente il suo corpo e la sua anima al divin Redentore, secondo le bellissime espressioni che san Metodio d’Olimpo fa dire a una di esse: « O Cristo, tu sei tutto per me. Io mi conservo pura per te e, portando una lampada splendente, vengo incontro a te, o Sposo mio». Sì, è l’amore di Cristo che spinge la vergine a ritirarsi, e per sempre, dentro le mura del monastero per contemplarvi e amare con maggiore speditezza e facilità il suo Sposo celeste, e la stimola potentemente a impegnarsi con tutte le forze fino alla morte nelle opere di misericordia in favore del prossimo. – Riguardo poi agli uomini «che non si sono contaminati con donne, poiché sono vergini» (Ap XIV 4) l’apostolo san Giovanni afferma che essi seguono l’Agnello dovunque egli vada. Meditiamo l’esortazione che fa loro sant’Agostino: « Seguite l’Agnello, perché la carne dell’Agnello è anch’essa vergine… voi avete ben ragione di seguirlo, con la verginità del cuore e della carne, dovunque vada. Che cos’è infatti seguire se non imitare? perché Cristo ha sofferto per noi, lasciandoci un esempio, come dice san Pietro apostolo, “affinché seguiamo le sue orme” (1Pt II,21) ».Tutti questi discepoli infatti e tutte queste spose di Cristo hanno abbracciato lo stato di verginità, come dice san Bonaventura, per la conformità allo Sposo Cristo, al quale esso rende conformi i vergini». La loro ardente carità verso Cristo non poteva contentarsi di semplici vincoli di affetto con lui: essa aveva assoluto bisogno di manifestarsi con l’imitazione delle sue virtù e, in modo speciale, con la conformità alla sua vita tutta consacrata al bene e alla salvezza del genere umano. Se i sacerdoti, se i religiosi e le religiose, se tutti quelli che in un modo o nell’altro hanno consacrato la vita al servizio di Dio, osservano la castità perfetta, questo è in definitiva perché il loro divino Maestro è rimasto egli stesso vergine fino alla morte. «È proprio il Figlio unico di Dio – esclama san Fulgenzio – e Figlio unico della Vergine, l’unico Sposo di tutte le sacre vergini, frutto, ornamento e ricompensa della santa verginità, che lo ha dato alla luce e spiritualmente lo sposa e dal quale è resa feconda senza lesione dell’integrità, ornata per rimanere sempre bella, incoronata per regnare gloriosa nell’eternità». Qui crediamo opportuno, venerabili fratelli, spiegare più diffusamente e con maggiore accuratezza per quali ragioni l’amore di Cristo spinga le anime generosamente a rinunciare al matrimonio e quali legami segreti esistano fra la verginità e la perfezione della carità cristiana. L’insegnamento di Cristo, ricordato più sopra, faceva già capire che la perfetta rinunzia al matrimonio libera gli uomini da oneri pesanti e da gravi doveri. Ispirato dallo Spirito di Dio, l’apostolo dei gentili ne dà la ragione in questi termini: «Io vorrei che voi foste senza inquietudini… Chi invece è sposato, si preoccupa delle cose del mondo, del modo di piacere alla moglie ed è diviso» (1Cor 7,32-33). Si deve tuttavia notare che l’apostolo non biasima gli uomini perché si preoccupano delle loro consorti, né le spose perché cercano di piacere al marito; ma afferma piuttosto che il loro cuore è diviso tra l’amore del coniuge e l’amore di Dio e che sono troppo oppressi dalle preoccupazioni e dagli obblighi della vita coniugale, per potersi dare facilmente alla meditazione delle cose divine. Poiché s’impone loro la legge chiara e imperiosa del matrimonio: «saranno due in una carne sola» (Gn 2,24; cf. Mt 19,5). Gli sposi infatti sono legati l’uno all’altro negli avvenimenti tristi e in quelli lieti (cf. 1Cor VII,39). Si comprende quindi facilmente perché le persone, che desiderano consacrarsi al servizio di Dio, abbraccino lo stato di verginità come una liberazione, per potere cioè servire più perfettamente Dio e dedicarsi con tutte le forze al bene del prossimo. Per citare infatti alcuni esempi, come avrebbero potuto affrontare tanti disagi e fatiche quell’ammirabile predicatore dell’evangelo che fu san Francesco Saverio, quel misericordioso padre dei poveri che fu san Vincenzo de’ Paoli, un san Giovanni Bosco, insigne educatore dei giovani, una santa Francesca Saverio Cabrini, instancabile «madre degli emigranti», se avessero dovuto pensare alle necessità materiali e spirituali del proprio coniuge e dei propri figli? Vi è però un’altra ragione per la quale le anime che ardentemente desiderano consacrarsi al servizio di Dio e alla salvezza del prossimo, scelgono lo stato di verginità. Essa è addotta dai santi padri, quando trattano dei vantaggi di una completa rinunzia ai piaceri della carne allo scopo di gustar meglio le elevazioni della vita spirituale. Senza dubbio – come essi hanno chiaramente notato – tali piaceri, legittimi nel matrimonio, non sono per sé da condannarsi; anzi il casto uso del matrimonio è nobilitato e santificato da un sacramento speciale. Tuttavia, bisogna egualmente riconoscere che in seguito alla caduta di Adamo le facoltà inferiori della natura resistono alla retta ragione e talora spingono l’uomo ad agire contro i suoi dettami. Secondo l’espressione del dottore angelico, l’uso del matrimonio «trattiene l’animo dal darsi interamente al servizio di Dio». Proprio perché i sacri ministri possano godere di questa spirituale libertà di corpo e di anima e per evitare che si immischino in affari terreni, la chiesa latina esige da essi che si assumano volontariamente l’obbligo della castità perfetta. «Se poi una tale legge – come affermava il Nostro predecessore d’immortale memoria Pio XI – non vincola nella stessa misura i ministri della chiesa orientale, anche presso di essi il celibato ecclesiastico è in onore, e in certi casi – soprattutto quando si tratta dei gradi più alti della gerarchia – è necessariamente richiesto e imposto». I ministri sacri, però, non rinunciano al matrimonio unicamente perché si dedicano all’apostolato, ma anche perché servono all’altare. Se i sacerdoti dell’Antico Testamento già dovevano astenersi dall’uso del matrimonio mentre servivano nel tempio per non contrarre un’impurità legale, come gli altri uomini (cf. Lv XV, 16-17; XXII, 4; 1Sam XXI, 5-7), quanto maggiore non è la necessità della perpetua castità per i ministri di Gesù Cristo, i quali offrono ogni giorno il sacrificio eucaristico? Riguardo a questa perfetta continenza dei sacerdoti ecco quanto dice in forma interrogativa san Pier Damiani: «Se il nostro Redentore ha amato tanto il fiore del pudore intatto che non solo volle nascere dal seno di una Vergine, ma volle essere affidato anche alle cure di un custode vergine, ciò quando, ancora fanciullo, vagiva nella culla, a chi, dunque, ditemi, vuole egli confidare il suo corpo, ora che egli regna, immenso, nei cieli?». Per questo motivo soprattutto, secondo l’insegnamento della chiesa, la santa verginità supera in eccellenza il matrimonio. Già il divin Redentore ne aveva fatto un consiglio di vita più perfetta ai discepoli (cf. Mt XIX,10-11). E l’apostolo san Paolo, dopo aver detto di un padre che dà a marito la sua figlia «egli fa bene», aggiunge subito: «Chi però non la dà a marito, fa meglio ancora» (1Cor VII,38). Nel corso del suo paragone tra il matrimonio e la verginità, l’apostolo più di una volta mostra il suo pensiero, soprattutto quando dice: «Io vorrei che tutti voi foste come me… dico poi ai celibi e alle vedove: è conveniente per essi restare come sono io» (1Cor VII,7-8; cf.1 et 26). Se dunque la verginità, come abbiamo detto, è superiore al matrimonio, questo avviene senza dubbio, perché essa mira a conseguire un fine più eccelso; essa poi è un mezzo efficacissimo per consacrarsi interamente al servizio di Dio, mentre il cuore di chi è legato alle cure del matrimonio resta più o meno «diviso» (cf. 1Cor VII, 33). L’eccellenza della verginità risalterà ancor maggiormente se ne consideriamo l’abbondanza dei frutti: «poiché dal frutto si riconosce l’albero» (Mt XII, 33). – Il Nostro animo si riempie di immensa e soave letizia al pensiero della falange innumerevole di vergini e di apostoli che, dai primi tempi della chiesa fino ai giorni nostri, hanno rinunciato al matrimonio per consacrarsi più liberamente e più completamente alla salvezza del prossimo per amore di Cristo, e hanno sviluppato iniziative veramente mirabili nel campo della religione e della carità. Non vogliamo certo disconoscere i meriti di quelli che militano nell’Azione cattolica, né i frutti del loro apostolato: con le loro opere, essi possono spesso raggiungere delle anime che sacerdoti e religiosi o religiose non avrebbero potuto avvicinare. Ma, senza alcun dubbio, si deve far risalire a questi ultimi la maggior parte delle opere di carità. Costoro, infatti, con grande generosità seguono e dirigono la vita degli uomini in ogni età e condizione; e quando vengono meno per la stanchezza o per malattia, lasciano ad altri, come in eredità, la continuazione della loro missione. Così avviene che il bambino, appena nato, trova sovente delle mani verginali che l’accolgono e non gli fanno mancare quanto l’intenso amore materno potrebbe dargli; fatto grandicello e giunto all’età della ragione, è affidato a educatori o educatrici che vegliano alla sua istruzione cristiana, allo sviluppo delle sue facoltà e alla formazione del suo carattere. Se si ammala, troverà sempre qualcuno che, spinto dall’amore di Cristo, lo curerà premurosamente. L’orfanello, il misero, il prigioniero, non mancheranno di conforto e aiuto: i sacerdoti, i religiosi, le sacre vergini vedranno in lui un membro sofferente del corpo mistico di Gesù Cristo, memori delle parole del divin Redentore: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero pellegrino e mi avete ospitato, nudo e mi avete rivestito, malato e mi avete visitato, prigioniero e siete venuti a trovarmi… In verità vi dico, tutto ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a me» (Mt 25,35-36.40). Che diremo in lode di tanti missionari, che si consacrano, a costo delle maggiori fatiche e lontani dalla loro patria, alla conversione delle masse infedeli? Che delle spose di Cristo, le quali dànno loro una preziosa collaborazione? A tutti e a ciascuno di essi ripetiamo volentieri le parole della Nostra esortazione apostolica Menti Nostrae: «Per la legge del celibato, il sacerdote, ben lontano dal perdere interamente la paternità, l’accresce all’infinito, perché egli genera figliuoli, non per questa vita terrena e caduca, ma per la celeste ed eterna». – La verginità non è solamente feconda per le opere esteriori a cui permette di dedicarsi più facilmente e più pienamente; essa lo è anche per le forme più perfette di carità verso il prossimo, quali sono le ardenti preghiere e i gravi disagi volontariamente e generosamente sopportati a questo scopo. A ciò hanno consacrato tutta la loro vita i servi di Dio e le spose di Cristo, quelli specialmente che vivono nei monasteri. Infine, la verginità consacrata a Cristo è per se stessa una tale espressione di fede nel regno dei cieli e una tale prova d’amore verso il divin Redentore, che non c’è da meravigliarsi nel vederla arrecare frutti così abbondanti di santità. Numerosissimi sono le vergini e gli apostoli, votati alla castità perfetta, che sono l’onore della chiesa per l’alta santità della loro vita. La verginità, infatti, dà alle anime una forza spirituale capace di condurle fino al martirio e questo è l’insegnamento della storia che propone alla nostra ammirazione tante schiere di vergini, da Agnese di Roma a Maria Goretti. – A tutta ragione la verginità è detta virtù angelica; san Cipriano scrivendo alle vergini afferma giustamente: «Quello che noi saremo un giorno, voi già cominciate ad esserlo. Voi fin da questo secolo godete la gloria della risurrezione, passate attraverso il mondo senza contagiarvene. Finché perseverate caste e vergini, siete eguali agli angeli di Dio».All’anima assetata di purezza e arsa dal desiderio del regno dei cieli, la verginità viene presentata «come una gemma preziosa», per la quale un tale «vendette tutto ciò che aveva e la comprò» (Mt 13,46). Coloro che sono sposati e perfino quelli che stanno immersi nel fango dei vizi, quando vedono le vergini, ammirano spesso lo splendore della loro bianca purezza e si sentono spinti verso un ideale che superi i piaceri del senso. Lo afferma l’Aquinate scrivendo: «Alla verginità … si attribuisce la bellezza più sublime», e questo è senza dubbio il motivo per cui le vergini sono di esempio a tutti. Difatti tutti costoro, uomini e donne, con la loro perfetta castità non dimostrano forse chiaramente che il dominio dell’anima sul corpo è un effetto dell’aiuto divino e un segno di provata virtù? Ci piace ancora sottolineare un altro frutto soavissimo della verginità: le vergini manifestano e rendono pubblica la perfetta verginità della stessa loro madre la chiesa, e la santità dei loro vincoli strettissimi con Cristo. A ciò sapientemente si ispirano le espressioni del pontefice nel rito della consacrazione delle vergini e nelle preghiere rivolte al Signore: «Affinché vi siano anime più sublimi che, disdegnando nel matrimonio i piaceri della carne, ne cerchino il significato recondito, e invece di imitare ciò che si fa nel matrimonio, amino quanto in esso è simboleggiato». – Gloria altissima per le vergini è, certo, l’essere delle immagini viventi in quella perfetta integrità, che unisce la chiesa al suo Sposo divino. Esse inoltre offrono un segno mirabile della fiorente santità e di quella spirituale fecondità, in cui eccelle la società fondata da Gesù Cristo, alla quale è motivo di una gioia quanto mai intensa. A questo proposito sono magnifiche le espressioni di san Cipriano: «La verginità è un fiore che germoglia dalla chiesa, decoro e ornamento della grazia spirituale, gioia della natura, capolavoro di lode e di gloria, immagine di Dio che riverbera la santità del Signore, porzione più eletta del gregge di Cristo. Se ne rallegra la chiesa, la cui gloriosa fecondità in esse abbondantemente fiorisce: e quanto più cresce lo stuolo delle vergini tanto più grande è il gaudio della Madre».
II. CONTRO ALCUNI ERRORI
La dottrina che stabilisce l’eccellenza e la superiorità della verginità e del celibato sul matrimonio, come già dicemmo, annunciata dal divin Redentore e dall’apostolo delle genti, fu solennemente definita dogma di fede nel concilio di Trento e sempre concordemente insegnata dai santi padri e dai dottori della chiesa. I Nostri predecessori, e Noi stessi, ogni qualvolta se ne presentava l’occasione, l’abbiamo più e più volte spiegata e vivamente inculcata. Tuttavia, poiché di recente vi sono stati alcuni che hanno impugnato con serio pericolo e danno dei fedeli questa dottrina tramandataci dalla chiesa, Noi, spinti dall’obbligo del Nostro ufficio, abbiamo creduto opportuno nuovamente esporla in questa enciclica, indicando gli errori, proposti spesso sotto apparenza di verità. Anzitutto, si discostano dal senso comune, che la Chiesa ebbe sempre in onore, coloro che considerano l’istinto sessuale come la più importante e maggiore inclinazione dell’organismo umano e ne concludono che l’uomo non può contenere per tutta la vita un tale istinto, senza grave pericolo di perturbare il suo organismo, soprattutto i nervi, e di nuocere quindi all’equilibrio della personalità. Come giustamente osserva san Tommaso, l’istinto più profondamente radicato nel nostro animo è quello della propria conservazione, mentre l’inclinazione sessuale viene in secondo luogo. Spetta inoltre all’impulso direttivo della ragione, privilegio singolare della nostra natura, regolare tali istinti fondamentali e nobilitarli dirigendoli santamente. È vero, purtroppo, che le facoltà del nostro corpo e le passioni, sconvolte in seguito al primo peccato di Adamo, tendono al dominio non solo dei sensi ma anche dell’anima, offuscando l’intelligenza e debilitando la volontà. Ma la grazia di Gesù Cristo, principalmente attraverso i sacramenti, ci viene data proprio perché, vivendo la vita dello spirito, teniamo a freno il corpo (cf. Gal V,25; 1Cor IX,27). La virtù della castità non pretende da noi l’insensibilità agli stimoli della concupiscenza, ma esige che la sottomettiamo alla retta ragione e alla legge di grazia, tendendo con tutte le forze a ciò che nella vita umana e cristiana vi è di più nobile. Per acquistare poi questo perfetto dominio sui sensi del corpo, non basta astenersi solamente dagli atti direttamente contrari alla castità, ma è assolutamente necessario rinunciare volentieri e con generosità a tutto ciò che, anche lontanamente, offende questa virtù: l’anima potrà allora regnare pienamente sul corpo e condurre una vita spirituale tranquilla e libera. Come non vedere, alla luce dei principi cattolici, che la castità perfetta e la verginità, lungi dal nuocere allo sviluppo e progresso naturale dell’uomo e della donna li accrescono e li nobilitano? Abbiamo recentemente condannato con tristezza l’opinione che presenta il matrimonio come il solo mezzo di assicurare alla personalità umana il suo sviluppo e la sua perfezione naturale. Alcuni infatti sostengono che la grazia, concessa dal sacramento ex opere operato, santifica l’uso del matrimonio fino a farne uno strumento più efficace ancora che la verginità, per unire le anime a Dio, poiché il matrimonio cristiano è un sacramento, mentre la verginità non lo è. Noi denunziamo in questa dottrina un errore pericoloso. Certo, il sacramento accorda agli sposi la grazia d’adempiere santamente i loro doveri coniugali e consolida i vincoli dell’amore reciproco che li unisce, ma non fu istituito per rendere l’uso del matrimonio quasi il mezzo in sé più atto ad unire a Dio l’anima degli sposi col vincolo della carità. Quando l’apostolo san Paolo riconosce agli sposi il diritto di astenersi per qualche tempo dall’uso del matrimonio per attendere alla preghiera (cf. 1Cor VII, 5), non viene precisamente a dire che una tale rinunzia procura all’anima maggiore libertà per attendere alle cose divine e pregare? – Infine non si può affermare – come fanno alcuni – che il «mutuo aiuto» ricercato dagli sposi nel matrimonio, sia un aiuto più perfetto per giungere alla santità che la solitudine del cuore delle vergini e dei celibi. Difatti, nonostante la loro rinuncia a un tale amore umano, le anime consacrate alla castità perfetta non impoveriscono per questo la propria personalità umana, poiché ricevono da Dio stesso un soccorso spirituale immensamente più efficace che il «mutuo aiuto» degli sposi. Consacrandosi interamente a Colui che è il loro principio e comunica loro la sua vita divina, non si impoveriscono, ma si arricchiscono. Chi, con maggiore verità che i vergini, può applicare a sé la mirabile espressione dell’apostolo san Paolo: «Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me»? (Gal II,20). Questa è la ragione per cui la Chiesa sapientemente ritiene che si deve mantenere il celibato dei sacerdoti, poiché sa bene quale sorgente di grazie spirituali esso costituisca per una sempre più intima unione con Dio. – Crediamo opportuno ricordare brevemente un altro errore ancora: alcuni allontanano i giovani dai seminari e le giovani dagli istituti religiosi sotto pretesto che la chiesa abbia oggi maggior bisogno dell’aiuto e dell’esercizio delle virtù cristiane da parte di fedeli uniti in matrimonio e viventi in mezzo agli altri uomini, che non da parte di sacerdoti e di vergini, che per il voto di castità vivono come appartati dalla società. Tale opinione, venerabili fratelli, è evidentemente quanto mai falsa e perniciosa. – Non è Nostra intenzione, certamente, negare che gli sposi Cattolici con una vita esemplarmente cristiana possano produrre frutti abbondanti e salutari in ogni luogo e in ogni circostanza con l’esercizio delle virtù. Chi però consigliasse, come preferibile alla consacrazione totale a Dio, la vita matrimoniale, invertirebbe e confonderebbe il retto ordine delle cose. Senza dubbio, venerabili fratelli, Noi auspichiamo ardentemente che si istruiscano convenientemente quanti aspirano al matrimonio e i giovani sposi, non solo sul grave dovere di educare rettamente e diligentemente i figli, ma anche sulla necessità di aiutare gli altri, secondo le possibilità, con la professione della fede e l’esempio della virtù. Dobbiamo, tuttavia, per dovere del Nostro Ufficio condannare energicamente coloro che si applicano a distogliere i giovani dall’entrare in seminario, negli ordini o congregazioni religiose o dall’emissione dei santi voti, insegnando loro che sposandosi faranno un bene spirituale maggiore con la pubblica professione della loro vita cristiana, come padri e madri di famiglia. Si farebbe molto meglio a esortare col maggiore impegno possibile i molti laici sposati, affinché cooperino con premura alle imprese d’apostolato laico, piuttosto che cercare di distogliere dal servizio di Dio nello stato di verginità quei giovani, troppo rari, purtroppo, oggi, che desiderano consacrarvisi. Molto opportunamente scrive a questo proposito sant’Ambrogio: «È stato sempre proprio della grazia sacerdotale spargere il seme della castità e suscitare l’amore per la verginità». – Inoltre giudichiamo opportuno avvertire che è completamente falsa l’asserzione, secondo cui le persone consacrate a una vita di castità perfetta diventano quasi estranee alla società. Le sacre vergini che spendono tutta la loro vita al servizio dei poveri e dei malati, senza distinzione di razza, di condizione sociale e di religione, non partecipano forse intimamente alle loro miserie e alle loro sofferenze, e non li compatiscono forse con la tenerezza di una mamma? E il sacerdote non è forse il buon pastore che, sull’esempio del divin Maestro, conosce le sue pecorelle e le chiama per nome? (cf. Gv X,14; X,3). Ebbene, è proprio in forza della castità perfetta, da loro abbracciata, che questi sacerdoti, religiosi e religiose possono dedicarsi interamente a tutti gli uomini e amarli del medesimo amore di Cristo. E anche quelli di vita contemplativa contribuiscono certamente molto al bene della chiesa, con le supplici preghiere e con l’offerta della loro immolazione per la salvezza altrui; sono anzi sommamente da lodare perché, nelle circostanze presenti, si consacrano all’apostolato e alle opere di carità secondo le norme da Noi date nella lettera apostolica Sponsa Christi, né possono quindi venir considerati come estranei alla società, dal momento che doppiamente ne promuovono il bene spirituale.
III. LA VERGINITÀ È UN SACRIFICIO
Passiamo ora, venerabili fratelli, alle conseguenze pratiche della dottrina della chiesa circa l’eccellenza della verginità. Innanzi tutto, bisogna dire chiaramente che, dalla superiorità della verginità sul matrimonio, non segue che essa sia mezzo necessario alla perfezione cristiana. È possibile giungere alla santità anche senza consacrare a Dio la propria castità, come lo prova l’esempio di tanti santi e sante, fatti oggetto di culto pubblico dalla chiesa, i quali furono coniugi fedeli, eccellenti padri e madri di famiglia; e non è raro incontrare anche oggi persone coniugate, che tendono alla perfezione, con grande impegno. Si osservi, inoltre, che Dio non impone la verginità a tutti i Cristiani, come insegna l’apostolo san Paolo: «Intorno alle vergini non ho nessun comando di Dio, ma do un consiglio» (1Cor 7,25). La castità perfetta, quindi, non è che un consiglio, un mezzo capace di condurre più sicuramente e più facilmente alla perfezione evangelica e al regno dei cieli quelle anime «a cui è stato concesso» (Mt 19,11). «Essa non è imposta, ma proposta», nota sant’Ambrogio. – La castità perfetta come, da parte dei cristiani, esige una libera scelta prima della loro offerta totale al Signore, così, da parte di Dio, richiede un dono e una grazia. Già lo stesso divin Redentore l’aveva annunciato: «Non tutti comprendono questa parola, ma solo quelli a cui è concesso. … Chi può comprendere, comprenda» (Mt XIX,11.12). Commentando le parole di Cristo, san Girolamo invita «ciascuno a valutare le proprie forze, e vedere se gli sarà possibile adempiere gli obblighi della verginità e della castità. Di per sé, infatti, la castità è soave e attira a sé tutti. Ma bisogna ben misurare le forze, affinché chi può comprendere, comprenda. È come se la voce del Signore chiamasse i suoi soldati e li invitasse alla ricompensa della verginità. Chi può comprendere, comprenda: chi può combattere, combatta, vinca e trionfi». La verginità è una virtù difficile. Perché la si possa abbracciare, non basta solamente aver fatta la risoluzione ferma e decisa d’astenersi per sempre dai piaceri leciti del matrimonio: bisogna anche saper padroneggiare e domare con una vigilanza e una lotta costanti le rivolte della carne e le passioni del cuore; fuggire le allettative del mondo e vincere le tentazioni del demonio. Aveva ben ragione san Giovanni Crisostomo di affermare: «La radice e il frutto della verginità è una vita crocifissa». Al dire di sant’Ambrogio, la verginità è quasi un sacrificio e la vergine è «l’ostia del pudore, la vittima della castità». San Metodio d’Olimpo giunge a paragonare le vergini ai martiri e san Gregorio Magno insegna che la castità perfetta sostituisce il martirio: «Il tempo delle persecuzioni è passato, ma la nostra pace ha un suo martirio: anche se non mettiamo più il nostro collo sotto il ferro, tuttavia noi uccidiamo con la spada dello spirito i desideri carnali della nostra anima».51 La castità consacrata a Dio esige, quindi, anime forti e nobili, pronte al combattimento e alla vittoria, «per il regno dei cieli» (Mt XIX,12).
Prima di incamminarsi per questo arduo sentiero, chi per propria esperienza si sentisse impari alla lotta, ascolti umilmente l’avvertimento di san Paolo: «Coloro che non possono contenersi, si sposino: è meglio sposarsi che bruciare» (1Cor 7,9). Per molti, infatti, la continenza perpetua sarebbe un peso troppo grave, per poterla ad essi consigliare. Così i sacerdoti, direttori spirituali di giovani che credono di avere una vocazione sacerdotale o religiosa hanno lo stretto dovere di esortarli a studiare attentamente le loro disposizioni e di non lasciarli entrare per tale via, qualora presentino poche speranze di poter camminare fino alla fine con sicurezza e buon esito. Tali sacerdoti esaminino prudentemente le attitudini dei giovani e – se parrà opportuno – chiedano il consiglio dei medici. Se, infine, restasse ancora qualche serio dubbio, soprattutto nei riguardi della loro vita passata, intervengano con fermezza per farli desistere dall’abbracciare lo stato di castità perfetta o per impedire la loro ammissione agli ordini sacri o alla professione religiosa. – Benché la castità consacrata a Dio sia una virtù ardua, la sua pratica fedele, perfetta, è possibile alle anime che, dopo aver bene considerato ogni cosa, hanno risposto con cuore generoso all’invito di Gesù Cristo e fanno quanto è loro possibile per conservarla. Infatti, per l’impegno assunto nello stato di verginità o di celibato esse riceveranno da Dio una grazia sufficiente per poter mantenere la loro promessa. Perciò, se vi fosse qualcuno che non sentisse d’aver ricevuto il dono della castità (anche dopo averne fatto voto), non cerchi di mettere innanzi la sua incapacità di soddisfare all’obbligazione assunta. «Perché “Dio non comanda l’impossibile, ma, comandando, ammonisce di fare quanto puoi e di chiedere quello che non puoi” e ti aiuta affinché possa». Ricordiamo questa verità, tanto consolante, anche a quei malati che sentono infiacchita la loro volontà in seguito ad esaurimenti nervosi e ai quali certi medici, talora anche cattolici, consigliano troppo facilmente di farsi dispensare dai loro obblighi, sotto pretesto di non poter osservare la castità senza nuocere al proprio equilibrio psichico. Quanto invece più utile e più opportuno sarebbe aiutare tali infermi a rinforzare la volontà e convincerli che la castità non è impossibile neppure per essi! «Fedele è Dio, il quale non permetterà che siate tentati sopra le vostre forze, ma con la tentazione provvederà anche il buon esito dandovi il potere di vincere» (1Cor X,13). – I mezzi raccomandati dal divin Redentore stesso per difendere efficacemente la nostra virtù sono: una vigilanza continua, con la quale facciamo quanto ci è possibile da parte nostra e una costante preghiera con la quale chiediamo a Dio ciò che noi non possiamo fare a causa della nostra debolezza: «Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione, lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt XXVI,41). – Una tale vigilanza, che si estenda ad ogni tempo e circostanza della nostra vita, ci è assolutamente necessaria: «la carne, infatti ha desideri contrari allo spirito, e lo spirito desideri contrari alla carne» (Gal V,17). Se alcuno cedesse, anche leggermente, alle lusinghe del corpo, facilmente si sentirebbe trascinato a quelle «opere della carne» (cf. Gal V, 19-21), enumerate dall’apostolo, che costituiscono i vizi più abominevoli dell’umanità. – Perciò dobbiamo anzitutto vigilare sui movimenti delle passioni e dei sensi, dobbiamo dominarli anche con una volontaria asprezza di vita e con le penitenze corporali, in modo da renderli sottomessi alla retta ragione e alla legge di Dio: «Quelli che sono di Cristo, hanno crocifisso la loro carne con i suoi vizi e le sue concupiscenze» (Gal V,24). Lo stesso apostolo delle genti confessa di sé: «Maltratto il mio corpo e lo rendo schiavo, perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso diventi reprobo» (1Cor XV, 27). Tutti i santi e le sante hanno vegliato attentamente sui movimenti dei sensi e delle loro passioni e li hanno rintuzzati, talora con somma asprezza, secondo il consiglio del divin Maestro: «Ma io dico a voi, che chiunque avrà guardato una donna con cattivo desiderio, in cuor suo ha già peccato con lei. Se il tuo occhio destro ti scandalizza, strappalo e buttalo via da te: è meglio per te che perisca una delle tue membra piuttosto che mandare tutto il tuo corpo all’inferno» (Mt V, 28-29). Con tale raccomandazione è chiaro quello che richiede da noi il divin Redentore: non dobbiamo, cioè, neppur col pensiero cedere mai al peccato e dobbiamo allontanare energicamente da noi tutto ciò che possa macchiare, anche leggermente, questa bellissima virtù. E in questo nessuna diligenza è troppa; nessuna severità è esagerata. Se la salute malferma o altre cause non permettono a qualcuno maggiori austerità corporali, non lo dispensino mai tuttavia dalla vigilanza e dalla mortificazione interiore. – A questo proposito giova anche ricordare quello che i Santi Padri e i Dottori della Chiesa insegnano: è più facile vincere le lusinghe e le attrattive della passione, evitandole con una pronta fuga, che affrontandole direttamente. A custodia della castità, dice san Girolamo, serve più la fuga che la lotta aperta: «Per questo io fuggo, per non essere vinto». E tale fuga consiste non solo nell’allontanare premurosamente le occasioni del peccato, ma soprattutto nell’innalzare la mente, durante queste lotte, a Colui al quale abbiamo consacrato la nostra verginità. «Rimirate la bellezza di Colui che vi ama», ci raccomanda sant’Agostino. – Tutti i santi e le sante hanno sempre considerato la fuga e l’attenta vigilanza per allontanare con diligenza ogni occasione di peccato come mezzo migliore per vincere in questa materia: purtroppo, però, sembra che oggi non tutti pensino così. Alcuni sostengono che tutti i cristiani, e soprattutto i sacerdoti, non devono essere segregati dal mondo, come nei tempi passati, ma devono essere presenti al mondo e, perciò, è necessario metterli allo sbaraglio ed esporre al rischio la loro castità, affinché dimostrino se hanno o no la forza di resistere. Quindi i giovani chierici devono tutto vedere, per abituarsi a guardare tutto tranquillamente e rendersi così insensibili ad ogni turbamento. Per questo permettono loro facilmente di guardare tutto ciò che capita, senza alcuna regola di modestia; di frequentare i cinematografi, persino quando si tratta di pellicole proibite dai censori ecclesiastici; sfogliare qualsiasi rivista, anche oscena; leggere qualsiasi romanzo, anche se messo all’Indice o proibito dalla stessa legge naturale. E concedono questo perché dicono che ormai le masse di oggi vivono unicamente di tali spettacoli e di tali libri; e, chi vuole aiutarle, deve capire il loro modo di pensare e di vedere. Ma è facile comprendere quanto sia errato e pericoloso questo sistema di educare il giovane clero per guidarlo alla santità del suo stato. «Chi ama il pericolo, perirà in esso» (Eccli III, 27). Viene opportuno l’avviso di sant’Agostino: «Non dite di avere anime pure, se avete occhi immodesti, perché l’occhio immodesto è indizio di cuore impuro». – Un metodo di formazione così funesto, poggia su un ragionamento molto confuso. Certo, Cristo nostro Signore disse dei suoi apostoli: «Io li ho mandati nel mondo» (Gv XVII, 18); ma prima aveva anche detto di essi: «Essi non sono del mondo, come neppure io sono del mondo» (Gv XVII, 16), e aveva pregato con queste parole il suo Padre divino: «Non ti chiedo che li tolga dal mondo, ma che li liberi dal male» (Gv XVII, 15). La Chiesa quindi, che è guidata dai medesimi principi, ha stabilito norme opportune e sapienti per allontanare i sacerdoti dai pericoli in cui facilmente possono incorrere, vivendo nel mondo; con tali norme la santità della loro vita viene messa sufficientemente al riparo dalle agitazioni e dai piaceri della vita laicale. – A più forte ragione i giovani chierici, per essere formati alla vita spirituale e alla perfezione sacerdotale e religiosa, devono venire segregati dal tumulto secolaresco, prima di essere inseriti nella lotta della vita; restino pure a lungo nel seminario o nello scolasticato per ricevervi un’educazione diligente e accurata, imparando poco alla volta e con prudenza a prendere contatto con i problemi del nostro tempo, conforme a quanto scrivemmo nella Nostra esortazione apostolica Menti Nostrae. Quale giardiniere esporrebbe alle intemperie delle giovani piante esotiche, col pretesto di sperimentarle? Ora, i seminaristi e i giovani religiosi sono pianticelle tenere e delicate, da tenersi ben protette e da allenare progressivamente alla lotta. – Gli educatori del giovane clero faranno opera ben più lodevole e utile, inculcando a questi giovani le leggi del pudore cristiano. Non è forse il pudore la migliore difesa della verginità, tanto da potersi chiamare la prudenza della castità? Esso avverte il pericolo imminente, impedisce di esporsi al rischio e impone la fuga in occasioni, a cui si espongono i meno prudenti. Il pudore non ama le parole disoneste o volgari e detesta una condotta anche leggermente immodesta; fa evitare attentamente la familiarità sospetta con persone di altro sesso, poiché riempie l’anima di un profondo rispetto verso il corpo, che è membro di Cristo (cf. 1Cor 6,15) e tempio dello Spirito Santo (cf. 1Cor VI, 19). L’anima veramente pudica ha in orrore il minimo peccato di impurità e tosto si ritrae al primo risveglio della seduzione. – Il pudore inoltre suggerisce e mette in bocca ai genitori e agli educatori i termini appropriati per formare la coscienza dei giovani in materia di purezza. «Pertanto – come in una recente allocuzione abbiamo ricordato – tale pudore non deve essere spinto fino ad un silenzio assoluto, sino ad escludere dalla formazione morale qualsiasi prudente e riservato accenno a tale problema». Tuttavia, troppo spesso, ai giorni nostri, alcuni educatori si credono in dovere di iniziare fanciulli e fanciulle innocenti a segreti della procreazione, in una maniera che offende il loro pudore. Ora proprio il pudore cristiano esige in questa materia una giusta misura. – Esso poi è alimentato dal timore di Dio, quel timore filiale che si basa su una profonda umiltà e che ispira orrore per il minimo peccato. San Clemente I, Nostro predecessore, già l’aveva affermato: «Chi è casto nel suo corpo, non se ne vanti, ben sapendo che da un altro gli viene il dono della continenza». Nessuno forse, meglio di sant’Agostino, ha dimostrato l’importanza dell’umiltà cristiana per salvaguardare la verginità: «La perpetua continenza, e molto più la verginità, sono uno splendido dono dei santi di Dio; ma con somma vigilanza bisogna vegliare che la superbia non lo corrompa… Quanto maggiore è il bene che io vedo, tanto più temo che la superbia non lo rapisca. Tale dono della verginità nessuno lo custodisce meglio di Dio che l’ha concesso; e “Dio è carità” (1Gv IV, M8). La custode, quindi, della verginità è la carità, ma l’abitazione di tale custode è l’umiltà». – Un altro consiglio ancora è da ricordarsi: per conservare la castità non bastano né la vigilanza né il pudore. Bisogna anche ricorrere ai mezzi soprannaturali: alla preghiera, ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia e ad una devozione ardente verso la santissima Madre di Dio. – La castità perfetta, non dimentichiamolo, è un eccelso dono di Dio. «Esso è stato dato (cf. Mt XIX,11) – osserva acutamente san Girolamo – a quelli che l’hanno chiesto, a quelli che l’hanno voluto, a quelli che si sono preparati a riceverlo. Perché a chi chiede sarà dato, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto (cf. Mt VII, 8)». Sant’Ambrogio aggiunge che la fedeltà delle vergini al loro Sposo divino dipende dalla preghiera. E, come insegna sant’Alfonso de’ Liguori, così ardente nella sua pietà, nessun mezzo è più necessario e più sicuro per vincere le tentazioni contro la bella virtù, che un ricorso immediato a Dio. – Alla preghiera, tuttavia, bisogna aggiungere la pratica frequente del sacramento della penitenza: esso è una medicina spirituale che ci purifica e ci guarisce. Così pure bisogna nutrirsi del pane eucaristico: il Nostro predecessore d’immortale memoria Leone XIII lo additava come il migliore «rimedio contro la concupiscenza». Quanto più un’anima è pura e casta, tanto più ha fame di questo Pane, da cui attinge forza contro ogni seduzione impura e col quale si unisce più intimamente al suo Sposo divino: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui» (Gv VI, 57). – Ma per custodire illibata e perfezionare la castità, esiste un mezzo la cui meravigliosa efficacia è confermata dalla ripetuta esperienza dei secoli: e, cioè, una devozione solida e ardentissima verso la vergine Madre di Dio. In un certo modo, tutti gli altri mezzi si riassumono in tale devozione: chiunque vive la devozione mariana sinceramente e profondamente, si sente spinto certamente a vegliare, a pregare, ad accostarsi al tribunale della penitenza e all’eucaristia. Perciò esortiamo con cuore paterno i sacerdoti, i religiosi e le religiose a mettersi sotto la speciale protezione della santa Madre di Dio, Vergine delle vergini; ella, che – secondo la parola di sant’Ambrogio – è «la maestra della verginità» e la madre potentissima soprattutto delle anime consacrate al servizio di Dio. – Sant’Atanasio osserva che la verginità è entrata nel mondo per Maria, e sant’Agostino insegna: «La dignità verginale ebbe i suoi esordi con la Madre di Dio». Seguendo il pensiero di sant’Atanasio, sant’Ambrogio propone alle vergini la vita di Maria vergine come modello: «O figliuole, imitate Maria! 73 La vita di Maria rappresenti per voi, come in un quadro, la verginità; in tale vita contemplate la bellezza della castità e l’ideale della virtù. Prendetene l’esempio per la vostra vita: poiché in essa, come in un modello, sono espresse le lezioni della santità; vedrete ciò che avete da correggere, copiare, conservare… Essa è l’immagine della verginità. Maria, infatti, fu tale che basta la vita di lei sola a formare l’insegnamento per tutti… 74 Sia, dunque, Maria a regolare la vostra vita». «Tanto grande fu la grazia sua, che ella non riservava solo per sé il dono della verginità, ma anche a quelli che vedeva conferiva il pregio dell’integrità». Sant’Ambrogio aveva ben ragione di esclamare: «O ricchezze della verginità di Maria!». A motivo di tali ricchezze, ancora oggi alle sacre vergini, ai religiosi e ai sacerdoti è quanto mai utile contemplare la verginità di Maria, per osservare con più fedeltà e perfezione la castità del loro stato. – La meditazione delle virtù della beata Vergine non vi basti, tuttavia, dilettissimi figli e figlie: ricorrete a lei con una confidenza assoluta, e seguite il consiglio di san Bernardo che esorta: «Chiediamo la grazia e chiediamola per mezzo di Maria». In modo particolare durante quest’anno mariano affidate a Maria la cura della vostra vita spirituale e della perfezione, seguendo l’esempio di san Girolamo che asseriva: «Per me la verginità è una consacrazione in Maria e in Cristo».
IV. TIMORI E SPERANZE
Nelle gravi difficoltà, che la chiesa sta attraversando, è di grande consolazione al Nostro cuore di pastore supremo, venerabili fratelli, vedere la stima e l’onore tributati alla verginità, che fiorisce nel mondo intero, anche oggi, come sempre nel passato, nonostante gli errori ai quali abbiamo accennato e che vogliamo credere passeggeri. Non nascondiamo, tuttavia, che alla Nostra gioia fa ombra una certa tristezza, perché vediamo che, in non poche nazioni, va man mano diminuendo il numero di coloro che, rispondendo alla chiamata divina, abbracciano lo stato della verginità. Ne abbiamo già accennato sufficientemente le cause principali, e non c’è motivo di ripeterle. Confidiamo piuttosto che gli educatori della gioventù, caduti in questi errori, si ravvedano al più presto, li ripudino e si sforzino di ripararli. Essi aiuteranno con tutto l’impegno i giovani che si sentono chiamati da una forza soprannaturale al sacerdozio o alla vita religiosa e li assisteranno del loro meglio perché possano raggiungere questo alto ideale della loro vita. Piaccia al Signore che novelle e folte schiere di sacerdoti, di religiosi e di religiose sorgano al più presto proporzionate in numero e santità ai bisogni presenti della chiesa, per coltivare la vigna del Signore. – Inoltre, come esige la coscienza del Nostro ministero apostolico, esortiamo i genitori ad offrire volentieri al servizio di Dio quei loro figli che vi si sentissero chiamati. Se questo costa a loro, se ne provano tristezza o amarezza, meditino le riflessioni indirizzate da sant’Ambrogio alle madri di famiglia di Milano: «Parecchie fanciulle io ho conosciuto, che volevano essere consacrate vergini, ma le loro madri vietavano loro perfin di uscire… Se le vostre figlie volessero amare un uomo, potrebbero legittimamente scegliersi chi loro piace. E così, chi ha il diritto di scegliere un uomo, non ha il diritto di scegliere Dio?». – Ripensino, quindi, i genitori al grande onore di avere un figlio sacerdote o una figlia che ha consacrato allo Sposo divino la sua verginità. «Voi avete capito, o genitori! – esclama ancora sant’Ambrogio a riguardo delle sacre vergini -. La vergine è un dono di Dio, un’oblazione del padre; è il sacerdozio della castità. La vergine è l’ostia della madre, il cui sacrificio quotidiano placa la collera divina». – Non vogliamo terminare questa Lettera Enciclica, venerabili fratelli, senza volgere in modo speciale il Nostro pensiero e il Nostro cuore verso le anime consacrate a Dio che, in non poche nazioni, soffrono dure e terribili persecuzioni. Prendano esse esempio da quelle vergini della primitiva chiesa, che con invitto coraggio subirono il martirio per la loro verginità. – Perseverino tutti con fortezza d’animo nella loro santa risoluzione di servire a Cristo «fino alla morte» (Fil II, 8). Si ricordino del grande valore che le loro sofferenze fisiche e morali e le loro preghiere hanno al cospetto di Dio per l’avvento del suo regno nelle loro nazioni e nella chiesa intera. Si confortino, infine, nella certezza che «chi segue l’Agnello ovunque vada» (Ap XIV, 4), canterà eternamente un «cantico nuovo» (Ap XIV,3), che nessun altro potrà cantare. Il Nostro cuore paterno si volge con paterna commozione verso quei sacerdoti, quei religiosi e quelle religiose, che coraggiosamente confessano la loro fede fino al martirio. Noi preghiamo per essi come anche per tutte le anime consacrate, in ogni parte del mondo, al servizio divino, perché Dio le confermi, le fortifichi, e le consoli, e vi invitiamo ardentemente, venerabili fratelli, insieme con i vostri fedeli, a pregare in unione con Noi, al fine di ottenere a tali anime le consolazioni celesti e i soccorsi divini. – Frattanto, a voi, venerabili fratelli, a tutti i sacerdoti e religiosi, a tutte le sacre vergini, in modo speciale a tutti quelli «che soffrono persecuzioni per la giustizia» (Mt V, 10), e a tutti i vostri fedeli, impartiamo di gran cuore l’apostolica benedizione, come pegno delle grazie divine e attestato della Nostra paterna benevolenza.
Roma, presso San Pietro, nella festa dell’Annunciazione della santissima Vergine, il 25 marzo 1954, anno XVI del Nostro pontificato.
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Stazione a S. Pancrazio.
Privilegiata di 1 classe. – Doppio maggiore. – Paramenti bianchi.
Questa Domenica è detta Quasimodo (dalle prime parole dell’Introito) o in Albis (anticamente anche post Albas), perché i neofiti avevano appena la sera precedente deposte le vesti bianche, oppure anche Pasqua chiusa, poiché in questo giorno termina l’ottava di Pasqua (Or.). Per insegnare ai neofiti (Intr.) con quale generosità debbano rendere testimonianza a Gesù, la Chiesa li conduceva alla Basilica di S. Pancrazio, che all’età di quattordici anni rese a Gesù Cristo la testimonianza del sangue. Così devono fare i battezzati davanti alla persecuzione a colpi di spillo cui sono continuamente fatti segno; devono cioè resistere, appoggiandosi sulla fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, risorto. In questa fede, dice S. Giovanni, vinciamo il mondo, poiché per essa resistiamo a tutti i tentativi di farci cadere (Ep.). È quindi di somma importanza che questa fede abbia una solida base e la Chiesa ce la dà nella Messa di questo giorno. Base di questa fede è, secondo quanto dice S. Giovanni nell’Epistola, la testimonianza del Padre, che, al Battesimo del Cristo (acqua), lo ha proclamato Suo Figliuolo, del Figlio che sulla croce (sangue) si è rivelato Figlio di Dio, dello Spirito Santo che, scendendo sugli Apostoli nel giorno della Pentecoste, secondo la promessa di Gesù, ha confermato quello che il Redentore aveva detto della propria risurrezione e della propria divinità. Nel Vangelo vediamo infatti come Gesù Cristo, apparendo due volte nel Cenacolo, dissipa l’incredulità di San Tommaso e loda quelli che han creduto in Lui senza averlo veduto.
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
1 Pet II, 2.
Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja.
[Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia,]
Ps LXXX: 2. Exsultáte Deo, adjutóri nostro: jubiláte Deo Jacob.
[Inneggiate a Dio nostro aiuto; acclamate il Dio di Giacobbe.]
– Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja.
[Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia.]
Oratio
Orémus.
Præsta, quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui paschália festa perégimus, hæc, te largiénte, móribus et vita teneámus.
[Concedi, Dio onnipotente, che, terminate le feste pasquali, noi, con la tua grazia, ne conserviamo il frutto nella vita e nella condotta.]
“Caríssimi: Omne, quod natum est ex Deo, vincit mundum: et hæc est victoria, quæ vincit mundum, fides nostra. Quis est, qui vincit mundum, nisi qui credit, quóniam Jesus est Fílius Dei? Hic est, qui venit per aquam et sánguinem, Jesus Christus: non in aqua solum, sed in aqua et sánguine. Et Spíritus est, qui testificátur, quóniam Christus est véritas. Quóniam tres sunt, qui testimónium dant in coelo: Pater, Verbum, et Spíritus Sanctus: et hi tres unum sunt. Et tres sunt, qui testimónium dant in terra: Spíritus, et aqua, et sanguis: et hi tres unum sunt. Si testimónium hóminum accípimus, testimónium Dei majus est: quóniam hoc est testimónium Dei, quod majus est: quóniam testificátus est de Fílio suo. Qui credit in Fílium Dei, habet testimónium Dei in se”. – Deo gratias.
“Carissimi: Tutto quello che è nato da Dio vince il mondo: e questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede. Chi è che vince il mondo, se non colui che crede che, Gesù Cristo è figlio di Dio? Questi è Colui che è venuto coll’acqua e col sangue, Gesù Cristo: non con l’acqua solamente, ma con l’acqua e col sangue. E lo Spirito è quello che attesta che Cristo è verità. Poiché sono tre che rendono testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo: e questi tre sono una cosa sola. E sono tre che rendono testimonianza in terra: lo spirito, l’acqua e il sangue: e questi tre sono una cosa sola. Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è maggiore. Ora, la testimonianza di Dio che è maggiore è questa, che Egli ha reso al Figlio suo. Chi crede al Figlio di Dio, ha in sé la testimonianza di Dio” (1 Giov. V, 4-10).
Il Vangelo ci presenta la storia come una grande lotta del bene contro il male, della verità contro l’errore, e viceversa. A chi la vittoria? Ai figli di Dio, risponde la Epistola di quest’oggi, dovuta a San Giovanni, l’autore del quarto Vangelo. L’insieme delle forze del male, le negative forze dell’errore, delle tenebre e del gelo, ha un nome classico: si chiama il mondo; l’antitesi, l’antagonista di Dio, l’anti-Dio. Un anti-Dio in carne ed ossa, realissimo a suo modo, d’una realtà empirica e grossolana. Gente che c’è, che parla, che si agita, che si dà delle grandi arie e del gran daffare, che assume volentieri pose trionfatrici. Apparenza e menzogna nota, proclama l’Apostolo. La Vittoria non è del mondo, il mondo è l’eterno sconfitto. Vince Dio e chi nasce da Dio: i figli di Dio. Un altro termine prediletto del quarto Vangelo, che qui riappare: i nati di Dio. E chi è che nasce da Dio? A chi è perciò riservata la vittoria? Potremmo adoperare una frase del quarto Vangelo: « Hi qui credunt innomine eius: » i credenti in Lui. C’è la frase precisa anch’essa nella nostra Epistola: « gli uomini di fede ». La Vittoria che vince, abbatte, schiaccia il mondo, è la nostra fede: « Hæc est Victoria quæ vincit mundum, fides nostra! – La nostra fede! Fede, badate, non credulità. C’è l’abisso fra le due cose, per quanto molti le scambino. La credulità è una debolezza di mente. Il credenzone è un vinto, vinto dalle illusioni a cui (stolto!) egli dà una consistenza che non hanno. Perché anche senza essere credenzoni o troppo creduli, si può avere una fede non, davvero religiosa o punto religiosa. Si può aver fede in un uomo; si può aver fede in un’idea, non divina. La fede di cui parla il Vangelo è sempre e sola fede religiosa, sanamente, profondamente religiosa: la fede, grazie alla quale noi siamo i figli di Dio, è qualcosa che viene da Lui e va a Lui. Fede buona nella Bontà; una fede, certezza immota, assoluta, profonda. – Il mondo non ha questa fede. Il mondo è scettico. Ha della fede, non la fede; degli idoli; non Iddio, il mondo. Non crede nella bontà amorosa e trionfatrice. Crede alle passioni, non alla ragionevolezza. Crede ai ciarlatani, non agli Apostoli. Crede all’astuzia, non alla verità. Noi siamo invece uomini di fede, gli uomini della fede, noi Cristiani. Noi crediamo alla carità, alla bontà di Dio, della Realtà più profonda, più vera, più alta: Dio! È la formula che adopera per altre volte lo stesso Apostolo: « nos credidimus charitati. » Sono tutte formule che si equivalgono: siamo figli di Dio, crediamo nel Suo nome, abbiamo fede nella Sua bontà. Questa fede è la nostra forza. Chi crede davvero alla Bontà sovrana, dominatrice, divina, è buono; comincia dall’essere o per essere buono. Egli stesso combatte, lotta per bontà, lotta fiduciosamente, colla fiducia della vittoria. Perché sa di essere dalla parte di Dio e di avere Iddio dalla parte propria. « Si Deus prò nobisquies contra nos? » Credere alla vittoria è il segreto per conseguirla. E infatti nella storia, chi l’abbracci nel suo meraviglioso complesso, trionfa la bontà, trionfa Dio. Lo scettico ha dei trionfi apparenti e momentanei… i minuti. La fede ha per sé i secoli: trionfa con infinito stupore di chi credeva superbamente di aver potuto costruire un edificio sulla mobile arena dello scetticismo. Teniamo alta come segnacolo di vittoria la bandiera della nostra fede.
(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.
(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)
Alleluja
Alleluia, alleluia – Matt XXVIII: 7.In die resurrectiónis meæ, dicit Dóminus, præcédam vos in Galilæam.
[Il giorno della mia risurrezione, dice il Signore, mi seguirete in Galilea.]
Joannes XX:26. Post dies octo, jánuis clausis, stetit Jesus in médio discipulórum suórum, et dixit: Pax vobis. Allelúja.
[Otto giorni dopo, a porte chiuse, Gesù si fece vedere in mezzo ai suoi discepoli, e disse: pace a voi.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joannes XX: 19-31.
“In illo témpore: Cum sero esset die illo, una sabbatórum, et fores essent clausæ, ubi erant discípuli congregáti propter metum Judæórum: venit Jesus, et stetit in médio, et dixit eis: Pax vobis. Et cum hoc dixísset, osténdit eis manus et latus. Gavísi sunt ergo discípuli, viso Dómino. Dixit ergo eis íterum: Pax vobis. Sicut misit me Pater, et ego mitto vos. Hæc cum dixísset, insufflávit, et dixit eis: Accípite Spíritum Sanctum: quorum remiseritis peccáta, remittúntur eis; et quorum retinuéritis, reténta sunt. Thomas autem unus ex duódecim, qui dícitur Dídymus, non erat cum eis, quando venit Jesus. Dixérunt ergo ei alii discípuli: Vídimus Dóminum. Ille autem dixit eis: Nisi vídero in mánibus ejus fixúram clavórum, et mittam dígitum meum in locum clavórum, et mittam manum meam in latus ejus, non credam. Et post dies octo, íterum erant discípuli ejus intus, et Thomas cum eis. Venit Jesus, jánuis clausis, et stetit in médio, et dixit: Pax vobis. Deinde dicit Thomæ: Infer dígitum tuum huc et vide manus meas, et affer manum tuam et mitte in latus meum: et noli esse incrédulus, sed fidélis. Respóndit Thomas et dixit ei: Dóminus meus et Deus meus. Dixit ei Jesus: Quia vidísti me, Thoma, credidísti: beáti, qui non vidérunt, et credidérunt. Multa quidem et alia signa fecit Jesus in conspéctu discipulórum suórum, quæ non sunt scripta in libro hoc. Hæc autem scripta sunt, ut credátis, quia Jesus est Christus, Fílius Dei: et ut credéntes vitam habeátis in nómine ejus.” –
“In quel tempo giunta la sera di quel giorno, il primo della settimana, ed essendo chiuso le porte, dove erano congregati i discepoli per paura de’ Giudei, venne Gesù, e si stette in mezzo, e disse loro: Pace a voi. E detto questo, mostrò loro le sue mani e il costato. Si rallegrarono pertanto i discepoli al vedere il Signore. Disse loro di nuovo Gesù: Pace a voi: come mandò me il Padre, anch’io mando voi. E detto questo, soffiò sopra di essi, e disse: Ricevete lo Spirito Santo: saran rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saran ritenuti a chi li riterrete. Ma Tommaso, uno dei dodici, soprannominato Didimo, non si trovò con essi al venire di Gesù. Gli dissero però gli altri discepoli: Abbiam veduto il Signore. Ma egli disse loro: se non veggo nello mani di lui la fessura de’ chiodi, e non metto il mio dito nel luogo de’ chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo. Otto giorni dopo, di nuovo erano i discepoli in casa, e Tommaso con essi. Viene Gesù, essendo chiuse le porte, e si pose in mezzo, o disse loro: Pace a voi. Quindi dice a Tommaso: Metti qua il dito, e osserva le mani mie, e accosta la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma fedele. Rispose Tommaso, e dissegli: Signor mio, o Dio mio. Gli disse Gesù: Perché hai veduto, o Tommaso, hai creduto: beati coloro che non hanno veduto, e hanno creduto. Vi sono anche molti altri segni fatti da Gesù in presenza de’ suoi discepoli, che non sono registrati in questo libro. Questi poi sono stati registrati, affinché crediate che Gesù è il Cristo Figliuolo di Dio, ed affinché credendo otteniate la vita nel nome di Lui” (Jov. XX, 19-31). »
Omelia
(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.
LA FEDE IN CRISTO RISORTO
Già è venuta anche la sera di Pasqua. Le porte sono serrate, la tavola preparata, e tutti sono di nuovo timorosi e raccolti nel cenacolo, come tre giorni innanzi, quand’Egli mangiò con loro per l’ultima volta prima di morire. I cuori, la sala, il silenzio, tutto è pieno della Sua assenza. Egli manca. No, che è presente! D’improvviso, infatti, risuonò la sua voce: «Pace a voi ». Gli Apostoli sbigottirono. Che densità ha questo corpo se può penetrare in una camera a porte chiuse? Se ci indugiamo in questa difficoltà, dovremmo allora farcene prima un’altra: che peso aveva questo corpo quando fu visto camminare a fermi passi sull’acqua senza affondare? Domande e questioni inutili: Egli è l’Onnipotente. Ma perché nessuno sospettasse d’aver davanti un fantasma, Gesù, fattosi in mezzo a loro, dava le sue mani da toccare, mostrava il suo costato con lo squarcio della lanciata. Essi lo guardavano, l’ascoltavano, lo toccavano con la gioia insaziata dei bambini che, dopo un sogno pauroso, accarezzano il padre ritornato in mezzo a loro: era Lui, era di carne, era vivo! Ecco li investiva del potere di rimettere i peccati. « Ricevete — disse — lo Spirito Santo: a chi perdonerete i peccati saranno perdonati, a chi non li perdonerete non saranno perdonati ». Tre sere prima il sacramento dell’Eucaristia, ora il sacramento della Confessione: in mezzo le giornate della passione e della morte e della resurrezione. Intendete il valore della circostanza: questi due sacramenti sono i mezzi essenziali per partecipare ai meriti della sua Passione e Resurrezione. Però, uno dei dodici, Tommaso, non era nel cenacolo quella sera. Quando glielo dissero, rispose di no, che non l’avrebbe mai creduto, se prima non avesse veduto coi suoi occhi, non toccava con le sue mani. Otto giorni dopo fu preso in parola. Ancora le porte erano chiuse, e risuonò la sua voce: « La pace sia con voi. Gesù di nuovo era là, e rivolgendosi a Tommaso disse: « Vieni a mettere il dito nelle piaghe delle mie mani! vieni a mettere la tua mano nel mio costato! ». L’incredulo vinto s’arrese esclamando: « Signore mio e Dio mio! ». E Gesù soggiunse: « Hai creduto, perché hai veduto: beati coloro che non vedono e credono ». Questa beatitudine è per noi. Già San Pietro con un accento quasi d’invidia scriveva ai primi Cristiani d’Asia: « Voi non avete visto Gesù Cristo, eppure l’amate; e ancor oggi, senza vederlo, voi credete in Lui ed esultate di una gioia ineffabile e piena di gloria ». Quante generazioni si sono successe da quel momento! Tutti i veri Cristiani di ogni tempo senza veder Cristo risorto, hanno gridato a Lui con lo slancio del cuore: « Signore mio e Dio mio!». E la beatitudine del Signore si è avverata in loro; come si avvera in noi, se profondamente crediamo. Per chiunque crede in Gesù Cristo risorto, la fede diviene luce, diviene forza. LA FEDE È LUCE. Gesù Cristo ha affermato di sé: « Prima che Abramo fosse, io sono ». Dunque se prima ancor di nascere a Betlemme già esisteva, Egli può dirci che cosa ci sia in quel buio che precede la nostra vita. Gesù Cristo inoltre è tornato vivo dalla morte. Dunque, ci può dire che cosa ci sia in quel buio che noi vediamo al di là della tomba. Ed in realtà Egli ce l’ha detto. Prima di noi, prima d’ogni cosa, Dio è: Dio che ci amava benché ancora non esistessimo, che ci ha creati appunto perché ci amava e desiderava d’essere riamato. Questo Dio vivente da tutta l’eternità genera un Figlio; dal mutuo amore del Padre e del Figlio procede una terza divina Persona che si chiama Spirito Santo. Il Dio che ci ha creati è uno nella natura, è trino nelle Persone. Una seconda cosa ci ha detto Gesù: di esser Lui il Figlio di Dio, d’essersi fatto uomo per salvarci. Chiunque crede in Lui sarà salvo, perché non solo gli perdonerà i peccati, ma gli manderà lo Spirito Santo che lo santificherà e lo renderà figlio adottivo di Dio, partecipe della vita divina. Una terza cosa ci ha detto ancora: al termine della vita ci troveremo di fronte a Lui, che ci giudicherà dei nostri pensieri, dei nostri affetti, delle nostre azioni, delle nostre omissioni. Chi troverà nel peccato condannerà nel fuoco eterno; e chiamerà invece nel suo paradiso il servo fedele a vedere nella gioia quei misteri che quaggiù ha creduto nel dolore e nella speranza. – S. Tommaso fa un confronto tra i più grandi filosofi dell’antichità e gli umili Cristiani del suo tempo. Quegli ingegni poderosi, Aristotile e Socrate e Platone, dopo tanto speculare non erano riusciti a darsi una risposta sicura alle domande più assillanti intorno al nostro destino, e vissero nell’ansietà. Invece, — osserva S. Tommaso — anche il più umile Cristiano, il più modesto per intelligenza, sa rispondere con assoluta certezza ai più importanti problemi della vita: donde veniamo, che cosa è necessario fare, dove andiamo, che cosa ci attende dopo la morte. È Gesù Cristo che li ha resi tanto sapienti. Ma ai tempi di S. Tommaso la fede era un dono generale: oggi è assai più raro. Le parole di Cristo ancora splendono come fari nella caligine del mondo, ma troppi preferiscono le tenebre alla sua luce divina. Cristiani, levate lo sguardo, drizzate l’intenzione, movete i passi verso la luce di quelle verità: non apprezzerete mai abbastanza il dono della fede. LA FEDE È FORZA. Tre sono i dubbi che paralizzano le nostre energie nell’operare: il dubbio dell’errore, dell’inutilità, dell’incapacità. E se poi sbaglio? E se poi non ci guadagno niente? E se non sono capace di resistere? Ebbene, la fede, togliendo questi tre interrogativi, moltiplica le nostre forze. – a) La fede ci indica la via infallibile della vita. Nessun timore di sbagliare, non c’è che da percorrerla. Pensate al Vescovo d’Antiochia, S. Ignazio, quando lo trascinavano a Roma per essere dato in pasto alle belve del circo. Scortato da dieci soldati che erano dei leopardi per la loro brutalità, egli cammina con una grande certezza nel cuore. La certezza di non sbagliare a sacrificarsi per il Signore, e questa certezza gliela infondeva la fede in Gesù risorto. Diceva: « Io so che Cristo è risorto nella carne, che vive tuttora. Quando Egli si avvicinò a Pietro e ai suoi compagni volle che lo toccassero perché fossero persuasi della sua realtà. Io lo vedo e lo tocco con la fede » (Epistola agli Smirnei). Per chi vede e tocca con la fede Gesù, né le sofferenze, né i pericoli, né le minacce, né la morte, gli fan paura. – b) Il secondo dubbio che trattiene l’uomo dall’agire intensamente è l’incertezza del guadagno. L’operaio che presagisce di non esser pagato non vuol lavorare. L’industriale che sospetta di essere coinvolto in un fallimento non accetta commissioni di lavoro. Ma il Cristiano che vive di fede non può dubitare del suo guadagno: egli ha dinanzi agli occhi una ricompensa immancabile, immensa, eterna, di fronte alla quale ogni fatica e ogni patimento di quaggiù è poca e fuggevole cosa. «Io penso — esclama S. Paolo — che i patimenti del tempo presente non hanno proporzione con la gloria ventura » (Rom., VIII, 18). Per questo si rallegrava in mezzo alle tribolazioni, persuaso che ognuna di esse, pazientemente tollerata, gli fruttava un grado più alto nella visione e nell’amore di Dio. « Dai Giudei cinque volte mi sono preso trentanove colpi; dai Romani tre volte fui battuto con le verghe; in Damasco il governatore di Re Areta aveva messo una taglia sulla mia vita e potei sfuggire facendomi calare da una finestra in una cesta lungo una muraglia; a Listri fui lapidato; tre volte ho fatto naufragio e rimasi un giorno e una notte in balia delle onde, provai pericoli sui fiumi, pericoli tra gli assassini, pericoli tra i miei connazionali e tra gli stranieri, pericoli nella città e nella campagna; e poi il lavoro, la fatica, la fame, il freddo, la nudità…» (II Cor., XI, 23-33). Donde traeva questa forza da leone? Dalla certezza della sua fede nella resurrezione di Cristo. « Se Cristo non fosse risorto, vana è la nostra fede; e quelli che sono morti in Cristo, sono perduti; e noi che in questa vita gli crediamo, siamo i più miserabili degli uomini. Ma Cristo è veramente risuscitato dai morti…» (I Cor., XV, 19-20). Allora a Paolo basta il coraggio di lanciare alla morte la più audace sfida che mai sia risuonata su questa terra: « Per me, morire è un guadagno ». – c) Ma io, — penserà qualcuno — non sono Paolo, non sono Ignazio: non so credere né operare così. Ecco la terza ansia che paralizza le forze umane: il senso della propria insufficienza e il conseguente scoraggiamento. Quante anime sfiduciate si lamentano di non poter pregare, di non saper resistere alle seduzioni dell’impurità, d’essere incapaci di sopportare! Neanche i santi da soli avrebbero potuto fare quello che hanno fatto; ma la fede ci ricorda che Dio è la nostra forza e il nostro sostegno, e quando Dio è con noi nessuno potrà prevalere contro di noi, né il mondo né il demonio, né la nostra debolezza. Pensate alla timidezza e alla incapacità degli Apostoli prima che le loro buone volontà esitanti fossero afferrate e trasformate dalla forza dello Spirito Santo. – Sulla porta del tempio di Gerusalemme c’era uno storpio, il quale campava la vita chiedendo l’elemosina. Passarono di là S. Pietro e S. Giovanni e lo guarirono nel Nome di Gesù. Egli balzò in piedi, li prese per le mani e tenendoli stretti entra con loro nel tempio giubilando (Atti, III, 1-11). La nostra anima, ad essere sinceri, dobbiamo forse assomigliarla a quello storpio. Indecisa tra il bene e il male, tra la piazza e il tempio, tra Dio e il mondo, non ha la sfrontatezza di vivere senza freni ma neanche il coraggio di darsi decisamente e totalmente al Signore, entrando nel tempio della sua grazia e delle sue leggi. Siede impotente sulla soglia, e si volta indietro a chiedere al mondo un poco delle sue soddisfazioni e dei suoi piaceri. Vorrebbe darsi al Signore, ma ha paura delle rinunzie e dei sacrifici che egli le deve imporre; d’altra parte il timore dell’inferno, e un innato senso di nobiltà le vieta d’affondare nei peccati. Soltanto S. Pietro e S. Giovanni, l’Apostolo delle fede e quello dell’amore, la possono guarire nel Nome di Gesù. Abbiamo bisogno cioè di una grande fede in Gesù Risorto, vivo e vicino a noi; abbiamo bisogno di un grande amore per Lui che spenga in noi ogni malsano amore del mondo. Stretti per mano alla fede e all’amore del nostro Redentore Risorto, entreremo nel tempio della vita Cristiana, e procederemo nella nostra santificazione. Signore, fa ch’io ti creda sempre più! Fa ch’io ti ami sempre più.
.- Non sulla gioia dei discepoli, non sulla incredulità di Tommaso, ma sull’augurio del Maestro divino dobbiamo fermare la nostra attenzione. « A voi sia Pace! ». Risorgendo da morte non altra parola, non altro dono recò ai suoi se non la pace: quella che Egli aveva firmata tra Dio e l’umanità con il suo sangue. Pax vobis! è pur questo ancora il dono e la parola che Gesù reca ad ognuno che ha compiuto in questi giorni il suo dovere pasquale, e credo che nessuno tra voi resti escluso. Dopo d’aver confessati bene i peccati, dopo d’esservi cibati della Sacra Ostia, avete sentito la sua voce ripetervi in fondo al cuore: « A te sia pace. Dio è placato e ti ama ». Sì, oggi tutti siamo in pace col Cielo; io lo spero. Però quel che importa è che questa pace non duri appena una o due settimane, ma sempre. Non venga più, dunque, il peccato a rapirci il dono della risurrezione. Nessuno si renda meritevole del rimprovero che S. Paolo fece ai Galati. Aveva a loro annunziato il Vangelo, li aveva battezzati, li aveva entusiasmati nella Religione nostra: ma appena fu lontano, quelli dimenticarono ogni cosa e ritornarono alla vita di prima. S. Paolo lo seppe, e scrisse a loro una lettera di rimproveri e di lacrime: « In così poco tempo avete saputo abbandonare Cristo? Avete cominciato nel fervore e finite nella disonestà! O stolti, chi vi ha illusi a disubbidire alla verità?». O insensati Galatæ, quis vos fascinavit non obœdire veritati? (Galat., III, 1). Non basta dunque aver fatto pace con Dio, bisogna adesso mantenerla, continuando in grazia, poiché soltanto chi avrà perseverato fino alla fine si salverà. Perseveranza ci vuole! e la perseveranza dipende da Dio e da noi. Se dipende da Dio preghiamolo; se dipende da noi, vigiliamo. – DIPENDE DA DIO: PREGHIAMOLO. Udite un paragone che una volta portava Gesù alle turbe. « Se alcuno pensa di edificare una torre, prima si ritira in casa e calcola un progetto preventivo di spesa e considera se le sue ricchezze basteranno a tener fronte all’impresa, e se mai qualche amico lo aiuti con prestiti… ma non si mette all’opera all’impensata, altrimenti correrebbe il rischio di non poter condurre a termine la costruzione e di abbandonarla a mezzo, fra lo scherno della gente: « Guardate il tale! ha cominciato a fabbricare e non ha potuto finire» (Luc.; XIV, 28-30). Or bene, noi dobbiamo cominciare l’ardua fabbrica d’una vita nuova, una vita di pace e in grazia: se ci ritiriamo a riflettere sui mezzi che disponiamo, bisogna concludere che da soli ci mancano le forze per durarla anche un giorno solo. C’è però un nostro grande Amico, ricchissimo e potentissimo, che appena lo preghiamo, supplisce ad ogni nostra debolezza: Dio. Senza la preghiera è quindi impossibile la perseveranza. Ma con la preghiera ogni difficoltà sparisce, ogni tentazione si dissolve, la nostra debolezza trionfa. Prima che S. Agata fosse martirizzata, il tiranno volle tentare ogni seduzione per indurla al peccato; ma ogni sua arte riuscì inutile perché la santa pregava. « Sarebbe più facile, — disse il tiranno — sarebbe più facile ammollire i macigni e il diamante, cambiare il ferro in piombo, anziché cambiare l’animo di Agata e sviarla dall’amore di Gesù Cristo e dal proposito della castità ». Che bella testimonianza! Noi invece siamo come fogliette di pioppo tremanti ad ogni vento; siamo come cera che si liquefa al primo caldo; siamo come rugiada che svanisce al primo raggio. Quante volte è bastato un pensiero ozioso, uno sguardo, una parola, un sorriso per travolgerci in rovina! Perché? Perché non si può perseverare senza l’aiuto di Dio. Quest’aiuto, che il Signore pietoso non nega mai, lo si ottiene con la preghiera e con i Sacramenti. – Per essere più preciso, vi ricorderò che Dio ha diviso il tempo in giorni, in settimane, in mesi, in anni: e noi ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, ogni anno abbiamo bisogno del conforto divino a perseverare. Ed allora ogni giorno ci sia la preghiera del mattino e della sera col Rosario; ogni settimana, nel giorno festivo, la Messa e la spiegazione della Dottrina cristiana; ogni mese la Confessione e la Comunione, — questo è solo un mio consiglio ma tanto giovevole; ogni anno la Pasqua sia santificata con un esame di coscienza generale e con l’adempimento esatto del dovere pasquale. Queste pratiche non vi sembrino esagerate: siamo pronti a ben maggiori fatiche per conservare le ricchezze del mondo, e ci rifiuteremo vilmente quando si tratta di conservare la pace e la grazia, che sono ricchezze di paradiso? D’altronde a chi le eseguirà, io assicuro da parte di Dio la perseveranza fino alla fine. – DIPENDE DA NOI: VIGILIAMO. S. Gerolamo dice che noi viaggiamo carichi d’oro: è il gran tesoro della grazia di Dio, della pace sua santa. Non lasciamoci derubare. Temiamo i ladri astuti e feroci che stanno nascosti dentro e fuori di noi. Vigiliamo, ché nel cammino della vita dobbiamo essere non degli sventati, ma dei prudenti. Vigilate! Quando Antonio fu all’età di trentacinque anni volle recarsi in un antico romitaggio, dove avrebbe potuto lodare Dio in tutta povertà e penitenza. Ma l’infernale nemico tentò d’impedire il proposito eroico e gettò, sulla via per dove doveva passare, un dischetto d’argento. « Lo raccoglierà, — pensava il demonio, — tornerà indietro per spendere la moneta, o donarla: e poi probabilmente dimenticherà il romitaggio ». Ma appena S. Antonio vide il dischetto d’argento luccicare davanti a’ suoi passi, conobbe l’inganno, e gridò come se il demonio lo potesse sentire. « Quest’argento sia teco in perdizione ». Una fiammetta, una boccata di fumo e il dischetto scomparve. L’astuzia del tentatore non è mutata neppure dopo mill’anni. Egli sa del vostro proposito di perseverare dopo la Pasqua e sulla strada per dove passate getta, come luccicanti monete, i suoi inganni. È quel ballo, è quella persona, è quel ritrovo, è quel piacere, è quel libro… Non raccogliete, per amor di Dio, il dischetto d’argento infernale: fuggite l’occasione! e voi pure gridate: « Questa lusinga sia teco in perdizione ». In un attimo ogni tentazione, tutto si dissolverà in vano fumo, davanti ai vittoriosi. Resistete giorno per giorno! « Ma io sono giovane e come potrò resistere per venti e quarant’anni in una vita pura, ritirata, cristiana? Ho già provato altre volte: per un giorno, per una settimana ho resistito, ma poi le forze mancarono, le passioni ingagliardirono, e cedetti… ». Risponderò ancora con un esempio dei Padri del deserto, assai sperimentati nei combattimenti spirituali. Vivevano nell’eremo due Egiziani, che da poco avevano abbracciato quella vita santa, e, si capisce, il demonio li spingeva ad abbandonarla. Per superare questa tentazione, essi decisero di aspettare fino alla stagione seguente: « Ecco l’inverno! — si dicevano; — passiamolo ancora qui: del resto è tanto breve; ce ne andremo a primavera ». L’inverno passava ancora in santità ed orazione. « Ecco la primavera! — dicevano poi; — è cosa tiepida che piace perfino nel deserto. Ce ne andremo in autunno ». E così di stagione in stagione, rimasero cinquant’anni nella solitudine e morirono in pace. Altrettanto fate voi, o Cristiani, che desiderate perseverare in grazia. « Da Pasqua a Pentecoste non ci sono cent’anni: resistete fino allora: poi dopo una bella Confessione e una fervorosa Comunione, deciderete. — E da Pentecoste alla Sagra o all’Ufficio Generale, o alle S. Quarant’ore, o al Giorno dei morti… non è un’eternità: resistete fino allora ». E così di periodo in periodo, tutta la vita passerete nella santa perseveranza di Pasqua. – Tre convalescenti si presentarono al medico. Erano appena usciti da malattia gravissima, e tutti e tre — temendo la ricaduta — ricorsero pieni di fiducia al loro dottore per domandargli consigli. I consigli furono uguali a tutti: prendere maggior nutrimento; astenersi da certe bevande e da certe vivande irritanti; accorrere dal medico senza indugi appena i sintomi del male riprendessero a manifestarsi. Il primo convalescente, ritornato a casa sua, dimenticò ogni prescrizione medica, anzi se ne rise: ma d’improvviso il male lo riprese e lo strappò nella tomba. Il secondo convalescente preferì ascoltare per metà i consigli del dottore: prese maggior nutrimento, ma non si astenne dai cibi proibiti; e neppure lui godette salute. Il terzo invece eseguì scrupolosamente ogni comando e, appena temeva un assalto del vecchio male, ricorreva al suo medico: così poté campare lieto e sano fino alla più tarda età. Tra i fedeli che dopo la santa Pasqua vogliono perseverare nella salute dell’anima, noi distinguiamo tre categorie. Alcuni non ricordano nemmeno uno dei consigli ricevuti in confessione: maggior nutrimento di preghiere, ed essi non pregano mai; astensione dai cibi irritanti, ed essi amano invece cose, luoghi, persone pericolose; farsi vedere frequentemente dal medico, ed essi non si confessano più d’una volta all’anno. Costoro ricadranno in peccato peggio di prima, e sempre con minor speranza di risollevarsi. Altri prendono sì un maggior nutrimento di preghiere, una maggior frequenze di sacramenti; ma non fuggono le occasioni peccaminose. Costoro non potranno mai perseverare, perché chi ama il pericolo in esso perisce. Infine, c’è un piccolo gruppo che eseguisce scrupolosamente i tre consigli. E vi assicuro che son costoro quelli che non perderanno mai la pace pasquale e cammineranno con Gesù risorto fino alla morte e poi per sempre di là. In quale categoria ci poniamo noi?
– Quando una persona ritorna da un lungo viaggio, riporta, per i suoi cari che l’attendono, qualche ricordo di quelle terre sconosciute e misteriose. E Gesù risorto, ritornando ai suoi discepoli che l’aspettavano, volle portare un dono che facesse loro immaginare quanto si debba godere in paradiso: la pace. Ed entrato quella sera, a porte chiuse, nel cenacolo, stette in mezzo a loro e disse: — Pace! — E mostrava il suo petto piagato, e le palme delle mani piagate. La pace. Ecco il gran dono di Dio, ecco quello che anche ai nostri tempi gli uomini cercano affannosamente invano. E pace non vi è più nelle famiglie, ove le sante leggi che la custodivano sembrano infrante. E pace non vi è nelle nazioni, che ormai disperano di raggiungerla, poi che la videro svanire come nebbia ogni volta che sognarono d’averla abbracciata. Perciò, oggi, dopo tanti secoli, dalle pagine del suo Vangelo risorge il Maestro Divino e dice alla gente, mostrando il suo petto e le sue palme piagate: « Quello che invano avete altrove cercato, è qui: io sono la vostra pace ». Stetit Jesus in medio discipulorum et dixit eis: Pax vobis! E veramente solo quando Gesù sarà in mezzo alla nostra mente, in mezzo al nostro cuore, in tutta la nostra vita, solo allora avremo la pace. Ma Gesù vive nella nostra mente per la fede, che placa ogni dubbio e dissipa ogni ombra. Ma Gesù vive nei nostri cuori quando ci siamo confessati e la grazia di Dio è tornata a sorridere in noi. Ma in Gesù è tutta la nostra vita quando non vogliamo se non ciò che Egli vuole. « Pax vobis!» pace che vien dalla mente, che vien dal cuore, che viene da ogni nostra azione. – LA FEDE DONA LA PACE ALLA MENTE. Santa Perpetua, perché cristiana, fu trascinata davanti al giudice e condannata alle fiere. Questa donna, così gentile e affettuosa che un giorno era stata rimproverata dal rigorista Tertulliano perché baciava il suo bambino con troppo amore, non tremò davanti alla morte, ma parve sorridere. Quando in mezzo al circo, in cospetto del popolo africano, vide contro di lei venir la mucca infuriata, congiunse le mani e si protese verso la bestia come se si preparasse a pregare sulla culla del suo bimbo addormentato. Al primo assalto fu travolta dalla polvere, ma non le fu recato alcun male. Ed ella si alzò da terra senza turbarsi e riannodò modestamente le chiome che s’erano scompigliate nell’urto e scosse la polvere dagli abiti, ed aspettò la morte come si aspetta una sorella che venga… Ma chi poteva dare a una donna tanta serena pace da curarsi ancora del decente aspetto della sua persona, proprio quando la soprastava un tragico martirio? La fede. Dice la fede: quaggiù non è la nostra dimora, ma solo una valle di patire. Dice la fede: chi perde la vita per amor del Signore, la ritroverà. Ella credeva fermamente, e di che cosa poteva temere? Oh se si avesse fede, non si bestemmierebbe la Provvidenza di Dio quando ci manda le croci! Se si credesse un po’ di più alle verità del Vangelo che il prete ogni festa spiega nella Chiesa, nel mondo non ci sarebbe tanta gente che ad ogni piccola sventura cerca la morte! Guardate i fanciulli: essi sono sempre beati: perché credono alla loro mamma. Noi pure saremo beati, se crederemo a Dio nostro Padre, con la fede d’un fanciullo. Ecco perché Gesù risorto rimproverò Tommaso il gemello e gli disse: « Tommaso non essere incredulo. Beati quelli che, pur non vedendo, crederanno ». – LA CONFESSIONE DONA LA PACE AL CUORE. Un missionario del secolo XVIII predicava in un paese alpestre di Francia. Narra il P. Monsabré che una volta entrò in quella chiesa ad ascoltarlo anche un ufficiale di cavalleria avvolto nel suo mantello. Il suo sguardo nero e profondo era irrequieto e sembrava un lampo che guizzasse fuori dalla nuvolaglia che s’accozzava in quel cuore in tempesta. Tratto tratto ansimava, premendosi la mano sul cuore tumultuoso. E Dio volle che il missionario parlasse proprio della confessione. La parola suadente del prete gli penetrava in cuore e alla fine risolvette di buttarsi ai piedi del confessore. Il missionario lo raccolse con amore e lo aiutò a confessarsi davanti a Dio. Quando quell’ufficiale dall’ampio mantello uscì dalla Chiesa, piangeva e volgendosi ad alcune persone disse: « In vita mia non ho provato una pace così pura e così soave come quella che il ministro di Dio mi ha procurato col mettermi in grazia. E credo che neppure il re, che servo da trent’anni, può essere più felice di me ». Pasqua è venuta: ma è venuta la pace nei nostri cuori? Se in noi non c’è pace è forse perché ci siamo confessati male, o fors’anche non ci siamo confessati? Il peccato è come un tarlo che rode senza posa il nostro povero cuore: ed esso non muore se non col perdono di Dio che si riceve ai piedi del confessore. Ecco perché Gesù, apparendo quella sera nel cenacolo, dopo aver detto: « La pace sia con voi » si curvò sopra degli Apostoli e alitando sopra le loro fronti disse: « Ricevete lo Spirito Santo. A chi perdonerete, sarà perdonato; a chi non perdonerete non sarà perdonato ». Come il Divin Padre aveva mandato Gesù, così ora Gesù manda i suoi discepoli a portare la pace nel mondo. Ma pace non ci può essere se non nella coscienza pura. E Dio istituì perciò il Sacramento della purificazione. – L’OSSERVANZA DELLA LEGGE DI DIO METTE LA PACE IN OGNI NOSTRA AZIONE. Un giorno Dio comandò a Saul di muovere sopra gli Amaleciti, di saccheggiare e incendiare ogni cosa. E Saul piombò contro i nemici di Dio e stravinse: però volle risparmiare il re, forse per far più bello il suo trionfo; volle ancora risparmiare alcune pecore col pretesto di sacrificarle a Dio. Di ritorno dalla guerra, il profeta mosse ad incontrarlo e gli disse: « Hai tu distrutto ogni cosa? » – « Ho compiuto la parola del Signore » rispose Saul. Ma in quel momento le pecore belarono. « Ma io odo un belare d’agnelli » disse il profeta. Saul titubò un istante cercando una scusa: « Fu il popolo che ha voluto che si risparmiassero i capi migliori per farne sacrificio ». Samuele si adirò. « Poiché tu hai gettato dietro alle tue spalle la parola di Dio, ecco: Dio ti ripudia e non ti vuol più re ». È il caso di molti Cristiani. Durante la quaresima hanno ravvivato la loro fede, nei giorni di Pasqua hanno fatto anche la Comunione, eppure nel loro cuore non sentono la pace che Gesù risorto portò ai suoi discepoli. Oh, non basta la fede, quando non si agisce ancora nella luce della fede! Oh, non basta la confessione quando si conservano in cuore certi attaccamenti al peccato. Et quæ est hæc vox gregum? Cos’è questo belar d’agnelli? Non aveva Dio imposto la distruzione d’ogni cosa? E perché allora si è voluto continuare in certe amicizie, in certe compagnie, in certi desideri che la legge del Signore proibisce? Perché in fondo al cuore cova ancora quell’astio o quell’attacco alla roba d’altri? Perché si è voluto risparmiare il re degli Amaleciti, ossia la propria passione predominante? Qual meraviglia allora se la pace del Signore non è venuta dentro di noi? La pace di Dio è solo nell’osservanza dei comandamenti di Dio. Pax multa diligentibus legem tuam, Domine! – Irrequietum est cor nostrum, donec requiescat in Te. L’anima ardente di S. Agostino cercava la pace. E dalle spiagge della sua Africa d’oro si volge alle mondane cose con tormentose domande: chiedendo pace. Ma gli aranceti e gli olivi in fiore di Tagaste e tutto il verde pendio sembravano rispondergli: Quello che tu cerchi non è qui tra le nostre fronde agitate dal vento: cerca più in su! E S. Agostino cerca il mare: ma le onde e gli infiniti increspamenti del mare nel loro perpetuo ondulamento gli rispondono: « Quello che tu cerchi non è qui nelle nostra eterna agitazione: più in su!» E S. Agostino leva gli occhi sopra il cielo stellato della sua Africa d’oro. Ma gli astri dicono: «Quello che tu cerchi non è qui: ché noi siamo, come il tuo cuore, sempre vaganti: più in su ». « Dio! ». – Egli solo, quando vive nella nostra mente, nel nostro cuore, in tutta la vita nostra, Egli solo è la nostra pace. Ipse est pax nostra (Ef., II, 14).
[Joannes XX: 27]Mitte manum tuam, et cognósce loca clavórum, allelúja: et noli esse incrédulus, sed fidélis, allelúja, allelúja.
[Metti la tua mano, e riconosci il posto dei chiodi, alleluia; e non essere incredulo, ma fedele, alleluia, alleluia.]
Postcommunio
Orémus.
Quæsumus, Dómine, Deus noster: ut sacrosáncta mystéria, quæ pro reparatiónis nostræ munímine contulísti; et præsens nobis remédium esse fácias et futúrum.
[Ti preghiamo, Signore Dio nostro, che i sacrosanti misteri, che tu hai dato a presidio del nostro rinnovamento, ci siano rimedio nel presente e nell’avvenire].