LE VIRTÙ CRISTIANE (13)
S. E. ALFONSO CAPECELATRO, Card. Arcivescovo di Capua
Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C. – Roma – Tournay
MDCCCXCVIII
PARTE IIIa
CAPO II.
LA PRIMA BEATITUDINE.
LA VIRTÙ DELLA POVERTÀ DI SPIRITO E DELL’UMILTÀ
Il dì che Gesù benedetto, volendo promulgare la Legge del suo nuovo regno, si fermò in un luogo pianeggiante del Monte delle beatitudini, e, aperta la sua bocca, profferì queste prime parole: beati i poveri in ispirito, promulgò due virtù cristiane, cioè la povertà in ispirito, e l’umiltà. Con queste due virtù gettò le fondamenta del grande edifizio morale, che era venuto ad elevare un edifizio, il quale completò e perfezionò quello dal Signore medesimo eretto in pro del popolo giudeo. Con la povertà in ispirito e con l’umiltà Gesù mirò, innanzi tutto, a sbarbicare dall’animo due cupidità assai possenti, quella delle ricchezze e quella dell’orgoglio: le quali, mentre che ci offuscano e ci traviano, esse sono quasi sempre la radice di ogni, altro male. – Non pago di ciò, nell’atto che Gesù sbarbica le due pessime radici, semina nel cuore umano le due virtù della santa povertà e dell’umiltà. Sono due virtù nobilissime, per le quali i maggiori beni esteriori, dico le ricchezze, e tutti gli altri beni più intimi e più personali di ciascuno, si valutano giustamente, si riferiscono al Signore, che ce ne fece dono, e si usano come strumento dell’eterna nostra salvezza. E ora affissiamo prima lo sguardo a quella virtù modesta e misteriosa, che è tutta propria del Cristianesimo ed è detta povertà di spirito. Dell’umiltà diremo più avanti. – Gesù, nel senso stretto della cosa, non mosse guerra né alle ricchezze né ad alcun altro bene creato; perciocché Gesù stesso, in quanto Dio, allorché le stelle mattutine, cioè gli Angeli, lodavano il Signore per la creazione, vide tutte le cose create da sé, e le disse buone. Indi, dopo che Egli ebbe tratto dal nulla anche l’uomo re dell’universo, vide di nuovo (a nostro modo d’intendere), tutte le cose che aveva fatte, e le disse molto buone.” (Gen. I, 31). Volle invece Gesù, proferendo la prima beatitudine, con misericordiosa bontà volgere l’occhio suo allo spirito dell’uomo, discendere in esso con la sua sapienza illuminatrice, e col balsamo della sua presenza sanarlo dalle vecchie ferite. Però non disse, accennando alle diverse condizioni umane, beati i poveri o beati i ricchi; ma disse guardando allo spirito umano, che Egli era venuto a santificare, beati i poveri in spirito. Non comandò allora il divino Maestro la povertà orgogliosa e sprezzante, come quella di Diogene, di Aristide, di Crate o di Tebano; neanche lodò la povertà forzata. querula, pigra, dissipatrice, sediziosa e insolente di alcuni poveri dei nostri tempi. Volle invece una povertà che, mercè la grazia dello Spirito Santo, piova, come rugiada benefica, nel nostro spirito, e metta in armonia tutte le varie condizioni umane, sì dei poveri sì dei ricchi. Invero, il Cristiano anche ricco è veramente povero in ispirito, se non serve con l’animo alle ricchezze, come usa tra gli avari, ma piuttosto le signoreggia; se nelle ricchezze materiali non pone il suo cuore; se le usa secondo giustizia e ordine di virtù; se le adopera non solo a conseguimento dei beni materiali, ma, quanto più può, a conseguimento anche degli intellettuali e morali. Principalmente il Cristiano ricco è veramente povero in ispirito, se viva in guisa, che il suo superfluo sia molto, e poi lo versi nel seno dei miseri. Allora si è veramente povero in ispirito e beato; perciocché egli intende bene, e mette ad effetto l’altissimo insegnamento di Cristo: “Date il superfluo ai poverelli.” Parimente il Cristiano materialmente povero è veramente povero in ispirito, solo se accetti serenamente e pazientemente il suo stato, adoperando i mezzi onesti per temperarne le amarezze, e tra essi prescelga, sempre che può, l’adempimento del precetto di lavorare, dal Signore dato all’uomo, anche prima ch’ei peccasse. E questo che son venuto dicendo del ricco e del povero, si vuole intendere di tutte quelle gradazioni intermedie di agiatezza, e di minore o maggiore ricchezza. Le diverse quantità del possedere non mutano nulla alla sustanza di questa virtù; la quale, come le altre virtù, essendo illuminata da un concetto giusto e sano della mente intorno alle ricchezze, risiede tutta nel libero arbitrio della nostra volontà. La povertà dello spirito, considerata nel modo che ho detto, è comandamento dato a tutti i Cristiani. Ma (a che gioverebbe tacerlo?) è comandamento non facile a praticare sì pel povero sì pel ricco. Per adempiere questo comandamento, l’uomo, in qualunque condizione viva, s’ha da levare in alto con la mente e col cuore; perciocché solo in alto troverà il giusto concetto di Dio, di se stesso e dei diversi ordini dei beni. E intanto l’uomo, per la primitiva corruzione, è come un infermo sanguinante per molte ferite, cui riesce grave il tenersi ritto in piedi, e anche più grave il muovere il passo per ascendere su le cime alte dell’etica cristiana. Ma le difficoltà della virtù della povertà in ispirito non sono eguali nel povero e nel ricco; e la quotidiana esperienza ce ne avverte. Nel ricco riescono infinitamente maggiori; perché le ricchezze sono all’uomo terribilmente e sediziosamente tentatrici. Sono tentatrici; perché inducono facilmente l’uomo a banchettare, a rumoreggiare, a sfoggiare nel lusso, a scialacquare, a gonfiarsi di vanità e d’orgoglio, a disprezzare i poverelli, a tenere in nessun conto i beni e i piaceri dello spirito. Tralascio poi che, a volte producono il tarlo dell’avarizia, roditore d’ogni buon sentimento, a volte fanno l’uomo dimentico della giustizia, e altresì dell’eguaglianza sustanziale tra tutt’i figliuoli del solo padre Adamo. Le quali cose tutte l’Apostolo san Paolo compendiò scrivendo a Timoteo così: “Coloro, che vogliono diventar ricchi, cadono nelle tentazioni e nei lacci del diavolo, e in molti desiderj inutili e nocivi, i quali menano gli uomini alla morte e alla perdizione; perciocché radice d’ ogni male è la cupidità (del danaro).” (1 Tim. VI, 9). Di qui poi s’intende anche perché Gesù Cristo, secondo che scrive san Luca, dopo di aver detto beati i poveri in ispirito, aggiunse che sono infelici i ricchi. Le parole di Gesù Cristo suonano così: “Guai a voi o ricchi, perché avete avute (qui in terra) le vostre consolazioni.” (Luc. VI, 24) Ora è evidente che queste parole di Gesù Cristo sono messe in contrapposto delle prime: beati i poveri in ispirito. Laonde, poiché quelle si vogliono intendere dei poveri virtuosi; queste s’hanno da spiegare dei ricchi oziosi, che o accumulano ricchezze illecitamente, o sono avari o mettono l’ultimo fine loro nelle dovizie e nei piaceri che esse procurano. Costoro non solo sono infelici, per le minacce dell’eterna pena, ma altresì, se si guardino umanamente, per le seguenti ragioni addotte da Dante nel Convito: “Né solamente i ricchi per desiderio di accrescere le cose che hanno, si tormentano, ma eziandio tormento hanno nella paura di perdere quelle.” (Conv. IV, 12). Considerata, nel modo che s’è detto, la virtù della povertà in ispirito, mi par chiaro, che non solo essa sia nobile e bella, non solo spinga l’animo in alto, sollevandolo dalle basse paludi dei piaceri del senso; ma si manifesti al tutto consentanea alla luce intellettuale della nostra ragione. Ancora, è da aggiungere che la pratica, sia pure universale, di questa virtù non contrasterebbe né punto né poco all’accrescimento dei commercj, dell’industria e di ogni maniera di umana ricchezza, come talvolta fu opposto dagli economisti di corte vedute. Perciocché il precetto della povertà in ispirito non è ordinato a diminuire l’umana ricchezza, ma a ben governare l’animo di coloro che la possiedono. – Chi può dubitare che il Cristianesimo, dando a tutti gli uomini, senza eccezione di sorta, il comandamento del lavorare, conferisca moltissimo all’accrescimento dell’umana ricchezza? Però la Religione di Gesù Cristo sarebbe in evidente contraddizione con sé medesima, se con una mano si adoperasse ad accrescere le ricchezze, e con l’altra a diminuirle. La sustanza della povertà cristiana risiede tutta nello spirito; e però non sta nel possedere più o meno, ma nel possedere e nello spendere secondo Dio e la legge evangelica. Poniamo, in grazia di esempio, che noi in Italia avessimo un reddito di due o trecento milioni di più di quel che abbiamo, non saremmo per ciò peggiori Cristiani, anzi diventeremmo presto migliori, se avessimo in odio l’avarizia, l’usura e la dissipazione; se spendessimo, molto più di quel che non facciamo, pel culto del Signore, per i poverelli, per i buoni studj, e pel conseguimento di tutti quei beni spirituali, che ci elevano a Dio. – Ed ora entriamo per breve tratto nel campo fiorito della cristiana perfezione, nel quale spira un’aura soave e profumata, il cui odore però non arriva agli animi grossi e soggiogati dalle passioni. La povertà in ispirito diventa consiglio evangelico, generatore di perfezione, allorché il fedele, per essere più libero e pronto nel servire Dio, si spoglia delle proprie ricchezze, e si contenta del puro necessario alla vita. Il primo esempio di siffatta povertà eroica ce lo dette Gesù Cristo; che, in se stesso ricchissimo di ogni dovizia, volle nei trentatré anni della sua vita terrena, esser povero e viver da povero. Poi l’esempio suo fu imitato da molti Santi, tra i quali primeggia forse, nella Chiesa dei primi secoli, Paolino da Nola. Seguirono romiti, monaci, frati, religiosi d’ogni sorta, i quali tutti molto si giovarono di questo consiglio evangelico della santa povertà, per camminare nelle vie del proprio perfezionamento. I più di costoro unirono alla povertà il celibato, e quasi sempre anche una stretta e costante obbedienza ai superiori loro. Come usa tra i religiosi, si votarono a Dio coi tre voti di povertà, di castità e d’obbedienza; perciocché questi diversi consigli evangelici si dànno la mano, e si compiono più agevolmente sempre che sieno tra loro uniti. Abbiamo nondimeno nella storia della Chiesa un esempio santamente riuscito di questa povertà dei perfetti, seguita senza il celibato. E lo troviamo tra i fervori dell’età apostolica nella piccola Chiesa primitiva di Gerusalemme; della quale negli Atti degli Apostoli è detto così: “Tutt’i credenti avevano ogni cosa in comune. Vendevano le possessioni e i beni, e distribuivano il prezzo a tutti, secondo il bisogno di ciascheduno.” (Act. II, 44 e 45). Or questo medesimo esempio di una sola piccola Chiesa particolare durò poco, e non poteva accadere diversamente: durò sino a che quelli, che valutavano i bisogni di ciascuno, erano gli Apostoli di Gesù Cristo, e le famiglie, le quali docilmente accettavano la misura dei bisogni, e la distribuzione degli Apostoli, possiamo credere che fossero tutte famiglie di Santi. Io non so, se nel secolo XIII la sete delle umane ricchezze fosse maggiore di quella, che oggi affatica gli uomini, e quasi sempre li rende inquieti, annojati e mesti. Conosco nonpertanto, per giudizio dei migliori storici, che anche allora questa sete era straordinariamente grande. – La povertà dei perfetti il Cristiano dunque, non che sprezzarla, come usano oggidì molti, la stima e la venera, in quella guisa che ei stimerebbe e venererebbe la stessa sposa di Cristo e d’ un gran Santo. L’uomo perfetto poi ama la povertà come Gesù amò la Chiesa sua sposa, di amore celestiale e castissimo; trova in essa le sue maggiori delizie, e la antepone a qualsiasi altro bene. Da essa non si separerà mai, neanche nel gaudio dell’eterno regno; perocché lassù nel Cielo l’uomo sarà ineffabilmente più ricco di tutti i ricchi della terra, ma le ricchezze sue saranno ben altre, infinitamente più nobili, più spirituali, più celesti di queste ricchezze terrene che appena le adombrano. Basti il sin qui detto intorno alla povertà in ispirito, e alle cime altissime, sulle quali essa conduce i perfetti. Ora è bene studiare brevemente l’altra interpretazione che tutt’Padri della Chiesa dànno alla prima beatitudine evangelica: beati i poveri in ispirito. Essi intendono che la povertà in ispirito sia l’umiltà; anzi taluno crede che questo sia il principale significato inteso allora da Cristo. Certo, non mancano luoghi paralleli della Scrittura Santa per avvalorare cosiffatta interpretazione, e anche ragioni di diverso genere. Nondimeno io mi tengo pago ad addurne una di sant’Agostino, e che suona così: “Comunemente usa dire che i superbi hanno grande spirito, e ancora che essi son gonfi e quasi pieni di vento. A buon dritto dunque gli umili che temono il Signore, noi li diciamo poveri di spirito, cioè tali che né orgoglio né vanità interiore li gonfino.” (Aug. L. I. De Sermone Dom. in Monte). – Nessuna virtù cristiana è stata mai così malamente intesa o piuttosto presa a rovescio, come questa dell’umiltà; la quale per alcuni rispetti è la regina delle virtù cristiane, ma una regina che cela la sua leggiadria e le sue grazie ai profani, ed è bellissima soprattutto per bellezza interiore. Forse il fatto che essa è così poco e mal compresa deriva da che si contrappone all’orgoglio, il quale è come uno sterpo, più o meno fortemente abbarbicato in ciascun uomo. Forse anche han conferito al fatto gli eroismi d’umiltà dei Santi cristiani. I quali eroismi, appunto perché eroismi, hanno un lor linguaggio proprio, e son difficili a comprendersi. Ma di questi accadrà di dir qualche cosa più giù. Guardiamo ora l’umiltà nella sua sustanza. Chi voglia ben comprendere la natura dell’umiltà cristiana, è bene che consideri innanzi tutto che l’uomo ha in sé un intemperante appetito di onore e di stima, che è seme dell’orgoglio, e cagione d’infiniti mali. Ora a siffatto appetito si contrappone la virtù dell’umiltà, cui san Bernardo definisce: “L’umiltà è virtù, onde ciascuno, per verissima cognizione di sè medesimo, a sé medesimo si fa vile. ” (Aug. L.I. De Sermone Dom. in Monte). Ora la prima luce che dalle parole del Santo sfolgora alla nostra mente, è che non si dia vera umiltà, dove non è piena verità; e anzi l’umiltà cristiana (è necessarissimo tenerlo bene a mente) deriva proprio dalla verità, come raggio da sole, o come rivo da fonte. Però, se taluno non trova in se medesimo motivi sufficienti per farsi vile a sé medesimo umiliandosi, gli è perché o gli manca affatto una vera cognizione di sé, o la cognizione che ne ha, è involta tra nebbie di passioni, e quindi al tutto errata. Chi mi legge, si allontani, come può, dallo strepito esteriore del mondo e da quello più intimo delle passioni, si ripieghi un tratto sopra sé medesimo, e pensi. Troverà nella propria persona molti difetti e mali morali, la concupiscenza, l’irascibile, la propensione al male, l’ignoranza, l’errore, il peccato; tutte cagioni di miserie, d’invilimento, d’umiltà. Lo umilieranno altresì molti mali fisici, dico i morbi, la povertà, la fame, la morte e in breve tutte le innumerevoli forme del dolore. Ma non so se abbiate mai posto mente a quel che sono per dirvi. I beni, gli innumerevoli beni, onde Iddio arricchì la nostra natura, attentamente guardati e ponderati, per un altro verso ci riescono anche essi cagione di grande e profonda umiltà. Son molti è vero questi beni, e belli e desiderabili e ammirevoli. Ma ce li siam dati forse noi a noi medesimi? E se li abbiamo dal Signore, non c’inducono essi alla dipendenza, all’ossequio, all’umiltà? Ancora, cotesti beni sono angusti, finiti, circoscritti, e anzi per la nostra corruzione spesso essi stessi generano in noi il male. Come dunque non umiliarci noi, se siam così fatti, che di frequente il bene da Dio largitoci lo volgiamo al male? Di più i beni nostri di qualunque genere sieno, li possiamo perdere da un momento all’altro, e li perdiamo di fatto: solo il Signore, che ce li ha dati, ce li può ridare, conservare e accrescere. Chi è dunque grande? Noi che abbiamo essi beni, o il Signore, che ce li dà, e senza di cui non li abbiamo, non li conserviamo, non li accresciamo mai? Che vale invero il bene supremo della vita, senza Colui che me la dette, se un microbo, un granello di potente veleno, un soffio d’aria malefica me la può togliere, nell’ora in cui più la desidero? Che vale il mio ingegno, se una malattia, una percossa, talvolta un dolore morale me lo spegne? Che vale la scienza senza Dio, quando per ogni raggio di luce, che essa mi dona, mi accora e mi umilia con la vista d’una maggiore e più estesa quantità di tenebre? Che se tutto ciò è vero dei beni più nobili e grandi, molto più è vero delle ricchezze, degli amori, della potenza, della gloria. Infine, i pregi della nostra natura, per quanto siano tutti nobili e grandi, non valgono mai ad appagarci pienamente, e pare anzi che quanto sono maggiori, tanto più eccitino il desiderio del Bene infinito. Riescono dunque facilmente a umiliarci, per la distanza grandissima che ci mostrano, tra ciò che abbiamo e ciò che vorremmo avere. – So pur troppo, che il superbo, appunto da questi medesimi beni prende occasione di gonfiarsi e d’inorgoglirsi; ma ciò deriva da che egli a poco a poco si forma un’idea affatto bugiarda dei proprj beni. Li considera come beni, che egli stesso si ha dati; ed è bugia: si sforza con un inganno puerile, nel quale follemente si culla, di credere che egli non li perderà mai; ed è bugia anche questa: tenta vanamente, di trovare il pieno appagamento in essi, mutando, per esempio, un piacere in un altro, un amore in un altro, l’appetito delle ricchezze in quello della gloria, e via dicendo; ma questa è bugia anch’essa. È quando poi la piena dei dolori morali e fisici lo sopraffà, spesso egli s’induce a proclamare disperatamente l’infinita vanità di se stesso e del tutto, mutando una bugia in un’altra bugia, una forma d’orgoglio facile e comune, in un’altra forma d’orgoglio più sottile e più sprezzante, più profonda e più nociva, che per non riconoscere da Dio i proprj beni, superbamente li nega. – Dalle cose dette si conchiude dunque che l’uomo, il quale rifletta profondamente sopra se stesso, è inclinato ad umiltà, e dovrebbe quasi naturalmente esser umile. E se non riusciamo umili veramente, senza un ajuto possente di luce e di grazia suprema, questo è un nuovo motivo di umiltà per noi. Ma penetriamo un poco più intimamente nel mistero dell’umiltà cristiana, la quale fu tanto spesso commendata da Gesù Cristo nei santi Vangeli, e si trova quasi ad ogni passo della santa Scrittura. La prima considerazione da fare è che non si ha mai vera umiltà cristiana, quando la cognizione della propria vilezza non sia congiunta con la cognizione della infinita grandezza di Dio. Anzi, per avere umiltà vera, queste due cognizioni è giusto guardarle, come le due coppe di una bilancia; nella quale, quanto più scende il conoscimento di sé, tanto più sale il conoscimento di Dio: proprio l’opposto di quello, che accade nel superbo, dove i pesi delle due coppe sono assolutamente invertiti. Il superbo in vero pensa molto a sé, e a Dio pensa poco; e poiché stima molto sé, stima poco Iddio, procedendo di grado in grado sino all’occulta idolatria di sé medesimo. Nell’umile l’accoppiamento delle due cognizioni opposte, quella che ciascuno ha di sé, e quella che ha di Dio, è a ragione giudicato essenziale da tutti Padri della Chiesa, e molto più dagli scrittori di ascetica. Ma niuno forse scolpì cotesto concetto, in modo più sintetico di quel che fece sant’Agostino in questa sua orazione: “Signore, che io conosca te e conosca me, affinché ami te, e umili me.” — Dal non por mente abbastanza al bisogno, che vi è per avere umiltà vera dell’unione del conoscimento basso di sé, col conoscimento altissimo di Dio, deriva in parte che l’umiltà si confonda spesso con i suoi contrarj, cioè con la pusillanimità, la grettezza d’animo, la immoderata abiezione di se stesso, l’oblio della propria dignità. Ma tutti questi sono o vizj o difetti, o inchinamenti al male; i quali, non che confondersi con l’umiltà, le fanno guerra. In effetti il vero umile, quanto più conosce di esser vile e debole in sé, tanto più sa di esser forte e grande in Dio. – Oltre a ciò, dal già detto segue pure che la virtù dell’umiltà e la virtù della magnanimità dell’animo non solo non si oppongano tra loro, come stima il volgo dei sapienti, ma si armonizzino mirabilmente; sicché l’una completa l’altra. L’umiltà in vero, benché guardi anche a Dio, seguendo la propria natura, tiene l’occhio particolarmente alle miserie umane, e c’inclinerebbe a ritrarci in qualche modo dalle cose difficili, splendide ed eccelse, anche perché esse ci procurano onore. Ma ecco che la magnanimità cristiana, da buona amica, le viene in ajuto. La sua missione è di spingerci alle cose difficili ed eccelse, che, secondo prudenza, non superano però le nostre forze; perciocché se le superassero, la magnanimità si muterebbe in audacia folle e presuntuosa. Ma nel misurare le forze nostre, la magnanimità cristiana non guarda o poco guarda alle miserie umane, sì molto alla potenza, alla bontà e alla sapienza di Dio, che Dio stesso amorevolmente comunica ai veramente umili e fiduciosi. Da ciò si comprende come il Cristiano profondamente umile voli spesso in alto, come aquila, con i pensieri e i desiderj, e spesso abbia propositi arditi e difficili. Però se, a volte lo vedi umile e mogio come un agnello; a volte anche, trattandosi della gloria di Dio manomessa e del bene delle anime, assume il coraggio del leone. – La virtù dell’umiltà cristiana ha pur questo di proprio, che riesce insiememente la prima pietra dell’edifizio della vita cristiana, e altresì la prima pietra della perfezione cristiana. Ben è vero che il fondamento della vita cristiana è la fede, secondo le parole di san Paolo: “Senza la fede nessuno può piacere a Dio.” (Heb. XI, 6). Ma il maggiore ostacolo alla fede è l’orgoglio, come il maggiore stimolo ad abbracciarla è l’umiltà. L’orgoglio impedisce la fede, perché o non riconosce Iddio lo fa poco da meno, e quasi eguale all’uomo. Il superbo nel suo cuore dice: “Io non posso sospendere le leggi di natura e far miracolo: dunque Iddio non può: i misteri di religione non mi sono evidenti, e provati direttamente dalla mia ragione: dunque non sono evidenti a Dio, né veri avanti a lui, verità sustanziale ed eterna: io non so il futuro; e Dio nol sa e via dicendo.” Assolutamente contrarie a queste sono le disposizioni di un animo umile, il quale, come è chiaro, discorre dentro di sé proprio nel senso opposto; onde crede perché è umile, e tanto più fortemente crede, quanto più s’avanza nell’umiltà. – Per quel che poi riguarda la perfezione cristiana, sant’Agostino apertamente insegna: “Vuoi tu costruire un nobile e alto edifizio di perfezione in te? Pensa innanzi tutto al fondamento dell’umiltà?” (Aug. De verbis Domini). Ma veramente non ci sarebbe bisogno né di questa né di altra autorità dei Padri della Chiesa o dei cristiani scrittori di etica. L’umiltà fu la virtù prediletta dal Santo dei santi e dell’infinitamente perfettissimo Gesù Cristo, che disse e dice a tutti noi in ciascun’ora della vita, e soprattutto quando l’orgoglio ci tenta: “Imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore.” (Matth- XI, 29). L’umiltà fu la virtù più cara alla Vergine, Umile ed alta più che creatura; onde Ella stessa cantò: “Perché il Signore guardò all’umiltà della sua ancella, perciò mi diranno beata tutte le generazioni” (Luc. I, 48). Che dire poi dei Santi eroicamente umili tutti, ma forse in modo particolare umili san Francesco d’Assisi e il mio san Filippo? – Se non che, mentre scrivo qui dell’umiltà dei Santi, mi sovviene d’una obiezione che ho intesa tante volte, la quale forse sarà bene di sciogliere. Essa è di questo tenore: Come mai i Santi possono, paragonandosi anche talvolta ai peccatori più famosi, dire di sé che sono peccatori e anzi grandi peccatori? Non mentiscono forse allora? In qual guisa dunque sono eroi, se si oppongono alla verità, che, guardata nella sua essenza, è Dio stesso? Questa difficoltà se la fanno molti; e io ricordo che la feci a me stesso, la prima volta, quando avevo vent’anni, e vidi su Montecassino una Bolla di Papa Alessandro III sottoscritta da san Pier Damiano, innocentissimo e grandissimo Santo, in questa forma: Ego Petrus peccator. — Io Pietro peccatore. Alcuni potrebbero rispondere all’obiezione, dicendo che cotali espressioni siano mere iperboli dei Santi; e il parlare iperbolico non è menzogna, né disdice ai Santi, che sono tutti, pare a me, nobilmente e celestialmente poeti. Io non rigetto questa risposta; ma credo che si debba vedere la cosa anche un po’ più addentro. Allorché il Santo dice di essere grande, grandissimo peccatore, non guarda né la qualità né la quantità dei peccati di un furfante qualsiasi, per trarne argomento di paragone con i proprj peccati. Il suo parlare è ben altro: è tutto soggettivo. Egli sa, che nessun uomo è al tutto mondo dal peccato, neanche il fanciullo, che bevve soltanto le prime aure della vita. Paragona quindi la cognizione, che ha dei proprj peccati, siano pure veniali, con la cognizione che ha di Dio, e messosi in questa luce, la malizia, la miseria, l’orrore di qualsiasi cosa contro Dio gli si accresce tanto nell’animo, che egli si sente e si proclama gran peccatore. Ogni nuovo raggio di sapienza, che gli piove nella mente, ogni nuovo benefizio che ha da Dio, ogni nuova considerazione che faccia della divina bontà, gli accresce nella mente e nel cuore la gravezza di qualsiasi peccato; ed egli non si sazia mai di credersi e di proclamarsi gran peccatore. Narrano che, tra i selvaggi, alcuni, fissando gli occhi nel disco del sole all’ora d’un bel tramonto, lo credono così vicino a sé, che per poco non si muovono ad incontrarlo. Ma l’astronomo, che ha la mente illuminata dalla scienza, conosce che la distanza tra sé e quel disco apparentemente vicino, è di migliaia di miglia. Ora, se trasferiamo la nostra mente dal sole corporeo all’infinito Sole di verità e di bellezza che è Dio, accade che ogni superbo rassomigli all’uomo selvaggio, di cui ho fatto parola, e ogni Santo all’astronomo. Il primo si crede vicinissimo, e poco differente da Dio: il secondo, nel misurare la sua distanza da Dio, non si appaga di quel che l’astronomo insegna della distanza dal sole, ma corre col pensiero assai più avanti. – Oh, se gli uomini dell’età nostra meditassero con animo spregiudicato le parole di Cristo; beati i poveri in spirito, quanto bene ne verrebbe a tutta la cristianità! Le passioni dei poveri oggi, più che mai, si ribellano contro i ricchi; intanto che l’orgoglio dei sapienti volgari mette in confusione e in tempesta tutte le idee, tutt’i sentimenti e tutta la vita delle genti civili. A tutti pare che il terreno che ci sta sotto i piedi, sia a guisa di una mina, e che da un momento all’altro qualche scintilla da noi non preveduta mettendovi fuoco, ci faccia saltare in aria. E la ragione di questo tormentoso stato, in cui si trova particolarmente l’Europa, è che Iddio, quell’Iddio che ci ha comunicata la sapienza del suo Vangelo, e ci ha redenti, e ci ha fatti nuovamente suoi figliuoli, non regna più, per colpa dei miscredenti, quanto dovrebbe, in mezzo a noi: lo hanno scacciato da noi soprattutto l’orgoglio delle menti e l’amore smodato delle ricchezze e dei piaceri. Gli uomini, gonfiati dalla scienza e dalle proprie passioni, hanno detto in cuor loro: beati i ricchi, beati coloro che sentono altamente di sé medesimi. Or bene, insino a che costituiremo tutta la nostra vita in contraddizione delle parole di Cristo beati i poveri in spirito, non avremo pace. Ai poveri in spirito Gesù promise il regno dei cieli; ed essi incominciano a pregustarlo e quasi a sentirlo in questa vita terrena. Ai ricchi malvagi e ai superbi, che mettono in questo mondo, e nei suoi piaceri l’ultimo loro fine, vanno invece applicate le parole lella Bibbia: “Gli empj non avranno mai pace.’” (Isai. XLVIII, 22).