DOMENICA DI SETTUAGESIMA (2022)
[Stazione a S. Lorenzo fuori le mura].
Semidoppio. – Dom. Privil. di 2a cl. – Paramenti violacei.
Per comprendere pienamente il senso dei testi della Messa di questo giorno, bisogna, studiarli in corrispondenza delle lezioni del Breviario, perché, nel pensiero della Chiesa, la Messa e l’Ufficio sono una cosa sola. Le lezioni e i responsori dell’Ufficio della notte durante tutta questa settimana sono tratti dal libro della Genesi e narrano la creazione del mondo e quella dell’uomo; la caduta dei nostri primi genitori e la promessa di un Redentore; di più l’uccisione di Abele e le generazioni di Adamo fino a Noè. — « In principio, – dice il Libro Santo, – Dio creò il cielo e la terra e formò l’uomo su la terra e lo pose in un giardino di delizie perché Lo coltivasse» (3° e 4° resp.). Tutto ciò è una figura. – Il regno dei Cieli – spiega S. Gerolamo – è detto simile ad un padre di famiglia che prende degli operai per coltivare la sua vigna. Ora, chi più opportunamente può essere rappresentato nel padre di famiglia se non il nostro Creatore, il quale regge con la sua provvidenza ciò che ha creato e che governa i suoi eletti in questo mondo, così come il padrone ha i servi in sua casa? E la vigna che Egli possiede è la Chiesa Universale, dal giusto Abele fino all’ultimo eletto che nascerà alla fine del mondo. E tutti quelli che, con fede retta si sono applicati e hanno esortato a fare il bene, sono gli operai di questa vigna. Quelli della prima ora, come quelli della terza, della sesta e della nona, designano l’antico popolo di Israele, il quale, dopo l’inizio del mondo, sforzandosi nella persona dei suoi santi, di servire Dio con fede sincera, non hanno cessato, per così dire, di lavorare nella coltivazione della vigna. Ma all’undecima ora sono chiamati i Gentili e a loro sono Indirizzate queste parole: « Perché state qui tutto il giorno senza far nulla? » (3° Notturno). Dunque, tutti gli uomini sono chiamati a lavorare nella vigna del Signore, cioè a santificarsi e a santificare il prossimo glorificando con questo mezzo Dio, poiché la santificazione consiste a non cercare il nostro bene supremo che in Lui. Ma Adamo venne meno al suo compito. « Poiché tu hai mangiato il frutto che io ti avevo proibito di mangiare, – gli disse il Signore – la terrà sarà maledetta e ne trarrai il nutrimento con gran fatica. Essa non produrrà che spine e rovi. Tu mangerai il tuo pane, prodotto dal sudore della tua fronte fino a che non sarai tornato alla terra donde fosti tratto». «Esiliato dall’Eden dopo la sua colpa – spiega S. Agostino – Il primo uomo trascinò alla pena di morte e alla riprovazione tutti i suoi discendenti, guasti nella sua persona come nella loro sorgente. Tutta la massa del genere umano condannato cadde in disgrazia, o piuttosto si vide trascinata e precipitata di male in male (2° Notturno). « I dolori della morte m’hanno circondato, dice l’Introito; e la Stazione ha luogo nella Basilica di S. Lorenzo fuori le mura, contigua al Cimitero di Roma. « È assai giusto, aggiunge l’Orazione, che noi siamo afflitti per i nostri peccati ». Cosi la vita cristiana è rappresentata da S. Paolo nell’Epistola come una arena dove bisogna lottare per riportare la corona. La mercede della vita eterna, dice anche il Vangelo, viene concessa solo a quelli che lavorano nella vigna di Dio e, dopo il peccato, questo lavoro è penoso e duro. « O Dio, domanda la Chiesa, accorda ai tuoi popoli che sono designati da te sotto il nome di vigne e di messi, che dopo aver sradicato i rovi e le spine, sono atti a produrre frutti in abbondanza, con l’aiuto del nostro Signore » (or. del Sabato Santo – Or. Dopo l’8° profezia). « Nella sua sapienza – dice S. Agostino – Dio preferì ricavar il bene dal male anziché permettere che non accadesse nessun male » (6° lezione). Dio ebbe difatti pietà degli uomini e promise loro un secondo Adamo che ristabilisse l’ordine turbato dal primo. Grazie a questo novello Adamo essi potranno riconquistare il cielo sul quale Adamo aveva perduto ogni diritto essendo stato cacciato dall’Eden, che era l’ombra d’una vita (migliore) » (4° lezione). « Tu sei, Signore, il nostro soccorso nel tempo del bisogno e dell’afflizione » (Graduale); « presso di te è la misericordia » (Tratto); « fa che risplenda la tua faccia sopra il tuo servo e salvami nella tua misericordia » (Com.). Infatti, « Dio che creò l’uomo in una maniera meravigliosa, lo redense in modo più meraviglioso ancora (Oraz. dopo la 1° prof. del Sab. Santo), poiché l’atto della creazione del mondo al principio non sorpassa in eccellenza l’immolazione del Cristo, nostra Pasqua, nella pienezza dei Tempi ». Questa Messa, studiata in relazione alla caduta di Adamo, ci mette nella disposizione voluta per cominciare il tempo di Settuagesima e per farci comprendere la grandezza del mistero pasquale al quale questo Tempo ha per scopo di preparare le anime nostre. – Per corrispondere all’appello del Maestro che viene a cercarci fin nell’abisso dove ci ha sprofondati il peccato del nostro primo padre (Tratto), andiamo a lavorare nella vigna del Signore, scendiamo nell’arena e incominciamo con coraggio la lotta la quale si intensificherà sempre più nel tempo della Quaresima.
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps XVII:5; 6; 7
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.
[Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]
Ps XVII: 2-3
Díligam te, Dómine, fortitúdo mea: Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus.
[Ti amerò, o Signore, mia forza: Signore, mio firmamento, mio rifugio e mio liberatore.]
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.
[Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]
Oratio
Orémus.
Preces pópuli tui, quǽsumus, Dómine, cleménter exáudi: ut, qui juste pro peccátis nostris afflígimur, pro tui nóminis glória misericórditer liberémur.
[O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo: affinché, da quei peccati di cui giustamente siamo afflitti, per la gloria del tuo nome siamo misericordiosamente liberati.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor IX: 24-27; X: 1-5
Fratres: Nescítis, quod ii, qui in stádio currunt, omnes quidem currunt, sed unus áccipit bravíum? Sic cúrrite, ut comprehendátis. Omnis autem, qui in agóne conténdit, ab ómnibus se ábstinet: et illi quidem, ut corruptíbilem corónam accípiant; nos autem incorrúptam. Ego ígitur sic curro, non quasi in incértum: sic pugno, non quasi áërem vérberans: sed castígo corpus meum, et in servitútem rédigo: ne forte, cum áliis prædicáverim, ipse réprobus effíciar. Nolo enim vos ignoráre, fratres, quóniam patres nostri omnes sub nube fuérunt, et omnes mare transiérunt, et omnes in Móyse baptizáti sunt in nube et in mari: et omnes eándem escam spiritálem manducavérunt, et omnes eúndem potum spiritálem bibérunt bibébant autem de spiritáli, consequénte eos, petra: petra autem erat Christus: sed non in plúribus eórum beneplácitum est Deo.
[“Fratelli: Non sapete che quelli che corrono nello stadio corrono bensì tutti, ma uno solo riceve il premio? Correte anche voi così da riportarlo. Ognuno che lotti nell’arena si sottopone ad astinenza in tutto: e quelli per ottenere una corona corruttibile; noi, invece, una incorruttibile. Io corro, appunto, così, non già come a caso; così lotto, non come uno che batte l’aria; ma maltratto il mio corpo e la riduco in servitù: perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia riprovato. Non voglio, infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, e tutti passarono a traverso il mare, e tutti furono battezzati in Mosè nella nube e nel mare; e tutti mangiarono dello stessa cibo spirituale; e tutti bevettero la stessa bevanda spirituale; (bevevano infatti della pietra spirituale che li seguiva; e quella pietra era Cristo): pure della maggior parte di loro Dio non fu contento”].
Quando si tratta di vivere secondo la legge del Vangelo, tutto spaventa, tutto ripugna, tutto scoraggisce. Dio ci promette invano una gloria pura e durevole; invano ci offre una corona preziosa che non appassisce mai, una felicità piena, sovrabbondante, perfetta; e tutto ciò per qualche giorno, per qualche ora, per qualche momento di mortificazione. Vi sono scuse per tutte le età; non si ha mai salute abbastanza, siamo giovani troppo, troppo occupati, troppo delicati; ovvero siamo in età troppo avanzata; l’astinenza, il digiuno, sono al di sopra delle nostre forze. Ma pensiamoci bene, la corona che ci è preparata nel cielo non sarà ella al di sopra dei nostri meriti, e non l’avremo forse per sempre? Eleviamo dunque lo spirito nostro e il cuore verso Dio, chiedendogli quella rettitudine d’intenzione, quel distaccamento da ogni creatura, quella sobrietà di cui parla l’Apostolo, per la quale si usa dei beni di questo mondo come non facendone uso. O felice digiuno, ove l’anima tiene tutti i sensi privi del superfluo! O santa astinenza, ove l’anima saziata della volontà di Dio, non si nutrisce più della propria! Essa ha, come il suo divino Maestro, un altro pane col quale si nutrisce: pane che è al di sopra d’ogn’altra sostanza; che estingue tutti gli altri desiderj; vera manna che scende dal cielo, e ci fa pregustare l’eterne delizie. Prepariamoci a riceverla coll’astenerci, secondo il nostro potere, dal pane ordinario e comune, che è il nutrimento del nostro corpo.
(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P. e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).
Graduale
Ps IX: 10-11; IX: 19-20
Adjútor in opportunitátibus, in tribulatióne: sperent in te, qui novérunt te: quóniam non derelínquis quæréntes te, Dómine.
[Tu sei l’aiuto opportuno nel tempo della tribolazione: abbiano fiducia in Te tutti quelli che Ti conoscono, perché non abbandoni quelli che Ti cercano, o Signore]
Quóniam non in finem oblívio erit páuperis: patiéntia páuperum non períbit in ætérnum: exsúrge, Dómine, non præváleat homo.
[Poiché non sarà dimenticato per sempre il povero: la pazienza dei miseri non sarà vana in eterno: lévati, o Signore, non prevalga l’uomo.]
Tractus
Ps CXXIX:1-4
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam. O
[Dal profondo ti invoco, o Signore: Signore, esaudisci la mia voce.]
Fiant aures tuæ intendéntes in oratiónem servi tui.
[Siano intente le tue orecchie alla preghiera del tuo servo.]
Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit?
[Se baderai alle iniquità, o Signore: o Signore chi potrà sostenersi?]
Quia apud te propitiátio est, et propter legem tuam sustínui te, Dómine.
[Ma in Te è clemenza, e per la tua legge ho confidato in Te, o Signore.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
[Matt XX: 1-16]
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Simile est regnum coelórum hómini patrifamílias, qui éxiit primo mane condúcere operários in víneam suam. Conventióne autem facta cum operáriis ex denário diúrno, misit eos in víneam suam. Et egréssus circa horam tértiam, vidit álios stantes in foro otiósos, et dixit illis: Ite et vos in víneam meam, et quod justum fúerit, dabo vobis. Illi autem abiérunt. Iterum autem éxiit circa sextam et nonam horam: et fecit simíliter. Circa undécimam vero éxiit, et invénit álios stantes, et dicit illis: Quid hic statis tota die otiósi? Dicunt ei: Quia nemo nos condúxit. Dicit illis: Ite et vos in víneam meam. Cum sero autem factum esset, dicit dóminus víneæ procuratóri suo: Voca operários, et redde illis mercédem, incípiens a novíssimis usque ad primos. Cum veníssent ergo qui circa undécimam horam vénerant, accepérunt síngulos denários. Veniéntes autem et primi, arbitráti sunt, quod plus essent acceptúri: accepérunt autem et ipsi síngulos denários. Et accipiéntes murmurábant advérsus patremfamílias, dicéntes: Hi novíssimi una hora fecérunt et pares illos nobis fecísti, qui portávimus pondus diéi et æstus. At ille respóndens uni eórum, dixit: Amíce, non facio tibi injúriam: nonne ex denário convenísti mecum? Tolle quod tuum est, et vade: volo autem et huic novíssimo dare sicut et tibi. Aut non licet mihi, quod volo, fácere? an óculus tuus nequam est, quia ego bonus sum? Sic erunt novíssimi primi, et primi novíssimi. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”
[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fissare degli operai per la sua vigna. Avendo convenuto con gli operai un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. E uscito fuori circa all’ora terza, ne vide altri che se ne stavano in piazza oziosi, e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà giusto. E anche quelli andarono. Uscì di nuovo circa all’ora sesta e all’ora nona e fece lo stesso. Circa all’ora undicesima uscì ancora, e ne trovò altri, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché nessuno ci ha presi. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti dunque quelli che erano andati circa all’undicesima ora, ricevettero un denaro per ciascuno. Venuti poi i primi, pensarono di ricevere di più: ma ebbero anch’essi un denaro per uno. E ricevutolo, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora e li hai eguagliati a noi che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo. Ma egli rispose ad uno di loro, e disse: Amico, non ti faccio ingiustizia, non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi quel che ti spetta e vattene: voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso dunque fare come voglio? o è cattivo il tuo occhio perché io son buono? Così saranno, ultimi i primi, e primi gli ultimi. Molti infatti saranno i chiamati, ma pochi gli eletti.]
OMELIA
(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)
PRETESTI DI RIFIUTARE L’INVITO DI DIO
Si era alle soglie della primavera, e sui colli palestinesi i lavori delle vigne erano incominciati. Il Signore prese lo spunto dal lavoro della stagione e imbastì la sua parabola. Il padrone d’una vigna uscì ad ingaggiare operai a giornata. Era costumanza d’allora che i disoccupati desiderosi d’impiego si raggruppassero alla porta della città. Quivi, prima del sole, arrivò il nostro padrone. Prese quanti uomini poté trovare, e contrattò con loro il prezzo che venne fissato a un danaro. Buona paga per quei tempi, tanto che tutti accettarono volentieri. – I lavori dovevano essere arretrati e la stagione precoce: già le gemme si muovevano e c’era da sarchiare, da potare, da legare i tralci. Occorreva mano d’opera. Perciò il padrone uscì una seconda volta tre ore dopo, verso le nove del mattino, trovò altri operai e prese anche quelli. Eppure non bastavano ancora; uscì una terza volta a mezzo giorno, ed una quarta volta alle tre pomeridiane, e a quanti incontrava diceva: « Andate anche voi nella mia vigna, vi darò una paga conveniente ». Gli urgeva di finire in quel giorno. Ed uscì una quinta volta, che mancava soltanto un’ora al tramonto. Vide un crocchio di sfaccendati a godersi l’ultimo tepore di quel sole primaverile. « Perché state qui a sciupar tempo? ». – « Perché nessuno ci ha preso a giornata ». – « Ma andate nella mia vigna: c’è da fare anche per voi ». E fu sera. Ogni lavoro cessò. Il padrone ordinò al fattore di pagare gli operai, cominciando dagli ultimi venuti. Essi ricevettero un danaro. Allora alcuni, ma specialmente quelli che avevano lavorato tutto il giorno, cominciarono a borbottare. « Questi ultimi prendono come noi che abbiamo sopportato il peso e il caldo d’una giornata intera!… Non c’è giustizia! ». – Ma il padrone li udì, e affrontato il capoccia dei malcontenti: « Amico — gli disse — non ti fo torto: a te dò né più né meno del contratto. Prendi e vattene. Se agli altri voglio dar del mio, tu che ci perdi? Qui c’è giustizia; e c’è anche amore ». – La parabola racchiude molti punti da meditare, ma noi fermiamoci ora su uno solo, questo: il padrone della vigna chiama a lavorare tutti quelli che incontra, chiunque siano, in qualunque momento della giornata. Il padrone è Dio; la vigna è la Santa Chiesa di cui a ciascuno è affidata una porzione, cioè quella della propria anima; le varie ore della giornata sono le diverse età della vita. Ma purtroppo sono molti quelli che agli inviti ripetuti del Signore a provvedere al lavoro della propria santificazione, si esimono adducendo qualche pretesto. I pretesti più comuni sono due: le proprie condizioni sociali che impediscono di Pensare all’anima; il proprio carattere che non si riesce a modificare. PRIMO PRETESTO: IL PROPRIO STATO – Il proprio stato è determinato dal mestiere o dalla professione, dalla famiglia, e dall’ambiente sociale. Non è raro sentire così: « Non posso vivere la vita cristiana nelle condizioni in cui mi trovo: col mio mestiere, con la famiglia che ho, nell’ambiente in cui vivo, mi è impossibile ». Vi mostrerò che tutti sono pretesti che presso Dio non ci scusano, e sotto i quali sta mascherato il demonio o la nostra pigrizia. – a) Il pretesto del mestiere o della professione. — Il ricco crede che le ricchezze gli siano un’insuperabile ostacolo alla vita cristiana, perché impongono esigenze e abitudini contrarie al Vangelo e di cui non può fare a meno. Il povero invece sospira dietro i ricchi perché possono andare in automobile anche in paradiso: loro hanno danaro per far elemosine e per far dir Messe; loro hanno tutto il tempo e tutti i comodi per andare in chiesa. L’esercente dà colpa al mestiere se manca al precetto festivo, se è costretto ad arrangiarsi torcendo un tantino il collo alla giustizia. L’operaio accusa il lavoro di impedirgli di pregare; accusa le strettezze familiari se vive da anni in peccato mortale: « Bel dire i preti! si trovassero al nostro posto! ». – La madre di famiglia s’illude che soltanto nel convento sia facile salvarsi. Il professionista incolpa la professione che lo assorbe giorno e notte e che lo mette in un groviglio di cose donde la coscienza esce compromessa. Eppure S. Giovanni ebbe una visione che dimostra come in ogni mestiere o professione sia possibile salvarsi. Rapito in estasi un giorno vide la moltitudine degli eletti in paradiso, segnati sulla fronte col glorioso sigillo della redenzione. Della tribù di Levi, che era nel popolo giudeo la tribù dei sacerdoti, vide ben dodicimila salvati. Quanti ne vide egli poi della tribù di Giuda, ch’era quella dei principi e della stirpe reale? ancora dodicimila. Ed altrettanti ne vide della tribù d’Efraim, ch’era quella dei commercianti, è degli artigiani… (Apoc., VII, 2-8). Dunque sia dalla tribù regale, come dal ceto popolare, come dalla casta sacerdotale i salvati erano moltissimi. Nel regno dei cieli accanto ad Abramo, che possedeva immense ricchezze, c’è il mendico Lazzaro, che non aveva neppure le briciole; accanto a Samuele giudice e governatore, c’è Abele pastore e coltivatore dei campi. – b) Il pretesto dell’ambiente familiare. — Si racconta di un giovane monaco c’era molto suscettibile, e bastava la minima disattenzione d’un compagno nel parlare o nel fare, perché tosto s’accendesse di rabbia, e uscisse in parole più che scortesi, e poi perdesse il raccoglimento e la voglia di pregare. Onde disse a se medesimo: «Voglio andare nel deserto dove non c’è persona che mi possa turbare: là in un momento diventerò santo ». E così fece. Ma tornando un dì alla sua grotta con una scodella piena d’acqua, avendola posta in terra, o fosse stato il vento o fosse stato il demonio, la trovò rovesciata. Subito gli montò il sangue alla testa, si precipitò sulla scodella come fosse una cosa viva, e la percosse col piede. Passato quel momento di furia, rinsavì, e guardando mestamente i cocci disse: « Ecco, anche nel deserto mi prendono le arrabbiature: il male non era dunque nell’ambiente, ma in me. Non era il convento da abbandonare ma il difetto… ». E ritornò a vivere dov’era prima, imparando a sopportare i diversi caratteri dei monaci, e facendo violenza contro la sua orgogliosa passione predominante. Di modo che, coll’aiuto di Dio e coll’andar del tempo, divenne un santo monaco, e visse in gran pace di cuore (S. ANTONINO; Opera a ben vivere, Firenze, Fiorentina, 1923, p. 47). La storia di questo monaco dovrebbe insegnar molto a tanti genitori che dan la colpa dei loro peccati ai figli, di tante donne che si scusano di non potersi santificare a motivo di loro marito, o viceversa. Sono pretesti. « Se non avessi quel figliuolo, se non ci fosse quella cognata, e mio marito avesse un altro carattere, se non ci fosse quella malattia, quella miseria… » e così sognando una condizione familiare che non avranno mai, tralasciano di santificarsi a quella condizione dove realmente vivono, e dove soltanto possono salvare l’anima. Occorre fare come quel giovane monaco: abbandonare il deserto delle fantasie, ritornare per sé e per gli altri, pregare… S. Rita da Cascia divenne santa con un marito ubriacone. – c) Il pretesto dell’ambiente sociale. — Bisognerebbe — pensano alcuni per scusarsi — che il mondo fosse diverso: che non ci fossero quei luoghi di divertimento, se non incontrassi quegli amici, che non lavorassi in quell’ufficio, in quell’officina, se non servissi in quella casa… bisognerebbe che tutti agissero onestamente. Forse che i primi Cristiani, quelli che seppero dare anche il sangue per la fede, vissero in un mondo migliore del nostro? Forse che i santi fiorirono appena nei chiostri, non anche alla corte dei re (S. Elisabetta regina d’Ungheria, S. Luigi re di Francia, S. Enrico imperatore tedesco, S. Edoardo re d’Inghilterra), non anche sotto le armi (S. Sebastiano, S. Martino, S. Giovanna d’Arco)? Forse che non sono uomini del nostro tempo i professori Contardo Ferrini e Giulio Salvadori, i dottori Necchi e Moscati?… – Non è l’ambiente sociale da incolpare, ma la fiacca nostra volontà, la paura dei sacrifici. – SECONDO PRETESTO: IL PROPRIO TEMPERAMENTO. « Bisognerebbe essere fatti come i santi — dicono molti. — Non sentire quello se sento io, tutto il giorno; non avere un sangue infiammabile come il mio ». a) Ebbene, i santi erano proprio fatti come noi; sentivano gli stessi stimoli perversi, ma non si lasciavano travolgere; avevano lo stesso sangue infiammabile ma non si lasciarono incendiare. – Che cosa sperimentava S. Paolo se non le stesse nostre passioni, quando scriveva: «C’è una forza nella mia carne che fa guerra alla legge di Dio e vorrebbe farmi schiavo del peccato: ah, chi mi libererà da questa tortura? » (Rom. VII, 23-24). Ed era forse per divertimento che S. Bernardo si buttò nudo sulla neve, e San Francesco sulle spine della siepe? – S. Teresa del Bambino Gesù, quando a quindici anni si trovò nella rude clausura del Carmelo di Lisieux, ella che veniva da una ricca famiglia nido d’ogni squisita dolcezza, fu presa da un irresistibile bisogno d’essere amata, d’essere accarezzata. E se passava davanti alla cella della Madre Superiora, la prendeva una folle tentazione d’entrare; di avere da lei almeno una dolce parola, almeno uno sguardo affettuoso, un palpito muto di compatimento. Il suo cuore di fanciulla espansiva si ribellava alla gelida austerità di quella vita: le sarebbe tanto piaciuto diventare la beniamina di qualche suora, e ritrovare sotto le altre forme quell’amore umano a cui aveva rinunziato. « Ah; è per questo che sei venuta al Carmelo?…» diceva allora a se stessa in tono di rimprovero; e si afferrava alle sbarre della scala, perché il vento della tentazione non la trasportasse là dove non voleva. Se avesse ceduto, la Chiesa avrebbe una grande santa di meno. – Anche a lei dunque la virtù costava, come costa a tanti giovani e a tante figliuole quando vorrebbero uscir di casa; cercare un incontro, un colloquio, uno sguardo come costa a tutti quelli che vogliono tenere il proprio cuore sotto la custodia della legge santa di Dio. b) Forse qualcuno penserà che i santi avevano grazie speciali, per cui la vittoria spirituale era, se non facile, sicura: È vero, senza dubbio, che essi ebbero grazie particolarissime. Ma non è meno vero che le grazie non mancano neppure a noi « Padre! — disse una volta a S. Antonino arcivescovo di Firenze una buona mamma raccomandandogli il figlio un po’ sviato. — Pregate Dio che gli tenga la sua santa mano in testa ». «Sì — rispose il santo — Ma voi pregate il vostro figliuolo che tenga la testa ferma sotto quella santa mano ». La mano in testa, Dio la tiene sempre anche su noi; ma purtroppo non sempre noi ci teniamo sotto la testa. La parola evangelica racchiude un conforto e un monito. Un conforto, perché qualunque sia la nostra età e il nostro passato, Dio c’invita. Un monito, perché nessuno sa, se rifiutando il presente invito, Dio tornerà a chiamarci in un’altr’ora. E se la sera della vita ci sorprendesse ancora oziosi?… – Un re di Persia chiamò i tre più famosi sapienti del suo regno e chiese qual cosa al mondo stimassero più orribile. Il primo rispose: « La più orribil cosa è cadere ammalati ». Il secondo rispose: « La più orribil cosa è diventar vecchi ». Il terzo pensò a lungo, e disse: « La più orribil cosa è trovarsi davanti la morte ed accorgersi che tutta la vita fu sciupata in futilità ». Questo, Cristiani, è orribile davvero. Lavoriamo alacremente nella vigna dell’anima nostra, perché non ci capiti di sperimentarlo. – Togliamo il velo della parabola degli operai chiamati alla diversa ora. Il padre di famiglia, già l’avete indovinato, è lo stesso Cristo; la vigna da lavorare è l’anima da salvare con l’esercizio quotidiano delle virtù e delle buone opere; gli operai siamo tutti noi, grandi e piccini, ricchi e poveri, invitati fin dalla tenera puerizia, chiamati in ogni età, sollecitati fin nella tarda vecchiezza. – Nella parabola tutti quelli a cui fu rivolto l’invito, l’accettarono. Nella vita, purtroppo, avviene ben diversamente, e molti sono quelli che non si mettono a lavorare. Consideriamo le risposte più consuete ch’essi dànno al Signore, e mettiamo a nudo lo specioso pretesto ivi nascosto: Non vengo: ora è troppo presto. Non vengo: ormai è troppo tardi. Non vengo: fan tutti così. ORA È TROPPO PRESTO. Questa scusa è specialmente dei giovani, ma è anche di molti che già sono in là con gli anni. Ad ogni modo, la si dica in qualsiasi età, essa è sempre stoltissima. E per due motivi: primo, perché non è mai troppo presto mettersi a salvar l’anima; poi, perché non si sa mai quanto manca a sera. – a) Non è mai troppo presto mettersi a salvar l’anima. San Giovanni Crisostomo non riusciva a capire come si potesse pensare il contrario, e moltiplicava i paragoni, per rendere a tutti evidente l’inescusabile sciocchezza di ritardare la propria conversione. – Diceva: Se un uomo: s’ammala, subito chiama il medico, e lo paga senza farsi rincrescere, e gli obbedisce con scrupolosa esattezza, sottoponendosi a cure fastidiose, lunghe, dolorose anche. Invece per l’anima, che da anni è inferma, è ferita, aspetta. Che cosa si aspetta? che sia incancrenita irrimediabilmente? Diceva ancora: Se un improvviso incendio s’appicca alla nostra casa, subito si grida, si corre, si implora aiuto, si porta acqua da tutte le parti, si trepida finché il fuoco non sia del tutto spento. Invece per l’anima invasa dalle fiamme dell’ira, dell’odio, della lussuria, non si grida aiuto nella preghiera, non si corre tosto alle fonti del Salvatore, cioè ai Sacramenti; ma si aspetta. Che cosa si aspetta? Che sia bruciata irrimediabilmente? E ancora diceva: — Se casca un bambino nel torrente, suo padre o sua madre, adendo il suo grido, si precipitano rapidi come il vento. Invece d’un bambino, è caduta l’anima nostra nel torrente dei peccati, nell’abisso della rovina: voi udite la sua straziante implorazione; e rispondete: « adesso è troppo presto ». Che cosa si aspetta? che sia affogata irrimediabilmente? – Se una compagnia di navigazione trasportasse un carico prezioso su di una nave che fa acqua, con massima solerzia e fatica i marinai attenderebbero notte e giorno a riparare le falle, a manovrare le pompe, a difendere i motori, per guadagnare il porto. Ma non vedete che l’anima vostra è una nave che fa acqua d’ogni parte? E voi dite: « Adesso è troppo presto ». Che cosa aspettate? che sia sprofondata irrimediabilmente. – b) Un altro motivo rende ancora più deprecabile la stoltezza, la cecità degli uomini che differiscono il lavoro per la salvezza della loro anima: l’incertezza dell’ora della sera. Pensiamo che nella vita la sera non ha un’ora fissa come nella giornata, ma può prescindere bruscamente a mezzo la puerizia, o la fanciullezza, o la virilità. Quando meno l’aspettiamo, quell’ora discende. Che sarà di noi se c’incoglie senza aver lavorato intorno alla vigna dell’anima nostra? Resteremo privi della mercede promessa, cioè della beata vita eterna, e saremo condannati a un tormento senza fine. Scuotiamoci dunque dall’ozio spirituale, mettiamoci a lavorare; perché non ci venga meno quella mercede che solo importa. Chi deve accostarsi ai sacramenti, s’accosti subito; chi ha una restituzione da fare, restituisca; chi ha una passione da vincere, la vinca; chi ha un’occasione da abbandonare, l’abbandoni. Ognuno adempia i doveri del proprio stato; santifichi le feste del Signore, rispetti le leggi della Chiesa; faccia secondo le sue possibilità l’elemosina. – ORMAI È TROPPO TARDI. Quest’astuto perditore di anime che è il demonio, dopo averle rovinate coll’indurle a procrastinare, tenta di perderle gettandole nella disperazione. « Ormai è troppo tardi ». Quest’amara parola può essere pronunciata con un triplice senso di scoraggiamento: o per mancanza di tempo, o per mancanza di forze, o per mancanza di fiducia in Dio. – Per mancanza di tempo. Se un uomo, in un momento di lucidità interiore, contemplando la sua vita tutta immersa nell’iniquità, persuaso che occorrerebbero molti anni di penitenza e di pianto per riparare a tanti scandali, cancellare tanti peccati, mi dicesse: « Per me è troppo tardi: non c’è più tempo », io gli risponderei con la parabola d’oggi: « Coraggio, operaio dell’undecima ora! Alla sera della vita saremo giudicati dall’amore con cui avremo lavorato. In pochissimo tempo si può lavorare con tanta generosità e intensità d’amore da raggiungere la misura d’una lunga serie d’anni ». – Per mancanza di forze. Se un altro uomo, dopo aver dissipato tutti i sentimenti del suo cuore versandoli nel fango, dopo aver impresso una rigida piega nel male a tutte le sue energie, ormai si sentisse incapace di raddrizzarle nel bene, e rimpiangendo l’antica innocenza disperasse di poterla riacquistare e mi dicesse: « Per me è troppo tardi: non ho più forze per essere buono », io gli risponderei con la parabola d’oggi: « Coraggio, operaio dell’undecima ora! La grazia di Dio può fare ciò che è impossibile alla natura. Se le forze sono illanguidite, essa può rinvigorirle; se sono esaurite, essa può ricrearle al bene. La grazia rinvergina il cuore, purgandolo dai maligni fermenti, ridona il candore dell’innocenza, il profumo della bontà ». – Per mancanza di fiducia in Dio. Se, infine, un altro uomo ancora, aprendo di colpo gli occhi sulla moltitudine dei suoi peccati, sulla gravità delle sue ribellioni, più non osasse sollevare lo sguardo al cielo, e mi dicesse: « Per me è troppo tardi: non c’è più perdono », io gli risponderei: « Coraggio, operaio dell’undecima ora! Nessuno può diventare cattivo quanto Dio è buono. L’iniquità di tutti gli uomini insieme è una goccia in confronto all’oceano senza rive della misericordia divina ». – Insomma, sotto qualsiasi forma d’abbattimento il demonio vi possa tentare, Cristiani, ricordatevi sempre degli operai dell’undecima ora. È uno dei punti più commoventi e incoraggianti di tutto il Vangelo. Il giorno se ne andava di già, eppure furono ancora chiamati; si misero al lavoro, quando gli altri riunivano gli arnesi; avevano appena dimostrata la loro volontà che furono chiamati alla ricompensa. E la ricompensa fu grande, fu piena come se avessero lavorato una giornata intera. Non è mai troppo tardi per lavorare alla nostra salvezza. Finché c’è un fiato di vita, l’ora undecima non è finita. – FAN TUTTI COSÌ. C’è una terza risposta che molti dànno a Cristo per esimersi dal lavoro spirituale a cui li invita: « Fan tutti così! ». Il Signore dice a quel padre di famiglia, a quell’impiegato, o a quell’operaio: «Tu approfitti di una forma di guadagno che non è lecita: smettila, e pensa all’anima tua che deperisce ». Egli sente una irrequietudine nella coscienza, capisce che nei suoi atti c’è qualcosa di torbido, ma risponde: « Fan tutti così! Soltanto io devo fare lo scrupoloso, l’ingenuo, lo sciocco, e trascurare il mio interesse?… ». Anche ai tempi di Noè, caro Cristiano, tutti ridevano, ballavano, mangiavano, ed egli solo, il buon patriarca, s’affannava a costruire un arnese strano che sembrava una pazzia; ma poi venne il diluvio. Buon per Noè che non fece come avevano fatto tutti. – Il Signore dice a certi sposi: « La vostra maniera d’intendere la vita coniugale è gravemente peccaminosa… Oltraggiate Dio, infangate la vostra dignità umana e cristiana, dissacrate e contaminate la famiglia ». Essi sentono nel cuore, ad intervalli almeno, una strana malinconia, un malessere di non sentirsi a posto, un timore di sventura, ma rispondono: « Fan tutti così. Ci canzonerebbero come insipidi cretini se ci mettessimo ad osservare la legge di Dio. Il medico, la levatrice, gli amici, i conoscenti, tutti ci segnerebbero a dito, quasi fossimo incapaci di prendere la vita come va ». Anche ai tempi di Loth, cari Cristiani, tutta una città corrotta e depravata rideva malignamente di lui e della sua famiglia, perché viveva secondo il giusto e l’onesto: ma poi piovve il fuoco su Gomorra. Buon per Loth che non fece come avevano fatto tutti. Ricordiamo la sentenza con cui termina la parabola d’oggi, i chiamati sono molti, ma gli eletti pochi. Quale conseguenza dovremo tirare da siffatto proverbio? Questa: Viviamo coi pochi per salvarci coi pochi. Che cosa fanno i molti? – Voi lo vedete: pensano a guadagnare denari e roba, pensano a divertirsi sfogando tutte le passioni, pensano a godere più che possono in questo mondo. Il loro paradiso è quaggiù. – Che cosa fanno i pochi? Voi lo sapete: temono e amano il Signore; mortificano le disordinate passioni, abbondano in opere buone; vivono da pellegrini sulla terra, perciò, pur usando secondo il bisogno delle cose di questo mondo, si guardano bere dall’attaccarvi il cuore; sanno che la loro patria è il cielo, perciò sopportano volentieri i sacrifici quotidiani, e stanno sempre preparati alla morte. La quale, del resto, a loro non fa tanta paura. Seguiamo i pochi. – Molti secoli fa, un Papa (Papa Formoso del sec. IX) aveva fatto eseguire bellissime pitture nella basilica di S. Pietro. Poi vennero giorni di crudele prepotenza, i suoi avversari lo presero e lo gettarono nel Tevere in piena. Passò molto tempo, e i monaci scopersero sulla riva del fiume, quasi alla foce, il cadavere del Pontefice. Lo ricomposero degnamente, e in processione lo trasportarono pregando, a Roma. Quando il feretro entrò in S. Pietro, si racconta che le immagini dei Santi da lui fatte dipingere, sorrisero e s’inchinarono all’arrivo del suo cadavere. – Cristiani, ogni opera buona, ogni lavoro che facciamo intorno all’anima nostra, sono pitture eseguite per la basilica eterna del cielo. Quando, trasportati dagli Angeli, dopo la morte, vi entreremo, esse ci sorrideranno, si inchineranno al nostro arrivo. Saranno la nostra consolazione, e l’omaggio che presenteremo a Dio per ricevere da Lui la ricompensa.
Seduto ad un tavolo, davanti a dei mucchietti di danari, l’amministratore chiamava gli operai, cominciando dagli ultimi venuti. Questi che avevano lavorato appena un’ora, e per di più quando il calore e il sudore non fastidiva, ricevettero un danaro. Allora coloro che avevano sarchiato fin dal mattino cominciarono a sperare più del convenuto: e invece anch’essi ricevettero un danaro. Perciò, postisi a mormorare, senza riguardo alcuno, dicevano: « È una ingiustizia bell’e buona! Sgobbare tutta la santa giornata, lasciarci bruciare il cervello sotto il sole, e poi… e poi essere trattati come avessimo lavorato un’ora appena! ». Alzarono talmente la loro voce villana che il padrone, venuto ad assistere la paga, udì. Non fece complimenti: acciuffò il più impertinente e gli disse: « Camerata, che c’è da borbottare? Se voglio regalare il mio danaro a chi più mi piace, sarai tu a proibirmelo? Se hai l’occhio cattivo, io non cesso d’essere buono; e se anche a quest’ultimo voglio dare come a te, non ti faccio ingiustizia ». E tagliò corto; levando la voce così che tutti l’udirono, disse: « Prenditi ciò che ti spetta e vattene! ». Com’è vera ancora questa parabola del Signore! Come punge in pieno anche la nostra coscienza! Egli è buono, Egli è generoso, Egli è giusto: ma il nostro occhio è cattivo: Oculus tuus nequam est. Da qui hanno origine tutte le mormorazioni e le invidie, mormorazioni ed invidie che son la ruggine consumatrice della nostra vita. MORMORAZIONI. Quando l’itterizia colpisce un uomo, a questi la vista s’intorbida: un velo giallo si stende davanti al suo sguardo, su tutte le cose. Giallo egli trova il prato, giallo il lago, giallo il cielo, gialli i fiori, sempre e da per tutto quell’antipatico giallo… Vi è anche un’itterizia spirituale, e chi ne è sgraziatamente colpito vede male in tutti: anche le persone più integerrime per lui son macchiate, anche le azioni più diritte da lui sono male interpretate. Non contento di scovare i difetti altrui sente nella lingua il prurito di manifestarli ed è inquieto se non ha trovato modo di sfogare il suo veleno: ed ecco le innumerevoli mormorazioni. Ma chi mormora ha l’occhio cattivo: 1) perché tra molte virtù vede soltanto il difetto; 2) perché il difetto veduto esagera ed estende fino a farlo diventare un’abitudine; 3) perché vede solo le apparenze esterne e non la realtà interna. – a) Ecco una nuora che mormora della suocera: «Se sapeste, che donna incontentabile! ». Sarà anche vero; ma perché non ha visto come è donna precisa, laboriosa, paziente, pia?… Ecco un uomo che mormora d’un suo compagno»: « Se sapeste, come è goloso! ». Sarà vero anche; ma perché non ha visto come è laborioso, caritatevole, sincero?… Oculus tuus nequam. – b) Un tale fu visto una volta a rubare qualcosa e subito c’è chi prova gusto a mormorare di lui dicendo: «È un ladro ». Un altro una sera tornò a casa alticcio, e subito c’è chi si compiace a mormorare di lui, dicendo: «È un ubriacone» Una rondine non fa primavera, e perché deve bastare un atto o due per giudicare un uomo? Anche il sole si è fermato una volta per favorire la vittoria di Giosuè, ed un’altra volta s’è oscurato per piangere la morte del Salvatore: nessuno per questo dirà che il sole appaia immobile o sia scuro. Anche Noè e Loth una volta bevvero troppo: nessuno però oserà chiamarli alcoolizzati. Anche Pietro una volta tagliò l’orecchio a un servo, e spergiurò il vero: nessuno lo giudicherà un sanguinario o uno spergiuro. – c) E poi, benché un uomo sia stato vizioso per lungo tempo, non dobbiamo giammai osare di giudicarlo tale: chi può vedere nel suo interno? chi può dire che non sia convertito? È appunto quel che capitò a Simone il lebbroso quando disse a Gesù: « Vedi quella donna? è una peccatrice ». Si trattava della Maddalena. Ma l’imprudente mormoratore si udì rispondere: « Simone lebbroso: io ti dico che questa donna è più santa di te ». – Quanto sono sagge le parole di S. Francesco di Sales nella Vita Divota: « Poiché la misericordia di Dio è così grande che un sol momento basta per impetrare e ricevere la sua grazia, qual certezza possiamo avere se un uomo che ieri era peccatore lo sia anche oggi? Il giorno passato non deve pregiudicare il giorno presente: non c’è che l’ultimo giorno il quale può giudicare tutti gli altri ». – Davanti a queste fini considerazioni dei Santi, noi, così spregiudicati e grossolani ci sentiamo una vampa di rossore salire in volto, e ci sentiamo in cuore il pungolo di troppi rimorsi. « Ohimè! — diciamo col profeta Isaia — sono un uomo dalle labbra immonde e abito in mezzo ad un popolo dalle labbra immonde ». Anche a noi, o Signore, manda il tuo Serafino con in mano un carbone acceso per purificarci la bocca da ogni mormorazione (Isaia, VI; 55). – INVIDIA. Chi ha l’occhio cattivo tutto il corpo ha cattivo e torbido.E l’occhio cattivo l’hanno non solo i mormoratori, ma anche gli invidiosi il cui sguardo è pieno di malvagità come quello del demonio quando scorgeva Adamo beato nel terrestre paradiso. Ogni bene del prossimo li rattrista, come fosse cosa di loro spettanza ed a loro rapita. Ogni sventura del prossimo li rallegra, come fosse per loro un guadagno. Oculus nequam: occhio malvagio che tutto il corpo rende malvagio: mente, cuore, mani. La mente non sa più pensare in bene. Colui che prima ci pareva meritevole di lode, appena sorge l’invidia ci par tutto diverso da quel che era. Ciò che prima era devozione in lui, diventa ora per noi ipocrisia: quel che era generosità è ora audacia; quel che era forza ora è prepotenza. E non è ch’egli sia cambiato, è il nostro occhio che è cattivo. Il cuore non sa più avere pace. Se ascoltiamo le lodi della persona invidiata, subito una lama gelida taglia la nostra anima, come se quegli encomi fossero rimproveri per noi. Se riacquista salute dopo una malattia, ci sentiamo oppressi noi dalla febbre e dai deliri che l’hanno lasciato. Se il suo campo, la sua bottega, i suoi affari prosperano non possiamo dormire in pace, come se una forza maligna minacciasse la fortuna del nostro campo, della nostra bottega, dei nostri affari. – Il cuore dell’invidioso è il carnefice di se stesso e non solo deve soffrire per i propri dolori, ma anche per le gioie degli altri. – Le mani dell’invidioso sono capaci di tutto: di prendere un ferro e cacciarlo nel petto del proprio fratello, come fece Caino; di spingere l’innocente in una cisterna, come fecero i fratelli di Giuseppe; di rapire la vigna di un povero come fece Acab; di avvelenare l’acqua del pozzo come han fatto certi invidiosi per il selvaggio gusto di privare i Giudei d’un bene invidiato. – Udite! da tutti i villaggi, da tutte le città risuonano liete canzoni di vittoria. Il Filisteo è stato sconfitto e le fanciulle intonano un canto che ha questo ritornello: «Ne uccise Saul mille e David dieci mila ». Saul il re ascolta: ha invidia. Da quel giorno — dice la Scrittura — non poté più vedere Davide se non con occhi malvagi. Non rectis oculis Saul aspiciebat David a die illa. E l’occhio malvagio rese malvagio tutto il corpo. Malvagia la mente: «Come? — andava rimuginando in sé quell’invidioso —Ne hanno assegnato dieci mila a Davide e a me non ne dan che mille. Chi è? un fanciullo imberbe, il figlio di un mio servo di Betlem, un custode di mandre ». E non ricordava più che David era il vittorioso uccisore del gigante.Malvagio il cuore, che si era gonfiato d’odio implacabile: anzi, la Storia lo dice, uno spirito maligno era venuto in quel cuore invidioso ad abitare. Exagitabat cum spiritus nequam. Malvagia la mano che un giorno afferrò una lancia e la scagliò con la bramosia d’inchiodar Davide sul muro. Ma Davide per due volte sfuggì. – Il vecchio Tobia era divenuto cieco: ma il suo figliuolo guidato da un Angelo portò a casa un pesce pescato nel Tigri; col fiele di quel pesce spalmò le spente pupille del padre dalle quali caddero subitamente delle squame biancastre. E il cieco riebbe la vista. Anche noi abbiamo gli occhi malati. Ed il Signore, oggi, per mezzo del suo Angelo che è il sacerdote, ci manda la parabola pescata nel suo Vangelo. Possa essa guarire la nostra vista. Ci faccia vedere come tutti siamo fratelli e membri di un corpo unico, il mistico Corpo di Cristo. Ci tolga ogni squama malvagia che c’induce a mormorare e a portare invidia al nostro prossimo.
Offertorium
Orémus
Ps XCI:2
Bonum est confitéri Dómino, et psállere nómini tuo, Altíssime.
[È bello lodare il Signore, e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]
Secreta
Munéribus nostris, quæsumus, Dómine, precibúsque suscéptis: et coeléstibus nos munda mystériis, et cleménter exáudi.
[O Signore, Te ne preghiamo, ricevuti i nostri doni e le nostre preghiere, purificaci coi celesti misteri e benevolmente esaudiscici.]
https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/
Communio
Ps XXX: 17-18
Illúmina fáciem tuam super servum tuum, et salvum me fac in tua misericórdia: Dómine, non confúndar, quóniam invocávi te.
[Rivolgi al tuo servo la luce del tuo volto, salvami con la tua misericordia: che non abbia a vergognarmi, o Signore, di averti invocato.]
Postcommunio
Fidéles tui, Deus, per tua dona firméntur: ut eadem et percipiéndo requírant, et quæréndo sine fine percípiant.
[I tuoi fedeli, o Dio, siano confermati mediante i tuoi doni: affinché, ricevendoli ne diventino bramosi, e bramandoli li conseguano senza fine.]
https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/
https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/
https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/