VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 4

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (4)

GIOVANNI OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO V.

L’umiltà

L’umiltà è virtù che serve di fondamento a tutte le altre e deve presupporsi ad ogni esercizio di pietà; senza di essa l’anima non farà mai nessun progresso. La superbia, che è opposta a questa virtù, è il vizio che più dispiace a Dio. A questo orribile ed infelice peccato Dio suole resistere, come dichiara così spesso nella Scrittura: Dio resiste ai superbi (Deus superbis resistit. Jac., IV,1). Il fondamento di questa resistenza di Dio alla superbia proviene dall’ingiuria speciale che essa gli fa, perché lo deruba di ciò che gli è più caro, dell’onore, cioè, della gloria a Lui dovuta ed esclusivamente riservata, per attribuirla ad un niente, ad un verme della terra. Dio non è di nulla geloso come della sua gloria; ci comunica il suo essere divino, la sua propria natura, e tutti i suoi doni, ma con la condizione che noi non lo deruberemo di ciò che Egli non intende punto cedere a nessuna creatura, vale a dire della sua gloria (Gloriam meam alteri non dabo. Isai., XLII, 8.). In conseguenza dell’avversione e dell’odio che Dio prova contro la superbia, non appena l’anima è così miserabile da abbandonarsi ad un tale eccesso. Dio sull’istante si ritira e l’abbandona a sé medesima, privandola della sua grazia e del suo aiuto; per lo stesso motivo, non se ne avvicina che in quanto essa è vuota di ogni superbia e di ogni propria stima. Perciò diciamo che la santa umiltà è fondamento di tutte le virtù, perché queste non si possono acquistare senza la grazia e l’aiuto divino, favori questi che Dio dà solamente agli umili: Agli umili Dio dà la sua grazia. (Jac.IV, 6). Incominciamo dunque dall’umiltà e vediamo innanzi, tutto in che consista.

I.

Natura dell’umiltà.

1° grado dell’umiltà: riconoscere la propria abiezione e compiacersene. Umiltà in Dio e in Gesù Cristo. Amore di Gesù Cristo per le umiliazioni anche nel suo Corpo mistico La vera umiltà è interiore e consiste nella sottomissione alla volontà di Dio. 2.° grado: amare la propria abiezione. 3.° grado: godere che Umiltà nelle. aridità spirituali. Schiarimenti sulla nostra abiezione sia riconosciuta anche dagli altri. — Amore dell’abiezione. Non ambire la grandezza neppure in Paradiso.

L’umiltà ha tre parti. La prima è di compiacerci nella conoscenza di noi stessi. Vi sono anime alle quali Dio fa conoscere la loro miseria ed i loro difetti, anzi ne porge loro l’esperienza, facendo risaltare ai loro propri occhi la loro stolidezza, leggerezza, inutilità e assoluta incapacità; ma esse a tale vista si rattristano e non potendola sopportare, cercano in se stesse qualche cosa che le lusinghi, si studiano di scoprire in sé medesime qualche perfezione o qualche virtù che le metta al coperto della convinzione della loro miseria: questo è effetto di superbia. Bene spesso ci troviamo in tale stato che sentiamo grande abbattimento nel vederci quali siamo, cioè: niente nella grazia e niente nella natura, inutili ad ogni bene, insopportabili a noi stessi e a tutti: se questo sentimento produce scoraggiamento interiore, è segno che la nostra è umiltà falsa. – Nostro Signore dà, al contrario, la stessa visione ad anime sante che gli sono care e predilette e sono stabilite nella vera umiltà, affine di rendere più profonda in esse questa virtù e prepararvi un fondo più ampio per ricevere la sua grazia e il suo amore. Ma queste anime, perché più umili, godono di conoscere ciò che sono: basta non aderiscano alla malizia della loro carne sono contente; talvolta non conoscono punto questa loro buona volontà, Dio permettendo che non distinguano tra gli assalti della carne e il consenso: e ciò è causa per esse di molta pena. Ora sentiranno ripugnanza verso i poveri e riluttanza a praticare la carità: ora sentiranno disgusto di Dio e della sua santa parola. Altre volte proveranno altre molestie che partono da quel fondo maligno della carne che si chiama comunemente la natura corrotta; e, nell’incertezza se abbiamo acconsentito a simili tentazioni, si affliggono e si trovano molto umiliate, come pure al pensiero di non aver lavorato abbastanza a vincere sé medesime. Orbene, tutte queste prove, per le anime sante, non sono motivo di pena e di abbattimento quanto di confusione e di umiliazione. Anzi, ciò serve loro a non dimenticare ciò che sono in sé stesse, a ricordarsi che portiamo il peso della carne e siamo composti di una natura di peccato che è fondo inesauribile di malizia; perciò si riconoscono operai di iniquità. Infatti, avendo acconsentito al peccato in Adamo, e inoltre avendo contratto, per i loro peccati personali, abitudini viziose, esse hanno alterato la loro propria natura, e l’hanno talmente viziata che non vi rimane più nulla che abbia pregio alcuno. È  necessario un nuovo principio; è necessaria una nuova generazione, che ci dia una seconda vita e un nuovo spirito per conservare questa vita nuova. Lo Spirito Santo medesimo è quello che opera in noi ì movimenti al bene e ci sollecita alle opere buone, come la carne ci inclina alle opere cattive. Così lo spirito e la carne sono in continua e perpetua lotta. La carne, dice S. Paolo, combatte contro lo spirito e lo spirito contro la carne (Gal. V., 17). – Perciò i Santi, essendo veramente umili, riconoscono perfettamente ciò che sono da sé stessi, e ciò che in sé medesimi appartiene a Dio: riconoscono donde viene il bene e chi ne è la causa; rendono incessantemente lode e gloria a Dio per il bene che Egli opera nelle loro anime; si umiliano pure incessantemente per il male che fanno e che sentono in sé, riconoscendo la propria povertà, miseria e viltà, e condannano sé stessi come causa dei mali che risentono. Ma una tal vista, per quanto ne provino tristezza, li umilia senza avvilirli né scoraggiarli. Ecco il primo grado della virtù di umiltà; compiacersi nella propria viltà e miseria. Conoscere questa viltà e miseria, non è parte di questa virtù; ne è soltanto una condizione e un fondamento. Perciò anche i pagani praticavano la conoscenza di sé medesimi, eppure essi non avevano nulla della virtù cristiana di umiltà, perché il primo passo di questa è la soddisfazione e la gioia che si prova nel conoscere se stesso. Che cosa è dunque l’umiltà? — È l’amore dalla propria abiezione, per il quale a poco a poco si diventa così amanti della nullità, della piccolezza e della bassezza da prediligerle in tutto e per tutto.

(Sarebbe irragionevole amare l’abiezione precisamente per l’abiezione stessa, quasiché sia meglio essere peccatori che santi, ignoranti che sapienti, scemi che di talento; ciò sarebbe, come dice S. Francesco di Sales, viltà di animo e di cuore ». Dobbiamo compiacerci del fatto della nostra abiezione in quanto è per noi una umiliazione; perché ne risulta maggiormente la gloria di Dio e anche, in certi casi, perché Dio vuole così; perché ne saremo meno considerati e stimati dalla gente o perché il prossimo verrà stimato più di noi; né tralasceremo di fare quanto sta da noi, come dice ancora San Francesco di Sales, per togliere il male che è causa della nostra abiezione (Cfr. Filotea, IIIa VI e infra pag. 65-66). –

Prendiamo un esempio: un’anima riconosce in sé il proprio nulla che la rende vile e abietta, riconosce la sua debolezza, i suoi difetti e persino i suoi peccati; bisogna si compiaccia nella viltà, nell’abiezione e nel disprezzo che gliene provengono; deve compiacersi in ciò che v’è in sé stessa di vile, di abietto e di umiliante. La viltà e l’abiezione che sono le conseguenze del peccato sono cosa affatto diversa dall’opposizione a Dio: l’anima che è umile deve amare la viltà alla quale essa è ridotta dal peccato, ma insieme deve detestare sommamente il suo peccato in quanto è contrario a Dic. Essa deve essere talmente amante della viltà e della bassezza di amarla dovunque la incontri: deve trovare nell’abiezione vaghezze così deliziose, che non trovi nulla di così amabile, e la consideri come la sua regina, la sua amica, la sua diletta. Amore di piccolezza, amore di bassezza, amore di abiezione, di umiliazione: ecco la nostra felicità, ecco l’unica nostra pace. Intesa così, l’umiltà ha la sua sorgente in Dio medesimo; Dio, infatti, benché a motivo delle sue perfezioni non sia capace di vero abbassamento, tuttavia ha in sé come un peso che lo porta verso le cose piccole, perché da sé medesimo è amante delle cose basse. Dio guarda alle cose vili, (Ps. CXII, 6); Ha rivolto lo sguardo alla bassezza della sua serva, dice la Madonna, nel Magnificat (Luc. I, 48), vale a dire che si compiace nella bassezza e vi prende la sua compiacenza. – Questo peso immenso della Divinità verso la bassezza, riempiva in modo eminente, delle sue inclinazioni l’anima di Gesù Cristo, e le infondeva una tendenza infinita verso la umiliazione, tendenza continuamente operosa, che mai poteva essere spenta né saziata. Tutto quanto vi è di disprezzo, di annientamento e di abiezione, tutto, per l’anima di Lui, è nulla in confronto di quella sete immensa di umiliazione che lo divora. In ciò consiste l’umiltà di Dio e di Gesù Cristo, di cui dobbiamo renderci partecipi, umiltà che Gesù diffonde nel cuore dei Cristiani nei quali ha infuso lo stesso peso e la stessa inclinazione verso ciò che è basso. Ed è questa la vera umiltà cristiana. – È da  considerarsi come il profeta diceva del Cuore di Gesù Cristo, che sarebbe saziato d’obbrobri (Thren. III, 30); era questo un effetto che l’immensità di Dio operava nel fondo dell’anima di Lui con l’infinità della sua potenza. – Non dobbiamo considerare soltanto le umiliazioni che Gesù Cristo ha subito nella propria persona e alle quali si riferisce quella sua parola sulla croce: SITIO, Ho sete; ma ancora gli obbrobri e i disprezzi che Egli desiderava soffrire nel suo corpo mistico e nei suoi membri; anche riguardo a questi Egli diceva: SITIO, Ho sete, muoio di languore nel desiderio di nuove pene e di nuovi disprezzi: bisogna che mi estenda e mi dilati in tutta la mia Chiesa e che in essa Io soddisfi la mia sete: quanto più soffrirò in essa disprezzi e umiliazioni, tanto più proverò gioia e consolazione e soddisferò il desiderio immenso che ho di scendere al basso. « Il Padre mio, infinito nei suoi desideri, mi comunica questo languore e questa immensa volontà, in confronto della quale Io non sono nulla, né sono capace di soddisfarla; per questo cerco sempre sulla terra qualche anima che soddisfi la mia pena e il desiderio che provo di bere a lunghi sorsi, in ogni tempo e in ogni luogo, al calice dell’onta e dell’umiliazione.. Dimodoché quando qualcuno soffre disprezzi e li riceve con gioia ed amore, altrettanto soddisfa la mia sete ». – Sarebbe ben giusto dare in noi questa gioia a Gesù Cristo e procurare di soddisfarlo ed accontentarlo su questo punto. – E poiché abbiamo tanta ripugnanza ad essere umiliati, dobbiamo almeno raccogliere con cura quel poco di umiliazione che possiamo, per dar luogo alla potenza e all’efficacia dell’operazione divina nel nostro cuore. – Dio in sé medesimo è immenso, la sua infinita grandezza che lo inclina verso la bassezza deve tutto umiliare sotto di Lui e portarci tutti all’amore del disprezzo e dell’abbassamento. Tuttavia, è un fatto che il nostro cuore gli resiste tanto fortemente e la vince in tal modo sopra di Lui che invece di tendere ad abbassarci, noi non tendiamo che ad elevarci, né cerchiamo altro che la lode, la stima e gli applausi. Dio così potente in tutto e particolarmente nell’anima del Figlio suo, trovasi come impotente in noi. – Studiamoci dunque di rinunciare al nostro fondo intimo, di condannarlo e sottometterlo a Dio, affinché Egli possa imprimere in noi ciò che desidera e investirci delle sue inclinazioni, dei suoi sentimenti e delle sue medesime disposizioni. Dobbiamo pregare molto la maestà di Dio che compia in noi le operazioni della sua potenza e della sua virtù immensa, affinché ci umiliamo in Lui e ci investiamo delle sue inclinazioni e dei suoi desideri.

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La principale umiltà è l’umiltà interiore; questa riguarda dapprima lo spirito e consiste nel tener sempre la facoltà dell’anima in una grande soggezione e dipendenza verso Dio; di modo che il nostro spirito non sia mai né insolente né superbo, al punto d’innalzarsi al cospetto del nostro Re e nostro Dio, ma invece si tenga sempre davanti a Lui in atto di perfetta sottomissione e di profonda riverenza, aspettando con pazienza la sua luce e i suoi ordini. Guardiamoci sempre dall’essere così presuntuosi da voler, in qualunque cosa, ragionare ed agire da noi e in noi; stiamo sempre sottomessi a Dio, aspettando con fede la sua direzione e la sua regola. – Lo stesso è da dirsi della nostra volontà; benché si trovi in questa carne di peccato e in questo stato di sregolatezza. Essa è sempre come una regina che domina e comanda, perciò, meglio ancora dell’intelligenza essa deve stare dipendente dallo Spirito divino, che vuol essere in noi Re e padrone. La nostra volontà, più guasta dal peccato che tutte le nostre altre facoltà. E quindi più imperiosa e arrogante, è sempre pronta a comandare e pochissimo disposta ad obbedire: ci vogliono grandi sforzi ed assidue applicazioni per tenerla soggetta e sottomessa, Essa ordina ogni cosa senza aspettare gli ordini, la mozione e la direzione né dello Spirito Santo, né della carità che sola deve dominare in noi e muoverci soavemente ad assecondare i desideri di Dio. – La vera e perfetta umiltà interiore consiste dunque nel sottomettere a Dio la nostra volontà non meno che la nostra intelligenza, la quale deve tenersi come morta, in un’attesa fedelissima e docile delle divine impressioni ed illuminazioni che Dio promette ai suoi figli. (Qui sequitur me non ambulat in tenebris, sed habebit lumen vitæ, Joan., VIII 12). In tal modo, ]’anima sarà veramente umile, e sarà tale in ispirito e verità, perché sarà umile effettivamente e con perfetto sacrificio. In questo stato, l’anima riconoscerà di non essere nulla che valga qualche cosa, di non essere capace di operare nella giustizia e nella santità, protestando che tutto viene da Dio, tutto dipende da Dio, tutto in noi deve essere operato da Dio. Conoscere che siamo un niente senza valore, che non sappiamo nulla, che non siamo capaci di nulla e compiacersi in questa vista e in questa conoscenza, ecco il primo grado dell’umiltà.

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Il secondo grado è di amare la propria viltà, la propria abiezione, il proprio nulla, anche nello spirito degli altri tanto come in noi medesimi, vale a dire, compiacersi di essere riconosciuti come vili, come abietti, come cosa da nulla, come peccato e di essere stimati tali nello spirito degli altri. Infatti, è proprio dell’umiltà di far sì che abbiamo amore, gioia. e piacere ad essere conosciuti e stimati da tutti per quel che siamo in realtà: se desideriamo di comparire migliori di ciò che siamo, se cerchiamo di scusare i nostri difetti, siamo ipocriti e impostori. – Dal difetto di umiltà nascono la pena, il dispetto e l’affanno che proviamo quando vengono scoperte le nostre imperfezioni.     Da qui quell’agitarci e inquietarci penosamente a riguardo della buona riuscita delle nostre opere, volendo acquistarci presso gli altri, fama, considerazione e stima. Non saremo dunque mai capaci di soffrire ciò che Gesù Cristo vuole operare in noi col suo Spirito di umiltà? Non sapremo sopportare di essere conosciuti quali siamo in realtà, ossia come niente e peccato, poiché non siamo altro in noi e da noi medesimi? Fuorché il nulla e il peccato, tutto in noi è cosa di Dio; se pretendiamo attribuircene anche la minima parte, commettiamo un furto a danno di Dio medesimo. – Noi siamo in tal modo un vero niente, che se Dio ad ogni istante non ci comunicasse l’essere, non vi sarebbe più nulla in noi, non vi rimarrebbe che il niente che è il nostro fondo e che unicamente ci è proprio. Anzi, se v’è in noi qualche cosa nelle nostre facoltà che non sia corrotta dal peccato, ne dobbiamo rendere grazie a Dio che lo ha operato in noi per sua bontà: a Lui ne appartiene tutta la gloria. Si può dire che noi medesimi abbiamo peccato in Adamo perché abbiamo in certo qual modo consentito con lui al peccato: siamo stati coinvolti nella sua colpa. Adamo, infatti, era il nostro procuratore e teneva come nelle sue mani tutte le volontà dei suoi discendenti. Dio con grande bontà l’aveva scelto per essere il nostro rappresentante, come l’uomo più perfetto al quale potevamo con la massima ragione affidare l’incarico di trattare con Dio in nostra vece ed in nome nostro. Adamo trattava dunque con Dio a nome di tutto il genere umano; in tal modo la nostra volontà era unita alla sua e consenziente con la sua. – Oltre questa prima colpa che in questo senso può dirsi opera delle nostre mani, colpa che è la causa di tutto quel semenzaio di mali che pullulano in noi ad ogni giorno e ad ogni  ora, come pure di quella corruzione che portiamo in noi, che S. Paolo chiama peccato perché nasce dal peccato, ci porta al peccato e per la quale quindi siamo peccato; oltre quel primo peccato cui abbiamo consentito in Adamo, oltre questa perversità che ci porta continuamente al peccato, noi abbiamo pure commesso moltissime colpe che ci rendono orribilmente deformi. – Donde avviene che, in tutta verità, tutto in noi medesimi è peccato e non siamo che peccato: questo fondo di malizia, di cui siamo impastati, è oggetto di orrore per il Signore; tantoché da questa parte siamo figli di maledizione e non possiamo nascondere che siamo tali agli occhi del cielo e della terra: dobbiamo dunque compiacerci di essere, nella mente di tutti, riconosciuti come tali. – Orbene, l’umiltà è quella virtù che ci fa sentire questo piacere e questa soddisfazione di comparire quali siamo in realtà, di essere considerati agli occhi di tutti come gente da nulla e come peccatori maledetti, poiché non siamo null’altro che questo. Ché se in noi vi sono grazie, virtù e doni, tutto questo è cosa di Dio e non cosa nostra; quindi se vogliamo essere considerati e stimati per queste grazie e virtù, noi ingiustamente derubiamo Dio di ciò che è suo ed a Lui unicamente appartiene. Bisogna che l’umiltà ci faccia ben considerare ciò che siamo noi e ciò che appartiene a noi, onde lasciare a Dio e rinviare fedelmente a Lui tutto quanto è suo e viene da Lui. Il demonio concentra qui tutti i suoi sforzi e lavora in modo particolare a confondere queste due viste distinte, che ci rivelano con tanta chiarezza ciò che è nostro e ciò che è di Dio. Lavora a farci credere che ciò che vi è in noi è nostro, e ne possiamo usare per concepire stima di noi stessi e farci stimare dagli altri. Ma l’anima veramente umile e attenta a premunirsi contro le astuzie dello spirito maligno mette tutto il suo impegno a riconoscere sempre ciò che è in sé stessa e ciò che da sé medesima proviene; tutta la sua cura è di considerarsi come niente e peccato, e di essere soddisfatta che anche gli altri la considerino come tale; se le capita di ricevere onori e lodi, nel suo cuore ne ride e si burla di coloro che le dimostrano stima, considerandoli come ciechi e come gente che parla senza ragione: essa prova talora disgusto ed orrore di simili cose, a segno che preferirebbe mille affronti piuttosto che una lode, perché le umiliazioni sarebbero fondate su la verità, mentre le ledi sono fondate sulla menzogna: essa insomma si meraviglia con istupore nel vedersi stimata ben altra di quanto continuamente riconosce di essere in sé medesima. – Secondo S. Bernardo, il secondo grado dell’umiltà non consiste solamente nel riconoscere che noi non siamo niente, ma ancora che ciò che compare negli altri è pure un niente. Ogni essere, ogni bontà, ogni verità è in Dio; e ciò che se ne trova nella creatura viene per effusione da Dio, mentre il fondo della creatura è il nulla. È oltre che siamo niente come creature, abbiamo una tendenza naturale al niente: è proprio del niente tendere sempre verso il niente. Ecco ciò che è l’uomo, e il suo desiderio deve essere di comparire tale; diversamente è un ladro verso l’Essere sovrano, perché vorrebbe appropriarsi di ciò che appartiene a Dio e mettersi al posto di Dio.

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Il terzo grado dell’umiltà è di voler che gli altri non soltanto ci riconoscano, ma pure ci trattino come vili, abietti e spregevoli: di ricevere quindi con gioia tutti i disprezzi e tutte le umiliazioni possibili; di non essere mai sazi di obbrobri, ma al contrario desiderarli sempre con insaziabilità; in una parola, è desiderare di essere trattati secondo il proprio merito. Ora, siccome l’anima veramente umile considera sé stessa come un misero niente e una peccatrice maledetta, né dagli altri vuole essere considerata diversamente, essa per la virtù dell’umiltà desidera pure di essere trattata come un niente, come creatura maledetta e miserabile peccatrice, due titoli meritevoli del disprezzo più profondo che si possa concepire. Si abbia pure di noi tutto il disprezzo immaginabile, non sarà nulla ancora in confronto di ciò che meritiamo; donde avviene che l’anima veramente umile non può sentirsi, disprezzata. Qualunque cosa si dica, o si faccia contro di essa, non ne arrossisce; tanto meno se ne offende, perché ogni disprezzo è un nulla in con confronto di ciò che essa sente di meritare. Il niente non non ha nessun pregio, non ha nulla che possa essere oggetto dei nostri pensieri e delle nostre affezioni, quindi non merita neppure il disprezzo. Perché chi dice niente, dice assenza di ogni essere e di ogni perfezione, mentre soltanto l’essere e la perfezione meritano stima e compiacenza. Inoltre, qual disprezzo non è dovuto al peccato? Esso non ha nulla che sia gradevole e sopportabile, ma al contrario, è l’avversione da Dio che è l’unico vero bene, e quindi il peccato è la privazione di ogni bene. – È certo che per un’anima veramente umile un’ingiuria è un onore: essendo essa un niente, non merita né di essere considerata né che si pensi ad essa; non è degna neppure che uomo al mondo se ne occupi sia pur per disprezzarla. Chi mai si rivolgerebbe al niente, anche per schernirlo? Non si ingiuria un fantasma; non ne vale la pena, poiché è niente. Colui che dunque che sa di non essere da sé medesimo che un niente e quindi molto meno di un fantasma, si ritiene molto onorato che si pensi a lui anche per ingiuriarlo. Così, se viene dimenticato e disprezzato,  non se ne meraviglia, e crede non si possa fare diversamente: lungi dall’essere sorpreso che lo si ingiuri, si stupirebbe se venisse trattato diversamente, Se anche nel suo interno, da Dio viene trattata con diprezzo ed abbandono l’anima sinceramente umile non ne resterà meravigliata perché sa di non meritare altro. È questo il segno al quale si può riconoscere la vera umiltà; quando l’anima trovasi nelle aridità e si sente interiormente come abbandonata e respinta da Dio. se è veramente umile si mette dalla parte di Dio e ne approva il modo di fare contro se stessa, si abbassa e si annienta nella preghiera, condannando sé medesima e riconoscendo di non meritare un trattamento migliore. Dobbiamo riconoscere che Dio con tutta ragione respinge le opere nostre e le nostre persone; e quando sentiamo che ci tratta in questo modo, se ne restiamo afflitti, è segno che non siamo umili, è segno che non siamo ben convinti della nostra incapacità per qualsiasi bene. – Il nostro niente rivestito di un essere corrotto dal peccato, da se stesso in quanto tale, non può far altro che il peccato, non può che fallire in tutte le opere sue. È questo un gran motivo di confusione, che deve farci riconoscere che Dio, il quale è l’equità, la rettitudine medesima e la vera giustizia, ha pur diritto di respingerci noi e tutto ciò che viene da noi, (Dicite; Servi inutiles sumus. Luc. XVII, 10) perché tutto quanto può esservi nelle opere nostre di santo e a Lui gradito, tutto proviene dal Figlio suo, nel quale Egli per l’operazione dello Spirito Santo, prende tutte le sue compiacenze. Essere dunque così disprezzati e respinti anche da Dio, e inoltre maltrattati dai nostri superiori, dai nostri eguali e persino dai nostri inferiori, in una parola, da ogni creatura, ecco ciò che ci è dovuto e dobbiamo rallegrarcene come della cosa più giusta, della cosa migliore e più vantaggiosa per noi, più conforme al desiderio di Gesù Cristo, e che perciò dobbiamo preferire (Bonum mihi, quia humiliasti me. Ps. CXVIII, 71).

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Dobbiamo dunque amare lo stare al basso da qualunque parte venga la bassezza, dovunque la troviamo, non soltanto in questo mondo ma pure per l’altro, non soltanto su la terra ma pure in Cielo. Dobbiamo compiacerci di stare nel posto più infimo, come raccomanda Nostro Signore, (Recumbe in novissimo loco. Luc., XIV, 10.) e amare l’ultimo posto in tal modo che lo desideriamo anche in Paradiso. Non già che dobbiamo desiderare di essere gli ultimi nell’amore di Dio, o i più negligenti nel progredire nella perfezione; né che dobbiamo dire come certe anime vili: « Purché mettiamo il piede in Paradiso, questo ci basta », né si curano di essere più sante; questo sarebbe metterci in pericolo di non essere mai santi e di stare anche fuori del Paradiso. Al contrario, bisogna sospirare di amare Dio quanto Egli lo desidera, con ardore e fedeltà, e tendere con tutte le nostre forze a quel grado di gloria e di felicità che Egli ci tiene preparato. Colui che commettesse la minima colpa per umiliarsi, farebbe una sciocchezza; così pure, colui che tralasciasse il minimo bene per essere piccolo in Paradiso, avrebbe grave torto. Intendo parlare soltanto di ciò che concerne la piccolezza in sé stessa, essa deve sempre essere così amabile per noi che l’apprezziamo dovunque la troviamo, né dobbiamo fare nessuna azione col proposito di essere grandi e di emergere dalla piccolezza. – La nostra superbia è più sottile che quando trova una porta chiusa, se ne apre qualcuna da un’altra parte; quando si è soffocato il desiderio della grandezza in questo mondo, la desidera nell’altro; quando si ha rinunciato alla grandezza delle cosegrossolane della terra, la superbia la cerca nelle cose dello Spirito e della grazia. Appena ci siamo liberati dalla brama di essere grandi e pregiati negli onori e nelle ricchezze del secolo, la superbia subito ci porta a ricercare di essere grandi e pregiati nella grazia e nelle cose dello spirito. Essa ricerca e desidera i doni superiori e le illuminazioni più eccellenti, le grazie appariscenti e i talenti straordinari, così la superbia sempre ricerca la grandezza. Se noi riusciamo a riconoscere, in questo desiderio dei pregi spirituali della grazia, un fine contrario all’umiltà e lo superiamo, allora la superbia ricerca un’altra eccellenza, vale a dire quella della gloria, e aspira ad un posto elevato in Paradiso. Ottima cosa per verità, quando non sì desideri per ispirito di superbia; ma troppo spesso avviene che noi amiamo la piccolezza su la terra, per segreto desiderio di superbia, sperando con questo mezzo di esser grandi in Paradiso. In tal caso, poiché l’umiltà su la terra è la semente dell’esaltazione in Cielo, noi facciamo ancora le nostre opere buone allo scopo di essere grandi, e ci consoliamo nelle nostre umiliazioni con una tale prospettiva; strano e stupendo spirito quello della superbia, che sempre e in tutto cerca la grandezza, o in un tempo o in un altro, o in un modo o in un altro. – L’anima veramente umile, invece, desidera di non essere niente, tanto ai propri occhi come nello Spirito degli altri; non si cura di comparire in nulla, ama di rimanere nascosta e sconosciuta, si compiace di essere considerata come un niente (Ama nesciri, et pro nihilo reputari. De Imit. Christi.). Gesù Cristo solo deve comparire, e noi restar nell’ombra; bisogna distruggere il nostro essere proprio e rivestirci di Gesù Cristo per non comparire che sotto di Lui e in Lui. Questo sentimento ci darà un desiderio ed una santa affezione di non Operar nulla da noi medesimi; ci renderà fedeli a rinunziare interiormente a noi stessi, studiandoci di mortificare in ogni occasione il nostro spirito proprio e la nostra volontà In tal modo dobbiamo arrivare sino a vivere in questo spirito di morte interiore. dimodoché non operiamo più secondo la nostra volontà propria, e non facciamo altro che cooperare semplicemente allo Spirito Santo, che animerà il nostro interiore e vivificherà le nostre facoltà. Allora vivremo in uno spirito di vero annientamento di noi medesimi: Dio solo vivrà e regnerà in noi; è questo il motivo per cui Dio ama così tanto le anime umili e in esse stabilisce così assolutamente il suo trono e il suo dominio. Dio, infatti, nell’anima annientata trova piena libertà di fare quanto gli piace e si prende una sovrana compiacenza nel sacrificio di tutto quell’essere creato, il quale, nell’umiltà immola se stesso ed è divinamente consumato.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 5

LA VITA INTERIORE (11)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (11)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI,

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna, Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione Riveduta.

LUCI DI STELLE

LO SPIRITO DI FEDE

NECESSITÀ.

Quante volte. abbiamo letto, oppure, udito, ch’è necessario, oggi più che mai, vivere di fede; di una fede luminosa, di fede intelligente, di fede attiva: non di fede ordinaria. Il primo passo per la via della fede è, precisamente, lo spirito di fede. Lo spirito di fede ci conduce direttamente a Dio, e ci persuade della necessità di dover vivere la vita di unione con Lui. Gesù, disse propriamente che ci è dato conoscere Dio per mezzo di questo spirito di fede: Nessuno conosce il Padre fuori del Figlio e fuori di colui, cui il Figlio lo avrà voluto rivelare (MATT., XI, 27). « C’è bisogno di questa grande fede per penetrare nel Cuore di Gesù, nell’intimità  di questo Cuore, per trovare non un Gesù rimpicciolito, ridotto, permettetemi la parola — un Gesù caricatura, — ma per trovarlo nella pienezza dell’amor suo, nella magnificenza del suo amore. Bisogna penetrare più addentro della lancia di Longino, per comprendere questa luce misconosciuta. Che il mondo accetti o no: Dio è il maestro e il padrone! Il nostro dovere è di seguirlo. Servire Deo regnare est… Ma io dico che servire il Signore è più che regnare. Che vuol dire regnare? Governare delle creature, vuol dire fare opera che ci lasci con tutte le nostre miserie. Ma servire il Signore è diventare padroni del suo Cuore, è possederlo con la fede. Si riceve questa grazia nella misura in cui si progredisce nello spirito di fede, nel desiderio di veder Dio, di non vedere che Lui solo! Chi è penetrato da questa luce non ha bisogno di niente. Viene un momento in cui riposa in Dio, vedendolo, per così dire; e allora il resto, sofferenze, immolazioni, persecuzioni, non sono che minuzie. – Ma dove e come Gesù Cristo c’insegna a conoscere Dio? Nella vita intima con Lui, nella preghiera: ecco perché anime ignoranti secondo il mondo, sanno di questo soggetto più dei sapienti» (P. MATTEO CRAWLEY, Incontro al Re d’Amore). La citazione è un po’ lunga. Ma l’abbiamo fatta di proposito, e per la competenza del pio autore e per la cristallina trasparenza delle affermazioni. Vivere di spirito di fede, adunque, è vivere vedendo Dio in tutto, e in ciò ch’è gradito come in ciò che ripugna. Vedere Dio in tutto è vivere guidati da Dio, illuminati dalla sua luce, confortati dal suo amore, attratti dalla sua potenza, sostenuti e ritemprati dalle sue sofferenze sopportate per noi, desiderosi soltanto di vedere, di conoscere, e perciò di amare, e perciò d’essere sempre uniti con Gesù dolce, con Gesù amore.

CHE COSA VUOL DIRE.

Possiamo, perciò, così dedurre: Avere spirito di fede vuol dire:

1) Meditare sovente le verità della fede, e ritornare spesso, e con piacere, alla meditazione di tali verità.

2) Giudicare tutti gli avvenimenti in conformità delle viste della fede; e, invece di fermarsi sulle cause seconde, vedere in esse la causa prima ch’è Dio, il quale le dirige tutte per la sua gloria, per la nostra salute facendole servire a castigare gli uni o a purificare e santificare gli altri.

3) Non desiderare se non le cose che la fede c’insegna essere buone, cioè essere tali che possano condurci al nostro fine. Quid hoc ad æternitatem? che giova questo per l’eternità?

4) Non temere se non quello che la fede ci fa riguardare come pericoloso, vale a dire tale da poterci facilmente allontanare dal nostro ultimo fine; p. es. tutto quello che ci espone a qualche tentazione.

5) Parlare sempre conforme al linguaggio di Gesù Cristo nel santo Vangelo: biasimando ciò ch’Egli biasima e approvando ciò ch’Egli approva.

6) Risolversi abitualmente per quel partito che la fede ci fa riguardare: come il migliore, cioè come quello che ci espone meno alla tentazione e occasione di peccare.

7) Operare e agire in tutto, in conformità agli insegnamenti della fede, per motivi che essa ci fornisce, e santificare così le azioni che sarebbero in se stesse indifferenti e materiali come il cibo, il riposo, la ricreazione; offrendole a Dio procurando di nobilitarle e di animarle con qualche pia considerazione e soprannaturalizzando ciò che sarebbe puramente naturale… – Diamo il bando alla superficialità, alla leggerezza della vita. Non per noi, non per noi le vane apparenze! Solo Gesù sempre, ch’è l’unica realtà. Sentirla, dobbiamo, questa unica realtà. Lo sappiamo: vi sono difficoltà molte. E con questo? Marcescit sine adversario virtus… Latino di facile intelligenza che induce alla saggia e matura conclusione dell’amore alle sofferenze, della rassegnazione gioiosa nei dolori inevitabili di questa vita … alla serietà e fortezza nel Nome di Cristo Gesù.

L’INSEGNAMENTO DI S. FRANCESCO DI SALES.

San Francesco di Sales esortando le anime a vivere di spirito di fede, enumera tre specie di verità di fede. Vi sono, dice il Santo, alcune verità molto gradite al nostro spirito, non solo perché Dio ce le ha rivelate e la santa Chiesa ce le propone a credere, ma anche perché incontrano i nostri gusti, perché le possiamo ben penetrare, intendere facilmente e perché sono conformi alle nostre inclinazioni. Tali, sono in genere, tutte le vertà consolanti e, in modo tutto particolare, la certezza della misericordia infinita di Dio, e l’ambitissimo i premio eterno del Paradiso. – Non tutte le verità di fede, però, sono consolanti. Anzi: alcune sono terrificanti. Come vi sia, per esempio, un inferno eterno, per il castigo dei peccatori ostinati, è una verità amara, dolorosa, terribile, alla quale non vorremmo credere, e vi crediamo niente volentieri, ma solo in forza della parola di Dio. – Lo Spirito di fede ci deve persuadere a credere sempre le verità rivelate indipendentemente dai nostri sentimenti di gusto o disgusto … Dobbiamo credere le verità amabili e quelle terribili per l’autorità della parola di Dio: quest’è la vera fede, lo spirito di fede. – In secondo luogo, S. Francesco di Sales osserva che vi sono verità di fede facilmente apprezzabili e comprensibili; sia dalla nostra immaginazione che dalla nostra intelligenza; e ve ne sono delle altre interamente opposte e in nessun modo afferrabili. Tra le prime, per esempio, noi intendiamo bene come Gesù sia nato nel presepio di Betlemme, come abbia dovuto fuggire in Egitto, come sia stato crocefisso; tra le seconde noi non intendiamo la verità della SS. Trinità, l’eternità, la presenza reale di Gesù nel SS. Sacramento dell’Eucaristia. Queste ultime verità sono certamente reali, « ma così fatte che la nostra immaginazione non le può concepire, perché noi non possiamo in nessun modo immaginare come tali verità esistano; non di meno il nostro intelletto le crede fermamente e semplicemente, sulla sola sicurità che gli dà la parola di Dio ». Questo è lo spirito di fede che i santi hanno avuto, praticato, insegnato, anche tra le sterilità spirituali, le aridità e le tenebre dell’anima. – Osserva infine S. Francesco di Sales che si può avere e conservare lo spirito di fede, vivendo la verità e nella verità non già la menzogna e nella menzogna. Si vive la verità e nella verità vivendo la grazia, e nella grazia divina; e seguendone gli impulsi. Viceversa, vive nella menzogna chi vive nella natura secondo le operazioni della natura. La nostra immaginazione; dice precisamente il santo, i nostri sensi,  il nostro sentimento, il nostro gusto; le nostre consolazioni, i nostri discorsi possono essere ingannati ed ingannatori; vivere secondo queste cose, gli è vivere di menzogne; o per lo meno in pericolo continuò di menzogna, ma vivere nella verità è vivere nello spirito di fede. – I modelli più perfetti e più ricchi di spirito di fede che le nostre anime possono ricopiare sono, senza dubbio, Maria Santissima e San Giuseppe. Tutto quello che essi operarono nella loro vita è luminosissimo trionfo della loro fede, del loro vedere Dio e la sua santa volontà in tutto. – Qui ‘facciamo punto. Prima, però ancora due semplici osservazioni. Perché la fede è poca, debole, deficiente, anche in anime che pretendono di vivere proprio cristranamente? Perché non pregano o non pregano bene! Nutrimento della fede è la preghiera umile, fiduciosa, perseverante. – Ancora. In molti la fede è poca, debole, fiacca; o nulla per la grande ignoranza. « Che cosa credere » domanda Lacordaire, quando non si sa? Che cosa amare, quando non si è visto? Le letture di ogni giorno alimentano lo spirito, lo disgustano dalle cose vane, gli formano una linfa interiore che scorrerà per lo spirito e lo animerà tutto ».

(Chi fa le sue azioni materialmente senza riflessione, egli opera a guisa di una macchina; chi fa le sue azioni per piacere a se stesso e contentare i suoi sensi, egli opera a guisa dei bruti; chi fa le sue azioni solo per motivi umani, egli opera a guisa dei filosofi pagani; ma chi fa le sue azioni con spirito di fede, per piacere a Dio, egli opera da Cristiano, da religioso. Solo chi opera in tal modo piace a Dio, e si fa meriti pel Cielo. Chi fa un’opera di carità, un’elemosina solo per compassione naturale; chi fa un piacere al prossimo solo per convenienza o per esserne contraccambiato; chi tiene un contegno modesto solo per attirarsi la stima altrui, o si raffrena in qualche circostanza. solo per non dar ad altri cattiva opinione di sé, tutto perde, perché tutto ciò non è che vanità, non è che un perdere il tempo e la fatica, per trovarsi in punto di morte con le mani vuote di meriti. Chi invece, vive con spirito di fede e tutto opera con fede, tutto guadagna: la sua Vita è soprannaturale, e tutte le sue azioni sono meritorie per il Paradiso. Beato il Cristiano, il religioso che vive ed opera con spirito di fede; infelice invece chi vive ed opera senza di esso. (Morino, Tesoro evangelico, IV, 130).

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 3

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (3)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935 Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO IV.

Della pratica delle virtù

Dobbiamo contemplare Gesù Cristo non soltanto in modo generale, ma nelle sue virtù particolari secondo le occasioni. – Via che segue il Signore per far progredire l’anima nella virtù. Modo di meditare sulle virtù  contemplando Gesù Cristo. Gesù davanti agli occhi. Gesù nel cuore, Gesù nelle mani. Applicazione pratica di questo metodo alla virtù di penitenza.

Per riuscire nella pratica delle virtù di Nostro Signore, possiamo contentarci talora di applicarci, in genere soltanto a senza particolari distinzioni, alle Spirito di Gesù Cristo che è il principio di ogni di Gesù Cristo che il principio di ogni virtù, e così in Lui attingerle tutte. Ma Gesù Cristo ci fa una grazia maggiore quando ci dà delle sue virtù una vista distinta e ce ne discorre, nei particolari, la natura e le inclinazioni, facendoci entrare in tal modo nello spirito di quelle che bisogna praticare nelle varie occasioni che si presentano. Benché una tal vista sembri meno semplice, tuttavia, essendo più estesa, dà maggior intelligenza delle virtù, le quali sono in Lui in eminenza e in semplicità, e ci porge una grazia più generale per acquistarle; è questo un grande aiuto per la perfezione e per la somiglianza con Gesù Cristo.

***

Per far progredire l’anima cristiana Dio segue questa via: dapprima le dà la vista delle colpe contrarie alle virtù, e dell’incapacità di evitarle senza l’aiuto di Gesù Cristo. – In secondo luogo, le mette davanti agli occhi l’esempio delle anime perfette che si dànno allo studio e alla pratica della purezza delle virtù, come esemplari che suppliscano alla presenza visibile di Gesù Cristo; e in pari tempo le dà il desiderio di imitarle. – Inoltre, quel buon Maestro delle anime fa loro la grazia di frenare col suo Spirito la resistenza della carne, ed anzi, ad onta di tale resistenza, le porta all’esercizio interiore delle virtù. Infine, Egli dà all’anima la vista della purezza delle virtù e della maniera santa e perfetta con cui Nostro Signor le praticava, e la stabilisce nelle disposizioni proprie di ciascuna virtù, per mezzo di Gesù Cristo che ne è l’unico maestro; e l’anima, stabilita così in tali disposizioni, ne è investita così naturalmente da non aver più né gioia né libertà se non in tale divino esercizio. – Orbene, la migliore disposizione con la quale possiamo essere preparati a lasciare che lo Spirito prenda possesso di noi e a stabilirci per mezzo suo nelle virtù, è l’annientamento interiore di noi medesimi (Questa espressione annientamento indica « uno stato in cui l’anima con la pratica dell’amore di Dio e col distacco da ogni cosa, non segue più le inclinazioni della natura, ma le ispirazioni e le mozioni della grazia. La vita naturale è come annientata per lasciare il posto alla vita soprannaturale ». – Icard. Doctrine de M. Olier. Pag. 40-41). In tal modo, non appena avremo lasciato che quel divino Spirito totalmente ci annienti, noi ci vedremo da Lui confermati nella disposizione di tutte le virtù, inclinati e pronti a praticarle tutte, in ogni occasione, e vivremo costantemente in tale disposizione. – Prego Gesù Cristo, il nostro Amore, che si degni darci la grazia, se tale è la gloria del Padre, di conservarci sempre in questo sentimento di annientamento di noi medesimi, onde riconosciamo che siamo piccoli, più piccoli di tutti, poveri piccoli schiavi e servi di tutti, benché oltremodo indegni, ed inferiori a tutti molto più ancora di quanto sapremmo dire e pensare. – Orbene: per mantenerci in questo spirito di annientamento di noi medesimi, e così attirare in noi lo Spirito Santo che vi stabilisca la virtù, il mezzo più spedito è di presentarci spesso a Nostro Signore come poveri mendicanti, meschini, annientati e spogli di tutto, ma animati dal fervente desiderio della nostra perfezione. E siccome ciò non si può far meglio che con la meditazione, crediamo bene di dar qui un metodo che ci renderà molto facile questo esercizio.

Metodo di meditare su le virtù contemplando Gesù Cristo.

Il metodo che Nostro Signore insegna ai suoi discepoli, non si applica che in mancanza delle cure particolarissime con le quali lo Spirito dirige nella preghiera i suoi figli (Questa frase, noi crediamo, vada intesa in questo modo: qualsiasi metodo ispirato dall’insegnamento di Nostro Signore, serve soltanto quando lo Spirito Santo non conduce Egli stesso l’anima nella via della preghiera, con grazie particolari.). Quando questi da Lui sono lasciati nell’abbandono e nell’aridità, né sanno qual via tenere, si trovano molto impacciati ed hanno bisogno della direzione di qualche santo modello. – Ne proponiamo qui uno molto facile, che è conforme al disegno di Dio Padre, già espresso nella Legge antica. Esso consiste nell’aver Nostro Signore davanti agli occhi, nel cuore, e nelle mani. In tal modo gli Ebrei dovevano portar le leggi: « Queste parole saranno nel tuo cuore; le legherai come segnale alla tua mano e saranno come frontali per i tuoi occhi ». (Deuter. VI. VIII.). – Il Cristianesimo consiste in questi tre punti, nei quali è pure compreso tutto questo metodo di meditazione: guardare a Gesù, unirci a Gesù, operare in Gesù. Il primo porta alla riverenza e alla religione; il secondo all’unione o unità con Lui; il terzo all’azione, non più isolata, ma congiunta con la virtù di Gesù Cristo che abbiamo attirato in noi con la preghiera (In queste poche linee abbiamo, si può dire, il riassunto di tutta la dottrina spirituale di G. Olier e della scuola del Cardinale De Berulle. Gesù davanti agli occhi, con la meditazione abituale dei suoi misteri; Gesù nel cuore con l’amore che a Lui ci unisce e ci penetra dei suoi sentimenti: Gesù nelle mani, per compiere le nostre azioni sotto la direzione del suo Spirito, e rendere la nostra vita perfettamente conforme alla sua. Non è altro che la dottrina di San Paolo. Cosa ci insegna infatti l’Apostolo se non che Dio vuole imprimere l’immagine del Figlio suo in quelli che ha predestinati alla sua gloria? Rom. VIII, 24). Il primo chiamasi adorazione; il secondo comunione, il terzo cooperazione. (Conoscere, amare, fare). – Affinché possiamo facilmente applicare a tutte le virtù questo esercizio, ne daremo qui un modello per la virtù di penitenza.

PRIMO PUNTO.

Mettiamoci Nostro Signore davanti agli occhi. Consideriamo col massimo rispetto Nostro Signore in quanto è penitente per i nostri peccati. Onoriamo in Lui il santo Spirito di penitenza che lo anima in tutto il corso della sua vita, e che in seguito ha riempito il cuore di tutti i penitenti nella Chiesa. Animiamoci di riverenza e di rispetto per un mistero sì divino e sì santo, e dopo che il nostro cuore si sarà effuso in amore, in lode e in altri sentimenti, ci fermeremo alcun tempo in silenzio davanti a Gesù, onde penetrarci, sino al fondo dell’anima nostra. Di tali sentimenti e disposizioni.

SECONDO PUNTO.

Mettiamoci Nostro Signore nel cuore. Dopo aver così adorato Gesù Cristo e ilsuo santo Spirito di penitenza, passeremoun po’ di tempo a sospirare verso questo divino Spirito. Pregheremo questi Spiritoal quale soltanto spetta di darci un cuor nuovo e formarci un’anima penitente, chesi degni di scendere in noi. Lo supplicheremo in tutti i modi che ci verranno suggeriti dall’amore, che si degni di venirenell’anima nostra per renderci conformi a Gesù penitente, affinché possiamo continuarein noi quella penitenza che Egli ha cominciatain sé medesimo, e accettare quella parte e quella misura di pena dovuta adun corpo, come il nostro, pieno di peccati.Ci offriremo a Lui con la donazionedi noi stessi onde prenda possesso dinoi e siamo animati dalla sua virtù; poistaremo ancora un po’ di tempo in silenziocon Lui, per lasciarci penetrare interiormente dalla sua unzione divina, affinché ciporti, secondo le occasioni, a quell’esercizio di mortificazione che gli piacerà.

TERZO PUNTO.

Mettiamoci Nostro Signore nelle mani. Il terzo punto della meditazione è di portareNostro Signore nelle mani, ossia divolere che la sua divina volontà si compiain noi; siamo i suoi membri, dobbiamodunque stare sottoposti al nostro Capo enon aver altra attività che quella che ci viene da Gesù Cristo che è la nostra vita e ilnostro tutto. Gesù Cristo deve riempire l’animanostra del suo Spirito, della sua virtù, dellasua forza. e Perciò operare, in noi e per mezzo di noi, tutto quanto desidera.Gesù Cristo è Pastore, nei Pastori; Sacerdote, nei Sacerdoti: Religioso, nei Religiosi; Penitente nel penitenti; e, permezzo di essi, deve Egli medesimo compierele opere della loro vocazione. Deve dunqueoperare in noi effetti di penitenza:e noi dobbiamo sempre, in questo Spirito,cooperare fedelmente a tutto quanto Eglivuole fare in noi ed operare per mezzo nostro.

Così, in questo terzo esercizio, ci daremo a quello Spirito che nel secondo punto abbiamo attirato in noi, onde compiere in Lui, nel corso della giornata, le opere di penitenza; col desiderio di vivere in Lui senza posa, poiché a questo fine l’abbiamo chiamato nella meditazione. E non solamente ci daremo a questo divino Spirito per fare in Lui le opere di penitenza, perché fuori dell’unione con Lui non può esservi penitenza vera, ma ci abbandoneremo interamente a Lui, perché faccia in noi tutto quanto vorrà per dare soddisfazione a Dio.

***

Per maggiore intelligenza di questo metodo e per applicarlo più facilmente anche alle altre virtù, delle quali si deve dire quanto della penitenza, osserviamo che non si può essere penitenti se non in Nostro Signore. Gesù Cristo, infatti, è l’unico Penitente di tutta la Chiesa, ma diffuso nell’anima e nel cuore di tutti i penitenti, i quali devono gemere e soffrire in questo mondo per dare soddisfazione al Padre. – In tal modo, bisogna far passare nel nostro cuore lo Spirito di Gesù Cristo penitente, onde essere penitenti ancor noi nella sua persona e per la sua  virtù. Bisogna domandargli lo Spirito che ci metta in una disposizione interiore di penitenza verso Dio, come di umiliazione, contrizione efficace, condanna del peccato, orrore del mondo e delle sue massime; che ci dia une zelo perfetto di soddisfare in noi e sopra di noi medesimi per la pena dovuta al peccato; dimodoché non ci contentiamo di ammirare la penitenza negli altri, o di sentirla nel nostro cuore, ma inoltre desideriamo e domandiamo la forza di praticarla anche nel nostro corpo, poiché tutto in noi avendo peccato, tutto deve soddisfare a Dio. – Bisogna dunque domandare a Dio la sua virtù per compiere quella soddisfazione che Egli desidera da noi con un perfetto abbandono riguardo a tutto quanto si compiacerà d’imporci, sia direttamente, sia per mezzo dei suoi ministri. Bisogna investirci della penitenza interiore di Gesù Cristo, la quale è immensa in Lui e nei suoi membri; col proposito di sopportare, per quanto piacerà a Dio, tutto quanto Gesù ha sopportato nella sua carne e tutto quanto i suoi membri hanno sopportato, essi pure, nella loro carne, non volendo altri limiti se non quelli che c’imporrà la sua sapienza, e che Egli ci indicherà per mezzo dei superiori che tengono il suo posto. – Bisogna così immergerci nello Spirito di contrizione di Gesù Cristo, inabissarci in questo oceano di penitenza; e così renderci presenti in ispirito a tutto quanto Egli fece in sé stesso e a quanto fanno tutti i santi penitenti nella Chiesa; questi non fanno altro che esprimere ciò che Egli tiene rinchiuso nel suo interiore, e che Egli avrebbe voluto subire nel proprio corpo, se fosse stato capace di sopportare nell’infermità della sua carne tutto ciò che essi hanno sofferto. – Nostro Signore, dilatando il corpo della sua Chiesa, ha dilatato se stesso; Egli stesso porta la pena che viene sofferta dai suoi membri, poiché Egli mediante il suo Spirito, sì è inserito ed insinuato in essi. Egli anima la loro anima  la sua presenza e la sua virtù, dà forza al loro spirito ed al loro cuore, e così in essi Egli è penitente più di quanto lo siano essi medesimi: lo Spirito di Gesù Cristo penitente nelle loro anime, è quello che li rende penitenti. – Ed è questo il secondo effetto della meditazione; è questa pure la seconda intenzione di Dio e di Gesù Cristo riguardo alla preghiera. La prima è di ottenere che sia santificato il nome di Dio: sanctificetur nomen tuum; perciò il primo atto è di onorare, riverire ed adorare lo spirito di Dio in Gesù. La seconda è di procurare l’avvento del suo regno in noi, adveniat regnum tuum; ora il regno di Dio viene innoi quando, nella preghiera, attiriamo sopradi noi il suo Spirito, il quale con lasua virtù ci assoggetta interamente a Lui.La terza e di infonderci la volontà chei divini voleri si compiono in noi: Fiat voluntas tua; e ciò si verifica con la nostrafedele cooperazione alle mozioni di queldivino Spirito.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “IN PLURIMIS”

Questa lettera Enciclica diretta ai Vescovi brasiliani, è una catechesi precisa e puntuale sulla necessità di abolire per sempre il triste traffico degli schiavi, come Santa Madre Chiesa Cattolica ha da sempre insegnato e voluto in tutti i modi umanamente possibili. Quella schiavitù, per lo più praticata storicamente da infedeli e seguaci di ideologie e religioni diaboliche anticristiane, è una vera piaga che l’umanità ha da sempre inferto a se stessa e che il Cristo Gesù, mediante la sua Chiesa, ha sradicato tra i popoli barbari divenuti Cristiani. Ma dopo un grande successo ottenuto dall’azione di numerosi Papi ed ecclesiastici – puntualmente ricordati nel documento – oggi sotto altre forme la schiavitù è tornata prepotentemente ad essere praticata; che cos’è infatti la tratta degli africani portati in barconi malridotti attraverso lunghi viaggi marittimi, costretti a lavori miseri e sottopagati nelle aziende agricole dei popoli occidentali, anche un tempo cristiani? Che cos’è la tratta delle ragazze dell’est o della Nigeria costrette a prostituirsi per soddisfare le voglie dei suini-umani nei popoli sedicenti evoluti e civili? Che cos’è  la vendita di bambini strappati alle famiglie e a donne appositamente costrette, usati per essere dati in adozione o peggio, “impiegati” per fini falsamente scientifico-sanitari quando ancora feti abortiti per le industrie dei vaccini o dei cosmetici o di altri prodotti commerciali? Senza dimenticare i giovani o le donne sacrificate in turpi riti satanici o iniziatici in sette diaboliche o dell’alta massoneria! « … Volesse il cielo che tutti coloro che sono più in alto per autorità e potere, e che vogliono santificati i diritti delle genti e della umanità, o che si preoccupano di dare incremento alla Religione Cattolica, tutti con tenacia cospirassero a reprimere, a proibire, a sopprimere (aderendo alle Nostre esortazioni e preghiere) quel mercato, del quale nulla è più disonesto e scellerato! » Questo grido del Pontefice Leone XIII risuona ancor più doloroso oggi, epoca in cui la morale cristiana presso i popoli della terra, è bandita dalle politiche dei governanti mondiali, specie degli occidentali, e dagli intenti e dalle azioni dei finti prelati della falsa religione modernista postconciliabolare, e dai deviati apostati protestanti e scismatici di ogni risma. Certo è che il Signore sta già procedendo, attraverso bastoni poi destinati al fuoco, ad un reset mondiale che genererà dal nucleo del pusillus grex cattolico devoto al Cuore Di Gesù e al Cuore Immacolato di Maria, una nuova umanità cristiana sfrondata da falsi fedeli, da ipocriti pseudocristiani di facciata, da iene e lupi paganeggianti e corrotti travestiti da agnelli devoti, al soldo di sette infernali o di avidi speculatori internazionali, dalle false religioni settarie, dai servi obbedienti del signore dell’universo … lucifero: e là sarà pianto e stridor di denti.

Leone XIII
In plurimis

Lettera Enciclica

Fra le numerose e principali dimostrazioni d’affetto che quasi tutte le nazioni Ci hanno rivolto e ogni giorno Ci rivolgono per congratularsi con Noi del cinquantesimo anno di sacerdozio felicemente raggiunto, una in particolare, proveniente dal Brasile, Ci commuove: in omaggio a questo faustissimo evento sono stati restituiti a libertà molti di coloro che nei vastissimi territori di codesto impero gemono sotto il giogo della schiavitù. Infatti tale opera, ispirata alla misericordia cristiana, dovuta a uomini e a donne caritatevoli che collaborano con il clero, è stata offerta a Dio, autore e donatore di tutti i beni, come testimonianza di gratitudine per il dono dell’età e della salute a Noi benignamente elargito. Essa riuscì per Noi soprattutto accetta e gradita, tanto più che Ci confermava in questa lieta opinione: cioè che i Brasiliani intendono eliminare ed estirpare completamente la vergogna della schiavitù. Tale volontà popolare fu assecondata con lodevole impegno sia dall’Imperatore, sia dall’augusta sua figlia, nonché da coloro che governano lo Stato, con salde leggi promulgate e sancite a tal fine. Quanta consolazione Ci arrecasse tale evento, fu da Noi esternato nello scorso gennaio all’ambasciatore imperiale presso di Noi: aggiungemmo inoltre che avremmo Noi stessi indirizzato una lettera ai Vescovi del Brasile in favore degli infelici schiavi.  – Noi invero presso tutti gli uomini facciamo le veci di Cristo, Figlio di Dio, il quale con tanto amore abbracciò il genere umano, che non solo non rifiutò d’intrattenersi con noi, dopo aver assunto la nostra natura, ma anche ebbe caro il nome di Figlio dell’uomo, dichiarando pubblicamente di aver stretto un legame con noi “per predicare la libertà agli schiavi” (Is LXI, 1; Lc IV, 19) e, dopo aver liberato il genere umano dall’ignobile servitù del peccato, “per riunire in sé tutto ciò che è in cielo e tutto ciò che è in terra” (Ef 1,10), nonché per restituire all’antico grado di dignità tutta la progenie di Adamo, caduta nel precipizio del comune peccato. Afferma, assai a proposito, San Gregorio Magno: “Poiché il nostro Redentore, padre di ogni creatura, volle per amore assumere umana carne per infrangere con la grazia della sua divinità quel vincolo di schiavitù che ci stringeva e per restituirci all’antica libertà, si agisce in modo benefico e con beneficio del liberatore se vengono restituiti alla libertà in cui nacquero gli uomini che la natura originariamente creò liberi e che il diritto delle genti sottopose al giogo della schiavitù” . Conviene dunque, ed è assolutamente dovere Apostolico, che da parte Nostra si favoriscano e si promuovano alacremente tutte quelle iniziative per cui gli uomini, sia singoli, sia associati, possano attuare le difese, in modo che siano alleviate le molte miserie che, come frutto di albero malato, derivarono dalla colpa del primo genitore; quelle difese, dunque, di qualunque genere, che non solo giovano molto alla cultura e all’umanità, ma conducono anche a quel totale rinnovamento che il Redentore del genere umano Gesù Cristo ebbe di mira e volle. Ora, fra tante miserie, è da deplorare duramente la schiavitù a cui da molti secoli è sottoposta una parte non esigua della famiglia umana, riversa nello squallore e nella lordura, contrariamente a quanto in principio era stato stabilito da Dio e dalla Natura. Così infatti aveva decretato il supremo Creatore d’ogni cosa: che l’uomo esercitasse una sorta di signoria regale sugli animali di terra, di mare e sugli uccelli e non già che dominasse sugli uomini suoi simili. Secondo Sant’Agostino: “Creato ragionevole, a Sua immagine, non volle che l’uomo dominasse se non gli esseri irragionevoli; che l’uomo non dominasse l’uomo ma il gregge” (Gen 1,26). Pertanto “la condizione servile s’intenda giustamente imposta al peccatore. Infatti in nessun luogo delle Scritture leggiamo la parola servo, prima che con essa il giusto Noè punisse il peccato del figlio. Pertanto la colpa e non la natura meritò tal nome” (Gen 1,25). Dal contagio del primo peccato derivarono tutti gli altri mali e codesta mostruosa perversità: che vi fossero uomini i quali, respinto il ricordo della originaria fratellanza, non già coltivavano, secondo natura, la reciproca benevolenza e il mutuo rispetto, ma, succubi della loro cupidigia, cominciarono a considerare gli altri uomini al di sotto di sé e quindi a trattarli come giumenti nati per il giogo. In tal modo, senza alcun rispetto né della comune natura, né della dignità umana, né della espressa divina somiglianza, avvenne che, attraverso battaglie e guerre che poscia si accesero, coloro che con la forza riuscirono vincitori sottomisero i vinti, e così una indivisibile moltitudine della stessa specie a poco a poco si scisse in due parti: i vinti, schiavi dei vincitori padroni. – Come un luttuoso spettacolo, la memoria di quei tempi si svolge fino all’epoca di Gesù Salvatore, quando la vergogna della schiavitù era estesa a tutti i popoli, ed era così esiguo il numero dei liberi che il poeta mise in bocca a Cesare queste atroci parole: “Il genere umano vive in pochi” . E ciò si riferisce a quelle nazioni che primeggiavano per eminente cultura, come i Greci e i Romani, quando il dominio di pochi si esercitava sui molti; e quel dominio era così superbo e malvagio che le turbe degli schiavi erano considerate soltanto dei beni, non persone ma cose, prive di ogni diritto, e senza alcuna facoltà di conservare e godere la vita. “Gli schiavi soggiacciono al potere dei padroni e questo potere è materia di diritto delle genti; infatti possiamo constatare che, presso tutte le genti, appartiene parimenti ai padroni il diritto di vita e di morte sugli schiavi, e che tutto ciò che è realizzato dallo schiavo appartiene al padrone” . – In seguito a questi aberranti principi fu lecito ai padroni scambiare, vendere, lasciare in eredità, percuotere, uccidere gli schiavi ed abusare di essi in modo licenzioso e crudelmente superstizioso; fu lecito impunemente e pubblicamente. Anzi, coloro stessi che erano ritenuti i più assennati tra i pagani, filosofi insigni, grandi esperti di diritto, con sommo oltraggio del comune buon senso si sforzarono di convincere se stessi e gli altri che la schiavitù non era altro che una necessaria condizione di natura: e infatti non si vergognarono di affermare che la categoria degli schiavi era di gran lunga inferiore ai liberi per capacità intellettuali e per prestanza fisica, e che perciò era necessario che i servi, come strumenti privi di ragione e di iniziativa, ubbidissero alla volontà dei padroni ciecamente e anche nel modo più indegno. È veramente detestabile una malvagità così inumana; una volta che la si sia ammessa, non vi è oppressione di uomini così barbara e nefanda che non trovi sostegno vergognoso in qualche sorta di legge e di diritto. Quale semenzaio di delitti, quali peste e rovina si siano diffuse nelle città, lo dicono i libri, colmi di esempi; si acuiscono gli odi negli animi degli schiavi; i padroni sono colti dal sospetto e dal perpetuo timore; altri preparano le torce incendiarie per sfogare l’ira; altri premono più crudelmente sulle spalle altrui; le città sono sconvolte dal numero degli uni, dalla violenza degli altri, e in poco tempo si dissolvono; si mescolano tumulti e sedizioni, saccheggi ed incendi, battaglie e stragi. – In questo abisso di degradazione moltissimi uomini soffrivano, tanto più miseramente in quanto erano immersi nelle tenebre della superstizione; quando poi per divino consiglio giunsero a maturazione i tempi, una luce mirabile scese dal cielo e la grazia di Cristo Redentore copiosamente si profuse tra il genere umano; per sua virtù gli schiavi furono sollevati dal fango e dall’angoscia della servitù, e tutti dall’orrida schiavitù del peccato furono richiamati e condotti alla sublime dignità di figli di Dio. Invero gli Apostoli, fin dall’origine della Chiesa, oltre agli altri santissimi precetti di vita, tramandarono e insegnarono anche ciò che non una volta sola Paolo scrisse ai rigenerati del lavacro battesimale: “Siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù; infatti voi tutti che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non esiste più né il Giudeo né Greco; non esiste più né lo schiavo né il libero; non esiste né il maschio né la femmina; voi tutti infatti siete un solo in Cristo Gesù” (Gal III, 26-28). “Non esiste più né il Pagano né il Giudeo, il circonciso e l’incirconciso, il barbaro e lo Sciita, lo schiavo e il libero, ma Cristo è tutto e in tutti” (Col III,11). “Infatti, tutti noi siamo stati battezzati in un solo Spirito e in un solo corpo, sia Giudei che Pagani, sia schiavi che liberi, e tutti siamo stati abbeverati di un solo Spirito” (1Cor XII, 13). – Veramente aurei, bellissimi e salutari documenti, per l’efficacia dei quali al genere umano non solo è restituito e accresciuto il suo decoro, ma agli uomini è dato consociarsi tra loro e stringersi con saldi vincoli di fraterna amicizia, di qualunque luogo, lingua o condizione essi siano. Invero il beatissimo Paolo, per quella carità di Cristo da cui era pervaso, aveva attinto tali principi dal cuore stesso di Colui che si dedicò come fratello a tutti e ai singoli uomini, e che tutti nobilitò di sé, nessuno escluso o respinto, a tal segno che li fece partecipi della natura divina. In virtù del divino innesto, non furono diverse le propaggini che, crescendo in modo mirabile, fiorirono di speranza e di pubblico bene quando, col progredire degli avvenimenti e del tempo, e con la perseverante opera della Chiesa, la società civile, rinnovata a somiglianza della famiglia, si sviluppò cristiana e libera. – Dapprima, infatti, la Chiesa con grande zelo si impegnò in modo che il popolo cristiano, anche a proposito di questa questione di grande rilievo, ricevesse e custodisse gelosamente la pura dottrina di Cristo e degli Apostoli. Ora, per grazia del nuovo Adamo che è Cristo, intercorre una fraterna unione dell’uomo con l’uomo e di un popolo con altro popolo: essi, come hanno una medesima origine nell’ordine naturale, così nell’ordine soprannaturale hanno una medesima origine per quanto concerne la salvezza e la fede: tutti ugualmente sono accolti in adozione dall’unico Dio e Padre, in quanto Egli li ha insieme redenti con lo stesso grande riscatto; tutti membra dello stesso corpo e tutti partecipi della stessa mensa divina; a tutti accessibili i doni della grazia e a tutti inoltre il dono di una vita immortale. Posti tali premesse e fondamenti, la Chiesa come buona madre si è adoperata per mitigare in parte le tribolazioni e l’ignominia della vita servile; per tale motivo definì ed energicamente raccomandò i diritti e i doveri necessari tra servi e padroni, così come sono definiti nelle lettere degli Apostoli. Infatti, i Principi degli Apostoli così ammonivano i servi che avevano convertiti a Cristo: “Siate sottomessi e timorosi non solo ai padroni buoni e modesti, ma anche agli arroganti (1Pt II,18). Obbedite ai padroni terreni con timore e tremore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo; non servite per dar nell’occhio e quasi per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, facendo di cuore la volontà di Dio, servendo con buona volontà il Signore e non gli uomini; sapendo che ognuno, sia servo, sia libero, riceverà dal Signore tutto ciò che avrà fatto di bene” (Ef VI, 5-8). Lo stesso Paolo scriveva al suo Timoteo: “Tutti coloro che sono sotto il giogo di servitù, stimino meritevoli di ogni onore i loro padroni; coloro che hanno padroni fedeli, non li disprezzino perché sono fratelli, ma li servano con maggior zelo perché sono fedeli e diletti e partecipi della grazia. Così insegna ed esorta” (1Tm VI, 1-2). Prescrisse parimenti a Tito di insegnare ai servi “di essere sottomessi ai loro padroni, compiacenti in ogni occasione, senza mai contraddire né commettere frode ma in ogni caso mostrando buona fede, in modo da rendere onore in ogni occasione alla dottrina di Dio nostro Salvatore” (Tt II, 9-10). – Invero quei primi discepoli della fede cristiana compresero pienamente che da tale fraterna uguaglianza degli uomini in Cristo per nulla venivano diminuiti o rimossi l’obbedienza, l’onore, la fedeltà, gli altri doveri che legavano i servi ai padroni; ne consegue pertanto non il solo bene per cui gli stessi doveri diventano più definiti, più lievi e più soavi nell’adempimento, ma anche più fruttuosi al fine di meritare la gloria celeste. Avevano infatti riverenza e stima verso i padroni come verso gli uomini che sono potenti per volere di Dio, dal quale deriva ogni potere; per essi non avevano efficacia il timore dei castighi, l’astuzia dei consigli e gl’incitamenti all’utile, ma la coscienza del dovere, la forza dell’amore. A sua volta riguardava i padroni la giusta esortazione dell’Apostolo affinché compensassero con bontà le buone opere dei servi: “E voi, padroni, fate altrettanto ad essi, rinunciando alle minacce, sapendo che il loro e il vostro Padrone è nei cieli e che Egli non favorisce alcuno” (Ef VI,9); e affinché considerassero un’ingiustizia che il servo si dolga della sua sorte, essendo egli “liberto del Signore”, così non è lecito all’uomo libero inorgoglirsi nell’animo e comandare con superbia, “essendo servo di Cristo” (1Cor VII, 22). In tal modo si prescriveva ai padroni di riconoscere e di rispettare convenientemente l’uomo nei loro servi, e non diversi per natura ma uguali a loro nella religione, e del pari servi nei confronti della maestà del comune Signore. – A queste leggi così giuste, fatte soprattutto per consolidare le componenti della società familiare, ubbidirono di fatto gli Apostoli. Insigne è l’esempio di Paolo, per quanto fece e scrisse generosamente in favore di Onesimo, servo fuggitivo di Filemone, a cui lo rimandò con questa affettuosa raccomandazione: “Tu accoglilo come parte di me… non già come un servo ma, anziché come servo, come carissimo fratello secondo la carne e secondo il Signore; se in qualche modo ti recò danno o ti è debitore, fanne carico a me” (Fm 12-18). – Chi voglia paragonare entrambi i modi di trattare gli schiavi, il pagano e il cristiano, facilmente dovrà riconoscere che il primo era crudele e vergognoso, l’altro assai mite e pieno di rispetto, né mai si renderà colpevole di sottrarre merito alla Chiesa, ministra di tanta indulgenza. Tanto più se qualcuno osserva attentamente con quanta dolcezza e prudenza la Chiesa estirpò e sconfisse la turpe peste della schiavitù. Infatti, essa non volle affrettarsi nel provvedere alla manomissione e alla liberazione degli schiavi poiché ciò non poteva sicuramente avvenire se non in modo tumultuoso, con danno proprio di essi e a detrimento della società; ma con sommo giudizio fece in modo che gli animi degli schiavi, sotto la sua guida, fossero educati alla verità cristiana e con il battesimo adottassero costumi conformi. Perciò, se nella moltitudine degli schiavi che la Chiesa annoverava tra i suoi figli, taluno, allettato da qualche speranza di libertà, avesse ordito una violenta sedizione, sempre la Chiesa riprovò e represse quei peccaminosi desideri e per mezzo dei suoi ministri adottò i rimedi della pazienza. Si persuadessero dunque gli schiavi di superare di molto in dignità i padroni pagani, mercé il lume della santa fede e l’insigne retaggio di Cristo, e di sentirsi obbligati più devotamente dallo stesso Autore e Padre della fede a non consentire a se stessi azione alcuna contro i padroni né di allontanarsi minimamente dalla riverenza e dalla obbedienza dovuta ad essi, ma, sapendo di essere eletti al regno di Dio, avendo acquisito la libertà dei suoi figli, e sentendosi chiamati a beni non perituri, non si dessero pensiero dell’abiezione e dei disagi di una vita caduca ma, sollevando gli occhi e gli animi al cielo, si consolassero e si confermassero nel santo proposito. L’Apostolo Pietro fu tra i primi a rivolgersi agli schiavi quando scrisse: “È un segno della grazia se nel nome di Dio qualcuno sopporta le sventure, soffrendo ingiustamente. Infatti, a questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per noi, a voi lasciando un esempio perché seguiate le sue vestigia” (1Pt 2,19-21). – La lodevole sollecitudine, congiunta alla prudenza, che orna tanto splendidamente la divina virtù della Chiesa, è accresciuta anche dalla forza d’animo per la quale – oltre ogni credibilità – essa è invitta ed eccelsa, e con la quale poté ispirare e sostenere molti infimi schiavi. Suscitavano meraviglia quegli schiavi che erano esempio di severi costumi ai loro padroni e sopportavano ogni fatica in loro favore; a nessuna condizione costoro potevano essere indotti a preporre gli iniqui ordini dei padroni ai santi precetti del Signore, fino al punto di rinunciare alla vita tra feroci torture, con animo incrollabile e con volto impassibile. Il nome di una vergine di Patames è celebrato da Eusebio in ricordo della sua invitta costanza; ella, piuttosto che cedere alla libidine dell’impudico padrone, senza timore andò incontro alla morte e con l’effusione del suo sangue salvò la fede in Gesù Cristo. Si possono ammirare simili esempi di schiavi i quali con grande fermezza si opposero fino alla morte ai padroni che violavano la libertà degli animi e la fede legata a Dio; ma la storia non può citare schiavi cristiani che per diverse ragioni abbiano resistito ai padroni, o suscitato congiure o sedizioni pericolose per la cittadinanza. – Placati i dissidi e sopraggiunti tempi tranquilli per la Chiesa, i santi Padri con mirabile sapienza esposero gl’insegnamenti apostolici circa la fraterna solidarietà tra cristiani, e con altrettanta carità li applicarono a vantaggio degli schiavi, cercando di convincerli che i padroni avevano dei diritti legittimi sul lavoro degli schiavi e tuttavia non erano loro concessi un imperioso potere sulla vita e l’uso di crudeli sevizie. Tra i Greci spicca Crisostomo, che spesso ha trattato questa questione e che con animo e con favella vivaci affermò che la schiavitù, secondo l’antico significato della parola, era già scomparsa al tempo suo, con grande vantaggio della fede cristiana, sicché il nome sembrava ed era senza senso tra i discepoli del Signore. Infatti, Cristo (così in sintesi egli argomenta) quando per somma compassione verso di noi lavò il peccato originale, risanò anche a corruzione conseguente, diffusa nelle classi sociali; perciò, come la morte, scevra di ogni paura grazie a Lui, è una placida migrazione verso una vita beata, così è sparitala schiavitù. Non chiamare mai servo un Cristiano se non quando si renda schiavo del peccato. Sono assolutamente fratelli tutti coloro che sono rinati e accolti in Cristo; il nostro decoro deriva da questa nuova procreazione e dalla cooptazione nella famiglia di Dio e non già dalla nobiltà della stirpe; la dignità discende dal pregio della verità e non del sangue; e perché questa specie di evangelica fraternità produca più abbondante frutto, è soprattutto necessario che anche nei rapporti col prossimo, si manifesti un piacevole scambio di attenzioni e di gentilezze, in modo che i servi siano elevati allo stesso grado degli amici e dei familiari, e che ad essi i padri di famiglia forniscano non solo quanto occorre alla vita e al nutrimento, ma anche tutti i soccorsi della religione. Infine, dallo speciale saluto di Paolo a Filemone, invocante la grazia e la pace “alla Chiesa che è nella tua casa” (Fm 1,2), si evince un documento che vale ugualmente e ottimamente per padroni e servi cristiani, fra i quali vi sia comunione di fede e vi debba essere quindi uno stesso spirito di carità. Fra i Latini ricordiamo meritatamente e a buon diritto Ambrogio, che con tanta intelligenza ha indagato, sullo stesso argomento, tutte le ragioni dei rapporti sociali e che in modo preciso – come nessuno seppe fare meglio – secondo le leggi cristiane ha attribuito specifici doveri all’una e all’altra classe di uomini; non occorre dire quanto le sue sentenze concordino pienamente e perfettamente con quelle di Crisostomo. Come è evidente, questi precetti erano ispirati a giustizia e utilità; ma, quello che più importa, essi sono stati custoditi integralmente e devotamente fin dai primi tempi, ovunque è fiorito il cristianesimo. Se non fosse messi così, Lattanzio, l’esimio difensore della religione, non si sarebbe espresso in modo così risoluto, quasi come un testimone: “C’è chi dice: non vi sono tra voi poveri e ricchi, servi e padroni? Non esiste qualche differenza tra i singoli individui? Nessuna; e non vi è altro motivo per cui noi, a vicenda, ci chiamiamo col nome di fratelli, se non il considerarci uguali; infatti noi misuriamo tutto ciò che è umano non col corpo ma con lo spirito, e sebbene sia diversa la condizione dei corpi, tuttavia non esistono schiavi per noi, ma noi li consideriamo e chiamiamo fratelli nello spirito, e come noi servi in religione”. – Aumentava la sollecitudine della Chiesa nella tutela degli schiavi e, senza tralasciare alcuna occasione, tendeva cautamente a restituirli finalmente a libertà: ciò avrebbe assai giovato anche alla loro eterna salute. Gli antichi sacri annali recano testimonianze dell’esito favorevole di quell’impegno. Le stesse nobili matrone, degnissime delle lodi di Girolamo, collaborarono in modo esemplare al successo di questa opera. Salviano poi riferisce che nelle famiglie cristiane, anche in quelle non molto ricche, accadeva spesso che gli schiavi fossero messi in libertà per generosa manomissione. Anzi, San Clemente, molto tempo prima, aveva lodato questo eccelso esempio di carità: infatti, non pochi cristiani si erano sottoposti a schiavitù, con scambio di persone, in quanto non potevano in altro modo liberare alcuni schiavi. Perciò, oltre che dare inizio alla liberazione degli schiavi nei templi, come atto di pietà, la Chiesa decise di raccomandare quell’atto ai cristiani che facevano testamento, come opera assai grata a Dio e al suo cospetto degna di grande merito e di premio. Da qui le espressioni rivolte all’erede per incaricarlo della liberazione “Per l’amore di Dio, per rimedio” o ,”per la salute della mia anima”. Nulla fu risparmiato per il riscatto dei prigionieri: furono venduti i beni dati a Dio; furono fusi gli ori e gli argenti sacri; alienati gli ornamenti e i tesori delle basiliche, come fu fatto più di una volta da Ambrogio, Agostino, Ilario, Eligio, Patrizio e da molti altri santissimi uomini. – Moltissimo fecero per gli schiavi i Pontefici romani, davvero memorabili come difensori dei deboli e vindici degli oppressi. San Gregorio Magno ne mise in libertà quanti più poté, e nel concilio romano dell’anno 597 volle che fosse concessa la libertà a coloro che avevano deciso di dedicarsi alla vita monastica. Adriano I ordinò che gli schiavi potessero liberamente contrarre matrimonio, contro il volere dei padroni. Alessandro III nell’anno 1167 prescrisse apertamente al re Mauro di Valenza di non ridurre in schiavitù alcun Cristiano, poiché nessuno è schiavo per natura, e tutti sono stati creati liberi da Dio. Inoltre, Innocenzo III, su richiesta dei fondatori Giovanni da Matha e Felice di Valois, nell’anno 1198 approvò e promulgò l’Ordine della Santissima Trinità per la redenzione dei Cristiani che fossero caduti in potere dei Turchi. Onorio III e poi Gregorio IX approvarono un Ordine, simile al precedente, di Santa Maria della mercede; Ordine che Pietro Nolasco aveva fondato con una legge severa, secondo la quale tutti i religiosi che ne facevano parte dovevano darsi schiavi in sostituzione dei cristiani prigionieri della tirannide, se ciò fosse stato necessario per redimerli. Lo stesso Gregorio decretò un più ampio soccorso liberatorio per cui era sacrilegio vendere schiavi alla Chiesa; egli stesso fece seguire una esortazione ai fedeli perché donassero i loro schiavi a Dio e ai Santi come espiazione delle colpe e a titolo di sacrificio. – A questo proposito si aggiungono molti altri meriti della Chiesa. Essa infatti, applicando pene severe, difese sempre gli schiavi dalle ire crudeli e dai lesivi oltraggi dei padroni; aprì i luoghi sacri come rifugio per coloro che erano vessati dalla violenza; accettò come testimoni gli schiavi liberati, e tenne a freno con la minaccia di castighi coloro che osassero con criminosi inganni ridurre in schiavitù un uomo libero. Con sempre maggior favore la Chiesa assecondò la liberazione degli schiavi che in ogni caso, secondo i tempi e i luoghi, considerava suoi fedeli; sia quando stabilì che i Vescovi sciogliessero da ogni vincolo di schiavitù coloro che si erano segnalati per ininterrotta, lodevole onestà di vita; sia quando permise agevolmente ai Vescovi di dichiarare liberi, con atto di volontà sovrana, i loro servi. Inoltre, è da attribuire alla misericordia e al potere della Chiesa se la severità della legge civile è stata alquanto mitigata nei confronti degli schiavi, e se gli emendamenti proposti da Gregorio Magno furono accolti nella legge scritta delle nazioni. Ciò fu fatto soprattutto per opera di Carlo Magno che li introdusse nei suoi Capitularia come poi fece Graziano nel Decretum. Infine, lungo il corso dei secoli, i monumenti, le leggi, le istituzioni insegnano e illustrano splendidamente la sublime carità della Chiesa verso gli schiavi, la cui afflitta sorte mai lasciò priva di tutela e sempre alleviò con ogni soccorso. Pertanto, non si attribuiranno mai abbastanza elogi né si sarà mai abbastanza grati alla Chiesa Cattolica che per somma grazia di Cristo Redentore abolì la schiavitù, introdusse tra gli uomini la vera libertà, la fratellanza, l’uguaglianza, e perciò si rese benemerita della prosperità dei popoli. – Alla fine del secolo decimo quinto, quando la funesta piaga della schiavitù era quasi scomparsa presso le genti cristiane e gli Stati tentavano di rafforzarsi nella libertà evangelica e di estendere il loro dominio, questa Sede Apostolica, con assidua vigilanza cercò di impedire che rigermogliassero quei malefici semi. Perciò rivolse la sua vigile attenzione ai territori da poco tempo scoperti in Africa, in Asia, in America. Infatti, era giunta voce che i capi di quelle spedizioni, sebbene Cristiani, avessero abusato delle armi e dell’ingegno per imporre la schiavitù a popoli inoffensivi. In pratica, a causa della natura del territorio che si voleva sottomettere e delle miniere di metalli da esplorare e scavare con grande impiego di mano d’opera, furono adottati provvedimenti sicuramente ingiusti e inumani. Infatti, si cominciò con qualche traffico deportando dall’Etiopia schiavi da impiegare in quei lavori: tale operazione, poi definita “la tratta dei negri”, infierì oltre misura in quelle colonie. Seguì poi, con crudeltà non dissimile, l’oppressione degli indigeni (generalmente chiamati “Indiani”) al modo degli schiavi. Non appena questi fatti furono noti a Pio II, senza alcun indugio, il giorno 7 ottobre dell’anno 1462, scrisse una lettera al Vescovo di Rubio per biasimare e condannare tanta malvagità. Non molto tempo dopo Leone X usò tutti i buoni uffici e l’autorità in suo potere, presso i re del Portogallo e delle Spagne, perché provvedessero a estirpare dalle radici quell’abuso contrario non solo alla religione ma anche all’umanità e alla giustizia. Tuttavia, quella vergogna persisteva perché sopravviveva l’ignobile causa dell’insaziabile avidità di lucro. Allora Paolo III, ansioso nella sua paterna carità per la sorte degli indiani e degli schiavi africani, prese la decisione estrema di affermare con solenne decreto, al cospetto di tutte le genti, che a tutti gli schiavi era dovuto un giusto e particolare potere in triplice forma: potevano disporre della propria persona; potevano vivere in società secondo le loro leggi; potevano acquistare e possedere beni. Queste disposizioni ebbero più ampia conferma nella lettera inviata al Cardinale Arcivescovo di Toledo: chi avesse operato contro lo stesso decreto incorreva nella interdizione dei sacramenti, integra restando la facoltà del Romano Pontefice di assolvere. Con la stessa sollecitudine e con la stessa costanza, altri Pontefici quali Urbano VIII, Benedetto XIV, Pio VII si dimostrarono strenui difensori della libertà per gli Indiani e per i Negri e per altri non ancora educati alla fede cristiana. Pio VII, inoltre, nel congresso di Vienna dei principi alleati europei, richiamò l’attenzione di tutti anche su quella tratta dei Negri (di cui si è detto) perché fosse radicalmente abolita, come era già stata soppressa in molti luoghi. Anche Gregorio XVI ammonì severamente coloro che disprezzavano la clemenza e le leggi; richiamò in vigore i decreti e le pene stabilite dalla Sede Apostolica e non omise alcun argomento perché anche le nazioni lontane, imitando la moderazione di quelle europee, si astenessero dalla ignominia e dalla crudeltà della schiavitù. A proposito, è accaduto a Noi di ricevere congratulazioni da principi e da governanti per aver ottenuto, a forza di perseveranti preghiere, che fosse dato ascolto ai lunghi e giustissimi reclami della natura e della religione. – In situazione analoga, affligge non poco il Nostro animo un’altra preoccupazione che sprona la Nostra sollecitudine. Se cioè un così turpe mercato di uomini è di fatto cessato nei mari, tuttavia esso viene praticato in terra in modo troppo esteso e barbaro, soprattutto in molte zone dell’Africa. Poiché infatti i Maomettani praticano la perversa teoria per cui un Etiope o un uomo di stirpe affine sono appena al di sopra di un animale, è facile comprendere con sgomento quale sia la perfidia e la crudeltà di quegli uomini. All’improvviso, senza alcun timore, si avventano contro le tribù degli Etiopi, secondo l’usanza e con l’impeto dei predoni; fanno scorrerie nelle città, nei villaggi, nelle campagne; tutto devastano, spogliano, rapiscono; portano via uomini, donne e fanciulli, facilmente catturati e vinti, per trascinarli a viva forza sui più infami mercati. Dall’Egitto, da Zanzibar e in parte anche dal Sudan, come da centrali di raccolta, partono di solito quelle abominevoli spedizioni; per lungo cammino gli uomini procedono stretti in catene, scarsamente nutriti, sotto frequenti colpi di frusta; i meno adatti a sopportare queste violenze vengono uccisi; quelli che sopravvivono, sono venduti come gregge insieme ad altri schiavi e sono costretti a schierarsi davanti a un compratore difficile e impudente. Coloro che sono venduti a costui sono costretti alla miseranda separazione dalla moglie, dai figli, dai genitori; e in suo potere sono sottoposti a una schiavitù crudele e nefanda, e non possono ricusare la stessa religione di Maometto. Questi fatti abbiamo appreso or non è molto, con l’animo profondamente turbato, da alcuni che furono testimoni, non senza lacrime, di siffatta infamia e aberrazione; con essi, poi, convengono pienamente le narrazioni dei recenti esploratori dell’Africa Equatoriale. Anzi, dalla loro attendibile testimonianza risulta che il numero degli Africani venduti annualmente, a guisa di gregge, ammonta a quattrocentomila, di cui circa la metà, estenuata dal tribolato cammino, cade e muore, in modo che i viaggiatori (quanto è triste a dirsi!) possono scorgere il cammino quasi segnato da ossa residue. Chi non si sentirà commosso al pensiero di tanti mali? Noi, che rappresentiamo la persona di Cristo, amantissimo di tutte le genti, liberatore e Redentore, Noi che Ci allietiamo dei molti e gloriosi meriti della Chiesa verso gli infelici di ogni sorta, a stento possiamo dire quanta pietà proviamo verso quelle infelicissime genti, con quanta immensa carità tendiamo loro le braccia, quanto ardentemente desideriamo di procurare loro tutti i conforti e i soccorsi possibili, affinché, non appena distrutta la schiavitù degli uomini insieme con la schiavitù della superstizione, possano finalmente servire un solo Dio, sotto il soavissimo giogo di Cristo, partecipi con Noi della divina eredità. Volesse il cielo che tutti coloro che sono più in alto per autorità e potere, e che vogliono santificati i diritti delle genti e della umanità, o che si preoccupano di dare incremento alla religione cattolica, tutti con tenacia cospirassero a reprimere, a proibire, a sopprimere (aderendo alle Nostre esortazioni e preghiere) quel mercato, del quale nulla è più disonesto e scellerato. – Frattanto, mentre si aprono nuove strade e nuovi commerci nelle terre africane grazie al più rapido progresso degl’ingegni e delle attività, i missionari, come meglio possono, cerchino di provvedere alla salute e alla libertà degli schiavi. Essi non raggiungeranno tale risultato se, corroborati dalla divina grazia, non si dedicheranno totalmente a diffondere e ad alimentare ogni giorno di più, con fervore crescente, la nostra santissima fede. Il frutto insigne di questa consiste nel favorire e generare mirabilmente la libertà “con la quale Cristo ci liberò” (Gal IV, 31). Pertanto, Noi li invitiamo a considerare – come in uno specchio di virtù apostolica – la vita e le opere di Pietro Claver, a cui Noi assegnammo una recente laurea di gloria. Guardino a lui che con somma costanza nella fatica, per quarant’anni senza interruzione si dedicò tutto alle miserande torme di schiavi negri e veramente meritò il titolo di Apostolo di coloro ai quali si consacrò, professandosi loro servo perpetuo. Se i missionari avranno cura di far propria e di rinnovare la carità e la pazienza di lui, essi saranno sicuramente degni ministri di salvezza, apportatori di consolazione, messaggeri di pace, e potranno, con l’aiuto di Dio, convertire la solitudine, l’ignoranza, la barbarie in felice ricchezza della religione e della civiltà. – Ora, Venerabili Fratelli, il Nostro pensiero e la Nostra lettera bramano rivolgersi di nuovo a Voi per esprimervi e condividere la grande gioia che deriva dalle decisioni prese pubblicamente in codesto Impero in merito alla schiavitù. Poiché per legge è stato provveduto e disposto che quanti si trovano ancora in condizione servile devono essere ammessi nell’ordine e nei diritti di liberi cittadini, questo fatto a Noi sembra di per sé buono, fausto e salutare, e altresì conferma e incoraggia la speranza di futuri lieti progressi civili e religiosi. Pertanto, il nome dell’Impero Brasiliano sarà meritatamente ricordato e lodato dai popoli più evoluti, e contemporaneamente aumenterà la fama dell’augusto Imperatore, al quale si riferiscono queste nobili parole: nulla è più desiderabile che cancellare rapidamente ogni traccia di schiavitù entro il proprio Stato. – Ma mentre si vanno applicando le prescrizioni di queste leggi, impegnatevi alacremente (ve lo chiediamo di tutto cuore), e intervenite con grande zelo in questa opera che incontra certamente non lievi difficoltà. Fate in modo che padroni e schiavi si accordino tra loro con animi ben disposti e con piena lealtà e che non si allontanino, neppure d’un breve tratto, dalla clemenza o dalla giustizia, ma che tutti gli accordi siano conclusi in modo legittimo, pacato, cristiano: bisogna augurarsi soprattutto che sia soppressa e cancellata la schiavitù come tutti desideravano, senza alcuna violazione del diritto umano e divino, senza alcun sommovimento sociale, e anzi con sicuro vantaggio degli stessi schiavi in questione. A ciascuno di essi, o già resi liberi o in procinto di esserlo, Noi raccomandiamo con zelo pastorale e con amore paterno alcuni salutari ammonimenti, tratti dagli scritti del grande Apostolo delle genti. Essi dunque facciano in modo di conservare e dichiarare pubblicamente il loro grato e affettuoso ricordo di coloro che con saggezza operarono per la loro liberazione. Non si rendano mai indegni di un beneficio così grande, né confondano mai la libertà con la sfrenata licenza, ma facciano uso della libertà come si addice a cittadini costumati, a profitto di una vita attiva, a vantaggio e a sostegno della famiglia e della società. Temere e rispettare la maestà dei regnanti, ubbidire ai funzionari, sottomettersi alle leggi: questi ed altri simili doveri da adempiere assiduamente, non tanto per timore quanto per senso religioso. Inoltre raffrenino e allontanino l’invidia per le ricchezze e il prestigio altrui; dispiace che quel vizio affligga di solito molti tra gli umili e fornisca motivi perversi contro la pace e la sicurezza della società. Contenti del loro benessere e della loro condizione, nulla abbiano di più caro, nulla desiderino più ardentemente che i beni del regno celeste, grazie ai quali essi sono venuti alla luce e sono stati redenti da Cristo. Siano inoltre animati da devozione verso Dio, loro Signore e Liberatore, lo amino con tutto il cuore, rispettino con ogni cura i suoi comandamenti. Gioiscano di essere figli della Sua Sposa, la Santa Chiesa; cerchino di essere i migliori e, per quanto possono, contraccambino l’amore di lei. – Insistete Voi pure, Venerabili Fratelli, nel suggerire e inculcare questi stessi insegnamenti negli schiavi liberati; come è Nostro sommo desiderio e come deve essere per Voi e per tutti i buoni, la religione anzitutto tragga e goda per sempre gli abbondanti frutti della avvenuta liberazione ovunque si estende codesto Impero. – E perché ciò avvenga nel modo più lieto, invochiamo e imploriamo la sovrabbondante grazia di Dio e il soccorso materno della Vergine Immacolata. Come auspicio dei doni celesti e come testimonianza della Nostra paterna benevolenza, a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero e a tutto il popolo impartiamo amorevolmente l’Apostolica benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 5 maggio 1888, anno undecimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA III DI QUARESIMA (2022)

DOMENICA III DI QUARESIMA (2022)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Lorenzo fuori le mura.

Semidoppio, Dom. privil. di I cl. • Paramenti violacei.

L’assemblea liturgica si tiene in questo giorno a S. Lorenzo fuori le mura che è una delle cinque basiliche patriarcali di Roma. In questa chiesa si trovano i corpi di due diaconi Lorenzo e Stefano. L’Orazione del primo (10 agosto) ci fa domandare di estinguere in noi l’ardore dei vizi come questo Santo superò le fiamme dei suoi tormenti; e quella del secondo (26 dicembre) ci esorta ad amare i nostri nemici come questo Santo che pregò per i suoi persecutori. Queste due virtù: la castità e la carità, furono praticate soprattutto dal patriarca Giuseppe, di cui la Chiesa ci fa la narrazione nel Breviario proprio in questa settimana. Giuseppe resistette alle cattive sollecitazioni della moglie di Putifarre e amò i fratelli fino a rendere loro bene per male. (Nel sacramentario Gallicano – Bobbio – , Giuseppe è chiamato il predicatore della misericordia; e la Chiesa, nella solennità di S. Giuseppe, proclama in modo speciale la sua verginità.). Quando Giuseppe raccontò ai fratelli i suoi sogni, presagio della sua futura gloria, essi concepirono contro di lui tanto odio, che presentatasi l’occasione, si sbarazzarono di lui gettandolo in una cisterna senza acqua. Di poi lo vendettero ad alcuni Ismaeliti che lo condussero in Egitto e lo rivendettero ad un nobile egiziano di nome Putifarre. Fu appunto lì che Giuseppe resistette energicamente alle sollecitudini della moglie di Putifarre e divenne per questo il modello della purezza (la Chiesa nel corso di questa settimana, – Epistola e Vangelo di sabato – legge ì brani della donna adultera e di Susanna. I Padri della Chiesa spesso hanno messo in rapporto quest’ultima con Giuseppe). – « Oggi, dice S. Ambrogio, vien offerta alla nostra considerazione la storia del pio Giuseppe. Se egli ebbe numerose virtù, la sua insigne castità risplende in modo del tutto speciale. È giusto quindi che questo santo Patriarca ci venga proposto come lo specchio della castità » (Mattutino). Giuseppe accusato ingiustamente dalla moglie di Putifarre, fu messo in prigione: egli si rivolse a Dio, lo pregò di liberarlo dalle sue catene. L’Introito usa espressioni analoghe a quelle della preghiera di Giuseppe: « I miei occhi sono rivolti senza tregua verso il Signore, poiché Egli mi libererà dagli inganni ». « Come gli occhi dei servi sono fissi verso i padroni, continua il Tratto, cosi io volgo il mio sguardo verso il Signore, mio Dio, fino a quando non avrà compassione di me ». Allora « Dio onnipotente riguarda i voti degli umili, e stendi la tua destra per proteggerli » (Orazione). Faraone difatti fece uscire Giuseppe dalla prigione, lo fece sedere alla sua destra e gli affidò il governo di tutto il suo regno. Giuseppe prevenne la carestia che durò sette anni; il Faraone allora lo chiamò « Salvatore del popolo ». (Il Vangelo dà una sola volta questo titolo a Gesù, quando parla alla Samaritana presso il pozzo di Giacobbe. Questo Vangelo è quello del Venerdì della stessa settimana, consacrato alla storia di Giuseppe). – In questa occasione i fratelli di Giuseppe vennero in Egitto ed egli disse loro: « Io sono Giuseppe che voi avete venduto. Non temete. Dio ha tutto disposto perché io vi salvi da morte ». La felicità di Giacobbe fu immensa allorché poté rivedere il figlio; egli abitò con i suoi figli nella terra di Gessen, che Giuseppe aveva loro data. « La gelosia dei fratelli di Giuseppe, dice S. Ambrogio, è il principio di tutta la storia di Giuseppe ed è ricordata nello stesso tempo per farci apprendere che un uomo perfetto non deve lasciarsi andare alla vendetta di un offesa o a rendere male per male » (Mattutino). È impossibile non riconoscere in tutto questo una figura di Cristo e della sua Chiesa. – Gesù, figlio della Vergine Maria (Vang.), è il modello per eccellenza della purità verginale. Il Vangelo lo mostra in lotta in modo speciale contro lo spirito impuro. Il demonio che egli scaccia col dito di Dio, cioè per virtù dello Spirito Santo, dal muto ossesso, era « un demonio impuro », dicono S. Matteo e San Luca. La Chiesa scaccia dalle anime dei battezzati il medesimo spirito immondo. Si sa che la Quaresima era un tempo di preparazione al Battesimo e in questo Sacramento il Sacerdote soffia per tre volte sul battezzato dicendo: « esci da lui, spirito impuro, e fa luogo allo Spirito Santo ». « Ciò che si fece allora in modo visibile, dice S. Beda nel commento del Vangelo, si compie invisibilmente ogni giorno nella conversione di quelli che divengono credenti, affinché dapprima scacciato il demonio esse scorgano poi il lume della fede, indi la loro bocca, prima muta, si apra per lodare Dio » (Mattutino). « Né gli adulteri, né gli impudichi, dice parimente S. Paolo nell’Epistola di questo giorno, avran parte nel regno di Cristo e di Dio. Non si nomini neppure fra voi la fornicazione ed ogni impurità. Specialmente in questo tempo di lotta contro satana, noi dobbiamo imitare Gesù Cristo di cui Giuseppe era la figura. Questo Patriarca ci dà ancora l’esempio della virtù della carità, come Gesù e la sua Chiesa. Gesù, odiato dai suoi, venduto da uno degli Apostoli, morendo sulla croce, pregò per i suoi nemici. Pregò Dio, ed Egli lo glorificò facendolo sedere alla sua destra nel suo regno. Nella festività di Pasqua, Gesù, per mezzo dei Sacerdoti, distribuirà il frumento eucaristico, come Giuseppe distribuì il frumento. Per ricevere la Santa Comunione, la Chiesa esige questa carità, della quale S. Stefano, le cui reliquie si conservano nella chiesa stazionale, ci diede l’esempio perdonando ai suoi nemici. Gesù esercitò questa carità in grado eroico « allorché offrì se stesso per noi » sulla croce (Ep.), di cui l’Eucaristia è il ricordo. — La figura di Giuseppe e la stazione di questo giorno illustrano in una maniera perfetta, il mistero pasquale al quale la liturgia ci prepara in questo tempo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV: 15-16.

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et pauper sum ego.

[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Ps XXIV: 1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam,

[A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego.

[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

 Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde.

[Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.

Ephes. V: 1-9

“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.”

[Fratelli: siate dunque imitatori di Dio come figlioli diletti, e vivete nell’amore, come Cristo che ci ha amati e ha dato per noi se stesso a Dio in olocausto come ostia di soave odore. La fornicazione, la impurità di qualsiasi sorta, l’avarizia non si senta neppur nominare fra voi, come a santi si conviene. Non oscenità, non discorsi sciocchi, non buffonerie, tutte cose indecenti; ma piuttosto il rendimento di grazie. Perché, sappiatelo bene, nessuno che sia fornicatore, o impudico, o avaro (che è un idolatra) ha l’eredità del regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi seduca con vani discorsi, perché a causa di questi vien l’ira di Dio sugli increduli. Dunque non vi associate con loro. Una volta eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Vivete come figli della luce. Or frutto della luce è tutto ciò che è buono, giusto e vero.]

PAROLE ALTE E SOAVI.

Se si paragonano queste esortazioni di San Paolo a quelle dei moralisti suoi contemporanei, pagani o giudei, e d’ogni tempo, purché non Cristiani, uno stupore ci invade e ci domina. Quanta altezza fin dalle prime battute dell’odierna epistola: « imitatores Dei estote, » siate imitatori di Dio. Non si può andar più in là, più in su. Specie se si rifletta che il Dio proposto a modello non è la divinità antropomorfica, malamente, fiaccamente antropomorfica del paganesimo, bensì la divinità austeramente, moralmente trascendente del Cristianesimo; non una divinità umanizzata a cui è difficile mostrarsi anche per l’uomo sub-umano, ma la divinità sublime e pura a cui l’uomo non s’accosta se non superando se stesso. Talché la formula pagana « sequere Deum » che altri potrebbe citare come equivalente a questa di San Paolo, per sminuire la nostra meraviglia, sarebbe fuor di proposito. Ma la meraviglia cresce quando noi sentiamo Paolo dir queste cose tanto difficili ed alte in tono d’infinita semplicità e dolcezza. «Imitate Dio, continua l’Apostolo, come figli carissimi voi che siete in Lui ». Vi è già una gran dolcezza nell’idea stessa della Paternità Divina; è, figlioli di Dio; figli, noi piccoli, di Lui che è così grande! Ma San Paolo accentua ancora la dolcezza di quella grande parola e ricorda ai Cristiani per eccitarli ad essere fedeli, eroici emulatori del Padre Celeste, che essi ne sono i figli carissimi, diletti; anzi prediletti. Figli che Dio veramente da Padre ha amati ed ama, ha amati nel giorno della creazione, riamati anche più teneramente e fortemente nel giorno della redenzione. Figli carissimi! Noi rasentiamo il mistero, siamo tuffati nel mistero dell’amore divino. Che Dio possa avere caro l’uomo! « quid est homo (vien fatto di esclamare) quod memor es eius » che cosa è l’uomo, perché occupi un posticino qualsiasi nei Tuoi pensieri! — e più nel Tuo cuore. Eppure è così. Di Dio noi siamo i figli carissimi. Perciò amorevole deve essere il nostro sforzo per accostarci a Dio, per riprodurlo nella nostra vita. « Ambulate in dilectione », camminate nell’amore, nell’atmosfera dell’amore. L’appello del Monarca è pieno di maestà, l’appello del padrone è pieno di forza, l’appello di Dio è appello di Padre al figlio, appello pieno di dolcezza, pieno d’amore. Ma nell’amore c’è il segreto dell’entusiasmo, e pei sentieri dell’amore, additati da Paolo a noi Cristiani, come i sentieri veramente nostri, le anime volano portate dal vento dell’amore. Nessun segreto migliore di questo per vincere l’altezza che si erge formidabile dinanzi a noi quando guardiamo come a nostra meta niente meno che a Dio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – (Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

 Graduale

Ps IX: 20; IX: 4

Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo.

[Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.

In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua.

[Voltano le spalle i miei nemici: stramazzano e periscono di fronte a Te.]

Tractus

Ps. CXXII: 1-3

Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in cœlis.

[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]

Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.

[Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]

Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri,

[E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi].

Miserére nobis, Dómine, miserére nobis.

[Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam. [Luc XI: 14-28]

“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”

“In quel tempo Gesù stava cacciando un demonio, il quale era mutolo. E cacciato che ebbe il demonio, il mutolo parlò, e le turbe ne restarono meravigliate. Ma certuni di loro dissero: Egli caccia i demoni per virtù di Beelzebub, principe dei demoni. E altri per tentarlo gli chiedevano un segno dal cielo. Ma Egli, avendo scorti i loro pensieri, disse loro: Qualunque regno, in contrari partiti diviso, va in perdizione, e una casa divisa in fazioni va in rovina. Che se anche satana è in discordia seco stesso, come sussisterà il suo regno? conciossiachè voi dite, che in virtù di Beelzebub Io caccio i demoni. Che se Io caccio i demoni per virtù di Beelzebub, per virtù di chi li cacciano i vostri figliuoli? Per questo saranno essi vostri giudici. Che se io col dito di Dio caccio i demoni, certamente è venuto a voi il regno di Dio. Quando il campione armato custodisce la sua casa, è in sicuro tutto quel che egli possiede. Ma se un altro più forte di lui gli va sopra e lo vince, si porta via tutte le sue armi, nelle quali egli poneva sua fidanza, e ne spartisce le spoglie. Chi non è meco, è contro di me; e chi meco non raccoglie, dissipa. Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, cammina per luoghi deserti cercando requie; e non trovandola, dice: Ritornerò alla casa mia, donde sono uscito. E andatovi, la trova spazzata e adorna. Allora va, e seco prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrano ad abitarvi. E la fine di un tal uomo è peggiore del principio”

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA SEDUZIONE DELLO SPIRITO IMMONDO

Le parole di Gesù, così gravi ed ammonitrici, si rivolgono ad ogni seduzione peccaminosa del demonio; ma principalmente si applicano alla seduzione del demonio impuro. È questi che gira notte e giorno per il mondo, senza pace mai; s’avvicina ai fanciulli ingenui e butta a loro in cuore manate di fango; s’avvicina ai giovani e li allontana dal focolare domestico; entra nelle famiglie e scuote la fedeltà coniugale e dissacra la santità del matrimonio; profana perfino le chiese provocando pensieri torbidi e sguardi cupidi in mezzo ai devoti… È questi che rese imbelle Sansone da gagliardissimo che era; sospinse Davide, uomo dalla coscienza timorata, all’incredibile delitto d’omicidio; che del sapiente Salomone fece un folle adoratore di statue. –  Come va allora che quelli che si lasciano sedurre dal demonio impuro si vantano e dicono di non vedervi nulla di male, di non sentirvi nulla di triste; anzi difendono il loro peccato come un bisogno della natura, una forma lieta di sviluppare e di godere più pienamente la vita? Proprio qui, sta il segno più terribile della loro ossessione. Sono dei posseduti ed hanno l’illusione d’essere i soli a goder la libertà; come i pazzi che credono d’esser i soli a ragionar bene. Se s’accorgessero della loro deplorevole condizione, con ogni sforzo cercherebbero d’evaderne: ma perché questo non avvenga, il demonio li illude. Primo rimedio è dunque disilluderli: mostrare loro che lo spirito immondo li ha resi ciechi e muti come il disgraziato che fu condotto in casa a Gesù. – LO SPIRITO IMMONDO RENDE CIECHI. Fra le tante storielle che germogliarono intorno alla figura di Carlo Magno nel buon tempo antico, ne ricordo una che ci può insegnare qualcosa. Il grande imperatore un giorno cominciò a disinteressarsi delle cose del regno, a infastidirsi d’ogni questione seria, con grande meraviglia e sgomento di tutta la corte che l’aveva sempre conosciuto instancabile e provvido reggitore. Si venne a sapere che il suo cuore era stato affascinato da una terribile e impura passione; la notizia si diffuse, tutti facevano nomi e commenti. Solo l’imperatore non s’accorgeva di nulla: né del disonore suo, né delle rovine a cui lasciava andare lo stato. Finalmente, con grande sollievo di tutti, quella donna morì. E fu peggio di prima. L’imperatore la fece rivestire di porpora ricamata d’oro, costellata di gemme, fece spargere profumi e fiori nella funebre stanza, vi fece anche collocare vino e frutta come per un convito di festa. Poi si mise là irremovibile, notte e giorno, parlando e sorridendo con quel cadavere. Venivano costernati i baroni della corte, e tentavano di convincerlo ch’era una vergognosa follìa trascurare un governo glorioso per quell’oscena adorazione. Non riuscirono a farsi capire. Venivano fremendo i paladini ad annunciargli che i Saraceni avevano invaso i confini del santo impero: era suonata l’ora di lasciare i morti ai morti, e d’accorrere con le lance e con le spade. E non si mosse. Al quarto o al quinto giorno di questa macabra pazzia, si squarciò la coltre di nuvole che da tempo copriva il cielo d’Aquisgrana, e un raggio vivissimo di sole penetrò nella stanza e illuminò la faccia della morta. L’imperatore esterrefatto mandò un grido. In quel momento per la prima volta vide che quel viso era disfatto orridamente, vide le chiazze che indicavano la putrefazione già avanzata, e sentì l’irrespirabile fetore di cui era invaso quel posto. Per la prima volta in quel momento vide anche se stesso nella miseranda abbiezione in cui aveva avvilito la dignità imperiale, vide il disprezzo e lo scherno che tutti gli rivolgevano; avrebbe voluto sparire sotterra, svanire nel nulla; si coperse gli occhi con le mani e singhiozzò disperatamente (Cfr.: F. PETRARCA; Fam. I, 3). – La leggenda contiene una profonda verità: che qualche re della terra sia diventato cieco fino alla follia per una passione impura, a noi è facile crederlo. Ma le leggenda è anche vera per ogni uomo che si lascia sedurre dallo spirito immondo, diventa cieco negli occhi dell’anima. Infatti, la sua anima, ebete e pigra, non capisce più le cose della Religione, non vede più il Regno di Dio: parlategli del Salvatore che è morto per noi, della Vergine Maria, della grazia e dei sacramenti, della virtù e del paradiso, e vi guarderà annoiato e stupidito. Non sa gustare più la dolcezza d’un casto amor coniugale e perfino gli si attutisce l’amore per i figli innocenti. Egli non può interessarsi che del suo fangoso piacere; I suoi pensieri e i suoi desideri come uccellacci volano sempre là. – Vanno i sacerdoti dall’uomo sedotto dallo spirito immondo con le prediche, con gli avvisi, con la buona stampa si sforzano di fargli capire ch’egli ha dimenticato la vita eterna e oltraggia la sua famiglia e la propria dignità di figlio di Dio per un corpo che sarà pasto ai vermi del sepolcro. Gli annunciano che lo spirito immondo con sette altri invade la sua anima, che bisogna combattere aspramente e discacciarli. Ma l’uomo sedotto dalla passione impura non capisce nessun ragionamento anzi odia e detesta i preti perché lo disturbano nel suo piacere: li chiama corvi perché gracidano contro di lui importuni richiami. Affogata la mente nei luridi fantasmi, ingolfato il cuore in turpi affetti, egli sente che, se un paradiso c’è, non è per lui. Ed allora, impotente a raggiungerlo, lo nega e nega tutta la religione. L’ordinaria spiegazione della miscredenza è qui: se non ci fosse l’impurità nei cuori, non ci sarebbe tanta incredulità nelle menti. Invece per questa passione Gesù deve sentirsi ripetere assai spesso le tristi parole con cui fu congedato da quei di Gerasa: « Vattene via da noi, lasciaci in pace coi nostri porci » (Mc., V, 17). Ciò che più impressiona è che nessun ragionamento vale a disincantare i sedotti dallo spirito immondo: potete dir loro che si abbrutiscono, che perdono l’anima, che i loro piaceri sono stordimenti fuggitivi, che la morte ridurrà quella creatura in un sacco di vermi, ma essi vedono tutto diverso, presi come sono dal demoniaco affascinamento. – Solo un raggio che venga dal cielo può rivelare a costoro, come già a Carlo Magno imperatore, che adorano un cadavere in putrefazione e che sono precipitati in una miseria vergognosa. Gesù, Figlio di Davide, manda questo raggio a tante anime accecate dallo spirito immondo! – LO SPIRITO IMMONDO RENDE MUTI. Tacciono le preghiere. Dapprima l’impuro perde il gusto di parlare col Signore: non lo vede più, non lo sente più, e perciò pregare gli par che sia un soliloquio vano. Allora recita le sue orazioni da svogliato, poi le tralascia in parte; poi le tralascia del tutto. Se pregasse, Dio sarebbe costretto ad esaudirlo: ma non merita d’essere udito e per questo lo lascia senza più voce. Tacciono le confessioni. Dapprima sono confessioni confuse con peccati confessati in fretta, a mezzo, barbugliandoli nella gola; poi sono confessioni sacrileghe, perché la vergogna ha chiuso la bocca proprio al momento più trepido; infine, l’impuro non si confessa più. Se si confessasse bene Dio sarebbe costretto a perdonargli: ma non merita d’essere perdonato e per questo lascia che rifiuti il gran mezzo di salvezza che è la Confessione. Tacciono i rimorsi. Osservate un ammalato: quando sopporta con piena apatia sino le mosche s’attacchino al suo volto, è segno che la sua fine è irrimediabile. Così quando troverete un peccatore che si lascia coprire dai peccati senza un moto di reazione, senza un brivido di rimorso, dite pure che la sua morte eterna è irrimediabile. A forza d’essere irritato, Dio chiude in se stesso la sua collera e abbandona l’impuro alla sua perniciosa tranquillità. Questi stupisce di non sentir più nessun turbamento di coscienza e s’immagina di non avere nulla da temere. Non s’accorge che il suo è un sopore simile a quello stato d’incoscienza che nei moribondi precede l’inevitabile morte. È questa la massima disgrazia: vivere in perfetto accordo col demonio che pacificamente occupa gli atrii del nostro spirito; rovesciare in noi l’augusto tribunale di coscienza; infrangere ogni sigillo della divina giustizia; spegnere ogni luce della santa verità di Dio. – A chi col peccato si è allontanato dalla propria felicità che consiste nel servire ed amare Dio, il più grande dono è il rimorso: ma guai a quelli che si rendono indegni anche di questo dono! Al loro male non resta più rimedio. – Isaia il profeta li ha visti come uomini « caduti nella notte agli angoli delle strade, così profondamente addormentati da sembrare morti » (Is., 51, 20). Inebriatisi a lungo nel vino dei loro piaceri, perdono ogni cognizione di Dio e ogni sentimento del loro male. – Come faremo a scampare da questa orrenda fine? Il cammino è tanto lubrico ed inclinato che bisogna badare molto seriamente ai primi passi. Chi non vigila su questi, s’abbandona all’impeto d’una irrefrenabile corsa. Attenti ai pensieri, attenti agli sguardi! Il maestro divino ha detto: « Chi avrà guardato con occhio torbido, con cuore cupido, già ha commesso peccato ».

– Raccogliamo per l’anima nostra, questa volta, una sola sentenza del Signore. « Omne regnum in seipsum divisum desolabitur ». È proverbio che sanno bene i demoni, i quali tra di loro non si fanno guerra né discordia. Lo sapevano anche gli antichi Romani quando nei loro libri scrivevano che perfino « le minime cose con la unione prosperano, mentre anche le massime con la divisione si sfasciano ». Ogni regno diviso sarà desolato: sia esso il regno di Dio interiore nell’anime nostre, sia esso il regno di Dio esteriore della santa Chiesa Cattolica. – DESOLAZIONE DEL REGNO DI DIO IN NOI. A farvi comprendere questo pensiero, permettete che mi rifaccia un po’ da lontano. Tutti conoscete, e molti per pratica, che cosa sia l’innesto, e che significhi innestare la pianta. Ecco un albero sterile selvatico: l’agricoltore vi innesta un rametto fruttifero: attecchisce, frondeggia e tutto l’albero fruttifica copiosamente. Ora immaginate un nuovo innesto: ecco un albero meraviglioso, unico al mondo per la bellezza de’ suoi frutti paradisiaci; ed ecco infiniti rametti di alberi incolti, spinosi, selvatici, sterili. C’è qualcuno che li prende e li innesta nell’albero prodigioso: una nuova linfa scorre in quei ramoscelli, una nuova vita li investe, gettano foglie, fiori, frutti bellissimi, come quelli dell’albero in cui furono innestati. Comprendete: quest’albero di vita è Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne per la nostra salvezza. Quando noi ricevemmo il Battesimo, siamo stati innestati in Lui: in quel momento cessammo d’essere rami sterili e selvatici e noi pure vivemmo della sua vita divina, diventammo noi pure figli di Dio, come Lui capaci di compiere opere divine meritevoli di premio eterno. Come il ramo è una cosa sola col tronco, noi siamo con Cristo una cosa sola; così che il Padre Celeste può chiamare ancora noi figli, costituire ancora noi eredi de’ suoi possessi eterni; così che guardando al cielo noi, come Gesù Cristo, possiamo chiamare Dio col dolce nome di Padre. – S. Paolo desiderava tanto che i Cristiani tutti comprendessero questa verità, che intendessero d’essere innestati in Cristo, che sentissero in loro palpitare la vita di Cristo; ne parla in ogni lettera, e per esprimersi non sa più quali parole escogitare: « noi siamo indissolubilmente uniti a Cristo: dobbiamo soffrire con Lui; essere crocifissi con Lui; morire con Lui; risuscitare con Lui; partecipare alla sua divinità; partecipare alla sua gloria; sedere con Lui alla destra di Dio Padre; regnare con Lui; ereditare con Lui la vita eterna ». – Il regno di Dio dentro di noi è questo: essere uniti al Figlio di Dio come membra al corpo, diventare divini, vivere e operare divinamente. Se lo Spirito Santo vi fa la grazia d’intendere almeno un poco il mistero della vita cristiana, potrete misurare la desolazione della nostra anima se il peccato mortale la divide da Cristo. Regnum divisum desolabitur. – Recidete un tralcio della vite: i pampini avvizziscono, i grappoli non maturano più, ma disseccano. Quando il peccato ci distacca da Cristo, ognuno diventa secco e inutile, ramo maledetto e condannato alle fiamme. Recidete una mano dal corpo; quella mano resta inerte, annerisce, imputridisce, pasto dei vermi. Così è l’anima staccata da Cristo sua vita: non può operare più per la vita eterna, annerisce di bruttezza senza più un raggio del primiero fulgore, imputridisce divorata dal verme che non muore e dal fuoco che non s’estingue. Potessimo vedere le persone come le vedono gli Angeli, quanti ci farebbero pietà e ribrezzo; rami secchi, membri putrefatti. Respirano, camminano, si divertono, e non si accorgono della loro stessa desolazione interiore. DESOLAZIONE DEL REGNO DI DIO NEL MONDO. Allarghiamo la nostra considerazione. Innestati nel Cristo non siamo appena noi, ma tutti quelli che nei secoli passati morirono nella grazia di Dio, tutti quelli che nel presente siamo nella grazia di Dio, tutti quelli che nei secoli dell’avvenire riceveranno la grazia di Dio. Questa è la Chiesa dove ciascun fedele è membro vivo nel Corpo di Cristo, Corpo mistico che va man mano crescendo fino alla fine del mondo, quando avrà raggiunto la sua statura perfetta. Come il Salvatore nostro ha voluto che la sua divinità si manifestasse sensibilmente attraverso la umanità, così ha stabilito che questo suo Corpo divino e mistico si rendesse visibile. Per ciò ha stabilito che la Chiesa avesse una gerarchia: in capo a tutto e a tutti sta il sovrano Pontefice, il successore di S. Pietro; poi vengono i Vescovi che devono tenersi ben uniti al Papa; poi vengono. i sacerdoti i quali devono tenersi ben uniti al loro Vescovo; poi vengono tutti i fedeli i quali devono tenersi ben uniti al loro parroco e ai loro sacerdoti. Guai a chi si strappa fuori da questa misteriosa catena! la desolazione lo attende. Omne regnum divisum desolabitur. – Guardate i protestanti che, da Lutero in poi, si sono staccati dal Papa: in fatto di religione sono diventati più disgraziati degli stessi pagani dell’Asia e dell’Africa. Non sanno neppur essi quello che credono e aspettano. Ma senza arrivare a questi eccessi di apostasia, ci sono altri modi in cui dagli stessi fedeli, talvolta, si tenta di desolare il Regno di Dio. Quando si parla male del Papa, si pretende di criticarlo, si ascoltano le calunnie che uomini e giornali cattivi lanciano contro di lui, si disubbidisce al suo comando, non è un voler dividersi da lui? Ma chi si stacca dal Papa, muore alla grazia. Regnum divisum desolabitur. Quando non ascoltiamo le parole del nostro Vescovo e gli avvertimenti del nostro parroco, quando non partecipiamo ai loro dolori e alle loro gioie di ministero, quando non li aiutiamo — per quello che ciascuno può — nelle opere di bene, non è un volerci staccare dal Regno di Dio, che è la Chiesa? Regnum divisum desolabitur. Quando non ci preoccupiamo che i nostri figli crescano nella santa religione e nel timore di Dio, quando non ci sentiamo viscere di carità per i figli di tanti infedeli che aspettano d’entrare nella Chiesa, non è già forse un segno di apatia, di ignoranza verso il Regno di Dio? Regnum divisum desolabitur. La Chiesa è una grande barca che unica galleggia sulla inondazione del mondo: ognuno che è dentro è salvo. Ma chiunque da quella barca si stacca, sia esso Un Vescovo, o un. prete, o un semplice cristiano, precipita nell’acqua e muore. – La nave che portava S. Francesco Saverio in India, s’era fermata per provvigioni all’isola di Socotera. Quegli isolani erano già stati evangelizzati, ma da moltissimi anni non avevano rivisto sacerdoti. Il Santo approfittò di quell’indugio per battezzare e predicare il Regno di Dio a quei cuori aperti alla grazia. Ma dopo qualche giornata la nave levò l’ancora. Tutta la folla, che invano aveva tentato di trattenere Francesco, piangeva sulla spiaggia; e le donne alzavano i loro piccoli e li protendevano verso il battello che s’allontanava, gridando: « Chi li istruirà ora nella fede, chi li conforterà nell’osservanza della legge del Signore? ». E i vecchi singhiozzavano dicendo amaramente: « E noi, chi ci assisterà alla morte? quale viatico avremo in quell’ora? chi ci potrà purificare prima di arrivare al cospetto di Dio?». Povera gente sperduta nell’oceano! Essi avevano compreso la bellezza del Regno di Dio, che moltissimi Cristiani oggi ignorano o trascurano.

– Diceva una volta un signore ad un santo parroco di campagna, nella cui parrocchia teneva una casa di villeggiatura estiva: «Ma signor Curato, ella ci predica ancora del demonio come se volesse intimorire dei bambini capricciosi e disobbedienti. Le sue parole andavano bene secoli or sono, quando gli uomini rapaci e feroci avevano bisogno di essere spaventati e rattenuti dal fuoco dell’inferno e dalla forma di satana; ma adesso che sappiamo trasvolare l’Atlantico, che abbiamo la radio, che siamo civili, possiamo farne a meno della favola del demonio ». Il vecchio ministro di Dio mormorò subito una preghiera, e guardando quel signore con lunghi occhi di compassione se ne allontanò dicendo così: «Tanto è vero che il demonio esiste, che costui è della sua ». – Cristiani, tutti coloro che dicono di non credere più all’esistenza del demonio sono suoi partigiani e vanno d’accordo con lui, spirito di tenebre e di menzogna: già lo dice anche Gesù nel Vangelo: «Se il demonio non fosse d’accordo coi suoi, come potrebbe durare il suo regno? Ogni regno diviso contro se stesso si sfascia, ogni città ed ogni famiglia discorde in se stessa non regge ». – Dunque, se il Vangelo è Vangelo anche per noi, bisogna credere che i demoni ci sono. La Sacra Scrittura li chiama con nomi terribili: volpe per la loro astuzia, serpe per il loro veleno, cane per la loro rabbia, drago per il loro incantesimo, leone per da loro voracità. E nel brano di oggi lo avete sentito chiamare Beelzebub, che — seconda della pronuncia — può voler dire: signore delle mosche, o, signore del concime, nomi che indicano entrambi che il suo regno è nei cuori marciti dal vizio. Se il suo nome è terribile, il giogo della sua schiavitù è più terribile ancora. Guardate l’ossesso guarito da Gesù com’era angariato in cecità e mutolezza! Ed io ricordo d’aver letto che in un esorcismo; il demonio interrogato del suo nome, rispose: siamo in tre e ci chiamiamo: Claudens mentem, Claudens cor, Claudens os ». Questa risposta ci può fornire tre pensieri. – CLAUDENS MENTEM. Io non so se quel signore, che ho ricordato in principio, tanto saputo da non credere più nemmeno al demonio, fosse superstizioso; ma indovinerei, credendo di sì. Ci è che il principe delle tenebre, ambiziosissimo di farsi tenere per quello che non è, brama acquistarsi onori divini. Che altro erano gli idoli degli antichi pagani, se non immagini del demonio? E che altro sono le superstizioni, così numerose anche ai nostri giorni, se non atti di culto al demonio? Così l’astuto serpente riesce a carpire adorazioni da quegli ingenui che non credono più alla sua esistenza. Parrebbe impossibile, eppure è vero. C’è della gente che non osa muovere un passo se alla catena d’oro dell’orologio manca il cornetto; che non si arrischia salire su un’automobile la quale non abbia spenzolante sul cristallo posteriore la mascherina porta-fortuna. C’è della gente che trema e tocca il ferro, se incontra un prete; che cambia strada, per non vedere uno zoppo; che smania di spavento se si rovescia il sale; che licenzia la serva, se sbadatamente ha messo sulla tavola le posate in croce. C’è della gente cui sussulta il cuore, se la gallina canta in gallesco, se i fanciulli giocano ai funerali, se un calabrone ronza per casa, se la legna cigola sul focolare… Ah, infedeli adoratori di satana! e lo adorano spaventati di mille sciocchezze, a costo di rendersi la vita noiosa e ridicola. Essi senza timore di Dio mangeranno di grasso al venerdì, ma non li indurrete mai a farvi una visita in quel giorno. Essi senza timore di Dio lavoreranno tutta la festa di precetto, ma non passeranno mai per una strada dove hanno visto un ago smarrito per terra. Si tratta d’ignoranza, — penserete forse, — ma non è appena questa. Ci sono anche persone istruite che credono ai sogni; eppure si vantano di non credere più al Catechismo. Ci sono persino professori, avvocati, che credono alle zingare luride: e sguaiate che indovinano il futuro e il passato; eppure non credono alla dottrina cristiana che predice il paradiso per i buoni e l’inferno per i cattivi. Ma come mai? il demonio con una tenebrosa siepe ha chiuso la loro mente alla luce di Dio. – CLAUDENS COR. A S. Clemente d’Ancira offrirono un vassoio colmo d’oro e di gemme, all’unica condizione che egli rinunciasse a Gesù. Ma il santo scrollò lentamente la testa e levando gli occhi al cielo disse « Signore, è mai possibile che il mio cuore si sazi di un piatto di metalli e di pietre? ». Eppure, quanti cuori d’uomini, creati per la beatitudine di Dio, si sono contentati anche molto di meno. Il demonio li ha chiusi ad ogni vera ricchezza, ad ogni vera bellezza, ad ogni vero amore. Claudens cor. a) Trovate delle persone che altra cura non sentono se non quella materiale, far danaro, far roba. Non capiscono altro ragionamento se non quello delle cifre: crediti, debiti. Non hanno altra gioia se non il guadagno, altro dolore se non la perdita. «Buona gente, — dite loro — ricordatevi che di tutti i vostri beni, fra dieci, vent’anni, al sopravvenir della morte, neppure una pagliuzza vi resterà. Procurate un tesoro di opere buone che vi segua per i bisogni dell’altro mondo ». Essi vi guarderanno senza capirvi… Il loro cuore è chiuso alla vera ricchezza. b) Trovetere della gente che altra esca non brama se non il cibo dei porci. I pensieri d’ogni ora, i discorsi d’ogni giorno, le azioni di tutta la loro vita sono impure. Da soli, in famiglia, nella società, sono divorati dalla cupa fiamma del piacere disonesto. Non c’è più legge, non c’è più pudore. « Buona gente, dite loro, voi siete diventati come bruti schifosi e fetidi: alzate gli occhi al cielo e vedete come è bello! uscite dalla palude livida e provate la gioia d’aver l’anima pura! ». Essì vi guarderanno con le pupille nebbiose, e non vi crederanno. Il loro cuore in putrefazione è chiuso ad ogni vera bellezza. c) Ma il cuore ove regna satana è chiuso anche al vero amore. Il demonio, ladro ed assassino, è principe dell’odio, e non sa che sia la dolcezza del santo amore. Anticamente costringeva le madri a sacrificargli i loro bambini: immolaverunt filios suos et filias suas demoniis; oggi non è meno crudele. Perché tante sanguinose guerre in tempi di vantata civiltà? perché tante ingiustizie contro i deboli? Perché tante insanabili discordie nelle famiglie? È tutta opera del demonio che chiude i cuori al vero amore che Gesù ha portato sulla terra. Claudens cor. – CLAUDENS OS. Chiude la bocca, perché in quelle anime dove egli regna, non escano i peccati nella Confessione, non entri Gesù nella Comunione. Nei casi d’ossessione incontrati dal P. Chevrier ve ne sono due assai caratteristici (VILLEFRANCHE, Vita del P. Chevrier, trad. Codaghengo, pag. 206 ss.). Nel primo si racconta di una giovane di nome Margherita che, agitata dallo spirito maligno, si era a lui consacrata ed aveva firmato col proprio sangue la promessa di non confessarsi mai. – Nel secondo, d’un infelice carcerato. Il P. Chevrier entrò nella sua prigione per gli esorcismi. Ma l’ossesso inquietissimo urlava: « Non toccatemi! ». Senza far caso alle sue minacce, il Padre lo fa legare con un cordone turchino benedetto: ed egli spezza il cordone. Lo fa legare con una fune ugualmente benedetta: egli rompe la fune. Gli si legano le mani ed i piedi con una catena di ferro ed egli infrange la catena. Ma quando, dopo non poca esitazione, fu deposta sul suo petto la santa Eucarestia, rimase immobile ed annientato. Si compirono allora gli esorcismi, ed il demonio abbandonò la sua vittima. – La Confessione e la Comunione sono le due spade della nostra vittoria contro il nemico infernale: la prima per scacciarlo, la seconda per tenerlo lontano. Ecco perché il demonio con ogni astuzia cerca di chiudere la bocca agli uomini che vuol tenere per suoi. E son molti quelli che, cedendo alla sua tirannia, vengono troppo di raro o mai, a ricevere questi due sacramenti. – Ricordate la leggenda di S. Giorgio. Una gentile fanciulla, figlia del re, era destinata come vittima del dragone. Relegata in un’isola, con grande tremito di paura, aspettava la sua morte certa. Ed ecco arrivare un cavaliere su fiero cavallo. « Gentile fanciulla — disse — perché piangi qui sola?  ». Ed ella rispose: « Nobile giovane, fuggi! io sono destinata alla bocca ingorda del dragone ». Ed ecco la bestia feroce mise il capo un po’ fuori dall’acqua del mare e cominciò forte a sibilare. Ma il cavaliere alzò il segno della croce, e d’un balzo diede un gran colpo con la lancia che teneva in mano, e l’abbatté! L’anima nostra figlia di Dio, o Cristiani, simile alla gentile fanciulla, era caduta per il peccato d’Adamo preda al dragone infernale. Ma venne Gesù Cristo, il cavaliere mobile e divino, e con la sua croce ha vinto il demonio. Si autem fortior eo superveniens vicerit eum, universa arma eius auferet. – Noi siamo deboli, ma il nostro Salvatore è invincibile: apriamo a Lui la nostra mente, il nostro cuore, la nostra bocca. Allora potremo elevare il grido del trionfo: « potenze avverse, fuggite! vince il leone della tribù di Giuda ».

– Quaggiù sulla terra — lo dice il Signore — ci sono due regni che si combattono senza mai aver pace: il regno di Beelzebub che tien schiave le anime e le rende mute; il regno di Dio che porta la libertà. C’è dunque da scegliere se vogliamo seguire Colui che è il nostro Salvatore oppure andar dietro ai vessilli di satana. Gesù è stato mandato dal Padre a ricondurre la umanità dalla schiavitù, in cui la teneva il demonio, alla libertà dei figli di Dio. E questa figliolanza divina, che è tutta un favore di Dio, Gesù ce l’ha procurata per mezzo della grazia. È la grazia che ci rende fratelli di Cristo e per ciò figlioli di Dio. Se dunque ci manca la grazia noi non siamo di Cristo e di Dio, ma siamo contro Cristo. contro Dio. Questa stessa figliolanza divina, che la grazia ci ha saputo portare, deve sempre manifestarsi nei fatti: le azioni che andiamo compiendo devono essere azioni di un figlio di Dio, devono essere azioni di un fratello di Cristo. Se dunque mancasse la retta intenzione che al nostro operare dia questo indirizzo, invece di raccogliere tanti frutti di bene noi disperderemmo le energie. Sono due pensieri che dobbiamo fissare. – È CONTRO GESÙ CHI HA PERDUTO LA GRAZIA.. La storia d’Italia, al sec. VIII, ricorda le vicende dei re Longobardi. Barbari ancora, alternano, con facilità che sorprende, la guerra e la pace, le ostilità e l’alleanza. Astolfo, divenuto re nel 749, ruppe subito col Papa la tregua giurata dai suoi predecessori, e colle truppe focose dei suoi uomini mosse contro la città di Roma prendendola d’assalto. Il Papa Stefano II va ad incontrarlo alle porte dell’urbe, gli si avvicina, lo prega di ritirarsi. Il re, sconfitto da quella maestà, così debole e pur così potente, domanda perdono e giura una tregua che doveva durare tre anni. Il suo proposito, perché non fosse di sole parole, volle scritto con atto solenne. Non era passato un anno ed Astolfo, violando la parola giurata, assale la città, la mette al saccheggio e, quasi fosse l’assoluto padrone, la costringe ad un grave tributo. Fu allora che il Romano Pontefice, per sollevare le calamità del suo popolo, ordinò preghiere e digiuni. Anzi il Papa in persona, nudi i piedi, con una grave croce sopra le spalle, effondendosi in lagrime, percorre in processione le vie di Roma, seguito dal Clero e dal popolo asperso di cenere. Davanti a tutto il corteo di penitenza e di pianto, su una croce, veniva portata la pergamena della tregua infranta dal re. Cristiani, quante tregue infrante, quante volte anche noi abbiamo rotto l’amicizia di Dio. Losca figura quella di Astolfo, ma forse qualche volta gli siamo assomigliati. Nel giorno del nostro Battesimo noi fummo portati alla Chiesa. Di fronte a Dio eravamo… dei barbari, degli stranieri che non vantavano diritto alcuno. Ma il Signore ci ha voluto bene, ci ha accolto nella sua terra ed ha stretto con noi non solo un patto di alleanza ma un vincolo di vera parentela. In quel giorno gli siamo divenuti figli adottivi. Il patto fu scritto non su un foglio di carta, ma nell’intimo dell’anima nostra, non in inchiostro ma col Sangue del Figlio di Dio, non con una penna qualunque ma col legno della Croce di Cristo. Eppure, noi col peccato mortale abbiamo dimenticato quel giorno così bello. Coll’esercito scomposto e barbaro delle nostre passioni abbiamo dato l’assalto alla città santa di Dio che era il nostro cuore adorno di grazia; in un momento di pazzia abbiamo infranto lo splendore dell’anima nostra, abbiamo distrutto le tracce del Sangue di Cristo, abbiamo resa inutile la morte stessa di Lui. Gesù fu obbligato a porre su la nuda sua croce la nostra amicizia infranta e mostrarla agli Angeli che avranno pianto il nostro spergiuro. Proprio sul legno benedetto della Croce, che ricorda la misericordia di Dio infinita, Gesù ha dovuto appendere, come Papa Stefano II, la prova vergognosa della nostra ingratitudine e della nostra cattiveria. Ma, se noi vogliamo, Gesù è ancora pronto a perdonare e per un atto di sincero dolore, scriverebbe ancora col suo sangue un’amicizia più bella. – NON RACCOGLIE CON GESÙ CHI NON HA RETTA INTENZIONE. S. Agostino, nelle sue Confessioni, racconta questo episodio. Mentre l’imperatore Teodosio era a Treviri a vedere i giochi del Circo, due dei suoi cortigiani vollero rinunciare a quei divertimenti per godersi qualche ora di libertà nei campi. Attraverso un bosco, giunsero ad una rozza capanna solitaria. Entrarono, ma non c’era nessuno. Squallide pareti, poche masserizie, una grande croce. Sopra una tavola tarlata, stava aperto un libro, logoro dall’uso continuo. Uno di loro lo prese in mano e si mise a leggere forte: era la vita di S. Antonio Abate. Intanto la grazia lavorava in quelle anime, e colui che leggeva deponendo il libro, cominciò: « Noi allora siamo su una strada sbagliata! Dove vanno a finire le nostre azioni? Che facciamo al servizio dell’imperatore? Sopportiamo fatiche, accettiamo umiliazioni, affrontiamo contrasti per divenire suoi favoriti: e poi… ci attiriamo invidie, calunnie e nulla più. Teodosio è un uomo mortale… potrà essere immortale la sua mercede? Lasciamo un padrone che dovrà morire, per servire Iddio che non muore mai! ». E tutti e due si fecero eremiti (Confessioni, lib. VIII, c. 6). – Anche noi, o Cristiani, abbiamo spesso bisogno di staccarci dalle cose del mondo per raccoglierci un poco nel fecondo silenzio di una meditazione severa. Se in questa solitudine dell’anima noi leggessimo gli esempi dei Santi e facessimo passare almeno qualche pagina della nostra vita, vedremmo, come quei cortigiani, quanti passi sono davvero perduti, quante azioni rimangono senza frutto, quanto tempo è miseramente sciupato. Manca la retta intenzione, manca l’offerta a Dio delle opere nostre ed allora rimane il vuoto. « Chi non raccoglie con me, disperde », dice Gesù nel Vangelo di oggi. Che direste voi di un contadino che lavora tutto l’anno il suo campicello e poi, quando giunge il tempo della messe, si vede disperso dalla bufera e dal vento tutto quanto il raccolto? È quello che capita all’anima di colui che non ha la retta intenzione. – Quando andiamo alla Chiesa soltanto per farci vedere o per una intenzione tutt’altro che santa, noi disperdiamo ogni cosa: non è con Gesù che facciamo il raccolto. Quando il lavoro di ogni giorno è compiuto unicamente per fare danaro, la nostra mercede l’abbiamo già ricevuta. Il padrone che abbiamo servito non è il Dio che non muore, ma è un tesoro che la ruggine può sempre corrompere ed i ladri possono rapirci. – Dovessimo fare le grandi elemosine di S. Carlo Borromeo, se ci manca la intenzione giusta, diventeremmo poveri anche davanti a Dio; facessimo pure le grandi penitenze dei padri del deserto, se non ci muove la gloria di Dio saremmo degli stolti: perdiamo i piaceri della terra e non acquistiamo quelli del cielo. – Supponete che un uomo abbia impiegato parecchi giorni e parecchie notti a comporre una lunga lettera da cui dipende un affare di capitale importanza, ma, dopo averla ben descritta, la consegnasse alla posta con l’indirizzo sbagliato. Poveretto! Ha sciupato tutto il suo tempo e ha concluso nulla! Cristiani, se le nostre azioni, da cui dipende la nostra salvezza eterna, le cominciamo senza la grazia di Dio o con una intenzione che non riguarda il Signore, noi sbagliamo indirizzo. O siamo andati contro Gesù o non abbiamo raccolto con Lui: le nostre mani rimangono vuote.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XVIII: 9, 10, 11, 12

Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.

[I comandamenti del Signore sono retti, rallegrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adempie.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.

[Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santifichi i corpi e le anime dei tuoi servi, onde possano degnamente celebrare il sacrificio.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXXIII: 4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te.

[Il passero si è trovata una casa, e la tortora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli eserciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che abitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei secoli dei secoli.]

Postcommunio

Orémus.

A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes.

[Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

FESTA DI SAN GIUSEPPE (2022)

FESTA DI SAN GIUSEPPE 2022

Sancta Missa

San Giuseppe, Sposo della B. V. Maria, Conf.

Doppio di 1* classe. – Paramenti bianchi.

La Chiesa onora sempre, con Gesù e Maria, San Giuseppe, specialmente nelle feste di Natale; ecco perché il Vangelo di questo giorno è quello del 24 dicembre. La Chiesa diede a questo Santo fin dall’VIII secolo, secondo un calendario copto, un culto liturgico nel giorno 20 luglio. Alla fine del XV sec. la sua festa fu fissata al 19 marzo e nel 1621 Gregorio XV l’estese a tutta la Chiesa. – 1870 Pio IX proclamò San Giuseppe protettore della Chiesa universale. Questo Santo, « della stirpe reale di Davide », era un uomo giusto (Vang.) e per il suo matrimonio con la Santa Vergine ha dei diritti sul frutto benedetto del seno verginale della Sposa. Una affinità di ordine legale esiste tra lui e Gesù, sul quale esercitò un diritto di paternità, che il Prefazio di San Giuseppe designa delicatamente con queste parole « paterna vice ». Senza aver generato Gesù, San Giuseppe, per i legami che l’uniscono a Maria, è, legalmente e moralmente, il padre del Figlio della Santa Vergine. Ne segue che bisogna con atti di culto riconoscere questa dignità o eccellenza soprannaturale di San Giuseppe. Vi erano nella famiglia di Nazareth le tre persone più grandi ed eccellenti dell’universo; il Cristo Uomo-Dio, la Vergine Maria Madre di Dio, Giuseppe padre putativo del Cristo. Per questo al Cristo si deve il culto di latria, alla Vergine il culto di iperdulia, a San Giuseppe il culto di suprema dulia. Dio gli rivelò il mistero dell’incarnazione (ìd.) e « lo scelse tra tutti gli uomini » (Ep.) per affidargli la custodia del Verbo incarnato e della Verginità di Maria [Toccava al padre imporre un nome al proprio figlio. L’Angelo, incaricando da parte di Dio di questa Missione Giuseppe, gli mostra con ciò che, nei riguardi di Gesù, ha gli stessi diritti che se egli ne fosse veramente il padre.]. – L’inno delle Lodi dice che: « Cristo e la Vergine assistettero all’ultimo momento San Giuseppe il cui viso era improntato ad una dolce serenità ». San Giuseppe salì al cielo per godere per sempre faccia a faccia la visione del Verbo di cui aveva contemplato cosi lungamente e da vicino l’umanità sulla terra. Questo santo è dunque considerato giustamente come il patrono ed il modello delle anime contemplative. Nella patria celeste San Giuseppe conserva un grande potere sul cuore del Figlio e della sua Santissima Sposa (Or.). Imitiamo in questo santo tempo la purezza, l’umiltà, lo spirito di preghiera e di raccoglimento di Giuseppe a Nazaret, dove egli visse con Dio, come Mosè sulla nube.

Incipit

In nómine Patris,et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCI : 13-14.
Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

 [Il giusto fiorisce come palma, cresce come cedro del Libano: piantato nella casa del Signore: negli atrii della casa del nostro Dio].

Ps XCI: 2.
Bonum est confiteri Dómino: et psállere nómini tuo, Altíssime.


[É bello lodarTi, o Signore: e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

[Il giusto fiorisce come palma, cresce come cedro del Libano: piantato nella casa del Signore: negli atrii della casa del nostro Dio].

Oratio

Orémus.
Sanctíssimæ Genetrícis tuæ Sponsi, quǽsumus, Dómine, méritis adjuvémur: ut, quod possibílitas nostra non óbtinet, ejus nobis intercessióne donétur:

[Ti preghiamo, o Signore, fa che, aiutati dai meriti dello Sposo della Tua Santissima Madre, ciò che da noi non possiamo ottenere ci sia concesso per la sua intercessione]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XLV: 1-6.

Diléctus Deo et homínibus, cujus memória in benedictióne est. Símilem illum fecit in glória sanctórum, et magnificávit eum in timóre inimicórum, et in verbis suis monstra placávit. Glorificávit illum in conspéctu regum, et jussit illi coram pópulo suo, et osténdit illi glóriam suam. In fide et lenitáte ipsíus sanctum fecit illum, et elégit eum ex omni carne. Audívit enim eum et vocem ipsíus, et indúxit illum in nubem. Et dedit illi coram præcépta, et legem vitæ et disciplínæ.

[Fu caro a Dio e agli uomini, la sua memoria è in benedizione. Il Signore lo fece simile ai Santi nella gloria e lo rese grande e terribile ai nemici: e con la sua parola fece cessare le piaghe. Lo glorificò al cospetto del re e gli diede i comandamenti per il suo popolo, e gli fece vedere la sua gloria. Per la sua fede e la sua mansuetudine lo consacrò e lo elesse tra tutti i mortali. Dio infatti ascoltò la sua voce e lo fece entrare nella nuvola. Faccia a faccia gli diede i precetti e la legge della vita e della scienza].

Graduale


Ps XX : 4-5.
Dómine, prævenísti eum in benedictiónibus dulcédinis: posuísti in cápite ejus corónam de lápide pretióso.

[O Signore, lo hai prevenuto con fauste benedizioni: gli ponesti sul capo una corona di pietre preziose.]

V. Vitam pétiit a te, et tribuísti ei longitúdinem diérum in sæculum sæculi.

[Ti chiese vita e Tu gli concedesti la estensione dei giorni per i secoli dei secoli].

Ps CXI: 1-3.
Beátus vir, qui timet Dóminum: in mandátis ejus cupit nimis.
V. Potens in terra erit semen ejus: generátio rectórum benedicétur.
V. Glória et divítiæ in domo ejus: et justítia ejus manet in sæculum sæculi.

[Beato l’uomo che teme il Signore: e mette ogni delizia nei suoi comandamenti.
V. La sua progenie sarà potente in terra: sarà benedetta la generazione dei giusti.
V. Gloria e ricchezza sono nella sua casa: e la sua giustizia dura in eterno].

Evangelium

Sequéntia + sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt 1: 18-21.

Cum esset desponsáta Mater Jesu María Joseph, ántequam convenírent, invénta est in útero habens de Spíritu Sancto. Joseph autem, vir ejus, cum esset justus et nollet eam tradúcere, vóluit occúlte dimíttere eam. Hæc autem eo cogitánte, ecce, Angelus Dómini appáruit in somnis ei, dicens: Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est. Páriet autem fílium, et vocábis nomen ejus Jesum: ipse enim salvum fáciet pópulum suum a peccátis eórum

[Essendo Maria, la Madre di Gesù, sposata a Giuseppe, prima di abitare con lui fu trovata incinta, per virtù dello Spirito Santo. Ora, Giuseppe, suo marito, essendo giusto e non volendo esporla all’infamia, pensò di rimandarla segretamente. Mentre pensava questo, ecco apparirgli in sogno un Angelo del Signore, che gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, cui porrai nome Gesù: perché egli libererà il suo popolo dai suoi peccati].

Sermone di san Bernardo Abbate
Omelia 2 su Missus, verso la fine


Chi e qual uomo sia stato il beato Giuseppe, argomentalo dal titolo onde, sebbene in senso di nutrizio, meritò d’essere onorato così da essere e detto e creduto padre di Dio; argomentalo ancora dal proprio nome, che, come si sa, s’interpreta aumento. Ricorda in pari tempo quel gran Patriarca venduto altra volta in Egitto; e sappi ch’egli non solo ha ereditato il nome di quello, ma ne ha imitato ancora la castità, ne ha meritato l’innocenza e la grazia. E se quel Giuseppe, venduto per invidia dai fratelli e condotto in Egitto, prefigurò la vendita di Cristo; il nostro Giuseppe, fuggendo l’invidia d’Erode, portò Cristo in Egitto. Quegli per rimaner fedele al suo padrone, non volle acconsentire alle voglie della sua padrona: questi, riconoscendo vergine la sua Signora madre del suo Signore, si mantenne continente e fu il suo fedele custode. A quello fu data l’intelligenza dei sogni misteriosi; a questo fu concesso d’essere il confidente e cooperatore dei celesti misteri. Il primo conservò il frumento non per sé, ma per tutto il popolo: il secondo ricevé la custodia del Pane vivo celeste e per sé e per tutto il mondo. Non v’ha dubbio che questo Giuseppe, cui fu sposata la Madre del Salvatore, sia stato un uomo buono e fedele. Voglio dire, «un servo fedele e prudente»

Omelia di san Girolamo Prete
Libr. 1 Commento al cap. 1 di Matteo


Perché fu concepito non da una semplice vergine, ma da una sposata? Primo, perché dalla genealogia di Giuseppe si mostrasse la stirpe di Maria; secondo, perch’ella non fosse lapidata dai Giudei come adultera: terzo, perché fuggitiva in Egitto avesse un sostegno. Il martire Ignazio aggiunge ancora una quarta ragione perché egli fu concepito da una sposata : affinché, dice, il suo concepimento rimanesse celato al diavolo, che lo credé il frutto non di una vergine, ma di una maritata. Prima che stessero insieme si scoperse che stava per esser madre per opera dello Spirito Santo» Matth. 1, 18. Si scoperse non da altri se non da Giuseppe, al quale per la confidenza di marito non sfuggiva nulla di quanto riguardava la futura sposa. Dal dirsi poi: « Prima che stessero insieme », non ne segue che stessero insieme dopo: perché la Scrittura constata ciò che non era avvenuto.

Omelia di sant’Ambrogio Vescovo
Lib. 4 al capo 4 di Luca, verso la fine


Guarda la clemenza del Signore Salvatore: né mosso a sdegno, né offeso dalla grave ingratitudine, né ferito dalla loro ingiustizia abbandona la Giudea: anzi dimentico dell’ingiuria, memore solo della clemenza, cerca di guadagnare dolcemente i cuori di questo popolo infedele, ora istruendolo, ora liberandone (gl’indemoniati), ora guarendone (i malati). E con ragione san Luca parla prima di un uomo liberato dallo spirito malvagio, e poi racconta la guarigione d’una donna. Perché il Signore era venuto per guarire l’uno e l’altro sesso; ma prima doveva guarire quello che fu creato prima: e non bisognava omettere (di guarire) quella che aveva peccato più per leggerezza di animo che per malvagità.

OMELIA

S. Giuseppe e le persecuzioni contro i Cattolici.

[A. Carmagnola: S. GIUSEPPE, Ragionamenti per il mese a lui consacrato. RAGIONAMENTO XIII. – Tipogr. e Libr. Salesiana. Torino, 1896]

Uno fra i tanti ammaestramenti che ci dà la storia è questo: che i buoni sono sempre stati ingiuriati, maltrattati, perseguitati dai cattivi. Difatti fin dal principio del mondo ci mostra Abele perché innocente e santo ucciso dal suo fratello Caino. In seguito ci mostra Giacobbe perché buono perseguitato dal suo fratello Esaù; e poi Giuseppe perché puro e casto venduto dai suoi fratelli, e dalla moglie di Putifarre fatto gettare dentro una prigione; Mosè perché fedele agli ordini di Dio ed esigente dagli altri la pratica dei medesimi, colpito dalle altrui mormorazioni ed ingiurie; Davide perché fatto secondo il cuor di Dio odiato a morte da Saulle; Elia perché santo profeta del Signore perseguitato dall’empia Gezabele e dallo scellerato Acabbo; Daniele, i tre fanciulli della fornace ardente, Eleazaro e cento e cento altri maltrattati perché osservatori esatti della santa legge di Dio. Né  questa è una dimostrazione, che appartenga unicamente alla storia sacra, della quale ho citato gli esempi, no, essa appartiene anche alla storia profana, imperciocchè la maggior parte delle ingiustizie, delle persecuzioni, delle scelleratezze, di tutti quanti i delitti di cui questa ci parla, sono l’effetto dell’odio dei malvagi contro dei buoni. Né di ciò vi deve esser meraviglia, giacché i buoni sono naturalmente un pugno negli occhi dei tristi. Questi vorrebbero operare il male, senza che alcuno li contrastasse menomamente e rinfacciasse la loro malvagità; ma poiché i buoni, anche senza volerlo direttamente, sono colla loro santa vita un contrasto continuo ed una continua riprensione alla vita malvagia dei tristi, perciò questi inveleniscono contro dei buoni e si fanno a perseguitarli in tutti i modi possibili. Or bene, il nostro caro S. Giuseppe, il quale fu dopo Maria il più gran Santo, l’uomo sommamente buono e giusto, sarà egli andato esente dai cattivi trattamenti dei malvagi? No, pur troppo. Tuttavia, egli sopportò i mali trattamenti con somma umiltà e pazienza, anzi con vera gioia. Nel che è opportunissimo esempio a noi Cristiani Cattolici, che appunto perché Cristiani Cattolici, siamo dal mondo perseguitati. Prendiamo adunque oggi questo esempio per noi tanto necessario. L’argomento è importantissimo; ponetevi perciò grande attenzione.

PRIMA PARTE.

Abbiamo ieri considerato come S. Giuseppe e Maria Santissima per obbedire all’editto del loro imperatore, lasciarono la città di Nazaret ove dimoravano e si recarono a Betlemme, distante circa quattro o cinque giorni di Cammino, Or bene è probabile che vi giungessero nel pomeriggio di quel giorno, che corrispondeva al nostro 24 Dicembre. Senz’altro si recarono tosto dal pubblico ufficiale per dare il proprio nome, né solamente il loro, ma eziandio quello di Gesù, che quanto prima doveva nascere. Così appunto pensano tra gli altri il Venerabile Beda e S. Alfonso Maria dei Liguori. Adempiuta per tal modo la prescrizione della legge, poiché cominciava a farsi notte, pensarono di cercare un luogo per ricoverarsi durante la medesima. Costumavasi in oriente, che presso le porte della città di qualche importanza fosse un fabbricato, più o meno vasto, destinato ad accogliere i forestieri e servir loro di ricovero. Chiamavasi con parola che presso a poco significa pubblico albergo. D’ordinario nulla c’era di più grossolano e povero, che cotesti alberghi od asili notturni. Quasi sempre l’albergo consisteva in un recinto quadrato con portico coperto lunghesso le mura; portico sostenuto da colonne di pietra o di legno, formanti quasi pilastri di arcata. Il suolo poi del portico era elevato alquanto a guisa di terrazza e ai viaggiatori serviva di letto per riposare e di mensa per mangiare. Ciascuno per altro doveva portar seco le stuoie o i tappeti e insieme gli alimenti. Lo spazzo quadrato del mezzo era destinato alle cavalcature, cammelli o giumenti, che fossero. Il certo si è che un luogo siffatto serviva assai più a mortificare le membra, che a dar loro un po’ di riposo. Qui adunque, siccome poveri, si presentarono Giuseppe e Maria a chiedere ospitalità. Ma la moltitudine degli arrivati era già così grande che, come dice il Vangelo, per essi non vi era più posto, non erat eis locus (Luc. II, 7). A Giuseppe dovette cascare il cuore, e ben possiamo immaginarci, che si sarà messo a supplicare: Un angolo, un brevissimo spazio, un posto pur che sia!… non per me, che non me ne importa di serenare la notte all’aperto,ma per questa povera mia sposa, la quale… oh Dio! Ma è inutile; l’albergo riboccava di forestierie gli si chiuse la porta in faccia.Ma qui bisogna considerare attentamente la cosa. Io dico adunque, che si allontanerebbe dal giusto assai chi pensasse che S. Giuseppe nell’esserestato respinto dal pubblico albergo, lo sia stato con cortesia ed umanità. Chi era alla testa del medesimo,per essere un uomo che stava in mezzo alla folla ed era seccato da mille istanze, doveva facilmente irritarsi. E ciò specialmente verso il fine ne della giornata in cui aveva già ricevuto tante noie. Quindi non è difficile il comprendere che cotesto pubblico ufficiale, nel licenziare S. Giuseppe da quel luogo, facesse uso di parole ingiuriose, di improperi e forse anche di imprecazioni, massime nel vedere il contegno così umile, così modesto, così riservato del Santo. Così pure,non è per nulla una supposizione infondata, che coloro i quali essendo già al possesso di un postonell’albergo, assecondando la baldanza, cheda ciò ne proveniva loro, si facessero a deridere e financo ad insultare S. Giuseppe e Maria, che per essere giunti troppo tardi, venivano messi alla porta con tanta mala grazia. Quindi è che non sembra ingannarsi punto la pietà secolare dei fedeli, allorché compatisce alle dolorose umiliazioni che Giuseppe e Maria dovettero soffrire in quella circostanza per i cattivi trattamenti che essi ricevettero: umiliazioni che tornavano loro tanto più gravi ed acerbe, non già per sé medesimi, ma per il Bambino Gesù, che era vicino a nascere, e che avrebbero voluto vedere da tutti sommamente onorato. Pertanto, dopo di essere stati così villanamente trattati alla porta del pubblico albergo, S. Giuseppe, secondo ché comunemente e giustamente si crede, volse in giro i suoi passi a cercare altrove, or in questa or in quell’altra casa un posto, se non per sé,almeno per la sua sposa. Ma anche a tutti questi altri luoghi non ricevette che repulse ed insulti, sicché colla pena più acerba nel cuore, come voi sapete, dovette poi invitare la sua Sposa Maria ad uscire di Betlemme e ricoverarsi con lei in una grotta della campagna.Ora, io mi fermo qui, e domando: Qual è la ragione principale, per cui S. Giuseppe non poté a Betlemme trovare albergo per la sua sposa e per sé? Quale la ragione per cui venne dai Betlemiti Respinto con ingiurie, villanie e mali trattamenti? Quale? Taluni dicono essere stata la povertà. Certamente questa è una forte ragione,giacché anche l’odierna esperienza ci dimostra che mentre si usano tanti riguardi verso le persone riccamente vestite, si trattano poi con alterigia e disdegno le persone vestite poveramente; e che ben aveva ragione l’Apostolo S. Giacomo di alzare la voce contro coloro che fanno questa distinzione di persone. Tuttavia, io penso che, la ragione principale per cui S. Giuseppe venne in tale circostanza fatto segno ai mali trattamenti dei Betlemiti, sia stata propriamente la sua bontà la sua giustizia. E difatti, se anche poveramente vestito, ma pur decentemente, come è da immaginare, egli si fosse presentato a quelle case confare energico, risoluto, autorevole, se egli avesse manifestato la sua discendenza dalla stirpe Di Davide, se più ancora egli avesse manifestato ai Betlemiti il grande mistero, che si nascondeva nel seno purissimo di Maria sua sposa, Par certo che che non solo non sarebbe stato respinto, mai Betlemiti sarebbero andati a gara per dargli ciascuno ospitalità in casa propria. Ma appunto. perché il vedevano presentarsi loro con aria umile, modesta, riservata, direi persino timida, perciò lo respingevano, aggiungendo persoprappiù le villanie e gli insulti. Sicché anche S. Giuseppe, propriamente perché buono e giusto, venne maltrattato dai malvagi. Ma forseché S. Giuseppe si adirò contro di essi? Forse che alle ingiurie rispose con ingiurie? O forse che di ciò mosse lamento contro la divina Provvidenza? Mai no. Il tutto sopportò con umiltà, con pazienza, persino con gioia. Egli pensava che quel Gesù che stava per nascere era stato dai profeti paragonato ad un agnello, che non si lamenta sotto le forbici del pastore che lo tosa, e che però avrebbe patito ogni sorta di scherni, ingiurie e di villanie e finalmente la passione e la morte senza lamentarsi mai, e già proponendosi l’esempio del futuro Redentore si animava con interna allegrezza ad imitarlo, giacché se egli allora penava e grandemente penava, non era per sé, ma unicamente per Gesù e per Maria. Ma quale fu la sorte di Giuseppe in questo avvenimento, tale eziandio fu mai sempre la sorte delle anime buone e giuste. Difatti gli Apostoli, che sono i primi fra i buoni che si presentano alla nostra ammirazione nel nuovo Testamento, furono subito perseguitati appena si misero a professare e predicare pubblicamente la fede e la morale di Gesù Cristo. Dopo gli Apostoli, i Martiri, i quali per la loro virtù nel mantenersi fermi alla fede di Gesù Cristo furono fatti morire con i più squisiti tormenti. Dopo i Martiri i Santi tutti, i quali o in un modo o in un altro furono dagli uomini maltrattati, svillaneggiati, calunniati, messi in catene, mandati in esilio sempre per la principale ragione della loro santità. Ma anche i Santi tutti come S. Giuseppe sopportarono sempre ogni dileggio e persecuzione con umiltà, pazienza e gioia, incominciando dagli Apostoli, dei quali sta scritto che se ne andavano allegri dal cospetto del Concilio, dove erano stati frustati, perché erano stati fatti degni di patire contumelie per il Nome di Gesù Cristo: ibant gaudentes a conspectu concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine Iesu contumeliam pati (Att. V, 41); e venendo su ai Martiri, che in mezzo ai loro tormenti trovavano ancora tanta forza da scherzare coi loro persecutori, come tra gli altri un S. Lorenzo; che diceva al tiranno: Suvvia, voltami dall’altra parte, ché da questa sono già abbastanza arrostito; fino agli ultimi Santi, i quali in mezzo alle persecuzioni hanno sempre lodato e benedetto Iddio, che si degnasse di renderli tanto simili al suo Divin Figliuolo Gesù, e chiamavano in grazia di essere sempre più disprezzati per Lui: Pati et contemni pro te. Or bene, tale eziandio è la sorte che tocca a noi Cristiani Cattolici, massime in questi ultimi tempi, appunto perché ci studiamo d’essere Cristiani Cattolici non solo di nome, ma anche di fatto, non solo in teoria, ma anche in pratica, perché insomma ci studiamo di essere giusti in mezzo ai tanti perversi che abbondano nel mondo. Ed in vero per cominciare dal Papa, e dai Vescovi che per la dignità, cui Iddio li ha sollevati, sono l’uno il duce supremo e gli altri i generali dei Cattolici, chi non sa quante villanie, quante ingiurie, quanti insulti sì lanciano contro di loro, massime allora che essi colla loro autorevole parola, collo zelo di cui sono santamente accesi si adoperano a piene forze per smascherare l’errore, per tenerne lontani gli incauti, per animar tutti all’adempimento dei loro doveri, compreso eziandio quello di cittadino? Oh allora non c’è calunnia, non c’è menzogna, non c’è impostura che contro di loro non si inventi; nei discorsi che si tengono, nei giornali che si stampano, nelle figure che si inventano si fa di tutto per vilipenderli, per accusarli, per condannarli. Questo, si blattera, è un Papa troppo superbo, il quale si ostina a reclamare per sé un regno che non gli compete e pretenderebbe vedere prostrati dinnanzi a sé mogi mogi tutti i sovrani del mondo; quest’altro è un Arcivescovo troppo intrigante e audace, che lascia di curare le anime dei suoi fedeli per intromettersi in affari che non gli spettano e fare il capo partito; quell’altro aspira ad avere nelle sue mani il regime di ogni ordine cittadino e così via via, assai di più di quello che per rispetto a sì grandi personaggi io non dico. – Di poi, dopo il Papa e i Vescovi, ecco i preti, che pei Cattolici sono come i capitani. Essi, voi lo sapete che non invento, sono insultati da per tutto e da tutti, sui giornali, nei romanzi, ai teatri, nelle sale di conversazione, dove loro si carica addosso ogni prepotenza, ogni ambizione, ogni vizio, sulle piazze, per le vie, dove non solo squadriglie di studenti, giovinastri e fanciulli tant’alti, ma eziandio persone che paiono volersi rispettare, li salutano coll’allegra fanfara dei qua qua e li riveriscono col bel titolo di corvaccio. E da ultimo venendo ai laici, che dire degli improperii, che si scaraventano contro di loro massime se sono uomini pubblici e che nei loro pubblici affari fanno coraggiosamente professione di Cattolicismo? Gli uh e gli oh, le maldicenze, le ingiurie, le fischiate sono per loro, massime in certe circostanze speciali, il pane quotidiano. Né ciò è men vero per i Cattolici, sebbene persone private. Che non si dice contro quel giovane, quella fanciulla, quella donna, quell’uomo, perché  frequentano la Chiesa e i Sacramenti, non bestemmiano e non partecipano a cattivi discorsi ed a male azioni? Che son bigotti, baciapile, succhiamoccoli e mille altre cose. Tant’è: anche i Cristiani Cattolici dei nostri giorni, appunto perché come Cristiani Cattolici cercano di evitar il male e fare il bene, sono villanamente insultati, maltrattati, perseguitati. Ma intanto che accade in ciò? Alcuni fra i Cattolici, nel vedersi continuamente fatti bersaglio all’ira dei tristi, si sfiduciano di una battaglia così lunga e finiscono a darla vinta al mondo e passare dalla parte dei malvagi; altri poi, per nulla curando l’insegnamento di Gesù Cristo, col quale ci mostra essere impossibile servire a due padroni, si studiano di regolarsi in modo da parer Cattolici coi Cattolici, liberali coi liberali e persino framassoni coi framassoni. Altri, infine, non entrando neppur essi nelle mire della divina Provvidenza, si lamentano del continuo della medesima e non sanno darsi pace perché non accorra sollecita a far presto trionfare la causa dei Cattolici perseguitati. Or bene, è questa la condotta che si deve tenere? Nossignori. Tale non fu la condotta di San Giuseppe: tale non fu quella di tutti gli altri Santi. Se vogliamo imitare il loro esempio ed imitandolo compiere il dovere, che abbiamo in faccia a Dio, dobbiamo tutti sopportare con umiltà, con pazienza e persino con gioia le persecuzioni dei malvagi. Oh! il disprezzo, l’insulto, la persecuzione è cosa che come a Cristiani non ci deve mancare. Gesù Cristo lo ha detto chiaro agli Apostoli, e nella persona degli Apostoli a tutti: Vos in mundo pressuram habebitis (Giov. XVI, 33): voi nel mondo patirete pressure. Vi malediranno, vi perseguiteranno, vi metteranno le mani addosso, ve ne faranno d’ogni sorta: non est discipulus super magistrum (Matt. X, 24); il discepolo non sarà trattato diversamente dal maestro: e come ora i maligni si scagliano contro di me, così un giorno si scaglieranno contro di voi. Così ha parlato Gesù Cristo, epperò l’Apostolo S. Paolo non è altro che l’eco fedele di Lui, quando dice che tutti quelli che vogliono vivere piamente in Gesù Cristo. soffriranno persecuzioni: Omnes qui pie volunt vivere in Christo Jesu persecutionem patientur. (2 Tim. III, 12). Ma appunto perciò è segno che noi non non siamo del mondo ed apparteniamo a Gesù Cisto. . Si de mundo essetis mundus quod suum esset diligeret. Se voi foste del mondo, vale a dire dei partiti anticattolici, questi vi farebbero mai sempre le loro carezze e vi prodigherebbero i loro favori: ma perché non siete tali, vi abbominano, vi maledicono, vi coprono di disprezzo: Propterea quia non estis de hoc mundo, mundus vos odit (Giov. XV, 19). E ciò non deve essere per tutti un grande eccitamento a soffrire le persecuzioni in pace, con umiltà, ed eziandio con gioia? l’essere. nella stessa mente di Dio separati dai malvagi, dai tristi, dagli ingiusti? e nel tempo stesso assomigliare così da vicino a Gesù Cristo? Coraggio adunque, coraggio! Prendiamo oggi da S. Giuseppe il grande esempio, risolviamo di praticarlo volonterosamente, ed un giorno ne avremo anche noi il premio avuto da S. Giuseppe.

SECONDA PARTE.

Gesù Cristo, che fu in sulla terra il primo disprezzato, è ora in cielo il primo esaltato: propter quod et Deus exaltavit illum et donavit illi nomen quod est super omne nomen. (Filipp. II, 9). Dopo Gesù Maria, e dopo Maria San Giuseppe, e poi tutti gli altri Santi, i quali, credetelo, se in cielo potessero ancora desiderar qualche cosa, desidererebbero certamente di poter venire ancora in terra per patire ed essere disprezzati di più di quel che lo siano stato. Or bene quella è pure la nostra sorte, se soffriremo ora volentieri le ingiurie, i disprezzi, le persecuzioni dei cattivi. Gesù Cristo lo ha detto, ed Egli non falla: Beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam, quoniam ipsorum est regnum cœlorum (Matt. V, 10). Beati quelli che soffriranno persecuzioni per la giustizia, perché di essi è il regno dei Cieli. Ora noi siamo i derisi, i disprezzati, i perseguitati, e i nostri avversari ridono, sghignazzano, trionfano. Ma verrà un giorno nel quale le sorti saranno ben mutate.È questa appunto la verità che il glorioso martire San Valeriano, sposo di Santa Cecilia, faceva così bellamente intendere al prefetto Almacchio, che poi lo condannava a morte:« Nel tempo dell’inverno io ho veduto alcuni uomini traversare la campagna e tutto allegri ed esultanti abbandonarsi ad ogni sorta di piaceri. Nel tempo stesso io scorgeva nei campi molti contadini, intenti gli uni a zappare la terra e a piantar viti, gli altri ad innestare alberi e a recidere col ferro i virgulti, che potessero recar nocumento alle piantagioni; e tutti di buona lena attendere con gran fatica ai lavori d’agricoltura. Gli uomini del piacere, avendo riguardato quei contadini, deridevano le loro fatiche e dicevano: O stolti che siete, lasciate un po’ questi lavori troppo gravosi e venite con noi a stare allegri ed a prender parte ai nostri spassi. Perché  mai compiere sì dure fatiche? Perché logorar la vita in un’occupazione sì triste? E dicendo tali cose davano in iscoppi di risa, battevano le mani e facevano degli insulti. Ma i contadini continuavano pazientemente a lavorare. Intanto passò la stagione delle piogge e del freddo e successero i bei giorni del sereno; e quei campi coltivati con tanti sudori si erano coperti di rigogliosa vegetazione; qua e là vedevansi i rosai vagamente fioriti: dai festoni delle viti pendevano magnifici grappoli, ed i rami degli alberi si curvavano sotto il peso di abbondanti e deliziosi frutti. E i contadini, le cui fatiche erano state schernite, erano in grande allegrezza, mentre gli sciocchi e frivoli abitatori della città, che si erano vantati di maggior saggezza, si trovavano nella più spaventosa penuria, e pentiti, ma troppo tardi, del tempo sprecato negli spassi, si lamentavano e andavano dicendo: Ecco là coloro, che noi insensati chiamavamo stolti; i loro sudori ci sembravano una vergogna; la vita, che essi menavano ci metteva orrore, tanto appariva miserabile agli occhi nostri; tenevamo per vili le loro persone e credevamo disonorarci coll’entrare in loro compagnia. Ma ora il fatto prova, che i saggi erano essi, e gli stolti noi, caduti adesso nella miseria e nella infelicità, disgraziati che siamo. Oh se avessimo faticato anche noi! Se anche noi avessimo fatto come quei contadini! Ma noi li abbiamo beffati in mezzo alle nostre passate delizie, ed ora eccoli essi circondati di fiori e coronati di gloria ». Così il martire S. Valeriano bellamente espose l’esito dell’apparente mistero d’ingiustizia che vi ha ora nel trionfo dei malvagi e nelle persecuzioni e sofferenze dei buoni. E tale appunto sarà il grido che metteranno fuori i tristi dalla loro bocca spumante di rabbia nel giorno dell’estremo giudizio: Nos insensati, vitam illorum æstimabamus insaniam et finem illorum sine honore: ecce quomodo computati sunt inter filios Dei et inter Sanctos sors illorum est (Sap. V, 4). E mentre noi, se avremo patito volentieri le persecuzioni e le maledizioni del mondo, ci sentiremo a benedire da Dio e ad invitare da Lui al possesso del regno dei cieli: Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi (Matt. XXV, 34): i malvagi si sentiranno invece da Dio medesimo a maledire per sempre: Discedite a me, maledicti, in ignem æternum. (Ibid.41). In quel giorno adunque in cui noi siamo insultati e perseguitati per la nostra fede, a somiglianza di S. Giuseppe rallegriamoci, pensando che in paradiso ci sta preparata una gran  mercede per i nostri patimenti: Gaudete et exultate in illa die, quoniam merces vestra copiosa est in cœlis (Matt. V, 12).

IL CREDO

Offertorium


Orémus
Ps LXXXVIII: 25.


Véritas mea et misericórdia mea cum ipso: et in nómine meo exaltábitur cornu ejus.

[La mia fedeltà e la mia misericordia sono con lui: e nel mio nome sarà esaltata la sua potenza].

Secreta

Débitum tibi, Dómine, nostræ réddimus servitútis, supplíciter exorántes: ut, suffrágiis beáti Joseph, Sponsi Genetrícis Fílii tui Jesu Christi, Dómini nostri, in nobis tua múnera tueáris, ob cujus venerándam festivitátem laudis tibi hóstias immolámus.

[Ti rendiamo, o Signore, il doveroso omaggio della nostra sudditanza, prengandoTi supplichevolmente, di custodire in noi i tuoi doni per intercessione del beato Giuseppe, Sposo della Madre del Figlio Tuo Gesù Cristo, nostro Signore, nella cui veneranda solennità Ti presentiamo appunto queste ostie di lode.]

Præfatio  de S. Joseph

… Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beáti Joseph débitis magnificáre præcóniis, benedícere et prædicáre. Qui et vir justus, a te Deíparæ Vírgini Sponsus est datus: et fidélis servus ac prudens, super Famíliam tuam est constitútus: ut Unigénitum tuum, Sancti Spíritus obumbratióne concéptum, paterna vice custodíret, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Coeli coelorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno: noi ti glorifichiamo, ti benediciamo e solennemente ti lodiamo di S. Giuseppe. Egli, uomo giusto, da te fu prescelto come Sposo della Vergine Madre di Dio, e servo saggio e fedele fu posto a capo della tua famiglia, per custodire, come padre, il tuo unico Figlio, concepito per opera dello Spirito Santo, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt 1: 20.


Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est. [Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo].

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, quǽsumus, miséricors Deus: et, intercedénte pro nobis beáto Joseph Confessóre, tua circa nos propitiátus dona custódi.
[Assistici, Te ne preghiamo, O Dio misericordioso: e, intercedendo per noi il beato Giuseppe Confessore, propizio custodisci in noi i tuoi doni].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 2

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (2)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935 Nihil obstat quominus imprimetur. – Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 – F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO II

Della prima conformità che dobbiamo avere con Gesù Cristo

Dobbiamo avere conformità e somiglianza con Gesù Cristo, — somiglianza interiore eoi suoi misteri esterni. — Vari Santi furono destinati ad esprimerli anche esternamente. — Lo spirito dei misteri di Gesù Cristo ci viene dato nel Battesimo. — Il Cristiano deve soprattutto imitare la vita di Gesù risorto, col distacco da ogni cosa creata, con la vita nascosta in Dio.

Tutti abbiamo l’obbligo di essere conformi a Gesù Cristo: S. Paolo ce lo insegna chiaramente, dicendo che Dio, ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo (Rom. VIII, 28). – Orbene, questa conformità consiste nella somiglianza. Dobbiamo rassomigliare a Gesù Cristo, dapprima nei suoi misteri esterni, che furono come sacramenti e segni esterni dei misteri interiori che Egli veniva ad operare nelle anime. Dimodoché come Nostro Signore è stato crocifisso esternamente, dobbiamo pure essere crocifissi interiormente. Come Egli è morto esternamente, dobbiamo morire interiormente. Come venne sepolto esternamente. Dobbiamo esserlo interiormente. Una tal vita interiore che viene espressa dai misteri esterni, tutti la dobbiamo possedere; anche le grazie che ci furono acquistate per questi misteri, tutte le dobbiamo avere, poiché Gesù Cristo tutto ha meritato per tutti. Perciò S. Paolo, parlando a tutti i Cristiani diceva: « Voi siete morti » (Mortui estis. Colos. III 3.). Per altro, Dio ha particolarmente destinate certe anime per esprimere in sé medesime, anche esternamente, questi santi misteri. Così ha fatto in parecchi santi religiosi da Lui mandati sulla terra onde rinnovare la vita di Gesù Cristo; essi furono riempiti dello spirito di Gesù Cristo; e della grazia dei suoi misteri. con tale abbondanza da esprimere anche esternamente il suo stato esterno medesimo. Tale fu S. Francesco, il quale ricevette un’effusione dello spirito di Nostro Signore Gesù Cristo crocifisso, così piena che si rifletteva persino su la carne di Lui; e quel santo patriarca con le piaghe del suo corpo esprimeva all’esterno il mistero del crocifisso. – Egli ha pure lasciato il compito di continuare questa espressione del crocifisso ai suoi figli, i quali esercitano sulla loro carne una continua mortificazione. Tale fu S. Benedetto, che esprimeva la sepoltura di Gesù Cristo col tenersi nascosto in una caverna e lasciare i suoi figli come nelle tombe. Tali furono ancora nella santa Chiesa altri Santi che portarono altri esempi esterni dei misteri; lasciando così grande esempio della loro divozione con l’esprimere sensibilmente i misteri agli occhi dei Cristiani, insegnano a tutti che hanno sempre l’obbligo di possedere le grazie e lo spirito dei misteri, benché non tutti siano obbligati ad averne la conformità esterna.

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Lo spirito dei santi misteri ci viene dato nel Battesimo e opera in noi grazie e sentimenti che hanno relazione e conformità con i sentimenti di Gesù Cristo. Il nostro compito deve essere quello di lasciare che questo spirito, in virtù delle grazie e dei suoi lumi, operi in noi e negli altri in conformità con quei santi misteri. Abbiamo in noi, per esempio, lo spirito di Gesù Cristo crocifisso; esso dà lume e grazie per crocifiggere noi stessi interiormente, per mortificarci nelle occasioni in cui la nostra carne domanda i propri piaceri e le proprie soddisfazioni; in tal modo ci renderemo interiormente conformi a Gesù Cristo crocifisso. – Così pure quel medesimo spirito ci dà grazia per renderci partecipi di Gesù Cristo risorto e a Lui somiglianti, con una vita interiore nascosta in Dio, a somiglianza della sua vita esterna dopo la risurrezione. Nostro Signore risorto, in primo luogo, era esternamente separato dal consorzio degli uomini; ritirato nel Padre suo, in Lui pregava e viveva, senza esporsi agli sguardi degli uomini, senza conversare con essi: parimenti, bisogna che l’anima nostra sia interiormente ritirata dalle relazioni e dalle conversazioni con le creature; bisogna che essa sia distaccata da ogni vano godimento delle cose della terra, non se ne preoccupi nel suo cuore, non abbia più per esse né  pensiero né affezione; separandosene così in ispirito e tutta occupata in Dio, essa abbandonerà le affezioni con le quali si effondeva nel mondo e nelle creature visibili, incomincerà ad unirsi a Dio, per vivere con Lui nella solitudine del ritiro interiore, e con questo mezzo si renderà partecipe dello stato medesimo della risurrezione. In secondo luogo, Nostro Signore, per la sua santa risurrezione era nascosto in Dio, dimodoché la sua vita, la vita della sua carne, la sua vita umana e di infermità. era tutta assorta in Dio; Egli era consumato in Dio, come la legna nel fuoco, quindi nulla più appariva in Lui fuorché Dio, in cui Egli era immerso, seppellito ed interiormente inabissato. – Orbene, una tal vita di risurrezione, una tal vita di Dio in Dio, è appunto la vita nascosta che si addice ai Cristianì. A questa vita tutti devono partecipare ed aspirare, per causa dell’unione intima che fin da questa vita devono avere con Dio, il quale, come un fuoco divoratore ed una fornace ardentissima, investe l’anima, assorbe, l’inabissa. e così la nasconde in sé medesimo. È questa la partecipazione al mistero della risurrezione; è questa la vita di risurrezione che il Battesimo dà a tutti i Cristiani secondo la parola di S. Paolo: « Come Cristo è risorto da morte per la vita del Padre, così noi viamo una vita nuova ». (Rom. VI, 4). – Gesù Cristo risuscitando passava nella vita di Dio, dimodoché non viveva più della vita della carne; l’anima di Lui non animava più il corpo nel modo spregevole di prima, ossia per servire alle necessità e all’uso della vita terrestre; ma quell’anima era tutta inabissata, perduta ed assorta in Dio; tutto quanto vi era nella sua carne di terrestre e di vile, tutto era interamente consumato dalla gloria. In tal modo, la vita cristiana importa interiormente un passaggio di tutta l’anima nostra in Dio, dimodoché essa non pensi più che ad amarlo, a vederlo, a ricordarsi di Lui e servirlo con tutte le sue forze, non usando più della propria vita e non esercitando la propria attività se non per Dio e per servirlo. – Così, l’anima, in questo stato di vita risorta, di vita divina, non si sente più attaccata alla carne per servirla e seguirne le inclinazioni ed i movimenti; ma sospira talmente verso Dio che non vi è più in essa nessuna parte che ami la propria carne. L’anima allora è meno che mai occupata nel dare la vita al corpo, e questo rimane mezzo morto e senza vigore, perché l’anima è trasformata in Dio e non vive più che in Dio. Essa riceve in cambio le qualità di Dio e dell’essere divino. Ora Dio è ben più adatto a consumarci ed animarci, perché è tutto fuoco in se medesimo; Egli è l’Essere per il quale tutte le cose sono fatte e che non è fatto per nessuna: ne consegue che l’anima, in tale stato, è ben più dedicata a Lui che non al corpo, e così essa si perde in Lui più che non sia capace di attirare Dio nel corpo onde animarlo e dargli la sua forma. L’anima essendo dunque in Dio, essendo come perduta in Dio, inabissata nell’amore e unita a Lui, diventa partecipe della vita di Dio medesimo, e così risorge in ispirito. Essa partecipa interiormente alla risurrezione del Figlio di Dio. il quale dopo la risurrezione era esternamente nascosto in Dio, in virtù di quella vita divina che lo assorbiva e ne consumava tutto l’essere inferiore insieme con la primitiva vita della carne. È questa la prima conformità cui ci chiama lo spirito di Gesù Cristo, quando ci dice di seguirlo per essere simili a Lui. (Et sequatur me. Matth. XVI, 241).

CAPITOLO III.

Della seconda conformità che dobbiamo avere con Gesù Cristo

Conformità e somiglianza coi sentimenti intimi di Gesù Cristo nei suoi misteri esterni, — essenza della vita cristiana. — Lo spirito di Gesù Cristo diffuso nei fedeli ne forma un medesimo corpo. — Gesù Cristo vuole continuare nei Cristiani la sua santità intima. — Ciò si compie gradatamente. Prima la morte, poi la gloria. Spirito di Dio e Spirito di Gesù Cristo. — Bisogna partecipare allo stato di morte di Gesù, per aver parte al suo stato di gloria.

La seconda conformità con Gesù Cristo è quella che debbiamo avere coi suoi sentimenti interiori nei suoi misteri, dimodoché le anime nostre nei loro sentimenti e nelle loro disposizioni interiori, si rendano conformi non solamente all’esterno dei misteri come abbiamo visto, ma ancora alle disposizioni e ai sentimenti interiori che Gesù aveva in quei medesimi misteri. La vita cristiana consiste propriamente in questo, che il Cristiano, per l’operazione dello, spirito, viva interiormente nella maniera in cui viveva Gesù Cristo. Senza di questo non v’è quell’unità né quella perfetta conformità cui tuttavia ci chiama Nostro Signore il quale vuole che viviamo con Lui, per l’azione dello Spirito, di una vita così veramente unita a Lui come il Padre e il Figliuolo vivono fra di loro; ora il Padre e il Figlio non hanno che una vita, un sentimento, un desiderio, un amore, una luce, perché sono un solo e medesimo Dio vivente in due persone.

***

A questo fine, lo spirito di Dio è diffuso nei Cristiani come nelle membra di un medesimo corpo, per animarli ad una medesima vita e compiere in essi le medesime operazioni che esercitava in Gesù Cristo, dilatando così e diffondendo nelle anime dei fedeli le intenzioni, le disposizioni, gli affetti, i pensieri e desiderii di Gesù Cristo. – Una goccia d’olio su di una pezzuola Bianca, prima non occupa che un piccolo cantuccio della stoffa. ma in poco tempo si dilata. si estende e la invade tutta: così lo spirito di Dio che viveva nel cuore di Gesù Cristo, a misura che i fedeli sono a Lui uniti, si dilata in tutti e li rende tutti partecipi dei medesimi gusti come dei medesimi sensi, infine degli stessi sentimenti. In tutti v’è il medesimo spirito che in tutti opera gli stessi effetti, dimodoché essendo così riformati, sino al fondo dell’anima. e trasformati in Gesù Cristo, non differiscono più tra loro per i sentimenti particolari della carne e dell’amor proprio che ordinariamente regnano in modo diverso negli individui, secondo la varietà dei loro temperamenti e dei loro capricci: ma sono tutti, invece, una sola cosa nell’intimità di un medesimo spirito che regna in essi e penetra i loro cuori. Non sono più divisi, come dice san Paolo, né dalla diversità di religione, né dalla distinzione dei climi o dalle nazionalità, né per l’opposizione dei temperamenti e dei costumi barbari, né per la differenza delle condizioni o la diversità dei sessi, perché sono tutti una medesima eosa in Gesù Cristo (Colos., III, 11; Galat., III, 28).

* * *

Gesù Cristo li riempie non solamente delle disposizioni generali del suo Cuore, ossia dei suoi sentimenti di orrore al peccato, di annientamento di sé medesimo, di adorazione profonda e di rispetto verso il Padre, di amore perfetto verso il prossimo: ma ancora delle disposizioni particolari che Egli aveva in ciascuno dei suoi misteri. Perché, siccome tutte queste disposizioni sante dell’anima di Gesù Cristo erano oggetto di compiacenza e di gioia per il Padre, ne consegue che lo Spirito Santo, il quale non cerca dappertutto che questa compiacenza del Padre, si compiace di diffondersi così in operazioni sante nell’anima disposta a ricevere la sua azione. – Tali sono le operazioni che quel divino Spirito compie, per la gloria di Dio, particolarmente nelle anime tranquille e vuote di ogni cosa, che gliene porgono l’agio: ed è ciò che Egli desidera soprattutto di operare in quelle che sono elette per rappresentare Gesù Cristo su la terra e continuare la vita di Lui nelle sue qualità di Capo e Pastore degli uomini, la vita di Lui quale sostituto per supplire agli uomini. È questa, infatti, la vita del Sacerdote, il quale tiene il posto di Gesù Cristo per supplire alla religione di tutti gli uomini, ed essere così il Religioso ossia l’incaricato universale della Chiesa, onde pregare, lodare, amare in nome di tutti, adempiere i doveri di tutti e ripararne le omissioni.

* * *

Ecco il disegno del Figlio di Dio nella sua venuta su la terra; continuare e perpetuare nei Cristiani la santità dei suoi misteri esterni e interiori, e stabilire nelle anime fedeli quelle due conformità; in ciò consiste la perfetta somiglianza dei membri col loro Capo. La via che Dio tiene per compiere un’opera così sublime è in rapporto con la sua condotta nell’ordine della natura. Nell’ordine naturale nulla si compie d’un colpo, ma ogni cosa va crescendo a poco a poco ed acquista insensibilmente la perfezione cui la santa Provvidenza di Dio la vuole elevare. Così, l’uomo prima di essere uomo perfetto, deve passare per la fanciullezza; gli alberi prima dei frutti, devono portare gemme, foglie e fiori. Parimenti, nella vita spirituale: prima di arrivare alla perfezione bisogna incominciare, poi progredire. Perché come la sublimità dello stato cristiano consiste nella partecipazione e nella comunione santa dello stato di Gesù Cristo Nostro Signore risorto, salito al Cielo e consumato in Dio suo Padre; così, prima di poter giungere a quella sublimità, bisogna passare per il primo stato di Gesù Cristo, quelle, cioè, della mortificazione, della sofferenza e della croce, dell’umiliazione e della morte ad ogni cosa. I Cristiani sono chiamati a riprodurre e rappresentare nella loro vita Gesù Cristo medesimo; per adempiere una tal vocazione, essi devono nella propria vita esprimere tutti gli stati santissimi di Lui, nel medesimo ordine in cui questi stati si sono trovati in Lui. Perciò, siccome Gesù Cristo, il nostro sacro esemplare, dapprima soffrì ogni possibile ignominia, i flagelli ed il patibolo, e prima di risuscitare onde entrare nella sua gloria, morì e fu seppellito: « Cristo ha dovuto patire e così entrare nella sua gloria» (Luc. XIV, 26); così è necessario che prima di partecipare alla gloria della grandezza di Lui, il Cristiano provi in sè stesso, come Lui, tutti quegli stati di umiliazione. – La vita cristiana ha due lati: la morte e la vita. La prima serve di fondamento alla seconda; questo è ripetutamente affermato negli scritti di S. Paolo e in modo articolare nel sesto Capitolo dell’Epistola ai Romani: « Non sapete che essendo stati battezzati in Gesù Cristo, noi siamo stati battezzati nella sua morte? Perché siamo stati sepolti con Lui nella morte col Battesimo; affinché con Gesù risorto noi pure camminiamo in una vita nuova ». E soggiunge: « Consideratevi come morti al peccato e viventi a Dio in Gesù Cristo ». In molti altri chi S. Paolo esprime ripetutamente ancora questo contrasto dei due elementi dello stato del cristiano; ma sempre, come abbiamo detto, la morte deve precedere la vita. E questa morte non altro che la rovina completa di noi stessi e di tutto in noi stessi, affinché essendo distrutto quanto vi è in noi di contrario Dio il suo divino Spirito possa stabilirsi in noi nella purezza e nella santità delle sue vie. Per la morte adunque bisogna entrare nella vita cristiana. Ma è necessario sapere in qual modo avviene questa morte, e in qual modo lo Spirito Santo la opera in noi. Bisogna perciò notare la differenza che passa tra lo Spirito di Dio e lo Spirito di Gesù Cristo: benché infatti sia un solo Spirito, tuttavia a motivo della diversità delle operazioni che produce, talvolta prende il nome di Spirito di Dio, e talora quello di Spirito di Gesù Cristo. Quando lo Spirito Santo, operando in noi, c’infonde virtù di forza, di vigore, di potenza, e ci rende partecipi delle perfezioni e degli attributi di Dio, che non includono abbassamento, allora si chiama Spirito di Dio, perché Dio in quanto tale non ha in sé che grandezza e maestà: quando invece quel medesimo Spirito opera in noi le virtù di Gesù Cristo, ossia le virtù cristiane che portano con sé abbassamento e umiliazione, quali sono l’amore della croce, dell’umiltà, della povertà, del disprezzo, allora si chiama Spirito di Gesù Cristo. Abbiamo accennato a questa differenza, perché si possano intendere tali modi di parlare. Orbene lo Spirito di Gesù Cristo è quello che ci fa morire al peccato. Per questa parola peccato, intendo tutta la vita della carne che S. Paolo ordinariamente chiama peccato. Lo Spirito di Gesù Cristo opera in noi questa morte col formare nel fondo dell’anima nostra le virtù di Gesù Cristo, ossia quelle che Egli ha operate in Gesù Cristo considerato nel suo primo stato. nel suo stato di abbassamento e di umiliazione. –  Così, con quelle virtù sante lo Spirito Gesù Cristo crocifigge la nostra carne fa morire a sé medesima: poiché se qualcuno pretende d’innalzare l’edificio spirituale sopra altro fondamento, vive certamente nell’illusione e nell’inganno, sarà un edificio che non avrà mai nessuna solidità. sarà sempre instabile e cadrà al primo urtarsi contro il vento delle tentazioni e delle contraddizioni. La santa mortificazione che deriva unicamente dalla pratica solida delle virtù è la pietra stabile sopra la quale bisogna edificare sempre, e senza la quale non v’è sicurezza. –  Vediamo dunque di fare ogni sforzo per uniformarci al primo stato di Gesù Cristo, affinché possiamo essere degni di aver parte al secondo, conformarci cioè al suo stato di morte per aver poi parte alla sua gloria. A questo fine tratteremo di alcune virtù cristiane che sono le più necessarie onde stabilirci in questo stato di morte.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 3

LA VITA INTERIORE (10)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (10)

Sac. Dott. GIOVANNI NATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione. – Riveduta.

LUCI DI STELLE

L’AZIONE CATTOLICA (1)

(Da: La parola del Papa su l’Azione Cattolica – III ediz. Milano – G. F. di A. C., 1937).

Con riverenza, con rispetto, con umile devozione, con affettuosa riconoscenza, riteniamo dover giustamente riferire, in questo capitolo, solo la parola del Santo Padre Pio XI, il Papa dell’Azione Cattolica.

LA NATURA. – APOSTOLATO MOLTEPLICE SUSCITATO DAI PONTEFICI.

..«Il sempre più diffuso ed operoso spirito di apostolato che con la preghiera, con la parola, con la buona stampa, con l’esempio di tutta la vita, con tutte le industrie della carità, cerca con ogni via di condurre anime al Cuore Divino e di ridare al Cuore stesso il trono e lo scettro nella famiglia e nella società; la santa battaglia, su tanti fronti ingaggiata, per rivendicare alla famiglia ed alla Chiesa i diritti, che da natura e da Dio loro competono nell’insegnamento e nella scuola, intendiamo dire quel complesso di organizzazione, di istituti, di opere che vengono sotto la denominazione di Azione Cattolica dai Nostri prossimi Antecessori con tante cure e così provvidamente suscitata, con tanti e così luminosi documenti nutrita, diretta e disciplinata, secondo il rapido svolgersi e succedersi delle diverse situazioni sociali, allo scopo di preparare sempre più perfetti Cristiani, e, con ciò, sempre più perfetti cittadini, e di formare coscienze così squisitamente cristiane, da sapere, in ogni momento, in ogni situazione della vita, privata o pubblica, trovare, od almeno bene intendere ed applicare, la soluzione cristiana dei molteplici problemi che nell’una o nell’altra condizione di vita si presentano (Dalla prima Enciclica del S. Padre Pio XI, Ubi Arcano, del 23 dicembre 1922).

LA DEFINIZIONE. – LA VERA DEFINIZIONE.

La vera Azione Cattolica, quale Noi la vogliamo e quale l’abbiamo definita a più riprese è la partecipazione dei laici cattolici all’apostolato gerarchico per la difesa dei principi religiosi e morali, per lo sviluppo di una sana e benefica azione sociale sotto la guida della Gerarchia ecclesiastica, al di fuori e al di sopra dei partiti politici, nell’intento di restaurare la vita cattolica nella famiglia e nella società (Dalla lettera del S. Padre del 30 luglio 1928 alla Presidente gen. dell’Un. Int. delle Leghe Femm. Cattoliche.).

NON SENZA DIVINA ISPIRAZIONE. È un’alta e sublime missione quella di cooperare alla Azione Cattolica, poiché deve sempre ricordarsi che il Santo Padre, pensatamente, deliberatamente — anzi può dirsi non senza divina ispirazione — nella Sua prima Enciclica, definì l’Azione Cattolica La partecipazione del laicato cattolico all’apostolato vero e proprio della Chiesa, e l’ha chiamata a cooperare all’apostolato dei veri e propri apostoli, dei sacerdoti, dei Vescovi. Questa è tutta la sostanza grande e divina dell’ Azione Cattolica, punto da cui tutto deriva: cura delle anime proprie e altrui, apostolato, propagazione del bene in tutte le direzioni e misure possibili. Questa la sostanza e la veneranda bellezza storica dell’Azione Cattolica (Dal discorso del S. Padre del 19 marzo 1927 alle lavoratrici della G. F. di A. C. Italiana.).

FONDAMENTI DOGMATICI – DERIVA DAL BATTESIMO E DALLA CRESIMA.

Sarà utile far bene comprendere — poiché molti fedeli ancora l’ignorano — che l’apostolato è uno dei doveri inerenti alla vita cristiana; mentre l’Azione Cattolica è, tra le varie forme di apostolato, tutte benemerite della Chiesa, quella che più si confà ai nuovi bisogni dell’età presente, tuttora sotto le conseguenze deleterie di una lunga e vasta opera laicizzatrice. E realmente, se ben si considera, sono gli stessi Sacramenti del Battesimo e della Cresima che impongono, tra le altre obbligazioni, anche questa dell’apostolato, cioè dell’aiuto spirituale al prossimo nostro. Per la Cresima, infatti, si diviene soldati di Cristo. Or chi non vede che il soldato deve faticare e combattere non tanto per sé quanto per gli altri? Ma anche il Battesimo — sebbene in modo meno evidente ad occhio profano — impone il dovere dell’apostolato; poiché per esso noi diveniamo membri della Chiesa, ossia del Corpo mistico di Cristo; e tra i membri di questo corpo — come di qualsiasi organismo — ci deve essere solidarietà di interessi e comunicazione reciproca di vita: Multi unum corpus sumus in Christo, singuli autem alter alterius membra (Rom., XII, 5). Un membro deve, dunque, giovare all’altro; nessuno può rimanereinattivo, ma ciascuno, mentre riceve,deve anche dare.Ora, siccome ogni Cristiano riceve la vitasoprannaturale, che circola nelle vene delCorpo mistico di Cristo — quella vita abbondanteche Cristo medesimo disse diesser venuto a portare in terra: veni ut vitam habeant, et abundantium habeant (Io., X, 10) — così egli la deve trasfondere inaltri che non la possiedono, o troppo scarsamentee solo in apparenza (Dalla lettera del S. Padre del 10 novembre 1933 al Cardinale di Lisbona.).

ORIGINI. – ORIGINI NEL VANGELO.

La Chiesa ha sempre amato, apprezzato, voluto l’aiuto dell’Azione. Cattolica. Questa può sembrare ad alcuni una novità: appartiene invece alla più veneranda antichità. La azione cattolica è proprio una di quelle antichità che ci portano ai tempi degli Apostoli e di Nostro Signore. Perché anche Egli si valeva dell’aiuto e del contributo di buone pie donne che lo seguivano: e si legge attraverso le righe del Vangelo che esse provvedevano ai bisogni del Collegio apostolico. È Gesù che chiama in aiuto della sua predicazione e della predicazione degli apostoli l’Azione Cattolica (Dal discorso del S. Padre del 5 marzo 1933 alla G. F. di A. C. di Roma.).

L’APOSTOLATO. – DILATARE IL REGNO DI CRISTO.

L’azione della Chiesa e la cooperazione dell’Azione Cattolica non si limitano soltanto a portare un minimo necessario di elementi religiosi che impediscano la paganizzazione della società nelle sue diverse congiunture: l’azione dell’apostolato, 1’Apostolato Gerarchico e la cooperazione dell’Azione Cattolica mirano all’intero programma del cuore di Dio, alla fondazione, alla dilatazione e stabilizzazione del Regno di Cristo nelle anime, nelle famiglie, nella società, in tutte le sue possibili espansioni, in tutte le sue estrinsecazioni, in tutte le profondità raggiungibili da attività umane, aiutate dalla grazia di Dio. È chiaro e genuino che da questa posizione dell’Azione Cattolica, nelle linee supreme di questo quadro, scaturiscano i vincoli che essa ha con la Gerarchia Apostolica e i doveri che ha verso se stessa: doveri di preparazione, di formazione, di attività benefica. Ed essa, nei termini del suo mandato, ha un campo che non ha limiti, sebbene in quel campo abbia sempre un modo proprio di esplicarsi, dove la sua azione santificatrice è altrettanto necessaria e legittima che insurrogabile (Dal discorso del S. Padre del 19 aprile 1931 alle Associazioni Cattoliche di Roma.).

IL DOVERE. – DEV’ESSERE PROMOSSA DA TUTTI I CATTOLICI.

E tale azione deve essere promossa da tutti i Cattolici di una stessa Nazione, per il bene

comune e per il progresso della Patria, senza però entrare negli angusti limiti di un partito, immischiandosi alla politica (Dalla lettera del S. Padre del 4 giugno 1928 all’Episcopato lituano). Ad essa sono chiamati tutti i fedeli, a qualsiasi età o classe sociale appartengano, poiché tutti possono lavorare nella mistica vigna del Signore; perciò, essa deve raccogliere nelle sue file e vantaggiosamente organizzare la gioventù e gli adulti d’ambo i sessi e svolgere programmi anche specializzati nei diversi reparti sociali di operai, di studenti, di laureati, di professionisti e di insegnanti (Dalla lettera del S. Padre del 14 febbraio 1934 all’Episcopato della Colombia.).

LA NECESSITÀ. – NECESSITÀ, LEGITTIMITÀ, INSURROGABILITÀ.

La Chiesa ha sempre detto — e con le parole e coi fatti — che l’Azione Cattolica appartiene alla vita soprannaturale, in collaborazione e quindi in dipendenza lella Gerarchia, alla vita soprannaturale, prima in opera di sempre più perfetta formazione individuale, e poi in opera di sempre più efficace ed ampio apostolato. Questo la Chiesa ha detto e praticato già dai primi giorni del Cristianesimo, anzi di Gesù Cristo stesso: questo ha sempre praticato in venti secoli di vita, variandone le forme secondo le esigenze e le possibilità dei diversi tempi e dei diversi luoghi; questo abbiamo detto e praticato Noi stessi fino dall’inizio del nostro Pontificato e fino a ieri, sempre insegnando ed inculcando la necessità, la legittimità, l’insurrogabilità della Azione Cattolica, mentre partecipa della necessità legittimità e insurrogabilità della Chiesa e della sua Gerarchia per la formazione e la espansione della vita soprannaturale (Dalla lettera del S. Padre del 26 aprile 1931 al Card. Schuster, Arciv. di Milano.).

LE CARATTERISTICHE. – LA FORMAZIONE: DAL CATECHISMO ALLA VITA INTERIORE…

Bisogna intendere bene questa Azione Cattolica. Essa mira innanzi tutto alla formazione dell’individuo. Si tratta prima di formare dei buoni Cristiani, illuminati, che conoscano bene il loro catechismo. Ecco l’essenziale! Fatto questo però, non bisogna rimanere lì. Quando noi prepariamo un Missionario, noi pensiamo principalmente alla sua formazione interiore. Ma se il Missionario tenesse per sé questa vita interiore, il mondo non si convertirebbe. Bisogna che egli predichi, che compia delle opere, che agisca esteriormente. Così deve essere dell’Azione Cattolica. Sua prima cura deve essere quella di formare dei veri Cristiani. Ma il cristiano, una volta formato, deve spandere al di fuori la vitalità che egli ha ricevuto. Deve portare ovunque questo tesoro del Cristianesimo e valorizzarlo in tutti i campi, nella famiglia e nella vita pubblica, senza escludere la politica. Perché quello che noi vogliamo è che Cristo regni in terra come in Cielo e che la sua regalità sul mondo ridiventi effettiva (Dall’udienza del S. Padre il 23 agosto 1924 al Can. Brohée, Assistente gen. della Giov. Catt. Belga).

Noi possiamo considerare la Chiesa in due modi: come società visibile, gerarchica, fondata da Cristo per continuare quaggiù la sua missione santificatrice; essa ci apparisce così come un organismo vivente. Per avere un’idea completa della Chiesa, dobbiamo riguardarla come la società santa ed invisibile delle anime, che partecipano, per mezzo della grazia, alla filiazione divina di Cristo e formano il regno che si è acquistato per mezzo del suo sangue. S. Paolo chiama ciò il Corpo di Cristo, non certo il corpo fisico, ma il suo Corpo mistico.

C. MARMION.

LA VITA INTERIORE (11)

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 1

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (1)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

INTRODUZIONE

Questo libro del servo di Dio Giovanni Olier non è che la spiegazione ossia l’applicazione alle virtù cristiane in particolare della sublime dottrina di san Paolo su la vita di Gesù Cristo in noi. – Ricordiamo le parole dell’Apostolo: Cristo è ogni cosa in tutti (Col. IV, 11)… Un solo Signore, Gesù Cristo, per cui tutte le cose, e noi per mezzo di Lui (I Cor.  . 6)… Coloro che Dio ha prescelti, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Padre suo (Rom. VIII, 29). Che se uno non ha lo spirito di Gesù Cristo, questo non è di Lui (Rom. VIII, 9)… Figliolini miei, che porto nel mio seno sino a tanto che sia formato in ‘voi Cristo (Gal. IV, 19 )… Vivo non già io, ma è Cristo che vive in me (Gal. II, 26)… Il mio vivere è (Cristo Mihi vivere Christus est – Fil. I, 21). Questa dottrina di san Paolo è la conseguenza e la spiegazione di quella parola dell’Eterno Padre nella Trasfigurazione di Gesù Cristo: Ecco il mio Figlio prediletto nel quale ho posto le mie compiacenze, ascoltatelo (Ipsum audite Luc. IX, 35). – Il Verbo incarnato è il centro di tutto, il centro quindi di tutta la religione e di ogni virtù. L’essenza della vita cristiana è la conformità con Gesù Cristo; nulla può piacere al Padre, se non Gesù Cristo; la nostra vita non può essergli gradita se non in quanto riproduce quella di Gesù Cristo. Gesù Cristo, quindi, è il grande ed unico modello che dobbiamo imitare; ma è pure il principio della nostra vita spirituale. La vita cristiana è la continuazione, ossia l’effluvio in noi della vita di Gesù; è Gesù che vive in noi e con la sua azione ci comunica la sua virtù, Gesù continuato in noi. – Cosi, ci dice G. Olier, la religione è Gesù che in noi continua a rendere al Padre la dovuta adorazione; l’umiltà è Gesù che in noi sazia la sua sete di umiliazioni; Gesù è il «Penitente pubblico e universale» che continua a far penitenza nella Chiesa; la pazienza è Gesù che ancora soffre nelle membra del suo corpo mistico per adempiere, secondo la parola di S. Paolo, ciò che manca al compimento della sua passione. – Fedele allo spirito del Card. de Bérulle, suo grande maestro, Giov. Olier ci conduce sin nella profondità della SS. Trinità, a cercare il modello della nostra vita; così, dobbiamo praticare la mortificazione per imitare la santità di Dio; la castità è partecipazione della natura di Dio; la carità verso il prossimo trova il suo tipo nella vita intima delle divine Persone. Per altro, questa via ci venne segnata dal divino Maestro, quando ci diceva che dobbiamo essere perfetti come il nostro Padre de’ cieli (Matt. V, 48), e che dobbiamo amare il nostro prossimo come Egli medesimo è amato dal Padre e ama noi.

Giov. Olier în poche linee sovente esprime concetti di grande sostanza; questo libro perciò va letto e meditato con serietà. Il celebre sulpiziano Emery lo portava sempre con sé e ne faceva assidua lettura; il compianto Tanquerey nel suo Manuale di teologia ascetica, quando tratta delle virtù cristiane, lo cita ad ogni passo. – Il servo di Dio scrisse quest’opera, insieme con parecchie altre, durante l’ultima sua malattia, dietro insistenti preghiere di molte persone; anche nella sua infermità, non trascurava di lavorare in tal modo al bene, delle anime. – La prima edizione dell’Introduzione alla vita e alle virtù cristiane, tale era il titolo, comparve subito dopo la morte del servo di Dio avvenuta nel 1657. Le opere scritte da Giov. Olier piuttosto che della sua riflessione e dei suoi studi, furono il frutto delle illuminazioni che da Dio riceveva in abbondanza nella orazione.

Egli scriveva di solito dopo questo santo esercizio, in ginocchio e con una facilità e rapidità straordinaria. « I suoi scritti. diceva il Vescovo di Puy nell’approvazione della prima edizione di quest’opera, sono pieni di quell’abbondante unzione di grazie, «che si trova in parecchi libri che sono come sorgenti della vita divina, quali il Combattimento spirituale, l’Imitazione, la Filotea e gli altri scritti del gran servo di Dio Francesco di Sales. Egli imprime fortemente nei cuori il disprezzo delle massime del secolo, la stima della fede, la dignità dei nostri misteri, l’amore della religione, specialmente in questo libro dell’Introduzione alla vita cristiana, che abbiamo letto con ammirazione ».

CAPITOLO I.

Della virtù di Religione in Gesù Cristo

Cristo è venuto sopra la terra per procurare all’Eterno Padre la dovuta adorazione. — Egli diffonde nei fedeli il proprio spirito di religione. — Tutto è nulla: a Dio solo l’adorazione. Gesù Cristo estende la sua religione alle anime nostre, si diffonde in noi e ci rende partecipi del suo stato di ostia, per fare di ciascuno di noi un vero adoratore del Padre. — Così ei rende partecipi anche della gloria della sua risurrezione.

Gesù Cristo, Nostro Signore, è venuto in questo mondo per apportare sulla terra il rispetto, l’amore e la religione verso il Padre suo, per stabilirvi il regno e la gloria del Padre. Questa gloria divina fu, nel corso della sua vita, l’unico oggetto delle sue domande al Padre; è questa l’opera che Egli proseguiva nei trentatré anni che visse su la terra. Il suo incessante desiderio era di effondere il suo proprio spirito di religione nella mente e nel cuore di quei fedeli che Egli prevedeva destinati a ricevere tale effusione, perché potesse onorare il Padre in essi come lo onorava in sé medesimo. – Gesù Cristo domandava e meritava per gli uomini questa grazia, durante la sua vita mortale, e principalmente nella sua morte su la Croce; in questa, mentre implorava per noi la grazia di poter dar gloria al Padre, Egli manifestava pure quanto fosse grande il rispetto e l’amore che portava al Padre suo; perché la riverenza e l’amore sono i due elementi che costituiscono la religione. Gesù Cristo vedeva il Padre suo infinitamente puro e infinitamente santo; non trovava nulla che meritasse di vivere e di sussistere davanti a Lui: ed Egli appunto subì la morte per attestare e manifestare questa verità. Gesù moriva su la Croce tanto per amore quanto per riverenza verso il Padre; si sottoponeva alla morte, l’accettava volentieri e con gioia, perché in essa vedeva il beneplacito e la soddisfazione del Padre suo; vedendo che il Padre non riceveva la dovuta riparazione per i peccati che si commettevano contro la sua Maestà, Egli moriva onde dargli ogni compiacimento ed offrirgli una completa e perfetta soddisfazione. In tal modo, noi Cristiani, che facciamo professione di essere partecipi del medesimo spirito di religione di Gesù Cristo e quindi del suo rispetto e del suo amore verso il Padre, dall’esempio di Lui dobbiamo imparare a non risparmiar nulla per manifestare, con Lui, veri sentimenti di religione, e a giungere per questo sino al sacrificio secondo le occasioni, perché il sacrificio effettivo è più sicuro di una semplice disposizione dell’anima, che. Sovente è ingannevole. – Nostro Signore, anche dopo la sua morte, ha continuato, con tutte le industrie del suo amore, ad infondere negli uomini questo spirito di religione verso il Padre; ha dato loro perciò il suo medesimo spirito, che è lo spirito di Dio vivente in Lui, onde stabilire in essi i sentimenti medesimi dell’anima sua, affinché, dilatando così ed estendendo il suo spirito di religione, Egli facesse di sé medesimo e di tutti i Cristiani un solo adoratore, un solo Religioso di Dio (Religioso, la persona specialmente dedicata alla religione, che ha l’ufficio di rendere a Dio la dovuta adorazione.). – Mentre già regnava glorioso in Cielo, Egli viveva nel cuore e nella penna dei suoi Evangelisti, per istabilire dappertutto il disprezzo verso la creatura e il rispetto verso Dio solo. Ed Egli vive nel cuore e nella bocca dei suoi Apostoli e dei suoi discepoli, perché annunzino dappertutto il regno di Dio, promuovano l’adorazione conveniente al santo Nome di Dio e gli procurino sudditi perfettamente sottomessi, adoratori che gli rendano omaggio in ispirito e verità (Veri adoratores adorebunt Patrem in ispiritu et veritate – Joan. IV, 22). – Questa pure è propriamente la funzione dello spirito di Dio nei Sacerdoti; in essi questo spirito continua ciò che operava in Gesù Cristo. Nei sacerdoti, per mezzo di esempi, di istruzioni orali e scritte, e per tutte le vie possibili, Egli promuove la santa religione verso Dio, il quale solo merita adorazione e riverenza, mentre la creatura non merita che disprezzo. – All’infuori di Dio, tutto è ombra e vanità. Che cosa è mai, infatti, tutto l’essere creato? Una scorza leggera di quell’essere che sta nascosto in Dio e che, in certo qual modo, si manifesta sotto il colore di tutto ciò che si vede. Tutta la figura di questo mondo passerà (I Cor., VII, 61), quando Dio vorrà cessare di comparire sotto figure, quando farà vedere senza velo ciò che Egli è. Quando gli occhi del nostro spirito saranno aperti e rafforzati dal lume della gloria. allora il mondo non avrà più per noi nessun’attrattiva; come quando compare il corpo o la persona. non si considera più l’ombra né il ritratto, La maschera non piace più quando il volto si vede scoperto: così tutto sì riconoscerà come figura, maschera e niente, quando Dio si renderà visibile all’anima in tutto l’essere suo. – Dio, sia dunque adorato in sé medesimo: tutto perisca davanti a Lui nel nostro spirito, poiché tutto è niente al suo cospetto. Per ispirito di religione, anticipiamo annientamento e il sacrificio Universale di tutto questo essere che deve perire in onore di Dio onde attestarne la grandezza e la santità. La nostra fede sia la luce e la fiaccola che guidi la nostra religione, perché facciamo davanti a Dio il sacrificio di tutte le creature! Gesù Cristo medesimo, ha voluto essere immolato in sacrificio per il grande rispetto verso il Padre, per la stima verso di Lui e la sua santità; quanto più dobbiamo noi sacrificare ogni cosa a Dio, disprezzar tutto, non aver stima né considerazione se non per quello che solo è vero e unicamente merita stima e rispetto? – Davanti al vero Dio non si deve adorare nessun idolo, ma tutte deve essere ridotto in cenere. Dunque ogni creatura perisca davanti al mio Dio! – Nostro Signore, mentre sacrificava se stesso, intendeva di tutto annientare e di fare in sé medesimo il sacrificio di ogni cosa perché tutto Egli aveva riunito e riassunto nella propria persona (Recapitulare Omnia in Christo. Ephes., I, 10); così, è giusto che anche noi condanniamo e sacrifichiamo tutte le cose fuori di Lui, perché  tutte sono tanto meno sante quanto meno sono in Lui. Sacrificar tutto per Dio, attestando in tal modo che tutto davanti a Lui è vile ed abbietto, e che non abbiamo stima né riverenza per nulla fuorché per Lui solo, ecco il vero contrassegno della verità del nostro spirito di religione.

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Infine, Nostro Signore, onde dilatare la sua virtù di religione verso Dio, e moltiplicarla nelle anime nostre, viene in noi: ha lasciato perciò se stesso sulla terra in mano ai Sacerdoti come ostia di lode, onde renderci partecipi del suo spirito di ostia, unirci alle sue lodi e comunicarci interiormente i suoi propri sentimenti di religione. Egli si diffonde intimamente in noi; imbalsamando, in certo qual modo, l’anima nostra, la riempie delle disposizioni interiori del suo proprio spirito di religione, dimodoché dell’anima nostra e della sua ne fa una sola ch’Egli anima di un medesimo spirito di riverenza, di amore, di lode e di sacrificio interiore ed esterno di ogni cosa alla gloria di Dio Padre. Così Gesù Cristo mette l’anima nostra in comunione con la sua medesima religione, per fare di ciascuno di noi in Lui medesimo, come abbiamo già detto, un vero adoratore ossia Religioso del Padre. – Anzi, onde fare di noi degli adoratori più perfetti, ed elevarci al più puro e più santo spirito di religione, il nostro divin Maestro ci mette in comunione col suo stato di Ostia, affinché noi pure siamo con Lui una medesima ostia, e siamo adoratori non già solo in ispirito, ma anche in verità, ossia in tutta realtà, col sacrificio interiore in noi stessi di tutto l’essere e di tutti i sentimenti della carne. Così, non siamo soltanto sacrificati come Gesù in Croce con la mortificazione e la crocifissione interiore; ma pure tutto consumiamo, nel nostro cuore, con Gesù Cristo consumato sull’altare. – Ecco la perfezione cui ci chiama Gesù Cristo in questa vita, poiché con la sua presenza intima in noi, e per mezzo del suo fuoco che ci divora, Egli ci rende partecipi dello stato più perfetto della sua religione, quello di Ostia consumata alla gloria di Dio; affinché ciascuno di noi sia un’ostia che non vive più in sé stessa della sua vita propria e della vita della carne, ma vive totalmente della vita divina, della vita consumata in Dio.

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È propriamente questo lo stato della vita di risurrezione, cui siamo chiamati ad imitazione di Nostro Signore, il quale nel giorno della sua Risurrezione venne esternamente consumato nel suo Padre: Egli vuole che noi pure siamo interiormente risorti e riformati in Lui. Perciò dice di aver comunicato agli uomini la gloria che da suo Padre aveva ricevuta (Joan. XVII, 22, 23). Questa gloria è lo stato di risurrezione che Egli aveva già nell’ostia, nell’ultima Cena. Ut sint unum; sicut et nos unum sumus. Ego in eis. et Tu in me. Che siano una cosa sola, o Padre, come noi pure siamo una cosa sola. Io in loro e Voi in me. (Joan. XVII, 23). Io sono in essi, mentre in essi compio il medesimo effetto che Voi, o Padre mio che siete in me, operate in me: li vivifico, come Voi vivificate me, li consumo come Voi consumate me (Joan., XVII, 23). Gesù in quella preghiera, domandava dunque che noi siamo ostie viventi, sante e a Dio gradite (Rom. XI, 1). Ecco perché S. Paolo non prega per nulla con tanta insistenza, come per ottenere ai Cristiani quella perfetta consumazione in Gesù Cristo secondo lo spirito che li renda affatto simili interiormente a Lui: « Prego Dio con tutto il cuore, di portarvi quel grado di perfezione che desidero vi sia in voi per la virtù del Santo Spirito di Gesù Cristo, che vi consumi interiormente in Lui. Oramus vestram consummationem. (II. Cor. XII). – È questa l’opera dello Spirito Santo, in questo mondo: rendere nei nostri cuori testimonianza alla carità; e lo farà molto meglio di S. Giovanni Battista: Egli infatti, è lo Spirito di verità. mentre il Santo Precursore non ne era che l’organo (Joan. V, 23). Lo Spirito Santo, con la fede, incomincerà a farci comprendere nell’intimo dell’anima nostra la falsità e l’impostura delle cose create e di tutto quanto non è Dio; poi ci farà disprezzare ogni cosa come un niente in confronto di quel Tutto così grande, magnifico e ammirabile, che è Dio; ci disgusterà di tutto, e con tale disgusto ce ne distaccherà interamente; ci porterà a Dio con vivissimo ardore e ci unirà a Lui in una tale intimità che di tutti noi farà una cosa sola in Lui; infine, ci consumerà perfettamente, a somiglianza di Gesù Cristo consumato nel Padre suo.

LA VITA INTERIORE (9)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (9)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C. Ristampa della 4° edizione Riveduta.

GLI ESERCIZI DI PIETÀ

L’ESERCIZIO DELLA BUONA MORTE PREPARARSI A BEN MORIRE.

«Tutta la nostra vita, scrisse S. Giovanni Bosco, in Il giovane provveduto, o miei cari giovinetti, dev’essere una preparazione a fare una buona morte. Per conseguire questo fine importantissimo giova assai praticare il così detto Esercizio della buona morte, il quale consiste nel disporre, in un giorno di ogni mese, tutti i nostri affari spirituali e temporali, come se in quel di dovessimo realmente morire.

IL MODO PRATICO…

Ci è ancora suggerito da don Bosco ed è il seguente: « Fissare per tale Esercizio il primo giorno oppure la prima domenica del mese; fare, sin dal giorno o dalla sera precedente, un qualche riflesso sulla morte, la quale, forse, è vicina e potrebbe anche sopraggiungere all’improvviso; pensare come si è passato il mese antecedente, e soprattutto se vi è qualche cosa che turbi la coscienza e lasci inquieta l’anima, qualora dovesse presentarsi al tribunale di Dio; e intanto al domani fare una Confessione e Comunione, come si fosse veramente al punto di morte. » Siccome poi potrebbe anche succedere che doveste passare da questa all’altra vita con una morte subitanea, o per una disgrazia o malattia, che non vi lasciasse tempo a chiamare un prete e ricevere i santi Sacramenti, così vi esorto ancora a far sovente, durante la vita, anche fuori della Confessione, atto di dolore perfetto dei peccati commessi ed atti di perfetto amor di Dio, perché anche un solo di tali atti, congiunto col desiderio di confessarsi, può bastare in ogni tempo e specialmente negli estremi momenti a cancellare qualsiasi peccato e introdurvi in Paradiso ».

BENEFICO VANTAGGIO.

La pratica dell’Esercizio della buona morte, è oggi molto diffusa, per grazia di Dio, anche sotto il nome di Ritiro mensile, nel quale le anime pie si fissano, sino dalla sera precedente, un argomento unico da approfondire nella meditazione. – Il S. Padre Pio XI, nell’Enciclica sugli Esercizi spirituali, a proposito del Ritiro mensile dice: « Raccomandiamo una pia pratica che diremmo quasi un compendioso rinnovamento degli esercizi, che godiamo di vedere introdotta in molti luoghi e di cui desideriamo vivamente che sì estenda il benefico vantaggio anche ai laici ». – Quali e quanti vantaggi, non solo spirituali, ma anche pedagogici, il Santo dei giovani abbia tratto, non è qui il caso di dire.

IL PENSIERO DELLA MORTE.

Se non è l’argomento unico e l’unica finalità, nel giorno di ritiro, la preparazione alla morte, sia, almeno, la principale, accompagnata dalla preghiera per impetrare da Dio la grazia di non morire di morte improvvisa. Il Gratry (A. Gratry, Le sorgenti. Trad. it. Milano, 1921 – pag. 28, da OLGIATI, La pietà cristiana. Milano, 1935) osserva che «mentre pochi giorni ancora separavano Socrate dalla morte, l’oracolo gli faceva un’imposizione, quando gli disse quella frase che noi non sappiamo ben tradurre: Non fate altro se non della musica, e la frase deve significare che bisogna finire la vita in una sacra armonia. Ma queste bellezze della sera della vita non sono se non delle illusioni per la maggior parte degli uomini; quasi per tutti la realtà è ben diversa. L’intera vita non può finire in una sacra armonia, in un santo e fecondo riposo, pieno di germi che la morte deve sviluppare per l’altro mondo, se non quando ognuno dei nostri anni hanno saputo finire con un sacro riposo: perché l’autunno della vita non raccoglie se non quello che ogni giorno ha seminato ». Ricordiamo il quotidie morior dell’Apostolo (I Cor., XV, 31). Santo, dunque, il quotidiano, o almeno mensile riflesso della morte per le saggie e forti deliberazioni cui induce l’anima di vivere più aderente a Dio e alla sua legge santa.

LUCI DI STELLE

LA LITURGIA

DIVERSITÀ DI PREGHIERE.

Non solo v’è la preghiera vocale e la preghiera mentale, più nota col nome di meditazione, ma v’è, pure, la preghiera privata e quella pubblica, secondo che noi preghiamo individualmente o collettivamente, con la Chiesa. Ciascuno di noi può pregare in casa propria, per istrada, in chiesa davanti a Gesù, ovunque. Questa è preghiera privata. Certamente è gradita al Signore, poiché Egli stesso, come ce ne riferisce S. Matteo (VI, 6), ha detto: « Quando vuoi pregare va’ nella tua camera, chiudi la porta e prega il tuo Padre in segreto ». – Se invece di pregare così individualmente, privatamente, noi, in compagnia di altri, pochi o molti non importa, ci raduniamo in chiesa o in qualunque luogo, e preghiamo ringraziando il Signore pe’ suoi benefizi, e lo supplichiamo perché ne conceda altri di cui riconosciamo la necessità, noi facciamo una preghiera collettiva, che si chiama culto di popolo. Questa preghiera, questo culto è certamente caro a Dio ed è da Lui accettato e gradito, poiché ha detto: « Qualunque cosa due di voi si accorderanno a domandare in terra, sarà a loro concesso dal Padre mio che è nei cieli. Perché  dove vi sono due o tre radunati in nome mio, io mi trovo in mezzo di loro » (Matteo, XVIII, 19-20). Ancora: siamo in chiesa. All’altare un sacerdote celebra la S. Messa, nei banchi poche pie donne, le quali, come il raccoglimento dimostra, seguono il celebrante e si uniscono a lui nel divino sacrifizio. Questa terza maniera di pregare si chiama preghiera liturgica o liturgia. La parola è d’origine greca e vuol dire: opera del popolo, opera pubblica. Indicava, nella Grecia, una prestazione pubblica dei cittadini ricchi. Ben presto tale parola passò nell’uso religioso col senso di culto pubblico. – Nella Chiesa cattolica orientale dire liturgia, è lo stesso che dire S. Messa. Perciò si dice anche, invece di celebrazione della S. Messa, celebrazione della divina Liturgia. Si può, dunque, dire senz’altro, che la liturgia è un culto pubblico, o sociale che si svolge: 1) solo in chiesa; 2) alla presenza del sacerdote; 3) con la partecipazione dei fedeli.

LA LITURGIA.

Quale differenza v’è fra le tre predette forme di preghiera? Nel primo caso; chi prega è soltanto l’individuo; nel secondo è un numero di persone, di anime cristiane, riunite nella preghiera fatta in comune; nel terzo caso non prega il sacerdote come individuo, né le persone riunite che assistono al Sacrificio, ma, e il sacerdote e le persone assistenti pregano con la Chiesa; è la Ciesa, anzi, che prega, è il mistico Corpo di Cristo. Il culto pubblico, la preghiera pubblica offerta a Dio con la Chiesa dicesi liturgia. « Il Sacerdote e i fedeli celebrano questo atto di culto in nome soltanto della Chiesa, anzi, in nome di Cristo. Da ciò l’eccellenza e la dignità della preghiera liturgica. — La preghiera privata tanto vale quanto vale il singolo orante; l’atto di devozione di un popolo tanto vale, quanto valgono innanzi a Dio coloro che si trovano radunati insieme. Certo, in quest’ultimo caso, la preghiera di alcuni giusti può compensare l’indegnità dei peccatori, ma la preghiera liturgica è valevole sempre, perché è la Chiesa, la Sposa immacolata di Cristo, che la offre. Sacerdote e popolo soltanto prestano alla Chiesa la loro voce. Comprendiamo adesso ciò che è essenziale del Culto liturgico: “ il singolo fa e celebra liturgia in quanto è membro della Chiesa e tale ha coscienza di essere ”’ » (Persch, Conferenze sulla santa Messa). Di qui, possiamo, con giusta ragione, trarre la conseguenza che la preghiera liturgica è superiore a quella di un individuo distinto, o anche di tutto un popolo, poiché in unione col Corpo Mistico di Gesù. La liturgia è quindi il culto ufficiale della Chiesa che fluisce in due correnti vitali: umana l’una, divina l’altra. La corrente umana è l’ossequio che l’umanità riunita nella società della Chiesa, presta a Dio; la corrente divina è il tesoro di grazia che da Dio in essa ognuno non prega distintamente ma fluisce nei membri e nei rami della Chiesa.

NATURA DELLA LITURGIA.

Scaturisce limpidamente dai tre termini seguenti: 1) Il Cristo; 2) La Chiesa; 3) Il singolo cristiano. Sappiamo che Gesù Cristo è la fonte della vita. Disse infatti: Io sono la via, la verità, la VITA. È la vita, ed è fonte di vita perché Egli la distribuisce copiosamente. Sono venuto perché tutti abbiano – la vita… e l’abbiano in abbondanza. La Chiesa è un organismo vivente… Tutte le forze dell’inferno coalizzate per soffocarla, disse Gesù, non riusciranno a nulla. È la sposa di Gesù; vive e respira con Gesù. « La S. Scrittura, dice il P. Parsch, ci offre due immagini che ci rendono meglio comprensibile la natura della Chiesa. La prima ce la dà Cristo stesso nel suo discorso di addio (Giov., XV, 5 e seg.): “Io sono la vite; voi i tralci; se uno rimane in me ed Io in lui, questi porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla; chi non rimane in me, sarà gettato via come un tralcio e si seccherà ”). La seconda è l’immagine prediletta di S. Paolo: la Chiesa è il corpo mistico di Cristo; Cristo è il capo (o cuore) di questo corpo, noi Cristiani siamo di tale corpo le membra, « Ciò ch’è comune a queste due immagini è il concetto di organismo vivente; membra e rami sono conservati in vita soltanto per l’unione con la loro fonte vitale. È dalla vite che scorre la linfa nei tralci e li fa verdeggiare, fiorire, fruttificare; è dal cuore che scorre il sangue in ogni membro e lo conserva vivo. E perciò, tralcio di vite e membro del corpo muoiono quando sono staccati dall’organismo ». – Ora concludiamo logicamente. Gesù, salito al Cielo, opera per mezzo della Chiesa. Questa, sotto la guida dello Spirito Santo, dispone e ordina il culto che, con un insieme bellissimo di riti e cerimonie, noi dobbiamo dare al celeste nostro Padre, e dispone e ordina quei mezzi precisi, autentici, coi quali la linfa della vita divina, che scaturisce dalla SS. Trinità. e dalla quale dispensatore unico e perfetto è solo Gesù. L’abbondanza della vita divina, che da Gesù viene in noi, è in proporzione del nostro sforzo « di unirci alla preghiera dei Sacerdoti, ai riti che essi compiono, ai Sacramenti che amministrano, e – particolarmente alla celebrazione della S. Messa. Perciò, più la nostra partecipazione a questi atti sarà intima, attiva e frequente, più Gesù, eterno Sacerdote, agirà nelle nostre anime. » (Signore insegnaci a pregare – G- F- di A. C., 1937).

VANTAGGI DEL VIVERE LA LITURGIA.

Un eminente scrittore così si esprime: «Vivere la liturgia non è altro che vivere la vita medesima di santa Madre Chiesa, identificarsi con essa, per prestarle il concorso della nostra voce, delle nostre mani, del nostro essere intero nella Laus perennis, che cominciata da Gesù Cristo in seno al suo divin Padre, continuata su questa terra, non avrà il suo pieno svolgimento che quando l’ultimo degli eletti sarà entrato nel Cielo » (Crogaert). – Come ben possiamo comprendere, un minimo di vita liturgica è assolutamente necessario per tutti. Riflettiamo un istante. La liturgia nella sua parte principale e fondamentale è d’origine divina, perché Gesù Cristo stesso istituì il S. Sacrificio e i Sacramenti; nelle sue parti secondarie, funzioni e benedizioni, è d’origine ecclesiastica, perché fu la Chiesa a istituire e precisare gli atti di culto e le funzioni in onore di Dio e per impetrare da Dio grazia e grazie. Ma la S. Messa, i Santi Sacramenti, mezzi produttivi della grazia, le funzioni religiose, che si compiono in nome e secondo le disposizioni della Chiesa, i Sacramenti, mezzi impetrativi della grazia, sono atti liturgici. Ricordiamo ancora che alla vita liturgica è legata la nostra vita spirituale. Dalla vita liturgica, infatti, cioè dal S. Battesimo, ebbe inizio in noi la vita dello spirito, e, perciò, da essa dipende la nostra santificazione. In seguito, sino al tramonto, i sacramenti colla grazia santificante debbono alimentare e confortare questa nostra vita. Ma non solo la liturgia opera la nostra santificazione. Essa è un mezzo sincero ed efficace per impetrarci le grazie divine. Questo perché la liturgia è preghiera, e Dio ha promesso le grazie alla preghiera. – L’efficacia della preghiera liturgica è superiore, come abbiamo già detto, alla privata per tre ragioni principali, e cioè:

1) Perché meglio, e più di ogni altra, è fatta in nome di Gesù Cristo; ed eseguisce con precisione la condizione posta da Gesù: chiedete in nome mio.

2) Perché è la preghiera della sposa di Gesù. Come non ricordare la bontà di Gesù per la sua mistica Sposa?

3) Perché è preghiera sociale. Anche in questo — benché non solo per questo — ha valore il proverbio: « L’unione fa la forza ».

Concludiamo: la preghiera liturgica è la preghiera che ci unisce realmente con Gesù, e col Padre celeste per mezzo di Gesù!