GIOVANNI OLIER
Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI
IMPRIMATUR In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.
CAPITOLO V.
L’umiltà
L’umiltà è virtù che serve di fondamento a tutte le altre e deve presupporsi ad ogni esercizio di pietà; senza di essa l’anima non farà mai nessun progresso. La superbia, che è opposta a questa virtù, è il vizio che più dispiace a Dio. A questo orribile ed infelice peccato Dio suole resistere, come dichiara così spesso nella Scrittura: Dio resiste ai superbi (Deus superbis resistit. Jac., IV,1). Il fondamento di questa resistenza di Dio alla superbia proviene dall’ingiuria speciale che essa gli fa, perché lo deruba di ciò che gli è più caro, dell’onore, cioè, della gloria a Lui dovuta ed esclusivamente riservata, per attribuirla ad un niente, ad un verme della terra. Dio non è di nulla geloso come della sua gloria; ci comunica il suo essere divino, la sua propria natura, e tutti i suoi doni, ma con la condizione che noi non lo deruberemo di ciò che Egli non intende punto cedere a nessuna creatura, vale a dire della sua gloria (Gloriam meam alteri non dabo. Isai., XLII, 8.). In conseguenza dell’avversione e dell’odio che Dio prova contro la superbia, non appena l’anima è così miserabile da abbandonarsi ad un tale eccesso. Dio sull’istante si ritira e l’abbandona a sé medesima, privandola della sua grazia e del suo aiuto; per lo stesso motivo, non se ne avvicina che in quanto essa è vuota di ogni superbia e di ogni propria stima. Perciò diciamo che la santa umiltà è fondamento di tutte le virtù, perché queste non si possono acquistare senza la grazia e l’aiuto divino, favori questi che Dio dà solamente agli umili: Agli umili Dio dà la sua grazia. (Jac.IV, 6). Incominciamo dunque dall’umiltà e vediamo innanzi, tutto in che consista.
I.
Natura dell’umiltà.
1° grado dell’umiltà: riconoscere la propria abiezione e compiacersene. Umiltà in Dio e in Gesù Cristo. Amore di Gesù Cristo per le umiliazioni anche nel suo Corpo mistico La vera umiltà è interiore e consiste nella sottomissione alla volontà di Dio. 2.° grado: amare la propria abiezione. 3.° grado: godere che Umiltà nelle. aridità spirituali. Schiarimenti sulla nostra abiezione sia riconosciuta anche dagli altri. — Amore dell’abiezione. Non ambire la grandezza neppure in Paradiso.
L’umiltà ha tre parti. La prima è di compiacerci nella conoscenza di noi stessi. Vi sono anime alle quali Dio fa conoscere la loro miseria ed i loro difetti, anzi ne porge loro l’esperienza, facendo risaltare ai loro propri occhi la loro stolidezza, leggerezza, inutilità e assoluta incapacità; ma esse a tale vista si rattristano e non potendola sopportare, cercano in se stesse qualche cosa che le lusinghi, si studiano di scoprire in sé medesime qualche perfezione o qualche virtù che le metta al coperto della convinzione della loro miseria: questo è effetto di superbia. Bene spesso ci troviamo in tale stato che sentiamo grande abbattimento nel vederci quali siamo, cioè: niente nella grazia e niente nella natura, inutili ad ogni bene, insopportabili a noi stessi e a tutti: se questo sentimento produce scoraggiamento interiore, è segno che la nostra è umiltà falsa. – Nostro Signore dà, al contrario, la stessa visione ad anime sante che gli sono care e predilette e sono stabilite nella vera umiltà, affine di rendere più profonda in esse questa virtù e prepararvi un fondo più ampio per ricevere la sua grazia e il suo amore. Ma queste anime, perché più umili, godono di conoscere ciò che sono: basta non aderiscano alla malizia della loro carne sono contente; talvolta non conoscono punto questa loro buona volontà, Dio permettendo che non distinguano tra gli assalti della carne e il consenso: e ciò è causa per esse di molta pena. Ora sentiranno ripugnanza verso i poveri e riluttanza a praticare la carità: ora sentiranno disgusto di Dio e della sua santa parola. Altre volte proveranno altre molestie che partono da quel fondo maligno della carne che si chiama comunemente la natura corrotta; e, nell’incertezza se abbiamo acconsentito a simili tentazioni, si affliggono e si trovano molto umiliate, come pure al pensiero di non aver lavorato abbastanza a vincere sé medesime. Orbene, tutte queste prove, per le anime sante, non sono motivo di pena e di abbattimento quanto di confusione e di umiliazione. Anzi, ciò serve loro a non dimenticare ciò che sono in sé stesse, a ricordarsi che portiamo il peso della carne e siamo composti di una natura di peccato che è fondo inesauribile di malizia; perciò si riconoscono operai di iniquità. Infatti, avendo acconsentito al peccato in Adamo, e inoltre avendo contratto, per i loro peccati personali, abitudini viziose, esse hanno alterato la loro propria natura, e l’hanno talmente viziata che non vi rimane più nulla che abbia pregio alcuno. È necessario un nuovo principio; è necessaria una nuova generazione, che ci dia una seconda vita e un nuovo spirito per conservare questa vita nuova. Lo Spirito Santo medesimo è quello che opera in noi ì movimenti al bene e ci sollecita alle opere buone, come la carne ci inclina alle opere cattive. Così lo spirito e la carne sono in continua e perpetua lotta. La carne, dice S. Paolo, combatte contro lo spirito e lo spirito contro la carne (Gal. V., 17). – Perciò i Santi, essendo veramente umili, riconoscono perfettamente ciò che sono da sé stessi, e ciò che in sé medesimi appartiene a Dio: riconoscono donde viene il bene e chi ne è la causa; rendono incessantemente lode e gloria a Dio per il bene che Egli opera nelle loro anime; si umiliano pure incessantemente per il male che fanno e che sentono in sé, riconoscendo la propria povertà, miseria e viltà, e condannano sé stessi come causa dei mali che risentono. Ma una tal vista, per quanto ne provino tristezza, li umilia senza avvilirli né scoraggiarli. Ecco il primo grado della virtù di umiltà; compiacersi nella propria viltà e miseria. Conoscere questa viltà e miseria, non è parte di questa virtù; ne è soltanto una condizione e un fondamento. Perciò anche i pagani praticavano la conoscenza di sé medesimi, eppure essi non avevano nulla della virtù cristiana di umiltà, perché il primo passo di questa è la soddisfazione e la gioia che si prova nel conoscere se stesso. Che cosa è dunque l’umiltà? — È l’amore dalla propria abiezione, per il quale a poco a poco si diventa così amanti della nullità, della piccolezza e della bassezza da prediligerle in tutto e per tutto.
(Sarebbe irragionevole amare l’abiezione precisamente per l’abiezione stessa, quasiché sia meglio essere peccatori che santi, ignoranti che sapienti, scemi che di talento; ciò sarebbe, come dice S. Francesco di Sales, viltà di animo e di cuore ». Dobbiamo compiacerci del fatto della nostra abiezione in quanto è per noi una umiliazione; perché ne risulta maggiormente la gloria di Dio e anche, in certi casi, perché Dio vuole così; perché ne saremo meno considerati e stimati dalla gente o perché il prossimo verrà stimato più di noi; né tralasceremo di fare quanto sta da noi, come dice ancora San Francesco di Sales, per togliere il male che è causa della nostra abiezione (Cfr. Filotea, IIIa VI e infra pag. 65-66). –
Prendiamo un esempio: un’anima riconosce in sé il proprio nulla che la rende vile e abietta, riconosce la sua debolezza, i suoi difetti e persino i suoi peccati; bisogna si compiaccia nella viltà, nell’abiezione e nel disprezzo che gliene provengono; deve compiacersi in ciò che v’è in sé stessa di vile, di abietto e di umiliante. La viltà e l’abiezione che sono le conseguenze del peccato sono cosa affatto diversa dall’opposizione a Dio: l’anima che è umile deve amare la viltà alla quale essa è ridotta dal peccato, ma insieme deve detestare sommamente il suo peccato in quanto è contrario a Dic. Essa deve essere talmente amante della viltà e della bassezza di amarla dovunque la incontri: deve trovare nell’abiezione vaghezze così deliziose, che non trovi nulla di così amabile, e la consideri come la sua regina, la sua amica, la sua diletta. Amore di piccolezza, amore di bassezza, amore di abiezione, di umiliazione: ecco la nostra felicità, ecco l’unica nostra pace. Intesa così, l’umiltà ha la sua sorgente in Dio medesimo; Dio, infatti, benché a motivo delle sue perfezioni non sia capace di vero abbassamento, tuttavia ha in sé come un peso che lo porta verso le cose piccole, perché da sé medesimo è amante delle cose basse. Dio guarda alle cose vili, (Ps. CXII, 6); Ha rivolto lo sguardo alla bassezza della sua serva, dice la Madonna, nel Magnificat (Luc. I, 48), vale a dire che si compiace nella bassezza e vi prende la sua compiacenza. – Questo peso immenso della Divinità verso la bassezza, riempiva in modo eminente, delle sue inclinazioni l’anima di Gesù Cristo, e le infondeva una tendenza infinita verso la umiliazione, tendenza continuamente operosa, che mai poteva essere spenta né saziata. Tutto quanto vi è di disprezzo, di annientamento e di abiezione, tutto, per l’anima di Lui, è nulla in confronto di quella sete immensa di umiliazione che lo divora. In ciò consiste l’umiltà di Dio e di Gesù Cristo, di cui dobbiamo renderci partecipi, umiltà che Gesù diffonde nel cuore dei Cristiani nei quali ha infuso lo stesso peso e la stessa inclinazione verso ciò che è basso. Ed è questa la vera umiltà cristiana. – È da considerarsi come il profeta diceva del Cuore di Gesù Cristo, che sarebbe saziato d’obbrobri (Thren. III, 30); era questo un effetto che l’immensità di Dio operava nel fondo dell’anima di Lui con l’infinità della sua potenza. – Non dobbiamo considerare soltanto le umiliazioni che Gesù Cristo ha subito nella propria persona e alle quali si riferisce quella sua parola sulla croce: SITIO, Ho sete; ma ancora gli obbrobri e i disprezzi che Egli desiderava soffrire nel suo corpo mistico e nei suoi membri; anche riguardo a questi Egli diceva: SITIO, Ho sete, muoio di languore nel desiderio di nuove pene e di nuovi disprezzi: bisogna che mi estenda e mi dilati in tutta la mia Chiesa e che in essa Io soddisfi la mia sete: quanto più soffrirò in essa disprezzi e umiliazioni, tanto più proverò gioia e consolazione e soddisferò il desiderio immenso che ho di scendere al basso. « Il Padre mio, infinito nei suoi desideri, mi comunica questo languore e questa immensa volontà, in confronto della quale Io non sono nulla, né sono capace di soddisfarla; per questo cerco sempre sulla terra qualche anima che soddisfi la mia pena e il desiderio che provo di bere a lunghi sorsi, in ogni tempo e in ogni luogo, al calice dell’onta e dell’umiliazione.. Dimodoché quando qualcuno soffre disprezzi e li riceve con gioia ed amore, altrettanto soddisfa la mia sete ». – Sarebbe ben giusto dare in noi questa gioia a Gesù Cristo e procurare di soddisfarlo ed accontentarlo su questo punto. – E poiché abbiamo tanta ripugnanza ad essere umiliati, dobbiamo almeno raccogliere con cura quel poco di umiliazione che possiamo, per dar luogo alla potenza e all’efficacia dell’operazione divina nel nostro cuore. – Dio in sé medesimo è immenso, la sua infinita grandezza che lo inclina verso la bassezza deve tutto umiliare sotto di Lui e portarci tutti all’amore del disprezzo e dell’abbassamento. Tuttavia, è un fatto che il nostro cuore gli resiste tanto fortemente e la vince in tal modo sopra di Lui che invece di tendere ad abbassarci, noi non tendiamo che ad elevarci, né cerchiamo altro che la lode, la stima e gli applausi. Dio così potente in tutto e particolarmente nell’anima del Figlio suo, trovasi come impotente in noi. – Studiamoci dunque di rinunciare al nostro fondo intimo, di condannarlo e sottometterlo a Dio, affinché Egli possa imprimere in noi ciò che desidera e investirci delle sue inclinazioni, dei suoi sentimenti e delle sue medesime disposizioni. Dobbiamo pregare molto la maestà di Dio che compia in noi le operazioni della sua potenza e della sua virtù immensa, affinché ci umiliamo in Lui e ci investiamo delle sue inclinazioni e dei suoi desideri.
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La principale umiltà è l’umiltà interiore; questa riguarda dapprima lo spirito e consiste nel tener sempre la facoltà dell’anima in una grande soggezione e dipendenza verso Dio; di modo che il nostro spirito non sia mai né insolente né superbo, al punto d’innalzarsi al cospetto del nostro Re e nostro Dio, ma invece si tenga sempre davanti a Lui in atto di perfetta sottomissione e di profonda riverenza, aspettando con pazienza la sua luce e i suoi ordini. Guardiamoci sempre dall’essere così presuntuosi da voler, in qualunque cosa, ragionare ed agire da noi e in noi; stiamo sempre sottomessi a Dio, aspettando con fede la sua direzione e la sua regola. – Lo stesso è da dirsi della nostra volontà; benché si trovi in questa carne di peccato e in questo stato di sregolatezza. Essa è sempre come una regina che domina e comanda, perciò, meglio ancora dell’intelligenza essa deve stare dipendente dallo Spirito divino, che vuol essere in noi Re e padrone. La nostra volontà, più guasta dal peccato che tutte le nostre altre facoltà. E quindi più imperiosa e arrogante, è sempre pronta a comandare e pochissimo disposta ad obbedire: ci vogliono grandi sforzi ed assidue applicazioni per tenerla soggetta e sottomessa, Essa ordina ogni cosa senza aspettare gli ordini, la mozione e la direzione né dello Spirito Santo, né della carità che sola deve dominare in noi e muoverci soavemente ad assecondare i desideri di Dio. – La vera e perfetta umiltà interiore consiste dunque nel sottomettere a Dio la nostra volontà non meno che la nostra intelligenza, la quale deve tenersi come morta, in un’attesa fedelissima e docile delle divine impressioni ed illuminazioni che Dio promette ai suoi figli. (Qui sequitur me non ambulat in tenebris, sed habebit lumen vitæ, Joan., VIII 12). In tal modo, ]’anima sarà veramente umile, e sarà tale in ispirito e verità, perché sarà umile effettivamente e con perfetto sacrificio. In questo stato, l’anima riconoscerà di non essere nulla che valga qualche cosa, di non essere capace di operare nella giustizia e nella santità, protestando che tutto viene da Dio, tutto dipende da Dio, tutto in noi deve essere operato da Dio. Conoscere che siamo un niente senza valore, che non sappiamo nulla, che non siamo capaci di nulla e compiacersi in questa vista e in questa conoscenza, ecco il primo grado dell’umiltà.
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Il secondo grado è di amare la propria viltà, la propria abiezione, il proprio nulla, anche nello spirito degli altri tanto come in noi medesimi, vale a dire, compiacersi di essere riconosciuti come vili, come abietti, come cosa da nulla, come peccato e di essere stimati tali nello spirito degli altri. Infatti, è proprio dell’umiltà di far sì che abbiamo amore, gioia. e piacere ad essere conosciuti e stimati da tutti per quel che siamo in realtà: se desideriamo di comparire migliori di ciò che siamo, se cerchiamo di scusare i nostri difetti, siamo ipocriti e impostori. – Dal difetto di umiltà nascono la pena, il dispetto e l’affanno che proviamo quando vengono scoperte le nostre imperfezioni. Da qui quell’agitarci e inquietarci penosamente a riguardo della buona riuscita delle nostre opere, volendo acquistarci presso gli altri, fama, considerazione e stima. Non saremo dunque mai capaci di soffrire ciò che Gesù Cristo vuole operare in noi col suo Spirito di umiltà? Non sapremo sopportare di essere conosciuti quali siamo in realtà, ossia come niente e peccato, poiché non siamo altro in noi e da noi medesimi? Fuorché il nulla e il peccato, tutto in noi è cosa di Dio; se pretendiamo attribuircene anche la minima parte, commettiamo un furto a danno di Dio medesimo. – Noi siamo in tal modo un vero niente, che se Dio ad ogni istante non ci comunicasse l’essere, non vi sarebbe più nulla in noi, non vi rimarrebbe che il niente che è il nostro fondo e che unicamente ci è proprio. Anzi, se v’è in noi qualche cosa nelle nostre facoltà che non sia corrotta dal peccato, ne dobbiamo rendere grazie a Dio che lo ha operato in noi per sua bontà: a Lui ne appartiene tutta la gloria. Si può dire che noi medesimi abbiamo peccato in Adamo perché abbiamo in certo qual modo consentito con lui al peccato: siamo stati coinvolti nella sua colpa. Adamo, infatti, era il nostro procuratore e teneva come nelle sue mani tutte le volontà dei suoi discendenti. Dio con grande bontà l’aveva scelto per essere il nostro rappresentante, come l’uomo più perfetto al quale potevamo con la massima ragione affidare l’incarico di trattare con Dio in nostra vece ed in nome nostro. Adamo trattava dunque con Dio a nome di tutto il genere umano; in tal modo la nostra volontà era unita alla sua e consenziente con la sua. – Oltre questa prima colpa che in questo senso può dirsi opera delle nostre mani, colpa che è la causa di tutto quel semenzaio di mali che pullulano in noi ad ogni giorno e ad ogni ora, come pure di quella corruzione che portiamo in noi, che S. Paolo chiama peccato perché nasce dal peccato, ci porta al peccato e per la quale quindi siamo peccato; oltre quel primo peccato cui abbiamo consentito in Adamo, oltre questa perversità che ci porta continuamente al peccato, noi abbiamo pure commesso moltissime colpe che ci rendono orribilmente deformi. – Donde avviene che, in tutta verità, tutto in noi medesimi è peccato e non siamo che peccato: questo fondo di malizia, di cui siamo impastati, è oggetto di orrore per il Signore; tantoché da questa parte siamo figli di maledizione e non possiamo nascondere che siamo tali agli occhi del cielo e della terra: dobbiamo dunque compiacerci di essere, nella mente di tutti, riconosciuti come tali. – Orbene, l’umiltà è quella virtù che ci fa sentire questo piacere e questa soddisfazione di comparire quali siamo in realtà, di essere considerati agli occhi di tutti come gente da nulla e come peccatori maledetti, poiché non siamo null’altro che questo. Ché se in noi vi sono grazie, virtù e doni, tutto questo è cosa di Dio e non cosa nostra; quindi se vogliamo essere considerati e stimati per queste grazie e virtù, noi ingiustamente derubiamo Dio di ciò che è suo ed a Lui unicamente appartiene. Bisogna che l’umiltà ci faccia ben considerare ciò che siamo noi e ciò che appartiene a noi, onde lasciare a Dio e rinviare fedelmente a Lui tutto quanto è suo e viene da Lui. Il demonio concentra qui tutti i suoi sforzi e lavora in modo particolare a confondere queste due viste distinte, che ci rivelano con tanta chiarezza ciò che è nostro e ciò che è di Dio. Lavora a farci credere che ciò che vi è in noi è nostro, e ne possiamo usare per concepire stima di noi stessi e farci stimare dagli altri. Ma l’anima veramente umile e attenta a premunirsi contro le astuzie dello spirito maligno mette tutto il suo impegno a riconoscere sempre ciò che è in sé stessa e ciò che da sé medesima proviene; tutta la sua cura è di considerarsi come niente e peccato, e di essere soddisfatta che anche gli altri la considerino come tale; se le capita di ricevere onori e lodi, nel suo cuore ne ride e si burla di coloro che le dimostrano stima, considerandoli come ciechi e come gente che parla senza ragione: essa prova talora disgusto ed orrore di simili cose, a segno che preferirebbe mille affronti piuttosto che una lode, perché le umiliazioni sarebbero fondate su la verità, mentre le ledi sono fondate sulla menzogna: essa insomma si meraviglia con istupore nel vedersi stimata ben altra di quanto continuamente riconosce di essere in sé medesima. – Secondo S. Bernardo, il secondo grado dell’umiltà non consiste solamente nel riconoscere che noi non siamo niente, ma ancora che ciò che compare negli altri è pure un niente. Ogni essere, ogni bontà, ogni verità è in Dio; e ciò che se ne trova nella creatura viene per effusione da Dio, mentre il fondo della creatura è il nulla. È oltre che siamo niente come creature, abbiamo una tendenza naturale al niente: è proprio del niente tendere sempre verso il niente. Ecco ciò che è l’uomo, e il suo desiderio deve essere di comparire tale; diversamente è un ladro verso l’Essere sovrano, perché vorrebbe appropriarsi di ciò che appartiene a Dio e mettersi al posto di Dio.
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Il terzo grado dell’umiltà è di voler che gli altri non soltanto ci riconoscano, ma pure ci trattino come vili, abietti e spregevoli: di ricevere quindi con gioia tutti i disprezzi e tutte le umiliazioni possibili; di non essere mai sazi di obbrobri, ma al contrario desiderarli sempre con insaziabilità; in una parola, è desiderare di essere trattati secondo il proprio merito. Ora, siccome l’anima veramente umile considera sé stessa come un misero niente e una peccatrice maledetta, né dagli altri vuole essere considerata diversamente, essa per la virtù dell’umiltà desidera pure di essere trattata come un niente, come creatura maledetta e miserabile peccatrice, due titoli meritevoli del disprezzo più profondo che si possa concepire. Si abbia pure di noi tutto il disprezzo immaginabile, non sarà nulla ancora in confronto di ciò che meritiamo; donde avviene che l’anima veramente umile non può sentirsi, disprezzata. Qualunque cosa si dica, o si faccia contro di essa, non ne arrossisce; tanto meno se ne offende, perché ogni disprezzo è un nulla in con confronto di ciò che essa sente di meritare. Il niente non non ha nessun pregio, non ha nulla che possa essere oggetto dei nostri pensieri e delle nostre affezioni, quindi non merita neppure il disprezzo. Perché chi dice niente, dice assenza di ogni essere e di ogni perfezione, mentre soltanto l’essere e la perfezione meritano stima e compiacenza. Inoltre, qual disprezzo non è dovuto al peccato? Esso non ha nulla che sia gradevole e sopportabile, ma al contrario, è l’avversione da Dio che è l’unico vero bene, e quindi il peccato è la privazione di ogni bene. – È certo che per un’anima veramente umile un’ingiuria è un onore: essendo essa un niente, non merita né di essere considerata né che si pensi ad essa; non è degna neppure che uomo al mondo se ne occupi sia pur per disprezzarla. Chi mai si rivolgerebbe al niente, anche per schernirlo? Non si ingiuria un fantasma; non ne vale la pena, poiché è niente. Colui che dunque che sa di non essere da sé medesimo che un niente e quindi molto meno di un fantasma, si ritiene molto onorato che si pensi a lui anche per ingiuriarlo. Così, se viene dimenticato e disprezzato, non se ne meraviglia, e crede non si possa fare diversamente: lungi dall’essere sorpreso che lo si ingiuri, si stupirebbe se venisse trattato diversamente, Se anche nel suo interno, da Dio viene trattata con diprezzo ed abbandono l’anima sinceramente umile non ne resterà meravigliata perché sa di non meritare altro. È questo il segno al quale si può riconoscere la vera umiltà; quando l’anima trovasi nelle aridità e si sente interiormente come abbandonata e respinta da Dio. se è veramente umile si mette dalla parte di Dio e ne approva il modo di fare contro se stessa, si abbassa e si annienta nella preghiera, condannando sé medesima e riconoscendo di non meritare un trattamento migliore. Dobbiamo riconoscere che Dio con tutta ragione respinge le opere nostre e le nostre persone; e quando sentiamo che ci tratta in questo modo, se ne restiamo afflitti, è segno che non siamo umili, è segno che non siamo ben convinti della nostra incapacità per qualsiasi bene. – Il nostro niente rivestito di un essere corrotto dal peccato, da se stesso in quanto tale, non può far altro che il peccato, non può che fallire in tutte le opere sue. È questo un gran motivo di confusione, che deve farci riconoscere che Dio, il quale è l’equità, la rettitudine medesima e la vera giustizia, ha pur diritto di respingerci noi e tutto ciò che viene da noi, (Dicite; Servi inutiles sumus. Luc. XVII, 10) perché tutto quanto può esservi nelle opere nostre di santo e a Lui gradito, tutto proviene dal Figlio suo, nel quale Egli per l’operazione dello Spirito Santo, prende tutte le sue compiacenze. Essere dunque così disprezzati e respinti anche da Dio, e inoltre maltrattati dai nostri superiori, dai nostri eguali e persino dai nostri inferiori, in una parola, da ogni creatura, ecco ciò che ci è dovuto e dobbiamo rallegrarcene come della cosa più giusta, della cosa migliore e più vantaggiosa per noi, più conforme al desiderio di Gesù Cristo, e che perciò dobbiamo preferire (Bonum mihi, quia humiliasti me. Ps. CXVIII, 71).
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Dobbiamo dunque amare lo stare al basso da qualunque parte venga la bassezza, dovunque la troviamo, non soltanto in questo mondo ma pure per l’altro, non soltanto su la terra ma pure in Cielo. Dobbiamo compiacerci di stare nel posto più infimo, come raccomanda Nostro Signore, (Recumbe in novissimo loco. Luc., XIV, 10.) e amare l’ultimo posto in tal modo che lo desideriamo anche in Paradiso. Non già che dobbiamo desiderare di essere gli ultimi nell’amore di Dio, o i più negligenti nel progredire nella perfezione; né che dobbiamo dire come certe anime vili: « Purché mettiamo il piede in Paradiso, questo ci basta », né si curano di essere più sante; questo sarebbe metterci in pericolo di non essere mai santi e di stare anche fuori del Paradiso. Al contrario, bisogna sospirare di amare Dio quanto Egli lo desidera, con ardore e fedeltà, e tendere con tutte le nostre forze a quel grado di gloria e di felicità che Egli ci tiene preparato. Colui che commettesse la minima colpa per umiliarsi, farebbe una sciocchezza; così pure, colui che tralasciasse il minimo bene per essere piccolo in Paradiso, avrebbe grave torto. Intendo parlare soltanto di ciò che concerne la piccolezza in sé stessa, essa deve sempre essere così amabile per noi che l’apprezziamo dovunque la troviamo, né dobbiamo fare nessuna azione col proposito di essere grandi e di emergere dalla piccolezza. – La nostra superbia è più sottile che quando trova una porta chiusa, se ne apre qualcuna da un’altra parte; quando si è soffocato il desiderio della grandezza in questo mondo, la desidera nell’altro; quando si ha rinunciato alla grandezza delle cosegrossolane della terra, la superbia la cerca nelle cose dello Spirito e della grazia. Appena ci siamo liberati dalla brama di essere grandi e pregiati negli onori e nelle ricchezze del secolo, la superbia subito ci porta a ricercare di essere grandi e pregiati nella grazia e nelle cose dello spirito. Essa ricerca e desidera i doni superiori e le illuminazioni più eccellenti, le grazie appariscenti e i talenti straordinari, così la superbia sempre ricerca la grandezza. Se noi riusciamo a riconoscere, in questo desiderio dei pregi spirituali della grazia, un fine contrario all’umiltà e lo superiamo, allora la superbia ricerca un’altra eccellenza, vale a dire quella della gloria, e aspira ad un posto elevato in Paradiso. Ottima cosa per verità, quando non sì desideri per ispirito di superbia; ma troppo spesso avviene che noi amiamo la piccolezza su la terra, per segreto desiderio di superbia, sperando con questo mezzo di esser grandi in Paradiso. In tal caso, poiché l’umiltà su la terra è la semente dell’esaltazione in Cielo, noi facciamo ancora le nostre opere buone allo scopo di essere grandi, e ci consoliamo nelle nostre umiliazioni con una tale prospettiva; strano e stupendo spirito quello della superbia, che sempre e in tutto cerca la grandezza, o in un tempo o in un altro, o in un modo o in un altro. – L’anima veramente umile, invece, desidera di non essere niente, tanto ai propri occhi come nello Spirito degli altri; non si cura di comparire in nulla, ama di rimanere nascosta e sconosciuta, si compiace di essere considerata come un niente (Ama nesciri, et pro nihilo reputari. De Imit. Christi.). Gesù Cristo solo deve comparire, e noi restar nell’ombra; bisogna distruggere il nostro essere proprio e rivestirci di Gesù Cristo per non comparire che sotto di Lui e in Lui. Questo sentimento ci darà un desiderio ed una santa affezione di non Operar nulla da noi medesimi; ci renderà fedeli a rinunziare interiormente a noi stessi, studiandoci di mortificare in ogni occasione il nostro spirito proprio e la nostra volontà In tal modo dobbiamo arrivare sino a vivere in questo spirito di morte interiore. dimodoché non operiamo più secondo la nostra volontà propria, e non facciamo altro che cooperare semplicemente allo Spirito Santo, che animerà il nostro interiore e vivificherà le nostre facoltà. Allora vivremo in uno spirito di vero annientamento di noi medesimi: Dio solo vivrà e regnerà in noi; è questo il motivo per cui Dio ama così tanto le anime umili e in esse stabilisce così assolutamente il suo trono e il suo dominio. Dio, infatti, nell’anima annientata trova piena libertà di fare quanto gli piace e si prende una sovrana compiacenza nel sacrificio di tutto quell’essere creato, il quale, nell’umiltà immola se stesso ed è divinamente consumato.