LE VIRTÙ CRISTIANE (21)

LE VIRTÙ CRISTIANE (21)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay MDCCCXCVIII

APPENDICE

DEL GODERE E DELLA FELICITÀ UMANA

I.

Tutti quanti siamo uomini, vecchi o giovani, dotti o ignoranti, nobili o popolani, ci punge vivamente un medesimo desiderio che è il desiderio di godere e anzi di molto godere. Questo desiderio è il maggiore e più possente ostacolo che incontriamo nell’operare il bene: ed esso stesso, quando l’uomo sia ajutato dalla grazia a camminare nelle vie di Dio, riesce stimolo efficacissimo alla nostra vita morale, e anche ai più nobili eroismi dei Santi. L’uomo malvagio pecca per godere disordinatamente delle creature; e il Santo si perfeziona di giorno in giorno, certo, per glorificare il suo Dio che ama, ma altresì per vivere in eterno con lui una vita d’ineffabile ed eterno godere. Intanto chi vede quale impetuoso torrente di mali gonfii e dilaghi nel mondo per il desiderio di godere, potrebbe esser quasi tentato a credere che esso stesso, questo desiderio del godere, sia un male. Ma il Cristianesimo per lo contrario c’insegna che è desiderio buono, e naturato in noi per opera di Dio creatore. La santa Bibbia di tratto in tratto ci parla con soave eloquenza di godimenti spirituali e materiali desiderabili, e desideratissimi, anche dagli ottimi tra i figliuoli del Signore. L’Iddio, nostro Padre infinitamente perfettissimo, secondo il concetto biblico è godimento eterno e incommensurabile a sé medesimo e in pari tempo riesce agli Angeli e agli uomini in Paradiso una fontana vivace di gioje e di allegrezze ineffabili e sempre nuove. Ancora, trasferiamoci un tratto con la mente a quel beato tempo, nel quale gli Angeli, astri mattutini della creazione, lodavano il Signore, che stava per plasmare l’uomo. Mosè divinamente ispirato racconta il fatto con quella sicurezza ed evidenza, che potrebbe avere chi vi si fosse trovato presente; onde la sua narrazione riesce egualmente semplice e sublime. Nel Capo I° del Genesi, ai versetti sei e sette, in poche parole ci dice come fu creato l’uomo; e tra le poche parole quelle, che elevano l’ uomo più in alto e lo effigiano meglio, sono dall’ispirato scrittore messe in bocca a Dio, il quale, quasi parlando tra sé medesimo, dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, e abbia signoria su tutto”. — L’uomo è dunque un’immagine del suo Iddio, ed è signore di tutto, o che è il medesimo, è re dell’universo che gli sta sott’occhio. Sono poi anche ricche di significato e stupende queste altre parole, che si leggono nel Capo secondo del Genesi, al versetto settimo: “Il Signore Iddio dunque formò l’uomo dalla polvere della terra, e gli alitò in volto un SOFFIO DI VITA, e l’uomo fu fatto ANIMA VIVENTE. Qui si manifestano chiaramente le due sostanze, onde l’uomo è composto, cioè la materiale, tratta dalla polvere della terra, e la spirituale, la quale deriva dal soffio divino, e ci costituisce anime viventi. Or questa medesima distinzione delle due sostanze, corporea l’una, e spirituale l’altra, che è la radice di tutta la dottrina cattolica intorno all’uomo, dopo migliaja di anni ci fu di nuovo insegnata da Gesù Cristo in queste parole del Vangelo di san Matteo al Capo X: “Non temiate coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; ma temete piuttosto colui, che può far perire l’anima e il corpo nella geenna”. Narrato che ebbe Mosè, nel modo che ho detto, la creazione dell’uomo, parla del godimento, in cui Iddio lo pose, e dice: “Ora il Signore aveva piantato da principio un paradiso di delizie, dove collocò l’uomo, che aveva formato”. E poi dopo un’ammirabile e giocondissima descrizione di cotesto paradiso, egli aggiunge: “Iddio adunque prese l’uomo e lo collocò nel paradiso di delizie, affinché lo coltivasse e lo custodisse”. Qui dunque si esprimono due idee di gran momento: la prima che Iddio mise l’uomo in un luogo di delizie; e dunque volle che ei godesse: l’altra è, che questo godimento egli doveva custodirlo a sé, e per fare ciò, non doveva anneghittirsi nell’ozio, sì bene coltivare il giardino, e, com’è detto più generalmente appresso, operare. Or quel che più rileva al mio proposito in tutta questa ammirabile pittura della creazione dell’uomo, del luogo di delizie, dove Iddio, lo pose, e del godimento di lui, è che qui non si trova neanche accennata la cupa e malinconica parola, dolore. Laonde Adamo ed Eva, in quel primo breve periodo della loro vita innocente, non ebbero neanche ombra di dolore, e forse del dolore mancò ad essi sino l’idea. – Ora il bene dell’Eden, l’innocente umana radice, l’eterna primavera di quel luogo, il nettare, e insomma il godere espresso in tutte queste immagini finì presto per l’uomo; e chi è che non ne conosca il modo? Alla storia della creazione dell’uomo succede quella della disubbidienza e del peccato. Soltanto dopo questa seconda istoria tanto lagrimevole e misteriosa, Iddio in punizione del peccato profferisce la prima volta nel Genesi la parola dolore. Allora nascono nel linguaggio umano le parole affanno, fatica, triboli, spine, morte, le quali corrispondono tutte a idee, figliuole del dolore. Il maggiore di questi dolori è uno che li assomma tutti, intendo la morte, la quale anzi è tale dolore, che gli altri sono presagio o apparecchio o avviamento ad esso.

II.

Il desiderio del godere che, come s’è veduto, è di per sé buono, ha questo di proprio, che in noi riesce più vivo e possente di ogni altro desiderio nostro: più possente certo del desiderio di conoscere e comprendere la verità o di quello di amare o di qualsiasi altro; perché li accompagna tutti, o piuttosto è parte e vita di ciascuno di essi. Ancora, il desiderio del godere è principalmente un desiderio della nostra volontà, la quale è propriamente la facoltà umana che desidera. Nonpertanto cotesto medesimo desiderio si riflette e si trasfonde in tutta l’anima, e altresì nel corpo dell’uomo; onde è giusto dire che il desiderio del godere appartenga a tutta la persona umana. In vero l’intelletto nostro è come uno specchio che, illuminato, illumina, e a poco a poco cercando la verità, la trova e la conosce. Esso però cerca e conosce, perché desidera un godimento suo proprio, nobile e sereno che è il diletto e l’appagamento di possedere il vero. La volontà libera dell’uomo comanda a sé stessa, e ha signoria del creato; ma comanda e signoreggia, perché nell’uno e nell’altro caso desidera di godere e gode. Il cuore ama; ma ama principalmente perché desidera un godimento suo proprio, che è il godimento di possedere più o meno completamente ciò che ama. E la memoria non richiama forse dai riposti suoi seni le cose care che furono un tempo, per desiderio di godere? E la fantasia non dà colore e leggiadria e vita a liete immagini per desiderio di godere? Infine, il corpo stesso non è forse avido di godimenti pieni di mistero, in quanto che, mentre sono del corpo derivano in gran parte dall’anima, e l’anima stessa li sente e se ne compiace? Perché mai l’occhio si allieta d’una bella campagna, e l’orecchio ascolta con diletto una soave armonia, se non perché l’anima umana desidera di godere per mezzo dell’occhio e dell’udito, a quel modo che desidera di godere per mezzo dell’intelletto, della volontà, del cuore, della memoria, della fantasia e di tutto se stesso? Non solo, dunque, l’uomo desidera di godere, ma non v’ha facoltà in lui o parte di lui, che non senta questo desiderio: o piuttosto egli desidera di godere in tutt’i modi possibili, per via dello spirito e dei sensi. Non basta: desidera anzi d’intrecciare e di armonizzare diversi godimenti insieme; onde, a modo d’esempio, una bellissima melodia che appaga l’udito, gli riesce più gradita se sia cantata, poniamo, da persona gentile, o se esprima affettuosi pensieri che appagano il cuore. – Se non che la considerazione più grave e di maggior momento intorno al desiderio del godere è questa, che l’uomo desidera di goder sempre e pienamente; ond’è che non gli basta di dire dentro di sé medesimo ad ogni istante “io voglio godere”, ma dice pur voglio goder sempre e con una pienezza intera, o che vale il medesimo: voglio esser felice. E come dice dentro di sé, così spesso dice anche fuori di sé ai fratelli, agli amici, a tutti. In vero, questa parola, felicità io l’ho udita tante volte profferire, particolarmente da coloro, che sono o nel primo sboccio o nel fiore della vita giovanile, che essi par proprio non abbiano altro pensiero che questo del viver felici. Ma per quanto ci è bello e giocondo il desiderare la felicità, altrettanto è arduo il conoscere dov’essa si trovi; perciocché nel mondo sono molte false immagini di felicità che ci dilettano, ci seducono, e poi talvolta finiscono in amarissimo pianto. – Or bene facciamo, o lettori, un altro passo avanti nella dilettosa via che percorriamo insieme, e passiamo dal sentimento del godere a quello dell’esser felici.

III.

La felicità, secondo il Cristianesimo, per nessun modo si può raggiungere nella vita presente; ed è anche assai probabile, che chi mi legge, di questa verità sia convinto per propria esperienza. Nonpertanto il fatto è che molti, particolarmente se giovani, si ostinano di cercare qui in terra questa desideratissima felicità, e hanno in conto di piagnucoloso e malinconico chi tenta dissuaderli da siffatto proposito. Io li compatisco di gran cuore. È tanto prepotente, soprattutto nel fiore degli anni, il desiderio di godere! Ciò però non toglie che questa affannosa e continua ricerca della felicità terrena sia un errore pieno di pericoli, non solo perché  correndo dietro al fantasma della felicità, l’uomo consuma inutilmente le migliori sue forze; ma soprattutto perché nella foga del correr dietro alle false immagini della felicità, gli animi s’ infiacchiscono, si corrompono e si rendono miserabili. Se non che per qual cagione, dunque, questo desiderio di esser felici lo abbiamo in noi? Perché l’abbiamo, e come lo si possa pienamente e anzi sovrabbondantemente soddisfare lo vedremo appresso, e nel vederlo ci farà luce il Cristianesimo. Per ora quel che ci preme soprattutto è di studiare prima con matura riflessione in che consista mai questa felicità che tutti desideriamo, senza saper bene ciò che essa sia, e poi d’investigare se la si possa mai per avventura trovare in qualcuno dei beni desiderabili e tanto desiderati che sono qui in terra. – Che è mai dunque la felicità? È il possesso continuo di tutto ciò che si desidera. Ancorché della felicità si trovino parecchie altre definizioni, questa mi pare da preferire; perciocché essa è semplice, e si può agevolmente dichiarare e comprendere da ciascuno che vi rifletta su, in vero, se la cosa posseduta non è di per sé desiderabile e da noi desiderata, vien meno il fondamento stesso della felicità: e se, insieme con essa, noi ne desiderano altre che non possediamo, neanche siamo felici. D’altra parte è chiaro che per esser felici il bene desiderato s’ha da possedere; perciocché, ove manchi il possesso, il solo desiderio ci produce piuttosto dolore che gaudio, o almeno dolore insieme con gaudio. – Che il possesso del bene desiderato debba esser continuo è evidente di per sé, e si conferma dal fatto, che anche l’ombra di un dubbio intorno all’’interruzione del possesso del bene che godiamo, ci turba, ci angoscia, e avvelena nella sua sorgente ogni nostro diletto. Dite alla madre ch’ella dovrà perdere il figliuolo diletto, o all’amante consorte che perderà l’amata sua moglie; e vedrete se è necessario per esser felici che il possesso del bene non distrugga in noi né scemi il desiderio del bene posseduto. Dunque, teniamolo bene a mente, per esser felici dobbiamo possedere tutto ciò che desideriamo, e possederlo sempre in modo che, mentre lo possediamo, il desiderio suo continui ad esser vivo e possente come prima. Raccoglietevi un tratto in voi stessi, e la vostra coscienza vi dirà chiaramente questo stesso che v’ho detto io. – La santa Scrittura e i Padri della Chiesa insegnano apertamente la medesima dottrina, e spiegano a questo modo la felicità. Secondo gl’insegnamenti cristiani, la felicità l’uomo non può trovarla che in Dio: perché  solo Iddio è un Bene infinito, nel quale si trovano tutt’i beni desiderati e desiderabili; e altresì perché solo questo sommo Bene è tale, che il desiderio del possederlo non iscema mai, e anzi è sempre egualmente vivo e possente. La Sapienza infinita che è il Verbo di Dio, Dio esso stesso, dice di sé nella Bibbia: “Chi beve di me, ha sempre sete di me.” E san Pietro nella sua 1a Lettera insegna che gli Angeli in cielo desiderano sempre di vedere lo stesso Spirito Santo che vedono (I Piet. I, 12). Oltre a ciò i Padri della Chiesa, che specchiano in sé con gran luce e perfezione i divini insegnamenti, chiariscono la medesima idea. In san Gregorio è detto: “Affinché l’abbondanza non generi noja nell’anima beata, la loro ardenza dura sempre: sono satollati senza alcun disgusto, perché la stessa sazietà eccita in essi il continuo desiderio di ciò che godono”. Sant’Agostino afferma la stessa cosa precisamente scrivendo: “I Santi ti veggono sempre, o Signore, e pure sempre desiderano di vederti”. — Di che san Tommaso, paragona, il desiderio della felicità alla fame del cibo, dicendo. Le anime beate sempre hanno fame e sempre si satollano…… ; e ancora, dove l’amore è più grande, ivi è più forte il desiderio del bene amato”. – Da tutto ciò si conchiude che la felicità, essendo insieme possedimento e desiderio, riesce naturalmente quiete e attività; o piuttosto essa è una quiete operosissima. Il possesso del bene desiderato, appagando, quieta l’anima: il continuo desiderio di esso dà vita e moto a tutte le facoltà dell’anima stessa. Se mai il possedimento non riempisse tutta intera l’anima nostra, il godimento della quiete non sarebbe pieno; e d’altra parte, se qualcuna delle facoltà dell’anima non si sentisse viva, e non si movesse e non operasse, desiderando sempre ciò stesso che possiede, all’anima umana mancherebbe il godimento dell’operosità e del moto, e però non sarebbe felice.

IV.

La felicità intera, nel modo che s’è detto, non si trova nella vita presente; ma il desiderio suo è così vivo e possente nell’uomo, ch’egli la cerca affannosamente sempre, come la cerva sitibonda va in traccia dell’acqua viva che la disseti. E la ragione è che anche qui in terra sono molti beni, immagini del Bene sommo, e molti godimenti immagini anch’essi dell’eterna felicità. Il sapere che moltissimi altri uomini, prima di lui, cercandola, non l’hanno trovata, non lo fa cader d’animo. Ciascuno vuol fare da sé la sua prova; e coloro, che muovono continue querimonie su la infinita vanità del tutto e la terribile realtà del dolore; questi stessi moltiplicano, più degli altri, gli esperimenti, e mutano i piaceri e i diletti propri, sperando di trovarne taluno che li appaghi e li renda felici. Ma il fatto è che i beni di questo mondo, intanto che sono fonti di godimenti veri, e giustamente desiderabili e desiderati anche dai migliori, non bastano a renderci felici; perciocché, notatelo bene, altro è godere, altro è avere quel pieno appagamento dell’animo, che diciamo felicità. – I beni desiderabili e desiderati dall’uomo, tutti possono assommarsi in questi: le ricchezze : i piaceri dei sensi : la scienza : l’amore : l’amicizia : la gloria. Ora ancorché ciascuno di questi beni ci faccia assaggiare godimenti o diletti, nessuno di essi ci rende pienamente felici. La ragione di ciò, dopo quello che s’è detto intorno alla natura della felicità, si può scorgere dal nostro occhio intellettuale a prima giunta. Questi varj beni o l’uomo non li possiede; o, quando li possiede, il desiderio di essi scema o vien meno. Sia nel primo, sia nel secondo caso, la felicità si dilegua come ombra. – Le ricchezze non possono mai render l’uomo felice; e anzi mi pare strano che lo si sia potuto pensare mai. Esse in vero non sono di per sé un godimento, ma soltanto un mezzo, onde si procacciano alcuni godimenti; sono beni materiali, inerti, insensibili, agghiacciati, che non hanno somiglianza di sorta con l’anima umana, la quale è di sua natura sensibile, spirituale, viva, ricca di calore, di speranza, di affetti. Il possesso delle ricchezze dunque non è interiore, e non appaga pienamente: il desiderio poi di esse col possesso ordinariamente si smorza o almeno si infiacchisce. Che se talvolta nell’avaro né si smorza né s’infiacchisce, ciò deriva da una vana ombra che oscura l’anima di lui. Egli immagina, che, col moltiplicarsi delle ricchezze, si moltiplicherebbero i godimenti, la qual cosa è evidentemente falsa. Quando fosse vera, chi traricchisce, per molti milioni, dovrebbe essere infinitamente più lieto, di chi ha quanto basta a una vita modesta. Or ciò non solo non è vero, ma incontra assai spesso, che chi s’è fatto poverello per amor di Dio, e il contadino agiato e rallegrato solo dal suo campo, dalle sue messi e dalla sua famiglia, lo si vede più lieto e sorridente di chi è ricco, ed ebbro di piaceri. – Forse parrà più secondo ragione l’affermare che i piaceri dei sensi ci possano agevolmente satollare del cibo desideratissimo della felicità; ma anche qui vi ha errore e inganno manifesto. I piaceri dei sensi, o piuttosto quelli che l’anima sente, per mezzo dei sensi, possono esser varj, secondo che sia diverso il senso il quale conferisce a produrlo. Quali, tra questi piaceri, siano i più desiderati, e spesso i più peccaminosi è inutile dirlo. Ma sia a questi desideratissimi, sia a tutti gli altri piaceri dei sensi fanno difetto due condizioni, per produrre la felicità. Essendo piaceri del senso, l’anima li possiede assai imperfettamente: nel fatto poi riescono tali, che nel possederli il desiderio di essi a poco a poco scema e vien meno. Consideriamo il diletto che ci produce un’armonia gradita e soave; una di quelle armonie, che scendono al cuore dolcissimamente, lo commuovono ora alla gioja, ora al pianto, e spesso ci traggono quasi fuori dei sensi? Ebbene chi non ha provato in sé medesimo che questa armonia ascoltandola per lungo tempo, il desiderio di ascoltarla sminuisce di grado in grado, e talvolta arriva sino a mutarsi in noja? E la vivanda la più squisita e desiderata prima, se si volesse continuarla a mangiare, dopo che ci ha sfamato, non finirebbe per diventare o sgradita, o almeno priva di diletto? Come dunque noi si potrebbe esser felici, per via dei piaceri sensuali, se nella felicità debbono durar sempre il possesso e il desiderio della cosa goduta; e i piaceri sensuali, per lo contrario non dànno che qualche ora, e talvolta qualche istante d’un possesso imperfetto e di un desiderio, il quale incomincia a scemare nel momento stesso, in cui la cosa desiderata si possiede?

V.

Assai più nobili sono senza dubbio i diletti della scienza, come quelli che nascono dalle attrattive, che il nostro intelletto, creato a immagine di Dio, sente vive e possenti per la verità, bene realissimo e nobilissimo. Ma, neanche questi intellettuali diletti bastano a renderci felici, quantunque ci avvicinino alla felicità (poco rileva che i mondani non lo credano) meglio che non le ricchezze e i piaceri sensuali. Il conoscere il vero ci fa fare un passo più lungo verso la felicità, sì perché il conoscere è il primo bisogno della nostra vita di creature intelligenti e libere, sì perché ogni conoscenza nuova procura all’anima un diletto nuovo, sì infine perché in ogni atto del nostro conoscere vi ha più realtà, più intensità e più moto, che non si trova in qualsiasi atto derivante dai sensi. Ma, senza parlare della vivacità del desiderio, la quale, anche nella scienza posseduta, si affievolisce col possederla; il possesso che noi abbiamo della verità, benché assai nobile, riesce sempre imperfettissimo e assolutamente sproporzionato ai nostri desiderj. Infatti, le verità che noi conosciamo in questo mondo o per luce di scienza, o per luce di fede, o per le due luci armonizzate insieme, mancano di estensione, di profondità e di chiarezza. E intanto il nostro intelletto lo punge vivamente il desiderio di conoscer tutto, di conoscere profondamente e di conoscere chiaramente. Sì, certo, desideriamo di conoscer tutto; e nondimeno, anche che la mente nostra sia eletta, e l’ingegno acuto; anche che taluno, incominciando sin dal fiore degli anni, sudi tutta la vita su i libri; quanto poche sono le verità da lui conosciute in confronto delle ignorate! Anche che taluno sia dottissimo, le verità ch’ei possiede, rassomigliano a un gruzzolo di monete d’oro, che sono poca e povera cosa in paragone di tutto l’oro, che o gira pel mondo, o si nasconde tuttora nelle terre e nei monti auriferi. Tutti ci punge il desiderio di conoscere profondamente la verità e non pertanto, anche che avessimo l’intelletto e la scienza di Platone, di sant’Agostino, di san Tommaso, e vari altri, chi potrebbe affermare di sé che la profondità onde egli sa talune cose eguagli il desiderio suo del sapere, sino alle ultime midolle, le cose che sa? Infatti anche oggidì che è tanto possente il desiderio del sapere, che sappiamo noi della natura intima delle cose? E qual uomo, sia pure dottissimo, se vuole intessere nella sua mente la stretta catena dei perché e delle rispettive risposte, non arriva presto a un perché, a cui vorrebbe e non può dare risposta di sorta? Infine, desideriamo di conoscere chiaramente: e invece quanti dubbj, quante nebbie, quante tenebre! Raggiungiamo, dopo molti stenti, una verità; ed ecco che le germogliano accanto uno o più dubbj, i quali eccitano vivamente il desiderio del sapere, senza che lo appaghino mai al tutto. – Insomma, tutte le verità quelle divine della fede, se siamo credenti, le conosciamo con certezza, ma non le conosciamo chiaramente, sì bene come in ispecchio, e spesso velate di mistero, perché superiori al nostro intelletto: quelle della scienza, anche se le vediamo con maggior chiarezza, perché più proporzionate al nostro intelletto, non perciò ne vediamo la profondità e la sostanza con una chiarezza che eguagli il desiderio nostro. La felicità dunque per le tre ragioni dette, invano la cercheremmo nella scienza. Del rimanente sono assai pochi coloro, che per raggiungere la felicità, si mettono in questa via piena d’intoppi e di malagevolezze. I più, massimamente nel fiore della giovinezza, pensano che essa s’abbia a trovare nell’amore. Ma anche qui, m’accora il dirlo, si confondono i fantasmi e le parvenze della felicità con la felicità stessa. Consideriamo l’amore, nella sua forma più nobile e pura, e fissiamo con compiacimento lo sguardo sopra due conjugi che amandosi focosamente, si giurarono fede immutabile a’ piedi dell’altare di Cristo, e nobilitarono e santificarono il loro amore conjugale, con l’alito benefico della Religione e della grazia celeste. L’amore di costoro trova un alimento efficace nella perpetuità e unità del matrimonio cristiano. Inoltre, il loro amore è abbellito e accresciuto dalla speranza che esso durerà eterno, anche nel regno, dove chiunque morì nel bacio del Signore, vivrà con gli Angeli nella visione e nell’amore di quel Dio, che esso è l’eterno, l’infinito e il primo Amore. Cotesti sposi, dunque, a cui par che tutto, e cielo e terra rida intorno, si amano e forse si dicono felici. Sta bene. Ma per quanto tempo lo diranno? Poniamo che lo dicano sempre; sono essi pienamente felici, come dicono; sicché posseggano tutto ciò che desiderano, e desiderano sempre con desiderio vivo e nuovo ciò che posseggono? Certo no; perciocché né il possesso tra loro è così pieno, come l’anima lo desidera, né il desiderio è tale in essi, che col possesso non si affievolisca, e talvolta non si dilegui, quasi ombra. E la ragione principale, onde anche in siffatto amore manca la felicità, è questa. Chi ama, desidera soprattutto di possedere l’anima della persona amata, e di esser posseduta da essa, In fatti il voler bene, il pensare alla persona amata, il dilettarsi della intelligenza, dell’affetto, del sacrifizio di esso; e d’altra parte il desiderare caldamente che la persona amata nutrisca essa stessa questi medesimi sentimenti per l’amante, provano con evidenza che il principale possesso desiderato nell’amore è il possesso scambievole di due anime intelligenti e libere. La vita intima e i legami anche estrinseci dei conjugi possono agevolare siffatto possesso delle anime, ma nol rendono mai tanto pieno e completo quanto si vorrebbe. Le inquietudini, le dubbiezze, i desiderj non soddisfatti, i timori anche dei conjugi che più si amano, e anzi più frequenti in questi, che in altri, dimostrano evidentemente ciò che dico. Si possiede solo in parte e in un cotal modo ciò, che si vuole intero. Il desiderio poi di possedere ciò che già si possiede, anche quando gli sposi continuino ad amarsi vivamente, a poco a poco, quando non si smorzi, si scolora e s’infievolisce, come avviene in una lampada accesa da molto tempo. E ciò avviene se non fosse per altro, perché la natura di tutti beni umani è immancabilmente questa, che col possederli, il desiderio di possederli, almeno scema.

VI

Se non che, trà gli amori umani, ce ne ha uno d’ ordinario più tranquillo e sereno di quello della vita conjugale; ed è l’amore, onde si amano, per esempio, la madre e il figliuolo, i fratelli e le sorelle, e gli amici più teneri fra loro. Questa forma d’amore, a cui conviene il nome di amicizia, può anch’essa, e forse essa soprattutto, dare all’uomo diletti ineffabili. Ma nella sostanza l’amore di amicizia è poco differente dall’amor conjugale, guardato nella sua parte più nobile; e però neanche esso può renderci felici. Con l’amicizia tra due persone, le due anime si posseggono, quasi sempre, meno perfettamente che con l’amore; perché l’intimità è minore, e mancano alcuni dei mezzi, che rendono più agevole l’armonia e il connubio di due spiriti. D’altra parte però il desiderio del possesso tra gli amici, appunto perché il possesso è minore, e può essere di varie persone, più difficilmente si dilegua, e d’ordinario o non s’affievolisce o si affievolisce meno col tempo; sempre che l’amicizia sia tra gente di cuore, e sorga da motivi di per sé nobili e puri. Da ciò procede che i gaudj dell’amicizia vera e profonda riescono più sereni, più puri, più spirituali e più durevoli di quelli dell’amore; ma anche questi gaudj dell’amicizia, per le ragioni già dette, non bastano a rendere l’uomo felice. – Che dire poi del desiderio della gloria e anche di quello dell’onore, il quale è alquanto più ristretto di quello della gloria, ma sostanzialmente non differisce da esso? Il desiderio della gloria, da che mai dipende in noi? Molti, che lo sentono vivacissimo, forse nol saprebbero dire a sé medesimi. Il desiderio della gloria è frutto del desiderio di essere amati; ed è tanto universale, quanto quello. In vero, come insegna san Tommaso, a quel modo che noi amiamo non solo i beni particolari, ond’è ricco il mondo, ma altresì il bene universale; così parimenti desideriamo di essere amati da alcuni in modo particolare, e da tutti in un modo generico. Al primo desiderio corrispondono l’amore e l’amicizia; al secondo quell amore iniziale e punto profondo, ch’è l’amore di stima, di ammirazione e di lode, al quale è dato il nome di gloria. Cotesto desiderio della gloria, come tutt’i desiderj umani, può agevolmente pervertirsi e diventare malvagio; ma, essendo una forma onesta di amare e di essere amato, non è di per sé reo. Ben è vero che la gloria da noi desiderata, a volte si fonda sopra ragioni mendaci, ed è vanagloria, a volte sopra ragioni frivole, ed è vanità, a volte chiede per sé ciò che appartiene a Dio, ed è orgoglio; ma quando si contenga (ed è difficile) nei giusti limiti, in essa non si trova motivo di biasimo. Or siffatta gloria ben può essere cagione di diletto, ma neanche essa ha capacità di renderci felici. Il possesso, che con l’amore universale si ha del bene, è di sua natura imperfettissimo; e ancora, per quanto ciascun uomo sia amato e venerato, non raggiunge mai quel grado di stima, di ammirazione, che l’animo desidera. A ciò si aggiunge che anche questo desiderio della gloria scema di molto col possesso; sicché quel piccolo onore o quel piccolo applauso di pochi, che pur ci bastava al principio, anche che dopo sia raddoppiato o triplicato non ci basta più. Vale dunque anche per questo bene della gloria il medesimo che si è detto di tutti gli altri precedenti. Anzi questo bene della gloria è tra tutti il meno capace di renderci felici per una ragione sua propria. Chi ama, chi desidera beni temporali o scienza o altro, può ben mostrare il desiderio suo; ma, quanto alla gloria, chi mostra di desiderarla, per ciò stesso la perde. Laonde è verissimo e profondamente filosofica la sentenza di quella Teresa di Cepeda, che non fu soltanto una gran Santa, ma una vergine capace di meditare speculativamente le più alte dottrine: La gloria si perde col desiderarla. In vero gli uomini siam fatti così, che stimiamo e ammiriamo coloro, che meno ci mostrano il desiderio dell’ammirazione e della stima, cioè della gloria. Però ci par bella la virtù semplice e modesta, e poco o punto ci piace la virtù che fa mostra di sé, e che quasi sempre per ciò stesso ci pare mendace. Sino la dote del sapere, tanto più la crediamo vera e ci piace, quanto meno domanda di essere glorificata. Come mai dunque la gloria ci renderebbe felici, se per la felicità si richiede un desiderio ardente e continuo del bene voluto; e la gloria umana è di tal natura, che appena trasparisca un’ombra del desiderio nostro, essa o scema o vien meno?

VII.

E ora, che abbiam veduto, come né le ricchezze, né i piaceri del senso, né la scienza, né l’amore, né l’amicizia, né la gloria hanno potere di renderci felici, volgiamo un’occhiata alla vita intera dell’uomo, il qualesi aggira affannosamente tra tutti questi beni, e mai o quasi mai non desiste dal cercarli, dal perderli e dal ricercarli di nuovo. La felicità richiede il possesso tranquillo e continuo di tutt’i beni desiderabili. Ora quando, e dove mai si trovò l’uomo che possiede almeno un solo di questi beni umani, senza difficoltà, senza stenti, senza travagli dell’anima e soprattutto senza interrompimenti? E allora, dove s’incontra mai una vita felice? Oltre a ciò tutt’i beni, da me accennati, poiché finiti, son tali di lor natura, che il possesso dell’uno non esclude il desiderio dell’altro. Chi è ricco, vuole anche amare; chi ha scienza, vuole anche piaceri e gloria. Or si trova mai nel mondo l’uomo che li possegga tutti questi diversi generi di beni? E se glie ne manca un solo, e questo solo ei lo desidera, certo ei non possiede il tesoro della felicità. Che dire poi di quel terribile dilaceramento della mente, del cuore, delle membra, il quale si chiama dolore, e ci strazia con la sua presenza, con la sua memoria e col suo timore? Un solo dolore basterebbe a spezzare l’aurea tela della nostra felicità. E intanto i dolori della vita sono moltissimi, si mescolano a ogni nostro gaudio, e quasi sempre sono ahimè! frutti che raccogliamo dallo stesso albero del godere, allorché il godimento nostro è o contradetto o guasto o dimezzato o bruscamente interrotto. Questo è il mistero della nostra vita terrena, che non ci sia un solo bene umano, che non ci riesca, ora fonte di gaudio ora fonte di dolori. Resta dunque che se i singoli beni non ci possono render felici, la vita umana, nella quale questi beni né si conseguono tutti, né si hanno mai senza la mescolanza di molti dolori, non riesce mai al porto della desiderata felicità. – Se non che, di tutte le cose, dette fin qui intorno alla felicità umana, ci ha una ragione suprema. Essa è che tra i desiderj nostri, e i beni che si trovano qui in terra, non avvi alcuna convenienza di misura e di grandezza. Tra gli uni e gli altri corre una grande sproporzione che si vede tanto più chiaramente, allorché l’uomo serenamente si ripieghi sopra di sé medesimo, e pensi e rifletta con gravità di proposito ai desiderj propri, e al valore dei beni desiderati e desiderabili. Or cosiffatta sproporzione tra il desiderabile, e l’anima umana desiderante, nessuno, che io sappia, la conobbe e la espresse meglio di quell’elettissimo ingegno di Sant’Agostino, allorché, volgendosi come era uso a Dio, gli dice così: “Tu, o Signore, facesti grande la creatura razionale, al cui riposo e alla cui felicità non basta nulla affatto tutto ciò che è meno di Te, e però neanche essa creatura razionale basta a sé stessa. Questo solo, io so che, non pure fuori di me, ma anche in me stesso, (tranne che in Te) mi trovo a disagio, e che ogni dovizia che non sia il mio Dio, è per me miseria”. (Confess. XIII. 3. – Ma ciò, che importa soprattutto alla creatura ragionevole e libera, è il sapere: per conseguire questa eterna e immancabile ricchezza che è il nostro Dio; per arrivare a questa Luce beatissima, la quale ci renderà impossibile il desiderare altro bene, vi ha qualche mezzo al mondo? E se vi ha, lo conosciamo noi? E se lo conosciamo, perché mai siamo pigri e tardi ad accettarlo? Non desideriamo noi forse ardentemente la felicità? Non abbiamo già sperimentato molte volte come sia vana la speranza di ritrovarla in qualche bene della terra? – Oh che gran mistero è mai l’uomo a se stesso! Pretendere che le creature umane ci diano quel che non possono mai dare, e poi dolersi, irritatsi, e talvolta disperarsi che non ce lo diano! Ritentare la stessa prova cento volte, e dopo cento disinganni avere in essa la medesima fiducia di prima! Volere per la via del molto godere arrivare alla felicità, e non accorgersi che nella vita presente in ogni godimento, anche onesto, si nasconde un germe di dolore; sicché quante più rose vogliamo cogliere, tanto maggiori punture abbiamo dalle spine che le circondano! Aggirarsi ognora nel labirinto dei piaceri del mondo, correndo tante vie oblique e storte, e allontanarsi pur sempre dalla via maestra e retta che mena, tra parecchi intoppi sì, ma mena indubbiamente alla cima del Monte santo dov’è Iddio: ecco la vita di molti e molti Cattolici. E sino a quando? Faccia Iddio che chi mi legge ascolti la voce, onde Gesù parla spesso amorosamente al cuore dell’uomo, e come Padre amantissimo lo mira con uno sguardo d’ineffabile dolcezza e gli dice: Vieni e mi segui (Matth. XIX, 21).

LAUS DEO

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “OFFICIO SANCTISSIMO”

Magnifica Lettera Enciclica, l’Officio Sanctissimo di S. S. Leone XIII, indirizzata ai Vescovi della Baviera, un tempo roccaforte cattolica e regno di grande pietà cristiana. Forti e chiare sono le esortazioni alla formazione di un clero devoto e preparato dottrinalmente onde affrontare pure le sfide delle strampalate filosofie del tempo, atee, naturaliste, deiste, partorite negli ambienti protestanti, ed in ogni caso ferocemente anticristiane; lo stesso impegno viene sollecitato per l’educazione dei giovani, esposti a venti di dottrine errate sotto ogni profilo, seppur mascherate da concetti suadenti e strutturalmente ben confezionate nelle loro elucubrazioni. Altrettanto lucido e determinato è l’invito a guardarsi dalle logge della sinagoga di satana, le sette massoniche, cancro maligno che conduce dritto alla morte eterna dell’anima, che già all’epoca imperversavano destabilizzando coscienze e società soprattutto in questo territorio che aveva partorito ed allevato gli esecrandi Illuminati di Baviera, tuttora in gran lavorio ed attività per portare caos e disordine in ogni nazione e regno: « …. né si avvertiranno mai abbastanza i Cristiani di guardarsi da tale scellerata società [la setta massonica]; essa infatti, sebbene fin da principio abbia concepito un profondo odio verso la Chiesa cattolica e l’abbia poi riaffermato più aspramente e continui ogni giorno ad attizzarlo, tuttavia non manifesta sempre un’aperta inimicizia, ma più spesso agisce in modo ipocrita e ingannevole, e sventuratamente irretisce soprattutto gli adolescenti, che sono ingenui e poco smaliziati, attraverso una simulazione di pietà e di carità. Circa il modo di cautelarsi contro coloro che sono lontani dalla fede cattolica, attenetevi scrupolosamente ai precetti della Chiesa, perché la consuetudine con le loro perverse opinioni non si risolva in un danno per il popolo cristiano ». La lettera è di grande attualità considerando gli avvenimenti odierni che coinvolgono l’intero pianeta, e per comprendere l’infiltrazione che i nemici dell’uomo, di Dio e della Chiesa, hanno operato nella Chiesa Cattolica – oggi eclissata ma viva -, minando proprio la formazione dei sacerdoti, la fede nei giovani, ed introducendo in ogni ambito principii di caos e distruzione di corpi e di anime che vediamo attuati nella nostra epoca apocalittica, epoca in cui si è instaurato sempre meno velatamente un luciferiano mondialismo terroristico-dittatoriale. Leggiamo attentamente l’Enciclica e vi troveremo tanti spunti e suggerimenti che i pochi, veri Cattolici del pusillus grex una cum Papa Gregorio, possono attuare – specie a livello familiare – in attesa che il Signore Gesù Cristo ponga fine a questo scempio operato dalle apocalittiche bestie, dal falso profeta (gli antipapi insediati dal 1958 in poi) e dal dragone, gettandoli alfine nello stagno di fuoco ove in eterno raccoglieranno i frutti del loro impegno, tra pianto e stridor di denti…

Leone XIII
Officio sanctissimo

Lettera Enciclica

Indotti dal dovere santissimo dell’ufficio Apostolico, Noi Ci siamo sforzati grandemente e a lungo, come voi ben sapete, perché migliorasse la situazione della Chiesa cattolica in Prussia e perché, riportata al rango e alla dignità che le competono, riacquistasse e ampliasse il suo antico prestigio. Questi Nostri propositi e sforzi, sorretti dall’aiuto e dall’ispirazione divina, hanno consentito di attenuare il precedente conflitto e di coltivare la speranza che in quel paese si potrà realizzare la piena e tranquilla libertà per i cattolici. – Ora però è Nostra intenzione rivolgere la Nostra attenta sollecitudine, con intensità del tutto particolare, ai Bavaresi. Non certo perché riteniamo che la situazione religiosa sia in Baviera la stessa che in Prussia, ma perché speriamo e desideriamo che anche in codesto regno, che si gloria di professare il Cattolicesimo fin dal tempo dei più remoti antenati, sia opportunamente contrastato qualsiasi impedimento che possa insidiare o sminuire la libertà della Chiesa Cattolica. Per realizzare un così salutare proposito, Noi vogliamo esplorare ogni possibile occasione che Ci si offra, ed utilizzare senza indugio tutta l’autorità e tutto il potere di cui disponiamo. Ci appelliamo a voi, Venerabili Fratelli, e per vostro tramite Ci appelliamo a tutti i Nostri carissimi figli di Baviera, perché Ci sia dato di partecipare, secondo il Nostro potere, a tutto quanto sembri concernere l’interesse e la promozione della fede religiosa fra la vostra gente, e perché su questa materia possiamo darvi consigli, e rivolgere fiduciose sollecitazioni agli stessi poteri civili. – Negli annali sacri della Baviera – ricordiamo fatti che non vi sono sconosciuti – vi sono molti momenti nei quali Chiesa e Stato hanno trovato motivo di concorde letizia. Infatti la fede cristiana, da quando la sua divina semenza fu sparsa nel grembo della vostra regione mediante l’opera ed il sommo zelo del santo abate Severino (che fu l’apostolo del Norico) e degli altri predicatori del Vangelo, pose e fissò così profonde radici che in seguito nessuna smisurata superstizione, né alcun disordine e rivolgimento pubblico hanno potuto svellerla interamente. Per questo, alla fine del settimo secolo, quando Ruperto, santo vescovo di Worms, si accinse a risvegliare e a propagare la fede cristiana in tali regioni su invito di Theodone duca di Baviera, trovò indubbiamente, pur in mezzo alla superstizione, sia molti che già coltivavano la fede, sia molti che desideravano abbracciarla. E lo stesso insigne principe Theodone, mosso dall’ardore della fede, intraprese il viaggio verso Roma, e prosternato davanti al sepolcro dei Santi Apostoli e ai piedi dell’augusto Vicario di Gesù Cristo, per primo diede nobilissima testimonianza della pietà e della comunione della Baviera con questa Sede Apostolica: esempio che altri egregi principi hanno in seguito religiosamente imitato. Circa nello stesso periodo il cardinale Martiniano, vescovo di Sabina, fu dal santo Pontefice Gregorio II inviato in Baviera per aiutare e rafforzare il campo cattolico; come compagni gli furono assegnati Giorgio e Doroteo, entrambi cardinali della Chiesa romana. Non molto tempo si recò a Roma, presso il sommo Pontefice, Corbiniano, vescovo di Frisinga, uomo insigne per santità di vita e per abnegazione, che confermò ed accrebbe i risultati apostolici di Ruperto con uno zelo di pari intensità. Ma colui al quale si deve prima che ad ogni altro la gloria di aver alimentato e coltivato la fede in Baviera è senz’altro san Bonifacio, Arcivescovo di Magonza: lo stesso che viene celebrato come padre, apostolo, martire della Germania cristiana, con lodi assolutamente veritiere e immortali. Questi ricoperse l’ufficio di legato per i Pontefici romani Gregorio II e III, e Zaccaria, presso i quali egli godette sempre di grande favore; in nome loro e con l’autorità conseguente egli divise in diocesi le regioni della Baviera; avendo in tal modo stabilito l’ordinamento gerarchico, assicurò in perpetuo la fede che altri vi avevano introdotta. “Il campo del Signore – scrive San Gregorio II allo stesso Bonifacio – che giaceva incolto e che si era coperto di spine a causa dell’infedeltà, arato dal vomere della tua dottrina, accolse il seme del Verbo e produsse una fertile messe di fedeltà” . – Da quel tempo la religione dei Bavaresi, per quanto duramente insidiata nel corso dei secoli, resistette salda e costante attraverso tutte le vicende civili. Invero seguirono i ben noti turbamenti e le lotte dell’impero contro il sacerdozio: lotte aspre, lunghe, calamitose. Tuttavia in tali frangenti la Chiesa ebbe più da rallegrarsi che da dolersi, in Baviera. Questa infatti, col favore dell’autorità sovrana, si schierò a fianco del legittimo Pontefice Gregorio XI, senza lasciarsi in alcun modo smuovere dall’audacia sfrenata dei dissidenti che inutilmente minacciavano, e – cosa che era particolarmente difficile – per lungo tempo gli abitanti serbarono intatta la fede dei padri e la comunione con la Chiesa romana, per nulla intimiditi dalla violenta aggressività dei Novatori. Questo valore, questa fermezza dei vostri padri sono tanto più da celebrare ora che la nuova setta ha sventuratamente assoggettato quasi tutti i popoli a voi vicini. Certamente ai bavaresi che vissero in quei tempi calamitosi ben si addicevano le parole di meritata lode che molto tempo prima lo stesso Gregorio II aveva rivolto alla popolazione cattolica della Turingia, istruita nella dottrina cristiana da San Bonifacio, in una lettera ai governanti: “Riconoscendo la costanza della vostra magnifica fede in Cristo, di cui siamo ben informati, e come abbiate risposto, con fede piena, ai pagani che volevano spingervi a venerare gli idoli, di voler felicemente morire piuttosto che violare anche solo in parte la fede in Cristo abbracciata una volta per tutte; ripieni di straordinaria esultanza, rendiamo le dovute grazie al nostro Dio e redentore, dispensatore di ogni bene, con l’aiuto della cui grazia auspichiamo che voi possiate raggiungere le migliori e le più desiderabili mete; possiate rafforzare il proposito della vostra fede di mantenervi uniti e con animo pio alla santa Sede Apostolica e, quando lo esigano le necessità della santa religione, possiate chiedere conforto alla santa Sede Apostolica, madre spirituale di tutti i fedeli, così come si conviene a figli coeredi di un regno nei confronti del regale genitore” . – In verità, anche se la grazia di Dio misericordioso, che nel passato ha protetto e benignamente abbracciato la vostra gente, Ci fa trarre i migliori auspici e concepire le migliori speranze per l’avvenire, nondimeno dobbiamo, ciascuno per la propria parte, apprestare tutte quelle difese che appaiano più efficaci sia a rimediare i danni già recati alla religione, sia ad impedire i pericoli che la possano sovrastare, in modo che la dottrina cristiana e le più sacre istituzioni morali possano rinvigorirsi ogni giorno di più e produrre frutti sempre più abbondanti. Non diciamo questo come se la causa cattolica potesse desiderare presso di voi più idonei o meno timidi difensori, ché anzi ben sappiamo, Venerabili Fratelli, che voi – e insieme con voi la parte maggiore e più integra del clero e dei fedeli laici – non vi siete mostrati né freddi né oziosi di fronte alle battaglie e ai pericoli dai quali è assediata e premuta la vostra Chiesa. Perciò, come per un motivo non dissimile il Nostro predecessore Pio IX, in un’amorevolissima lettera indirizzata ai Vescovi della Baviera , esaltò con grandi lodi il rilevante impegno da loro profuso in difesa dei sacri diritti della Chiesa, allo stesso modo Noi rivolgiamo volentieri spontanee, giuste e pubbliche lodi a quanti tra i Bavaresi hanno coraggiosamente intrapreso e sostengono la difesa della religione avita. In verità, nei periodi nei quali il previdentissimo Iddio permette che la sua Chiesa sia scossa da violente tempeste, Egli stesso richiede ben a ragione da parte nostra animi più vigili e forze più pronte alla bisogna. Tutti voi concordemente, Venerabili Fratelli, vedete con dolore come Noi, in che tempi ostili e iniqui la Chiesa sia caduta; vedete soprattutto in quali condizioni si trovino i vostri affari, e in quali difficoltà voi stessi vi dibattiate. Quindi comprendete per esperienza come i vostri doveri siano oggi maggiori che nel passato, e come dobbiate, per esercitarli, sforzarvi di applicare la vigilanza e l’operosità, la forza e la prudenza cristiane. – In primo luogo vi esortiamo e vi sollecitiamo a preparare e a qualificare il clero. Non c’è dubbio che il clero sia come un esercito, il quale, dal momento che i suoi regolamenti e i suoi compiti impongono che, sotto la guida dei Vescovi, si trovi in contatto quasi costante col popolo cristiano, sarà in grado di dare onore e sostegno tanto maggiori alla cosa pubblica quanto più si segnalerà per numero e per disciplina. Per questo fin dai tempi più antichi fu sempre speciale cura della Chiesa scegliere ed educare al sacerdozio quegli adolescenti “la cui indole e forza di volontà fanno sperare che si dedicheranno per sempre ai compiti ecclesiastici”; ed altresì “che gli adolescenti siano avviati fin dagli anni più teneri alla pietà e alla religione, prima che l’abitudine dei vizi possieda tutti gli uomini”; per loro fondò appositi istituti e collegi, e fissò regolamenti pieni di sapienza, specialmente col santo Concilio Tridentino , “perché questo collegio dei ministri di Dio sia un seminario perpetuo”. Ora, vi sono luoghi in cui sono state stabilite e sono in vigore leggi che, se non impediscono del tutto, pongono ostacoli a che il clero si formi spontaneamente o venga educato secondo una specifica disciplina. Riguardo a questo problema, che riveste la massima importanza, riteniamo che ora, come in altre occasioni, occorra che Noi esprimiamo apertamente il Nostro pensiero e che ricorriamo a qualunque mezzo in Nostro possesso per conservare santo e inviolato il diritto della Chiesa. Non v’è dubbio che sia diritto originario della Chiesa, come società perfetta nel suo genere, di ordinare e di istruire le sue truppe, che non sono di danno ad alcuno e sono di aiuto a molti, nel pacifico regno che Gesù Cristo ha fondato sulla terra per la salvezza del genere umano. – Il clero però dovrà assolvere ai propri doveri nel modo assolutamente più rigoroso e completo, quando, sorretto dall’aiuto dei Vescovi, avrà acquisito nei sacri seminari una tale disciplina dell’animo e della mente quale richiedono la dignità del sacerdozio cristiano e le circostanze dei tempi e dei costumi; occorre cioè che esso eccella con lode nella dottrina e, ciò che è più importante, con somma lode nell’esercizio della virtù, affinché sappia trarre a sé l’animo degli uomini e suscitare in loro un sentimento di deferenza. – È necessario che la sapienza cristiana, splendente di mirabile luce, brilli negli occhi di tutti, affinché, disperse le tenebre dell’ignoranza, che è la maggior nemica della religione, la verità si diffonda largamente in ogni dove e felicemente regni. Occorre altresì che siano confutati e sbaragliati i molteplici errori che, sorti o dall’ignoranza o dalla disonestà o dai pregiudizi, distolgono perversamente la ragione degli uomini dalla verità cattolica e la mostrano in una luce fastidiosa per l’animo. Quel compito grandissimo che consiste nell’”esortare alla sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono” (Tt 1,9) spetta all’ordine dei sacerdoti, che lo ricevettero legittimamente da Cristo Signore, quando Egli li inviò, con la sua divina potestà, ad istruire tutte le genti: “Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo a tutte le creature” (Mc 16,15); intendendo chiaramente che i Vescovi, scelti quali successori degli Apostoli, presiedano come maestri nella Chiesa di Dio, e che i sacerdoti li affianchino come aiutanti. Riguardo a queste sante incombenze, si provvide nel modo quanto più compiuto e perfetto nei primi tempi della nostra religione e nei secoli successivi, durante quell’acerbissima lotta che divampò così a lungo contro la tirannide della superstizione pagana: da quel conflitto trasse sì grande gloria la classe sacerdotale, e gloria ancor più grande il santissimo ordine dei Padri e dei Dottori, la cui sapienza ed eloquenza risplenderanno nella memoria e nell’ammirazione di tutti. In verità, attraverso loro, la dottrina cristiana, più sottilmente trattata, con più facondia spiegata, col massimo coraggio difesa, si rivelò in tutta la sua verità e la sua eccellenza, assolutamente divina; per contro cadde la dottrina degli idolatri, confutata e disprezzata anche dagli indotti come totalmente assurda, insufficiente, incoerente. – Inutilmente poi gli avversari si coalizzarono per ritardare e ostacolare il corso della sapienza cattolica; inutilmente le contrapposero le scuole della filosofia greca, sopra tutte la platonica e l’aristotelica, esaltandole con magnifiche espressioni di lode. I nostri infatti, non sottraendosi neppure a siffatto genere di contesa, applicarono l’ingegno anche allo studio dei filosofi pagani; ciascuno di loro se ne occupò, li approfondì con diligenza quasi incredibile, li esaminò ad ad uno, li soppesò, li confrontò; molte proposizioni furono da loro respinte o corrette; non poche, com’era giusto, approvate ed accolte; fu infatti da loro chiarito e proclamato il concetto secondo cui soltanto ciò che appare falso alla ragione e all’intelligenza dell’uomo è contrario alla dottrina cristiana, sicché colui che vuole opporsi e resistere a questa dottrina in realtà necessariamente si oppone e resiste alla sua stessa ragione. – Di tal fatta furono le battaglie combattute da quei nostri padri; significative vittorie furono ottenute non solo col valore e le armi della fede, ma anche con l’aiuto della ragione umana: la quale, avanzando nella luce della sapienza celeste, dall’ignoranza di moltissime cose, e quasi da una foresta d’errori, era entrata a passo sicuro nel cammino della verità. – Questa veramente ammirevole concordia ed alleanza di fede e ragione, per quanto onorate nei meditati studi di molti, risplendono tuttavia al massimo grado, come raccolte in un solo edificio ed esposte unitariamente, nell’opera di Sant’Agostino De Civitate Dei, e similmente nell’una e nell’altra Summa di San Tommaso d’Aquino: libri nei quali sono racchiusi certamente tutti i più acuti pensieri e le dissertazioni di tutti i sapienti, e nei quali si possono ricercare i fondamenti e le sorgenti di quella eminente dottrina che chiamano teologia cristiana. – Il ricordo di esempi tanto insigni deve essere assolutamente ripreso e favorito in quei tempi dal clero, ora che vecchie armi sono qua e là rimesse in uso da opposti partiti e si riaccendono quasi le stesse vecchie battaglie. Però, mentre in passato i pagani respingevano la religione cristiana per il fatto che non volevano essere allontanati dai loro riti e dalle loro istituzioni religiose ancestrali, ora invece l’opera nefasta di uomini scellerati tende proprio ad estirpare dalle radici, tra i popoli cristiani, tutti quegli insegnamenti divini e indispensabili che furono inculcati in loro attraverso la santità della fede, e a ridurli in uno stato peggiore di quello dei pagani e a trascinarli alla più degradante miseria, vale a dire al disprezzo e alla distruzione di ogni fede e religione. – L’origine di questa impura peste, della quale nessun’altra è più detestabile, è da ricercarsi in coloro che attribuirono all’uomo, esclusivamente in virtù della propria natura, la facoltà di conoscere e giudicare, ciascuno in base al proprio giudizio razionale, in materia di dottrina rivelata: con ciò sottraendosi del tutto all’autorità della Chiesa e del Pontefice romano, ai quali soltanto spetta invece, per divino mandato e prerogativa, di custodire tale dottrina, tramandarla, e sentenziare intorno ad essa in assoluta verità. Si apriva così rapidamente – e infatti si aperse rovinosamente per loro – la via che porta a porre in dubbio e a rifiutare tutte le verità che sono poste oltre la natura delle cose e la capacità intellettiva dell’uomo; giunsero a tal punto d’impudenza da negare che vi sia qualche autorità che promani da Dio, e che Dio stesso esista, scadendo infine, nella teoria insulsa dell’Idealismo e in quella particolarmente abietta del Materialismo. Coloro che si chiamano Razionalisti, così come i Naturalisti, non si peritano di chiamare questo pervertimento dei massimi principi col falso nome di progresso della scienza e progresso della società umana; al contrario, tutto ciò prepara la rovina e la distruzione dell’una e dell’altra. – Pertanto, Venerabili Fratelli, voi ben sapete e comprendete con quali strumenti e metodi occorre che vengano educati alle più alte dottrine gli alunni della Chiesa, affinché essi si applichino ai propri doveri secondo quanto richiedono la convenienza e l’utilità dei tempi. È bene però che essi, una volta plasmati e affinati attraverso le discipline umanistiche, non si accostino ai più complessi studi della sacra teologia prima di aver acquisito una scrupolosa preparazione nello studio della filosofia. Ci riferiamo a quella filosofia profonda e solida, indagatrice delle cause ultime, valida patrona della verità; in forza di essa, eviteranno di fluttuare e di venir trascinati “da qualsiasi vento dottrinario suggerito dalla malvagità degli uomini, con l’astuzia ingannatrice dell’errore” (Ef 4,14), e sapranno fornire alla verità l’ausilio anche di altre dottrine, dopo aver discusso e confutato le teorie ingannevoli e capziose. A questo scopo abbiamo già raccomandato che le opere del grande Aquinate siano nelle loro mani e costantemente ed abilmente commentate, ed abbiamo più volte reiterato tale consiglio con le parole più solenni. Il Nostro animo confida che da quei testi il clero abbia già tratto ottimi frutti, e nutriamo la ferma speranza che ne trarrà degli ancor più ricchi e copiosi. Non v’è dubbio che l’insegnamento del Dottor Angelico è mirabilmente idoneo a formare le menti: fornisce mirabile perizia nel commentare, nel filosofare e nel disertare in modo stringente e invincibile. Infatti mostra lucidamente le cose singole l’una derivante dall’altra in una serie continua, tutte tra loro connesse e coerenti, tutte in relazione con i principi supremi; così essa innalza alla contemplazione di Dio, che di tutte le cose è causa efficiente e forza e sommo modello, al quale infine ogni filosofia e quanto v’è di grande nell’uomo debbono riferirsi. Così, invero, attraverso Tommaso la scienza delle cose divine e umane, e delle cause che le contengono, viene ammirevolmente illustrata e stabilmente fondata; nel tentativo di contrastarne la disciplina, le antiche sette degli errori si ritrovarono completamente distrutte; e così pure le nuove, diverse da quelle più nel nome e nell’apparenza che nella sostanza, non appena ebbero sollevata la testa ricaddero, soccombendo sotto i suoi colpi: come già è stato dimostrato da più d’uno dei nostri scrittori. – Indubbiamente la ragione umana vuole addentrarsi con sguardo acuto e libero nella conoscenza della natura intima e recondita delle cose, e non può non volerlo: ma sotto la guida e il magistero dell’Aquinate tale percorso le è reso più facile e più libero perché del tutto sicuro, al riparo dal pericolo di oltrepassare i confini della verità. Né del resto si potrebbe onestamente definire libertà quella che consiste nel seguire e nello spargere opinioni secondo l’arbitrio e il capriccio, ma al contrario soltanto licenza dissoluta, scienza menzognera e fallace, disonore e schiavitù dell’animo. Peraltro egli è il sapientissimo Dottore che sa mantenersi entro i limiti della verità; colui che non solo non combatte mai con Dio, principio e somma di ogni verità, ma che a Lui si mantiene sempre unito, sempre devoto a Lui che in ogni modo gli rivela i Suoi arcani misteri; colui che non meno santamente è docile alla parola del Pontefice romano, venera in lui l’autorità divina, ed è assolutamente convinto che “la sottomissione al Pontefice romano è necessaria alla salvezza” . Alla sua scuola dunque sia formato il clero, e si eserciti nella filosofia e nella teologia: ne uscirà sicuramente dotto e al massimo grado armato per le sante battaglie. – Infine a malapena si può esprimere l’immensa utilità di diffondere presso ogni ordine sociale, tramite il clero, la luce della dottrina, se essa rifulge come da un candelabro di virtù. Infatti, nei precetti che si propongono di correggere i costumi umani, sono quasi più efficaci gli esempi che le parole dei maestri: nessuno avrà mai una gran fiducia in colui le cui azioni discordino con le sue parole e i suoi insegnamenti. Fissiamo gli occhi e la mente in Gesù Cristo Signore, il quale, poiché è la verità ci insegnò le cose in cui dobbiamo credere, e poiché è la vita e la via, propose se stesso a noi come l’esempio assoluto, sul quale modellarci per condurre onestamente la vita e per tendere con zelo al bene ultimo. Egli stesso volle i suoi discepoli formati e perfetti secondo il suo esempio con queste parole: “La vostra luce, cioè la dottrina, risplenda agli occhi degli uomini quando essi vedono le vostre opere buone”, non diversamente dagli argomenti della dottrina, “e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,16), abbracciando insieme la dottrina e la morale del Vangelo, che affidava loro perché lo diffondessero. – Sono appunto questi i principi divini sui quali occorre che si modelli e si orienti la vita dei sacerdoti. È assolutamente opportuno e necessario che essi abbiano quasi scolpita nell’animo la convinzione che ormai non appartengono più al secolo, ma sono stati scelti veramente per disposizione di Dio perché, pur conducendo la loro esistenza in comunione col secolo, vivano tuttavia la vita di Cristo Signore. Se davvero vivranno di Lui e in Lui, non ricercheranno mai le cose proprie, ma si dedicheranno totalmente alle cose che appartengono a Gesù Cristo (Fil 2,21), e non si sforzeranno di procurarsi il vano favore degli uomini, ma ricercheranno il duraturo favore di Dio; si asterranno, provandone disgusto, da ogni genere di bassezza e corruttela; procurandosi larga messe di beni celesti, li diffonderanno copiosamente e lietamente intorno a sé, come si addice alla santa carità; né accadrà mai più che al giudizio e al volere dei Vescovi oppongano o antepongano il proprio, ma obbedendo e assecondando coloro che rappresentano la persona di Cristo, lavoreranno con grande felicità nella vigna del Signore, con abbondanza di sceltissimi frutti produttivi della vita eterna. Invero, chiunque si separi con la parola e con la volontà dal suo pastore e dal pastore supremo, il romano Pontefice, non può in alcun modo essere congiunto a Cristo: “Chi ascolta voi ascolta me; e chi disprezza voi disprezza me” (Lc 10,16), e chiunque è lontano da Cristo dissipa, anziché raccogliere. – Da ciò scaturisce inoltre quali forme e modi di obbedienza siano dovuti agli uomini, che sono preposti alla cosa pubblica. Ebbene, non si vuole assolutamente negare o limitare i loro diritti; piuttosto sono da seguire, da parte di tutti gli altri cittadini, e con maggior diligenza da parte dei sacerdoti, le parole “Date a Cesare quello che è di Cesare” (Mt 22,21). Infatti sono nobilissimi e degni di onore i doveri che Dio, signore e rettore supremo, impose ai Principi acciocché con la saggezza, con la ragione, con ogni osservanza della giustizia essi regolino, conservino, accrescano lo Stato. Per questo il clero deve adempiere e svolgere ogni singolo dovere dei cittadini, in modo non servile ma rispettoso; per religione e non per paura; col giusto ossequio pur conservando la propria dignità: cittadini e insieme sacerdoti di Dio. Ché se poi talora accada che il potere civile usurpi i diritti di Dio e della Chiesa, allora venga dai sacerdoti un insigne esempio di come il cristiano si debba mantenere fermo al proprio posto, anche in tempi terribili per la religione: sopporti in silenzio, con fermo coraggio; sia cauto nel sopportare azioni inique, e non dia in alcun modo il proprio assenso né la propria comprensione ai malvagi; e se si ponesse la stringente alternativa, o di disobbedire ai comandi di Dio o di compiacere agli uomini, egli faccia propria con libera voce quella memorabile e degnissima sentenza degli Apostoli: “Occorre obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29).A questo modello appena abbozzato di un metodo educativo per giovani ecclesiastici, Ci piace e Ci pare opportuno aggiungere considerazioni che riguardano la gioventù in generale: Ci sta grandemente a cuore, infatti, che l’educazione di essa si compia nel modo migliore e più completo, sia riguardo allo sviluppo della mente, sia alla perfezione dell’animo. La Chiesa ha sempre avvolto in un materno abbraccio l’età giovanile; in sua difesa ha sempre impiegato molte amorevoli energie e apprestato molteplici sussidii; tra questi, molte Congregazioni di religiosi che istruissero gli adolescenti nelle arti e nelle dottrine, e soprattutto li nutrissero della sapienza e della virtù cristiana. Così, sotto tali auspici accadeva facilmente che sgorgasse nei teneri animi la pietà verso Dio, e che per questo tramite il senso del dovere dell’uomo verso se stesso, verso gli altri e verso la patria, ricevuto in giovane età, altrettanto precocemente facesse sperare nei migliori frutti. – Pertanto, ora è giusta causa di dolore per la Chiesa il vedere che i propri figli le sono strappati nella più tenera infanzia e costretti in quelle scuole dove o viene messa del tutto a tacere ogni nozione di Dio, oppure ne viene esposta qualche idea imprecisa e mista a perversità, e dove non v’è alcun riparo contro il diluvio di errori, alcuna fede nella rivelazione divina, alcuno spazio perché la verità possa difendersi da se stessa. – È dunque somma ingiustizia escludere l’autorità della Chiesa cattolica dalle sedi delle lettere e delle scienze, poiché è da Dio che è stato attribuito alla Chiesa il compito dell’insegnamento della religione, cioè di quello strumento senza il quale nessuno può acquistare la salvezza eterna. A nessun’altra comunità umana è stato assegnato tale incarico, e nessuna comunità può attribuirselo: per questo e con ragione essa lo reclama come suo proprio diritto, e si duole nel vederlo colpito. Oltre a ciò occorre prestare grande attenzione e ad ogni costo evitare che, nelle scuole che si sono sottratte in tutto o in parte dalla giurisdizione della Chiesa, la gioventù corra pericoli e subisca influenze dannose per la sua fede cattolica e per la sua dirittura morale. A questo fine avrà particolare valore la sollecitudine del clero e delle persone oneste, sia se opereranno perché l’insegnamento religioso non solo non venga escluso da quelle scuole, ma perché vi occupi il ruolo che gli spetta, e perché venga affidato a maestri idonei e di specchiata virtù; sia se sapranno ideare e organizzare altri accorgimenti didattici che consentano di insegnare ai giovani tale dottrina con limpidezza e chiarezza. Avranno anche grande valore i consigli e la cooperazione dei padri di famiglia. Conseguentemente è opportuno rivolgere a questi un ammonimento e un’esortazione, con la maggiore solennità: non dimentichino quanto grande e santo dovere essi contraggano con Dio riguardo ai loro figli; come li debbano educare alla conoscenza della religione, ai buoni costumi, al pio timor di Dio; come potrebbero danneggiarli, affidando giovani ingenui e incauti alle mani di precettori sospetti. Collegati con tali doveri, che si sono assunti con la procreazione dei figli, i padri di famiglia sappiano che esistono altrettanti diritti, secondo natura e secondo giustizia, e sono di tal fatta che non è lecito né sottrarsene né farsene espropriare da alcuna autorità umana, dal momento che è proibito all’uomo sciogliersi dagli obblighi ai quali è tenuto verso Dio. – I genitori ricordino dunque che, se sopportano un grande peso, quello della protezione dei figli, ne sopportano uno molto maggiore, quello di educarli alla più alta e più degna vita, che è la vita spirituale. Quando non sono in grado di svolgere da sé questo compito, sono tenuti ad assicurarsi l’opera vicaria di altri, in modo che i figli ricevano il necessario insegnamento religioso da maestri preparati. Ormai non è infrequente quel davvero meraviglioso esempio di pietà e di munificenza fornito – nei luoghi dove non esistono altre scuole pubbliche, se non quelle che vengono chiamate neutrali – da quei cattolici che hanno aperto proprie scuole a costo di grandi sacrifici e rilevanti spese e che con pari costanza le mantengono in attività. È da augurarsi vivamente che siano fondati molti altri di questi mirabili e sicuri rifugi per la gioventù, ovunque se ne veda l’opportunità secondo i luoghi e le possibilità. – Né si deve passare sotto silenzio il fatto che l’educazione cristiana della gioventù risulta anche della massima utilità per la società stessa. È del tutto evidente come siano da temersi innumerevoli e ingenti pericoli in quello Stato in cui i metodi didattici e l’ordinamento degli studi escludano la religione, oppure, ciò che è anche più dannoso, le si oppongano. Infatti, non appena sia trascurato o spregiato quel supremo e divino magistero, che ci ammonisce a venerare l’autorità di Dio, e, fidando in Lui, ad attenerci con incrollabile fede ai suoi comandamenti, ecco che subito si apre per la scienza umana la rovinosa via dei più perniciosi errori, e particolarmente quelli del naturalismo e del razionalismo. Ne consegue che ciascuno si ritiene libero nel giudicare e nel valutare, sia che si tratti di idee, sia, e con maggior facilità, che si tratti di azioni; per questo l’autorità pubblica dei governanti ne risulta indebolita e mortificata. Ci sarebbe infatti da stupirsi considerevolmente se persone che abbiano fatta propria la perversa convinzione di non essere in alcun modo obbligate al dominio e al governo di Dio, accettassero e tollerassero il governo di un uomo. Una volta che siano stati distrutti i fondamenti sui quali poggia qualsiasi autorità, la società dell’umano consorzio si dissolve e si disperde: non vi sarà più Stato; si estenderà ovunque il feroce dominio della violenza e del delitto. Può forse lo Stato sventare una sì funesta calamità contando solo sulle proprie forze? Può farlo rifiutando l’aiuto della Chiesa? Può farlo combattendo la Chiesa? La risposta è chiara e manifesta a chiunque sia dotato di saggezza. La stessa prudenza politica quindi suggerisce che si debba lasciare ai Vescovi e al clero un ruolo nell’istruzione e nella formazione della gioventù; e che si debba prestare particolare attenzione a che non vengano chiamati al nobilissimo ufficio di educatori uomini di tiepido o scarso sentimento religioso, o apertamente avversi alla Chiesa. E sarebbe poi oltremodo intollerabile che uomini di siffatte inclinazioni fossero scelti per l’insegnamento più alto di tutti, quello delle scienze religiose. – È inoltre della massima importanza, Venerabili Fratelli, che avvertiate e cerchiate di respingere i pericoli che minacciano i vostri fedeli per il contagio dei massoni. Già altra volta, in un’apposita lettera Enciclica, mettemmo in rilievo quanto i propositi e le arti di questa tenebrosa setta siano pieni di nequizia ed esiziali per la società, ed indicammo i mezzi per indebolirne e soffocarne il vigore. – Né si avvertiranno mai abbastanza i cristiani di guardarsi da tale scellerata società; essa infatti, sebbene fin da principio abbia concepito un profondo odio verso la Chiesa cattolica e l’abbia poi riaffermato più aspramente e continui ogni giorno ad attizzarlo, tuttavia non manifesta sempre un’aperta inimicizia, ma più spesso agisce in modo ipocrita e ingannevole, e sventuratamente irretisce soprattutto gli adolescenti, che sono ingenui e poco smaliziati, attraverso una simulazione di pietà e di carità. Circa il modo di cautelarsi contro coloro che sono lontani dalla fede cattolica, attenetevi scrupolosamente ai precetti della Chiesa, perché la consuetudine con le loro perverse opinioni non si risolva in un danno per il popolo cristiano. Vediamo bene, e ne siamo assai addolorati, che né Noi né voi abbiamo capacità pari alla volontà e allo zelo, per stornare completamente questi pericoli; nondimeno non riteniamo inopportuno fare appello alla vostra sollecitudine pastorale e insieme spronare all’impegno i cattolici, perché associando i nostri sforzi possiamo allontanare o rendere meno pesanti gli ostacoli che si oppongono ai nostri voti comuni. Per esortarvi con le parole del Nostro santo predecessore Leone Magno, “Armatevi di pio zelo e religiosa sollecitudine, e che l’opera di tutti i fedeli si coalizzi contro i più minacciosi nemici delle anime” . Pertanto, dopo aver rimosso qualsiasi residuo di pigrizia e torpore che possano albergare nell’animo, tutti i buoni assumano come propria la causa della religione e della Chiesa; e per essa combattano con fede e con perseveranza. Accade infatti che i malvagi vedano rafforzata la propria malizia e libertà di nuocere dall’inerzia e dalla pavidità dei buoni, ed anzi se ne vantino. Accadrà anche che gli sforzi e lo zelo dei cattolici raggiungano talora risultati inferiori ai propositi e alle attese: saranno serviti tuttavia all’uno o all’altro scopo, a trattenere cioè gli avversari e a rinvigorire i deboli e i vili, oltre che procurare grande giovamento a chi ha la sicura coscienza del dovere compiuto. Del resto non sapremmo neppure concedere facilmente che possa mancare un esito felice alla solerzia e all’operosità dei cattolici, quando siano guidate da un proposito giusto, perseguito con tenacia. Infatti è sempre successo, e accadrà sempre, che imprese che si presentano irte di gravi difficoltà e ostacoli abbiano infine il più felice esito, quando siano affrontate, come dicemmo, con audacia e intrepidezza, accompagnate e guidate da cristiana prudenza. È certamente inevitabile che prima o poi la verità, cui l’uomo per natura tende con grande passione, finisca per conquistare la mente; può essere attaccata e sommersa da turbolenze e malattie dello spirito, ma non può essere annientata. – Queste considerazioni appaiono convenire particolarmente alla Baviera, e per più di una ragione. In questa regione, infatti, dato che per grazia divina è annoverata tra i regni cattolici, non si tratta tanto di ricevere la santa fede quanto di custodire ed accrescere quella tramandata dai padri; inoltre, sono in gran parte cattolici coloro che investiti di una pubblica carica sono autori delle leggi dello Stato; ed essendo parimenti cattolici in maggioranza i cittadini e gli abitanti, non abbiamo il minimo dubbio sul fatto che essi vorranno aiutare e soccorrere con ogni mezzo la loro madre Chiesa nell’ora del pericolo. Dunque, se tutti collaboreranno con l’energia e la partecipazione dovute, potremo senza dubbio rallegrarci, con l’aiuto di Dio, dell’esito favorevole dei loro sforzi. E raccomandiamo ancora la collaborazione di tutti, perché, come nulla è più nefasto della discordia, così nulla è più potente ed efficace del consenso e della concordia degli animi quando, unendo le loro forze, tendano tutti ad uno scopo comune. In questo senso ai cattolici si offre, attraverso le leggi, un mezzo opportuno per chiedere un miglioramento nelle condizioni e nelle forme della cosa pubblica, e per desiderare e volere una costituzione che, anche se non prevede favori e privilegi per la Chiesa e per loro, come pure sarebbe assai giusto, almeno non sia loro duramente ostile. Né sarà giusto che alcuno accusi e biasimi quelli tra noi che chiedono tali riconoscimenti, dato che di simili benefici avevano la consuetudine di servirsi licenziosamente i nemici del nome cattolico per ottenere e quasi estorcere dai governanti leggi avverse alla libertà civile e a quella religiosa. Perché non dovrebbe essere concesso ai cattolici di servirsi degli stessi mezzi, e di servirsene nel modo più onesto, per la difesa della religione, e per salvaguardare quei beni, privilegi e diritti che sono stati per volontà divina conferiti alla Chiesa e che da tutti, governanti e sudditi, devono essere guardati con molto rispetto? Tra i beni della Chiesa, che Noi dobbiamo sempre e ovunque conservare e difendere da ogni offesa, il più importante è certamente quello di poter fruire di tutta quella libertà d’azione di cui abbisognano la cura e la salvezza delle anime. Questa libertà è sicuramente divina, promossa dalla volontà dell’unigenito Figlio di Dio, che fece sorgere la Chiesa dall’effusione del proprio sangue, la volle perpetua tra gli uomini e volle porsene Egli stesso a capo: essa è a tal punto essenziale alla Chiesa, all’opera perfetta e divina, che chi agisce contro questa libertà agisce contro Dio e contro il dovere. – Come già dicemmo altrove più di una volta, Dio stabilì la sua Chiesa affinché si assumesse il compito di difendere, perseguire e donare largamente alle anime i beni supremi, immensamente superiori per natura ad ogni altra cosa; e affinché, con gli strumenti della fede e della grazia, infondesse da Cristo nuova vita negli uomini: una vita apportatrice di salvezza eterna. – Ma poiché le caratteristiche e i diritti di ogni società sono determinati essenzialmente dalle ragioni dalle quali trae origine e dalle mete alle quali tende, ne consegue naturalmente che la Chiesa è una società tanto distinta dalla società civile in quanto sono diverse le loro ragioni d’essere e le loro mete; essa è una società necessaria, che si offre all’intero genere umano, dato che tutti sono chiamati alla vita cristiana, in modo tale che chi la rifiuta o l’abbandona sarà separato in perpetuo, ed escluso dalla vita celeste; essa è soprattutto una società autonoma, e la più alta di tutte, per la stessa eccellenza dei beni celesti e immortali ai quali tutta intera tende. – È evidente a chiunque, d’altra parte, che le libere istituzioni devono avere libertà nell’impiego di tutti gli strumenti necessari. E gli strumenti idonei e necessari per la Chiesa sono la facoltà di trasmettere a sua discrezione la dottrina cristiana, di assicurare i santissimi sacramenti, di esercitare il culto divino, di disporre e governare tutta la disciplina del clero, cioè tutti quei compiti e privilegi di cui Dio, nella sua infinita provvidenza, volle la Chiesa, ed essa sola, investita e dotata. A lei sola dispose che fossero affidate, come in deposito, tutte le cose rivelate agli uomini; lei sola infine stabilì come interprete, garante, maestra di verità, la più sapiente e sicura, i cui insegnamenti devono ascoltare e seguire tanto gli individui quanto gli Stati; similmente è certo che Egli stesso diede libero mandato alla Chiesa di giudicare e di prendere quelle deliberazioni che più ritenesse convenienti ai propri fini. Per questo, non v’è ragione che i poteri civili guardino con sospetto e ostilità alla libertà della Chiesa, dal momento che identico è il principio sia del potere civile, sia di quello religioso, e proviene unicamente da Dio. Perciò i due poteri non possono né divergere, né ostacolarsi, né annullarsi a vicenda, dato che non può essere che Dio non sia in armonia con se stesso, né possono essere in contrasto tra loro le Sue opere: ché anzi esse rivelano mirabile accordo di cause ed effetti. È chiaro inoltre che la Chiesa cattolica, mentre porta i suoi vessilli sempre più lontani e sicuri tra le genti, obbedendo ai comandi del suo Fondatore, non invade in alcun modo il territorio del potere civile, né interferisce per nulla nel suo campo d’azione; ma anzi si pone a difesa e a salvaguardia delle genti; a somiglianza di quanto accade con la fede cristiana, che, lungi dall’oscurare la luce della ragione umana, le aggiunge piuttosto splendore, sia con l’allontanarla dall’errore, in cui è facile che l’uomo possa cadere, sia perché la introduce in un mondo di idee più vasto e più elevato. – Per quanto riguarda la Baviera, sono intervenuti particolari accordi tra questa Sede Apostolica e detto Paese: accordi ratificati e consacrati da reciproche convenzioni. La Sede Apostolica, sebbene abbia fatto larghe concessioni relativamente ai propri diritti, ha sempre rispettato tali accordi, come suole fare, integralmente e religiosamente; né ha mai fatto nulla che desse occasione di rimostranze. Per questo è assolutamente auspicabile che le convenzioni siano mantenute e scrupolosamente rispettate da entrambe le parti, sia nella lettera, sia ancor più nello spirito secondo il quale sono state stipulate. – È accaduto in realtà che la concordia venisse turbata e che nascesse un’occasione di conflitto: tuttavia Massimiliano I con un decreto l’attenuò, e successivamente Massimiliano II agì secondo giustizia, sancendo alcune opportune modifiche. Ora apprendiamo che queste disposizioni in tempi recenti sono state abrogate; tuttavia confidando sulla religione e sulla prudenza del Principe che governa il regno di Baviera, speriamo che colui che ha ricevuto come gloriosa eredità il ruolo e la religione dei Massimiliano vorrà personalmente e prontamente provvedere alla difesa dei beni cattolici e, allontanando ogni ostacolo, promuoverne lo sviluppo. Sicuramente gli stessi cattolici (che costituiscono la maggior parte della popolazione: quella parte che senza alcun dubbio si segnala per l’amor di patria e per l’atteggiamento rispettoso verso i governanti) se si vedranno tenuti in giusta considerazione ed esauditi in una questione di tanta importanza, testimonieranno ulteriormente ossequio e lealtà verso il loro Principe, quasi come figli verso il padre, e con accresciuto fervore seguiranno i suoi propositi volti al bene e al prestigio del regno, e si conformeranno pienamente ad essi con tutte le loro forze. – Questo è quanto siamo stati indotti a comunicarvi, Venerabili Fratelli, spinti dal Nostro ufficio Apostolico. Ci rimane da implorare tutti insieme e a gara l’aiuto di Dio, e da invocare come intercessori presso di Lui la gloriosissima Vergine Maria e i Celesti patroni del regno di Baviera, perché Egli annuendo benigno ai nostri comuni voti doni alla Chiesa una tranquilla libertà e conceda alla Baviera di godere di crescente gloria e prosperità. – A voi, Venerabili Fratelli, al clero e a tutto il popolo affidato alla vostra sollecitudine impartiamo con grande affetto l’Apostolica Benedizione, come auspicio dei doni celesti e come testimonianza della Nostra particolare benevolenza.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 22 dicembre 1887, nel decimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA II. DI QUARESIMA (2022)

DOMENICA II DI QUARESIMA (2022)

Stazione a S. Maria in Domnica

Semidoppio. – Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

La Stazione a Roma si tiene nella chiesa di S. Maria in Domnica, chiamata così perché i Cristiani si riunivano, in altri tempi, la Domenica nella casa del Signore (Dominicum). Si dice che S. Lorenzo, distribuisse lì i beni della Chiesa ai poveri. Era una delle parrocchie romane del V secolo. Come nelle Domeniche di Settuagesima, di Sessagesima e di Quinquagesima, i testi dell’Ufficiatura divina formano la trama delle Messe della 2a, 3a, e 4a Domenica di Quaresima. – Il Breviario parla in questo giorno del patriarca Giacobbe che è un modello della più assoluta fiducia in Dio in mezzo a tutte le avversità. Assai spesso la Scrittura chiama il Signore, il Dio di Giacobbe o d’Israele per mostrarlo come protettore. « Dio d’Israele, dice l’Introito, liberaci da ogni male ». La Chiesa quest’oggi si indirizza al Dio di Giacobbe, cioè al Dio che protegge quelli che lo servono. Il versetto dell’Introito dice che « colui che confida in Dio non avrà mai a pentirsene ». L’Orazione ci fa domandare a Dio di guardarci interiormente ed esteriormente per essere preservati da ogni avversità ». Il Graduale e il Tratto supplicano il Signore di liberarci dalle nostre angosce e tribolazioni » e « che ci visiti per salvarci ». Non si potrebbe meglio riassumere la vita del patriarca Giacobbe che Dio aiutò sempre in mezzo alle sue angosce e nel quale, dice S. Ambrogio, « noi dobbiamo riconoscere un coraggio singolare e una grande pazienza nel lavoro e nelle difficoltà » (4° Lez. Della 3° Domenica di Quaresima).  – Giacobbe fu scelto da Dio per essere l’erede delle sue promesse, come prima aveva eletto Isacco, Abramo, Seth e Noè. Giacobbe significa infatti « soppiantatore »: egli dimostrò il significato di questo nome allorché prese da Esaù il diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie e quando ottenne per sorpresa, la benedizione del figlio primogenito che il padre voleva dare a Esaù. Difatti Isacco benedì il figlio più giovane dopo aver palpato le mani che Rebecca aveva coperte di pelle di capretto e gli disse: « Le nazioni si prosternino dinanzi a te e tu sii il signore dei tuoi fratelli ». Allorquando Giacobbe dovette fuggire per evitare la vendetta di Esaù, egli vide in sogno una scala che si innalzava fino al cielo e per essa gli Angeli salivano e discendevano. Sulla sommità vi era l’Eterno che gli disse: « Tutte le nazioni saranno benedette in Colui che nascerà da te. Io sarò il tuo protettore ovunque tu andrai, non ti abbandonerò senza aver compiuto quanto ti ho detto. Dopo 20 anni, Giacobbe ritornò e un Angelo lottò per l’intera notte contro di lui senza riuscire a vincerlo. Al mattino l’Angelo gli disse: « Tu non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele (il che significa forte con Dio), perché Dio è con te e nessuno ti vincerà » (Il sacramentario Gallicano (Bobbio) chiama Giacobbe « Maestro di potenza suprema »).Giacobbe acquistò infatti la confidenza di suo fratello e si riconciliò con lui.Nella storia di questo Patriarca tutto è figura di Cristo e della Chiesa. – La benedizione, infatti, che Isacco impartì a suo figlio Giacobbe — scrive S. Agostino — ha un significato simbolico perché le pelli di capretto significano i peccati, e Giacobbe, rivestito di queste pelli, è l’immagine di Colui che, non avendo peccati, porta quelli degli altri » (Mattutino). Quando il Vescovo mette i guanti nella Messa pontificale, dice infatti, che « Gesù si è offerto per noi nella somiglianza della carne del peccato ». « Ha umiliato fino allo stato di schiavo, spiega S. Leone, la sua immutabile divinità per redimere il genere umano e per questo il Salvatore aveva promesso in termini formali e precisi che alcuni dei suoi discepoli « non sarebbero giunti alla morte senza che avessero visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno » cioè nella gloria regale appartenente spiritualmente alla natura umana presa per opera del Verbo: gloria che il Signore volle rendere visibile ai suoi tre discepoli, perché sebbene riconoscessero in lui la Maestà di Dio, essi ignoravano ancora quali prerogative avesse il corpo rivestito della divinità (3° Notturno). Sulla montagna santa, ove Gesù si trasfigurò, si fece sentire una voce che disse: « Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo ». Dio Padre benedì il suo Figlio rivestito della nostra carne di peccato, come Isacco aveva benedetto Giacobbe, rivestito delle pelli di capretto. E questa benedizione data a Gesù, è data anche ai Gentili a preferenza dei Giudei infedeli, come essa fu data a Giacobbe a preferenza del primogenito. Così il Vescovo mettendosi i guanti pontificali, indirizza a Dio questa preghiera « Circonda le mie mani, o Signore, della purità del nuovo uomo disceso dal cielo, affinché, come Giacobbe che s’era coperte le mani con le pelli di capretto ottenne la benedizione del padre suo, dopo avergli offerto dei cibi e una bevanda piacevolissima, cosi, anch’io, nell’offrirti con le mie mani la vittima della salute, ottenga la benedizione della tua grazia per nostro Signore ».Noi siamo benedetti dal Padre in Gesù Cristo; Egli è il nostro primogenito e il nostro capo; noi dobbiamo ascoltarlo perché ci ha scelti per essere il suo popolo. « Noi vi preghiamo nel Signore Gesù, dice S. Paolo, di camminare in maniera da progredire sempre più. Voi conoscete quali precetti io vi ho dati da parte del Signore Gesù Cristo, perché Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione in Gesù Cristo Signor nostro » (Epist.). — In S. Giovanni (I, 51) Gesù applica a se stesso l’apparizione della scala di Giacobbe per mostrare che in mezzo alle persecuzioni alle quali è fatto segno, Egli era continuamente sotto la protezione di Dio e degli Angeli suoi. « Come Esaù, dice S. Ippolito, medita la morte di suo fratello, il popolo giudeo congiura contro Gesù e contro la Chiesa. Giacobbe dovette fuggirsene lontano; lo stesso Cristo, respinto dall’incredulità dei suoi dovette partire per la Galilea dove la Chiesa, formata di Gentili, gli è data per sposa ». Alla fine dei tempi, questi due popoli si riconcilieranno come Esaù e Giacobbe.La Messa di questa Domenica ci fa comprendere il mistero pasquale che stiamo per celebrare. Giacobbe vide il Dio della gloria, gli Apostoli videro Gesù trasfigurato, presto la Chiesa mostrerà a noi il Salvatore risuscitato.

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV:6; XXIV:3; XXIV:22

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Ps XXIV:1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam.

[A te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Orémus.

Deus, qui cónspicis omni nos virtúte destítui: intérius exteriúsque custódi; ut ab ómnibus adversitátibus muniámur In córpore, et a pravis cogitatiónibus mundémur in mente.

[O Dio, che ci vedi privi di ogni forza, custodíscici all’interno e all’esterno, affinché siamo líberi da ogni avversità nel corpo e abbiamo mondata la mente da ogni cattivo pensiero.]

LECTIO

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses.

1 Thess IV: 1-7.

“Fratres: Rogámus vos et obsecrámus in Dómino Jesu: ut, quemádmodum accepístis a nobis, quómodo opórteat vos ambuláre et placére Deo, sic et ambulétis, ut abundétis magis. Scitis enim, quæ præcépta déderim vobis Per Dominum Jesum. Hæc est enim volúntas Dei, sanctificátio vestra: ut abstineátis vos a fornicatióne, ut sciat unusquísque vestrum vas suum possidére in sanctificatióne et honóre; non in passióne desidérii, sicut et gentes, quæ ignórant Deum: et ne quis supergrediátur neque circumvéniat in negótio fratrem suum: quóniam vindex est Dóminus de his ómnibus, sicut prædíximus vobis et testificáti sumus. Non enim vocávit nos Deus in immundítiam, sed in sanctificatiónem: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

[“Fratelli: Vi preghiamo e supplichiamo nel Signore, che, avendo da noi appreso la norma, secondo la quale dovete condurvi per piacere a Dio, continuiate a seguire questa norma, progredendo sempre più. Poiché la volontà di Dio è questa: la vostra santificazione: che vi asteniate dalla fornicazione, che ciascuno di voi sappia possedere il proprio corpo nella santità e nell’onestà, e non seguendo l’impeto delle passioni, come fanno i pagani che non conoscono Dio; che nessuno su questo punto soverchi o raggiri il proprio fratello: che Dio fa vendetta di tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e dichiarato. Dio, infatti, non ci ha chiamati all’immondezza, ma alla santità: in Cristo Gesù Signor nostro”]

L’ONORE CRISTIANO.

C’è nell’epistola d’oggi una parola che colpisce: l’appello all’onore. Se ne fa tanto commercio, tanto uso ed abuso di questa parola nella letteratura e nella vita mondana. Il mondo considera un po’ l’onore come una sua scoperta, o, almeno, come un suo monopolio. L’onore è nel mondo, o si crede sia, il surrogato laico del dovere. Noi Cristiani, secondo questo modo assai diffuso di vedere, avremmo il dovere, la coscienza; il mondo avrebbe, lui, l’onore. Più trascendentale il primo, più concreto il secondo. E onore vuol dire un nobile senso della propria dignità, un cominciar noi ad avere per noi quel rispetto che pretendiamo dagli altri. – Ebbene San Paolo parla di onore come di un dovere ai primi Cristiani, ai Cristiani d’ogni generazione, come parla di santità. Dio ci vuol santi e noi dobbiamo diventarlo sempre di più come numero e come intensità. « Hæc et voluntas Dei sanctificatio vestra ». Di questa santità l’Apostolo specifica due elementi: purezza e carità, una carità assorbente e riassorbente in sé la giustizia. Purezza! e la purezza è il rispetto al proprio corpo, è la dignità della nostra condotta umana anche nel momento in apparenza più brutale della nostra vita. – C’è chi si lascia degradare nel suo corpo dalle ignobili passioni, dai miseri istinti di esso; ma c’è chi solleva e nobilita tutto questo: c’è chi possiede e domina nobilmente l’« io » inferiore e animale: trascinarlo in alto, umanizzarlo, divinizzarlo anche. È  una novità. I pagani non le pensano neppure queste belle, grandi cose, tanto sono lontani dal farle. Hanno evertito Dio, poveri pagani! È stata la prima forma di avvilimento e il principio funesto di tutte le altre. Mancò il punto a cui rifarsi, quasi sospendersi, e si rotolò in basso. San Paolo esprime lo schifo, il ribrezzo dei costumi pagani, corrotti e crudeli. Sono le due forme di bestialità su cui egli insiste e dalle quali scongiura i Cristiani di guardarsi, suggerendo le formule dell’onore: custodire onorato anche il proprio organismo, custodendolo santo. « Mori potius quam fœdari: » morire prima di disonorarsi, la cavalleresca formula ci torna alla memoria come una formula di sapore e di origine cristiana. L’onore non è più una convenzione, un quid di cui sono in qualche modo arbitri gli altri e che contro gli altri dobbiamo eventualmente difendere, è invece un quid di cui siamo arbitri noi stessi e che dobbiamo difendere contro gli istinti vergognosi degeneranti: difenderlo in nome e per l’onore stesso di Dio. Il mondo non farà che riprendere questa idea dell’onore per falsificarla strappandola al suo ambiente sacro, laicizzandola. Noi siamo i custodi vigili. Sdegnosi, colle opere più che con le parole, proclamiamo il programma: « mori potius quam fœdari ». Non tutto è perduto, nulla è perduto quando è salvo l’onore.

 Graduale

Ps XXIV: 17-18

Tribulatiónes cordis mei dilatátæ sunt: de necessitátibus meis éripe me, Dómine,

[Le tribolazioni del mio cuore sono aumentate: líberami, o Signore, dalle mie angustie.]

Vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea.

[Guarda alla mia umiliazione e alla mia pena, e perdònami tutti i peccati.]

Tractus Ps CV:1-4

Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus.

[Lodate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia.]

Quis loquétur poténtias Dómini: audítas fáciet omnes laudes ejus?

[Chi potrà narrare la potenza del Signore: o far sentire tutte le sue lodi?]

Beáti, qui custódiunt judícium et fáciunt justítiam in omni témpore.

[Beati quelli che ossérvano la rettitudine e práticano sempre la giustizia.]

Meménto nostri, Dómine, in beneplácito pópuli tui: vísita nos in salutári tuo.

[Ricórdati di noi, o Signore, nella tua benevolenza verso il tuo popolo, vieni a visitarci con la tua salvezza.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.

Matt XVII: 1-9

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus Petrum, et Jacóbum, et Joánnem fratrem eius, et duxit illos in montem excélsum seórsum: et transfigurátus est ante eos. Et resplénduit fácies ejus sicut sol: vestiménta autem ejus facta sunt alba sicut nix. Et ecce, apparuérunt illis Móyses et Elías cum eo loquéntes. Respóndens autem Petrus, dixit ad Jesum: Dómine, bonum est nos hic esse: si vis, faciámus hic tria tabernácula, tibi unum, Móysi unum et Elíæ unum. Adhuc eo loquénte, ecce, nubes lúcida obumbrávit eos. Et ecce vox de nube, dicens: Hic est Fílius meus diléctus, in quo mihi bene complácui: ipsum audíte. Et audiéntes discípuli, cecidérunt in fáciem suam, et timuérunt valde. Et accéssit Jesus, et tétigit eos, dixítque eis: Súrgite, et nolíte timére. Levántes autem óculos suos, néminem vidérunt nisi solum Jesum. Et descendéntibus illis de monte, præcépit eis Jesus, dicens: Némini dixéritis visiónem, donec Fílius hóminis a mórtuis resúrgat.”

[In quel tempo Gesù prese con sé Pietro, e Giacomo, e Giovanni, suo fratello, e li menò separatamente sopra un alto monte; e fu dinanzi ad essi trasfigurato. E il suo volto era luminoso come il sole, e le sue vesti bianche come la neve. E ad un tratto apparvero ad essi Mosè ed Elia, i quali discorrevano con lui. E Pietro prendendo la parola, disse a Gesù: Signore, buona cosa è per noi lo star qui: se a te piace, facciam qui tre padiglioni, uno per te, uno per Mosè, e uno per Elia. Prima che egli finisse di dire, ecco che una nuvola risplendente, li adombrò. Ed ecco dalla nuvola una voce che disse: Questi è il mio Figliuolo diletto, nel quale io mi sono compiaciuto: lui ascoltate. Udito ciò, i discepoli caddero bocconi per terra, ed ebbero gran timore. Ma Gesù si accostò ad essi, e toccolli, e disse loro: Alzatevi, e non temete. E alzando gli occhi, non videro nessuno, fuori del solo Gesù. E nel calare dal monte, Gesù ordinò loro, dicendo: Non dite a chicchessia quel che avete veduto, prima che il Figliuol dell’uomo sia risuscitato da morte.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

CREDO LA VITA ETERNA

Quando Gesù per la prima volta disse ai suoi Apostoli che in un giorno non lontano l’avrebbero messo in croce, essi furono presi da una grande delusione e da un grande abbattimento. Che Figlio di Dio era, se si lasciava schiacciare dai suoi nemici? Dov’era dunque il suo Regno per il quale avevano abbandonato e casa e famiglia e tutto? – Il Maestro comprese ch’era necessario sollevarli di coraggio. Ne scelse tre: Pietro, perché era il capo; Giacomo, perché era il primo degli Apostoli che sarebbe stato ucciso; Giovanni perché, essendo l’amico del cuore, lo voleva vicino in ogni segreto. Con loro salì un’alta montagna, e arrivò sulla cima che già spuntavano le prime stelle della sera. Come suo costume, Gesù si pose a pregare: e i tre, rimasti a qualche passo di lontananza, vinti dal sonno, dormivano sull’erba. Quando si risvegliarono, si trovarono davanti agli occhi uno spettacolo meraviglioso: Gesù era trasfigurato. Il suo volto raggiava come il sole, le sue vesti scintillavano come il riverbero della neve; ai fianchi Mosè ed Elia discorrevano con Lui, in un momento in cui i tre personaggi fecero per andarsene, Pietro gridò: « Maestro, com’è bello star qui! Piantiamo tre tende, e non scendiamo più al basso ». Il suo desiderio non fu accolto. Parlava ancora che già una nuvola di luce abbagliante avvolgeva tutti, e da essa risuonò una voce che abbatté gli Apostoli con la faccia contro terra: « Questi è il mio Figlio diletto! ». I tre, che stavano ancora prostrati, sentirono una mano che li toccava sulla spalla. Era Gesù; ma solo, con la faccia d’ogni giorno, col suo povero mantello di lana. «Vi raccomando — diceva — di non dir niente a nessuno finché non sarò risuscitato da morte ». Sull’onda di gioia che li ricolmava, tornò a galla il triste pensiero della morte. Ma ora non si scandalizzarono più, benché ancora non comprendessero bene. I nemici potranno mettere in croce il Figlio dell’uomo, ma non potranno spegnere l’immensa luce ch’Egli nascondeva sotto le umane apparenze. Questa luce avrebbe saputo ridare la vita al corpo esanime del Crocifisso. – Giovanni si ricorderà del volto sfolgorante di Gesù nell’ora del Calvario quando lo vedrà sfigurato di sputi e di sangue: e crederà che quella faccia agonizzante è quella del Figlio di Dio. – Giacomo si ricorderà d’aver visto e d’aver udito Mosè ed Elia, vivi e gloriosi benché morti da secoli, e senza paura curverà la testa sotto la spada di Erode Agrippa (Atti, XII, 2). Anch’egli andava a vivere nella gloria di Mosè e di Elia ai fianchi di Cristo. Anzi (lo racconta Eusebio, Hist. eccl., II, 9) era tanta la certezza d’entrare nella vita eterna, che il volto gli raggiava come se fosse già un poco trasfigurato. Sicché, colui che l’aveva trascinato al tribunale, vedendolo, credette e confessò d’essere egli pure Cristiano. Entrambi furono menati al supplizio, e, strada facendo, colui pregò Giacomo a perdonargli. L’Apostolo rifletté un momento. « La pace sia con te » gli disse poi e l’abbracciò. Un medesimo colpo staccò insieme due teste. Il ricordo della trasfigurazione sul Tabor non si cancellò più neppure dalla mente di Pietro, che ai primi Cristiani scriveva: « Figliuoli, la vita eterna non è una favola. Ce l’ha rivelato nostro Signore Gesù Cristo, il quale è il Figlio di Dio. Io con questi occhi l’ho visto trasfigurato nella gloria del Padre, io con queste orecchie ho udito la voce che lo proclamava Figlio diletto; proprio io, una volta che mi trovavo con Lui sulla montagna » (II Petr., I, 16-18). Non è solo per i tre Apostoli che Gesù s’è trasfigurato sul Tabor; ma anche per tutti noi. Per dare anche a noi una testimonianza della sua gloria di Figlio di Dio, gloria che tiene preparata per tutti i buoni Cristiani dopo la morte; per dare anche a noi la forza di combattere e di soffrire per amor del Paradiso. Che cos’è la vita eterna? Che conto ne facciamo? – CHE COS’È LA VITA ETERNA. Vedere Dio proprio come è; amare Dio come sulla terra si può amare un padre e una madre; godere quel che gode Dio, infinitamente quindi, senza più dolori; vivere con la sua stessa vita, cioè per sempre, senza esaurimenti, malattie, o morte. Cose che si possono dire ma non capire: sono troppo più grandi di noi. Può un bambino in fasce capire com’è la vita e la gioia di suo padre? No. Tanto meno possiamo capire noi, povere formicuzze, com’è la vita e la gioia di nostro padre Iddio, di cui un giorno Egli ci farà partecipi. A S. Paolo il Signore concesse di gustare per un momento un poco di Paradiso, ma non trovò parola che bastasse ad esprimere quella beatitudine: « Nessun occhio d’uomo ha mai visto ciò che io vidi; nessun cuore d’uomo ha mai gustato ciò che io gustai. Ebbene, lo tiene preparato per tutti quelli che l’amano » (I Cor., II, 9). Questo grido d’impotenza di San Paolo è la più commossa ed eloquente evocazione della vita eterna. – S. Caterina di Siena non sapeva scrivere. Un giorno ha una visione in cui le vien rivelato pallidamente un lembo di Paradiso. Un tale impeto di gioia la invade che prende una penna e d’improvviso scrive: lei, ignara d’alfabeto. Un’altra santa dello stesso nome, S. Caterina Vigri di Bologna, non sapeva musica né mai aveva preso tra le mani uno strumento. Essa è gravemente ammalata, è sul punto di morire. Dio le concede una primizia della vita eterna che l’aspetta. Le pare allora di trovarsi in un prato verde e fiorito, dov’era il trono del Re del Cielo, circondato da zone di santi, da aureole fiammanti d’Angeli. Accanto al trono vide la Vergine e dinanzi stava Davide in atto di cantare. Caterina sentì solamente queste parole del Salmo: « …et gloria eius in te videbitur ». Ritornata in sé, la santa moribonda afferra un piccolo liuto, e suona e canta miracolosamente, lei ignara d’ogni musica. Nel suo convento le monache conservano ancora quel liuto come reliquia. Se il fiume di gioia che letifica la città di Dio, spruzzando con una sola goccia l’anima nostra, la trasforma così miracolosamente, che sarà quando tutto il fiume, non appena una goccia, inonderà l’anima nostra? Quando avremo non questa carne pesante e incurvata al male, ma un corpo trasfigurato come quello di Cristo sul Tabor, adatto cioè a gustare quella gioia infinita? – CHE CONTO NE FACCIAMO. Nessuno può entrare nella vita eterna, se essa prima non entra in lui. E deve entrare in lui come luce nella sua mente, come forza nelle sue azioni. Che vale ripetere ogni giorno « credo nella vita eterna », se poi non se ne fa nessun conto nella maniera di pensare, nella maniera di agire? – Luce nella mente, perché il pensiero della vita eterna deve essere la stella a cui son volti i nostri pensieri. L’operaio che torna al sabato stanco dal lavoro, ma contento perché tiene in tasca la buona paga che ha meritato, deve pensare: « E in questa settimana che cosa ho guadagnato per la vita eterna? » – La madre di famiglia che si reca a riposo lieta perché ha provveduto all’educazione sana e intelligente dei suoi figliuoli, deve pensare: « E ho provveduto anche per la loro educazione alla vita eterna? Ho insegnato loro, mane e sera, a congiungere le mani, a pregare? ». L’uomo che va alla banca a deporre il frutto dei suoi risparmi, deve pensare: « E alla banca della vita eterna che cosa depongo? Che cosa ho dato in elemosina ai poveri e alle opere buone? » L’ammalato che soffre, che forse non potrà più riavere la salute o l’uso di qualche membro, pensa alla vita eterna e si consola. Anche il vecchio che sente ormai prossima la fine della vita, non si lascia prendere dalla cupa tristezza, ma pensa alla vita eterna e purifica la sua coscienza. « Ah tu non sai questa cosa atroce che ai vecchi avviene: uno specchio, e la  desolazione di vedersi ogni giorno più finiti!… » ha scritto in un suo lavoro un grande drammaturgo vecchio e senza fede. (Luigi Pirandello, in Quando si è Qualcuno). – Ma S. Paolo che credeva nella vita eterna e si sentiva quaggiù come un nomade in viaggio verso la città celeste, scrisse: « Abitiamo come sotto una tenda né ci deve rincrescere che si sfasci: Dio ci tiene preparata una dimora nei cieli, non costrutta da mano d’uomo né soggetta alla lima del tempo » (II Cor., V, 1). – Forza nelle azioni. Chi dava forza a S. Stefano di morire, così giovane e così tranquillo, sotto la crudele sassaiola? La vita eterna. « Io vedo i cieli aperti… » . S. Carpo vescovo d’una città d’Asia, vecchio e tremante, fu messo in croce: sorrideva tra gli spasimi. « Chi ti fa sorridere?» gli dicevano. Rispose. « Vedo la gloria di Dio e il cuore trasalisce di gioia ». Come facevano i Santi — domandano molti Cristiani — a vivere così puri, a digiunare così a lungo e così aspramente, se a noi riesce troppo difficile compiere un fioretto, astenerci dal grasso al venerdì, fuggire la sensualità del pensiero, della parola, della azione? La musica della vita eterna infondeva in loro meravigliose forze. – Sì legge di S. Nicola da Tolentino che mentre pregava di notte spesso udiva gli Angeli cantare. E tanta dolcezza gli inteneriva il cuore che sospirava: « Desidero di morire e stare con Gesù » (Brev. Ambr., 10 sett.). – Quando l’eco di questo concerto arrivava al beato Cafasso questi gridava: « O Paradiso! O Paradiso! chi pensa a te non conosce stanchezza ». Ora possiamo comprendere perché nelle cose della Religione siamo sempre stanchi e annoiati: perché non pensiamo abbastanza al Paradiso; perché non ci fermiamo mai ad ascoltare l’eco di quella divina musica.- Un poeta inglese (Wordsworth in The Excursion) racconta di un fanciullo in viaggio verso l’oceano che non ha mai visto, e da cui è misteriosamente attratto. Cammina lungo i fiumi, attraversa deserti e foreste. Quando la stanchezza lo prende o un pericolo lo spaventa o la solitudine lo scoraggia, allora mette al suo orecchio una conchiglia; tosto il suo viso si illumina di gioia, e novello ardimento gli corre in cuore. In quella conchiglia egli ode il lontano murmure del mare che lo chiama. Anche noi siamo fanciulli in viaggio verso l’oceano della vita eterna, che non abbiamo ancor visto ma da cui siamo misteriosamente attratti, perché creati per essa. – Camminiamo in mezzo ai pericoli e alle difficoltà di questa vita. Se talvolta le passioni o le tribolazioni staranno per stancarci, o per abbatterci, ricordiamoci allora di mettere al nostro orecchio, come conchiglia, qualcuna delle parole del Signore, dove c’è murmure della vita eterna che ci aspetta. Questa ad esempio: « Io vado a preparare un posto: per te ». (Giov. XIV, 2). Quest’altra: « Coraggio; che il tuo nome è scritto nel cielo » (Lc., X, 20). Sentiremo così gioia e ardire nel camminare sulla via diritta dei comandamenti e dell’amore fino alla meta suprema.

Domine, bonum est hic esse! Che cosa vedevano i suoi occhi, che cosa godeva la sua anima, quando Pietro gridò così: nemmeno lui avrebbe potuto poi dirlo, perché le gioie del Paradiso sono inesprimibili. Chissà però quante volte nella vita si sarà ricordato di quell’ora fugace! Nei momenti di tentazione, di tribolazione, di martirio, con la sua fantasia sarà ritornato sulla cima di questo monte, per ritrovare il coraggio di lottare e di sopportare fino alla fine. « Coraggio Pietro! — si sarà detto; — quello che hai gustato per un’ora, potrai gustarlo per un’eternità. Spera e avanti! ». Se anche noi avessimo una così viva speranza e ci potessimo dire: « Quello che San Pietro ha gustato per un’ora, io pure potrò gustare per l’eternità » non è vero che ci sentiremmo più forti nella tentazione e nella sofferenza? Gli è che al Paradiso ci crediamo scialbamente, e non lo desideriamo mai. E pensare che Dio, benché onnipotente e infinito nel suo amore, non poteva prepararci un dono più grande e più bello. – Che cos’è il Paradiso? È una gioia tanto grande e tanto bella, che quaggiù non riusciremo mai a capirla. Immaginate — scrive S. Gregorio Magno ne’ suoì Dialoghi — un bambino che sia nato e cresciuto in una sotterranea prigione: egli non ha mai visto un raggio di sole, non sa che siano le stelle, ignora la bellezza d’un paesaggio invaso dalla luce diurna, o tremante sotto il pallore lunare. Ebbene, la sua madre che sta nella prigione, accanto a lui, vuole istruirlo sulle bellezze del mondo. « Figlio mio, se tu sapessi come è raggiante di splendore il sole! È simile alla fiamma della nostra lampada, ma più grossa, grossa così che illumina da per tutto ». Poi gli mostra una foglia secca e marcia, rinvenuta in quel fondo a caso, gliela mostra dicendo: « Figlio mio, se tu sapessi quante foglie ci sono lassù! d’ogni colore, d’ogni forma, d’ogni profumo. Son vive, attaccate a rami con fiori e con frutti squisitissimi: se passa il vento fremono come una canzone, se scotta il sole danno frescura ed ombra ». Il fanciullo ascolta; sgrana gli occhi, sogna: ma non riesce ad immaginarsi nulla. « Così, conclude San Gregorio, è di noi: la nostra santa madre, la Chiesa, si sforza di insegnarci le gioie del cielo, ma noi che non abbiamo esperienza alcuna di esse, non possiamo comprendere. » Se quaggiù non possiamo comprendere il Paradiso, dobbiamo con desiderio sperarlo, e con tutte le energie conquistarlo. Mettiamoci davanti agli occhi l’eterno premio del cielo: nella tentazione sapremo lottare con forza. nella tribolazione sopportare con pace. – LOTTARE CON FORZA. Quando il prigioniero si ricorda della libertà perduta, morde con rabbia la sua catena e si sforza per romperla; quando l’ammalato, nell’arsura della febbre, nello strazio del delirio, si ricorda della sanità perduta, piange e chiama il medico che lo guarisca anche con la medicina amara e con il ferro tagliente; quando il navigante, in mezzo all’oceano burrascoso, si ricorda della sua patria lontana, del suo paese bello, della sua casa raccolta nel tepore della sua famigliola, sospira e giura di tornare presto e non partire più. Oh se il peccatore che da anni è prigioniero di satana, pensasse al Paradiso che ha perduto! Oh se il peccatore febbricitante di passione, straziato dai vizi si ricordasse dell’eterna felicità che s’è gettata dietro le spalle! Oh se l’uomo che naviga lontano dal Signore, per l’oceano dell’iniquità, pensasse al Cielo, la dolce patria eterna dove l’attendono i suoi genitori morti da un pezzo, ove si raccoglieranno i suoi figliuoli, ove si ricostruirà una famiglia nuova nel bacio di Dio! Tutti quelli che sperano il Paradiso, hanno in cuore una grande forza per lottare contro il demonio, per infrangere ogni legame, per tornare verso la libertà, la salvezza, la casa. – Un giovane da parecchi anni viveva di stenti e di umiliazioni amare: di padrone in padrone, era stato costretto a fare il guardiano di porci. Vestito di cenci, mal nutrito fino ad invidiare le ghiande de’ suoi animali, tutto il giorno era fra i grugniti e di notte dormiva sul giaciglio duro della stalla: povero figliuol prodigo! Ma ecco gli punge in cuore l’amore di suo padre, ecco gli passa davanti agli occhi la visione della sua casa lontana: quanto doveva star bene suo fratello, amato, accarezzato dal genitore; quanto dovevano essere felici in quel palazzo perfino i servi! Vesti decenti per tutti, vivande squisite a sazietà, scale di marmo e sale ariose, musica deliziante. A questo pensiero non sa più resistere e grida: « Surgam et ibo! ». Getta il bastone, lascia l’immondo gregge, e corre attraverso i campi e le siepi, verso suo padre, verso casa sua. – Ora potete comprendere perché tanti altri giovani si sdraiano nei peccati, fra il gregge immondo delle passioni impure, schiavi di un padrone che li umilia e li perseguita; essi non pensano mai all’amore di Dio Padre, alla casa celeste ove è abbondanza di ogni gioia. Infelici! hanno un tenerissimo Padre e vivono con l’aguzzino, hanno preparato una città di pietre preziose e vivono nel fango dei porci. – Quando il popolo d’Israele viveva nella schiavitù del Faraone d’Egitto e tutto il giorno lavorava a fabbricare e a trasportare mattoni e poi la sera veniva flagellato per paga, dove ha trovato la forza per ribellarsi a fuggire? « Popolo d’Israele – andavano ripetendo Mosè e Aronne, — Il Signore ci promette una terra buona assai, dove abitarono i nostri padri antichi dove gli alberi stillano miele e i fiumi scorrono come il latte ». Con questo desiderio nel cuore si sentirono capaci di fuggire, di traversare il mar Rosso, di percorrere il deserto. E come furono in cospetto della beata regione, per rincuorarli a combattere con forza e coraggio, vennero a loro mostrati alcuni frutti di quella terra: un grappolo d’uva che a portarlo occorsero due uomini con una stanga, e anche delle melagrane e dei fichi (Num.; XIII, 24-25). Ma io vorrei domandare schiettamente a ciascun di voi: « Quante volte in un mese, in un anno pensate al Paradiso?… ». Non c’è quindi da meravigliarsi, se nei momenti di tentazione, quando si tratta di scegliere fra una manciata di palanche mal guadagnate ed il Paradiso, si sacrifica il Paradiso; fra una creatura ed il Paradiso, si sacrifica il Paradiso; fra una passione di superbia o di lussuria, si sacrifica il Paradiso, – S. Filippo Neri quando gli offrirono la dignità cardinalizia, sentendo forse stimoli d’orgoglio in fondo al cuore, gettò in alto la berretta gridando: « Paradiso! Paradiso! ». E rinunciò ad ogni grandezza umana. – SOPPORTARE CON PACE. Udite un esempio che già raccontava fin da’ suoi tempi S. Leonardo da Porto Maurizio. Viveva in una cella oscura come una tomba un santo religioso, e spendeva la sua vita in opere di carità, in aspre discipline, in rigidi digiuni, in notturne preghiere. Andarono a fargli visita alcuni signori del mondo, e rimasero quasi spaventati di tanta austerità: « Come potete resistere anche un giorno solo voi qui? ». « Mettetevi alla finestra della mia cella », rispose l’uomo di Dio « e poi comprenderete ». Essi ubbidirono. « Ebbene! — aggiunse — che cosa vedete? ». « Nient’altro che una vecchia muraglia tagliata in quadro e attraverso il taglio un angolo di cielo largo come il palmo di una mano ». « È appunto questo piccolo angolo di cielo rispose il servo di Dio — che ha fatto tutta la mia pace e la mia consolazione. Ogni volta che la tristezza assale l’anima mia, io getto uno sguardo per la finestrella verso il cielo. Ah, Paradiso, Paradiso! nome caro al mio cuore ». E mentre diceva così, quei signori videro la sua faccia trasfigurarsi nell’estasi. O Cristiani angustiati da cupi pensieri, levate lo sguardo al cielo: le vostre rughe si spianeranno, i vostri crucci si dissolveranno. Voi madri, che dite di non aver più forza né pazienza a sopportare la croce, levate lo sguardo al cielo: tutto là è contato, anche il più lieve respiro; tutto là sarà ricompensato con infinita sovrabbondanza. – E gli ammalati, costretti nel letto da mesi, chiusi nelle corsie degli ospedali da anni, guardino attraverso la finestra l’azzurro che splende davanti ai loro occhi come una grandiosa promessa, nella loro anima ringiovaniranno e sentiranno nuova pace a sopportare, quasi fossero al primo giorno di sofferenza. – Mai come oggi ci sono al mondo tanti scoraggiati, tanti disperati, perché mai come oggi gli uomini hanno dimenticato il Paradiso. Si attaccano mani e piedi ai beni fugaci e falsi di quaggiù: poi viene la tribolazione, la calunnia, la miseria, la malattia e, sentendoseli sfuggire e svanire, piangono di rabbia, gridano d’imprecazione. In alto i cuori! Lassù è la vita eterna! Lassù è la mèta vera dei nostri desideri! – Contardo Ferrini, come confratello della Conferenza di S. Vincenzo de’ Paoli, visitava un vecchio povero, solo, infermo. Nel ripartire il vecchio lo ringrazia e gli dice: « È un soffio questa vita! Possa almeno con questa guadagnarmi la vita eterna … » . Il santo professore fu commosso da tanta pace e rassegnazione e pensò che se a quel cuore non avesse sorriso la speranza del Paradiso, sarebbe stato il cuore d’un infelice (C. FERRINI, Pensieri e preghiere, pag. 12). – Giovane, sano, intelligente, ricchissimo, rinunciare al marchesato che gli spettava per diritto di successione!?… È inconcepibile, se non in un pazzo. Eppure San Luîgi questo ha fatto il 2 novembre 1585. E non era pazzo. A quelli che lo guardavano con occhi di incomprensione, con parole di compatimento, Luigi quasi ridendo rispondeva: «Io vi dico che voglio andare ad acquistarmi una corona in cielo… ».

– Il mistero della trasfigurazione di Gesù è simbolo della nostra trasfigurazione. Ogni umana creatura ha in sé l’immagine divina del nostro Creatore, come un blocco di marmo contiene già la figura artistica che la mano di un Michelangelo estrarrà in statua perfetta. È questa l’immagine in cui noi dobbiamo trasformarci. « Diventate perfetti come è perfetto il Padre mio che sta in cielo » dice Gesù nel Vangelo; e S. Paolo scrive: « Rivestitevi di Cristo » Induimini Christum. Come il volto di Cristo e le sue vesti erano luminose, così anche i nostri pensieri e le nostre parole e le nostre azioni devono risplendere di luce davanti agli uomini, per dar gloria a Dio Padre. Chi non comincia questa trasfigurazione qui in terra, non arriverà mai alla completa trasfigurazione del Paradiso, quando la nostra faccia sarà davvero fulgida come il sole e il nostro manto candido come la neve, quando ci sarà dato d’innalzare per noi una tenda eterna, ove godremo tutta la gioia senza confine. « Come devo fare per trasfigurarmi? » domanderà qualcuno. Non è cosa complessa, risponderò. Occorrono soltanto due cose: la preghiera e la fatica. Non vi siete accorti che Gesù si è trasfigurato mentre pregava? E non avete badato che prima di trasfigurarsi Gesù ha scalato le rocce scabre del monte, ed anche in alto parlava di patimento? La preghiera e la fatica sono le nostre armi, e tutta la nostra vita; la preghiera e la fatica sono anche i due pensieri che vi voglio dire ora. – LA PREGHIERA E LA TRASFORMAZIONE. Più d’una volta mentre pregava, S. Filippo Neri fu visto raggiare dalla persona una soavissima luce, e staccarsi da terra e rimanere sollevato, come se il suo corpo più non pesasse. Questa meravigliosa trasfigurazione che la preghiera compie talvolta nel corpo dei Santi, sempre la compie nelle anime nostre quando preghiamo fervorosamente con fede e con umiltà. 1) Essa riempie di luce la nostra mente. — Mosè scendendo dal Sinai, poiché aveva parlato con Dio, aveva la mente così piena di splendore che due raggi gli uscivano dal capo simile a due fulgidissimi corni. Anche noi, quando preghiamo veramente e non soltanto pronunciamo macchinalmente le parole come grammofoni, ascendiamo ad un colloquio con Dio. È il Creatore che ascolta la nostra umile voce, che accoglie i sospiri dolenti del nostro cuore, che accetta i nostri desideri. Gli uomini del mondo se riescono a parlare con il Re, si fanno fotografare e poi lo annunciano su tutti i giornali: ma noi abbiamo la fortuna di parlare con Dio, il Re dei re, ad ogni momento, sempre che lo vogliamo. Come è stato buono il Signore a darci la preghiera! Come siamo ignoranti e distratti a farci rincrescere di pregare! – S. Tommaso quando aveva qualche difficoltà, pregava e subito nella sua mente si faceva luce. Così facciamo anche noi: quando abbiamo dei fastidi per la testa preghiamo ed avremo la calma; quando abbiamo tentazioni tormentose, preghiamo ed otterremo la vittoria; quando abbiamo dei dubbi sulla religione preghiamo ed otterremo la fede. 2) Essa riempie di luce le nostre azioni. — Una novizia bussa alla porta ed entra nella cella di S. Teresa del Bambino Gesù. Nel vano della finestra, ella sta cucendo un lavoro assai lestamente, quasi le urgesse di finirlo: ma la squallida stanzetta è inondata d’un tepore e d’un profumo primaverile, ma nel suo volto trema una gran gioia diffusa. La novizia rimane meravigliata come davanti a una visione: « A che pensa? » osò domandare. « Medito il Pater » rispose « È così dolce chiamare Dio Padre nostro… » e nei suoi occhi brillavano le lacrime. –  3) Essa riempie di luce il mondo intero. — S. Antonio, nato nel 251 a Coma da famiglia ricca, visse 70 anni nel deserto. Dormiva sopra una stuoia rozza, o addirittura in terra; campava d’acqua e di pane soltanto, e digiunava anche fin quattro giorni di seguito. Una volta andò a trovarlo un sapiente e gli domandò come potesse sopportare quella solitudine senza libri. Rispose: «Il mio libro è la natura delle cose create da Dio. Esse da sole, quando prego, mi schiudono i libri divini ». – Cristiani, quando pregate non è vero che tutto il mondo vi pare più bello e incita a pregare di più? Gli uccelli col loro gorgheggio, i fiumi coi loro mormorii, le stelle lucenti e pellegrine nel cielo, i monti verdi vicino e azzurri lontano, i fiori dei campi e dei giardini, tutto in una parola ci solleva e ci consola. Ecco perché tutte le cose S. Francesco chiamava fratelli e sorelle. – LA FATICA E LA TRASFIGURAZIONE. Buio ancora, fece passare tutta la sua gente al di là del torrente, gonfio e sonante; al di qua delle acque rimase egli solo: Giacobbe. Ma ecco staccarsi dalle ombre del bosco un uomo e venire minaccioso contro di lui: il torrente gli proibiva la fuga. Allora cominciò una lotta, corpo a corpo, terribile. Già il primo lume del mattino rideva sulla punta degli alberi e Giacobbe, non vinto, restituiva colpo a colpo, con forza rinnovellata. Lo straniero, stanco ormai, gli disse: « Lasciami andare: che già viene l’aurora ». Gli rispose il valido ebreo: « Non ti lascerò senza che tu mi benedica ». « Per benedirti, qual è il tuo nome? ». « Giacobbe ». – « Non soltanto Giacobbe ti chiamerai, ma anche Israele, ossia colui che ha saputo combattere la lotta con Dio ». Così detto, sparve come una nuvola leggera che si dissolve sopra la guazza mattutina. Era un Angelo (Gen., XXXII, 21-31). – Riconoscete l’Angelo di Dio che viene a lottare con noi: se vogliamo trasfigurarci, non dobbiamo vigliaccamente ricusare la fatica. Prendiamo il Crocifisso, e baciandolo, come cavalieri antichi baciavano la loro spada, diciamo così: « Gesù mio, avete lavorato e pianto abbastanza durante trentatré anni passati su questa terra. Oggi riposatevi. Tocca a me a combattere e a soffrire ». Tocca a me a combattere ed a soffrire, dovete ripetere anche nelle fatiche spirituali, quando non riuscite a domare il vostro carattere, quando vi pare impossibile strappare dal cuore quell’affetto impuro, quando siete scoraggiati nel perseguitare una passione. Senza lotta non c’è trasfigurazione. Quando sopra le punte degli anni vissuti brillerà l’aurora della vita eterna, se non avrete faticato rimarrà la vostra faccia nell’oscurità e le vostre vesti nelle tenebre infernali.

– Gesù è in mezzo a noi ma, ancora come una volta, è velato da una nube, essa è l’apparenza del pane, è la figura del suo sacerdote, la parola del Vangelo, Ma, benché velato così, non cessa di essere il Figlio diletto di Dio: e noi ascoltiamolo. « Hic est Filius meus dilectus: ipsum audite ». – UNA NUBE VELA GESÙ, PRESENTE NELL’EUCARISTIA. Un giorno, cupo e con una inquietudine che non sapeva placare, passeggia per Roma l’eretico Edoardo Manning. Gli archi, le rovine, i palazzi e tutta la gloria d’un mondo passato e d’un mondo che passerà, non gli avevano lasciato in cuore che amarezza e vuoto. Finalmente stanco, entrò nella chiesa di S. Luigi de’ Francesi: in mezzo a tremanti fiamme, in alto, nel silenzio, era esposta la piccola ostia bianca. Curvo giù nella chiesa qualche uomo adorava, qualche povera donna piangeva la sua pena. Edoardo che non credeva all’Eucaristia, alza gli occhi e rimane estatico: ma poi comincia a tremare e cade in ginocchio, e piange, egli ricco e sapiente, vicino alla povera donna ignorante. « Quanta pace, o Signore » esclama « essere davanti a te! Le parole di Pietro sul Thabor. – Che cos’era accaduto? Certo nel suo cuore travagliato da tante passioni, davanti a Gesù velato nella S. Eucaristia s’era fatta sentire la voce del cielo: « È il mio Figlio diletto: ascoltatelo ». E pochi giorni dopo, da anglicano si faceva cattolico e divenne il celebre Cardinale Manning. – E non è vero che la medesima voce, Dio la fa sentire a noi pure davanti al Tabernacolo? E perché allora, o Cristiani, tante scompostezze nella Chiesa? Perché tanta freddezza nelle Comunioni, perché troppa dimenticanza? Dei mesi, degli anni senza cibarsi di questo Pane quotidiano soprasostanziale? Perché tanto rispetto umano nell’inginocchiarci fino a terra, se lo incontriamo per via? « Hic est Filius meus dilectus: ipsum audite ». Ma se ora non lo vogliamo riconoscere, perché nascosto dietro la nube eucaristica, Egli non ci riconoscerà quando disvelato nella sua gloria, ci sarà davanti a giudicarci. – UNA NUBE VELA GESÙ PRESENTE NEL SUO SACERDOTE. Nel secolo scorso, secolo di ateismo e di corruzione, la Francia ha visto uno spettacolo strano. Erano uomini sapienti, che dopo aver consumata la vita sui libri, cercavano la verità in un povero paesello, ad uomo ignorante; erano uomini scoraggiati e afflitti che invano avevano cercato altrove la parola del conforto; gente, forse precipitata di burrone in burrone fino in fondo dell’abisso e della depravazione, che chiedeva una mano che la risollevasse; erano principi, erano prelati della Chiesa; erano ricchi; erano poveri; erano studiosi; erano ignoranti; era una folla che ogni giorno cercava il parroco d’Ars. Chi era quest’uomo che affascinava il cuore? Il sacerdote: l’umile, il povero, il più oscuro sacerdote di Cristo: ma dalle sue carni diafane dal digiuno e dalla penitenza, traspariva, come attraverso a una nube candida, la figura di Gesù, Sacerdos est alter Christus. « Rimarrò con voi fino alla fine dei secoli » disse Gesù, e rimase nella persona del sacerdoti. « Questo è il mio corpo… » dice il sacerdote consacrando, perché egli è Gesù. « Io ti assolvo… » ci dice nella confessione: ma chi può assolvere se non Gesù? E allora ecco il divin Padre davanti al Sacerdote dice: « Hic est Filius meus dilectus: ipsum audite ». Quanti non ascoltano il sacerdote! quanti lo disprezzano e lo perseguitano!… infelici: perseguitano Gesù. – UNA NUBE VELA GESÙ PRESENTE NEL SUO VANGELO. È il Vangelo che ci dipinge davanti agli occhi la divina figura del Salvatore: tutta la vita di Gesù, tutta la sua passione nel Vangelo è come rifatta sotto ai nostri sguardi. Nel Vangelo ci sono le parole più belle di Gesù, e la sua voce divina attraverso alle parole palpita ancora, discende nei cuori, e noi la riconosciamo. Perciò, additando il Vangelo, il divin Padre dice: « É il mio Figlio diletto che parla: ascoltatelo ». « Ipsum audite ». E lo ascoltò Francesco d’Assisi, quando giovanetto ancora s’era addormentato sulla bianca strada della Puglia, sognando le imprese guerresche, e qualche gesta onorevole: « Francesco, diceva Gesù con la parola del Vangelo, è da più il servo o il padrone? ». «Il Padrone» rispose Francesco e balzò in piedi per correre dietro il Padrone. – E lo ascoltò Francesco Saverio quando elegante, nobile, ricco, intelligente, sognava una vita piena di lusinghevoli onori e di gioie. « Che cosa importa all’uomo, gli diceva Gesù con la parabola del Vangelo, se guadagnasse anche il mondo intero e poi perdesse l’anima? » Si scuote il nobile Saverio, e s’imbarca verso terre avvolte da mistero per salvare la sua anima e quella di molti altri. E lo ascoltarono i Santi, Gesù parlante nel Vangelo. « Va, vendi ciò che hai e dallo ai poveri ». E la Calcide e la Tebaide si popolò di anacoreti. « Ipsum audite ». Ascoltate Gesù, quando dal Vangelo v’impone il suo dolce giogo, quando vi svela il valore che hanno tutte le cose mondane in confronto alle celesti. Eppure, per moltissimi Cristiani d’oggi, nessuna noia è paragonabile a quella d’un quarto d’ora di spiegazione del Santo Vangelo. – Dice la leggenda che S. Alessio, dopo tanti anni, ritornò a Roma, a casa sua, scalzo, con la tunica consumata, col bastone da pellegrino, sofferente, febbricitante appare sulla soglia: nessuno lo conosce, neppure la mamma. Ed egli gemendo chiede da mangiare e da dormire. – La madre, credendolo uno dei soliti accattoni, fece per scacciarlo, ma poi gli buttò una crosta di pane duro da mangiare e gli lasciò il sottoscala per dormire. Una notte il pellegrino morì: e la luce circonfuse il suo corpo patito e le campane da sole squillarono su tutta la città. Accorsero; e la madre riconobbe il figliuolo, ma era morto. E nello spasimo urlava: « O figlio mio morto, che non ti ho riconosciuto sotto le spoglie di un pellegrino!… ». Così diranno alcuni Cristiani in punto di morte: sotto il velo di poco pane era il mio Dio e non l’ho riconosciuto! Tra le parole del santo Vangelo parlava il mio Dio, e la sua voce non l’ho riconosciuta!…

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 47; CXVIII: 48

Meditábor in mandátis tuis, quæ diléxi valde: et levábo manus meas ad mandáta tua, quæ diléxi.

[Mediterò i tuoi precetti che ho amato tanto: e metterò mano ai tuoi comandamenti, che ho amato.]

Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[Guarda, o Signore, con occhio placato, al presente sacrificio, affinché giovi alla nostra devozione e salute.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps V: 2-4 – Intéllege clamórem meum: inténde voci oratiónis meæ, Rex meus et Deus meus: quóniam ad te orábo, Dómine.

[Ascolta il mio grido: porgi l’orecchio alla voce della mia orazione, o mio Re e mio Dio: poiché a Te rivolgo la mia preghiera, o Signore.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut quos tuis réficis sacraméntis, tibi etiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas.

[Súpplici Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché, a quelli che Tu ristori coi tuoi sacramenti, conceda anche di servirti con una condotta a Te gradita.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (196)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXXI)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

VII. — I nuovi cieli e la nuova terra.

D. Hai parlato di nuovi cieli e di nuova terra, che devono servire di dominio alla tua umanità risuscitata: che intendi con ciò?

R. Osserva anzitutto che agli eletti basta che siano rinnovati i loro occhi, perché sia rinnovato il mondo. Quale abbagliamento, se tutt’a un tratto ci apparisse, fosse pure in un lampo la danza degli astri e degli atomi! L’universo ha una realtà interiore che noi non percepiamo, e la cui scienza totale, attinta in Dio, sarà per le anime elette l’equivalente di una vera creazione.

D. Tuttavia non sarà questo un cambiamento per il mondo stesso.

R. Riguardo al mondo stesso, diciamo altamente che non può essere questione che di congetture. Queste parole bibliche: I nuovi cieli, la nuova terra, non sono commentate nel libro santo. È dunque libera la loro interpretazione. Dirò quello che mi sembra concordare meglio con l’insieme della dottrina.

D. Io non chiedo altro.

R. I nuovi cieli e la nuova terra, qualsivoglia concetto particolare se ne faccia, si offrono alla mente come una necessità ineluttabile, essendo ammesso il corpo risuscitato. Si penserà anzi che a tutta prima s’impongano; perché un corpo non è che un frammento di universo, un microcosmo ad immagine del grande, poiché offre la stessa costituzione fondamentale, senza di che gli scambi dall’uno all’altro non sarebbero possibili.

D. Tu dici però che î corpi risorti non assimilano, e che nel senso fisiologico della parola essi non vivono: non vi si ha dunque da prevedere scambi vitali tra loro e l’ambiente in cui dimorano.

R. Ciò è esatto nel campo sostanziale. Non deperendo il corpo immortale, non ha da ricostituirsi per scambio; ma esso funziona, agisce, riceve dal suo ambiente e gli dà, sotto forme del resto indefinibili per noi. Vi deve dunque essere omogeneità tra esso e quest’ambiente, e a un corpo spirituale, un ambiente spirituale è indispensabile.

D. Che cosa è un ambiente spirituale?

R. Non t’ingannare sul valore di queste parole; noi ne abbiamo spiegato il senso affatto relativo. Si tratta bensì di materia, ma d’una materia dotata di un’altra organizzazione, atta a entrare in sintesi col corpo trasformato, o piuttosto, come dicevo, prestante a questa trasformazione le sue possibilità stesse.

D. Non sei tu per il primo stupito di tali asserzioni?

R. Sarei stupito solamente di stupori troppo facili. L’essenza della materia è adesso intraveduta sotto tali forme, pare offrire una tale plasticità, si sottrae così interamente, nei suoi ultimi recessi, a ogni combinazione stabilmente invariabile, a ogni grossolano empirismo, che veramente un universo tutto diverso da questo e quasi spirituale per rapporto ad esso non ha nulla che sconcerti. Al posto del conflitto delle forze e degli scompigli che esso provoca, si concepisce benissimo un ordine, un equilibrio armonico, un adattamento spontaneo ai gesti dello spirito, e che permetterebbe a questo, come prevedeva Renan, di « prendere il governo del mondo ». Quello che non era altro che un sogno arbitrario nel pensatore, può diventare presso il credente una sistemazione legittima. Nulla si può precisare; ogni teoria diventerebbe presto derisoria; ma la direzione generale s’intravede, e ciò basta per chiudere la controversia. Invero nessuno, a nome della scienza o altrimenti, ha il diritto di accusare di falso queste magnifiche parole dell’Apostolo: La creazione stessa attende con un ardente desiderio la manifestazione dei figliuoli di Dio… nella speranza che anch’essa sarà affrancata dalla servitù della corruzione, per aver parte alla libertà gloriosa dei figliuoli di Dio.

D. Qual è secondo te, nel mondo attuale, il fenomeno più opposto a questa concezione e che il nuovo ordine di cose dovrebbe abolire?

R. Non si può rispondere che sorridendo della propria impertinenza; ma arrischiandosi si direbbe: È la degradazione dell’energia. Se è vero, come suppongono le nostre teorie termodinamiche, che un universo abbandonato a se stesso perde di giorno in giorno la sua energia utilizzabile, di modo che, restando la stessa la somma di energia, esso tende nondimeno sempre più verso una specie di nulla di attività, per l’adeguamento, il livellamento di tutti i suoi valori attivi; se questo avviene, nulla può allontanare maggiormente questo universo dalla sua « intenzione di gloria » (PAOLO CLAUDEL), vale a dire da un servizio dello spirito, e da uno spirito rilegato all’Energia suprema.

D. Bisognerebbe dunque?…

R. Che l’ambiente nuovo rappresentasse una specie di felice equilibrio dotato d’una plasticità, d’una elasticità di movimento sufficienti, ma non secondo una tendenza determinata e fatale, simile a quella che minaccia il caos al nostro universo

D. L’universo, già uscito dal caos, non deve ritornarci?

R. Noi non pensiamo che il nostro universo sia uscito dal caos. Con Renouvier, noi amiamo pensare che esso era prima ordine e adattamento allo spirito, del resto a uno spirito all’inizio della sua evoluzione, e incaricato di compiere il proprio destino aiutando il suo universo, col lavoro civilizzatore, a compiere il proprio. Checché ne sia, il fine dev’essere un ordine e un adattamento perfetto; l’universo si deve compiere in valore come tutto ciò che ha percorso normalmente il suo ciclo. Esso deve quadrare coi fini creatori relativi agli eletti, ragione d’essere delle cose. Che esso sia «pieno di anima », secondo la bella espressione di Aristotile, in grazia del suo servizio dell’anima e del suo legame sinergico con l’anima, è ciò che si profetizza legittimamente in suo favore, quando si pensa a’ suoi ultimi fini.

D. L’universo sarebbe dunque alla fine organizzato dall’anima?

R. Sì, forse, dall’anima unita a Dio col Cristo come intermediario. Si può concepire il mondo nuovo come un prolungamento dello spirito, meno sofferente, per conseguenza, di quella degradazione di valore, di quel carattere residuale in cui noi, con S. Tommaso e Bergson, abbiamo veduto l’essenza della materia. Il rialzamento terminale sarebbe allora riguardato come una specie di taumaturgia, di cui Dio sarebbe la sorgente prima, e di cui il Cristo eterno, formato di tutte le anime reincarnate solidali di Gesù e formanti con lui un solo « corpo », sarebbe l’agente immediato. L’universo sarebbe una parte dello splendore delle anime stese, splendore di Cristo che è splendore di Dio (Epistola agli Ebrei). Ciò sarebbe la redenzione compiuta, e non solo nella sua sostanza, come adesso, ma in tutte le sue espansioni. Il mondo sarebbe reso alla sua essenza celeste; i vincoli della sua materialità si scioglierebbero, per dire così, sotto l’irradiamento dello spirito, e l’ordine totale, come lo esprime S. Paolo, sarebbe istituito: Tutto sottomesso agli eletti, e gli eletti a Cristo, e Cristo a Dio.

D. È questo veramente il senso di S. Paolo?

R. Il senso di S. Paolo è soprattutto morale; ma non è illegittimo trasporlo sul piano fisico e cosmologico, e oggigiorno questa trasposizione non può sorprendere,

D. Quale attualità ti sembra che essa rivesta?

R. È la tendenza generale delle filosofie moderne di assorbire più o meno la materia nello spirito, e se spessissimo vi è eccesso, come nelle varie forme del soggettivismo, resta questo che, nel piano generale del mondo, la materia è come una dipendenza dello spirito, dipendenza immanente e congiunta nel caso del nostro corpo, dipendenza disgiunta ma strettamente coniugata nel caso dell’ambiente, che sotto certi aspetti è ancora del nostro essere. Trasporta questo nel perfetto, in cui il regno dello spirito si deve affermare molto di più, e diventa naturale il pensare che i nuovi cieli e la nuova terra di cui parla la Bibbia, saranno il risultato di una taumaturgia permanente, beatificante per l’universo, se così si può parlare, come l’intuizione di Dio sarà tale per le anime e, mediante le anime, per i corpi. La corrente non avrà più interruzione, né risucchio. Lo slancio vitale, come direbbe Bergson, ristabilirà la sua bella corrente da un’estremità all’altra, da Dio agli ultimi elementi ripresi dall’anima e a lei subordinati per riallacciarsi a Dio.

D. La tua tradizione è favorevole a queste tesi apocalittiche?

R. I Padri della Chiesa e i teologi sono soliti di presentare la gloria corporale e le sue ripercussioni come un effetto spontaneo della gloria essenziale, che è la visione di Dio. Ecco il primo termine della nostra ipotesi. S. Agostino lo esprime in questo bel testo a Dioscoro: « Dio fece l’anima di una natura così potente, che dalla sua beatitudine risulta, nella natura inferiore, il vigore dell’immortalità ». In questo testo si vede ben affermata la trasformazione effettiva del corpo mediante l’anima, quando l’anima è al contatto intimo del suo Dio. È vero che quando parlano poi dell’ambiente esterno, i dottori sembrano attribuirne l’organizzazione unicamente e immediatamente alla potenza divina. Ma non è un contradirli, bensì, credo, un completarli nella loro propria linea d’idee l’inserire l’anima tra questa divina potenza e i suoi ultimi effetti.

D. Che cosa è che, secondo te, richiede questo complemento di dottrina?

R. È che la gloria del corpo e quella dell’universo non sembrano poter procedere da causalità diverse, atteso il legame di dipendenza che abbiamo ora rilevato tra loro, e se è vero, come abbiamo pensato, che la trasformazione dell’ambiente è preliminare, essendo già necessaria a quella del corpo. Se dunque è l’anima che beatifica il suo corpo, ben inteso come strumento di Dio, per mezzo di Cristo: come non sarebbe essa che sotto le medesime condizioni, beatificherebbe il suo universo? Si possono certo vedere così le cose.

D. Non dici che l’universo attuale finirà con una catastrofe?

R. Ogni cambiamento subitaneo nell’orientamento delle forze è una catastrofe, si tratta di una salita all’ordine. Avviene come di quelle cristallizzazioni che si producono in una soluzione satura, al semplice getto di un cristallo.

D. Quale sarà qui il getto di cristallo?

R. Sarà la «seconda venuta di Cristo », cioè il segnale che Egli darà del compimento supremo.

D. Tu ricordi la tromba del giudizio?

R. Metafora evidentemente! E metafora altresì la venuta di Cristo sopra le nubi del cielo, ciò che significa che la sua potenza splenderà come la folgore nelle nubi, e sarà manifesta come un fenomeno del cielo (S. Tommaso D’Aqino). Allora appunto questa potenza, strumento della Potenza suprema, trasformerà il nostro universo dall’intimo, e, se l’interpretazione data qui sopra è esatta, farà per questo dei suoi eletti i compartecipi della sua azione.

D. Non mi hai dato la tua interpretazione della tromba.

R. Quello che ridesta i morti e riorganizza il mondo è la voce di Dio in tutto. Dico così perché io apprezzo il nobile pensiero di Mozart, che nel Requiem fa del Tuba mirum spargens sonum non uno strepito terrificante, ma una lunga melodia spirituale.

D. È veramente l’uomo Cristo che così tu fui, in unione co’ suoi, l’organizzatore del mondo?

R. Sì, come abbiamo fatto di Lui l’organizzatore dell’umanità religiosa nella Chiesa e dell’incivilimento per mezzo della Chiesa. Di lui allora e di lui alla fine, noi diciamo: « gli ereditava un mondo già fatto, eppure stava per rifarlo tutto intero » (C. Péguy).

D. E che qualificazione morale attribuisci tu a questa vita dell’universo trasformato?

R. È finalmente la vera vita, poiché è il pensiero creatore realizzato, la forma degli esseri acquistata, la fine del desiderio ottenuto, la gerarchia di tutti i valori fondata, l’attività universale lanciata nella sua via definitiva, che non è più una ricerca, un brancolamento, un tentativo così spesso combattuto, un’impresa così spesso opposta a se stessa, ma l’esercizio armonico dei poteri pienamente raggiunti, riguardo a oggetti integri essi stessi e che non si rifiutano più.

D. Tuttavia quello che noi vediamo ora è appunto l’abbozzo di questo avvenire.

R. La polvere astrale che naviga nel firmamento è come il suo seme, come il polline lucente. Fino ad ora, dice S. Paolo, la creazione geme tutta quanta e soffre quasi le doglie del parto. Ma siccome la polvere dei morti deve lasciare il posto a creature eternamente viventi; siccome l’umanità dispersa nell’universo e le età si devono raccogliere in una sola famiglia di eletti: così alla dispersione dei mondi nell’etere succederà indubbiamente una sublime unità, creata sotto il segno dello spirito, per spiriti, ed eternamente rivelante per gli occhi aperti di tutti gli esseri le segrete armonie che il tempo ci dissimula.

LE VIRTÙ CRISTIANE (20)

LE VIRTÙ CRISTIANE (20)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay; MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO IX.

L’ OTTAVA BEATITUDINE.

La virtù del martirio di animo.

In questa ottava ed ultima beatitudine, annunziataci da Gesù Signore, si può giustamente credere ch’Egli abbia mirato a tutte le altre precedenti. A me pare quasi ch’ei dica: Son beati i poveri di spirito, beati i mansueti, beati coloro che piangono, beati quelli che han fame e sete di giustizia, beati i misericordiosi, beati i mondi di cuore, beati i pacifici; ma il colmo della beatitudine non è soltanto di possedere queste virtù cristiane e tutte le altre, ma di essere per esse perseguitati: secondo queste parole mie: “Beati coloro che soffrono persecuzione per la giustizia; perciocchè ad essi appartiene il regno dei cieli.” La nobiltà di cotesta ultima beatitudine sorpassa quella delle precedenti, ma appunto per questo a prima giunta la beatitudine dei perseguitati per amore alla virtù ci stupisce più, e sembra più paradossale delle altre. – A prima giunta parrebbe, che, essendo ogni virtù un raggio della divina Bellezza, e assomigliandoci ciascuna più a Dio, e avvicinandoci più a Lui; ogni virtù dovesse attirarci la benevolenza, l’amore e la stima degli uomini. Infatti, parecchie volte avviene che i malvagi altresì fanno plauso alla carità, alla dolcezza, alla mansuetudine, alla pazienza, alla purità dei figliuoli di Dio. Ma d’altra parte, quante e quante altre volte i figliuoli della Città del mondo perseguitano con le ingiurie, col disprezzo, con le villanie, con lo scherno, con le parole mordaci, e sino con le battiture e con la morte i figliuoli della Città di Dio? Il malvagio dunque ora ama e ora odia la virtù, a volte la celebra e la ammira, a volte la vilipende e la perseguita. Perché mai questo? Donde deriva siffatta contraddizione? O la virtù è amabile; o disamabile, o rassomiglia a una bellissima e pudica vergine, o ha in sé bellezze soltanto apparenti e menzognere. Perché dunque in alcuni casi la si ama, e in altri riesce oggetto di odio? Le ragioni di cotesto fatto sono parecchie, ma la principale mi par questa. Quando la virtù si considera, per quel che è in sé, e si mira astrattamente; l’intelletto umano, anche che sia offuscato da molte tenebre, si sente rallegrato da qualche raggio della luce di essa; vede la virtù con un certo misterioso compiacimento; e s’accorge che la virtù corrisponde a talune nobili propensioni dell’animo suo: però la trova bella e amabile. Quando poi questa medesima virtù, nei fatti particolari diventa ostacolo alle passioni degli uomini, e si sforza di governarle, di smorzarle o anche di annientarle; ed ecco che i passionati s’inaspriscono e imbizzariscono, quasi come puledri che nella loro corsa, incontrata una barriera, più s’imbestiano. Per tal guisa quelle medesime virtù, che tengono in freno gli animi dei buoni, eccitano talvolta a passioni anche più focose i malvagi. E i malvagi, talora eccitati così, riescono persecutori più o meno infocati dei figliuoli di Dio. Allora disgraziatamente le passioni veementi dell’animo, contraddette dai virtuosi e dalle virtù loro, con le loro vampe offuscano gli intelletti dei passionati: il vero par loro falso, il bene male, e arrovellandosi tra invidie, gelosie, e sospetti, diventano persecutori. – Al giusto, che si sente perseguitato, ricorrono allora alla mente le parole di Gesù Signore, beati coloro, che soffrono persecuzione per la giustizia. Ancorché gli ripugni supremamente il soffrire, e più per quelle opere di giustizia che, secondo il primitivo ordinamento di Dio, gli dovrebbero procurare diletto; pure, confidente nelle parole del Signore, a poco a poco si rassegna, pensando all’eterna beatitudine che lo aspetta. Talvolta anche, s’ei conduce vita di perfezione, sente altresì nell’intimo del cuore qualche primizia del godimento di quella vita eterna, a cui aspira col desiderio. Or questa persecuzione, sofferta serenamente e tal volta anche consolatamente per amore di Dio e di virtù, si può in senso largo chiamare martirio; ed è indubbiamente una nobilissima virtù dell’animo, la quale non manca mai al buon Cristiano, e, come tutte le altre virtù, s’accresce di grado in grado, sempre che ei viva del pensiero e dell’amore di Dio. Ben è vero, che il principale martirio del Cristiano, è quello ch’ei soffre, o che almeno è disposto a soffrire, dando la propria vita per la fede di Gesù Cristo. Ma ciò non toglie che vi sia altresì il martirio dell’animo, e che questo s’abbia da riconoscere particolarmente nei perseguitati per amore di giustizia, secondo le parole di san Gregorio Magno: “Morire per mano del persecutore è vero martirio: sopportare contumelie, e amare coloro che ci perseguitano, è anche esso un martirio interiore dell’anima”. – Così l’aureola del martirio non appartiene soltanto a quei milioni di Cristiani, i quali nobilmente e santamente scelsero di morire piuttosto, che negare la fede di Cristo, ma altresì a tutti gli altri Santi, e per un certo rispetto a tutti giusti. Così ancora la storia della Città di Dio, da Cristo in poi, nella sua parte più nobile e bella, è una storia di martiri. Però, dopo il peccato e la redenzione è avvenuto che anche il Paradiso, sia un regno in cui tutte le creature umane, che ne fan parte, sono state prima, quale in un modo, quale in un altro inghirlandate della corona del martirio. Iniziatore supremo di questo santissimo martirio fu il divin Crocifisso del Golgota, il Martire dei martiri, il quale non solo morì per la giustizia, ma meritò a noi peccatori di essere giusti della giustizia di lui. Dopo di Cristo, e a lato di lui, nel Cielo brilla di luce ineffabile la nostra benedetta Madre Maria diventata particolarmente a piede delle Croce Regina dei martiri, e tipo stupendo del nobile martirio delle anime. I vari cori dei Martiri, dei Pontefici, dei Confessori, delle Vergini, delle Maritate splendono ciascuno di una loro particolare bellezza; ma tutti, per alcune loro doti particolari, s’accostano al coro dei Martiri, e ne partecipano; tutti cantano il cantico espresso nell’ultima beatitudine: beati coloro che soffrirono persecuzioni per la giustizia. La virtù del Cristiano martirio, intesa nel senso che ho detto, deriva, come tutte le virtù cristiane, dalla grazia e dagli sforzi del nostro libero arbitrio. Ma in modo particolarissimo cotesta virtù è frutto di carità; perciocché solo un ferventissimo amore ci può condurre a soffrire pazientemente e talvolta anche consolatamente di essere perseguitati per un bene qualsiasi. Mirate là in una povera casuccia una madre affettuosa, che veglia le intere notti a canto dell’amato figliuolo, e soffre per lui, e per lui talvolta perde il roseo delle sue guance, e s’illanguidisce: vedetela ancora che, non paga di tanto, sopporta tranquillamente i dilegi, gli scherni, i rimproveri e anche talora le battiture di chi crede, che l’amore di lei sia o soverchio o folle. Ma ella non per questo ama meno, o è meno disposta a soffrire. Chi le dà tanta forza e tanta perseveranza nel soffrire? L’amore naturale che ella ha pel figliuolo. Ora il medesimo, e, anche più di questo, accade in coloro che, pieni di Spirito Santo, si sentono infiammati dall’amore di Dio. Certo, la natura loro quando si sente punta dallo stimolo della persecuzione, grida no: ma la grazia e la carità soffocano nell’animo piamente cristiano quel grido di natura; lo elevano in più spirabil aere, e gli fanno sentire quelle dolcezze degli amori celesti, le quali o temperano o attutiscono anche gl’inchinamenti più possenti della natura. Laonde a ragione l’Apostolo san Paolo scrisse di tutt’i Cristiani buoni “Chi ci dividerà dalla carità di Gesù Cristo? Forse le tribolazioni? Forse l’angustia? Forse la fame? Forse la nudità? Forse il risico, forse la persecuzione, forse la spada? … Io son sicuro che nessuna cosa creata potrà mai dividerci dalla carità di Dio, la quale è in Cristo Gesù Signor nostro”. Questa virtù del martirio dell’animo cristiano, come ciascun altra, ha i suoi gradi; e, chi voglia acquistarla, si contenti d’ incominciare dal poco, e metta soltanto cautamente un passo avanti l’altro; perché è virtù difficilissima. Dapprima il vederci perseguitati per amore del bene, anche quando non ci faccia prorompere in atti irosi o impazienti, ci amareggia profondamente l’animo; e l’amarezza interiore ci trasparisce nel sembiante e ce l’offusca, dandoci un sentimento increscioso di melanconia. È un passo già, l’evitare l’ira nelle persecuzioni, ma non basta. Talvolta la persecuzione ci fa uscire in parole lamentevoli, e c’ispira un desiderio, non sempre contenuto nei giusti limiti, di adoperare ogni mezzo per impedire la persecuzione altrui; ma grado grado, il desiderio di evitare la persecuzione si riduce nei giusti suoi limiti; onde il giusto perseguitato, nell’allontanare la persecuzione, mira non tanto a sé, quanto al bene del prossimo. E a questo bene principalmente mirarono gli Apostoli e poi i Santi, sempre che obbedirono a quelle parole di Cristo : “ Quando sarete perseguitati in una città, andate in un’altra”. L’amarezza dell’anima del perseguitato anch’essa scema col tempo; perciocché la persecuzione ci adusa a poco a poco a disprezzare il mondo, e ad anteporre sempre il testimonio e l’approvazione della propria coscienza, illuminata dalla fede, a tutte le approvazioni degli uomini. – L’eroismo poi di questa virtù che sta nel soffrire sino a dar la vita per la fede, o almeno, nel fortemente desiderarlo, procede assolutamente da un eroismo grande di carità; il quale, secondo l’insegnamento della Chiesa, è così nobile e possente, che tiene luogo anche del battesimo. Però nella cristianità sino dai primi secoli fu riconosciuto che, oltre al battesimo di acqua, evvi il battesimo di sangue, il quale si ha quando il non battezzato, infiammato di santo zelo e di carità, muore per la fede di Gesù Cristo. – La virtù del martirio, sia di sangue, sia dell’animo, deriva, anche in modo particolare, dalla fortezza cristiana; onde i milioni di Santi, che conseguirono morendo la palma del martirio, anche che sieno stati fanciulli o verginelle o vecchi o in qualunque modo deboli nel corpo, ci si affacciano sempre alla mente come fortissimi. La fortezza loro anzi ci è più visibile della carità stessa. Chi invero può mai pensare agli strazj infiniti da essi sofferti, senza sentirsi stringere il cuore e commuoversi sino al pianto? Chi può leggere la storia dei loro martirj, senza riconoscere che la fortezza loro superi di molto quella di Seneca, degli Scipioni, dei Bruti e di altri cotali fortissimi Pagani? Il medesimo si ha a dire del martirio dell’animo. Chi non sia fortissimo, potrà mai sopportare serenamente e lietamente il cruccio inenarrabile del sentirsi perseguitato per la virtù, e anche per il bene fatto al prossimo, e sino talvolta per il bene fatto ai persecutori medesimi? – Uno dei maggiori ostacoli dunque ad acquistare questa virtù del cristiano martirio, e ad intendere bene le parole di Cristo: beati  è perseguitati per la giustizia, s’ha da cercare nella fiacchezza degli animi dei Cristiani; in quella fiacchezza dico, che è una delle maggiori piaghe dei nostri tempi. È chiaro che il Cristiano non potrà mai valutare la nobiltà della beatitudine del martirio, sino a che allibisca e tremi all’aspetto di qualsiasi dolore; molto più se egli in tutto ciò che fa, non pensi se non alla gloria, e alla lode degli uomini, la quale è un inizio di gloria anch’essa. Questa tentazione delle lodi invero alcune fiate ci assale per guisa, che noi, quasi dimentichi di Dio e della propria coscienza, crediamo gli uomini essere i veri giudici di tutto ciò che pensiamo, diciamo e operiamo. Ma quali sono, o mio Dio, gli uomini che ci hanno da giudicare? Si risponderà: non debbono essere certo i cattivi, sì veramente i buoni. Ma, anche tra i buoni, quanti ce ne ha che non sieno passionati, o poco assennati, o volubili nei loro giudizj? Quanti ce ne ha che sieno capaci di penetrare nelle profondità dell’anima, e giudicar rettamente un’azione? E intanto, se si dà tanto valor ai giudizj degli uomini; dove mai troverò io la forza di accettare con pazienza, e anche talvolta con ilarità, le persecuzioni, che debbo sostenere per la giustizia? Se m’inchino facilmente ai giudizj degli uomini, e servo ad essi; dove troverò mai la forza per intendere, e mettere in atto l’insegnamento di Gesù Cristo: beati coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia? – Pieno di misteri e di difficoltà è questo argomento delle lodi. Per un verso non è male il desiderarle ordinatamente; ma, per un altro verso, il desiderarle, e anche l’averle dopo il desiderio, non è senza pericolo. Né il pericolo qui si può evitare allo stesso modo, che evitiamo i pericoli delle altre tentazioni; perciocché le altre tentazioni si possono fuggire, ma come si potrebbe fuggire ogni lode? E ancora il fuggirla è sempre un bene? – Intorno a questo argomento delle lodi stimo verissimo e bellissimo un luogo delle Confessioni di sant’Agostino; e sebbene io non tratti qui direttamente questo tema, nondimeno mi par bene di prendere cosiffatta occasione, per mettere avanti agli occhi di chi legge alcune parole del gran Santo, le quali prose giovar sempre, e molto più in tempi tanto stoltamente vanitosi, come sono i nostri. Sant’Agostino dunque scrive così: ‘Nelle altre tentazioni posso io bene in qualche modo chiamarmi a esame: in questa della lode non posso nulla o quasi. Invero nei piaceri carnali o nelle curiosità di sapere cose vane vedo quanto io sia riuscito a frenare l’animo mio, quando son privo di quegli oggetti, perché non gli voglio o perché non ci sono. Conciossiaché allora domando a me stesso quanto più o meno mi dolga di non averli. Quanto poi alle ricchezze … se mentre le possiede l’animo, non può accorgersi se ei l’abbia in dispregio, vada, le rinunzj e vedrà. Ma per rinunziare alla lode, e così provare il nostro valore, che fare? Dovremo forse darci al malvivere, tanto perdutamente e sformatamente, che niuno possa vederci senza orrore? Chi direbbe cosa sì pazza? Dall’altro lato, se la lode suole e dev’essere compagna del ben vivere, e delle buone azioni; ei bisogna tanto tener conto della sua compagnia, quanto della buona vita. E intanto non posso sapere, se io valgo o no a sostenere con buon animo la privazione di una cosa, se io non ne rimango privo. Che confessione ho io dunque da fare, o Signore, in questo genere di tentazione? Che? se non che io piglio gusto della lode, ma non però in modo, che più non mi gusti la verità. Infatti, se mi fosse proposto una di queste due cose; o di essere lodato per mattezza e traviamento d’ogni genere, o di essere vituperato per assennatezza e tenacità nel vero, so bene ciò che sceglierei” (Confes. L. X, cap. 37. Chi voglia avere un’idea completa di tutto ciò che sapientissimamente insegna Sant’Agostino sì della lode, sì della temperanza e del timore con cui dobbiamo accettarla, e in ultimo dei fini che la nobilitano, legga l’intero Capitolo). – Tutto questo luogo di Sant’Agostino e particolarmente le ultime parole fanno bene al caso nostro, Ei c’è bisogno di temperare il desiderio di ricever lodi, ed essere superiori ad esse; per poter acquistare quella che ho chiamata virtù del martirio cristiano. Nè ciò basta. Quest’ultima beatitudine, come accennai sin dal principio, si consegue più difficilmente delle altre… Essa richiede in modo particolare la cognizione e la pratica delle beatitudini precedenti; onde risulta come l’incoronamento di tutte quelle che precedono. Benché la beatitudine dei perseguitati per la giustizia appartenga pure alla vita cristiana, è specialmente propria della perfezione cristiana. I buoni Cristiani si sforzino dunque di averla, quanto possono. I perfetti l’hanno, e solo mettano il loro studio nell’acquistarne gradi maggiori: Gli uni e gli altri sanno assai bene, che il premio di essa è il possedimento del regno di Dio: beati coloro che soffrono persecuzione per la giustizia, perciocché possederanno il regno di Dio. – E ora che ho finito il discorso delle Beatitudini annunziateci da Gesù Cristo, m’avvedo d’averne parlato assai incompletamente e imperfettamente: mi accorgo anzi che fu pure imperfetta e incompleta la trattazione anche delle altre parti del Libro; e soprattutto mi rincresce che io non abbia avuto occasione di trattare ex professo della preziosa virtù dell’obbedienza e di qualche altra. Nonpertanto mi affido nel Signore, il quale parla interiormente al cuor dell’uomo, e vivifica quella medesima parola nostra, la quale di per sé ha poca o punta efficacia. Penso a quegli agricoltori, che talvolta vedo con gran mia consolazione nei campi, premurosamente intenti a gettar alcuni piccoli semi di frumento sulla terra. Quei semi, mescolati col terreno, scaldati dal sole, e vivificati dalla rugiada e dalla pioggia, diventeranno tra non molto pianticelle, e poi cresceranno verdeggianti, insino a che si arricchiscano di bionde spighe di frumento. E quelle spighe alimenteranno chi sa quanta gente! Perché non potrebbe accadere lo stesso della mia parola, se io avrò seminato nel cuore degli uomini la parola di verità; non parola mia, ma parola tolta riverentemente da quel benedetto Gesù, che, con ragione, disse di sè: Io sono la via, la verità e la vita? Oh Signore, Signore, leggetemi nel cuore, e compite questo mio santo desiderio, che mi viene da Voi!

LE VIRTÙ CRISTIANE (21)

LA VITA INTERIORE (8)

LA VITA SPIRITUALE E LE SUE SORGENTI (8)

Sac. Dott. GIOVANNI NATTISTA CALVI con prefazione di

Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

GLI ESERCIZI DI PIETÀ

GLI ESERCIZI SPIRITUALI

DEFINIZIONE DI $. IGNAZIO.

Poiché vivere la vita d’unione con Dio, o vivere, come si dice, di vita interiore è corrispondere all’amore di Dio, è provvedere alla propria santificazione e alla nostra felice eternità, pensiamo che nessun momento ci possa tanto e così efficacemente aiutare a raggiungere questa vita, quanto il tempo degli Esercizi spirituali. S. Ignazio di Loyola, ideatore di essi e dalla Chiesa dichiarato il loro Patrono, così ne parla: « Io non so trovare né intendere in questa vita più giovevole mezzo per mettere in cuore zelo della propria salute e dell’altrui ». Sono una grazia specialissima che la bontà del Cuore SS. di Gesù concede alle anime… Sono giorni di gioia spirituale intensa, perché in essi noi possiamo ascoltare con maggiore diligenza, con più viva e fertile attenzione la dolce e affascinatrice parola di Gesù, padre, maestro, guida, cibo, vita della nostra vita. – Ascoltiamo ancora la parola dell’ispirato loro autore, S. Ignazio, il quale così li definisce: «Per esercizi s’intende qualunque modo di esaminare la coscienza, di meditare, di contemplare, di orare vocalmente e mentalmente e di altre spirituali operazioni, allo scopo di preparare e disporre l’anima a togliere da sé tutte le affezioni disordinate, e, dopo di averle tolte, a cercare e trovare la divina volontà, circa la disposizione della propria vita e la salute dell’anima » (Exerc., 18 annot.).

LO SCOPO DEGLI ESERCIZI.

Come limpidamente scaturisce da questa definizione, duplice è lo scopo degli esercizi. Il primo fine è negativo, e consiste nell’allontanare e togliere le affezioni disordinate, nel purificare l’anima dai peccati. Per questo sono di necessità evidente la meditazione e l’esame di coscienza. – Il secondo fine è positivo, e consiste nel cercare di conoscere e nell’eseguire la senta volontà di Dio, circa la disposizione della propria vita e la salute dell’anima. Press’a poco si espresse S. Vincenzo de Paoli: « Di tutti i mezzi che Dio presenta agli uomini per riformare i disordini della vita loro, non ve n’è alcuno che abbia prodotto effetti più magnifici, più copiosi, più meravigliosi degli Esercizi spirituali ». S. Francesco di Sales, nel Trattato dell’amore di Dio (XII, 8) ha un pensiero quasi identico e, ad ogni modo, proprio chiarissimo, Ecco: « Dovrebbe fare ciascuno, ogni tanto, un buon ritiro, per stimolarsi con esercizi spirituali alla completa riforma della propria vita, per prendere poi una sentita e ferma risoluzione di vivere interamente per Dio ». – Molto a ragione, perciò, tutti i Fondatori e Superiori di Ordini e Congregazioni religiose, hanno prescritto, fino al mio caro santo Padre don Bosco, gli Esercizi spirituali ogni anno, dai sei ai dieci giorni, per il più sollecito rinnovamento spirituale e per il più facile raggiungimento della perfezione religiosa.

GLI ESERCIZI E LA VITA INTERIORE.

L’anima che cerca di fare bene i giorni de’ santi spirituali esercizi, col raggiungimento del primo fine negativo, cioè l’allontanamento e la cancellazione delle affezioni disordinate, riesce ad avere il regno di Dio in sé… poiché, tolto il peccato e le sue affezioni, regna l’amore. Ricordiamo le parole di Gesù: « Il regno di Dio è dentro di voi. Se alcuno mi ama, sarà amato dal Padre mio, Noi verremo a lui e metteremo in lui la nostra fiducia » (Luca, XVII, 21 – Giov., XIV, 23). Possiamo pensare ad un’unione più intima, più ferma e forte di questa? — Ma, perché Gesù si dona a noi in queste circostanze, con sì grande generosità? Perché Gesù Creatore si degna di vivere con la sua povera e misera creatura? — Per l’amore che ci porta, solo per l’immenso amore che ha per le anime nostre. Rimarrà, adunque, ed abiterà in noi, per santificarci, illuminando, adornando, trasformando la nostra anima in un lembo di Paradiso. Ecco il motivo dell’affermazione di S. Agostino: « Noi siamo un cielo!». – Di più. Rimarrà ed abiterà in noi, Gesù, per renderci felici, saziando l’inestinguibile sete di felicità e di amore delle nostre anime. Sazia la nostra avidità di sapere, di conoscere e perciò di amare Lui solo; come amore unico e vero, colma i desideri e le brame del nostro cuore. Per indurre le anime alla frequenza e alla pratica dei SS. Esercizi spirituali, il S. Padre Pio XI ha emanato la preziosa Enciclica: Mens nostra, nella quale, fra i molti suggerimenti, dichiara che: Negli Esercizi spirituali i doveri, i pericoli, le gioie, i dolori i rapporti dell’anima con Dio, si guardano con sguardo penetrante e ne derivano impulsi al bene di cui è facile apprezzare tutta la preziosità… Giovano molto gli Esercizi spirituali, l’abbandono almeno momentaneo, del mondo, del comune, del solito della vita, per raccogliersi nella solitudine e nel silenzio, per fare attenzione a se stessi, al proprio passato, presente ed avvenire… È durante questo tempo felice che abbonda la parola di Dio, abbonda la preghiera, questo duplice specifico che conduce le anime a Dio. Ed ha voluto arricchire con speciale indulgenza plenaria i soci dell’A. C. che vi partecipano.

DISPOSIZIONI NECESSARIE.

Leggiamo nel Vangelo di S. Marco che, alcune volte, il Signore si compiaceva di chiamare vicino a Sé gli Apostoli per sapere dalla loro bocca le notizie del loro ministero. Altre volte, invece, gli Apostoli andavano da Gesù spontaneamente, per una specie di rendiconto personale, e dicevano con gioia filiale e compiacenza intima quanto avevano fatto, detto, visto… Gesù rimaneva preso di pietà per loro, perché li vedeva troppo occupati, e anche troppo assiepati da tante persone indiscrete che andavano e venivano e non ne avevano mai a sufficienza. Per questo, Gesù, un giorno, disse loro: Venite seorsum în desertum locum et requiescite pusillum (Marco,VI, 30-31), e cioè: venite in disparte, in unluogo solitario, e riposatevi un poco…Tale bontà gentile e dolce e premurosaGesù ripete con ciascuno di noi, quandoci dà occasione di fare i SS. Spirituali Esercizi.Allora, appunto, vedendo ciascuno dinoi stanco, affaticato, e, sempre circondatoe pressato da mille occupazioni e preoccupazioni,ci fa sentire il suo dolce invito. Ilquale invito dev’essere da noi precisatocosì: Gesù vuole darci un riposo spirituale.Perciò ci trae in disparte; in modo che lepersone e le occupazioni non ci raggiungano;in un luogo solitario, ove cioè nonabbiamo ad incontrare un altro mondo; eci comanda di riposare per un poco. Il riposofisico è sempre necessario. Guai se mancasse!Egualmente si deve dire del riposospirituale. Durante questo riposo…, per ilvuoto fatto attorno a noi e dentro di noi,potremo ascoltare bene la voce del Signore…Ci sentiremo ripetere: Fili, audite me: timorem Domini docebo vos…: Ascoltatemi,o figlioli, v’insegnerò a temere il Signore…Sentiremo la voce del Padre Celeste checi dirà, come agli Apostoli sul Tabor, indicandoGesù: Ipsum audite – Ascoltate Lui,Gesù, il Maestro… e obbeditegli…

LAVORO PERSONALE.

Non basta che Gesù parli. Non basta che noi l’ascoltiamo. È necessario che, noi pure, parliamo a Gesù, e operiamo. Come, e che cosa? Poche parole di schiarimento. Non basta cercare i peccati, mortali e veniali; non basta fare una buona confessione generale, annuale, mensile o settimanale. Tutte cose buone e utilissime di certo, anzi necessarie. Ma con questo accade sovente che molte anime pie non si occupino d’altro, durante tutto il tempo degli Esercizi, che della ricerca… dei loro peccati. Non neghiamo che sia possibile e, qualche rara volta, doveroso, anche questo! Ma questo non può e non deve ripetersi, ogni anno, durante i sei, sette, otto o dieci giorni d’esercizi. In questi casi v’è un inganno palese del nemico delle anime. Non lasciamoci mettere in trappola. Continuando così andiamo, a grandi giornate, lontano dal Signore, e facciamo contento il nemico di Dio e delle anime nostre. Gesù vuole che gli parliamo e che pensiamo Lui, con fiducia, confidenza, amore, abbandono… Vuole, sì, che facciamo l’esame o gli esami, ma senz’agitazione, dolcemente, pacificamente… Via, dunque, il rimestio scrupoloso e inconcludente delle nostre infedeltà! Abbandoniamoci, realmente, nelle mani di Gesù e lasciamo ch’Egli operi… Noi prepariamo, come San Giovanni Battista, le vie del Signore… poi ascoltiamo Gesù che ci dirà: lasciami fare… – Alcune anime errano per un’altra causa. Pensano, cioè, che l’esito degli Esercizi dipenda tutto e interamente dai predicatori. È noto che gli esercizi ginnastici militari sono comandati sì dall’istruttore, ma vengono eseguiti dai soldati. Così precisamente è degli esercizi spirituali. Ciascuno deve pensare e provvedere a lavorare la sua anima da sé e per sé. Tanto è così che, secondo il pensiero di S. Ignazio, non si dovevano fare prediche, ma soltanto fissare gli argomenti e i punti di riflessione agli esercitandi. La guida, o la direzione spirituale, è certamente sempre non solo utile, ma presupposta e necessaria.

CONSIGLI PRATICI.

Per il buon esito degli esercizi spirituali, i maestri di spirito suggeriscono i seguenti mezzi:

1) Il proposito fermo, deciso, ripetuto ai piedi di Gesù in Sacramento di voler far bene gli esercizi.

2) L’osservanza esatta del regolamento degli Esercizi. Questo regolamento è il frutto del sapere e dell’esperienza di anime generose e sante.

3) La custodia scrupolosa del silenzio. Senza il silenzio non v’è raccoglimento, non v’è ritiro spirituale.

4) Ascoltare i discorsi, o le prediche, degli esercizi, con attenzione e con umile docilità di cuore, procurando di applicare direttamente a noi stessi quanto viene detto o predicato.

5) Impiegare il tempo libero a riflettere su le istruzioni e le buone ispirazioni, ad esaminare lo stato della nostra coscienza; ad eccitare in noi il dolore e a prendere propositi fermi ed efficaci. Il frutto degli esercizi dipende, soprattutto, dal buon. Impiego del tempo libero. Non bisogna, infatti, mai dimenticare che esso consiste principalmente nel trattenersi che l’anima fa con se stessa e con Dio.

6) Scegliere il Confessore: che meglio ci aiuterà a rinnovellare l’anima nostra… e a lui confidarci per ben mettere in sesto, e al più presto, la vita del nostro spirito.

7) Infine, in qualunque condizione possiamo trovarci, abbiamo fiducia senza limiti nella bontà e misericordia di Dio (1).

Solo così gli Esercizi ci faranno veramente vivere la vita di Gesù in unione con Lui!

(1) Affinché gli Esercizi Spirituali possano produrre veramente ottimi frutti ci permettiamo suggerire alcune norme pratiche.

I.

NORME PER LA RIFORMA

VOGLIO SALVARE L’ANIMA MIA.

1° Tutti i giorni: le preghiere; quali: la Santa Messa, Comunione, lettura spirituale, il rosario, l’esame di coscienza.

2° Confessione con spirito di fede; con quale frequenza; direzione spirituale.

3° Doveri del proprio stato con esattezza, con costanza, con spirito di fede.

4° Fuggire le occasioni ed i pericoli: persone, ritrovi, letture.

5° Non operare mai a caso, ma sempre con fine santo e con franchezza.

6° Quale virtù voglio praticare in modo speciale.

7° Quale massima mi servirà meglio di stimolo alla virtù.

II

COME OCCUPARE IL TEMPO LIBERO.

1° Nello scrivere le ispirazioni ricevute ed i propositi fatti nella meditazione.

2° Nell’orazione, secondo la particolare divozione di ciascuno, specialmente in ferventi colloquii davanti al SS. Sacramento.

3° Nel conferire col Confessore e col Direttore degli Esercizi.

III

DI CHE SI PUÒ TRATTARE COL DIRETTORE DEGLI ESERCIZI O, ANCHE, COL DIRETTORE SPIRITUALE.

1° Dello stato in cui si trova il cuore: se è tutto disposto a fare la Santa Volontà di Dio o se è attaccato a qualche cosa.

2° Della facilità, o difficoltà che si trova nelle meditazioni e quale meglio e quale meno bene vi sia riuscita.

3° Delle distrazioni, agitazioni e tentazioni nel meditare ed in altri tempi della giornata.

4° Della prontezza o negligenza nel raccogliersi, animarsi e ribattere il nemico.

5° Delle consolazioni, illustrazioni e buoni desideri che Iddio ci ha dato nel meditare o in altri tempi.

6° Della prontezza o ripugnanza che sentiamo nel risolverci a vincere noi stessi e rispondere alle ispirazioni di Dio.

LA VITA INTERIORE (9)

LE VIRTÙ CRISTIANE (19)

LE VIRTÙ CRISTIANE (19)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay ; MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO VIII.

La virtù della pace cristiana

Il Signore Gesù, stando tuttora sul monte delle beatitudini, disse, per nostra salute e consolazione, anche queste altre dolcissime parole: Beati i pacifici. Sono parole che ci suonano all’orecchio come l’eco dell’inno che gli Angeli cantarono intorno alla grotta di Betlem: sia pace agli uomini di buona volontà. Sono parole, che ci ricordano altresì il saluto di Isaia al Redentore aspettato: “Tu Dio, tu forte, tu principe della pace.” Oh quante volte poi, pensando a questa beatitudine della pace, si affaccia alla nostra mente il dolcissimo mistero dell’umana Redenzione, e ci occorre alla memoria: l’Angelo, che venne in terra col decreto / della molt’anni lagrimata pace, / Ch’aperse il Ciel dal suo lungo divieto. (Purg. X.). Sant’Agostino e san Tommaso insegnano la pace cristiana essere tranquillità nell’ordine; e altri dicono anche più esplicitamente che pace è tranquillità sicura dell’animo, non turbato da passione. In questo senso la pace cristiana non è quiete inoperosa e sonnolenta d’un animo pigro, ma è nobile e santa virtù che procede dalla carità di Dio in noi, e riluce nelle anime buone, come un riflesso di Dio infinitamente ordinatissimo, e cagione prima di ogni ordine nelle sue creature. Or questo abito virtuoso dell’animo che ci costituisce cristianamente pacifici, benché il Signore lo chiami e sia vera beatitudine, non si acquista senza difficoltà. E però la nostra pace interiore, consolatrice, come un raggio di sole mattutino dopo le tenebre della notte, è sempre frutto di molte battaglie, combattute nell’intimo del cuore, e di molte vittorie ottenute, per effetto della grazia celeste e degli sforzi incessanti del nostro libero volere. L’ uomo, dopo il peccato d’origine, appena che esce di fanciullezza, incomincia a sentire, grado grado, nell’animo alcuni moti disordinati, ai quali si addice il nome di passioni. Quasi sempre sono moti che nascono dall’amare e dal desiderare o beni apparenti e fugaci, o beni, che in alcuni casi determinati sono per noi veri mali, o infine beni, ai quali debbono prevalere altri di ordine superiore. Or queste passioni, quando non sieno presto soffocate, riducono in servitù la libera nostra volontà, e però la avviliscono e la prostrano. E non basta. Le passioni agitano e turbano siffattamente l’animo nostro, che esso diviene, come un mare in tempesta, il quale, agitato da venti contrarj, infuria, spumeggia e ribolle. Son tutti moti questi, che ciscun uomo ha sperimentati certamente in sé stesso, sempre che si sia lasciato dominare da qualsiasi passione ardente. Or come mai un animo in tempesta, potrebbe sentire in sé pace, se la pace è quiete serena? Come mai il disordine delle passioni potrebbe amichevolmente congiungersi con la pace, se la pace è ordine supremo di pensieri, di desiderj e di affetti? Da ciò segue che gli uomini, signoreggiati da passioni, anche che godano di molti piaceri, pace vera e piena non hanno mai, secondo l’insegnamento dello Spirito Santo: “Gli empj sono come mar procelloso, che non può stare in calma, i flutti del quale ridondano di sordidezza e di fango. Non v’è pace per gli empi, dice il Signore.” (Isai., LVII, 20;.21). – Il buon Cristiano, per lo contrario, sa che la pace egli non la può conseguire se non ordina tutt’i pensieri, i desiderj e gli affetti dell’animo; e quest’ordine ei lo trova solo nel mettere alla cima di tutt’i beni desiderabili il Bene sommo, e nel convincersi, che ogni bene finito, sia pure dilettosissimo, quando ci mette contro al Bene sommo, o anche soltanto da esso ci separi, indubbiamente riesce fonte di turbamento interiore e ci priva della pace desideratissima. Alcuni uomini, che si credono sapienti e non sono, scambiano quell’appagameto momentaneo, che si ha dal piacere, con l’appagamento dolce, sereno e costante della pace. Quel primo si può conseguire anche col peccato, anzi l’uomo d’ordinario pecca per conseguirlo: questo secondo è frutto di Spirito Santo, di grazia e di virtù. Non deriva quindi dal piacere, anzi assai delle volte è compagno del dolore pazientemente sopportato, e nobilitato dai pensieri e dagli affetti di religione. La pace cristiana si tripartisce, o piuttosto ha tre aspetti diversi, secondo che l’uomo lo consideriamo nelle relazioni che ha con Dio, con se stesso o col prossimo. Però il Cristiano, cui fu concessa da Dio la beatitudine di essere pacifico, ha pace con Dio, pace con sé medesimo e pace col prossimo: e non sono tre beni o tre virtù differenti, ma un solo bene e una sola virtù, la quale, come avviene talvolta della luce, si tripartisce in tre raggi concentrici. Il peccato mortale, in quanto è supremo disordine, mette l’uomo in guerra con Dio, ordinatissimo Creatore dell’uomo, e istitutore della legge morale che lo governa. Or bene il primo sintomo di questa guerra della creatura ragionevole contro il suo Creatore, la creatura lo prova in una cesta puntura che sente nell’animo, perché riconosce il proprio fallo, se ne angoscia, se ne turba, e quasi si trova a disagio con sé medesima, onde le pare che gli si sia posto a lato un avversario. Questa puntura chiamiamo rimorso. Ebbene il rimorso ci toglie la pace: però chi ha la coscienza dilacerata da esso, non ha pace con Dio. Per lo contrario chi, seguendo la legge di Dio, vive nell’ordine morale, costui trova nella quiete della coscienza, e in un certo suo appagamento misterioso che gli viene dall’obbedire al suo Creatore e Redentore, la pace con esso. Sente che Iddio gli è amico, e come si fa con amico, gli sta vicino, e si compiace di lui, che lo ama e lo invita ad amarlo. Laonde ha con Lui e in Lui dolce pace; una pace, che è appena un saggio di quella, onde parla Piccarda dei Donati a Dante in Paradiso, dicendo di Dio: In la sua volontade è nostra pace /  Ella è quel mare, al qual tutto si muove.(Par. III, 85 e seg.). L’uomo, per aver pace con sé medesimo, è bene che pieghi un tratto lo sguardo sopra di sé, e si sforzi di ben conoscersi. La persona umana di ciascun di noi è indubbiamente una; ma quante diverse cose compongono cotesta misteriosa e mirabile unità!. La persona mirabilmente una ha l’anima e il corpo; due sustanze non solo differenti, ma per alcuni rispetti opposte. E il corpo si compone di moltissime parti, le quali hanno ciascuna diverse attitudini, e propensioni differentissime. – L’anima poi della stessa persona umana apparisce anche più ammirabile e varia. Ha un intelletto che pensa, deduce, paragona, sillogizza, e dai primi veri, conosciuti per luce dataci da Dio nella creazione, ne trae innumerevoli altri; una volontà libera quanto ai beni particolari e finiti, ma sempre congiunta al bene generalmente considerato. E intanto essa volontà, ora vuole, ora disvuole le medesime cose; e vuole altresì diversi beni insieme, e spesso nel volere si contraddice. Questa medesima persona umana ha una memoria, che ci ricorda il passato, anzi ce lo fa presente e ci fa vivere in esso; ha una fantasia, la quale ci presenta immagini, a volte liete, a volte funeste, ora sante e ora ree, e spesso ci dipinge con colori leggiadri le cose che ci rappresenta, spesso ce le oscura e imbruttisce; e intanto quasi sempre ci commuove e c’infiamma. Questa medesima unica persona è così fatta da natura, che ad ogni atto dell’intelletto, prende parte la volontà; onde l’uomo pensa d’ordinario perché vuole pensare; e a ogni atto della volontà prende parte il pensiero; perciocché ogni atto della volontà è un pensiero. La fantasia poi e la memoria si uniscono quasi sempre all’intelletto e alla volontà, essendo certo che il pensiero e la volontà o derivano dalle cose immaginate e ricordate, o almeno con esse amichevolmente s’ accompagnano. – Ebbene, poiché l’unica persona di ciascun uomo ha tante diverse parti, tante svariate facoltà, tanti inchinamenti o diversi o opposti; è evidente che l’uomo ha bisogno, per vivere in pace con se stesso, di mettere ordine in tutte le cose che lo costituiscono uomo. Tutto ciò che è da meno, dev’essere soggetto a ciò che è da più; il corpo dunque deve servire all’anima: nell’anima le varie facoltà si debbono consociare e armonizzare amichevolmente e tendere tutte al medesimo scopo. Senza di ciò, l’uomo sentirà dentro di sé un’aspra guerra; e la pace, da lui tanto desiderata, non la troverà mai. Né la soggezione, la consociazione e l’armonia, di cui s’ è parlato, noi possiamo conseguirle senza sforzi di volontà e ajuto di grazia celeste; perciocché è indubitato che, per effetto del peccato la ribellione e la disarmonia spuntano nelle persone umane sino dalla fanciullezza, crescono nell’adolescenza, e diventano possenti nel fervore dei più begli anni della vita, che sono gli anni della giovinezza. – Né ciò basta. Un altro ostacolo gravissimo, anzi maggior nemico della pace, che l’uomo brama di avere con sé medesimo, è il dolore fisico e morale. Il dolore, poiché è figlio del peccato, muove continua guerra alla nostra pace, figliuola prediletta della virtù e dell’unione con Dio. Invero essendo stato l’uomo creato da Dio per godere; il dolore gli ripugna, lo turba, lo provoca a sdegno; e dunque gli rende assai malagevole il conservare dentro dell’animo il tesoro della pace. Ma qui appunto riluce il miracolo della grazia divina e degli insegnamenti di Gesù Cristo. Il buon Cristiano, a poco a poco, si avvezza a vincere, e a santificare nella pazienza il dolore. E allora egli o non perde la pace interamente, o se talvolta disgraziatamente la perde al primo impeto del dolore, poi la riacquista presto; e dell’averla perduta sente amarezza. I perfetti però, e solo i perfetti, si rendono così tetragoni al dolore, che non perdono mai la pace, anche che il dolore dovesse loro togliere la vita. Il Signore anzi li trasforma così che la pace loro, ancorché soffrano molto, racchiude una certa spirituale dolcezza, di cui, solo essi hanno esperimento. – Infine il buon Cristiano gode altresì la beatitudine di essere pacifico col prossimo. Certo, anche per questo rispetto il buon Cristiano incontra molti intoppi per via, e, senza ajuto di grazia, s’accascia e vien meno a mezza strada, come chi è stanco del lungo cammino percorso, e dell’erte e dei dirupi e degli scoscendimenti incontrati per via. Ma, s’egli è veramente in pace con Dio, e con sé medesimo, già la via gli è spianata, e gli ostacoli o quasi non li incontra. o, incontrandoli, li supera con minime difficoltà. – Assai spesso avviene che il prossimo, volendolo o no, ci spinga a guerra piuttosto che a pace. Chi potrebbe mai noverare per quanti modi i nostri fratelli possano tentare di rubarci il tesoro della nostra pace? Talvolta l’indole differente, talvolta la villania o rustichezza dell’animo altrui, talvolta le ingiurie e il male fattoci dal prossimo, più spesso l’ingratitudine dei beneficati; insomma le passioni umane dei nostri fratelli, le quali fervono e ribollono così facilmente, ci stimolano a perder la pace. Chi non sa quanto sia difficile il vivere in pace con tutti? Chi non sa che ci ha alcuni, i quali si di dilettano del contraddire, del punzecchiare, dell’inasprire e del guerreggiare? – Chi non sa che in modo particolare l’egoismo, l’orgoglio e l’invidia quasi sempre eccitano gli uomini a mettersi contro dei loro fratelli, e a turbarne la pace? E nonpertanto, se vogliamo vivere da buoni Cattolici, noi dobbiamo esser tetragoni contro tutti gli assalti e le tentazioni nemiche, e non perder la pace mai mai. – Ma per raggiungere questo gran bene, abbiamo bisogno di molto e piamente orare, e di aver piena signoria di noi medesimi; abbiamo bisogno di abituarci al sacrificio: e principalmente ci è necessarissimo l’ajuto possente della divina grazia. – Un ajuto particolare però ci può venire da una considerazione, che mi si affaccia spesso alla mente, e che è questa: un buon Cristiano si ha da avvezzare a conoscere e a tenere in gran conto la propria dignità, una dignità regale e in certo senso anche sacerdotale, come insegnano le Scritture sante. San Pietro in vero nella sua prima lettera, anche dei semplici fedeli dice: “Voi stirpe eletta, sacerdozio regale, gente santa, popolo di acquisto” (I Piet. II, 9). Ora appartiene a cotesta dignità del Cristiano che ciascuno possa dir di sé che le creature umane, le quali, quanto alla natura e alla sostanza, sono tutte eguali o inferiori a lui, non han potere né forza di dominarlo in ciò, e di togliergli il dono interiore e prezioso della pace, che Iddio gli ha dato. Se un malvagio un ingrato, un villano, un insolente, un burbero han potere e forza di togliermi la pace dell’animo; essi, dunque, in quel fatto imperano all’animo mio; ed io, se perdo la pace, divento loro servo. Perché dunque concederlo loro? Sono io da meno di essi? Rispondo dunque a tutti coloro, che tentano, con le loro passioni di togliermi la pace: non voglio,; e se ho il coraggio, e la forza di farlo, mi sento grande, e mi si accresce dentro il sentimento dalla propria dignità. In vero quando gli uomini passionati o vili muovono intorno a me la tempesta, e la eccitano per mettere anche me in tempesta; è supremamente bello il vedere, che io resto serenamente tranquillo, in mezzo all’infuriare delle onde nemiche. Il poter restar, come rupe ferma che non crolla, tra i marosi che ci circondano, ci fa veramente grandi – Le medesime cagioni, onde l’uomo perde la pace con Dio, con se stesso e col prossimo, infiammano talvolta siffattamente i reggitor dei popoli, che si fanno promotori ed eccitatori del terribile flagello della guerra. Io non posso tacere che mi riesce supremamente mesto e angoscioso il pensiero, che diciannove secoli di Cristianesimo non siano ancora bastati ad allontanare, almeno dalle nazioni che diconsi civili, le rovine inenarrabili delle guerre. So che alcuni disperano che esse siano mai per finire, e altri per lo contrario sperano che lo spirito cristiano, penetrando, grado grado, nelle umane coscienze, le illumini, le infiammi e le fortifichi in modo, da rendere impossibili le guerre tra i popoli civili. Io mi metto di buona voglia con gli speranzosi, sia perché mi è caro lo sperare sempre, e, come diceva san Paolo, anche contro ogni speranza, sia perché penso che il Cristianesimo, che, tra le altre cose, ha abolito la schiavitù, la poligamia, e il divorzio, contiene in sé forze e virtù oggi, ancora ignote alla natura umana. Solo il progresso dei tempi ci può rivelare quali e quanti germi di progresso anche civile siano nascosi nell’ Evangelo. Se nella natura fisica ci erano tante doti nascoste che la scienza è venuta e verrà traendo fuori; chi può dire quanti beni nascosti la sapienza e la carità cattolica trarranno dall’albero della vita che è il Cristianesimo? – Ma che sia di ciò, le guerre, o che le eccitino i principi o i loro ministri o le repubbliche o le passioni popolari; io le giudico una grandissima aberrazione del genere umano. Possibile che, tra tanta luce di scienza e di civiltà, l’umano intelletto non giunga a conoscere in cose gravi, dove sta la giustizia e dove l’ingiustizia? – Possibile che, tra tanti tribunali per decidere le controversie degli individui, non ne possa sorgere uno che risolva le controversie tra le nazioni? Certo oggidì le guerre son diventate più rare; ed è principalmente per effetto del Cristianesimo, che a poco a poco, e spesso invisibilmente, spesso contro il volere dei sapienti del mondo, e dei reggitori degli Stati, penetra nella coscienza dei popoli cristiani. Ma di questo diminuir delle guerre ci ha forse un’altra cagione, che, posta dagli uomini liberamente, è stata dalla divina Provvidenza ordinata al bene. A poco a poco coloro, che desiderano, vogliono e impongono le guerre negli Stati civili, non son più gli stessi uomini che le fanno. Nei tempi andati i più forti, i più audaci, i più passionati si univano per guerreggiare essi stessi contro altri egualmente forti, passionati e audaci, che avevano, in un caso determinato, desiderj e passioni opposte a quelle dei primi. Oggidì no. Sono alcuni uomini quasi sempre ricchi, e amanti del comodo e dilettoso vivere, che, riuniti in un parlamento e in un consiglio di ministri, eccitati spesso da comprate effemeridi, risolvono di comandare ad altri uomini di farsi ammazzare essi, ed ammazzar altri, per ragioni che i guerreggianti quasi sempre non intendono, e alle quali forse non avevano neanche pensato. Ho conosciuto io stesso alcuni soldati Italiani che sono andati a morire in Africa, non dico solo senza sapere perché mai dovevano esporre la loro vita, ma ignorando, sino a pochi giorni prima, che nell’universo ci fosse un continente nero, che è detto Africa. Or tutto questo è in troppo evidente contraddizione col Cristianesimo, per dovere ancora durare lungamente. Io ho ferma fiducia, che la luce di Cristo e del suo Vangelo, luce che illumina tutto il mondo, finirà per dileguare da esso queste tenebre: ho ferma fiducia che i Cristiani capiranno che è insipiente, è crudele e barbaro, che alcuni uomini tranquillamente decidano che altri si facciano ammazzare, ed essi restino a godere e che a cotale barbarie, mascherata di civiltà, si dia il nome di giustizia. Io ho ferma fiducia che tutto ciò non si possa unire a lungo con la fede nell’insegnamento di Cristo: “Amatevi gli uni gli altri come io vi amai”. – E ora, uscendo di digressione, ritorno alle soavi parole di Gesù: “Beati i pacifici, perciocché saranno chiamati figliuoli di Dio”; vi ritorno dico per commentarne le ultime. Come nelle precedenti beatitudini, così anche in questa, la seconda parte del versetto si riferisce principalmente all’eterna beatitudine, che conseguirà in Paradiso chi si è sforzato di praticare la virtù espressa nella prima parte del versetto. Or qui è chiaramente insegnato che coloro, i quali avranno in terra la virtù di essere pacifici secondo Gesù Cristo, acquisteranno nel Cielo verissimamente e pienamente la figliolanza di Dio. Non saranno più figli di Dio, come sono in questa terrestre peregrinazione, turbati incessantemente dal dolore, dalle tentazioni, dagli errori; non più come oggi figliuoli di Dio, pieni di desiderj insoddisfatti, ondeggianti sempre tra timori e speranze, angosciati da quegli stessi amori, che sono più santi e desiderabili. Ma saranno figliuoli di Dio, che, per mezzo della pace cristiana, son giunti alla beatitudine eterna, e son diventati figliuoli similissimi a Lui, e beati della sua stessa piena e inesauribile beatitudine; figliuoli santi di un Padre infinitamente santissimo, figliuoli sapienti di un Padre infinitamente sapientissimo, e infine figliuoli buoni e figliuoli amanti dell’eterna Bontà e dell’eterno Amore. Se non che, anche nella presente vita, l’uomo cristianamente pacifico si sente in qualche maniera partecipe della beatitudine eterna, a cui aspira, e figliuolo di quell’Iddio, che è Egli stesso eternamente pacifico, e autore della nostra pace. Il Cristiano, che ha pace con Dio, con se stesso e con il prossimo, non è certo ancora beato in questa terra di dolore e di esilio, ma sente in sé un saggio di quella beatitudine; perciocché la pace, mentre non è intera beatitudine, è un principio di essa e un avviamento a conseguirla. La cosa è tanto vera, che se avviene talvolta d’incontrarci in un uomo che conservi la pace tra i dolori e le tempeste della vita, lo diciamo beato, e quasi ei ci riesce cagione di santa invidia. Allora ciascuno di noi sente profondamente in sé stesso ciò che scrisse della pace Sant’Agostino nella Città di Dio: “Tal bene è il bene della pace che, tra le cose create, nessuna è più gioconda di essa, nessuna si desidera con maggior diletto, nessuna si possiede con maggiore utilità. Invero lo spirito umano mai non vivifica i membri del corpo, se essi non sieno uniti. Parimenti lo Spirito Santo non vivifica mai i membri della Chiesa, se essi non sieno uniti in pace.”

LA VITA INTERIORE (7)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (7)

Sac. Dott. GIOVANNI NATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna, Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione, Riveduta.

GLI ESERCIZI DI PIETÀ

LA PRESENZA DI DIO

PRELIMINARI.

Ecco una grande, dolce, confortevole verità: noi viviamo, ci moviamo ed esistiamo in Dio (Att., 17, 28). S. Tommaso d’Aquino, mentre per Ordine del papa Gregorio X, recavasi al IV Concilio di Lione, che si doveva aprire il 19 aprile 1247, fu colpito improvvisamente dalle febbri palustri, e dovette fermarsi ospite dei monaci cisterciensi nel loro convento di Fossanova ove morì il 7 marzo 1274- Come una lampada prima di spegnersi suole dare guizzi e fulgori più vividi e più intensi, così Tommaso dal letto ove mori ricambiò la carità di quei monaci esponendo loro brevemente il Cantico dei Cantici, e dando privatamente consigli a quelli, fra di loro, che ne lo pregavano. – Un giorno penetrò timidamente nella cella di Tommaso un monaco, il quale così disse: « Datemi, o padre santo, una regola sicura di condotta: ditemi una parola che sia la salvezza, la santificazione dell’anima mia ». San Tommaso, senz’esitare, così rispose: « Pensate, o fratello, spesso, alla presenza di Dio; quest’è il mezzo più efficace per vivere e morire bene ». – Però, prima di Tommaso, Dio stesso aveva dato questa stessa lezione, nelle pianure della Caldea, al suo fedele servo Abramo: Ambula coram me et esto perfectus: cammina; cioè, alla mia presenza e tu sarai perfetto.

Come DIO È PRESENTE A NOI?

Ma: come Dio è presente a noi? Come noi siamo presenti a Dio? È rima di dare una nostra risposta, crediamo ottima cosa riferire una bella pagina del P. Plus: « Fra le differenti maniere in cui Dio è presente nel mondo, ve n’è una, in modo particolare, che fornisce la sorgente per eccellenza dell’intimità (cioè: dell’unione con Dio). Noi vorremmo… spiegarla e metterla in piena luce, se fosse possibile: la presenza di Dio in noi per mezzo della grazia. » Dio, ci dice il Catechismo, è presente dappertutto. Questa presenza universale, questa onnipresenza, impressiona molto certe anime, ma in piccolo numero. Per la maggior parte, essere dappertutto, equivale a non essere in nessun punto, ed eccettuati alcuni santi, la massa non arriva a comprendere come mai possa generare l’intimità (la vita interiore) una presenza impersonale, difficile a concepirsi, la stessa per il peccatore e per il giusto, che risulta unicamente dal fatto della creazione. » Dio, inoltre, è presente d’una presenza tutta speciale, in cielo. Ma è così lontano il cielo! Occorre una grande potenza d’astrazione per crearsi una intimità che non distrugga questa distanza enorme e perpetuamente esistente. Ciò valga per S. Tommaso, di cui dicono i contemporanei che camminava cogli occhi sempre rivolti al cielo, assorto nella contemplazione divina. Valga per S. Ignazio di Loyola che Lainez paragona a Mosè, perché pareva che parlasse faccia a faccia con Dio, e amava pregare, come dice il Padre Noceet, sui punti più elevati della casa, in cui abitava, in modo così di trovarsi più vicino al cielo. – » Dio è presente nell’Eucarestia, e questa presenza, benché anch’essa molto misteriosa, è assai più palpabile. Vediamo e sentiamo qualcosa che la garantisce alla nostra povera natura sensibile. Ciò che vediamo e gustiamo, è semplice apparenza; la realtà sfugge alla nostra percezione, ma questo poco basta a sostenere la nostra fede che sotto queste apparenze adora la realtà divina. E poi, la presenza eucaristica, nella Comunione, dura poco; ed io non posso fare della mia vita una visita perpetua al Santissimo Sacramento.

» Oltre queste tre maniere di presenza di Dio, ne esiste un’altra, molto più feconda, dal punto di vista che trattiamo. « Dov’è Dio? — fu chiesto a un fanciullo. — Nel mio cuore. — Chi ve l’ha messo? — La grazia. — Chi potrebbe cacciarnelo? — Il peccato. Queste risposte di un fanciullo, mentre mostrano una grande conoscenza della vera vita cristiana, riassumono la dottrina che ci sembra produrre l’intimità al suo ultimo grado.

» Di tutte le nostre attitudini, la più singolare è quella di saper passare accanto al meraviglioso, senza punto curarcene. La bellezza morale della vita di una sacrificio di una suora, lo splendore della Chiesa, la grandezza del Sacerdote chi la vede? Ma anche noi, noi Cristiani, siamo maestri nell’arte di non curarci affatto delle splendide realtà che portiamo con noi.

» Domandate a un battezzato che definisca lo stato di grazia. Vi risponderà: — Lo stato di grazia consiste nel non avere peccati mortali sulla coscienza. — Insistete: — Unicamente in ciò, secondo voi? — Si; non è forse sufficiente…? — Nella vostra spiegazione vedo bene che possedere lo stato di grazia significa non avere qualche cosa. Ma non vorrebbe anche dire: Avere… — Avere che cosa?… — Ecco, state bene attento: Dio presente e vivente in noi.

» È il dogma della Chiesa, la definizione del Catechismo, né più né meno ».

Fin qui il P. Plus.

DOTTRINA POCO NOTA.

Come si vede facilmente, questa dottrina è per noi consolantissima. Tuttavia, benché sia condizione fondamentale della nostra santa Religione, benché fonte della vera vita d’unione con Dio e germe di sicuro sviluppo e delle più grandi consolazioni è praticamente, quasi sconosciuta o, almeno, non produce tutti quei frutti che se ne potrebbero attendere. — Perché? Per molte cause. Una di esse è… la paura di parlarne per una specie di rispetto umano, quasi si trattasse di una dottrina e d’una pratica molto difficile e riserbata a poche anime. Il non parlarne produce l’inevitabile ignoranza. — Il Card. Mercier, nel 1914, pochi mesi prima della grande guerra, predicando gli esercizi spirituali ai sacerdoti della sua diocesi, così diceva: «È una verità che Dio vive in noi… Molti battezzati ignorano quel mistero profondo e, per tutta la loro vita ne rimangono come estranei… I Sacerdoti, cioè a dire quelli stessi ch’ebbero la missione divina di predicarlo al mondo, se ne lasciano distrarre, non vi pensano punto, e quando lo si richiama alla loro memoria, se ne meravigliano… Convenite, dunque, nel credere che Dio non vi abbandona finché, per il peccato mortale, voi non lo costringiate a fuggire. Fate atti di fede volontari, espliciti, frequenti a questa presenza reale e stabile di Dio dentro di noi stessi. Non ricercate Dio al di fuori, ma dentro voi stessi ov’Egli abita per voi, dove vi chiama, vi aspetta e soffre delle vostre dissipazioni e dimenticanze ». Tutti dobbiamo saperlo, ricordarlo a noi stessi, vivificarne il ricordo agli altri: noi siamo il Tempio di Dio vivente e portiamo Dio nel nostro cuore: per questo dobbiamo camminare alla sua presenza, vivere una vita degna dell’ospite che ci accompagna ovunque e, dovunque, ci vede.

MEZZI PER VIVERE ALLA PRESENZA DI DIO. – IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE.

Sono diversi:

1) Molte anime ricche d’immaginazione e facilmente impressionabili, giungono presto a isolarsi nell’intimità con Dio, pensando e contemplando il mistero della divina incarnazione. La santa umanità di Gesù Cristo le attrae, le eleva, le assorbe. Ora esse si trovano co’ pastori a Betlemme ed ora coi Re Magi, ora seguono Gesù sul Calvario ed ora sul Tabor; ripassano, cioè, la vita di Gesù nel loro spirito e cercano di fare tutto con Lui, per Lui, in Lui, e, per quanto è dato loro, come Lui. Di questo bellissimo metodo ci è maestro San Francesco d’Assisi. « L’Incarnazione, narra il suo biografo, pareva a lui, come a S. Paolo, il gran mistero di pietà in cui debbono incontrarsi Dio e l’uomo. Non l’aveva, forse, iniziato alla vita il Crocifisso colla sua parola e col suo esempio? Egli conosceva a fondo il Vangelo. La sua immaginazione delicata scopriva negli atti del Salvatore una folla di particolari che sfuggono a quelli che hanno una tenerezza meno sveglia. Tutta la vita di Gesù s’era disegnata e animata a poco a poco sotto il suo sguardo. Egli aveva compreso che Nostro Signore, prendendo la nostra natura e vivendo della nostra vita, ci eccitò con ciò stesso a camminare sui suoi passi e a imitare i suoi esempi. L’imitazione del Salvatore spinta il più lontano che sia possibile, gli era apparsa la legge della vita ».

LA SANTA GRAZIA.

2) Le anime austere, forti, molto portate alla riflessione pensano alla presenza di Dio in noi per mezzo della sua santa grazia. Di questo abbiamo già detto precedentemente. Ci limiteremo riferire qui quanto riguarda questa presenza; dice l’Imitazione di Cristo:

« Chi mi darà, o Signore, di trovarvi solo e di aprirvi tutto il mio cuore e di godere di Voi come desidera la mia anima? Ciò che io chiedo, ciò che bramo, è di essere unito a Voi interamente; e che io sia in Voi e Voi in me, e che questa unione inalterabile, Voi siete il mio diletto scelto fra mille, nel quale la mia anima trova le sue compiacenze e nel quale vuole dimorare per sempre… Allora Dio mi dirà: se tu vuoi essere con me, Io voglio essere con te. E io gli risponderò: degnatevi o Signore, di abitare con me: io bramo ardentemente di stare con voi, tutto il mio desiderio è che il mio cuore sia unito a voi” (De Imit. Chr., IV, XIII).

DIO CREATORE E CONSERVATORE.

3) Accanto a questi due primi mezzi, o metodi, che non sono facilmente raggiungibili da tutte le anime, ve n’è un terzo, ed è quello che ci fa pensare a Dio nostro Creatore e conservatore. Quale e quanta fu la bontà del Cuore divino nel pensare a me quando mi creò dal nulla! Quale e quanto grande è la bontà misericordiosa di Gesù nel conservarmi in vita, cioè nel ripetere in ogni istante come una nuova creazione del mio povero e miserabile essere!

« OMNIS MUNDI CREATURA… ».

4) Un quarto mezzo ci è dato dallo splendore delle cose create che ci parlano del Creatore. Come dice elegantemente San Paolo, le cose visibili sono fatte per trasportare al loro Autore invisibile. Non possiamo qui non ricordare quanto, anche in questo, fosse saggia maestra la buona mamma di don Bosco. È don Bosco stesso che narra: «In una bella notte stellata, uscendo all’aperto, mostrava il cielo e diceva: “È Dio che ha creato il mondo e ha messo lassù tante stelle. Se è così bello il firmamento, che cosa sarà del Paradiso?” – » Al sopravvenire della bella stagione innanzi ad una vaga campagna, ad un prato tempestato di fiori, al sorgere di un’aurora serena o allo spettacolo di un roseo tramonto, esclamava: Quante belle cose ha fatto il Signore per noi!”. – » Se si addensava un temporale e al rimbombo del tuono i fanciulli si aggruppavano intorno a lei: Quanto è potente il Signore, ripeteva, e chi potrà resistere a Lui? Adunque, non facciamo peccati!”. – » Quando una grandine rovinosa portava via i raccolti, recandosi coi figli a osservare il guasto: “Il Signore ce li aveva dati, osservava, il Signore ce li ha tolti. Egli ne è il Padrone. Tutto pel meglio, ma sappiate che pei cattivi sono castighi e con Dio non si burla!” – » Quando i raccolti riuscivano bene ed erano abbondanti: “Ringraziamo il Signore, ripeteva. Quanto è stato buono con noi, dandoci il nostro pane quotidiano”. Nell’inverno, quando erano tutti assisi innanzi ad un bel fuoco, e fuori era ghiaccio, vento e neve, non mancava di far riflettere alla famiglia: “Quanta gratitudine non dobbiamo al Signore, che ci provvede di tutto il necessario; Dio è veramente padre: Padre nostro che sei nei cieli!” ». – Questo modo speciale di sentire la natura e di vedere, in essa, Dio, non può essere disgiunto, è appena necessario il dirlo, dalla pratica della vita cristiana. – Mamma Margherita così parlava perché aveva il vero senso cristiano della vita. Questo stesso modo di sentire debbono avere i genitori nell’educazione santa dei loro figli. I frutti non potranno tardare. Non c’è colore di mare o di cielo, non profumo di fiore o di terra, non saporosità di frutto che possa sfuggire all’occhio e al cuore del fanciullo. Alla sua fantasia il giglio dei campi raggia come un calice, la spiga appare, nello steccato dell’arista, come una fortezza, e l’uva esulta nella molteplice corona delle sue foglie tripartite come una regina splendente di oro e di porpora. E l’acqua, a volta a volta, si tramuta: giallo oro tra le arene, spumeggiante tra gli scogli, verdastra tra i boschi, colorita tra i fiori, luminosa tra i gigli, rutilante tra le rose, scorrevole tra le erbe, torbida nella palude, nitida nella fonte, oscura nel mare. Ma orecchio e spirito ancora più intento il fanciullo ha per il canto: canto di usignolo nella notte, canto di gallo si primi albori, canto di eremita in isola deserta a gara con le onde, canto di popolo in chiesa… Oh! aveva ragione S. Ambrogio di esclamare: Omnis mundi creatura quasi liber et pictura! Libro e pittura di… Dio!

MEZZI CONVENZIONALI.

5) Giova pure moltissimo ad attivare la presenza di Dio in noi, il far uso dei mezzi convenzionali; ricordando, cioè, per esempio, la presenza di Dio al suono delle ore, od ogni volta che squillano i sacri bronzi, quando si fissa lo sguardo sul Crocifisso e… in mille altri modi che l’amore sa suggerire. In questi casi è buona cosa il recitare una pia giaculatoria, l’esprimere un atto di amore o di dolore, di detestazione del peccato, uno slancio dell’anima verso il Cuore divino di Gesù oltraggiato. « Questi slanci interni, dice San Francesco di Sales, non impacciano affatto, ma facilitano l’esecuzione di ciò che facciamo. Il viandante che prende un sorso di vino generoso per confortare il cuore e rinfrescare la bocca, benché si fermi un istante, non interrompe per questo il suo cammino, ma prende forza per compierlo più speditamente e più comodamente, non fermandosi se non per meglio camminare ».

LA LITURGIA E LA PREGHIERA.

6) Altro mezzo efficacissimo, è la conoscenza della liturgia e del suo spirito. Per essa tutto è indirizzato a Dio, tutto ci parla di Dio, delle sue perfezioni, de’ suoi benefici, del suo amore infinito, della sua tenerezza paterna, e in tutto troviamo la porta che ci conduce a Dio. « La liturgia, dice lo Chautard nel suo magnifico libro “L’anima dell’Apostolato”, è una scuola della presenza di Dio ». – Ancora. Dio è vicinissimo a quelli che lo pregano; anzi, se due o tre si raccolgono per pregare Egli ha promesso che si troverà subito in mezzo a loro. La Sacra Scrittura c’insegna che gli occhi di Dio sono rivolti a quei che lo temono e le sue orecchie sono sempre tese ad ascoltare le loro preghiere.

VANTAGGI PER L’ANIMA CHE VIVE ALLA PRESENZA DI DIO. – STIMA DELL’AMORE DIVINO.

1) Il primo, inestimabile, immensurabile vantaggio è la stima dell’amore divino, è l’aumento dell’amore, è la conoscenza e l’acquisto dell’amicizia con Dio. « Conforto di questa vita, dice S. Ambrogio (De off., I, 3), è che tu abbia l’amico a cui aprire il tuo cuore, a cui comunicare i tuoi segreti, che nelle prospere cose si rallegri teco e nelle tristi ti consoli ». Ma quale migliore Amico di Gesù. nel Santo Tabernacolo e ospite nella nostra anima? Il suo Cuore dolcissimo e nel tabernacolo e in noi « partecipa in grado eminente e senza alcuna imperfezione, nella sensibilità dell’umana natura. Anch’Egli prova un bisogno intenso d’amicizia: Iste Sponsus non modo amans, sed amor est » (Manete in dilectione mea – pag. 42).

2) Altro vantaggio della presenza di Dio è il distacco dal nostro «io» e dalle cose create. Questo vantaggio scaturisce limpidamente dal primo, dall’amicizia con Dio; cioè, più praticamente: il pensiero della presenza di Dio allontana dal male e rafforza nel bene.

Proprio per questo il santo don Bosco, ha disseminato sulle pareti delle sale di studio e di scuola cartelli con le parole: Ricorda che Dio ti vede, o: Dio mi vede, o: Dio ti vede. E non solo sulle pareti delle sale, ma su le stesse pareti della Casa e sugli archi dei corridoi perché il pensiero della presenza di Dio divenisse famigliare, e, quindi, santamente educativo e preservativo. Com’è umano che la presenza d’una persona costituita in dignità e in autorità imponga, ed ottenga, il rispetto, così, e tanto più, impone ed ottiene l’osservanza della legge di Dio, l’astensione dal peccato, l’aumento dell’amore di Dio, il pensiero della sua presenza. È nota l’esortazione di Seneca ai suoi discepoli; procurassero cioè: «di vivere sempre come se fossero sotto gli occhi di un personaggio potente e virtuoso ». E così diciamo delle parole di Virgilio a Dante: … se tu avessi cento larve / sopra la faccia, non mi sarien chiuse / le tue cogitazion quantunque parve (Purg., XV, 127-9).

DIO VEDE TUTTO.

Ma lo sguardo di Dio è assai più fine, più perspicace, più penetrante: Dio vede tutto. Egli vede gli affetti del cuore, co’ suoi movimenti e mutamenti; le pieghe del nostro spirito, la varietà e l’agilità del nostro pensiero; le inclinazioni della volontà e quelle della natura… Nulla gli sfugge e, perciò, tutto gli è sottomesso. – Se è così, come oseremo noi operare, parlare, pensare, giudicare, condannare, assolvere, quasi che Dio non ci vedesse? Dobbiamo, adunque, vivere con sentimenti conformi alla santità della sua presenza. – L’eremita Pafnuzio a chi lo tentava di peccato: « Volete che faccia il male? — disse — conducetemi in un luogo dove Dio non mi veda ». Dichiarazione precisa e ricca del più alto significato. Noi siamo più immersi nella presenza di Dio di quanto sia inzuppata d’acqua una spugna che giace nelle profondità marine. Occorre, quindi, vigilare su di noi stessi, giorno e notte, per non offendere Dio, mai, in nessuna maniera, poiché Egli è un padre affettuoso dal quale tutto abbiamo ricevuto e riceviamo: « Si dà quasi la definizione del vero Cristiano, disse il Card. Newman, quando lo si dice un uomo assorbito dal sentimento della presenza di Dio in lui…, un uomo che vive in questo pensiero: Dio è qui, nel centro del mio cuore: un uomo la cui coscienza è illuminata da Dio così che egli vive nell’impressione abituale che tutte le sue pene, tutte le fibre della sua vita morale, tutti i suoi motivi, tutti i suoi desideri, tutti i suoi sentimenti sono noti a Dio, più che non a se stesso ». – E se Dio è con noi, chi può essere contro di Dio? Fede, fiducia, confidenza, amore, abbandono nella santa presenza di Dio. Ecco la strada regia.

LE VIRTÙ CRISTIANE (18)

LE VIRTÙ CRISTIANE (18)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua, Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay – MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO VII

LA SESTA BEATITUDINE

La Virtù della Purità.

Dall’amore buono che vive nel cuore umano, come da nobilissima fonte, rampolla la virtù cristiana della purità; una virtù celestiale che accosta gli uomini agli Angeli. E di questa virtù appunto parlò il divin Maestro allorché disse: Beati coloro che hanno il cuore puro. Soavissima parola anche questa, e che ha consolato tante anime, e ha nobilmente purificati e santificati tanti amori! La virtù della purità si può considerare in due modi; e all’uno e all’altro modo mirò indubbiamente Gesù Cristo, nell’annunziarci la beatitudine dei puri di cuore. Il primo modo è generico; e allora la purità, intanto che risiede nel cuore, accompagna tutti gli amori buoni di qualunque natura essi siano. Come diciamo puro il cielo, che non sia offuscato da nubi, e puro il fonte, che non sia intorbidato da fango e da altre materie estranee; così è puro l’uomo, il quale, in ciascuno dei suoi amori, non ha né nubi che ne offuschino il candore, né fango che ne intorbidi la chiarezza. Questa purità, al pari di tutte le altre virtù, non entra nel nostro cuore, se prima la mente non s’illumini della idea di essa, e non diffonda la sua luce illuminatrice  nel cuore. La mente ci fa dapprima conoscere dove è il sommo Bene, nel quale posseduto, si acquieta interamente il nostro cuore, e quali sono i varj beni particolari e parziali, e quale l’ordine e il valore di ciascuno. Allora, quando il cuore ama il Bene sommo sommamente e come ultimo suo fine, e ama i beni particolari, secondo il pregio e l’ordine di ciascuno, e senza separarli dal primo Bene, esso cuore è puro. E anche allora il cuore così amante manda fuori un delicato profumo, che arriva a coloro, che o sono egualmente puri anche essi, o almeno hanno nell’anima vivo il desiderio della purità. Infine, per la grande unità che Iddio pose nell’uomo, sempre che in lui il cuore è puro, sono egualmente pure. la mente, l’immaginazione, la memoria e la parola: anzi la purità del cuore si riflette e trasparisce negli atti esteriori e in tutta la vita del Cristiano puro. Di cotesta purità parlano spesso i Libri ispirati e i Padri della Chiesa. E ciò con ottima ragione; perciocché, tra le virtù cristiane, la purità è ottima e nobile disposizione a salire alle stelle, e più chiaramente alla visione di Dio, secondo le parole stesse di Cristo: perciocché essi vedranno Iddio. Onde mi riesce assai bello e opportuno l’elogio, che della purità del cuore si legge in quel libriccino tutt’oro che è la Imitazione di Cristo: “Se tu fossi dentro buono e puro, ogni cosa vedresti senza alcun impedimento, e in bene la riceveresti. Il cuore puro e mondo trapassa col pensiero il cielo e l’inferno… Se gaudio si trova nel mondo, certamente si trova nell’uomo puro di cuore… Siccome il ferro messo nel fuoco, perde la ruggine e tutto diventa rosso; così l’uomo, che si converte a Dio interamente, è spogliato d’ogni pigrizia, ed è trasmutato in un nuovo ordine”.(Imit. Cr. II, 4, 2). Però sant’Agostino, dopo di avere insegnato che Iddio si vede soltanto con l’occhio del cuore, aggiunge. “In quella guisa che la luce terrena non si vede, se non dall’occhio sano e puro; così Dio non lo si vede, se non quando è mondo quel cuore, con cui solo si può vedere ”, (Lib. I, De Serm. Domini). – Ma la virtù della purità ha il più delle volte un significato più particolare; ed allora, come insegna S. Tommaso, prende anche il nome di castità, che è quanto dire di virtù castigatrice della concupiscenza. Iddio, nel creare l’uomo, pose in lui l’appetito concupiscibile, cioè la tendenza dell’animo verso ciò che apprende come dilettoso. Se l’uomo fosse rimasto nella primitiva innocenza e giustizia, il concupiscibile, anche in quella forma d’amore, nella quale entra il senso, sarebbe rimasto soggetto alla ragione e al libero volere di ciascuno, e altresì pieno di temperanza, d’ordine e di serenità. Ma il peccato d’origine che ferì malamente tutto l’uomo, lo ferì in modo particolare in quell’amore in cui entra il senso. L’appetito del concupiscibile per questo rispetto diventò concupiscenza; quella concupiscenza, dico, che, secondo l’insegnamento cattolico, non è di per sé peccato, ma trae origine dal peccato e al peccato inclina l’uomo. (Concil. Trid. Sess. V, com. 5).Ora la virtù che castiga il disordine della concupiscenza, e la infrena, la governa, la tempera, la tiene ordinata e soggetta alla ragione e a Dio, essa è la purità. – Dalle cose dette si vede a prima giunta che la purità, dovendo castigare e infrenare una possente e ribelle inclinazione umana, riesce di per sé una virtù particolarmente battagliera. È quindi la virtù dei forti e degli animosi. I moralmente fiacchi e vili, il più delle volte, non arrivano neanche ad intenderla; talora anzi (oh miseria e accecamento grande dell’umana natura!) arrivano a crederla impossibile. Ben è vero che le battaglie della santa purità cristiana quasi sempre sono ignote a tutti, meno che a colui che le combatte: di esse non si vede nulla o pochissimo esteriormente, ché la lotta della purità si sostiene e si vince soprattutto nella mente e nel cuore, per effetto di preghiere, di mortificazioni, di digiuni, di penitenze quasi sempre ignorate. Ma ciò non toglie che siano lotte dure e incessanti, mercè le quali però l’uomo, come l’oro nel crogiuolo, si purifica e si perfeziona. – Il Cristiano, che voglia essere puro, rassomiglia a chi, volendo salire un alto monte, incontra molti ostacoli per via, e sa di doverli con l’ajuto della divina grazia combattere e vincere. Questi ostacoli sono di vario genere; ma, secondo san Tommaso, si possono ridurre a tre. Il primo è il corpo stesso di chi vuol’esser puro: il secondo sorge dall’animo suo: l’ultimo dalle persone che gli sono intorno. Sono dunque tre i nemici che ci stanno di fronte, e tre le battaglie, che dobbiamo combattere animosamente, e che vinte ci fanno puri, e ci dànno dritto a giungere in quel regno, nel quale non entra niente che sia contaminato. Ma in prima, come mai il nostro corpo ci è diventato nemico e perché? Scrivendo io, più avanti della virtù della temperanza, mi accadde di citare un testo di San Paolo, che qui mi è forza di ripetere. Esso è della lettera ai Romani al Capo VII ed è di questo tenore: “Io trovo nel voler fare il bene esservi anche questa legge che il male mi sta dappresso. Imperocché mi diletto della legge di Dio, secondo l’uomo interiore. Ma veggo un’altra legge nelle mie membra, che si oppone alla legge della mia mente, e mi fa schiavo della legge del peccato. Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte?” Or la liberazione da questa legge dei bassi appetiti del corpo mortale, san Paolo non la cerca, come altri potrebbe credere, nel lasciare il corpo alla terra, uscendo dalla vita presente, e addormentandosi placidamente nel Signore; ma la cerca e la spera da Gesù Cristo in questa vita terrena, dicendo: Mi libererà la grazia di Dio per Gesù Cristo Signor nostro. Ora lo stesso san Paolo c’insegna che questa grazia liberatrice si ottiene, rendendo di nuovo servo dello spirito e di Dio quel corpo che pel peccato si è costituito signore e tiranno di tutta l’anima. Però egli stesso dice di sè: “Io castigo il mio corpo, e lo riduco in servitù, affinché mentre che predico agli altri, non diventi reprobo io stesso” (I Cor, IX, 37). – Poiché dunque v’ha in noi una legge del corpo, che combatte contro la legge dello spirito, è per vincere in questa battaglia che il Cristiano, come fu detto avanti, digiuna, veglia le notti orando, fa penitenza, si flagella, si astiene da molte cose, e si castiga nel corpo per varj modi. Tutte queste varie mortificazioni sono le armi nostre per attutire l’insolenza degli appetiti sensuali del corpo, e fare che lo spirito ritorni suo re: sono le armi particolarmente necessarie per vincere nella battaglia della santa purità, la quale, senza dubbio, è la più difficile e pericolosa, tra quante l’uomo ne ha da combattere in questa vita terrena. – Ma, intanto che il Cristiano, per essere puro, soggioga e mortifica il proprio corpo, non ha da dimenticare che anche l’animo suo, guasto ed eccitato, com’è, spesso dal corpo, gli muove guerra. Dal fondo dell’uomo inferiore, dove gli appetiti sensuali sono possenti, sorgono alcune vampe fosche di pensieri e di desiderj impuri, che arrivano alla parte superiore dell’anima, e stranamente la turbano. Assai delle volte la mente, la memoria; la fantasia, dimentiche di Dio e del retto ordine della ragione, accolgono amichevolmente quelle vampe impure, e ne prendono diletto ahi! senza pensare che sono apportatrici di morte. Le cose impure pensate, le ripensano, e nuovamente le desiderano, le ricordano, le immaginano. Così l’amichevole accoglienza e il diletto voluto rendono più roventi e pericolose le impure e fosche fiamme dell’impurità, che dal corpo salgono all’anima, e nell’anima divampano più accesamente. D’altra parte l’uomo che vuol essere cristianamente puro, in questa battaglia contro il demone dell’impurità, si eleva con tutta l’anima a Dio, eterna Verità, Bontà e Bellezza. La mente pensa a Dio infinitamente buono e misericordioso; il cuore ama Iddio, come primo ed eterno Amore; la memoria ricorda gl’innumerevoli benefizj da Lui ricevuti; la fantasia lo vede, che infinitamente bello e splendido le si affaccia innanzi. – Insomma Iddio, umilmente e pietosamente pregato dal credente che vuole essere puro, diffonde con la sua presenza, e con la sua grazia un soffio possente di casti pensieri e affetti nell’anima, e il soffio divino smorza e annienta le fosche fiamme dell’impurità. Per vincere dunque questo vizio; bello e santo è soprattutto il pregare e il meditare. – Ma, come insegnano i Padri della Chiesa, le nostre orazioni e meditazioni riescono assai più efficaci, quando ad esse si unisca la lettura dei santi libri della Bibbia divinamente ispirati, onde san Girolamo scrisse: “Ama i libri delle Scritture, e non amerai i vizj della carne”. Però è una vera onta per i Cattolici, il pensare che la Bibbia sia più letta dai protestanti che non da noi. Il credere che questa lettura ci sia proibita, è un volgare pregiudizio, mille volte sfatato. La Chiesa ha giustamente voluto che si leggesse dai suoi figli la Bibbia, con quei commenti che c’impediscono d’interpetrarla malamente e a capriccio; ha voluto impedire presso i suoi figliuoli ciò che è accaduto ai protestanti; tra i quali le interpretazioni, anche dommatiche, dei sacri libri variano all’infinito: ciò ha voluto e niente altro. Del resto, uscendo di digressione, è certo che in nessun libro del mondo tutta la natura creata parla sempre e in modo mirabile di Dio, come nella Bibbia; in nessun libro del mondo il pensiero, le perfezioni e la provvidenza di Dio entrano in ogni cosa come nella Bibbia. Però la Bibbia, e particolarmente il nuovo Testamento, e i Libri sapienziali dell’antico, riescono all’anima, come il soffio di un’aria celestiale e balsamica che vince tutti i foschi pensieri e desiderj della impurità. – A questo supremo pensiero di Dio, nutrito dall’orazione e dalla Bibbia, vengono anche in ajuto nel Cristiano, per viver casto, molti altri pensieri o affetti umani di per sé buoni; i quali anch’essi ci distolgono da’ pensieri impuri, e ci ajutano a vincerli. Quante ricordanze soavi e innocenti, quanti dolci e casti affetti, quante immagini dei piaceri che provammo, per esempio, tra i campi, tra i monti, tra i fiori, in una bella notte stellata, all’ora del sorger del sole o di un bel tramonto, si possono cercare o richiamare alla mente contro il demone dell’impurità! Però San Paolo c’insegna così: “Pensate, o fratelli, tutto quello che è vero, tutto quello che è puro, tutto quello che è giusto, tutto quello che è santo, tutto quello che ci rende amabili, tutto quello che ci fa buon nome, tutte le virtù …; e il Dio della pace sarà con voi”. (Ad, Phil. IV, 8, 9). – La virtù della purità che, come fu detto, è supremamente battagliera, incontra un altro nemico fuori di noi, il quale si aggiunge agli altri due e li punge, li stimola e li rende possenti. Questo nemico (oh quanto è doloroso il pensarlo!) lo si trova in quegli stessi uomini, che dobbiamo amare, come fratelli, e in quelle stesse donne, alle quali dobbiamo voler bene, come a sorelle. Tanto è profondamente guasta, per questo rispetto, la natura umana, che quell’attraimento scambievole, il quale dovrebbe servire alla carità e agli affetti onesti, ahi spesso riesce occasione e incentivo di peccato! L’uomo, se non sia pudico, cauto, prudente e pio, riesce un pericolo per la donna: e la donna egualmente per l’uomo. Però chi voglia vivere nella santa purità, oltre alle cose dette, ha da essere amante del pudore; ha da avere lo sguardo, l’atto, l’andare modesto; dev’essere cauto nel conversare, se uomo con donna, se donna con uomo. Ancora, fugga le occasioni prossime dell’impurità, e soprattutto viva, per questo rispetto, in continuo timore; perciocché il timore in questa lotta è vera sapienza, essendo certo che in nessuna materia la natura umana è tanto fragile, quanto in questa. Ma di ciò basti; ché il dirne più a lungo e con maggior particolarità appartiene piuttosto all’ascetica o a chi regge le coscienze particolari. – Parlando io delle altre beatitudini, mi venne fatto di notare che ciascuna di esse prende una forma nuova e assai più bella in coloro che si sforzano di essere perfetti. Ora il medesimo s’ha a dire della purità; la quale nei perfetti è purità verginale, purità dico che non solo rifugge da ogni peccato grave contrario, ma si tiene anche lontana dai casti amori coniugali; purità, che arriva a tant’altezza, non per fini umani, ma per consacrare tutto l’uomo alla carità di Dio e del prossimo. I Pagani, benché avessero un concetto assai imperfetto della castità verginale, nondimeno la venerarono e la tennero in pregio. Presso i Greci si voleva che la sacerdotessa di Apollo fosse vergine, e vergini erano stimate le Sibille. I Romani credevano venerande le loro Vestali vergini. Quanto ai Giudei, molti credono che all’avvicinarsi dei tempi cristiani nascesse presso di loro anche la venerazione per la verginità perpetua. Ma essi, certo, tennero in grande onore la castità delle vedove; come si scorge sull’esempio memorabile di Giuditta, a cui il gran sacerdote Joachim disse: “Perché tu hai amata la castità, e, dopo il tuo marito, non hai conosciuto altro uomo, per questo la mano del Signore ti ha fatta forte, e per questo sarai benedetta in eterno.!” (Judith. VIII, 6 e segg.). Ma l’onore e il pregio del bel fiore della verginità crebbero infinitamente nel Cristianesimo, il quale ne fece una virtù celestiale e angelica; e vi contribuirono potentemente due motivi. Il primo è insegnare e il professare che la più gran donna, che sia stata o che sarà mai nel mondo, la donna che meritò di esser Madre di Dio, fu un miracolo singolare di verginità. L’altro, che il concetto della verginità fu sposato all’idea d’un nobilissimo sacrificio, che l’uomo o la donna fanno dell’amore sensuale anche onesto, per incelarsi interamente nell’amore di Dio e del prossimo. In ciò sta tutta la bellezza e tutto lo splendore della verginità cristiana; onde risulta che chi non la intende così, non è atto a comprenderla. E poiché a questo sacrificio si richiede, che l’uomo o la donna siano così padroni del proprio corpo, da poterlo, per questo rispetto, avere come se non lo avessero; ne segue che la verginità equipara l’uomo o la donna all’Angelo; e però è giustamente detta virtù angelica. Per questa medesima ragione è virtù soltanto di pochi, benché la luce della sua bellezza si rifletta anche nella vita cristiana dei coniugati, e contribuisca a renderli casti. Ancora, poiché la verginità non si appaga dell’onesto, ma lo sorpassa, essa non è secondo la natura, ma la sorvola ed è più alta di essa. Da ciò segue che la castità verginale abbia bisogno di una luce e di una forza di grazia sovrabbondante. – Insomma il candore verginale, dalla Bibbia paragonato a un giglio tra le spine, è un tesoro che noi portiamo in vasi fragili, un tesoro che c’è dato da Dio, e che si custodisce con l’avere sempre la mente, la memoria, la fantasia e il cuore in Dio. – Gesù benedetto fece grandi elogi di questa virtù nel Vangelo; e san Paolo la lodò pur molto, dichiarando però apertamente, che essa era, per i figliuoli della Città di Dio, un consiglio evangelico, non punto un precetto. I Padri della Chiesa non si stancarono mai di encomiarla; e di sant’Ambrogio si legge che predicava con tanto ardore ed efficacia di questa virtù, che le matrone cristiane, le quali desideravano di maritare le loro figliuole, per non vederle distolte dal matrimonio, non le conducevano più ad ascoltare le prediche del santo Vescovo. – Ed ora per conchiudere il tema della castità verginale, v’invito, carissimi lettori, a trasferirvi un tratto con la mente in Paradiso. Ascoltate come sant’Agostino parla al coro dei vergini e delle vergini, il quale, secondo che è detto nell’Apocalisse, canta al cospetto di Dio un cantico nuovo, un cantico che nessuno altro può imparare a cantare. “In cielo, senza dubbio, ei dice, voi, o eletti ed elette vergini, ben sarete veduti dai numerosi fedeli, che in questa virtù non poterono seguire con voi l’Agnello immacolato. Vi vedranno, o vergini, ma di voi non sentiranno alcuna invidia. Si rallegreranno con voi, pensando che ciò che non hanno essi, lo avete voi. Certo, quel vostro cantico è tutto proprio di voi. Gli altri fedeli, anche santi, nol potranno cantare; ma ben lo potranno ascoltare, e dilettarsi e godere di questo vostro bene tanto eccellente. Ma voi, che lo canterete e lo ascolterete insieme, (perché il canto vostro voi certo lo udite) più felicemente esulterete, e più giocondamente regnerete.’” (De S. Verginitate, cap. XXIX).

7 MARZO (2022): S. TOMMASO D’AQUINO

7 marzo: S. Tommaso d’Aquino, Confessore e Dottore

(B. Baur O.S.B: I Santi dell’anno liturgico – Herder, Roma, 1958)

1. – Tommaso, figlio del Conte Landolfo d’Aquino, nacque nel 1226 o 1227 nel castello di Roccasecca presso Aquino. A cinque anni venne come Oblato al vicino monastero di Montecassino dove ricevette la prima formazione spirituale. Fece i suoi studi universitari a Napoli e, a 17 anni, entrò, con rammarico della sua famiglia, nell’ordine domenicano. Per sottrarlo all’opposizione e alle macchinazioni della famiglia, i suoi superiori lo mandarono a Parigi. Ma durante il viaggio, in Toscana, dietro istigazione dei suoi fratelli Landolfo e Rinaldo, fu acciuffato e tenuto in prigionia nel castello avito di San Giovanni. Lì, in continua lotta con la madre e con le sorelle, passò quasi due anni fra studi eruditi. Alla fine le sue orelle, che a poco a poco egli aveva guadagnato ai suoi piani, lo aiutarono a fuggire, facendolo calare in un cesto dalla torre del castello. A_Napoli pronunciò senza indugio i voti religiosi (1245). Ricevette la sua formazione teologica a Parigi e a Colonia sotto Alberto Magno (1248-1252). Da allora in poi svolse la propria feconda attività d’insegnamento a Parigi, Roma e Napoli. Da qui fu dal Papa Gregorio X. chiamato al Concilio di Lione, ma morì durante il tragitto nell’abbazia cistercense di Fossanova nelle Paludi Pontine il 7 marzo 1274. Nel 1323 fu canonizzato, nel 1567 fu dichiarato Dottore della Chiesa dal Papa domenicano Pio V, e nel 1880 fu nominato da Leone XIII celeste patrono di tutte le università cattoliche.

2. – « Implorai e mi fu data la prudenza, invocai e venne a me lo spirito di sapienza. È l’anteposi a scettri e a troni, e ritenni un nulla la ricchezza in confronto a lei. L’amai più della salute e della bellezza, e preferii il suo possesso a quello della luce » (Epistola). « Ditemi, che è Dio ?» è la domanda che il piccolo Tommaso rivolse al suo insegnante a Montecassino. « Chi è Dio?» « Spiegami dunque, che è Dio ?» Tommaso riconosce ben presto che insegnanti e libri non bastano per arrivare a conoscere Dio; per questo è necessario che l’anima si rivolga a Dio stesso, e non soltanio col desiderio dello spirito, ma insieme con la semplicità, l’umiltà, la purità e l’innocenza del cuore e con insistente preghiera. Egli s’immerge nella meditazione del Vangelo, interroga in uno studio indefesso e con una sconfinata ansia di verità, la Sacra Scrittura e i Padri della Chiesa. Arde dal desiderio di difendere la fede della Chiesa contro gli errori del suo tempo con argomenti strettamente scientifici e per questo rivolge tutto il suo interesse anche alle conoscenze della ragione umana, alla filosofia tutta, anche a quella pagana, e, come nessuno prima di lui, pone la sana filosofia al servizio della teologia e della fede. Gli è ora possibile non soltanto di trattare in forma scientifica le verità della fede, come nei secoli che lo precedettero non fu possibile a nessuno, neanche a un S. Agostino, ma di togliere a prestito anche dalla ragione le armi con le quali vincere quelli che combattono la fede in base alla ragione. Il suo sapere assomma in sé tutto il lavoro di ricerca dell’antichità e dei suoi contemporanei. Perciò il Dottore Angelico ha ugualmente familiare e conosce ugualmente a fondo tanto il mondo del sapere naturale quanto quello del sapere soprannaturale ed è in ambedue un’autorità senza pari. Come nessuno prima di lui, egli sa subordinare tutto il sapere profano alla Rivelazione, e indirizzare tutto il tesoro d’idee della terra all’ultimo e supremo fine: all’eterna verità e amore, a Dio. « Implorai e mi fu data la prudenza, invocai e venne a me lo spirito di sapienza » — tanto che oggi tutti i teologi cattolici e i sacerdoti della santa Chiesa vengono esortati a prendere Tommaso come loro guida e maestro: « I professori devono trattare lo studio della filosofia e della teologia e l’istruzione degli studenti in queste materie a norma della dottrina e dei principi del Dottore Angelico e attenersi fedelmente ad essi » (Codice di diritto Canonico, can. 1366). Perciò Dio ha dotato S. Tommaso di una pienezza di sapienza naturale e soprannaturale, affinché di fronte ai grandi errori che continuamente cercano di intaccare il patrimonio di fede della Chiesa egli sia la guida sicura e indichi la giusta via a tutte le generazioni e le epoche venture, quindi anche a noi. – Noi lo ammiriamo e ringraziamo il Signore che « con la meravigliosa scienza » di S. Tommaso « illumina la Chiesa e la rende feconda con la sua santa attività » (Colletta). « Voi siete il sale della terra », « la luce del mondo », che, come il sole, illumina tutti e rischiara loro il cammino verso Dio (Vangelo). – « Chi avrà operato e insegnato (la legge di Dio) sarà chiamato grande nel regno dei cieli » (Vangelo). Questo è ciò che rende tanto grande e fecondo l’incomparabile filosofo e teologo S. Tommaso d’Aquino: egli è nello stesso tempo un Santo che mette in pratica ciò che conosce ed insegna. Con quali mezzi si è cercato di distoglierlo dalla sua decisione di consacrarsi a Dio in religione! Perfino una miserabile prostituta gli è condotta in carcere, affinché con la sua seduzione lo faccia vacillare dal suo proposito. Tommaso prende un tizzone ardente e spinge fuori la bella peccatrice. Per lui la devozione e la santità passano avanti a tutto nella vita, anche avanti a qualsiasi ricerca, al sapere e al comprendere. – Nell’Ordine egli vuol essere un perfetto religioso che non pospone allo studio neanche il minimo dei suoi doveri di preghiera. No, egli diventa sempre più un uomo di preghiera ed in essa si procura la luce e la forza per la ricerca della verità. Egli stesso confessa di aver appreso di più ai piedi della croce che dallo studio sui libri. Egli vive una vita di ritiratezza, di silenzio, di santa austerità penitenziale, di profonda umiltà, di perfetta purità di cuore e di amor di Dio. Diventa così capace di comprendere sempre più a fondo l’eterna Sapienza. Il sigillo visibile di quest’intimo sposalizio del suo spirito con la sapienza divina è la sua immutabile serenità, la sua incantevole modestia, la sua prontezza ad aiutare gli altri, la sua pazienza e calma in mezzo a tutte le ostilità verso la sua persona, la sua dottrina e il suo Ordine. Con la mente, col cuore, con tutta l’anima sua egli vive in Cristo. Gesù in croce e Gesù nel Santissimo Sacramento dell’altare sono il mondo nel quale egli vive. « O sacro convivio, in cui si riceve Cristo, si celebra la memoria della sua passione, si riempie l’anima di grazia e ci vien dato un pegno della gloria futura » esclama in un santo rapimento. Da Tommaso la Chiesa ha ricevuto l’Ufficio e la Messa della festa del Corpus Domini. In quest’opera si esprime la fede, l’amore, l’entusiasmo, la dedizione di tutti i tempi dinanzi al miracolo del Tabernacolo. Nel 1273, a Napoli, mentre Tommaso lavorava all’ultima parte della sua «Summa theologica» il Signore gli apparve e gli disse: « Bene hai scritto di me, Tommaso. Che cosa vuoi averne in premio? » Tommaso rispose: « Non desidero altra ricompensa che Te, mio Signore ». Tanto profondamente nei suoi ultimi anni è penetrato negli abissi della grandezza e dello splendore di Dio e delle cose divine, che le magnifiche cose che egli ha scritto di Lui non gli appaiono che come misere scorie: egli non può scrivere oltre e deve lasciare incompiuta la sua opera principale, la « Summa theologica ». Sul letto di morte a Fossanova egli commenta ad alcuni monaci vari passi del Cantico dei Cantici. Alle parole: « Ho trovato Colui che l’anima mia ama, l’ho afferrato e non lo lascio più » (Cant. d. Cant. III, 4) esala il suo spirito. Si, egli lo ha trovato e ora lo contempla faccia a faccia nel cielo. « Che è Dio? ». A questa domanda che tanto lo tormenta gli è data ora la beatificante risposta : « Ho trovato Colui che l’anima mia ama, l’ho afferrato e non lo lascio più ».

3. – Quanto altamente dobbiamo onorare e apprezzare colui che la santa Chiesa considera come il provato maestro e l’espositore ufficiale della sua teologia! È espresso desiderio della Chiesa che gl’insegnanti dei seminari ecclesiastici e degl’istituti di studio « tengano per santi » la dottrina e i principi di S. Tommaso (Codice di Diritto Canonico, can. 1366). « In mezzo alla Chiesa aprì la sua bocca, e il Signore lo riempì con lo spirito di sapienza e d’intelligenza ». « Inesauribile tesoro è essa (la sapienza) per gli uomini, e quelli che ne fanno uso hanno parte all’amicizia di Dio. L’anteposi a scettri e a troni, e ritenni un nulla la ricchezza in confronto a lei. L’amai più della salute e della bellezza, e preferii il suo possesso a quello della luce, perchè inestinguibile è il suo splendore. E vennero a me insieme con lei tutti i beni, e infinita ricchezza per mano di lei» (Epistola). – Pieno di sapienza celeste Tommaso, trattando della grazia, abborda il problema : « È la creazione e la conservazione dell’universo un’opera più grande della grazia santificante che Dio concede ad un’anima? » Egli risponde: La partecipazione della grazia santificante ad un singolo uomo è qualcosa di più grande e di più prezioso che non tutta la grandezza e la bellezza dell’intero universo preso insieme! Ogni altra « grandezza » nell’ordine di natura, qualunque essa sia, è un nulla insignificante in confronto alla grazia. Così pensa e vive S. Tommaso. E questa è sapienza che viene da Dio.

Preghiera

O Dio, che con la meravigliosa scienza del tuo beato confessore Tommaso illumini la tua Chiesa e la rendi feconda con la sua santa attività, concedici, te ne preghiamo, la grazia di comprendere quello che insegnò e d’imitare la sua condotta. Per Cristo nostro Signore. Amen.