CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: MARZO (2022)

CALENDRIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: MARZO 2022

MARZO È IL MESE CHE LA CHIESA DEDICA A S. GIUSEPPE

padre putativo di Gesù, e protettore della Chiesa Cattolica.

È comune e pia credenza dei fedeli, che i Santi in Paradiso abbiano uno zelo ed una potenza particolare di ottenerci quelle medesime grazie, di cui essi furono favoriti mentre si trovavano ancora su questa terra. Ed è perciò che noi ricorriamo, per esempio, a S. Luigi Gonzaga per ottenere la virtù della santa purità, a S. Maria Maddalena per acquistare lo spirito di penitenza, a S. Tommaso d’Aquino per conseguire la scienza delle cose celesti, a S. Bernardo per accrescere in noi la divozione a Maria, e così ad altri Santi per altre grazie. Ora, sebbene, come abbiamo già detto, S. Giuseppe sia stato da Dio favorito di ogni genere di grazie, è certo tuttavia che una delle più singolari fu per lui la grazia di fare una morte tanto preziosa e beata tra le braccia di Gesù e di Maria. E perciò senza dubbio, dopo la Vergine, nessun altro Santo è più zelante di ottenere una simil grazia a noi e più potente ad acquistarcela dal suo caro Gesù, di quello che lo sia S. Giuseppe. Che non faremo adunque per procacciarci una santa morte! Alla fin fine è questa la grazia delle grazie, perché se moriremo bene, in grazia di Dio, saremo salvi per tutta l’eternità, ma se invece moriremo male, senza la grazia del Signore, saremo eternamente perduti. Raccomandiamoci pertanto a questo possente protettore dei moribondi S. Giuseppe. Non lasciamo passar giorno senza ripetere a lui, a Gesù ed a Maria, con tutto il fervore dell’anima, queste ardenti preghiere: Gesù, Giuseppe e Maria assistetemi nell’ultima agonia; Gesù, Giuseppe e Maria spiri in pace con voi l’anima mia. – Ma ricordiamoci bene, che raccomandarsi a questo Santo per una buona morte è cosa certamente utile e bella, ma non del tutto sufficiente. Conviene che anzi tutto facciamo quanto sta in noi per menare una vita veramente cristiana, perché in generale la morte non è che l’eco della vita stessa. Conviene che subito riandiamo con la nostra coscienza per vedere se caso mai vi fosse il peccato mortale, affine di prontamente detestarlo e cancellarlo mediante una buona confessione. Conviene che subito ci mettiamo ad amare e servire Iddio di più e più alacremente del passato, perché ripariamo così al tempo perduto e ci affrettiamo ad accumulare quelle sante opere, le quali soltanto ci conforteranno nell’ultimo istante di nostra vita. Oh sì; se noi ci adopreremo con tutte le nostre forze per vivere veramente da buoni Cristiani, possiamo nutrire la dolce speranza di fare anche noi una santa morte: una morte, in cui Gesù verrà a confortarci per un’ultima volta colla sua reale presenza, anzi colla comunione di se stesso; una morte in cui Maria scenderà amorosa al nostro fianco per combattere e cacciare lontano da noi l’infernale nemico; una morte, in cui l’amatissimo nostro S. Giuseppe si troverà a noi dappresso per stenderci amorosamente la mano ed aiutarci a fare felicemente e lietamente i gran passo alla eternità.

[A. Carmignola: S. Giuseppe. Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1896)

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Memento nostri, beate Ioseph, et tuæ oration is suffragio apud tuum putativum Filium intercede; sed et beatissimam Virginem Sponsam tuam nobis propitiam redde, quæ Mater est Eius, qui cum Patre et Spiritu Sancto vivit et regnat per infinita sæcula sæculorum. Amen.

(S. Bernardinus Senensis).

(Indulgentia trium annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem oratio devote recitata fuerit (S. C. Indulg., 14 dec. 1889; S. Pæn. Ap., 13 iun.1936).

476

Ad te, beate Ioseph, in tribulatione nostra confugimus, atque, implorato Sponsæ tuæ sanctissimæ auxilio, patrocinium quoque tuum fidenter exposcimus. Per eam, quæsumus, quæ te cum immaculate Virgine Dei Genitrice coniunxit, caritatem, perque paternum, quo Puerum Iesum amplexus es, amorem, supplices deprecamur, ut ad hereditatem, quam Iesus Christus acquisivit Sanguine suo, benignius respicias, ac

Necessitatibus nostris tua virtute ope succurras. Tuere, o Custos providentissime divinae Familiæ, Iesu Christi sobolem electam; prohibe a nobis, amantissime Pater, omnem errorum ac corruptelarum luem; propitius nobis, sospitator noster fortissime, in hoc cum potestà te tenebrarum certamine e cœlo adesto; et sicut olim Puerum Iesum e summo eripuisti vitæ discrimine, ita nunc Ecclesiam sanctam Dei ab hostilibus insidiis atque ab omni adversitate defende: nosque singulos perpetuo tege patrocinio, ut ad tui exemplar et ope tua suffulti, sancte vivere, pie emori, sempìternamque in cœlis beatitudinem assequi possimus. Amen.

(Indulgentia trium (3) annorum. Indulgentia septem (7) annorum per mensem octobrem, post recitationem sacratissimi Rosarii, necnon qualibet anni feria quarta. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidiana orationis recitatio in integrum mensem producta fueri: (Leo XIII Epist. Encycl. 15 aug. 1889; S. C. Indulg., 21 sept. 1889; S. Paen. Ap., 17 maii 1927, 13 dee. 1935 et 10 mart. 1941).

477

O Ioseph, virgo Pater Iesu, purissime Sponse

Virginis Mariæ, quotidie deprecare prò nobis

ipsum Iesum Filium Dei, ut, armis suae gratiæ

muniti, legitime certantes in vita, ab eodem coronemur

in morte.

(Indulgentia quingentorum (500) dierum (Pius X, Rescr. Manu Propr., 11 oct. 1906, exhib. 26 nov. 1906; S. Pæn. Ap. 23 maii 1931).

Queste sono le feste di

MARZO 2022

2 Marzo Feria IV Cinerum    Simplex

4 Marzo S. Casimiri Confessoris    Semiduplex

                  I VENERDI

5 Marzo     I SABATO

6 Marzo Dominica I in Quadr.    Semiduplex I. classis

                  Ss. Perpetuæ et Felicitatis Martyrum    Duplex

7 Marzo S. Thomæ de Aquino Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

8 Marzo S. Joannis de Deo Confessoris    Duplex

9 Marzo S. Franciscæ Romanæ Viduæ    Duplex

                   Feria Quarta Quattuor Temporum Quadragesimæ    Simplex

10 Marzo Ss. Quadraginta Martyrum    Semiduplex

11 Marzo Feria Sexta Quattuor Temporum Quadragesimæ    Simplex

12 Marzo S. Gregorii Papæ Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

                  Sabbato Quattuor Temporum Quadragesimæ    Simplex

13 Marzo Dominica II in Quadr    Semiduplex I. classis

17 Marzo S. Patricii Episcopi et Confessoris    Duplex

18 Marzo S. Cyrilli Episcopi Hierosolymitani Confessoris et Ecclesiæ   

                    Doctoris    Duplex

19 Marzo S. Joseph Sponsi B.M.V. Confessoris    Duplex I. classis *L1*

20 Marzo Dominica III in Quadr    Semiduplex I. classis

21 Marzo S. Benedicti Abbatis    Duplex majus *L1*

24 Marzo S. Gabrielis Archangeli    Duplex majus *L1*

25 Marzo In Annuntiatione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex I. classis *L1*

27 Marzo Dominica IV in Quadr    Semiduplex I. classis

S. Joannis Damasceni Confessoris    Duplex

28 Marzo S. Joannis a Capistrano Confessoris    Semiduplex m.t.v.

LE VIRTÙ CRISTIANE (16)

LE VIRTÙ CRISTIANE (16)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO V.

Desiderio e amore grande di giustizia.

Quel medesimo divino Maestro, il quale, quando ci annunzia i dommi che si riferiscono a Dio, parla con una precisione di parola, che direi geometrica; adopera quasi sempre un’altra forma di linguaggio nell’insegnarci la sua morale. In questo caso egli, facendosi piccolo con i piccoli, non disdegna di parlare con molta semplicità, in parabole, o di usare il linguaggio immaginoso e colorito, in uso presso gli Orientali, e particolarmente presso il popolo d’Israele. E cotesto linguaggio Gesù l’usa, sia perché il popolo I’intende e l’imprime meglio anche nella fantasia e nella memoria, sia perché  in tutta la natura esteriore Iddio sapientissimo impresse l’immagine dello spirito umano, il quale è esso stesso immagine di Dio. Or, l’insegnamento della quarta beatitudine che è questo: Beati coloro che han fame e sete di giustizia, riesce sovranamente poetico e immaginoso nella forma, mentre che è altissimo e nobilissimo nella sustanza. Infatti, il moralista pagano si contentava di dire ama la giustizia; ma Gesù non si tenne pago a voler che amassimo la giustizia: comandò che la amassimo, avendone sempre sete e fame: lo che è molto più. – Per intendere il significato di questa beatitudine, sarebbe necessario di ben dichiarare che valga la parola giustizia nel linguaggio biblico. Ma il lettore non avrà dimenticato, io spero, ciò che fu detto di essa, nel luogo dove mi accadde di trattare delle virtù cardinali: e però basta qui farne una brevissima ricordanza. La parola giustizia nel senso biblico, e anche nel cristiano nato in gran parte dal primo, indica egualmente la virtù particolare, che ha questo nome, e altresì l’insieme di tutte le virtù genericamente prese. Or, anche in questa beatitudine, secondo l’insegnamento comune dei Padri della Chiesa, Gesù mirò all’uno e all’altro significato; e volle che il fedele avesse fame e sete della virtù particolare della giustizia, non meno che dell’insieme di tutte le virtù cristiane forse intese più specialmente a questo secondo significato, che è più comprensivo, e che, quando non ha altra aggiunta, meglio corrisponde al senso cui la Bibbia dà alla parola giustizia. L’immagine, scelta da Gesù, per esprimerci il proprio concetto è non solo vera, ma di una singolare efficacia. La fame e la sete sono due grandi e intensi stimoli della natura corporea; e sono stimoli che, mentre appagati, riescono principio di vita, si rinnovellano sempre, e non si chetano mai interamente, insino a che l’uomo resti nella vita presente. Infatti, non spunta mai il nuovo sole sull’orizzonte a indorare le cime dei monti ea rallegrare la natura, senza che l’uomo sano, il quale pure s’era sfamato e dissetato il dì avanti, non senta intenso il desiderio di nuovo cibo e di nuova bevanda. Parimente l’esser giusto non vale a spegner nell’animo del Cristiano la fame e la sete della giustizia. Egli, se è buono, e conosce e ama Iddio, desidera sempre, con intenso desiderio, nuova giustizia, o che è il medesimo, l’accrescimento della giustizia, onde si sente rallegrato. Anche per il giusto non deve mai sorgere un nuovo giorno, senza che egli non senta nuova fame e nuova sete di giustizia. Però colui, che, diventato giusto una volta, non ha nuovi desiderj di virtù, è Cristiano tiepido, e rassomiglia a quell’uomo infermo del corpo, che per effetto del morbo, da cui è travagliato, . non desidera punto un nuovo cibo e una nuova bevanda, che ne rinfranchino e ne accrescano le forze, – Ma ripieghiamoci un tratto su noi medesimi, e studiamo la natura del desiderare nell’uomo, Il desiderio, che, preso nel senso suo più stretto, è una voglia accesa di bene non presente e non posseduto, riesce cosa piena di misteri. Nei fatti umani spesso il possedimento del bene desiderato o spegne il desiderio precedente, o si muta nella voglia accesa di seguitare a possedere ciò che già si possiede. Nella vita beata ed eterna il possedere Iddio, e il desiderio accesissimo di seguitare a possederlo costituiscono, come sarà più lungamente dichiarato appresso, la felicità dell’Angelo e del comprensore. Nella vita presente poi, quando si tratti della virtù, accade questo, che l’uomo, prima di possedere il bene della virtù, lo desidera; e dopo, poiché la virtù acquistata è finita, imperfetta e iniziale, non se ne appaga del tutto. Allora si sente spinto dalla stessa natura, e molto più dalla grazia, a desiderarne l’accrescimento. Per questo rispetto il Cristiano si trova nelle condizioni di chi, avendo una gran fame e una gran sete, riceve un cibo e una bevanda scarsa; sicché né l’uno arriva a sfamarlo, né l’altra a dissetarlo del tutto. Naturalmente ei desidera nuovo cibo e nuova bevanda; proprio a quel modo che il Cristiano giusto desidera nuova giustizia. La sola differenza, sta in ciò, che l’accrescimento del cibo e della bevanda umana finiscono per appagare il corpo nostro, intanto che l’accrescimento della giustizia non appagherà mai lo spirito umano, prima di quell’ora beata, in cui, essendo arrivato nell’eterno regno, tutta la sua grandissima capacità umana verso il Bene sarà effettivamente riempita. Questo in vero è il grande e alto mistero dell’anima nostra, che, mentre essa è finita, ha avuto da Dio il dono di desiderare un Bene infinito, di tendervi, e di non acquetarsi mai insino a che non lo consegua. Però sant’Agostino insegna che tutta la vita del Cristiano è un continuo e santo desiderare. (Tract. IV, in Epist. S. Joan). Or questo insegnamento, oltre ad essere supremamente filosofico e profondo, riesce un commento alle cose già dette, e mi apre la via a una nuova considerazione, intorno a quella fame e sete di giustizia, che Gesù nella quarta beatitudine ci fece precetto di avere. Nella vita morale accade quel medesimo, che vediamo ogni giorno accadere nella vita intellettuale. Nella vita intellettuale della scienza, delle lettere, delle arti belle, o di qualsiasi altra coltura, è impossibile restare a lungo fermi in un punto. Chi non vuole imparare nuove cose, a costui incontra di disimparare quelle che già conosceva; e chi non si sforza di ricordare spesso le cose imparate, le dimentica o tutte o in parte. Insomma l’intelletto nostro, è di per sé attivo e operante. Quando si ferma a lungo in un punto, tosto si assonna e si addormenta; di che non solo nessun raggio di nuova luce lo ravviva e rallegra, ma, a poco a poco, perde l’antica, e si trova, quasi direi, al bujo. Non vediamo forse accadere ciò quasi sempre negli studi della gioventù, dei nostri tempi particolarmente? I quali studj, ancorché fatti bene e premurosamente, non lasciano traccia nella mente e nella memoria dei giovanetti, se, col crescer degli anni, i giovani si lascino andare ai passatempi o ai negozj o ai commerci della vita materiale. Ora proprio la stessa cosa avviene nella nostra giustizia, o, che è il medesimo nella nostra vita morale. Chi si ferma in essa e non vuol progredire, va indietro. Restare fissi in una certa mediocrità morale, che è pur tanto corrispondente alla fiacchezza dei nostri tempi, è impossibile. Di qui sorge la necessità di non appagarsi della giustizia posseduta; ma di esser sempre famelico e sitibondo di giustizia nuova. Fate che manchino questa fame e questa sete, tanto nobili e benefiche; e il giusto corre grave pericolo di andar con tanta retrogradazione indietro, da perdere proprio la giustizia, abbandonandosi alla vita delle basse cupidità e delle passioni. Né questo che io dico è teorica astratta. La quotidiana esperienza lo conferma, pur troppo, ad ogni passo. – Infine, come Gesù promette nella prima beatitudine un regno, nella seconda una terra, e nella terza una consolazione, così in questa quarta promette un satollamento: beati, dice, voi che avete fame e sete di giustizia, perciocché sarete satollati. È sempre lo stesso pensiero, espresso variamente. E il pensiero è questo, che la virtù ci fa beati nella vita eterna, e che altresì dalla virtù distillano alcune gocce di soavità e di dolcezza, anche nella vita presente. Sono queste gocce della nostra beatitudine terrena, come quei piccoli ruscelletti d’acqua, che scorrono lentamente tra le rocce, i quali in alcuni tempi scorrono e in altri si disseccano. Le gocce di quei ruscelletti disperse tra le rocce non bastano a dissetare chi ha gran sete, ma nondimeno se alcuno vi accosti le labbra, rinfrescano alquanto la persona, le fanno bene, e le arrecano sollievo. – Però l’insegnamento di questa quarta beatitudine non sta tanto nel raccomandare a ciascuno quell’insieme di tutte le virtù che è detto giustizia, o anche la virtù particolare della giustizia, quanto nel comandarci il progresso morale. È un progresso che, come ciascun altro viene alimentato dal continuo desiderio del bene, desiderio qui espresso sotto il simbolo della fame e della sete. È un progresso, nel quale mettono radice tutti gli altri; perché sta in una regione più alta e più comprensiva di ciascun’altra.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “SPECTATA FIDES”

Questa breve lettera Enciclica sottolinea l’importanza dell’educazione religiosa dei giovani nelle scuole, sia nell’apprendimento dei principi di fede, che di quelli morali cristiani: « … Invero, in tempi come questi, in cui tanti e diversi pericoli incombono ovunque sulla ingenua e tenera età dei fanciulli, a malapena si potrebbe escogitare alcunché di più opportuno che congiungere l’educazione letteraria con l’insegnamento della dottrina della fede e della morale… Il pernicioso errore di coloro i quali preferiscono che i fanciulli crescano senza alcuna educazione religiosa distrugge infatti tutta l’antica saggezza e reca danno allo stesso fondamento del vivere felice. » Cosa dire oggi, quando i giovani studenti delle scuole statali, volutamente non solo atee, ma anticristiane in ogni loro insegnamento, che spacciano ideologie che farebbero arrossire i più accaniti pagani di un tempo, il tutto accettato e sottoscritto – anche se ipocritamente non in modo diretto – dalle false autorità religiose, che millantano un Cristianesimo di facciata che copre vergognose realtà presenti addirittura nei seminari e nelle istituzioni accademiche oggi dominanti in modo sacrilego tutto l’orbe un tempo cristiano. Questa è una delle radici più perniciose della nostra ultrapagana società, che si pretende oltretutto libera e democratica, in verità corrotta ed aperta ad ogni vento di dottrine blasfeme ed ingiuriose verso Dio e la sua Chiesa, e sulla quale si abbattono, e continueranno ad abbattersi, mali tenebrosi e mortali, fisici e spirituali, schiava com’è di loschi e usurpanti figuri guidati dalle logge di perdizione e da entità manifestamente demoniache.

Leone XIII
Spectata fides

Lettera Enciclica

La vostra provata fede e la vostra singolare devozione verso questa Sede Apostolica mirabilmente risplendono nella lettera comune che di recente abbiamo ricevuto da voi. Essa giunge a Noi molto più gradita in quanto conferma chiaramente ciò che già sapevamo: che cioè gran parte della vostra solerzia e dei vostri pensieri è rivolta ad un’attività per la quale nessun impegno può essere tanto grande, da ritenere che nessun altro possa essere considerato di maggiore importanza. Ci riferiamo alla educazione cristiana dei vostri adolescenti, su cui di recente, ascoltati i consigli, avete preso utili provvedimenti che decideste di riferire a Noi. – Davvero è per Noi motivo di letizia che in un’impresa tanto importante voi, Venerabili Fratelli, non operiate da soli. Infatti non ignoriamo quanto sia dovuto, in proposito, all’intero ordine dei vostri Presbiteri, i quali ebbero cura di aprire scuole per i fanciulli, con somma carità e con animo indomito di fronte alle difficoltà; essi poi, assunto il compito di educare, con impegno e assiduità mirabile dedicano la loro attività ad indirizzare i giovani alla morale cristiana e ai primi studi letterari. Perciò, per quanto può la Nostra voce incoraggiare ancor più o contribuire a una meritata lode, continuino i vostri sacerdoti a rendersi benemeriti nei riguardi dei fanciulli e godano dell’approvazione e del particolare Nostro affetto, in attesa di ben altra consolazione da Dio Signore, per la cui causa essi si prodigano. Né riteniamo degna di minore considerazione la generosità dei cattolici a tal riguardo. Sappiamo per certo che essi con alacre impegno sono soliti provvedere a tutto il necessario per la tutela delle scuole; che ciò non è opera soltanto dei più dotati di censo ma anche dei meno abbienti e dei poveri; è atto nobile e magnanimo trovare spesso nella stessa povertà i mezzi da offrire lietamente per l’educazione dei fanciulli. Invero, in tempi come questi, in cui tanti e diversi pericoli incombono ovunque sulla ingenua e tenera età dei fanciulli, a malapena si potrebbe escogitare alcunché di più opportuno che congiungere l’educazione letteraria con l’insegnamento della dottrina della fede e della morale. Più di una volta abbiamo detto che approviamo cordialmente siffatte scuole, che chiamano libere, in Francia, in Belgio, in America, nelle colonie dell’Impero Britannico, istituite per generoso intervento di privati, e desideriamo che, per quanto è possibile, esse si diffondano e crescano per frequenza di alunni. Noi stessi, considerata la condizione della città, non desistemmo dal curare col massimo impegno e con grandi spese che un buon numero di queste scuole fosse a disposizione dei fanciulli romani. In esse e per mezzo di esse, infatti, si tramanda quella suprema e ottima eredità che ricevemmo dai nostri maggiori, cioè l’integrità della fede cattolica; inoltre, in esse si provvede alla libertà dei genitori e si educa per lo Stato una buona generazione di cittadini, ciò che in tanta licenza di opinioni e di comportamenti è quanto mai necessario: nessuno, infatti, può far meglio di chi fin dalla fanciullezza ha accolto la fede cristiana nel pensiero e nei costumi. I principi e, per così dire, i semi di tutta la civiltà che Gesù Cristo divinamente trasmise al genere umano consistono nella educazione cristiana dei fanciulli: perciò le città non saranno in futuro diverse da quanto la prima educazione ha infuso nei fanciulli. Il pernicioso errore di coloro i quali preferiscono che i fanciulli crescano senza alcuna educazione religiosa distrugge infatti tutta l’antica saggezza e reca danno allo stesso fondamento del vivere felice. Perciò comprendete, Venerabili Fratelli, con quanta preveggenza i padri di famiglia debbano evitare che i loro figli siano affidati a quelle dispute letterarie in cui non possono trovar posto i precetti religiosi. Per quanto riguarda la vostra Inghilterra, ci risulta che non solo voi ma in generale molti dei vostri seguaci sono non poco solleciti nell’educare i fanciulli alla religione. – Sebbene essi non concordino con Noi in ogni parte, comprendono tuttavia quanto importi, sia al privato, sia alla collettività, la sopravvivenza del patrimonio della sapienza cristiana che i vostri proavi ricevettero dal Predecessore Nostro Gregorio Magno tramite Sant’Agostino e che le fiere tempeste scatenate in seguito non distrussero completamente. Sappiamo che oggi vi sono molte persone che con eccellente disposizione d’animo si preoccupano di conservare, con tutto lo zelo possibile, la fede avita e spargono non pochi né esigui frutti di carità. Ogni volta che riflettiamo su questo fatto, Ci sentiamo commossi: seguiamo infatti con amore paterno codesta Isola che meritatamente è stata definita nutrice di santi: e in tale disposizione d’animo, cui accennammo, scorgiamo la più viva speranza e quasi un pegno sicuro della salute e della prosperità degli Inglesi. Quindi perseverate, Venerabili Fratelli, a curare soprattutto gli adolescenti; estendete ovunque la vostra missione episcopale, e con alacrità e fiducia coltivate la buona semente ovunque pensiate che sia: Dio poi darà un ricco accrescimento di misericordia. – Come auspicio di celesti doni e come testimonianza della Nostra benevolenza, a voi, al clero e al popolo a ciascuno di voi affidato, con grande affetto, nel nome del Signore impartiamo l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 27 novembre 1885, nell’anno ottavo del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2022)

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione: a S. Pietro.

Semidoppio Dom. privil; di II cl. – Paramenti violacei.

Come le tre prime profezie del Sabato Santo con le loro preghiere sono consacrate ad Adamo, a Noè, ad Abramo, così il Breviario e il Messale, durante le tre settimane del Tempo della Settuagesima, trattano di questi Patriarchi che la Chiesa chiama rispettivamente il «padre del genere umano », il « padre della posterità » e il « padre dei credenti ». Adamo, Noè e Abramo sono le figure del Cristo nel mistero pasquale; lo abbiamo già dimostrato per i due primi, nelle due Domeniche della Settuagesima e della Sessagesima, ora lo mostreremo di Abramo. Nella liturgia ambrosiana la Domenica di Passione era chiamata « Domenica di Abramo » e si leggevano, nell’ufficiatura, i “responsori di Abramo”. Anche nella liturgia romana il Vangelo della Domenica di Passione è consacrato a questo Patriarca. «Abramo vostro Padre, – disse Gesù, – trasalì di gioia nel desiderio di vedere il mio giorno: lo vide e ne ha goduto. In verità, in verità vi dico io sono già prima che Abramo fosse ». – Dio aveva promesso ad Abramo che il Messia sarebbe nato da lui e questo Patriarca fu pervaso da una grande gioia, contemplando in anticipo, con la sua fede, l’avvento del Salvatore e allorché ne vide la realizzazione, contemplò con novella gioia l’avvenuto mistero dal limbo ove attendeva con i giusti dell’antico Testamento, che Gesù venisse a liberarli dopo la sua Passione. Quando al Tempo di Quaresima si aggiunsero le tre settimane del Tempo di Settuagesima, la Domenica consacrata ad Abramo divenne quella di Quinquagesima, infatti le lezioni e i responsori dell’Ufficio di questo giorno descrivono l’intera storia di questo Patriarca. Volendo formarsi un popolo suo, nel mezzo delle nazioni idolatre (Grad. e Tratto), Dio scelse Abramo come capo di questo popolo e lo chiamò Abramo, nome che significa padre di una moltitudine di nazioni. « E lo prese da Ur nella Caldea e lo protesse durante tutte le sue peregrinazioni » (Intr., Or.). « Per la fede, – dice S. Paolo – colui che è chiamato Abramo, ubbidì per andare al paese che doveva ricevere in retaggio e partì senza saper dove andasse. Egli con la fede conseguì la terra di Canaan nella quale visse più di 25 anni come straniero. È in virtù della sua fede che divenne, già vecchio, padre di Isacco e non esitò a sacrificarlo, in seguito ad ordine di Dio, sebbene fosse suo figlio unico, nel quale riponeva ogni speranza di vedere effettuate le promesse divine d’una posterità numerosa. (Agli Ebrei, XI. 8,17) – Isacco infatti rappresenta Cristo allorché fu scelto «per essere la gloriosa vittima del Padre » (VI Orazione del Sabato Santo.); allorché portò il fastello sul quale stava per essere immolato, come Gesù portò la Croce sulla quale meritò la gloria colla sua Passione; allorché fu rimpiazzato da un montone trattenuto per le corna dalle spine di un cespuglio, come Gesù, l’Agnello di Dio ebbe, dicono i Padri, la testa contornata dalle spine della sua corona; e specialmente allorché liberato miracolosamente dalla morte, fu reso alla vita per annunziare che Gesù dopo essere stato messo a morte, sarebbe risuscitato. Così con la sua fede, Abramo, che credeva senza esitare ciò che stava per avvenire, contemplò da lungi il trionfo di Gesù sulla Croce e ne gioì. Fu allora che Dio gli confermò le sue promesse: «Poiché tu non mi hai rifiutato il tuo unico figlio, io ti benedirò, ti darò una posterità numerosa come le stelle del cielo e l’arena del mare (VI orat. del Sabato santo). Queste promesse Gesù le realizzò con la sua Passione. « Il Cristo, dice S. Paolo, ci ha redenti pendendo dalla croce perché la benedizione, data ad Abramo fosse comunicata ai Gentili dal Cristo, e così noi ricevessimo mediante la fede la promessa dello Spirito », cioè lo Spirito di adozione che ci era stato promesso. « Fa’, o Dio, prega la Chiesa nel Sabato Santo, che tutti i popoli della terra divengano figli di Abramo, e, mediante l’adozione, moltiplica i figli della promessa» (3a settimana dopo l’Epifania, feria 2a – martedì) . Si comprende ora perché la Stazione oggi si fa a S. Pietro, essendo il Principe degli Apostoli che fu scelto da Gesù Cristo per essere il capo della sua Chiesa e, in una maniera assai più eccellente che Abramo stesso, « il padre di tutti i credenti ». – La fede in Gesù, morto e risuscitato, che meritò ad Abramo di essere il padre di tutte le nazioni e che permette a tutti noi di divenire suoi figli, è l’oggetto del Vangelo. Gesù Cristo vi annunzia la sua Passione ed il suo trionfo e rende la vista ad un cieco dicendogli: La tua fede ti ha salvato. Questo cieco, commenta S. Gregorio, recuperò la vista sotto gli occhi degli Apostoli, onde quelli che non potevano comprendere l’annunzio di un mistero celeste, fossero confermati nella fede dai miracoli divini. Infatti bisognava che vedendolo di poi morire nel modo come lo aveva predetto, non dubitassero che doveva anche risuscitare ». (4° e 5° Orazione). L’Epistola, a sua volta mette in pieno valore la fede di Abramo e ci insegna come deve essere la nostra. « La fede senza le opere, scrive S. Giacomo, è morta. La fede si mostra con le opere. Vuoi sapere che la fede senza le opere è morta? Abramo, nostro padre, non fu giustificato dalle opere, quando offri suo figlio Isacco su l’altare? Vedi come la fede cooperò alle sue opere e come per mezzo delle opere fu resa perfetta la fede. Così si compie la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu imputato a giustizia e fu chiamato amico di Dio. Voi vedete che l’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede solamente » (3° Notturno). L’uomo è salvato non per essere figlio di Abramo secondo la carne, ma per esserlo secondo una fede simile a quella di Abramo. « In Cristo Gesù, scrive S. Paolo, non ha valore l’essere circonciso (Giudei), o incirconciso (Gentili), ma vale la fede operante per mezzo dell’amore ». « Progredite nell’amore, dice ancora l’Apostolo, come Cristo ci ha amati e ha offerto se stesso per noi in oblazione a Dio e in ostia di odore soave » (Ad Gal. 5, 6). – In questa domenica e nei due giorni seguenti, ha luogo in moltissime chiese, una solenne adorazione del SS.mo Sacramento, in espiazione di tutte le colpe che si commettono in questi tre giorni. Questa preghiera di espiazione, conosciuta sotto il nome di « quarant’ore », fu istituita da S.Antonio Maria Zaccaria (5 luglio) nella Congregazione dei Barnabiti, e si generalizzò, venendo riferita particolarmente a questa circostanza, sotto il pontificato di Clemente XIII, il quale nel 1765, l’arricchì di numerose indulgenze.

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXX: 3-4

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me.

[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guidami e assistimi.]

Ps XXX:2

In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me. –

[In Te, o Signore, ho sperato, ch’io non resti confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e sàlvami.]

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me.

[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guídami e assistimi.]

Orémus.

Preces nostras, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: atque, a peccatórum vínculis absolútos, ab omni nos adversitáte custódi.

[O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le nostre preghiere: e liberati dai ceppi del peccato, preservaci da ogni avversità.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.

1 Cor XIII: 1-13

“Fratres: Si linguis hóminum loquar et Angelórum, caritátem autem non hábeam, factus sum velut æs sonans aut cýmbalum tínniens. Et si habúero prophétiam, et nóverim mystéria ómnia et omnem sciéntiam: et si habúero omnem fidem, ita ut montes tránsferam, caritátem autem non habúero, nihil sum. Et si distribúero in cibos páuperum omnes facultátes meas, et si tradídero corpus meum, ita ut árdeam, caritátem autem non habuero, nihil mihi prodest. Cáritas patiens est, benígna est: cáritas non æmulátur, non agit pérperam, non inflátur, non est ambitiósa, non quærit quæ sua sunt, non irritátur, non cógitat malum, non gaudet super iniquitáte, congáudet autem veritáti: ómnia suffert, ómnia credit, ómnia sperat, ómnia sústinet. Cáritas numquam éxcidit: sive prophétiæ evacuabúntur, sive linguæ cessábunt, sive sciéntia destruétur. Ex parte enim cognóscimus, et ex parte prophetámus. Cum autem vénerit quod perféctum est, evacuábitur quod ex parte est. Cum essem párvulus, loquébar ut párvulus, sapiébam ut párvulus, cogitábam ut párvulus. Quando autem factus sum vir, evacuávi quæ erant párvuli. Vidémus nunc per spéculum in ænígmate: tunc autem fácie ad fáciem. Nunc cognósco ex parte: tunc autem cognóscam, sicut et cógnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, cáritas, tria hæc: major autem horum est cáritas.”

[“Fratelli: Se parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutto lo scibile, e se avessi tutta la fede così da trasportare i monti, e non ho la carità, non sono nulla. E se distribuissi tutte le mie sostanze in nutrimento ai poveri ed offrissi il mio corpo a esser arso, e non ho la carità, nulla mi  giova. La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, non si gonfia, non è burbanzosa, non cerca il proprio interesse, non s’irrita, non pensa al male; non si compiace dell’ingiustizia, ma gode della verità: tutto crede, tutto spera, tutta sopporta. La carità non verrà mai meno. Saranno, invece, abolite le profezie, anche le lingue cesseranno, e la scienza pure avrà fine. Perché la nostra conoscenza è imperfetta, e imperfettamente profetiamo; quando, poi, sarà venuto ciò che è perfetto, finirà ciò che è imperfetto. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, giudicavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma diventato uomo, ho smesso ciò che era da bambino. Adesso noi vediamo attraverso uno specchio, in modo oscuro; ma allora, a faccia a faccia. Ora conosco in parte; allora, invece, conoscerò così, come anch’io sono conosciuto. Adesso queste tre cose rimangono: la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di esse è la carità”..]

I doni che qui enumera S. Paolo sono di grande importanza. Parlar lingue sconosciute; parlar come parlano tra loro gli Angeli in cielo; predire il futuro; intendere i misteri, spiegarli e persuaderli agli altri; avere il dono d’una fede, che all’occorrenza operi prodigi strepitosi, come il trasporto delle montagne; aver l’eroismo di distribuire tutte le proprie sostanze, di gettarsi nel fuoco o di sacrificare, comunque, la propria vita per salvare quella degli altri, non è certamente da tutti. Il possedere uno solo di questi doni, il compiere una sola di queste azioni, basterebbe a formare la grandezza di un uomo. S. Paolo, che doveva conoscer bene tutti questi doni, da quello di parlar lingue straniere a quello di voler sacrificarsi per il prossimo, afferma che son superati da un altro bene: la carità. È tanto grande la carità, che senza di essa tutti gli altri doni mancano di pregio. È vero che questi doni non sono inutili per coloro, in cui il favore di Dio li concede; ma sono inutili, senza la carità, per il bene spirituale di chi li possiede. Sono come il danaro che uno distribuisce agli altri, non serbando nulla per sé. Arricchisce gli altri, ed egli si trova in miseria. – Nelle relazioni col prossimo la carità ci fa esercitare la mansuetudine, la pazienza, la mortificazione dell’amor proprio, l’umiltà, il disinteresse. Essa ci spinge a toglier disordini, ad allontanare scandali, a sopprimere abusi, a evitar liti, a estinguere odi. Se tutti gli uomini nelle loro relazioni fossero guidati nella carità, non ci sarebbero più tribunali. La carità, insomma, indirizza, perfeziona, innalza, avvalora, santifica tutte le nostre azioni. – L’eccellenza della carità risalta ancor più dal fatto che durerà eternamente. La carità non verrà mai meno. In cielo non ci saranno più profezie, non ci sarà più il dono delle lingue, non essendovi alcuno che abbia bisogno di essere istruito. Ci sarà ancora, invece, la carità. Su questa terra abbiam bisogno della fede, della speranza e della carità, che sono come i tre organi essenziali della vita cristiana, e sono, quindi, indispensabili per la nostra santificazione. Ma la fede e la speranza cesseranno nell’altra vita. – Se quaggiù, non conoscendo Dio che per la fede, lo amiamo; quanto più deve crescere il nostro amore quando lo vedremo svelatamente? Quando contempleremo la sua bellezza che supera la bellezza delle anime più giuste e più sante; che supera la bellezza di tutti gli spiriti celesti più eccelsi; che supera tutto ciò che di bello e di buono si può immaginare, la nostra carità non avrà più limiti. Tutti gli ostacoli che quaggiù si oppongono alla carità, lassù saranno tolti. Tutto, invece, servirà ad accenderla. Se Dio non ci ha dato doni straordinari; se non abbiamo un forte ingegno, un’istruzione profonda: se non possediamo beni di fortuna: se la salute non è di ferro; se il nostro aspetto non è gradevole: non siamo inferiori, davanti a Dio, a tutti quelli che posseggono questi doni, qualora abbiamo la carità. Anzi siamo a essi immensamente superiori, se tutti questi loro doni non sono accompagnati dalla carità. Noi dobbiam curare di essere accetti agli occhi di Dio. In fondo, è un niente tutto quel che non è Dio. « Dio è Carità » (1 Giov. IV, 8). In questa fornace ardente accendiamo i nostri cuori qui in terra, se vogliamo andare un giorno a inebriarci in Dio su nel Cielo.

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

 Graduale:

Ps LXXVI: 15; LXXVI: 16

Tu es Deus qui facis mirabília solus: notam fecísti in géntibus virtútem tuam.

[Tu sei Dio, il solo che operi meraviglie: hai fatto conoscere tra le genti la tua potenza.]

Liberásti in bráchio tuo pópulum tuum, fílios Israel et Joseph

[Liberasti con la tua forza il tuo popolo, i figli di Israele e di Giuseppe.]

Tratto:

Ps XCIX: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra: servíte Dómino in lætítia,

V. Intráte in conspéctu ejus in exsultatióne: scitóte, quod Dóminus ipse est Deus.

V. Ipse fecit nos, et non ipsi nos: nos autem pópulus ejus, et oves páscuæ ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta: servite il Signore in letizia.

V. Entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio.

V. Egli stesso ci ha fatti, e non noi stessi: noi siamo il suo popolo e il suo gregge.]

Evangelium

Luc XVIII: 31-43

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus duódecim, et ait illis: Ecce, ascéndimus Jerosólymam, et consummabúntur ómnia, quæ scripta sunt per Prophétas de Fílio hominis. Tradátur enim Géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et postquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intellegébant quæ dicebántur. Factum est autem, cum appropinquáret Jéricho, cæcus quidam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam prætereúntem, interrogábat, quid hoc esset. Dixérunt autem ei, quod Jesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Jesu, fili David, miserére mei. Et qui præíbant, increpábant eum, ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans autem Jesus, jussit illum addúci ad se. Et cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Jesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit, et sequebátur illum, magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit laudem Deo.” –

[In quel tempo prese seco Gesù i dodici Apostoli, e disse loro: Ecco che noi andiamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quello che è stato scritto da1 profeti intorno al Figliuolo dell’uomo. Imperocché sarà dato nelle mani de’ Gentili, e sarà schernito e flagellato, e gli sarà sputato in faccia, e dopo che l’avran flagellato, lo uccideranno, ed ei risorgerà il terzo giorno. Ed essi nulla compresero di tutto questo, e un tal parlare era oscuro per essi, e non intendevano quel che loro si diceva. Ed avvicinandosi Egli a Gerico, un cieco se ne stava presso della strada, accattando. E udendo la turba che passava, domandava quel che si fosse. E gli dissero che passava Gesù Nazareno. E sclamò, e disse: Gesù figliuolo di David, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi lo sgridavano perché si chetasse. Ma egli sempre più esclamava: Figliuolo di David, abbi pietà di me. E Gesù soffermatosi, comandò che gliel menassero dinnanzi: E quando gli fu vicino lo interrogò, dicendo: “Che vuoi tu ch’Io ti faccia? E quegli disse: Signore, ch’io vegga. E Gesù dissegli: Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo. E subito quegli vide, e gli andava dietro glorificando Dio. E tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio.]

Omelia

VEDERE DIO NEL DOLORE

La primavera dell’anno 29 fioriva e fogliava su tutte le siepi, mentre Gesù passava nella valle del Giordano, diretto a Gerusalemme, dopo l’aspettavano quattro chiodi e una croce. Lo sapeva perfettamente. Eppure camminava deciso, davanti a tutti, come un giovane eroe che vada al trionfo; dietro a lui veniva il drappello dei dodici, sbigottiti, sospettando qualche cosa di grave. Dietro ai dodici, veniva un gruppo di persone formato da discepoli e da pellegrini incontrati lungo la strada, tutti con in cuore il triste presagio di tragici avvenimenti ormai maturi. Già più d’una volta Gesù aveva tentato di far capire agli Apostoli che Egli avrebbe redento il mondo, non con le armi e la ricchezza e i prodigi, ma con l’umiliazione e la sofferenza e l’amore che dona senza chiedere; invano. Ora che pochi giorni lo separavano dal sacrificio estremo, bisognava tagliar corto e parlar chiaro. «Ecco che noi andiamo a Gerusalemme. E là il Figlio dell’uomo sarà dato in mano dei suoi nemici che lo condanneranno a morte e poi lo consegneranno in potere dei Romani. Questi lo scherniranno, gli sputeranno sulla faccia, lo flagelleranno, infine lo faranno morire. Ma dopo tre giorni, egli risorgerà ». A queste parole tutti allibirono, come gente che s’accorga di un grande inganno che le sia stato fatto. « Addio, splendido e invidiato posto di ministri in un regno glorioso!… » sospiravano i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni. – Di questa loro delusione forse si rese interprete la madre, che s’avvicinò a Gesù e gli disse: « Maestro, nel tuo regno non metter in disparte i miei figliuoli, ma li  farai sedere al primo posto, uno a destra e l’altro a sinistra del tuo trono ». Le rispose Gesù: « Povera donna, non sapete ciò che chiedete. È mio ministro chi beve il calice dell’amarezza che Io berrò, chi subisce il battesimo di sangue in cui Io mi battezzerò ». Anch’ella come i figli non poteva capire che al Regno di Dio si arriverà solo attraverso il dolore e la umiliazione. Anche Pietro non lo poteva capire. Protestava che simili soprusi non si possono né si devono permettere; che se non li impediva Gesù, gli bastava l’ardimento di impedirli da solo. Il più chiuso, l’irrimediabilmente chiuso a intendere il mistero della sofferenza era Giuda. La passione dell’avarizia teneva la signoria del suo cuore. Da tempo seguiva Gesù solo per la speranza d’arricchire; ma ora che il suo sogno di ricchezza veniva infranto dalle stesse parole del Maestro, che preannunciavano oltraggi, patimenti e morte, decise di prendersi la rivalsa sulla stessa persona di Gesù: l’avrebbe venduto per farne danaro. – Doveva essere molto triste per il Figlio di Dio andare incontro alla morte per tutte quelle persone che non capivano il suo amore. Tutti, anche i migliori, erano ciechi. E proprio in un cieco si imbatterono, giunti che furono alle porte di Gerico. Un certo figlio di Timeo, che era solito mendicare sull’orlo della strada, gridava: « Gesù, figlio di Dio, abbi pietà del povero cieco ». Gli fecero capire di smetterla che assordava tutti; ma l’infelice gridava più forte. Il maestro divino fermandosi lo chiamò: «Che cosa vuoi da me? ». « Fammi vedere! ». « Guarda! La tua fede ti dà la vista ». A quelle parole di Gesù, il cieco acquistò il lume degli occhi, e, glorificando Dio gli andò dietro. Ma era più facile aprire gli occhi del corpo alla luce di questo mondo, che non aprire gli occhi degli uomini alla luce della fede e far loro vedere l’amore di Dio in mezzo alle tribolazioni. Eppure Gesù compirà questo prodigio: e dopo la discesa dello Spirito Santo, gli Apostoli non chiesero più né onori né ricchezze, ma andarono incontro alla sofferenza e alla morte pieni di gioia perché vedevano d’andare incontro al Signore. E come gli Apostoli, innumerevoli anime in ogni tempo si sentirono predilette da Dio appunto perché flagellate dai dolori. Ma ora il mondo non vuol altro che godere. Ora c’è bisogno che il Signore ripassi sulle nostre strade e si prenda un’altra volta pietà degli innumerevoli ciechi che non sanno vedere Dio nel dolore. E ve ne sono molti anche tra quelli che si credono buoni Cristiani. Vogliono essere redenti dalla croce, ma non vogliono portare la croce. Beati quelli che piangono e sopportano per amore: coi loro occhi detersi dalle lagrime vedono la vera luce e non si troveranno ingannati. – QUELLI CHE NON VEDONO. Dopo che i Romani presero a ferro e a fuoco Gerusalemme e la distrussero, i luoghi santi della passione di Gesù furono ricoperti dalle rovine, e sulla cima del Calvario vennero poi costruiti dei templi pagani con le statue di Venere e Bacco. Ma giunse la regina Santa Elena, madre di Costantino il Grande, e fece abbattere i templi e le statue degli idoli immondi e fece scavare in cerca delle sante reliquie sepolte. Ed ecco apparire tre croci. Una delle tre, era, senza dubbio, quella del Salvatore. Ma quale? Presero un uomo infermo e consecutivamente l’adagiarono su ciascuna. Al contatto con la terza si alzò guarito. « Abbiamo trovato la croce della nostra salvezza! » si gridò allora. Ma già tutti in ginocchio l’adoravano. – Nel mondo moderno quante anime inferme e travagliate dal demonio. Esse potrebbero guarire e salvarsi, ma non vogliono il rimedio: adagiarsi sulla loro croce. Hanno orrore della corona di spine, delle piaghe, delle umiliazioni del sangue. Eppure solo nel sangue, cioè nel sacrificio, c’è redenzione. Essi però non vedono questo: sono ciechi. – Distinguiamo tre gruppi di ciechi. Il primo gruppo di quelli che assolutamente respingono Gesù. Al posto della croce nel loro cuore hanno innalzato il tempio a Venere, la dea del piacere impuro, e a Bacco il dio del vino e d’ogni intemperanza di gola. Essi gridano a Cristo: « Non vogliamo che tu regni su di noi, perché porti la croce e imponi la quaresima. Vogliamo Venere, vogliamo Bacco. Perché ci concedono ogni piacere e il godimento della settimana grassa ». Se in questi giorni raccoglieste i discorsi che si fanno in treno, nei caffè, nei ritrovi, se leggeste i manifesti della pubblicità sui giornali o affissi sui muri o sparsi per le vie, v’accorgereste che i novelli pagani invasi dal cieco furore del piacere sono una moltitudine. Da per tutto si parla di veglioni, di cene notturne, di danze, di spettacoli inverecondi… Ciechi, che bevono senza vederlo l’eterno veleno! Ciechi che non sanno d’esserlo! E se anche lo sapessero, non vorrebbero guarire! – Un altro gruppo è di quelli che seguono Gesù fin tanto che si tiene sulle proprie spalle la croce, ma se l’appoggia un momento alle loro l’abbandonano e fuggono. M’è capitato di udire sulla bocca di Cristiani espressioni simili a queste: «Io non mi confesserò più, non mi comunicherò più: Gesù m’ha fatto morire il figlio unico. Oppure: «In chiesa non ci vado più; m’ha lasciato cadere in miseria, in un fallimento ». O anche: « Gli avevo chiesto quell’impiego, quel posto, la vittoria in quel concorso: v’è riuscito un altro che è senza fede. Non pregherò più: è inutile pregare ». Questi pure sono ciechi. Non vedono di essere come i Giudei che credevano in un Messia che venisse non a togliere il peccato e a farci figli di Dio, ma a portarci il pane per il ventre, l’onore per l’orgoglio, il benessere materiale sulla terra. – Il terzo gruppo è di quelli che al momento della prova tradiscono e vendono il Messia sofferente. E sono coloro che frequentano la Messa e magari i primi venerdì del mese; ma se a loro capita un guadagno illecito di denaro: un bacio a Cristo e un calcio al settimo comandamento. Se in loro insorge un desiderio fosco, un affetto proibito, o se capita a loro un incontro adescante, non vogliono imporsi il freno della mortificazione: un bacio a Cristo e un calcio al sesto comandamento. Anche questi son ciechi. Non vedono che per un pugno di soldi, per un’ora di stordimento folle, hanno venduto Gesù, il Figlio di Dio e loro Salvatore. Non vedono che non sono più Cristiani. – QUELLI CHE VEDONO. S. Teresa d’Avila in uno dei suoi viaggi, attraversando un fiume gonfio per un recente temporale, vide la sua barca rapita dalla corrente vorticosa sul punto di affondare. In quel momento, come in una visione, le apparve la sua vita, tutta la sua vita di sofferenze e d’angosce spese per servire Dio. E udì la voce di Gesù mormorarle in cuore: « Così io tratto i miei amici ». Ed ella, con la confidenza che usava col Signore anche nelle ore più trepide, rispose: « È appunto per questo che ne avete così pochi! ». Intanto la barca, superato il pericolo, s’agganciava alla riva. Questo fatto dapprima c’insegna che la vita del vero credente è austera. Quanti sacrifici gli sono domandati ogni giorno! Sacrifici di ambizioni personali, sacrifici e affezioni inebrianti, sacrifici forse d’un focolare sognato invano. Cristo è esigente: Egli porta la croce e l’ombra delle due aste tocca tutti quelli che salva. L’arguta risposta della santa c’insegna ancora che sono pochi i coraggiosi. Che sanno rispondere alle esigenze di Gesù. Ma a questi pochi generosi è data una nuova vista: essi vedono una nuova realtà, la più vera, la più profonda. Essi nel dolore vedono l’amore di Dio: infatti è un mezzo di espiazione, di preservazione, di santificazione. – Il dolore è espiazione per il peccatore. Per quanto gravi e numerosi siano stati i peccati della vita passata, l’accettazione fedele e docile delle sofferenze quotidiane sopportate in unione a quelle di Cristo ci otterrà amplissima misericordia. Né le tribolazioni parranno mai intollerabili; anzi dovremo sempre dire con riconoscenza amorosa: « Che cosa sono questi brevi patimenti in confronto dell’inferno che ho meritato? ». – Il dolore è preservazione al giusto. Nel tempo che Davide soffriva per la persecuzione del re Saul, e per salvarsi fuggiva di luogo in luogo, non cedette mai a desideri cattivi, non oltraggiò mai la donna d’altri, non nascose con l’omicidio il proprio peccato. Ma quando felice, ben pasciuto, ozioso si pose sulla terrazza della reggia, allora la tentazione lo travolse. Chissà quanti in cielo benediranno i giorni della malattia, della sventura, perché da quelle sofferenze furono preservati da fatali cadute! – Il dolore è santificazione per tutti. Ci stacca dalle gioie fallaci del mondo, e ci fa sentire che la vita non è che una notte da passarsi in un cattivo albergo. Ci rende sempre più Cristiani, cioè più simili al nostro Capo che fu schernito, flagellato, ucciso. Infine, ci rende capaci di un premio più grande in cielo. «Per un solo patimento tollerato con gioia ameremo per sempre di più il Signore » (Epistolario di S. Teresa del Bambino Gesù). – È risaputo il fatto di S. Venceslao. D’inverno, quando la città dormiva sepolta nel sonno, nella neve e nell’oscurità, il re usciva dalla reggia a piedi scalzi e faceva il giro delle chiese della sua capitale. Un solo servo gli veniva dietro; ma il rigore del gelo era tale che il povero scoraggiato si lamentava e piangeva. Venceslao si rivolse e con voce piena di affetto compassionevole gli disse: « Metti i tuoi piedi sulle orme dei miei passi ». L’altro ubbidì: e sentiva che le orme dei piedi del re comunicavano a lui un dolce tepore. Quasi non sentiva più freddo. Signore, ch’io veda! ch’io veda sul cammino oscuro e gelato del dolore l’orma dei tuoi piedi redentori! – Se Gesù darà agli occhi dell’anima nostra questa vista il dolore non ci farà più spavento. Metteremo i nostri piedi tremanti sulle orme insanguinate dei suoi piedi divini: un ardore e una forza sconosciuta alla natura penetrerà in noi. Non è questo forse quello che ha provato il cieco di Gerico? Appena ebbe la vista, dice il Vangelo che glorificando Dio seguì i passi di Gesù. Ma dove andavano i suoi passi? A Gerusalemme, a patire e a morire.

– Nella Storia Sacra si racconta di una città dove le acque erano diventate melmose e imbevibili. Gli abitanti ricorsero al profeta Eliseo, il quale fattosi portare un vaso colmo di sale, lo versò nelle fonti inquinate. Da quel momento le acque rifluirono limpide e potabili (IV Re, II, 19-21). Nel tempo del carnevale le acque del mondo davvero si fanno melmose ed esalano miasmi pestiferi di corruzione. I buoni Cristiani costretti a viverci in mezzo sono in un grave pericolo di contagio, se non ricorrono alla disinfezione. Ed ecco la santa Chiesa imitare il gesto del profeta Eliseo, e con materna preoccupazione versare nelle anime il sale che purifica, preserva. Questo sale è la memoria della Passione di nostro Signore. – Essa infatti, proprio in questa domenica, ci fa meditare quelle righe di Vangelo in cui Gesù predice agli Apostoli la sua crocifissione imminente. – Di queste misteriose e dolorose previsioni, gli Apostoli non capivano nulla; se qualcosa ne capivano, non volevano crederci, tanto pareva loro orribile. Erano ciechi nell’anima come lo era nel corpo l’infelice che incontrarono nelle vicinanze di Gerico, a cui Gesù diede la vista con un miracolo. Anche agli Apostoli si sarebbero poi aperti gli occhi a intendere il mistero della croce. Anche i nostri occhi sono stati aperti alla luce della fede. Perciò, in questa domenica che il mondo chiama « grassa » per i piaceri sensuali e le folli allegrie a cui molti s’abbandonano, ripensando alle parole del Signore sulla sua passione dobbiamo sentirci commossi. Ci deve sgorgare dal cuore la preghiera di S. Agostino: « Signore, fammi sentire tutto il tuo dolore e tutto l’amore che provasti nella tua passione: tutto il dolore per accettare ogni mio dolore quaggiù; tutto l’amore per rifiutare ogni amore mondano ». – SENTIRE IL DOLORE DELLA PASSIONE DI GESÙ PER ACCETTARE OGNI NOSTRO DOLORE. – a) Sei forse povero? È duro arrabattarsi da mane a sera nella miseria; sempre con l’acqua dei debiti alla gola; assillati dall’affitto da pagare, dalle vesti e dal cibo da provvedere: tremanti per la paura di possibili umiliazioni. Più duro ancora quando tu, o povero, volgendo intorno gli occhi offuscati da tante preoccupazioni, e privazioni, vedi che in una notte sola si può sperperare e che a te assicurerebbe un anno di pigione e di riscaldamento: in una veste da ballo da maschera si può impiegare ciò che a te basterebbe per ricoprire decentemente il corpo intirizzito di tutti i tuoi figliuoli; in liquori, dolci e profumi si può irritare uno stomaco già sazio, mentre tu non hai neppure il sufficiente per te e per i tuoi. Ebbene, bisogna che tu, o povero, sappia oltrepassare l’ingiuriosa baldoria del carnevale, e senta di là da essa la sofferenza di Gesù. Il Figlio di Dio, pur essendo padrone dell’universo, ha voluto vivere quaggiù nella povertà: nacque in una stalla; visse lavorando manualmente per trent’anni; durante la vita pubblica, più povero dell’uccello che ha un nido, più povero della volpe che ha una tana, Egli non aveva dove posare la testa stanca; sulla croce patì perfino la sete. Col suo esempio volle insegnarti che il valore dell’uomo non è nelle cose che possiede, ma nelle virtù dell’anima; ed in mezzo alla povertà è più facile all’uomo essere ricco di virtù che non in mezzo alle ricchezze. – b) Sei forse malato? o è malato qualcuno dei tuoi cari? È penoso trascinare una vita tra letto e lettuccio, penoso anche aver qualche persona cara malata in casa, o all’ospedale, o al sanatorio. Più penoso però si fa questo dolore quando nel carnevale risuonano intorno le risa, i canti, i suoni dei gaudenti. Questi hanno salute da sprecare, nei peccati; altri, dopo tante preghiere non ottengono neppure quel minimo d’energie che è necessario per non essere di peso al prossimo e a sé nella vita. Ebbene, bisogna che gli ammalati o i loro parenti sappiano oltrepassare la disfrenata allegria carnevalesca, e sentano di là da essa la sofferenza di Gesù. Il Figlio di Dio, pure essendo innocente, ha voluto subire nella sua carne atroci tormenti: i tormenti della flagellazione, della coronazione di spine, della crocifissione. Non aveva membro che non fosse una piaga. Egli scontava per noi i nostri peccati di sensualità. Noi invece abbiamo sempre qualche cosa di nostro da scontare; e poi sollevando lo sguardo a Lui, sentiamo che ogni nostro dolore non solo ci purifica, ma ci rende più simili a Lui, e quindi partecipi in maniera più grande del suo merito e del suo premio. – Qualunque pena sia la nostra, nella passione del Signore trova il suo perché e la sua consolazione. – c) Siamo decaduti dalla nostra dignità, dalla nostra condizione sociale? È veramente doloroso; ma pensiamo a Lui disceso dalle altezze del cielo su questa bassa terra piena d’affanni. – d) Gli uomini ci deridono, ci calunniano, ci perseguitano ingiustamente? È dolorosissimo; ma pensiamo a Lui accusato d’aver in corpo il demonio, di aver sobillato il popolo alla rivolta, d’aver bestemmiato. – e) Ci troviamo soli al mondo, ingannati dagli amici, abbandonati dai parenti, incompresi da tutti? Pensiamo a Lui tradito con un bacio da Giuda, lasciato solo dagli Apostoli che nell’ora della prova, prima dormirono poi, fuggirono, a Lui che gemendo disse questa misteriosa invocazione: « Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». – SENTIRE NELLA PASSIONE L’AMORE DI GESÙ PER RIFIUTARE OGNI AMORE MONDANO. Quando S. Agnese fu richiesta in nozze dal figlio del governatore di Roma, si trovò nella drammatica alternativa di rinunciare all’amor di Gesù Cristo o di rinunziare alla vita. Ed ella a tutto rinunziò, anche alla vita, ma non all’amore di Gesù. «Sono già stata promessa — rispose — ad un altro amante ben più eccellente di te. La sua generosità è incomparabile, la sua potenza non conosce limiti, il suo amore non teme sacrifici. Suo Padre è Dio, sua Madre è una Vergine; i suoi servi sono gli Angeli; il sole e la luna sono gli ornamenti della sua casa; il suo profumo risuscita i morti, il suo contatto guarisce i malati. A Lui solo io conservo la fede. E tu vattene, o sorgente di peccato, o lusinga di morte ». – Se l’anima nostra comprendesse di che amore immenso è stata prevenuta, e quale testimonianza le fu data dal Signore nella sua passione, dovrebbe ripetere le risolute parole di S. Agnese ad ogni profferta peccaminosa di qualsiasi creatura. Nessuna creatura è grande e dolce come Gesù. Nessuno ci può far felici come Gesù. Nessuno ci amò fino alla morte, e alla morte di croce, come Gesù. Perciò quando il mondo coi suoi affetti sensibili, coll’attacco al denaro e alla roba, con i barbagli dell’onore, vorrà affascinarci, noi gli risponderemo con S. Agostino: « Perché tante lusinghe? ciò che io amo è più dolce di ciò che prometti. Mi prometti piaceri? è più piacevole Dio. Mi prometti onori e innalzamenti? è più alto il regno di Dio. Mi prometti inutili e dannose curiosità? solo Dio è verità. Mi prometti amore e felicità? solo Gesù è morto per mio amore ». Vattene dunque, o sorgente di peccato, o lusinga di morte. – Come è possibile amar Dio, che non si vede? se lo si vedesse!… C’è forse bisogno di veder Dio con gli occhi del corpo per poterlo amare? Non basta sapere che Egli esiste, che siamo visti da Lui che non vediamo, che ci è vicino, ci sente, ci ama infinitamente? L’esule relegato in una isola remota in mezzo all’oceano pensa alla sua famiglia lontana, lavora, ed ama. Il pellegrino lontano dalla sua patria, dalla sua casa, cammina ed ama. Il prigioniero, nell’oscuro carcere, non vede i suoi cari, eppure ad ogni istante sospira ed ama. Anche noi, pur essendo esuli relegati su questa terra, pellegrini in mezzo alle fugaci illusioni del mondo, prigionieri nel carcere delle cose sensibili, possiamo e dobbiamo amare Dio che adesso non vediamo, che un giorno vedremo a faccia a faccia. Il nostro cuore sia dunque un santuario: arda sempre in esso la lampada del divino amore. – All’inizio della vita pubblica Gesù entrò nella sinagoga del suo paese, e, salito sull’ambone, aprì a caso il libro dei profeti e lesse: « Lo spirito del Signore è sopra di me. Io son venuto a rendere la vista ai ciechi ». – Visum cæcis di Gesù è scritto nelle profezie; ma non è appena la vista materiale degli occhi del corpo che Egli ha portato dal cielo: sarebbe stata poca cosa, giacché dopo qualche anno gli occhi del corpo ritornano a spegnersi nell’oscurità della morte. È soprattutto la vista dell’anima, la fede che Gesù ci dona! – Per vedere gli oggetti esterni abbiamo bisogno degli occhi del corpo: ma vi sono attorno a noi cose spirituali, che rimangono invisibili a questi occhi: Iddio, l’anima, Gesù Eucaristico, le verità eterne. Per questo occorrono le pupille della fede. Ma come vi sono i ciechi del corpo, così vi sono i ciechi dell’anima. E sono numerosissimi. Guardate il mondo in questa settimana ultima di carnevale, e credo che non farete fatica a comprendere che è un gran cieco; che non ha la luce di verità che Gesù Cristo diede agli uomini col suo Vangelo. Guardate il mondo e poi riflettete se anche voi non siate, come lui, ciechi, o se rischiate di diventarlo. – IL MONDO È CIECO. Un sapiente, che aveva consumato la sua vita nello studio delle cose e degli uomini, udì che v’era una città ove tutti gli abitanti erano stolti: ciechi nell’anima. Vi volle andare. Ed ecco vicino alle mura si incontra con due ambasciatori che s’allontanavano dalla città spronando terribilmente i cavalli. « Fermi, fermi, dove andate?» chiese a loro il sapiente. « Noi non lo sappiamo; per ora non ci interessa; al nostro ritorno ce ne informeremo ». « Sono stolti davvero » conchiuse in cuor suo il sapiente. Ma nel mondo, quanti più stolti e più ciechi di loro! Vivono quaranta, cinquant’anni e non si chiedono mai donde vengono, dove vanno. Da chi furono creati, e per qual fine. Essi, come la pecora nel prato, mangiano, bevono, si divertono e altro non sanno. Non sanno quello che c’è sul piccolo catechismo e che ogni bambino sa; non sanno quello che Gesù da venti secoli va insegnando a tutti. Hanno gli occhi, ma non vedono la luce della fede. – Entra per la porta della città. Nella prima via incontra un giovanetto esile e pallido con sulle spalle magre un fascio enorme di legna: a lato gli cammina un cavallo muscoloso, senza né briglia, né freno. « Ma perché »; domandò il sapiente, « ti spezzi la schiena, mentre non getti in groppa al tuo cavallo il fastello, che per esso sarebbe leggero? ». Il giovane rispose: « Non vorrei affaticarlo con troppo peso ». « Stolto davvero! » conchiuse in cuor suo il sapiente. Ma nel mondo, quanti più stolti di lui! Temono di castigare il corpo che è il cavallo dell’anima, e non gli impongono il peso di un’astinenza benché leggera, non gli negano neppure il più bizzarro capriccio. E intanto sovraccaricano l’anima con un fascio di peccati; e non pensano che per risparmiare il corpo, perderanno anche l’anima, perché il fascio dei peccati deprimerà e anima e corpo all’inferno. Più avanti, in una piazza, trovò un uomo alto e robusto che da una stecchita donnicciuola con un filo di seta veniva trascinato a un pozzo per esservi gettato dentro. « Con l’unghia del dito mignolo, con un soffio di fiato, rompi quel filo! Liberati dalla morte! » gli gridava il sapiente. Ma quello con un’aria stupida rispondeva: « Non posso ».  « Davvero che è stolto » concluse in cuor suo il sapiente. Ma quanti nel mondo son più stolti e più ciechi di lui! Prigionieri di una passione impura si lasciano imprigionare col filo dell’abitudine viziosa. E lentamente vanno al precipizio infernale, e, ciechi, non se ne accorgono. Avvisati più volte da qualche amico, da qualche sacerdote, dai rimorsi, rispondono che non possono rompere quel filo. – Entrò finalmente in un’osteria. Era allagata dal vino: sotto i tavoli, sotto le sedie, sotto il banco, tutto era intriso di vino. E le botti aperte continuamente ne lasciavano fluire. « Oste, oste! tu perdi tutto il vino! ». Ma l’oste, che vicino a una finestra con le caviglie nel liquido prezioso faceva un gioco solitario con le carte, rispose: « Prima, voglio finire questo ». «Davvero che è stolto » conchiuse in cuor suo il sapiente. Ma quanti nel mondo più stolti e più ciechi di lui! Lasciano fluire, per giornate, per mesi, per anni un nobilissimo e prezioso tempo senza far nulla per la vita eterna, e solo si occupano di chiacchiere, di mormorazioni, di guadagni, di mode, di divertimenti. – Cieco è il mondo sempre, ma specialmente nei giorni del Carnevale. Da per tutto si organizzano festini danzanti, veglioni, commedie, mascherate: ma intanto non si vede che tristamente Gesù ritorna a Gerusalemme per essere tradito, flagellato, crocifisso con tre ore d’agonia. Cieco è il mondo, e non s’accorge che per un pugno d’orzo vende di nuovo Cristo e per un pezzo di carne marcita uccide le anime immortali (Ezech., XIII, 19). – SIAMO CIECHI FORSE ANCHE NOI? Curioso è quello che capitò a Seneca, filosofo pagano. Sua moglie, che si chiamava Arpante, dormendo era diventata improvvisamente cieca. Svegliatasi, e non vedendo filo di luce, fece aprire la finestra della stanza. Invano: non scorgendo ancora nulla, disse che era notte oscura. Ma quella notte non aveva alba; allora disse che la stanza era divenuta oscura. Si fece condurre in un’altra che trovò egualmente nera; passò in una terza e poi in tutte quelle del palazzo: ma in tutte era tenebra fittissima e dovette rassegnarsi a tornare nella prima. Seneca, raccontando questo fatto disse: « Cosa incredibile ma vera: mia moglie era cieca e non volle crederlo: credette piuttosto che dal mondo era scomparsa la luce e vi erano sottentrate le tenebre ». – Il caso eccezionale di questa donna è purtroppo comune a non pochi ciechi spirituali, che sono veramente ciechi e non lo sanno: non sanno, non credono, non vedono ciò che dovrebbero sapere in fatto di Religione. Per guarire da un male, la prima cosa è sapere di essere ammalati per potersene convenientemente curare. Ora io vorrei dirvi alcuni segni che vi possono indicare se avete la disgrazia della cecità spirituale. Tra i figli, è cieco colui che non vede come la felicità sta nell’aiutare, nell’obbedire, nel rispettare i propri genitori. – Tra i padri, cieco è colui che non vede come il bene della famiglia deriva dagli esempi che egli dà, sia colle parole, sia colle azioni. – Tra le madri, cieca è quella che non vede lo strettissimo obbligo di non permettere alle figlie conversazioni e divertimenti pericolosi. – Tra i coniugi, cieco è quello che non vede quale orribile delitto sia la infedeltà.  – Tra i celibi, cieco è colui che non sa di dover vivere castamente coi pensieri, cogli affetti, con le parole, con le opere, Tra i ricchi e tra i poveri, cieco è colui che non sa che il furto è peccato che non si perdona senza restituzione. Oh, se qualcuno comprende d’aver gli occhi dell’anima malati o spenti, oggi imiti l’esempio di Bartimeo. Deponga il mantello cencioso delle vecchie abitudini e d’un balzo corra a Gesù che passa e dica: « Ut videam! ». Che io veda la vanità di tutte le cose mondane; che io veda la bruttezza del peccato, il quale mi si presenta con iridescenti colori; veda i pericoli dell’anima immortale; ch’io veda la bellezza della vita eterna. All’ombra di una vecchia e scrostata muraglia era là buttato un povero cieco che ad ogni rumor di passi levava un rantolo e chiedeva almeno un quattrino. Un gruppetto di monelli lo volle burlare: ad uno ad uno passandogli davanti gli mettevano in mano una moneta falsa: e di quelle si rallegrava l’infelice, come di un grande guadagno. Ma venuta la sera, quando il cieco tentò di comprarsi un po’ di cibo per la sua molta fame, gli gettarono indietro le sue false monete, rimbrottandolo: « Cosa credete? Che siamo ciechi anche noi? Via di qua! ». – Quanti Cristiani ciechi nell’anima si lasciano ingannare dalle false monete del mondo, del demonio e delle passioni mondane: gli onori mondani, un contratto lucroso, un abito elegante, i trilli e le capriole d’una ballerina, una morbosa corrispondenza. Venuta la sera della vita, compariranno alle porte dell’eternità con in mano le loro opere. Ma gli Angeli della giustizia di Dio li condanneranno: « Monete false sono le vostre. Foste ciechi. Via di qua ».

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 12-13

Benedíctus es, Dómine, doce me justificatiónes tuas: in lábiis meis pronuntiávi ómnia judícia oris tui.

[Benedetto sei Tu, o Signore, insegnami i tuoi comandamenti: le mie labbra pronunciarono tutti i decreti della tua bocca.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.

[O Signore, Te ne preghiamo, quest’ostia ci purifichi dai nostri peccati: e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXVII: 29-30

Manducavérunt, et saturári sunt nimis, et desidérium eórum áttulit eis Dóminus: non sunt fraudáti a desidério suo.

[Mangiarono e si saziarono, e il Signore appagò i loro desiderii: non furono delusi nelle loro speranze.]

Postcommunio

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui coeléstia aliménta percépimus, per hæc contra ómnia adversa muniámur. Per eundem …

[Ti preghiamo, o Dio onnipotente, affinché, ricevuti i celesti alimenti, siamo muniti da questi contro ogni avversità.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (194)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXIX)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

V. — Il Cielo.

D. Come comprendi tu il cielo?

R. «L’occhio dell’uomo non vide, né l’orecchio udì, né il cuore ha compreso quello che Dio riserva a quelli che lo amano » (S. PAOLO).

D. Tuttavia?…

R. Tu conoscerai un giorno il cielo, come spero, possedendolo.

D. Ma in attesa del compimento di questo voto benevolo

R. Il cielo, come S. Paolo c’insegna, non ci vien descritto se non per mezzo di misteri; quello che se ne attesta, è la sua incomprensibilità. Ad ogni modo, noi vi dobbiamo vedere un tesoro di gioia.

D. È questo un dato di moralità veramente pura? Dobbiamo guardare alla gioia, e soprattutto collocare in essa il nostro ultimo fine?

R. Ascolta la risposta di Bergson: «I filosofi, che hanno speculato sopra il significato della vita e sopra l’ultimo fine dell’uomo, non han notato abbastanza che la natura si è data la pena d’informarci appunto intorno a se stessa. Essa ci avverte con un segno preciso che la nostra destinazione è raggiunta, e questo segno è la gioia ».

D. Come giustificheresti questa dottrina?

R. Si giustifica appena si pensa a quello che sono a nostro riguardo le intenzioni della Provvidenza, così come la natura delle cose, la ragione e la fede ce le manifestano. Noi non siamo sopra la terra se non per spiegarvi la nostra vita, finirla in perfezione umana e  soprannaturale, e ciò mediante un’attività retta, felice, feconda per noi e per tutti. Coloro che, secondo Kant, vollero stabilire la moralità sopra altre basi in realtà la camparono in aria, senza darle nessuna radice nella realtà naturale e umana.

D. Ma ciò non è propriamente la gioia.

R. Ne è la condizione, e la gioia ne è la testimonianza. Secondo Spinoza, Leibniz, Aristotile, ai quali aderisce San Tommaso d’Aquino, la gioia è l’espressione di un’espansione, come la tristezza è un restringimento e un regresso della vita.

D. Che cosa ne concludi?

Che lo scopo di tutta la vita è di essere in gioia, e che la virtù non è altro che il mezzo autentico di arrivarci.

D. Ciò fa la figura di paradosso epicureo.

R. Quando si comprende male. Ma ricordati di quegli altri paradossi che si chiamano le Beatitudini evangeliche; esse commentano la dottrina confermandola. Beati quelli che… Ecco posta la questione della felicità, la quale dunque è ammessa e anche proposta come fine. Al termine di ogni formula così cominciata, si trova: Perché il regno dei cieli è di loro; perché saranno consolati; perché saranno saziati, ecc., ed ecco il risultato ottenuto. Finalmente fra i due si trova il mezzo virtuoso: l’amore del prossimo, la purezza del cuore, la fame e la sete della giustizia, l’accettazione dei dolori provvisori, ecc.

D. Dunque il cielo non sarebbe altro che un compimento armonico di noi stessi, nella gioia, dopo una vita di virtù?

R. Esattamente, aggiungendo con maggior precisione che il compimento armonico di se stesso, per il Cristiano, importa un innalzamento. Ma questo innalzamento soprannaturale essendo ab æterno nell’intenzione creatrice, è per noi normale. Aristotile non diceva già che l’uomo non può giungere a capo di se stesso che oltrepassandosi?

D. Essere virtuosi non è dunque solamente meritare il cielo, ma salirvi effettivamente.

R. L’uomo che fa il bene si dedica effettivamente, benché misteriosamente, alla vita eterna; entra progressivamente in un mondo di gioia; fa se stesso gioia; diventando perfezione, diventa cielo; difatti «l’uomo nella sua forma perfetta è cielo » (SWENDENBORG).

D. Il cielo sarebbe dunque un effetto, un prodotto autentico della stessa attività virtuosa?

R. Sì. Il prodotto superiore dell’anima è il cielo. Il regno di Dio è dentro di voi, disse il divin Maestro.

D. Tuttavia il cielo significa altro.

R. Quest’altro è accessorio. Il cielo, nella sua sostanza, è uno stato dell’anima, e questo stato ha il carattere di compimento felice, di un’espansione nella pienezza, il cui segno naturale è la gioia. Perciò Gesù nel suo tenero discorso di addio, si esprime così: Io vi ho detto queste cose (i suoi comandamenti, e specialmente la sua legge d’amore), affinché la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia perfetta.

D. E ciò è fatto per tutti? È alla portata di tutti?

R. Sì, perché Dio è alla portata di tutti; Dio supplisce, là dove l’uomo manca; Dio compie, quando l’uomo ha cominciato. Perciò la beatitudine cristiana non è più la meta del dilettante greco che, lontano dalla folla, si esercita ad effettuare l’uomo « bello e buono » in cui egli vedeva l’immagine di una felicità principalmente astratta; ma è una beatitudine essenzialmente e universalmente umana, proposta a tutti, che tutti possono conseguire appena lo vogliano, quand’anche, come dicevo, a cagione delle circostanze delle quali essi non sono responsabili, non lo sapessero.

D. Dunque, rispetto alle insufficienze di questa vita, il cielo sarebbe un ammirabile compenso?

R. Il più diseredato dei figli di Dio non può disperare della sua fortuna: « gli resta un regno intero » (BOSSUET).

D. E rispetto ai dolori è una piena consolazione?

R. Gli eletti lo proclameranno, « quando riconosceranno i giorni della loro angustia più profondi e più belli che i giorni di felicità » (C. PÉGUY).

D. È anche un progresso? Il cielo comporta una evoluzione di felicità, un accrescimento?

R. Il cielo è il compimento infinito della speranza, con la speranza ancora.

D. Come il « perfetto » può crescere?

R. Per la sua propria espansione. Un grano perfetto genera un albero perfetto; un albero perfetto ne genera un altro. La semenza dei beni eterni è di una virtualità infinita, poiché è Dio stesso.

D. Ma tu rinunzi a descrivere questo cielo?

R. La nostra povera esistenza offre troppo poche gioie per fornirci qui delle immagini efficaci, e il soprannaturale non ha equivalenti umani. Tuttavia, ciò che non si può descrivere, si può tentare di precisare.

D. Che ne dici dunque?

R. Già ho distinto il principale e l’accessorio, che, in teologia, si chiama la gloria essenziale e la gloria accidentale. Di questa parleremo fra poco; ma l’essenziale della « gloria » celeste, quello che effettua questo compimento perfetto e felice di cui parlavamo, è l’entrata dell’anima in Dio, è la sua unione intima con Dio, la sua partecipazione alla vita stessa di Dio, come abbiamo notato quando parlavamo del soprannaturale nella sua essenza e nelle sue mire ultime.

D. Il Cristiano non pretende forse già di essere unito a Dio, di vivere già in Dio?

R. Sì, perciò la vita eterna non consiste nell’incontrare Dio, ma nel « rivederlo », come diceva Leone Bloy, cioè nel contrarre con Lui una società di vita più doviziosa, un’amicizia se non più intima, almeno più « sensibile al cuore », come direbbe Pascal.

D. Come sì stabilisce questo legame?

R. Dio è tutto spirito; noi siamo principalmente spiriti: questo vincolo, nel primo stadio, non può essere che un vincolo di spirito.

D. È uno stato dell’intelletto, oppure del cuore?

R. L’intelletto comincia sempre. È l’intelletto che esercita la presa; il cuore si riposa poi nell’oggetto conquistato.

D. In che consiste questa presa di Dio mediante un umano intelletto?

R. Qui noi non possiamo fare altro che balbettare. In mancanza di spiegazione reale, noi chiamiamo ciò una cognizione intuitiva, una visione, volendo significare che l’intelletto prende coscienza di Dio, a modo suo, con la stessa evidenza che l’occhio di carne prende coscienza dell’oggetto che esso vede.

D. Si può chiarire un po’ meglio questa nozione?

R. Descartes lo tenta. « La conoscenza intuitiva, dice egli, è un’illustrazione dello spirito per la quale esso vede nel lume di Dio le cose che a lui piace scoprirgli (e prima di tutto Dio stesso) mediante un’impressione diretta della chiarezza divina sul nostro intelletto, che in questo non è considerato come agente, ma solo come ricevente i raggi della Divinità ».

D. Questi «raggi » cartesiani non rischiarano gran fatto.

R. Qui nulla ci può illuminare. Ma S. Tommaso d’Aquino fa uno sforzo di spiegazione dicendo che a differenza di ciò che avviene quaggiù, dove la conoscenza delle cose ci è fornita dalla loro rappresentazione in noi, nella visione beatifica, Dio, che nessuna immagine può autenticamente rappresentare, diventa la sua propria immagine nell’eletto, la sua propria rappresentazione. Ed ecco dunque quest’essere che pensa Dio mediante Dio, come noi adesso pensiamo l’uomo mediante l’immagine dell’uomo e vediamo la pianta mediante la sua figurazione nel nostro occhio.

D. Non è un introdurre Dio nella stessa contestura dell’anima, e come un divinizzare questa?

R. Perciò noi abbiamo detto che il soprannaturale è una specie di divinizzazione, un’introduzione oscura quaggiù, chiara lassù, nell’ineffabile.

D. Come è ciò possibile?

È. Non si può esprimere la possibilità come non si può supporre il fatto, fuori di una dichiarazione divina. Ma noi abbiamo udito: « Carissimi, noì siamo ora figliuoli di Dio; e non è ancora manifesto quello che noi saremo; ma sappiamo che quando si manifesterà saremo simili a lui, perché lo vedremo come Egli è» (S. GIOVANNI).

D. Tu mi parli di tempo! Ma è possibile essere uniti all’Eterno altrimenti che per un atto eterno?

R. Tu dici bene. Dio, quando entra nell’anima per esercitarvi la parte di idea immanente, deve portarvi le sue proprie condizioni. L’atto di visione divina si misura dall’eternità, che è una durata non solo continua e senza pausa, non solo infinita, ma tutta simultanea, tutta insieme (tota simul), come dice Boezio. È davvero un nirvana, dove l’individualità, a dire il vero, si esalta in vece di perdersi, ma dove si concentra a tal segno che tutta la sua estensione di conoscenza si assorbisce nell’invisibile essenza divina, e la durata totale di questa conoscenza non è che un punto.

D. Come rappresentarci un tale stato?

R. Non cerchiamo rappresentazione; ma Alberto Magno ne vede una vaga immagine e un’anticipazione nel caso di quei contemplatori, di quegli « uomini divini », i genii, i santi, che anche in questa vita « sfuggono al tempo e non scorgono più cambiamenti che il tempo misura ».

D. Quest’ultimo caso si capisce; se ne vedono î limiti; ma « conoscere Dio come Egli conosce se stesso » è un atto infinito.

R. Si dice: come conosce se stesso, e si tratta del modo, cioè per contatto immediato. Non si tratta della misura, del grado. La prova è che gli stati di beatitudine sono, da un eletto all’altro profondamente differenti. Vi sono molte mansioni nella casa di mio Padre, disse Cristo. In altri termini, si tratta di « toccare Dio con lo spirito » (S. AGOSTINO) e non di « comprenderlo », cioè di esaurirlo.

D. Ne segue che questo è un attribuirci una capacità sovrumana, una capacità di Dio.

R. Bisognerà evidentemente « aprire le entrate » (BOSSUET). Dio non dovrà più guardare a quello che Egli ha fatto dell’anima nostra costituendo la sua natura, ma a quello che ne può fare. Egli « non baderà alla nostra disposizione naturale se non in quanto sarà necessario per non farci violenza » (Idem).

D. Che cosa può significare per noi conoscere Dio?

R. La sola idea che possiamo farci, quando si tratta di Dio, è quella di una fonte dell’essere, ove ogni valore di essere è contenuto nell’unità e secondo un modo ineffabile. Ciò non dice niente all’immaginazione, ma fa supporre all’intelligenza un inesprimibile splendore.

D. In Dio, si vedrà dunque tutto quello che quaggiù è disseminato lontano dalla Fonte dell’essere?

R. Si vedrà tutto nella proporzione che si vedrà Dio, con la stessa estensione o la stessa profondità di visione, che sarà determinata dalla nostra elezione stessa, vale a dire dal nostro merito coronato, dalla nostra grazia sbocciata in gloria. In tale proporzione, Dio farà conoscere all’eletto tutto ciò che il reale offre per lui di arricchimento ideale e di spirituale beatitudine.

D. Questo modo di conoscenza è per la mente un completo capovolgimento.

R. I poli della conoscenza umana si trovano infatti rivoltati. Qui, noi conosciamo il creato per esperienza sensibile e Dio per riflesso. Lassù, conosceremo Dio per esperienza soprasensibile, intuitiva, e il creato per riflesso in Lui. Nell’Assioma eterno si vedono tutte le proposizioni del reale; nel Decreto eterno, tutti gli esseri.

D. E sarà questa una felicità?

R. Se la felicità, come la conoscenza, consistono l’una e l’altra in una estensione e come in una moltiplicazione del nostro essere, tutte due si devono ricongiungere.

D. Una felicità puramente ideale, puramente intellettuale, potrà bastarci? Vorrai tu proporla, con qualche speranza di sedurli, agli uomini assetati di vita?

R. S. Paolo ti risponde con una parola che ha l’aria affatto innocente, che tra i Cristiani è diventata volgare, ma nella quale si rivela alla riflessione un’ammirabile profondità. « Dio sarà tutto in tutti».

D. Che cosa significa questa parola?

R. Dio sarà tutto per gli eletti, perché la diffusione dell’essere e dei beni che Egli operò con la creazione non ha impoverito Iddio di ciò stesso che Egli dona, Dio comunica; dà in partecipazione; non aliena. La Fonte dell’essere ha questo di speciale e d’incomprensibile per noi, che essa getta con un’indicibile abbondanza e non vede ridursi la pienezza delle sue acque. Perciò si trova, in essa, più che in nessuna cosa e più che in se stesso quello che è proprio di questa cosa e proprio di se stesso. Di modo che, possedendo Dio, nella proporzione che lo si possiede, si possiede se stesso nella propria pienezza e si possiede tutto il resto. Ecco quello che si vuol significare dicendo: Dio è tutto In tutti.

D. Ma tu lasci da parte l’ordine di cognizione, del quale avevi detto che impegna tutto, e che appunto per quest’ordine noi aderiamo alla Fonte dei beni.

R. Niente affatto, ed ecco la connessione. Ciò che si chiama una felicità reale, una felicità effettiva, per opposizione a un puro conoscimento, di che cosa è fatto se non ancora di conoscimento, dopo che gli oggetti conoscibili, assimilandosi ai nostri corpi, ci hanno anzitutto aiutato ad essere? Per noi, tutto consiste nel vedere, nel toccare, nel gustare, odorare, nel prendere conoscenza di noi e degli altri, nel reagire di fronte a una verità, a una bellezza, a un’amicizia riconosciuta, a una stima manifestata, ad una sottomissione degli avvenimenti o delle persone che certi fatti di conoscimento ci dànno.

D. Ma questi fatti di conoscimento non sono tutti dell’ordine intellettuale; i più dipendono dai sensi.

R. Pensi tu che ciò sia meglio, in quanto alla loro capacità di felicità?

D. L’immensa maggioranza degli uomini così crederebbe.

R. In un certo modo avrebbero ragione; ma nell’assoluto, dove ci riporta la vita eterna, essi avrebbero torto.

D. Desidererei di comprendere.

R. Tutto dipende dal genere d’intellettualità di cui si parla, quando si oppone la cognizione intellettuale a una cognizione sensibile atta a rallegrare i viventi.

D. Vi sono dunque più specie d’intellettualità?

R. Ve ne sono qui due da prendere in considerazione: l’intellettualità astratta, e quella che noi abbiamo chiamata intuitiva, che ci lega a Dio spirito.

D. Come si nota la differenza?

È. L’intellettualità astratta non ci dà se non dei concetti, cioè dei fantasmi di nostra creazione, che a dire il vero rappresentano il reale, ma non lo fanno entrare in nostro possesso. Questi concetti sono della nostra sostanza; sono noi modificati; non possono dunque procurarci del reale se non una figura e come uno schema vuoto. Al contrario, per l’intuizione di Dio, noi attingiamo in Dio spirito quello che vi si trova, e ciò non è più uno schema delle cose. Dio non è una forma vuota, come quella che noi concepiamo quando pronunziamo questa parola: Dio. Tutta l’idealità che contiene è sostanziale, essendo il suo essere stesso. Creatrice, essa è ricca di tutto il reale. Per conseguenza, tutto quello che, nel reale, è l’oggetto delle nostre intuizioni sensibili e dei nostri « possessi », qualunque ne sia la forma, si deve trovare in questa Sorgente prima allo stato ideale. Perché allora non ve l’attingeremmo?

D. Potrebbe ciò farsi per mezzo del solo spirito?

R. Per mezzo dello spirito — se esso esercita la sua funzione di spirito in luogo di quella funzione d’anima che anima una materia, di cui abbiamo qui l’esperienza, — perché non afferreremo noi quello che, in Dio, è spirito, per quanto sia pieno

di ricchezza di essere?

D. Ecco quello che di fatto sfugge a ogni esperienza!

R. Come Dio stesso; ma questo è tuttavia incluso nella nozione di Dio. « Dio è virtualmente ogni essere », abbiamo detto con S. Tommaso d’Aquino: se noi possiamo afferrare Dio con un’intuizione ricca del suo essere stesso, poiché di questa stessa intuizione Lui stesso è il principio immanente, noi saremo in possesso dell’essere, e non del suo contorno astratto. La nostra intuizione intellettuale, elevata dal lume della gloria al livello del divino in sé, potrebbe essa, in questa presa dell’essere, mostrarsi inferiore ai nostri occhi, alle nostre mani, alle nostre papille boccali, a tutto l’attrezzamento sensoriale? No, certo. Dunque, noi possiamo trovare lì più felicità che in quel supposto reale in cui già Platone non vedeva altro che un’ombra.

D. Come ammettere che per mezzo dello spirito si possa percepire e conquistare, per viverne, quello che dipende dalle qualità della materia, oggetto dei sensi e non dello spirito?

R. Quelli che Bergson ed altri ancora hanno istruito sanno che la materia non è che il limite inferiore dello spirito, un residuo grossolano, una cenere di questo fuoco, un arresto relativo e come una paralisi di questa attività sublime. Vorremmo noi rimpiangere la cenere, abbagliati e riscaldati dal fuoco?

D. Questa dottrina è ammessa in filosofia cristiana?

R. S. Tommaso ne offre l’equivalente quando riunisce materia e spirito in una sintesi ideale della quale la sostanza divina, tutta ideale essa stessa, è il centro di emanazione. Per S. Tommaso, tutto quello che vi è di proprio della materia e dei composti di materia si trova in Dio eminentemente, come nella sua sorgente prima, e quindi si può ivi ritrovare, se per l’intelligenza sopraelevata e come divinizzata nella sua potenza, si afferra Dio in sé.

D. Dunque, secondo te, un eletto non può rimpiangere questo mondo.

R. È possibile il rimpianto del miraggio, quando la sorgente ti abbevera? Una giovane madre rimpiange forse la sua bambola, quando ha il bimbo in braccio?

D. Ma è là tutto il cielo?

R. È l’essenziale, dicevo, a tal segno che, se anche tutto il resto fosse assente, non si potrebbe dire che mancasse. Chiunque ha il sentimento di ciò che è Dio sottoscriverà questa sentenza di S. Agostino: « Assai avara è un’anima a cui Dio non basta ».

D. L’essenziale suppone però l’accessorio.

R. L’eternità di fatto dev’essere presa com’è. Il nostro essere al contatto di Dio, non rinunzia a se stesso, non perde il contatto con le altre creature, e la sua beatitudine si deve allargare, se non elevarsi, con tutto ciò che gli può venire dal suo proprio funzionamento naturale e dalle sue molteplici relazioni.

D. Tutto questo non è forse offuscato dalla chiarezza divina, annegato in quel nirvana cristiano che hai descritto?

R. Noi accettiamo come una legge che Dio, fondatore delle nature, attirando a sé le sue creature, non fa mai altro che darle maggiormente a se stesse. Ne segue che nell’anima separata dal suo corpo, l’attività relativa a se stessa e a tutte le altre creature dev’essere più intensa e più ricca, anziché essere abolita.

D. Tutti i suoi pensieri di questo mondo seguono dunque l’anima nell’altro mondo?

R. Questo si crede generalmente, quantunque non sia un’assoluta certezza. Ciò dipende da una teoria psicologica un tempo contestata.

D. Che cosa intendi con questo?

R. Si può pensare che le nostre idee nascano e rinascano nell’anima all’occasione dell’esperienza sensibile e del ricordo, ma senza imprimervisi in modo durevole. Si può pensare invece che vi persistano tanto più in quanto l’anima è immateriale e non subisce, come la sostanza cerebrale, il consumo del tempo. In quest’ultimo caso, di gran lunga più probabile, le nostre idee acquistate durante la vita ci rimangono; nell’altro caso, no.

D. Le conseguenze di quest’ultima supposizione devono essere molto gravi.

R. Sono anzi insignificanti; perché ciò che non sarebbe ottenuto per questa via sarebbe ottenuto sovrabbondantemente per la precedente. Non è necessario vedere gli astri nel mare, quando si vedono nel cielo.

D. Dunque tu sostieni che Dio solo basta?

R. Dio solo basta; ma Dio ci dà con se stesso tutta l’opera sua. Si potrebbe attribuire questo senso nuovo alla formula evangelica: « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato per giunta ».

D. In questo soprappiù, comprendi tu una vita comune degli esseri salvati, e specialmente di quei che si conobbero sopra la terra, che furono legati dalle collaborazioni, dai servigi e dai vincoli dell’amore?

R. È naturale, benché, su questo punto, non abbiamo rivelazione precisa. Ammesso che il destino, in Dio, è principalmente individuale, perché, rispetto all’eternità, ogni anima vale una specie, così come un puro spirito, si deve pensare che i nostri legami della terra hanno la loro sanzione in cielo, come ogni fatto provvidenziale avente i suoi fondamenti nella nostra natura.

D. Ma la natura, in questo caso, non è, finalmente, assorbita nel soprannaturale?

È. No; come la visione creata non è assorbita dalla visione divina, come la creatura non è assorbita in Dio, conservatore e cooperatore della sua opera. « La grazia non distrugge la natura, ma la perfeziona », è presso di noi un adagio comune. Poiché la nostra natura è sociale con tutto quello che questa parola astratta comporta di vincoli effettivi, il compimento finale deve importare una società degli spiriti, benché i vincoli spettanti alla carne o nati dagl’interessi materiali non Vi possono manifestamente ritrovare tranne i loro effetti spirituali, ma in nessun modo la loro propria sopravvivenza.

D. Non vi sono dunque famiglie in cielo? Non vi sono patrie?

RF. Nella Risurrezione, disse il Salvatore, gli uomini non hanno mogli, né le donne mariti; essi sono come gli Angeli di Dio nel cielo, ed è lo stesso dei gruppi di famiglie legati dagli avvenimenti del tempo che si chiamano patrie. Ma ciò che non sussiste punto in sé conserva i suoi effetti. Una famiglia, come ce lo ha detto abbastanza il sacramento del matrimonio, è un’organizzazione della salute, un elemento della Chiesa; una patria non è che un gruppo di famiglie: dunque nello stesso modo che rimane la Chiesa, anche la famiglia, in tutto ciò che essa ha di Spirituale, deve rimanere, insieme coi vincoli spirituali nati nelle patrie e che, fin di quaggiù, ne sono la parte eterna.

D. Non vi è qui, tuttavia, un particolarismo nemico della carità universale, e questa grandiosa carità non è forse quella che tu difendevi sotto il nome della comunione dei santi?

R. La comunione dei santi estende un amplesso immenso a tutti gli altri; non li distrugge affatto. La carità ha i suoi oggetti ordinati a scaglione, e perché Dio ne è l’oggetto primo, motivo essenziale d’amore verso tutti gli altri, noi diciamo che l’essenziale della carità in questo mondo è l’amore di Dio, e l’essenziale della beatitudine celeste l’unione con Dio. Ma siccome l’amore di Dio non abolisce l’amore del prossimo, ed anzi lo fonda: così la beatitudine in Dio non assorbe affatto la felicità affettuosa che possiamo trovare nelle creature: « La carità rimane », dice S. Paolo: dunque anche i suoi oggetti, che determinano il suo valore e le sue forme. Del rimanente non acclamiamo noi con gioia e tenerezza l’Incoronamento della Vergine nel cielo? Se Cristo corona sua Madre, non è per toglierci la nostra.

D. Dunque noi, figli di Dio, non ci lasciamo se non per ritrovarci?

R. « La vita non è che un’occasione d’incontro, solo dopo la vita avviene il congiungimento » (Vicror HUGO).

D. Ma la nostra ampia unità, attraverso a ogni frontiera, unità che ha tanta difficoltà a rendersi conscia di se stessa, tu l’aspetti indubbiamente per l’altra vita?

E. Noi attendiamo l’assemblea universale degli uomini, ora dispersi nello spazio e nel tempo, come ciascuno di noi attende la coscienza piena del suo essere, oggi sbriciolato in fenomeni successivi e incoscienti. Ciascuna creatura pensante deve un giorno ritrovarsi in tutti gli altri, in una stretta comunità di gioia. La nostra unità divinizzata sarà il coronamento dell’opera umana nel soprannaturale, come una vera e intima società delle nazioni sarebbe il coronamento della civiltà sopra la terra. Comunicare insieme e nella loro Sorgente è la felicità eterna degli spiriti.

LE VIRTÙ CRISTIANE (15)

LE VIRTÙ CRISTIANE (15)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO IV.

LA TERZA BEATITUDINE.

La virtù della pazienza.

Se alcuno dei miei lettori fu preso da stupore nell’udire le prime parole di Cristo: Beati i poveri in ispirito; lo stupore di lui crescerà di mille tanti, sentendo queste altre parole di Gesù: Beati coloro che piangono. Come mai la beatitudine si potrebbe accordare col pianto, il quale, secondo bellamente dice l’Alighieri, non è altro se non dolore, che si distilla in lacrime?» Certo, il dolore e la beatitudine non possono stare insieme; ché la beatitudine è godimento, e il dolore è non solo negazione, ma contradizione di godimento. Pertanto, a voler ben intendere le parole di Cristo, innanzi tutto ricordiamoci che le otto beatitudini, piuttosto che beatitudini della vita presente, sono virtù promettitrici di una eterna e inenarrabile beatitudine avvenire. Ancora, prima di parlare della virtù, che io credo particolarmente insegnata in questa terza beatitudine, la quale virtù è la pazienza; volgiamo la mente a qualche considerazione generale intorno a coloro che piangono, per trarre dalle parole di Cristo un primo significato, anche esso utile alla nostra vita morale. Dopo che il pianto è malauguratamente entrato nel mondo, e lo vediamo spuntare sino su gli occhi del bambinello appena nato, è certo che l’uomo trova nella vita molte cagioni virtuose, nobili e sante di piangere; e intanto trova pur molti incentivi viziosi, ignobili e rei al godere. Or bene, dove mai s’incontra,la beatitudine della virtù vera? Tra coloro, che piangono, sacrificando sé stessi al bene, o tra coloro che godono e ridono prostituendosi al male? I sentimenti più nobili e santi sovente ci spingono, quasi inconsciamente al pianto, o quando, per esempio, ci addoloriamo dei peccati nostri e di quelli del prossimo, o quando abbiamo compassione dei nostri fratelli miseri e abbandonati, o quando perdiamo i nostri cari, o se vediamo oppressa la giustizia e trionfante l’iniquità. Diremo noi dunque che il pianto in questi casi non sia commendevole e bello? Non preferiremo noi mille volte le lacrime sante e spesso soavi dei figliuoli di Dio, al riso dei gaudenti del mondo e di tutti coloro che, pur di godere, s’infangano in ogni sorta di brutture e di viltà? Non diremo noi, per esempio, bello il pianto e belle le lagrime di una madre, che, vegliando sul figliuolo suo prediletto, teme di perderlo, e mescola il pianto con le sue preghiere a Dio? Allorché adunque il nostro divino Maestro disse beati coloro che piangono, e poi aggiunse, guai a coloro che ridono; l’universo gli si affacciò alla mente come diviso in due grandi schiere: quella dei figliuoli della Città di Dio, i quali spesso hanno il volto bagnato di lagrime, sebbene ad essi non manchino le dolcezze di interne consolazioni; e quella dei figliuoli della Città del mondo, che gavazzano, ridono, banchettano, amoreggiano, e non di altro si dànno pensiero, se non del molto e sempre godere. Se non che ravvicinando queste parole di Gesù, beati coloro che piangono, con le altre dette da lui: in pazienza possederete le anime vostre; noi possiamo bene intender le prime come ordinate ad insegnarci la nobilissima e cristiana virtù della pazienza. Guardiamo un tratto l’uman genere con animo sereno e riflessivo. Innumerevoli sono i dolori della vita nostra; e tutti, mercè la pazienza cristiana, diventano germi di bene, e ci fanno talvolta anche provare intimamente le dolcezze che il Signore diffonde nelle anime alle quali è bello il soffrire per amore di lui. Or, a ben intendere la virtù della pazienza, che nel Cristiano è la compagna indivisibile del dolore, sarà utile di studiare alquanto la natura del dolore stesso, e l’alta sua missione nel Cristianesimo. Il dolore, come insegna la dottrina di Cristo, è effetto del peccato; e poiché il peccato è separazione da Dio, anche il dolore in un altro modo è una separazione da Dio sommo Bene, o da qualsiasi altro bene vero o apparente, in cui risiede l’immagine del primo Bene. Non è volontaria questa seconda separazione del dolore, come volontaria fu quella del peccato; ma è pena dell’altra, e, dopo la redenzione di Cristo, quando sia pazientemente accettata, è una pena che conferisce molto a distruggere quello stesso peccato, da cui nacque. Chi non pone mente a questo che ho detto, del dolore, e non cerca di penetrarne addentro la natura, non saprà mai spiegare l’infinita ripugnanza che l’uomo, anche se santo, ha verso il dolore, e il gran bene, che esso è riuscito a noi, dopo il peccato, per effetto della Redenzione di Cristo. –  In vero il dolore è o morale o fisico. Il dolore morale è un sentimento, che turba e affligge l’animo, per un bene qualsiasi, o perduto se si possedeva, o desiderato e non potuto possedere. Così invero l’uomo soffre per la perdita dell’amico, delle ricchezze e del piacere che possedeva, ed egualmente soffre del non poter godere questi beni desiderati. Che se egli conosca e ami Iddio, e l’offende; l’animo suo ha pur dolore di aver perduto pel peccato il sommo Bene: o se è ostinato nel male, soffre di non poter riacquistare il sommo Bene perduto. Insomma non vi ha mai dolore morale, che non metta la sua radice in una qualsiasi separazione da un bene. Che se talvolta il bene, che ci fa soffrire è apparente o colpevole; ciò non significa che nella cosa rea desiderata non vi sia una qualche particella di bene, la quale ce la fa desiderabile, e quando si perda, o non si possa conseguire, ci arreca dolore. – Non molto differente dal dolore morale è il dolore fisico, che deriva dalle medesime cagioni; e benché riguardi il corpo, è l’anima che principalmente lo sente. Il dolore fisico in vero è una sensazione molesta e afflittiva, cagionata da un male, che tormenta qualche parte del corpo umano. Ora il bene del corpo umano è che, quantunque consti di moltissime parti, cioè della carne, delle ossa, dei nervi, dei muscoli, del sangue, delle arterie, delle vene e di tanti membri o membricciuoli diversi; nondimeno sia uno, per effetto della proporzione e armonia ammirabile di tutte le sue parti. Senza il peccato l’uomo, che, unito con Dio, non sarebbe stato soggetto a dolori morali, non avrebbe neanche avuto dolori fisici. Ma dopo che egli ebbe peccato, avvenne il contrario; ché effetto del peccato fu anche lo spezzamento e la dilacerazione del corpo umano; preludio e avviamento a quell’ultimo spezzamento e finale dilacerazione, che dicesi morte. Dalla prima ora, in cui nasce e vagisce un bambinello, insino al dì della morte sua, molte cagioni intrinseche ed estrinseche turbano cotesta armonia e unità del corpo, che è il suo bene proprio. Onde avviene, che esso corpo, scisso dal proprio bene, sente, dolore. Innumerevoli motivi, il troppo e il poco di ciascuno degli elementi, onde il corpo si costituisce; le percosse, il fuoco, il gelo, la fame, la sete, e mille altre cagioni, intanto che producono dolore, non sono altro, che separazioni e dilacerazioni di quella unità armoniosa, che costituisce il vero bene del nostro corpo. Se non che, come mai si governerà l’uomo, a petto di questo nemico della sua natura che è il dolore? Non è agevole il dirlo, se si pensi, che niente gli ripugna più del dolore. Oh dunque misera, cento volte misera condizione dell’uomo, creato da Dio per godere, e costretto, non volente, anzi fortissimamente ripugnante, a vivere quasi sempre tra il dolore! Il più delle volte anzi, l’uomo come chi si aggira in uno spineto, per troppo desiderio di evitare una spina, sentesi dilacerato da un’altra! Che farà dunque egli mai, circondato, com’è, tutto da spine, che lo pungono ora nel cuore e ora nel corpo? Avanti a lui non si aprono che due vie opposte: l’una di esacerbarsi sino alla disperazione e superbamente affermare, con lo sventurato Giacomo Leopardi l’infinita vanità del tutto: l’altra di esser paziente, quanto più è possibile paziente. Questa seconda via è la via del Cristiano, non facile a percorrere, ma nondimeno piena di luce, di bellezza e di gloria. – Pazienza è virtù che ci fa soffrire con rassegnazione e animo sereno le avversità, i dolori, le ingiurie e ogni cosa molesta. Non fu virtù ignorata dai Pagani; tanto più che essa ha intima parentela con la fortezza, la quale ei tennero in onore, dichiarandola virtù cardinale. Nondimeno nella Paganità la pazienza fu guastata spesso dall’orgoglio, che è il verme roditore di tutte le virtù gentilesche. L’uomo forte e paziente quasi sempre si gloriava della forza e della pazienza sua, e ne prendeva motivo per elevarsi sopra il più degli uomini, e talvolta anche per tenerli a vile. Tra il popolo di Dio, questa virtù fu avuta in gran conto, e, secondo la dottrina israelitica, che fa derivare la virtù da Dio nell’uomo, non riuscì incentivo d’orgoglio. Non ne mancarono esempj tra i Patriarchi, e basterebbe quello di Giobbe, che è tanto bello e parlante, e che giustamente fu dato al popolo Giudeo, per apparecchiarlo a comprendere la incommensurabile ed eroica pazienza di Gesù Cristo. Nondimeno la virtù della pazienza è giusto che la diciamo virtù cristiana, sia perchè Cristo fu l’Uomo dei dolori, e il divino Paziente; sia perché il Cristianesimo con i suoi nobilissimi principj modificò grandemente l’idea del dolore, e anche della pazienza, che ce lo fa sopportare. Chiunque soffre nell’anima o nel corpo, la prima idea che gli si affaccia alla mente è, certo, questa; Perché mai io soffro? Non è questa una domanda curiosa, o un effetto della tendenza naturale dell’intelletto a scovrire le cagioni delle cose. È invece un possente bisogno, che rampolla spontaneamente nell’animo umano dal desiderio del godere e dalla ripugnanza al patire. Ora nessuna filosofia, e molto meno la miscredenza sa rispondere a questa interrogazione. E pure il rispondervi gioverebbe non poco a vincere i foschi e disperati propositi di molti, e ad alimentare la virtù della pazienza. Solo il Cristianesimo risponde con dottrina assolutamente ferma e certa: che ogni dolore dell’animo e del corpo deriva dal peccato d’origine, e dagli altri peccati. Né qui si ferma. Insegna che, mentre il dolore è frutto del peccato, è altresì pena del peccato. Or questo pensiero, che mette nel dolore la pena del male, è al tutto conforme alla nostra ragione; la quale, fuori del dolore, non sa neanche concepire l’idea di pena, come ne fa fede il giure antico e moderno. – Il Cristianesimo fa ancora un altro passo avanti. La pena del male può essere o soltanto punitiva, o anche talvolta punitiva ed espiativa insieme. Quando la pena espia il peccato, ci fa un gran bene, e riesce anche a consolarci, liberandoci dal fardello del male. Che se il male, cristianamente lo consideriamo a guisa di una macchia, la pena ci monda, e, se come una bruttura, la pena ci abbellisce. Ora il dolore, che è pena, diventa, per i meriti di Cristo e per la nostra pazienza, una perfetta e completa espiazione del male. Il dolore dunque, e la pazienza che gli sta a lato, sono diventati per tal guisa, cose nobilissime, sante e consolatrici. Anzi, a guardar il fatto più addentro, questo nobilissimo mutamento, avvenuto nel dolore, procede tutto dalla virtù della pazienza, che Cristo, divino Paziente, ci comunica. Togliete al dolore umano la pazienza, e che resta esso mai? Una pena, niente altro che una dura pena, poco diversa da quella dei malfattori, che mordono il freno sconsolatamente. Anzi il dolore, senza il balsamo della pazienza, non è una pena soltanto: essendo assai ripugnante alla nostra natura, diventa pure uno stimolo possente di peccati nuovi. – Oltre alle cose dette, la pazienza cristiana trasforma e trasfigura al tutto il dolore in un altro modo. Di pena che esso è, lo rende anche principio di merito, e anzi merito esso stesso. La grazia celestiale, che è la rugiada benefica di tutta la nostra vita cristiana, spesso ci è meritata dal dolore paziente. Ancora, intorno all’albero della pazienza nostra pullulano, e vigoreggiano e crescono la fede, la pietà, l’umiltà, la carità, la mansuetudine e tutte le virtù del credente. Le quali, poiché ci furono meritate da Cristo paziente, sono facilmente date e accresciute nel nostro animo per effetto di pazienza. Infine il dolore, nato dal peccato, il dolore dico, che ci ha possentemente allontanati dal gaudio, pel quale Iddio ci aveva creati, esso stesso, trasfigurato dalla pazienza cristiana, ci conduce a un gaudio incommensurabile ed eterno. Ciò che di Cristo Redentore è detto, essere stato necessario ch’ei patisse per entrare nella gloria, è verissimo di ciascun uomo, che, dopo il peccato, non arriva agli eterni gaudi, se non per l’aspra e oscura via del dolore. Il dolore pazientemente sopportato ha acquistato nella dottrina del Cristianesimo una tale nobiltà e grandezza, che il Cristiano, quantunque senta la sua natura infinitamente ripugnante al soffrire, talvolta liberamente cerca il dolore, e liberamente lo infligge a se stesso. Il nobilissimo principio della mortificazione cristiana, così poco e malamente compreso dal mondo, non ha altro fondamento se non questo che sono per dire: poiché il dolore pazientemente sopportato, espia il male, ed è fonte di merito e di gaudio eterno; noi dunque andiamo liberamente incontro a dolori volontari, affine di rendere più facile e completa la nostra espiazione, più ricca e vivace la sorgente dei nostri meriti. Con questo intendimento il Cristiano digiuna, si flagella, mortifica i sensi; con questo intendimento talvolta ricusa a se stesso anche gl’innocenti piaceri dello spirito. Tutta questa teorica del dolore, della pazienza, delle pene, del merito cristiano, intanto che è un volo altissimo e nobilissimo della teologia cattolica, riesce il balsamo consolatore della nostra vita morale. Quante sanguinanti ferite ha guarito questo balsamo! Quante titubanze ha vinte! Quante anime ha consolate, tra i dolori più acerbi! Chi potrebbe noverarlo! Oh! Se i mondani che vedono sì agevolmente dappertutto mali e dolori, potessero penetrare un po’ addentro nell’anima di coloro, i quali, uniti a Cristo col cuore, piangono; oh! quanti misteri di luce, di carità e di dolcezze arcane si rivelerebbero ad essi. Vedono la superficie del mare fremente e in tempesta, e non s’accorgono che nel fondo di esso le acque appena si muovono leggermente o restano affatto tranquille. I Santi, poiché vollero non solo vivere nella pazienza cristiana, ma toccarne l’eroismo, non s’appagarono di soffrire rassegnati e talvolta lieti tutte le tribolazioni della vita, ma andarono molto avanti nel procurarsi liberamente frequenti e gravi dolori. Però furono talvolta giudicati come persone, che si mettessero contro la natura, data loro da Dio. Si potrebbe provare con buone ragioni che ciò non è punto vero; ma poniamo che qualche Santo avesse in ciò oltrepassato il segno; chi oserebbe mai fargliene una colpa, quando si pensi che lo fece soltanto per avere una signoria di sé medesimo così piena, che lo rendesse eroe di coraggio e di fortezza contro tutto quanto vi ha di male o di vile nel mondo? – Ma poiché siam venuti a parlare dei perfetti o Santi che siano, consideriamo un tratto con più accurato studio la beatitudine di coloro, che piangono, in relazione con la santità cristiana. I Santi crearono nel linguaggio cristiano una frase assolutamente nuova, e ignota prima del Cristianesimo, e che, come è giusto, corrisponde ad un pensiero nuovo. Essa è il gaudio del soffrire. A prima giunta pare che contenga in sé una contraddizione, ma non è il primo Santo in vero, che, per quanto io sappia, adoperò questa espressione fu l’Apostolo Paolo; ed è da notare, che, nella bocca di lui, non fu un insegnamento o una teorica astratta; sì bene un sentimento, provato da lui medesimo, e manifestato con queste parole: Io sovrabbondo in gaudio in ogni nostra tribolazione” (2 Cor. VII, 4). Or il gaudio della tribolazione, pieno com’è di mistero, non è un gaudio, che annienta il dolore; perciocché allora la tribolazione non vi sarebbe più, ma un gaudio che sta insieme col dolore; proprio a quel modo che vediamo talora nel cielo i bellissimi colori dell’iride stare in mezzo a nubi dense e oscure. Quante volte in vero noi soffriamo e godiamo nel medesimo tempo? soffriamo, per esempio nel corpo, e godiamo nello spirito; soffriamo del presente e godiamo del futuro? Quante volte una medesima cosa, guardata in un aspetto, genera dolore, e guardata in un altro, genera gaudio? Dite a una madre, che un suo dolore corporale conserverà certamente la vita del suo dilettissimo figliuolo; e non credete voi che in lei, mentre il corpo soffre pel dolore, l’animo gode per la vita salvata al figliuolo? Questo medesimo avviene nei Santi. Mentre si trafiggono talvolta con spine di dolore volontario, il cuor loro gioisce nel compiacimento dell’espiazione, del merito e del gaudio futuro. Qui avanti vi accennai che san Paolo Apostolo sentiva il gaudio della tribolazione. Ora credo che, dopo di lui, nessun altro abbia più efficacemente espresso questo pensiero di quel che fece una vergine claustrale, una pazientissima vergine, santa Teresa di Cepeda. Date un’occhiata alla Vita di lei, e alle sue Opere, e ci troverete sempre questo pensiero, che il vivere senza patire era per Teresa pena maggiore d’ogni pena. Onde pregava il Signore dicendo: O che io patisca o che io muoja. Da queste ultime cose dette si rileva assai bene che le dolci parole di Gesù Cristo: beati coloro che piangono, acquistano nei Santi un significato più letterale e più evidente, che non abbiano negli altri Cristiani anche buoni e pazienti. I Santi letteralmente e strettamente, almeno in alcuni casi, si sentono beati e allegri del loro pianto. Il pianger per amore di Cristo e del bene che egli assomma in sé e diffonde, ecco in sustanza il nuovo fonte di gaudio, al quale essi soltanto hanno potere di attingere. Però san Paolo scrive: “A me è stato donato per Cristo, non solo il credere in Lui, ma il patire per lui” (Ad. Philpp. I, 20). È un dono dunque il patire. E negli Atti è più chiaramente espresso il medesimo pensiero, quando di tutti gli Apostoli si dice: “Chiamati gli Apostoli, e battuti che gli ebbero, intimarono loro di non parlare né punto né poco nel Nome di Gesù, e li rilasciarono. Ed essi se ne andarono pieni di gaudio dal cospetto del concilio, per essere stati fatti degni di patir contumelie pel Nome di Gesù ” (Act. V, 41, 42). Se questo avviene nei Santi, coloro che sono soltanto pazienti, aspettano serenamente la consolazione e il gaudio nella vita futura, secondo le parole di Gesù: Beati coloro che piangono, perciocché saranno consolati. La consolazione eterna sarà il premiò eterno della pazienza. Quel medesimo premio, che nella prima beatitudine è detto regno, e nella seconda terra, in questa terza Gesù lo dice consolazione. E certo, se prendiamo la consolazione nel senso di letizia, il paradiso sarà ai pazienti e a tutti i virtuosi consolazione eterna, inenarrabile e dolcissima. Ma, se prendiamo la parola consolazione in un significato, che forse gli è più proprio, cioè nel significato di quel sentimento soave da noi provato, allorché ci sentiamo alleggerire o dileguare un dolore, allora anche nella vita presente sarà vero che i pazienti sono consolati. Il sapere perché soffriamo; il credere che il proprio dolore è espiazione del male; il pensare che nel dolore è il germe della virtù e del merito; lo sperare che il dolore pazientemente sofferto ci apra la via ai gaudj infinitamente superiori a ogni nostro patimento: tutto ciò diffonde indubbiamente nell’anima del paziente cristiano un’aura di soavità, di pace e di conforto, che forse parecchi di coloro che mi leggono, avranno sperimentato in sé stessi. –  E se non lo sperimentarono mai, deh! si provino almeno talvolta, a esser pazienti secondo Cristo; e forse il Signore lor farà grazia d’intendere e di sentire dentro di sé medesimi l’efficacia di questa parola sua: Beati coloro che piangono, perché saranno consolati.

LE VIRTÙ CRISTIANE (16)

LE VIRTÙ CRISTIANE (14)

LE VIRTÙ CRISTIANE (14)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C. – Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO III.

LA SECONDA BEATITUDINE.

La virtù della mansuetudine.

Le prime parole, dette da Gesù sul monte delle beatitudini, già ci hanno aperta la mente a considerare giustamente il valore delle ricchezze, e anche i pregi e i difetti dell’umana natura, È questo retto giudizio delle ricchezze e della natura umana è il primo seme, onde nascono nell’animo le due virtù, delle quali più avanti s’è parlato, la povertà in ispirito e l’umiltà. Esse sono indubbiamente due nobili virtù ed eminentemente cristiane; ma non bastano, né vivono mai lietamente, se non siano accompagnate dalle altre virtù, con le quali, come le varie note della musica, fanno armonia. Ecco però che il divino Maestro, accostandosi di nuovo all’intimo dell’uomo, mira, con pietosa bontà, un’altra propensione di lui, corrotta dal peccato, e le si oppone dicendo: Beati i mansueti; perciocché essi erediteranno la terra. La propensione, a cui accenno, è quella, che dicesi irascibilità. Or l’irascibilità, considerata nella sua natura, è la facoltà di eccitarsi contro il male o gli ostacoli, che le persone o talvolta anche le cose ci oppongono. Questa facoltà, come tutte le facoltà umane, ci fu data da Dio, ed è di per sé buona e ordinata al bene, Vi ha dunque nell’uomo un’ira, o, è meglio detto, uno sdegno lodevole; ma d’ordinario l’ira trascende, s’infiamma e bolle nell’animo umano contro l’ordine della ragione; e però nel comune linguaggio basta dire ira per intendere l’ira peccaminosa. In vero lo sdegno lodevole si ha quando l’animo ordintamente e con giusta misura, allontanati gli ostacoli, si commuove per difesa e vendetta dell’onesto o per punizione di malvagità o di malvagi. In questo senso è detto nella Bibbia che Iddio si adira contro gli uomini peccatori, o anche contro le nazioni peccatrici; e in questo medesimo senso si adirano anche i buoni figliuoli di Dio, e molto più i Santi, secondo che accade di leggere nelle loro vite. Lo zelo del bene e l’odio del male, l’amore della giustizia, e il desiderio che il male sia punito e le punizioni riescano in vantaggio degli stessi rei, alimentano questo santo sdegno, e non che avvilire, nobilitano il cuore umano. A chi mai non parrebbe lodevole e nobile lo sdegno, onde s’infiamma l’animo di colui, che vede crudelmente opprimere l’innocenza ed esaltare e premiare la malvagità? Questo santo sdegno è anzi indizio di profondi convincimenti, di una chiara comprensione del bene e del male, e soprattutto di animo forte e magnanimo. Che se oggidì riesce tanto raro, gli è perché, in generale, gli animi sono fiacchi e servili; e però intendono bene lo sdegnarsi per passione, ma stimano lo sdegnarsi per la giustizia e la verità una pinzoccheria di pusilli. Sicché è bene avvertire che lo sdegno, per amore di giustizia, ha certe forme tutte sue proprie, dignitose, serene, nobili e tali, che da esse traspare un grande amore del bene e una grande e caritatevole compassione dei proprj fratelli. Colui, sia pure zelantissimo della giustizia e del bene, che nello sdegnarsi non sa far trasparire di fuori nobili sentimenti, resti piuttosto cheto, e preghi il Signore. Se lo sdegno suo sembrerà passionato, torbido e violento, avvelenerà, come tossico, le sue parole, e non gioverà. L’ira peccaminosa, o come la chiama Dante, l’ira mala, è un movimento disordinato dell’animo, onde siamo violentemente eccitati contro le persone, che c’ingiuriano o comunque ci si oppongono, e talvolta anche contro le cose che ci fanno ostacolo. Chi potrebbe mai dire quanto sia possente nella nostra corrotta natura questa malaugurata passione dell’ira? Allorché l’uomo s’accende in fuoco d’ira, l’ira acceca la mente, sconvolge e talvolta attutisce il libero arbitrio, rimescola il sangue, arde nel sembiante e lo deturpa, infiamma lo sguardo, insomma imbestia tutto l’uomo. Or questo stato terribilmente violento degl’irosi, ci pàr di vederlo nel legger Dante, che nel VII del l’Inferno, scorge gl’iracondi che si percuotono. … non pur con mano, / Ma con la testa, col petto e co’ piedi, / Troncandosi co’ denti a brano a brano. – Gli effetti poi, che procedono dall’ira, sono veramente degni di pianto. Quasi sempre le bestemmie, le risse, le ingiurie, le vendette, le violenti uccisioni, e sino le stragi delle guerre derivano dall’ira. Contro questa pessima e bestiale passione Gesù benedetto, nel suo sermone della montagna, pose la virtù della mansuetudine cristiana. La quale ben si può definire una disposizione abituale dell’animo contro gl’impeti dell’ira. Non è già che nel mansueto si spegna assolutamente quella irascibilità naturale, da cui, per accecamento d’’intelletto e per disordinate passioni, rampolla l’ira. Ciò non è; e, quando fosse, non sarebbe punto un bene; perché l’irascibilità ci fu data da Dio per eccitare in noi, secondo ragione e temperatamente, i santi sdegni della giustizia. Ed oltre a ciò è da notare che la redenzione di Cristo, come non distrusse la concupiscenza, che è la corruzione di un inchinamento onesto; così non distrusse la irascibilità, anch’essa pel peccato d’origine disordinata e propensa a trascendere. L’una e l’altra Gesù Cristo poteva ben distruggere o mutare; ma le ha rimaste in noi affinché ci riescano occasione di merito, come è più ampiamente detto nelle Teologie dommatiche, ed anche nella mia Dottrina Cattolica. – La virtù della mansuetudine non fu ignota ai Pagani, ma fu assai rara tra loro, opponendosi soprattutto ad essa l’orgoglio, che faceva agevolmente confondere la nobilissima virtù della mansuetudine con la viltà e la fiacchezza dell’animo. Però questo medesimo pregiudizio, onde l’uomo mansueto si confonde e s’immedesima col fiacco e dappoco, lo abbiam veduto ripullulare anche tra noi, ora che i tempi sono in gran parte paganeggianti. Tra il popolo di Dio la mansuetudine fu in onore, come si vede nei Libri dell’antico Testamento, e particolarmente nei Salmi e nei Libri sapienziali. Esempio poi ammirabile di questa virtù fu, tra gli antichi, Mosè, detto nei Numeri il mansuetissimo sopra tutti gli uomini. Nondimeno la legge giudaica dura e assai meno perfetta, che non fosse l’evangelica, e anche i costumi meno civili del tempo, in cui visse il popolo Israelitico, non permisero alla virtù della mansuetudine di diffondersi molto e universalmente tra i Giudei. La mansuetudine, nel modo ampio e perfetto, onde la intendiamo noi Cattolici, è una virtù assolutamente cristiana, piena di dolcezze, e raggiante di quella luce che le comunicò Gesù benedetto. Ci fu insegnata da Gesù sul monte delle beatitudini, e parecchie altre volte, massimamente poi il dì che disse: “Imparate da me che sono mansueto e umile nel cuore.” Ebbe poi un simbolo assai parlante nell’ agnello, che fu figura di Cristo; e il simbolo dell’agnello lo vediamo annunziato dai profeti, che pietosamente chiedevano al Signore: Mandasse l’ Agnello dominatore della terra. (Isai. XVI, 1). Indi questo medesimo simbolo, suggellato dal Battista, che salutò il Redentore dicendo: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco Colui che toglie i peccati del mondo, (Joann. 1, 23, 36), fu reso immortale ed eterno dal medesimo san Giovanni nell’Apocalisse, nella quale il divino Agnello ei lo vide incoronato e seduto sul trono, che riceve le adorazioni dagli Angeli e dai santi. (Apoc. VII, 17. — Nell’Apocalisse Gesù Cristo è chiamato moltissime volte Agnello). – Infine la mansuetudine, annunziata da Gesù sul monte delle beatitudini, è una virtù eminentemente cristiana, sia perché la si vede in piena armonia con la soavità della legge evangelica, e con moltissimi altri precetti datici da Cristo, sia perché la Passione del Signore, dall’orazione ch’ei fece sul monte degli Ulivi, sino al perdono che dalla Croce accordò ai suoi crocifissori, è tutta un miracolo di mansuetudine. – La virtù della mansuetudine, annunziataci da Gesù sul monte, dopo le due virtù della povertà in ispirito e dell’umiltà, non è senza intimi rapporti con esse. Non solo vivono amichevolmente l’una con le altre, ma si ajutano a vicenda: anzi la povertà in ispirito e l’umiltà è giusto stimarle quasi un avviamento e un seme della mansuetudine. In vero, come il mare non posa mai tranquillo, sino a che vi soffi sopra il vento; e come pure nessun fuoco si estingue, prima che si allontani la materia combustibile; così l’ira nell’anima umana non si accheta e non si smorza mai, prima che siano vinti l’amore delle ricchezze e l’orgoglio. Quando  poi la mansuetudine cristiana, per effetto della grazia celeste, sia entrata in un’anima, allora dipende da noi, che essa cresca di grado in grado, e ci conduca alla perfezione. A ciò si richiede un possente sforzo di volontà; ma l’uomo fece mai al mondo nulla di veramente nobile e grande e bello e virtuoso, senza una fortissima e indomabile volontà, che atterri tutti gli ostacoli, e vinca tutte le esitazioni? Consideriamo un tratto i diversi passi che l’uomo fa in questa nobile virtù della mansuetudine, i quali sono quasi come i gradini d’una scala che ci conduce in alto. Mettiamoci dunque avanti allo sguardo un Cristiano, a cui il Signore fece grazia d’intendere la sentenza di Gesù: beati i mansueti. Poniamo che costui non si appaghi di conoscere intellettualmente la bellezza della mansuetudine, ma che voglia muover, sempre che può, il passo avanti per far suo questo tesoro. Il primo passo che naturalmente ei moverà, sarà questo, di sedare le tempeste e i bollori dell’animo; e, fatta nascere la mansuetudine nel proprio cuore, ei converserà benignamente e mansuetamente con tutti, siano eguali o inferiori, buoni o malvagi, gentili o rozzi, piacenti o nojosi. Onde nell’Imitazione di Cristo è detto: “Non ci vuol tanto a conversare co’ buoni e co’ mansueti, ché questo naturalmente piace a tutti; ma il saper vivere co’ duri e i perversi, con gl’indisciplinati e con quelli che ci contrariano, è grazia grande, e maschia virtù degna di lode infinita.” (Imit. II, 2). In vero la parola del Cristiano mansueto ha attraimenti invincibili, e spesso con la sua soavità dispone l’anima al bene. Quante volte una parola mansueta seda le non vedute tempeste del cuore altrui, e vince i più invecchiati pregiudizj della mente! Il mansueto muove ancora un altro passo avanti. Con l’efficacia della sua virtù e con da dolcezza della sua parola, si fa incontro all’ira altrui, e la smorza e la seda: talora fa sino arrossire l’iroso della propria ira. Non pago di ciò il mansueto si accorge di dover fare ancora un altro passo avanti, e questo non facile. Ma nondimeno, ajutato dalla grazia di Dio, e dal buon volere proprio, lo fa. Mentre che l’iroso sbuffa, s’infiamma e trascende per ogni leggera ferita al suo amor proprio; il mansueto, che è sempre veramente forte di animo, soffre con quiete interna ed esterna le ingiurie che altri gli faccia, e sino le rapine altrui, senza scomporsi o dar segni d’ira, Che se il mansueto non contento di essere un Cristiano buono e mite, avesse anche vaghezza di salire alle cime del monte della cristiana perfezione; ed egli allora deve procurare di rallegrarsi nell’intimo dell’animo suo dell’ingiuria altrui, e altresì di vincere il malvolere dell’iracondo col beneficarlo, e con l’adoperarsi, se sia possibile, di amarlo come suo amico. Né questi due sforzi dell’animo umano si possono reputare poco ragionevoli, allorché si pensi che nel Cristiano essi sono ordinati ad imitar Gesù Cristo, e ad acquistare la piena e nobilissima signoria del volere e dell’arbitrio nostro su tutti quegli inchinamenti umani che, dopo il peccato d’origine, facilmente trascendono, e ripullulano, anche quando apparentemente pajono morti e sepolti. – A Gesù non bastò di dire: beati è mansuett; ma aggiunse la ragione che li fa beati, la quale è questa: perché erediteranno la terra. A prima giunta questa ragione pare oscura. Di qual terra si parla qui? Non certo della terra che noi calchiamo, e che è così bella a vedere pe’ suoi piani, pe’ suoi monti, e per gli alberi, i fiori e i frutti che la arricchiscono. Questa terra in vero alimenta buoni e cattivi, e buoni e cattivi egualmente la possiedono. Se volessimo notare qualche differenza, tra i possessori buoni o i cattivi, il vantaggio sarebbe tutto dei secondi. Ma leviamo la mente più in alto. La verità è che per i mansueti, e in generale per tutti gli uomini virtuosi, il Signore ha riserbato un luogo, che il più delle volte è detto cielo, e talvolta è anche detto terra; ma che in sustanza non è né questo cielo che vediamo, come ricco padiglione, sul nostro capo, né questa terra che calpestiamo co’ piedi e che ci dà il nutrimento. Esso è un luogo ineffabile, che nessun occhio umano mai vide, e nessun intelletto comprese appieno. Lo si chiama cielo; perché il cielo che apparentemente ci sta sul capo, è alto, è bello, è splendido, è ricco, è pieno di misteri, e ci dà facilmente immagine dell’infinito. A volte poi è detto nella Bibbia anche terra dei viventi. Però David in un Salmo canta così: “Io credo che vedrò i beni del Signore nella terra dei viventi,” e in un altro anche più poeticamente dice. Tu, o Signore, sei la mia speranza e la mia porzione nella terra dei viventi. (Psalm. XXVII: CXLI). Nella visione poi dell’Apocalisse san Giovanni vede il Paradiso come una città celestiale, fondata sopra pietre preziose, perfettamente ordinata, e la vede bella, come una sposa leggiadrissima, la quale si è abbigliata per il suo sposo. (Apoc. XXI, XXII). Paradiso  è dunque anche una terra. Ma non creda alcuno che si tratti di una terra crassa, opaca, e dirò così terrestre, come la nostra. Il Signore aveva promesso, sin dai tempi d’Isaia, che avrebbe creato una terra nuova; (Isai. LXV, 17) e la promessa fu confermata nell’Apocalisse, nella seconda Lettera di san Pietro, e in quella di san Paolo agli Ebrei. La terra che sarà ereditata dai mansueti, è invece una terra sottile, lucida e celestiale; è un paradiso di rose, di gigli, di infinitamente diverse dalle nostre rose, dai nostri gigli e dalle nostre gemme, un paradiso olezzante di fragranza nuova, e splendente di luce soavissima. Insomma il paradiso promesso ai mansueti è un luogo spirituale e corporeo insieme, da cui zampilla un fiume d’infinita allegrezza per lo Spirito e per il corpo loro. – Da queste parole di Gesù, erediteranno la terra, si rileva che quel medesimo premio, il quale nella prima beatitudine è detto regno dei cieli, in questa seconda è chiamato terra. Come vedremo, nelle altre beatitudini, è sempre mutato il nome del premio, non perché  quello di una virtù sia diverso da quello dell’altra, ma perché nessuna favella umana ha la parola per esprimere adeguatamente un premio che è di per sé infinito. L’umano intelletto lo mira, come può, ora da un lato e ora dall’altro, ed esprime imperfettamente e con successione di pensieri e di parole diverse, i diversi pregi, secondo che si affacciano alla sua mente, ma non proprio come sono in sé stessi. Intanto benché il significato principale delle parole di Gesù, erediteranno la ferra, sia quello che ho detto, non s’ ha da omettere che, secondo molti Padri Chiesa, Gesù Cristo intese allora anche alla vita presente. Volle dire che i mansueti hanno pur presente una certa signoria morale sopra gli uomini che abitano la terra, la quale perciò sembra quasi che sia una loro eredità. E la cosa è vera, e basterebbe a provarlo l’esperienza. Piuttosto qualche difficoltà o dubbiezza potrebbe sorgere nell’indicare il motivo di questa signoria. Forse il principale è che il mansueto, caro agli uomini, moralmente li domina, perché la natura umana, per quanto rifugga dell’assoggettarsi a coloro che fiaccamente servono alle loro passioni, altrettanto inclina ad assoggettarsi a chi maschiamente le domina, e mostra piena signoria di sé stesso. Poiché nell’animo umano l’irascibilità bolle così facilmente, e prorompe spesso in fuoco d’ira; ne segue che l’uomo mansueto apparisca ai non mansueti quasi come persona di una natura superiore, una persona dotata di una forza morale molto rara; e la forza morale (oh! quanto sarebbe bene che non ci sfuggisse mai dalla mente) è la sola che liberamente comanda, e a cui liberamente si obbedisce. È qui in fine del capitolo si dia pure un’occhiata ai tempi che viviamo, per venire a qualche utile conclusione. Come è detto avanti, ci ha un’ira buona e soggetta alla ragione, la quale ira ci commuove contro il reo, ed è compagna e amica della mansuetudine cristiana: e ci ha altresì un’ira mala, che ci commuove violentemente per passione, e che tiene per suo contrario la mansuetudine cristiana. Ora queste due ire hanno pure qualche rapporto tra loro. Quanto più l’uomo è disposto ad adirarsi passionatamente, tanto meno è capace dell’ira santa contro il male. E noi lo vediamo ai nostri giorni assai chiaramente. Il fuoco dell’ira passionata arde da per ogni dove, particolarmente nella parola parlata o scritta; ma in pari tempo è raro che alcuno nobilmente si adiri contro del male; e se taluno lo fa, ne è deriso e spesso ingiuriato. Oltre a ciò, poiché ci è anche il pericolo che le due ire, la buona e la mala, si confondano talvolta tra loro, e si scambino l’una con l’altra; ricordo qui alcune parole di san Gregorio Magno, che mi pajono belle, e che ci possono ajutare a non confondere la virtù dello sdegno buono con la passione dell’ira, siccome vediamo accadere agevolmente nell’età nostra. “La vera giustizia, ei dice, compatisce; la falsa si sdegna, benché anche i giusti sogliono sdegnarsi contro i peccatori. Ma altro è ciò, che si fa per effetto di superbia, altro ciò che proviene da zelo del bene. … Si ha da aver somma cura che l’ira, la quale taluno adopera come strumento di virtù, non domini l’animo. Invece l’ira buona sia come ancella, pronta all’ ossequio della ragione, e non si allontani mai dal suo fianco. Allora soltanto si eleverà robusta contro i vizj, quando sarà più completamente soggetta e più veramente ancella della ragione.” Quanti mai degl’irosi dei nostri tempi potrebbero in sicura coscienza applicare a sé medesimi queste nobilissime parole?

LA VITA INTERIORE (4)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (4)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna – Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione Riveduta.

GLI ESERCIZI DI PIETÀ

L’ORAZIONE MENTALE (1)

(1) [Intendiamo, qui, indicare, precisamente la meditazione discorsiva, ch’è necessaria, come tutti sappiamo, per acquistare, o fortificare, le convinzioni. Nell’occasione, ricordiamo che la meditazione discorsiva verrà, in seguito, e a poco a poco, sostituita dall’orazione affettiva. Per quest’ultima poi, non potendo trattarne espressamente, raccomandiamo i tre metodi che S. Ignazio suggerisce, e cioè: – 1) la contemplazione; – 2) l’applicazione dei sensi; – 3) la seconda maniera di pregare.

Ci permettiamo anche di suggerire una formula d’esame della meditazione fatta.

1° Se mi sono messo alla presenza di Dio.

2° Se ho chiesto al Signore che tutte le mie intenzioni, azioni e operazioni siano puramente ordinate a servizio e lode di Sua Divina Maestà.

3° Se ho fatto il preludio detto « composizione di luogo ».

4° Se ho chiesto a Dio la grazia di ricavare dalla meditazione il frutto proprio.

5° Se ho preso la positura più conveniente.

6° Se ho esercitato la memoria riducendomi in mente la materia da meditare.

7° Se ho esercitato l’intelletto discorrendo posatamente intorno alla medesima.

8° Se ho applicato a me stesso quanto poteva fare per me.

9° Se mi sono tenuta in colloquii ed affetti proporzionati.

10° Se ho patito distrazioni e ne cercai la causa.

11° Se ho ricevuto consolazioni o cognizioni più chiare e quali.

12° Se ho speso tutto il tempo segnato.]

I MEZZI

Per riuscire a vivere in Gesù, per Gesù e con Gesù, cioè per vivere la vita interiore, è necessario rimuovere alcuni ostacoli che l’impediscono, e scegliere ed adoperare alcuni mezzi, senza de’ quali nulla si può fare. E, anzitutto, ricercare i mezzi adatti. Tra di essi, il più importante, il più efficace, è la preghiera. Essa, come abbiamo detto, può essere vocale o mentale. Quest’ultima prende il nome di meditazione. – Pochi anni or sono, si riteneva, comunemente, che la meditazione fosse cosa riserbata ai frati e alle monache. Si pensava fosse cosa molto difficile, che non avesse a che fare coi dieci comandamenti… Oggi, invece, grazie alla più estesa cultura religiosa e, in modo tutto particolare, all’Azione Cattolica che tra la gioventù femminile e tra quella maschile s’è rapidamente propagata, la meditazione è diventata una delle migliori soddisfazioni dello spirito, uno de’ nutrimenti più sostanziosi per moltissime anime in quell’età così esposta ai pericoli e così facile preda del nemico delle anime.

CHE COS’È?

Semplicemente, più che sia possibile, diremo ch’è una conversazione fra la nostra anima e Dio. Una conversazione intima. Così era solita a esprimersi santa Teresa: « La meditazione, è una cristiana relazione di amicizia nella quale l’anima s’intrattiene da sola a sola con Dio, senza stancarsi d’esprimere il suo amore a Colui dal quale sa di essere amata ». Parlandone ai giovani si può dire ch’è una sintesi, mentale, non scritta, di quelle righe, di quella pagina che si è letto. Come nelle scuole primarie s’impara a fare sui testi elementari, cioè a sintetizzare così si può fare e tanto più, in seguito, sui libri di pietà. Ai giovani, e a tutti, si potrà ricordare con vantaggio gli esempi di San Tommaso d’Aquino, di San Luigi Gonzaga, del ven. Domenico Savio. Si può aggiungere, pei giovani e pei non giovani, che, come si parla cogli uomini, così nella meditazione possiamo — e dobbiamo — parlare con Dio. In questa conversazione, Dio è il maestro e noi siamo gli scolari. Perciò noi saremo istruiti da Gesù e impareremo… a vivere solo con Gesù, poiché Egli è il vero amore, l’unica felicità, l’unica realtà.

È UTILISSIMA… ANZI, NECESSARIA.

Non si medita, forse, dappertutto e riguardo a tutto, in questa povera vita? Dagli scolari che nelle scuole si lambiccano — è la verità — il cervello, per stillate poche righe di componimento o risolvere il problema che li fa andare matti, ai banchieri, ai borsisti, che cercano di sfruttare le occasioni…, agli avvocati che combinano le linee della difesa e dell’accusa; agli architetti che triangolano il terreno per costruirvi un palazzo; ai ladri che preparano il… colpo e… via dicendo; tutti riflettono sul modo e sui mezzi migliori per riuscire ne’ propri intenti. Nessuna meraviglia, quindi, se noi vogliamo suggerire: essere necessario per la nostra anima che facciamo, almeno, quanto da tutti si fa per il felice esito degli affari materiali. – Si afferma, e non fa meraviglia; che i saggi del paganesimo meditassero. « Pitagora, infatti, aveva diviso la giornata de’ suoi discepoli di filosofia in tre parti: la prima per Dio nella preghiera; la seconda per Dio nella preghiera e nella meditazione; la terza per gli affari ». Se non che, noi abbiamo degli insegnamenti assai migliori. Anzitutto la parola dello Spirito Santo: « Un’orribile desolazione ha invaso la terra, perché non vi è chi rifletta nel suo cuore » (GER., 12-11). Ancora: l’esempio e l’insegnamento dei Santi. Santa Teresa così lasciò scritto: « L’anima che trascura la meditazione delle cose divine non ha bisogno di demonio per dannarsi… ella da se stessa si mette nell’inferno ». Ed era egualmente solita a ripetere: « Promettetemi di fare ogni giorno un quarto d’ora di orazione mentale, ed io, in nome di Gesù Cristo, vi prometto il Paradiso ». – S. Filippo Neri aggiunge per conto suo: « Un religioso o un  Sacerdote senza meditazione, è un religioso o un Sacerdote senza ragione; e così anche per i semplici fedeli ». – S. Alfonso, poi, dice con insistenza: « Il peccato può stare assieme alle altre opere di pietà, ma non con la meditazione. Tutti i Santi divennero tali per l’orazione mentale ». – Dunque, il timore e la fuga del peccato vengono spontanei in noi per mezzo della meditazione. Fuggendo e temendo il peccato, ci avviciniamo a Dio, lo invochiamo, ci abbandoniamo in Lui… e viviamo di Lui e del suo amore. Come, adunque, non imitare il ven. Contardo Ferrini che, studente nelle prime classi del ginnasio, già procurava di non lasciar passare giorno senza la meditazione? Come non ricordare con grande ammirazione il valoroso Giosuè Borsi che scrisse i suoi Colloqui, o meditazioni, proprio nel tempo che meno può sembrare propizio, e cioè durante la guerra?

METODO PER FARE LA MEDITAZIONE.

Non v’è metodo, ma vi sono moltissimi metodi. Vorrei dire che sono tanti e tutti diversi, quante sono diverse le anime che desiderano parlare con Dio, trattenersi intimamente con Lui. Ciascuno ha i suoi gusti, il suo grado di istruzione, il suo carattere. Tuttavia, c’è ugualmente modo di dare qualche suggerimento in proposito. Prima di tutto, per il buon esito della meditazione, è necessaria una preparazione. Essa si fa con un po’ di raccoglimento, lasciando ogni altro pensiero e ogni divagazione; con il ricordo che noi siamo alla presenza di Dio col quale vogliamo parlare; invocando la luce o l’aiuto dello Spirito Santo e raccomandandoci a Maria Ausiliatrice. Tutto questo è più presto fatto che detto. Fatta la preparazione, presentiamo all’anima l’argomento della meditazione. Questo, ordinariamente, trovasi su libri preparati apposta. Ma può anche consistere in un ricordo spirituale, in un consiglio ascetico che ci venne dato, in un passo, o versetto, del Vangelo, e, a secondo dei casi, occorre leggere adagio e attentamente il punto che ci siamo scelti per meditare. Se qualche pensiero, o ispirazione, ci si presenta spontaneamente, fermiamoci a gustarla. Altrimenti, leggiamo sino al termine, punto per punto, e procuriamo di ripetere con la mente quanto abbiamo letto, immaginandoci di doverlo ripetere a qualche altra anima. – In una parola: attingiamo idee nel libro, o dall’argomento scelto, e facciamo scaturire sentimenti dal cuore. La durata di questo esercizio è varia: a seconda del tempo, della volontà nostra, delle nostre condizioni. Fin qui abbiamo occupato la mente, l’intelligenza cioè, e il cuore; ora occorrerà occupare la volontà nel trarre le conclusioni e nel fermare i buoni propositi, o, almeno, un buon proposito, mentre ringrazieremo il Signore per la luce spirituale avuta, la Madonna per la sua assistenza, e chiederemo a Gesù e a Maria l’aiuto per mettere in pratica il proposito scelto che cercheremo di ricordare durante il giorno.

GRANDI VANTAGGI.

1) Anzitutto una maggiore destrezza ed energia nel nostro spirito, che si abitua ad osservare e a riflettere.

2) Poi una maggiore stima della virtù e, quindi, uno sforzo più intenso per praticarla; un maggior odio al peccato e perciò un impegno più vigile nel fuggirlo. La conversione di S. Agostino si deve, precisamente, alla lettura meditata d’un brano delle epistole di S. Paolo.

3) La meditazione procura all’anima una grande gioia. Per questo San Francesco di Sales poté dire: «La meditazione è ciò che mi è più utile e più dolce: con questa comunicazione del cuore io imparo ogni volta qualche cosa di buono da applicare a me stesso). – Facendo eco a queste parole, la Chantal diceva: « Tutta la felicità di questo mondo consiste nel meditare ».

4) Infine, il vantaggio per eccellenza, è una maggiore, più ampia, più ricca conoscenza di Gesù, di Dio, della vita eterna e, perciò, un più intenso amore per questo nostro Dio, amore che ci deve portare al desiderio dell’unione completa in Lui e con Lui.

L’ESEMPIO DI S. GIOVANNI BOSCO.

Ci limiteremo a ricordare un proposito che don Bosco fece appena undicenne alla scuola di don Calosso, e lo diremo con le parole del Ceria (Don Bosco con Dio, cap. I, 21): « Fanciullo undicenne, Giovannino ebbe uno di quei lampi rivelatori. Per arcane inclinazioni del cuore affezionatosi a un degno sacerdote e messosi con filiale confidenza nelle sue mani, da quella scuola di corta durata riportò un prezioso insegnamento: capì essere buono per l’anima fare ogni giorno una breve meditazione. Due frutti colse all’istante da questa chiara visione: gustare che cosa sia vita spirituale e non agire più «come macchina che fa una cosa senza saperne la ragione ».

L’ESEMPIO DEL SERVO DI DIO DON MICHELE RUA.

Il servo di Dio don Michele Rua, successore di don Bosco, la mattina del 5 aprile 1910, poche. ore prima di entrare in agonia, volle che gli si leggesse la meditazione del giorno. L’infermiere fece ragionevolmente osservare che non era il caso, poiché la sua mente era nell’impossibilità di fare uno sforzo. « Allora, supplicò egli, leggetemi almeno il sommario dei due punti ». E così, fino all’ultimo giorno di sua vita, (morì la mattina del 6 aprile) si mantenne fedele a questa pratica di pietà ch’è il mezzo più efficace per sentire Dio e vivere con Lui. Pratica che, di per sé sola, comprende e rende vitali tutte le altre. Bene fu detto di essa in una lettera dell’episcopato lombardo per la Pentecoste del 1927: « La meditazione è la pratica fondamentale della vita spirituale, poiché è quella che suggerisce e rende attive tutte le altre: l’esame di coscienza, la lettura spirituale, la visita al SS. Sacramento, il santo Rosario, la confessione frequente, i ritiri spirituali ». Più preciso ancora il Padre Chautard: «Se faccio meditazione, sono come rivestito d’un’armatura d’acciaio e invulnerabile ai dardi del nemico. Ma senza la meditazione essi mi coglieranno certamente… O meditazione, o grandissimo rischio di dannazione… ».

DUE COLONNE: LA MEDITAZIONE E L’ESAME DI COSCIENZA.

Dovrebbe, adunque, essere sufficiente questo primo efficacissimo mezzo. Tuttavia, poiché alla meditazione occorre la materia da elaborare, per questo rifornimento è necessario l’esame di coscienza. L’uno serve all’altra, e tutti e due sono come due colonne della vita cristiana. La meditazione accende il fuoco santo; l’esame di coscienza secerne, divide, sviscera; rivela noi a noi stessi, e ci suggerisce il modo e i mezzi per correggerci. Scopo dell’esame non è quello di riaprir delle ferite per inasprirle, non è quello di avvilirsi, ma di rialzarsi, col pentimento delle male opere e col proposito di farne delle migliori per il dì seguente. Per le anime cristiane l’esame è un diletto, un conforto. Dice I. Pindemonte: “La notte bruna – stilla il diletto – del meditar”. Seneca, pagano, scrisse: La mattina ti devi dare al pensiero delle cose che son da fare, la sera all’esame delle fatte. Lo stesso Seneca dice che il filosofo Sessio ogni sera interrogava la sua anima: Di qual difetto ti sei oggi guarita? Qual passione hai combattuta? In che divenisti migliore? Bellissima abitudine questa, segue Seneca, di riandar la giornata! Bel sonno quel che succede a questa rivista di sé medesimo! Come è calmo, profondo e libero, quando l’anima ha ricevuto la sua parte di lode o di biasimo, e che, sottoposta al proprio scrutinio, proceda segretamente contro se stessa! Così faccio io, e da testimonio e da giudice mi cito al mio tribunale. Spento il lume… comincio un’investigazione su tutta la mia giornata, rincorro tutte le azioni e parole mie; nulla mi dissimulo, nulla mi taccio. O perché temerei di riconoscere un solo de’ miei peccati, quando posso dirmi: Guardati dal ricominciare; per oggi ti perdono? (Seneca, De ira, 1. II, 36 – Confr. CANTÙ, Attenzione, XXXII). – « Questo scendere nell’intimità del cuore (Bossuet) è il conosci te stesso ch’era scritto sul tempio di Delfo. La coscienza è come uno specchio; facilmente s’impolvera e offusca, onde bisogna spesso ripulirlo, o si corre il rischio di non riconoscersi più » (CANTÙ, L. c.). – Se dei filosofi pagani hanno giudicato tanto utile l’esame di coscienza e lo praticarono con tanta diligenza, non dovranno apprezzarlo anche i Cristiani, che hanno della vita presente e della futura, per divina rivelazione, un concetto assai più reale e profondo? – Tutti i santi e tutti i maestri della vita spirituale sono unanimi nel dire che l’esame quotidiano della propria coscienza, (non intendiamo, qui, accennare all’esame che si deve fare prima della confessione sacramentale) è un mezzo efficacissimo per correggerci dei nostri difetti e per avanzare nella virtù. Avviene, infatti, in noi, nel nostro spirito, quanto suole accadere negli affari materiali, nella cura degli interessi, nella coltivazione di un appezzato di terreno. Ve ne prendete pensiero? Ecco: essi progrediscono e moltiplicano il capitale impegnato. Li trascurate? Sono poco redditizi, anzi, sono passivi e in breve costringono alla rovina, alla miseria. Così è delle nostre anime. Abbandonate a sé, sono presto un semenzaio di rovi e spine. Accudite per mezzo degli esami di coscienza, vengono a conoscere e ad amare l’umiltà; allontanano la protervia e la presunzione, accettano le mortificazioni anche se loro inferte ingiustamente, chiedono perdono a Dio, formulano seri e forti propositi di vita migliore, crescono di fiducia e di abbandono in Dio, ed ecco, di conseguenza, l’unione con Dio e la pratica della vita cristiana. Dobbiamo però dire, gli esami, e non esame, soltanto, di coscienza. Noi infatti diremo, nel capitolo seguente: 1) dell’esame di previdenza; 2) dell’esame particolare; 3) dell’esame generale.

LA VITA INTERIORE (5)

22 FEBBRAIO (2022) FESTA DELLA CATTEDRA DI SAN PIETRO

A. CAPECELATRO:

LA DOTTRINA CATTOLICA

De Angelis e figli ed. e tip., NAPOLI, 1877

Vol. II. LIBRO III, CAP. XIII

Per potere esporre con chiarezza gl’insegnamenti della Chiesa intorno al primato dottrinale del Romano Pontefice, ei c’è bisogno di volgere un po’ lo sguardo addietro, e di rifare una parte del cammino già fatto. La Chiesa, come fu detto, non vive d’una dottrina propria, sì bene della dottrina rivelata da Cristo. E Cristo, come capo della Chiesa, essendo in una comunione perennemente vivificatrice con tutt’i membri di essa, a tutti la comunica amorevolmente. Di qui deriva, che la Chiesa ha nel suo seno il tesoro inestimabile di una dottrina ferma, sicura, anzi infallibile. Non pertanto, poiché i membri della Chiesa hanno diversi uffizj, ciascuno riceve l’infallibile dottrina secondo la capacità l’uffizio suo proprio. Quei membri che costituiscono la Chiesa insegnata, hanno l’infallibilità che i teologi chiamano passiva; perciocché, ascoltando umilmente i pastori uniti col Papa, ascoltano Cristo (chi ascolta voi ascolta me, disse Gesù), e professano così una fede infallibile. Quei membri che costituiscono la Chiesa insegnante, ossia i Vescovi e il Papa, hanno la infallibilità attiva, in quanto che non solo professano, ma insegnano infallibilmente le dottrine di Gesù Cristo. Così il principio vero dell’infallibilità della dottrina nella Chiesa è sempre Gesù Cristo, infinito conoscitore ed amatore di verità, anzi Verità infinita Egli stesso. In effetti non ci sono varj maestri della dottrina celeste qui in terra, ma un solo è il Maestro, Gesù Cristo; il quale, luce vera che illumina tutto il mondo, tiene chiusi in sé tutt’i tesori della scienza e della sapienza del Padre; ed anzi è la sustanziale Parola del Padre. – Poiché, dunque, nella Chiesa ci ha un insegnamento infallibile, due cose principalmente importano sapere: quale sia la materia di esso insegnamento, e per quali organi questo insegnamento, comune a tutta la Chiesa, si manifesti senza pericolo di errore. Della materia di esso insegnamento fu discorso nei capitoli antecedenti, e qui appena se ne farà un altro cenno. Ora rimane che esponiamo quali siano nel corpo della Chiesa gli organi visibili e certi, pei quali Gesù Cristo infallibilmente ci comunica la sua dottrina. – In prima la Chiesa insegnata non può essere l’organo dell’insegnamento infallibile; perciocché ove il fosse, per ciò stesso smetterebbe la sua natura di Chiesa insegnata, e diverrebbe insegnante. Organo dunque di questa infallibilità dev’essere naturalmente la gerarchia ecclesiastica; non quella parte della gerarchia che ha per uffizio principale il culto e l’amministrazione lei sacramenti, com’è il sacerdozio; ma quella parte della gerarchia che costituisce propriamente e nel senso più stretto la Chiesa insegnante, cioè l’Episcopato congiunto col Papato. I Vescovi però, comunque li vogliamo considerare uniti, sono parecchi; e Gesù Cristo, benché li costituisse ciascuno maestro nella sua diocesi, pure sapientissimamente. non li costituì ciascuno maestro infallibile della dottrina. Oso anzi dire che se l’avesse fatto, sarebbero mancati i vincoli veri della gerarchia, e i membri si sarebbero agevolmente sciolti dalla vitale comunione che debbono avere col loro capo. Avremmo avuto diversi corpi e non un sol corpo, parecchie Chiese e non una sola Chiesa. Il Signore volle invece sapientissimamente che nella dottrina, come in tutto il governo della Chiesa, i molti si dovessero ridurre all’uno, per la strettissima congiunzione di ciascuno col capo. Così l’unità e l’infallibilità della dottrina derivano nella Chiesa insegnante dall’uno, che è Capo visibile della Chiesa, in quella stessa guisa che derivano dall’Uno che n’è il Capo invisibile. Così l’Uno Gesù Cristo è il principio infallibile della dottrina; e l’uno Papa è l’organo infallibile della stessa dottrina. – Ma chi guardi al mirabile e saldo congegno della Chiesa, non basta dichiarare che il Papa sia nel corpo della Chiesa l’organo infallibile della dottrina di Cristo: bisogna chiarire per quali vie ciò accada. Come non ci ha nella Chiesa un solo pastore, ma parecchi pastori sottoposti al primo; così non ci ha nella Chiesa un solo maestro che tiene il luogo di Cristo, ma parecchi maestri pur sottoposti al primo. Il Papa, ponete ben mente a questo, come capo della Chiesa, è in un’intima, perenne e vitale congiunzione con l’Episcopato, che essendo corpo insegnante, riesce esso stesso nel corpo della Chiesa strumento dell’infallibilità di Cristo. Di qui segue che ad aver questa infallibilità, non deve mancare mai l’Uno che Cristo fece infallibile, e nel quale si appunta e si personifica tutto l’Episcopato; e ci deve pur sempre Chiesa la visibile o la invisibile congiunzione dell’Uno coi Vescovi, i quali senza di ciò sarebbero essi stessi ingnati e non insegnanti. – Pertanto questa vitale congiunzione dell’Episcopato col romano Pontefice, quando si tratti della dottrina, si può manifestare per tre modi; cioè pel Concilio ecumenico, per un giudizio esterno e visibile del Papa con la Chiesa dispersa, e per la definizione del solo Papa, invisibilmente congiunto con l’Episcopato. Nel Concilio ecumenico il Papa e tutt’i Vescovi raccolti attorno a lui con un solo giudizio esterno, giudicano della vera. Nella dottrina, e definiscono infallibilmente i dommi della fede e della morale. Ciascun Vescovo ivi giudica, e il giudizio di ciascuno e di tutti è infallibile per la congiunzione che tiene col Capo. Fuori del C oncilio, quando il Papa interroga esplicitamente o implicitamente tutto l’Episcopato intorno alla dottrina cattolica, e giudica con essi, si ha per un altro modo lo stesso giudizio unico ed esternamente visibile dei dommi cattolici. Infine il Papa può altresì, quando lo stimi opportuno pel bene della Chiesa, giudicare e definire da sé solo i dommi di fede; e siffatto giudizio è di per sé infallibile, né ha bisogno per esser tale che l’Episcopato lo esamini, lo discuta e lo accetti. Nonpertanto ciò non significa che in tal caso il Papa sia separato dai Vescovi. Invece anche allora ei definisce la verità in virtù della promessa ad esso congiunto, d’inerranza fattagli da Cristo, e pure in virtù di quella vitale e strettissima comunione che c’è sempre tra il Capo e il corpo della Chiesa insegnante, tra il Papa e l’Episcopato. Che questa vitale comunione, da cui sorge l’unità della dottrina, non si manifesti con un giudizio esterno e col suono materiale della voce, che importa? Non deriva essa forse dalla volontà stessa di Cristo, e dalla promessa ch’Egli fece di tener sempre congiunti nella Chiesa il capo coi suoi membri, e particolarmente con l’Episcopato, il quale senza di ciò né sarebbe uno, né anzi si potrebbe mai ridurre ad unità vera? Che importa che la vitale comunione tra il Papa e i Vescovi non si vegga dagli occhi nostri corporei, come nel Concilio? Deriva essa forse la dottrina della fede dal numero maggiore o minore dei giudici, dalla sapienza umana, dalle dispute, dalla dialettica, dall’acume dell’umano intelletto? No certo; ma deriva tutta e sola dallo Spirito del Signore, che congiunge il Capo col corpo episcopale, ed assiste la Chiesa e particolarmente il suo Capo, perché nella dottrina della fede e della morale non erri. Né vale il dire che alcuni dei Vescovi, poiché non sono interrogati, possono opinare contro alle dottrine definite dal Papa, ed infermarne il valore; perciocché l’Episcopato cattolico si costituisce dai Vescovi che hanno la vitale congiunzione col loro capo: ond’è che quei Vescovi i quali, dopo che il domma sia definito, ricusano di averla, sono membri scissi dalla vita vera della Chiesa, sono tralci secchi e buoni al fuoco soltanto. Però, siccome nel Concilio alcuni Vescovi che dissentono, non impediscono l’infallibilità del giudizio del Papa e dell’Episcopato; così fuori del Concilio alcuni Vescovi che non accettino la definizione papale, non impediscono che essa esprima la dottrina di tutta la Chiesa insegnante, che è quanto dire del Capo e dell’Episcopato strettissimamente ad esso congiunto. – Da tutte le cose dette dunque si conchiude che il Papa, quando definisce dommi di fede, è come la bocca che parla ai fedeli infallibilmente la dottrina la quale è la dottrina di Cristo. La dottrina ch’ei l’attinge dalla Chiesa; perciocché egli non ha ispirazioni di dottrina nuova, ma deve cercarla diligentemente e con tutt’i mezzi umani nel deposito della Scrittura, della tradizione, affidato alla Chiesa. Il poterla poi parlare infallibilmente, quando, come maestro della Chiesa universale, definisce ex cathedra, dipende dall’assistenza dello Spirito Santo, che gli fu promessa da Gesù Cristo, la quale è comune a lui ed alla Chiesa insegnante sempre che è unita con lui. – Posti dunque siffatti principj, la via rimane sgombra da parecchi  impedimenti, e ci sarà agevole considerare infallibilità della Chiesa in tutte le sue manifestazioni, voglio dire nei concilj ecumenici, nel consenso generale dell’Episcopato disperso; e nelle definizioni che il Pontefice fa ex cathedra, senza Concilio e senza interrogare l’Episcopato. In prima alcuni si rivoltano e prendono scandalo di questo triplice modo di manifestarr che ha l’infallibilità di Cristo e della Chiesa. Ma costoro mi assomigliano a colui che prendesse scandalo vedendo che il Signore non illumina sempre la terra col sole; ma nel giorno col sole; e nella notte con la luna o con le stelle. Non c’è punto da stupire che l’infallibilità della dottrina si esterni dalla Chiesa per tre differenti modi: bastando il pensare che, secondo le diverse condizioni di tempo, di luogo, di opportunità, ciascuno dei tre modi può riuscire a sua volta utilissimo. Il Concilio e l’adesione estrinseca dell’Episcopato non riunito hanno il vantaggio di far conoscere assai agevolmente la tradizione di tutta la Chiesa, di unire anche esteriormente quei Vescovi che sono intimamente uniti tra loro, di alimentare lo spirito di carità e di umiltà in tutti, di dare alle definizioni dommatiche il prestigio delle grandi assemblee o del numero, ed infine di fare assai più agevolmente accettare e spiegare dai singoli Vescovi nelle loro diocesi le verità intorno a cui disputarono insieme. Le definizioni poi papali hanno d’altra parte il vantaggio di supplire alle conciliari ed a quelle della Chiesa dispersa, allorché esse riescono o impossibili o difficili; di troncare più presto le dispute, ed impedire che l’errore s’alimenti; di rinvigorire l’autorità di quel Primato romano che è tanto efficace a mantenere l’unità della Chiesa. E che tutti tre questi modi siano utili ed efficaci, secondo le diverse condizioni dei tempi e dei luoghi, si argomenta dal fatto che tutti tre sono stati in uso nella Chiesa sino dai primi tempi, e principalmente i due, delle definizioni conciliari e delle definizioni papali. Noi incontriamo spesso nella storia ecclesiastica le une e le altre; e pur veggiamo chiaramente che se sempre si fosse dovuto attendere la riunione d’un Concilio ecumenico per definire le verità di fede, sovente la Chiesa avrebbe dovuto restare nelle tenebre dell’incertezza molti e molti anni, e le eresie si sarebbero assai più ingigantite di quel che non fecero. D’altra parte, o che le definizioni siano conciliari o papali, mai non è consentito ai Vescovi o al Papa di definire le verità, senza adoperare tutt’i possibili sforzi per conoscere, anche umanamente, quale sia la vera tradizione scritta o orale lasciataci da Gesù Cristo, e procedere alla definizione solo quando sono rimossi intorno ad essa tutt’i dubbj possibili. Questa obbligazione sì nel Papa solo e sì nel Concilio nasce dalla natura stessa di un insegnamento che s’ha da attingere ai fonti della Bibbia e della tradizione; ed è raffermata dall’esempio costante della Chiesa pìù antica; anzi dallo stesso esempio degli Apostoli, i quali si raccolsero insieme a Gerusalemme, e diligentemente cercarono la verità, bene e trattasse di concilio, benché si trattasse di cosa nè molto grave né difficile a definire. – La infallibilità della Chiesa si manifesta in prima, come si è detto, quando l’Episcopato è congiunto con il Papa, nel Concilio ecumenico, il quale definisce le verità della fede. Intorno a ciò non può nascere il più lontano dubbio. Nel Concilio gerosolimitano la decisione fu data, con esempio nuovo negli annali del mondo, come sentenza dello Spirito Santo: È sembrato allo Spirito Santo ed a noi. – I Padri antichi consideravano le definizioni dei concilj come parola di Dio; onde basta per tuttì il detto di S. Gregorio Magno: che cioè egli accettava e venerava i quattro concilj ecumenici tenuti sino allora, ossia il Niceno, il Costantinopolitano, l’Efesino ed il Calcedonese come i quattro Evangeli (Epist. 24). Pertanto dalla stessa dottrina del Concilio ecumenico si deduce, che ad avere un vero e legittimo Concilio ecumenico si richiede in prima che ci sia l’intero Episcopato; la quale cosa s’intende che tutt’i Vescovi ci debbano essere invitati, benché forse alcuni vi manchino. Per ottenere poi che l’Episcopato sia nel Concilio ecumenico sempre congiunto col Papa ch’è suo capo, naturalmente si richiede che il Papa lo convochi, lo presieda e lo confermi. Quando una di queste condizioni mancasse, mancherebbe l’unione vitale del corpo episcopale col Capo, s’ avrebbero molti membri del corpo insegnante, non il corpo insegnante che senza il capo non può sussistere. Posto ciò, si potrebbe a maggior chiarimento chiedere: Poiché il Papa è, anche fuori il Concilio, infallibile, nel definire le dottrine della fede, sono poi nel Concilio veri giudici delle dottrine i Vescovi, o tutta la giudicatura. Della fede nel concilio appartiene al Papa? E bisogna rispondere che i Vescovi sono veri giudici della fede nel Concilio, benché il loro giudizio diventi solo infallibile per la strettissima congiunzione che esso ha col giudizio del Papa; in quella stessa guisa che nel corpo umano l’occhio ha, per esempio, l’ufficio proprio di vedere, la bocca di parlare e il piede di camminare; ma nè l’occhio vede, né la bocca parla, né il piede cammina se siano divelti dal capo nel quale vivono e sussistono. E che sieno veri giudici i Vescovi nel Concilio, si prova sì dal fatto del concilio di Gerusalemme, nel quale S. Jacopo disse la sua sentenza con queste parole: « Io giudico », sì dalla formola adoperata sempre da ciascun Vescovo nel sottoscrivere i Concilj: «Io definendo (ossia facendo giudizio) sottoscrissi »; sì infine dalla costante tradizione,  che non lascia scorgere ombra di dubbio intorno a siffatta dottrina. –  Poco ci rimane a dire dell’altro organo dell’infallibilità della Chiesa che si trova nel consenso espresso o tacito di tutta La Chiesa non riunita in Concilio. Basterà ricordare che non solo il consenso espresso della Chiesa insegnante fu avuto dagli antichi Padri come indizio sicuro della vera dottrina, ma anche il tacito: ond’è che quando non si potevano agevolmente unire i Concilj per la persecuzione che infieriva, S. Ignazio Martire, Tertulliano, Origene, S. Cipriano e molti altri spessissimo si appellavano al consenso unanime delle diverse Chiese per combattere gli eretici e dichiararli fuori della via della salute. (Vedi specialmente S. Ignat. adversus Haeres. 1. 3; Tertul. de Praescrip. 21). – Rimane ora a parlare dell’infallibilità del Papa quando definisce le dottrine della fede e dei costumi ex cathedra. Questa infallibilità, mentre è veramente la parte più importante dell’argomento, è quella che meglio rivela il Primato del Romano Pontefice in fatto di dottrina: è quella pure che eccita l’ira o il beffardo riso dei miscredenti, e per di più riesce occasione di false e maligne interpretazioni. Or bene veggiamo in prima su quali autorità di Scrittura e di tradizione si fondi il domma dell’Infallibilità papale quando definisce ex cathedra. Diremo appresso dei limiti nei quali si contiene, e di alcune delle difficoltà che le si oppongono. Gesù Cristo insegnò apertamente, come fu detto, che il romano Pontefice successore di S. Pietro è il fondamento della Chiesa cattolica: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Ora nella Chiesa ciò che più importa è la dottrina della fede; la quale fa nel mondo spirituale quel medesimo ufficio benefico e vivificatore che fa il sole nel mondo corporeo. Dalla vita della fede nasce nella Chiesa la vita della carità e quella del culto. Chi corrompe la fede, avvelena ed uccide 1’albero della vita morale e religiosa nella sua radice; il quale perciò presto o tardi non è buono ad altro che ad ardere. Ebbene, se il Romano Pontefice, insegnando, come Capo e maestro universale, la fede di tutta la Chiesa, potesse errare; dite, come mai egli maestro d’errore sarebbe fondamento d’una Chiesa colonna di verità? La Chiesa, per vivere eternamente, deve avere una fede stabile, ferma, non mai indebolita dall’errore. Ora se il fondamento della Chiesa si muove, tentenna, barcheggia e muta per errore; sarà mai fermo ed immutabile l’edifizio che su di esso si eleva? In somma una Chiesa indefettibile ed infallibile non può stare sopra un fondamento defettibile e soggetto all’errore. –  Ancora, Gesù disse a S. Pietro: « Simone, Simone, ecco che satana è andato in cerca di voi (degli Apostoli) per vagliarvi, come si fa del frumento. Ma io ho pregato per te affinché la tua fede non venga mai meno: e tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli » (Luc. XXII, 31, 33). Benché i protestanti si sforzino di tirare queste parole ai loro sensi strani; tutta la tradizione sì in Oriente che in Occidente ha trovato in esse non già un fatto particolare di S. Pietro, ma una delle più evidenti prerogative del primato di lui. Qui Gesù Cristo parla, come si vede dal contesto, del regno della sua Chiesa. Vede che gli Apostoli saranno soggetti alle tentazioni grandi di satana, e per rassicurarli tutti, si volge al solo Pietro, e come gli avea detto una volta: Tu sei Pietro; gli dice ora: Ho pregato per TE affinché la tua fede non venga mai meno: e Tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli. Non prega il Signore per tutti gli Apostoli, ma per Pietro; non dice che la fede di ciascuno di loro non verrà mai meno, ma che non verrà mai meno quella di Pietro; non dice agli Apostoli che si raffermino gli uni gli altri nella fede; ma al solo Pietro che raffermi nella fede i suoi fratelli. Evidentemente anche qui Gesù Cristo attende sapientissimamente all’unità della sua dottrina. E come prima ha fondato la Chiesa sopra una sola pietra, ora prega per la fede di un solo, affinché questo solo la confermi in tutti i suoi fratelli. – Infine Gesù Signore, come anche fu detto avanti, provvide efficacissimamente all’unità della Chiesa quando costituì il Romano Pontefice successore di S. Pietro, pastore universale, dicendogli: « Pasci è miei agnelli, pasci le mie pecorelle » (Joann. XXI, 15 e seg.). Ora che è mai pascere o reggere la Chiesa? È innanzi tutto e soprattutto pascere le menti dei fedeli d’una sana dottrina da cui deriva in essi la vita dell’amore e del culto; è dare ai loro intelletti quella luce sicura di verità soprannaturale che a poco a poco s’incalora nell’anima, e diviene carità. Ogni più piccolo errore nell’insegnamento della fede, la muta in rovina delle anime dei fedeli. Il nutrimento allora, anzi che vivificare; a poco a poco uccide; perciocché la sola verità dà vita, e l’errore presto o tardi uccide; anzi esso stesso è morte. Ora se il Pontefice Romano è Pastore universale, egli è maestro universale; poiché qui appunto del pascolo della dottrina principalmente si tratta, E se è maestro universale di una società che deve restare immobile nella verità; come mai errerebbe egli ed errerebbe proprio quando si costituisce maestro di tutta la Chiesa, e in nome suo e di tutt’i pastori insegna la fede a tutt’i credenti? In somma, o guardiamo il Pontefice come pietra fondamentale della Chiesa, o come confermatore nella fede dei Vescovi suoi fratelli, o come pastore dei Vescovi e dei credenti, sempre s’ha da tener l’occhio particolarmente alle dottrine della fede. Però meritamente si conchiude che un Papa il quale fosse al tutto fallibile, si accorderebbe solo con una pietra che vacilla, con un confermatore della fede che erra, con un pastore infermo che alimenta tutto il gregge di errori. Questi dunque sono i principali tratti della Bibbia, dai quali la Chiesa cattolica imparò la Infallibilità papale. Questi stessi però ci mostrano il principale limite che s’ha da porre a questa infallibilità, che sta nella distinzione nel Papa tra l’uomo privato e il Maestro universale della Chiesa; perciocchè in tutti questi testi si considera non l’uomo, ma l’uffizio, o che è il medesimo, non l’uomo maestro particolare, ma l’uomo maestro in rapporto con tutta la Chiesa, sì come pietra, sì come confermatore del collegio apostolico, sì come pastore universale. Ma di ciò appresso. –  A questo punto, se io scrivessi intorno al papato anche un semplice trattatello di teologia, mi sarebbe bisogno di esaminare la tradizione che parla di questa verità assai diffusamente. I soli testi dei Padri addotti dal Bellarmino sono tanti, ed esprimono questa papale infallibilità in tanti modi, che a volerli addurre ed esaminare, ci sarebbe da farne un libro. Io però non uscirò dal sistema che ho seguìto in tutti gli altri argomenti; e solo perché questa materia dell’inerranza papale è oggi più delle altre oppugnata, farò un cenno della tradizione intorno ad esso. S. Francesco di Sales (Controverses, disc. XL pag. 247) raccoglie dai Padri varj dei titoli che essi danno al Papa, i quali alcuni si riferiscono più particolarmente al suo primato, ed altri al suo uffizio di dottore universale. Io ne adduco taluni qui appresso, e prego i miei lettori di considerare che quando mai il Papa, nel definire la fede insegnando a tutta la Chiesa, potesse errare, egli in ciò che più importa poco o punto differirebbe dagli altri Vescovi. E allora perché magnificarlo ed esaltarlo tanto? Capace di errare come ciascun Vescovo, il suo uffizio nel Concilio ecumenico assomiglierebbe a quello d’un presidente di assemblee che numera i voti, e riconosce le verità religiose dov’è il maggior numero. Fuori del Concilio, e quando il Concilio non si potesse riunire, le sue decisioni dommatiche si potrebbero sempre infermare dal sospetto dell’errore, e dal dubbio che alcuno, e forse parecchi dei Vescovi non accettano la definizione fatta, o non l’approvano secondo il loro dritto. In somma o fuori o dentro il Concilio il Papa fallibile, nel magistero della fede non potrebbe avere alcuna superiorità vera e sustanziale sopra gli altri Vescovi. Ma ecco i titoli che il Santo di Sales raccoglie dai Concilj e dai Padri. Il Papa è successore di Pietro (Iren. adv. Haeres. III, 3.), santissimo vescovo della Chiesa cattolica (Concil. di Soissons), santissimo e beato patriarca (Ibid.), beatissimo signore (Augustin. Epjst. 95), patriarca universale (Leon. Epist. 95), Vescovo elevato al culmine dell’apostolato (S. Cyprian. Epist. III. 12), capo della Chiesa qui in terra (Innocent. ad Con. Milevit.), sovrano pontefice dei vescovi (Concil. Chalced. in Praef.), sommo sacerdote (Idem. Sess. XVI), principe dei preti (Stephan. Ep. Cartag.), prefetto delle cose di Dio (Conc. Cartag. Ep. ad Damas.), guardiano della vigna del Signore (Ibid.), principe dei vescovi (Conc. Chalced. Epist. ad Theod.), erede degli Apostoli (S. Bernard. De Consider.), confermatore della fede dei Cristiani (Hieron. Praef. in Ev. ad Dam.), Sovrano pontefice (Concil. Calced. ad Theod.), bocca di Gesù Cristo (S. Joann. Chrys: Homil; 2 in Div. Serm.), bocca dell’apostolato (Orig. Homil. 55, in Matth.), giudice supremo della fede (S. Leo in Apost.); sorgente apostolica (S. Ignat. Ep. ad Rom.), Cristo per l’unzione (S Bern. De Consid.), Vescovo dei Vescovi (Concil. Chalced. în Praef.), padre dei padri (Idem. — Molti altri titoli si omettono per brevità). – Ma non potendo io qui estendermi ad addurre le testimonianze della tradizione, non vo’ lasciare di riferire tre definizioni di Concilj ecumenici, nei quali si trova implicitamente sì ma pur chiaramente quel medesimo domma che fu poi definito nel concilio Vaticano. Le tre definizioni sono la prima del concilio IV di Costantinopoli nell’851, e questa stessa si deve dire più propriamente del 519, perché allora fu proposta da S. Ormisda Pontefice a tutti i vescovi d’Oriente che la sottoscrissero: concilio di Firenze nel 1439. Così abbiamo tre definizioni di Concilj, l’una che si può far risalire sino al sesto secolo, la seconda del decimoterzo e l’altra del decimoquinto. La prima si dilunga da noi di oltre mille e trecento anni, l’ultima di quattro secoli e più. E nondimeno oggidì si spaccia da moltissimi che l’nfallibilità papale è una invenzione nuovissima del concilio Vaticano. Sennonchè le parole dei tre Concilj affermano la papale infallibilità? Negli stessi termini e con la precisione, onde fu fatto nella definizione vaticana, no; ma che la includano a me pare chiaro; però lascio giudicarne chi legge. La formula del Papa Ormisda è questa: « La prima condizione di salvezza è il custodire le regole della vera fede, e il non allontanarsi in nulla dalla tradizione dei Padri, perché non si può lasciare da parte la sentenza di Gesù Cristo nostro Signore, il quale ha detto: Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa. Queste parole sono state provate dai fatti; perciocché la Religione cattolica è stata sempre conservata immacolata nella Sede Apostolica, cioè romana, e la sua dottrina è stata sempre ritenuta come santa…. Desiderando noi dunque di non essere separati dalla fede e dalla dottrina di questa Sede, speriamo di meritare di essere nella sola comunione che viene proclamata dalla stessa Apostolica Sede, nella quale risiede l’intera e vera solidità della Religione cristiana ». Il Concilio di Lione definisce così: « La santa Chiesa romana possiede la sovranità e il pieno primato e principato sulla Chiesa Cattolica intera, ed essa riconosce con verità ed umiltà che l’ebbe ricevuto con la pienezza del potere dallo stesso Signore nel Beato Pietro principe cioè Capo degli Apostoli, del quale il romano Pontefice è successore. – E siccome questa Chiesa è obbligata più di tutte le altre a difendere le verità della fede; « … così allorché si elevano questioni sulla fede, esse debbono essere mediante il suo giudizio definite ». – Infine nel Concilio di Firenze è detto: « Definiamo che la S. Sede Apostolica ed il Pontefice sommo hanno il primato sul mondo intero; e lo stesso Pontefice romano è il successore del Beato Pietro principe degli Apostoli, e vero Vicario di Gesù Cristo, Capo di tutta la Chiesa, PADRE e Dottore di tutt’i Cristiani, ed a lui nella persona del Beato Pietro fu affidata da Gesù Cristo nostro Signore la piena potestà di pascere, reggere e governare la Chiesa universale ». – Intorno a queste tre testimonianze di Concilj ecumenici sarebbero da fare molte e sottili considerazioni: ma io me ne passo, lasciando a ciascuno di studiarle a suo bell’agio. Soltanto vorrei che niuno cercasse d’infermarne il valore, dicendo che la parola infallibile non ci si trova. Perciocché è chiaro che se proprio la parola ci fosse stata, la definizione vaticana sarebbe riuscita al tutto inutile. Ma la questione con gli avversarj, si badi bene, non è già di sapere se nella Bibbia, nella tradizione e nelle definizioni più antiche vi sia la verità espressa proprio in quella forma e con quelle parole in cui si definisce; ma se vi sia la verità stessa, considerata vuoi nella sua sostanza vuoi almeno nel suo germe. La stessa verità cambia, dirò così, di luce e di posto, secondo che il nostro occhio con attenta riflessione la guardi da un punto più tosto che dall’altro; e da ciò nasce, come fu detto, il bisogno dei nuovi dommi, o, che è il medesimo, delle nuove parole e più appropriate per mantenere sempre la non nuova dottrina che si applica, si spiega, si determina meglio. Da ciò nasce altresì l’indefinito progresso della teologia cattolica, che di grado in grado trae e perfeziona le cose talvolta appena abbozzate nella dottrina antica. Ai tempi di Ormisda la parola d’infallibilità papale non ci poteva essere; o, sé vi era, non aveva importanza; perciocché la riflessione umana non s’era fissata punto sull’idea del Papa fallibile o infallibile. Allora era necessario sapere dove fosse la religione immacolata; con quale Sede importasse aver comunione; quale Chiesa serbasse intera la fede. E a queste interrogazioni si rispondeva che la Religione era immacolata nella Sede romana; che la comunione con essa Sede era ciò che più rilevava; e che infine la vera solidità della Religione intera si trovava nella stessa Sede pontificia. Ora, quale di queste tre cose si potrebbe unire con un Vescovo della Chiesa romana che insegnasse a tutta la Chiesa una fede falsa? Niuna. In quelle parole dunque è compresa l’infallibilità del Pontefice romano, benché allora niuno facesse a se stesso questa interrogazione: — Il Pontefice romano è egli fallibile o infallibile nel definire la fede? — Pertanto le medesime cose si possono dire intorno alle altre due testimonianze del Concilio di Lione e di Firenze. Ma anche qui è necessario che io tronchi il discorso e passi oltre. –  Guardiamo un altro aspetto della infallibilità del romano Pontefice. Una delle prove più gravi e più concludenti della papale infallibilità sta nella storia della Chiesa: in quella storia, di cui a gran torto gli avversarj fanno un’arma di guerra contro di noi; perché la leggono infoscata sconvolta dalle loro passioni, e soprattutto perché la leggono volendoci trovare idee e giudizj preconcetti. Nella storia della Chiesa, a cominciare dai primi suoi tempi, s’incontra una serie di fatti che provano la fede comune della cristianità nell’Infallibilità della Sede e del Pontefice romano. Moltissime questioni che direttamente o indirettamente appartengono alla fede, le decide di per sé il sommo Pontefice; e quella decisione, non che sia mai contrastata dalle altre Chiese è anzi ardentemente invocata. Papa S. Clemente, per detto di S. Epifanio, condanna Ebione come eresiarca; Papa S. Igino (lo attestano S. Ireneo e Tertulliano) esclude dalla Chiesa Cerdone e Valentino eretici; San Aniceto Papa scomunica Marcione; S. Eleuterio Papa anch’egli proscrive gli errori di Montano. Chi condanna le eresie dei Catafrigi e dei Quartodecimani? Il Papa S. Vittore. Chi fulmina l’eresie dei Novaziani? S. Cornelio Papa. Chi proscrive gli errori di Sabellio? Il Papa S. Dionigi successore di S. Sisto. Dopo data la pace alla Chiesa, Papa Liberio indirizza una lettera solenne ai Vescovi d’Oriente, affinché confessino con gli Occidentali la Trinità consustanziale delle divine persone; e dopo questo giudizio del romano Pontefice, la lite s’ha come terminata. Nel 378 S. Damaso Pontefice pubblica la sua lettera Tractatoria contro le eresie di Apollinare e di Macedonio; S. Siricio condanna l’eresia di Gioviniano; e infine S. Innocenzo conferma i due Concilj Africani contro il pelagianesimo; ed è che S. Agostino dica che per quella conferma la causa è finita. Che più? Nel 494 un Pontefice romano, S. Gelasio,in un Concilio particolare di Roma, giunse sino a determinare il canone delle Sante Scritture. Fatti diquesto genere se ne potrebbero addurre moltissimi. Maio mi fermo qui, e chiedo a me stesso: Per quale ragione mai le dispute più gravi della fede si risolvevano spesso dal Pontefice romano? Perché mai il Pontefice romano egli e non altri dichiarava chi fosse eretico, lo fulminava d’anatemi, e lo metteva fuori del seno della Chiesa? Non avea ciascuna diocesi il suo Vescovo maestro della sana dottrina; e sopra i Vescovi non c’erano i metropolitani; e sopra i metropolitani i primati, e sopra i primati i Patriarchi? Perché le dispute di religione, quasi sempre nei primi tempi nate in Oriente, si de finivano in Occidente ed in Roma? — certo perché i Pontefici romani avessero fama singolare di dottrina. Il primo dei Papi veramente grande per questo rispetto fu S. Leone, che fiorì nel 440: Laonde S. Girolamo, noverando nella Chiesa sino ai suoi tempi centotrentasei uomini illustri per dottrina, appena ricorda quattro Pontefici Romani, Clemente, Vittore, Cornelio e Damaso; i quali ancora scrissero soltanto qualche lettera intorno alle dottrine della fede. Molto meno le dispute di religione si finivano in Roma, perché i Pontefici romani fossero al caso di esaminare la tradizione meglio degli altri Vescovi; trattandosi anzi d’una Religione che ebbe la culla e la primitiva tradizione piuttosto in Oriente che in Occidente. E poi si sarebbero contentati i primi fedeli di una fede fondata sulla scienza storica, o sulla erudizione di qualche Pontefice? Chi lo dicesse, mostrerebbe di non aver capito un jota dello spirito dei Primi Cristiani. La scienza, l’erudizione, la storia, l’ingegno, il vigore dialettico, tutto cedeva per essi a Gesù Cristo. Una sola cosa volevano conoscere, ed era dove fosse mai loSpirito del Signore, quello Spirito che dovea insegnare alla Chiesa ogni verità. Se dunque si chiedeva dal Pontefice Romano la decisione della dottrina della fede; se si chiedeva da lui qual cosa avesse insegnato Gesù Signore,ciò sì faceva perché tutti sapevano che il Beato Pietro avea ricevute promesse singolari intorno al Magistero della fede, e che a lui bisognava far capo per isciogliere senza appello tutti i. dubbj di religione.Questa è la dottrina dell’Infallibilità definita nel Concilio Vaticano, e che qui appresso mi studierò di chiarire anche meglio. Contro di essa, certo, si sono mosse difficoltà in gran numero. Ma non ci fu mai definizione dommatica che non ne suscitasse forse più assai. E qui ben si potrebbe provare, se ne fosse il luogo, che ciò deriva dalla natura stessa delle verità religiose, dai fonti a cui attingono, e dal lavoro che fa intorno ad esse la ragione umana. Ma di questo argomento mi è forza tacere per amore di brevità. Neppure posso lungamente discorrere delle obbjezioni fatte contro l’Infallibilità papale, e non sose sia bene che io ne dica qualche cosa. Scelgo le due principali e più conosciute, ed eccone appena un cenno.Chi di voi nel tempo del Concilio non ha udito parlare di Papa Onorio, che evidentemente errò contro la fede,e poi della Chiesa gallicana, la quale sostenne sempre che il Pontefice non fosse infallibile? Ora il fatto di Papa Onorio, chi voglia restringerlo in poche parole, è questo.Dopo che fu definito in Cristo esservi due nature, l’umana cioè e la divina, si cominciò a discutere se in Cristo vi fossero due volontà e due operazioni, ovvero una volontà ed una operazione. Sergio, Patriarca di Costantinopoli, scrive a Papa Onorio, pregandolo di troncare questa nuova questione con imporre silenzio. Il Papa rispose una celebre lettera a Sergio, nella quale alcuni han voluto trovare la definizione erronea ed ereticale che in Cristo fosse la sola volontà; e cotesta obbjezione si avvalora tanto più, che nel sesto Concilio ecumenico Papa Onorio fu condannato appunto per siffatta disputa. Ma il fatto è che la lettera di Papa Onorio non si può avere come una definizione ex cathedra; che essa non si definisce nulla, ma solo si cede alle istanze di Sergio, dicendosi che intorno a questa nuova controversia non si ha da decidere allora cosa alcuna; e che infine il Concilio ecumenico condannando Onorio, lo condannò come negligente nel difendere la fede, ma non mai come Pontefice, che in una definizione dommatica insegna errori a tutta la Chiesa (Chi vuole le prove di tutto ciò, legga i molti libri scritti su questo argomento, e particolarmente il dottissimo volume scritto da Monsig. Hefele in occasione del Concilio). – L’altro fatto della opinione contrari: della Chiesa gallicana fu anch’esso una sorgente di molti equivoci. Non si può provare né punto né poco che la Chiesa gallicana abbia sempre sostenuto ciò che sostenne nella celebre dichiarazione dell’assemblea del 1682, nella quale fu detto, che nelle questioni della fede il Papa ha la principale parte; che i suoi decreti riguardano tutta la Chiesa e ciascuno in particolare; ma che ciò non pertanto il suo giudizio « non è irreformabile se non allorché la Chiesa gli ha dato il suo consentimento ». Si prova anzi il contrario: che cioè la Chiesa di Francia, da S. Ireneo sino ai nostri tempi, moltissime volte professò nei suoi Concilj la papale infallibilità. Basti citare alcune parole dell’assemblea dei vescovi del 1625, confermate da altri trentuno Vescovi francesi che scrissero a papa Innocenzo X nel 1653. Ecco le une e le altre. « La Chiesa di Francia insegna che nelle questioni intorno alla fede i giudizj dei sommi Pontefici godono di una divina e sovrana autorità nella Chiesa universale, e che tutti si debbono ad essi sottomettere con l’intelletto e col cuore, sia che l’Episcopato esprima il suo assentimento, sia che ometta di farlo….. Gesù Cristo ha fondato la sua Chiesa sopra di Pietro, dandogli le chiavi del cielo con l’infallibilità della fede, che si è veduta prodigiosamente restare immutabile nei suoi successori sino ai nostri giorni». Ma v’è ancora altro. Il fatto dell’assemblea dei ventidue Vescovi del 1682, nella quale si negò la papale infallibilità, bisogna ben ponderarlo e guardarlo con tutte le sue particolarità. L’assemblea del 1682, com’è evidentemente provato da molti storici di polso, non rispose alla fede comune della Chiesa di Francia: non fu al tutto libera, ma guasta dalle eccessive ingerenze e del re e dei cortigiani: il Papa poi e le altre Chiese non l’accettarono, protestando anzi contro. Infine, poco dopo, molti dei Vescovi che, per timore di peggio o per debolezza di animo, sottoscrissero la celebre dichiarazione, la ritrattarono (Vedi intorno a ciò le ventinove lettere del Cardinale Litta). Quanto al dottissimo Bossuet, egli almeno nell’assemblea del 1682 cercò di temperare le pretese esorbitanti di alcuni Vescovi, ed appresso le temperò anche più, distinguendo, sebbene contro il vero, tra l’Infallibilità della Sede papale e quella del Papa. (le Recherches historiques sur l’Assemblée du clergé de France de 1682 per M. Gerin). – Io spero che dalle cose dette sin qui l’idea della papale Infallibilità si sia di Grado in grado affacciata più limpida alle nostre menti. Ora ci rimane a fare un ultimo passo, adducendo le parole della definizione del Concilio Vaticano e facendovi sopra poche riflessioni che giovino a farcela intendere. Il Papa col Concilio Vaticano nella quarta sessione fece una Costituzione dommatica intorno alla Chiesa; e al capo IV definì la papale Infallibilità con queste parole: « Noi aderendo fedelmente alla tradizione ricevuta fin dai primi tempi della fede cristiana, a gloria di Dio nostro Salvatore, ad esaltazione della Cattolica Religione, ed a salute dei popoli cristiani, coll’approvazione del sacro Concilio insegniamo e definiamo esser domma da Dio rivelato che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando, esercitando l’ufficio di Pastore e di Dottore di tutt’i Cristiani, definisce in virtù della suprema sua apostolica autorità una dottrina intorno alla fede o ai costumi da tenersi da tutta la Chiesa, gode, mercè l’assistenza divina nella persona del B. Pietro a lui promessa, di quell’infallibilità, di cui. il divin Redentore volle fosse fornita la sua Chiesa nel definire le dottrine appartenenti alla fede e ai costumi; e che perciò tali definizioni del Romano Pontefice per sé stesse, e non già pel consenso della Chiesa sono irreformabili. Se alcuno, che Dio nol voglia, presumerà di contraddire a questa nostra definizione, sia anatema ». Solenni parole coteste, lungamente ponderate e discusse al lume della fede e con l’assistenza di quello Spirito Santo, che fu promesso alla Chiesa come maestro e rammemoratore d’ogni verità! Posta siffatta definizione, e guardando pure a ciò che insegnano comunemente i teologi, consideriamo dunque quali precipue condizioni si richiedono ad avere una definizione infallibile del Papa. In prima, poiché si parla di definizione delle verità religiose è chiaro che non si accenna neanche da lontano l’impeccabilità pontificia; come è piaciuto di dire ad alcuni, non si sa se più goffi o ignoranti. Ancora, poiché si parla del Papa quando definisce e non quando istruisce i fedeli, e si richiedono parecchie altre condizioni ad aver Papa che parla ex cathedra; è evidente che nel Papa si può considerare il dottore privato ed il maestro dei dommi della fede a tutta la Chiesa. Come dottore privato il Papa può, certo, errare; ed il Bellarmino dà come probabile, quantunque molti altri il neghino, ch’ei possa essere sino eretico, e in questo caso deposto dalla Chiesa. Come dottore universale della Chiesa e quando definisce intorno alla fede, è infallibile. Ma si esamini anche più addentro la Costituzione vaticana. Pietro fu stabilito da Gesù Cristo capo infallibile della Chiesa per mantenere l’unità della fede: il Concilio dice che il Papa è infallibile nelle dottrine della fede e della morale. Dunque il Papa è infallibile quando definisce i dommi della fede e della morale. In quali casi questa infallibilità, secondo i più dei teologi, si possa estendere oltre la divina rivelazione e solo per custodire il deposito della divina rivelazione, fu dichiarato parlandosi dell’infallibilità della Chiesa, che è una stessa ed unica infallibilità con quella del Papa. Ma è certo pure che l’infallibilità sì della Chiesa e sì del Papa non si ha da estendere al di là di quelle cose che sono tanto intimamente ed evidentemente congiunte con le verità rivelate; che, negando quelle, si nega anche queste. Dippiù, il Papa, com’è detto nella Costituzione vaticana, è infallibile nel definire le verità religiose. Ora definire una verità, non è soltanto affermarla; ma affermarla solennemente, e imporla come obbligatoria a tutti i fedeli; affermarla ed imporla come verità rivelata, o così intimamente congiunta con essa, che non se ne può separare. Di qui segue che molte affermazioni anche dottrinali del Papa alla intera Chiesa possono assolutamente parlando essere erronee, come può accadere in tutti quei preamboli che precedono sì nelle Bolle e sì nei Concilj la definizione stessa del domma. Ancora, il Papa, secondo la definizione vaticana, deve parlare come Dottore e Pastore universale; quindi deve parlare a tutta la Chiesa e imporre a tutta la Chiesa l’obbligo di credere ciò che egli insegna. Infine il Papa per essere infallibile deve adoperare certe forme estrinseche, dalle quali apparisca che egli intenda di affermare un domma di fede e di obbligare ad esso tutt’i fedeli. La più consueta di queste forme è il fulminare l’anatema, dichiarando eretico chi nega le verità definite. Questa forma non è essenziale ad avere vera e propria definizione dommatica; ma se il Papa (insegna così il dottissimo teologo Mauro Cappellari, poi Papa Gregorio XVI) « non dichiara che a malgrado l’omissione di questa o di altra forma simile, egli intende di definire e di obbligare, non si deve credere ch’egli abbia assolutamente definito, facendo uso dell’infallibilità promessa a Pietro e ai suoi successori » (Trionfo della Santa Sede. Terza Ediz. rivista dal Cappellari già Papa). – Queste ed altre simili regole si possono addurre per conoscere quali sieno le definizioni dommatiche ed infallibili del Papa. Il parlare di esse più minutamente e l’entrare in certe dispute che oggidì si muovono intorno a siffatto argomento, non mi pare che sia cosa del mio libro. Espongo, ma non fo uno scritto di polemica. Io conchiudo dunque questo tema della papale Infallibilità, notando che una delle più belle glorie del Cattolicismo è la stima grande e l’amore grandissimo ch’esso ispira alla verità. L’Infallibilità papale, che il mondo o deride o oppugna o adultera, è un testimonio perenne del conto in che noi teniamo la verità. La verità per noi è tal bene, che avanza tutti gli altri. Per essa morì il Verbo. di Dio incarnato: per essa il Signore rinnova ogni giorno nella Chiesa e nel suo capo il miracolo dell’infallibilità. Un uomo infallibile di per sé è certo cosa incredibile; ma un uomo in certe solenni occasioni strumento dell’infallibilità di Dio, è cosa che s’armonizza pienamente con tutte le teoriche del Cristianesimo. Coloro che non intendono l’inerranza papale, senza avvedersene rimpiccioliscono il Cristianesimo, e non comprendono: la strettissima unione di Gesù Cristo con la sua Chiesa e col suo Vicario. Quanto a me, l’infallibilità papale mi pare come un raggio dell’infinita luce di Cristo, e come un nuovo miracolo dell’infinito suo amore: onde essa m’innamora sempre più di Gesù Cristo, e mi spinge ad amarlo, a magnificarlo è a benedirlo sempre più vivamente. Quali degnissimi frutti poi coglierà la Chiesa da questa solenne definizione, che parve ad alcuni soltanto inopportuna, lo vedranno, meglio di quel che si possa fare oggi, coloro che verranno dopo di noi; quando l’azione diretta di Dio sopra la Chiesa sarà resa manifesta dai fatti nei quali si troveranno involti i nipoti nostri. La divina Provvidenza apparecchia per tempo le vie dell’avvenire!

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In questa festa della “vera” Chiesa Cattolica, il pusillus grex cattolico, augura al Santo Padre Gregorio XVIII lunga vita e Pontificato glorioso, benché impedito. Anche N. S. Gesù Cristo è stato rinchiuso nel sepolcro, ma dopo 3 giorni è risorto glorioso vincendo il mondo e la morte. Così sarà anche per lei, ne siamo certi, mentre lo stagno di fuoco eterno aspetta gli usurpanti vicari di satana e dell’anticristo, i falsi profeti del novus ordo con i loro apostati adepti. Auguri santità, le stiamo vicino con la preghiera e la fede viva in Cristo, nella sua Chiesa, oggi eclissata ma sempre viva, e nel suo Vicario, successore del Principe degli Apostoli. Preghi per noi, ostinati Cattolici, uniti nel Corpo mistico di Cristo !!!

LUNGA VITA AL PAPA!

LE VIRTÙ CRISTIANE (13)

LE VIRTÙ CRISTIANE (13)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO, Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C. – Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO II.

LA PRIMA BEATITUDINE.

LA VIRTÙ DELLA POVERTÀ DI SPIRITO E DELL’UMILTÀ

Il dì che Gesù benedetto, volendo promulgare la Legge del suo nuovo regno, si fermò in un luogo pianeggiante del Monte delle beatitudini, e, aperta la sua bocca, profferì queste prime parole: beati i poveri in ispirito, promulgò due virtù cristiane, cioè la povertà in ispirito, e l’umiltà. Con queste due virtù gettò le fondamenta del grande edifizio morale, che era venuto ad elevare un edifizio, il quale completò e perfezionò quello dal Signore medesimo eretto in pro del popolo giudeo. Con la povertà in ispirito e con l’umiltà Gesù mirò, innanzi tutto, a sbarbicare dall’animo due cupidità assai possenti, quella delle ricchezze e quella dell’orgoglio: le quali, mentre che ci offuscano e ci traviano, esse sono quasi sempre la radice di ogni, altro male. – Non pago di ciò, nell’atto che Gesù sbarbica le due pessime radici, semina nel cuore umano le due virtù della santa povertà e dell’umiltà. Sono due virtù nobilissime, per le quali i maggiori beni esteriori, dico le ricchezze, e tutti gli altri beni più intimi e più personali di ciascuno, si valutano giustamente, si riferiscono al Signore, che ce ne fece dono, e si usano come strumento dell’eterna nostra salvezza. E ora affissiamo prima lo sguardo a quella virtù modesta e misteriosa, che è tutta propria del Cristianesimo ed è detta povertà di spirito. Dell’umiltà diremo più avanti. – Gesù, nel senso stretto della cosa, non mosse guerra né alle ricchezze né ad alcun altro bene creato; perciocché Gesù stesso, in quanto Dio, allorché le stelle mattutine, cioè gli Angeli, lodavano il Signore per la creazione, vide tutte le cose create da sé, e le disse buone. Indi, dopo che Egli ebbe tratto dal nulla anche l’uomo re dell’universo, vide di nuovo (a nostro modo d’intendere), tutte le cose che aveva fatte, e le disse molto buone.” (Gen. I, 31). Volle invece Gesù, proferendo la prima beatitudine, con misericordiosa bontà volgere l’occhio suo allo spirito dell’uomo, discendere in esso con la sua sapienza illuminatrice, e col balsamo della sua presenza sanarlo dalle vecchie ferite. Però non disse, accennando alle diverse condizioni umane, beati i poveri o beati i ricchi; ma disse guardando allo spirito umano, che Egli era venuto a santificare, beati i poveri in spirito. Non comandò allora il divino Maestro la povertà orgogliosa e sprezzante, come quella di Diogene, di Aristide, di Crate o di Tebano; neanche lodò la povertà forzata. querula, pigra, dissipatrice, sediziosa e insolente di alcuni poveri dei nostri tempi. Volle invece una povertà che, mercè la grazia dello Spirito Santo, piova, come rugiada benefica, nel nostro spirito, e metta in armonia tutte le varie condizioni umane, sì dei poveri sì dei ricchi. Invero, il Cristiano anche ricco è veramente povero in ispirito, se non serve con l’animo alle ricchezze, come usa tra gli avari, ma piuttosto le signoreggia; se nelle ricchezze materiali non pone il suo cuore; se le usa secondo giustizia e ordine di virtù; se le adopera non solo a conseguimento dei beni materiali, ma, quanto più può, a conseguimento anche degli intellettuali e morali. Principalmente il Cristiano ricco è veramente povero in ispirito, se viva in guisa, che il suo superfluo sia molto, e poi lo versi nel seno dei miseri. Allora si è veramente povero in ispirito e beato; perciocché egli intende bene, e mette ad effetto l’altissimo insegnamento di Cristo: “Date il superfluo ai poverelli.” Parimente il Cristiano materialmente povero è veramente povero in ispirito, solo se accetti serenamente e pazientemente il suo stato, adoperando i mezzi onesti per temperarne le amarezze, e tra essi prescelga, sempre che può, l’adempimento del precetto di lavorare, dal Signore dato all’uomo, anche prima ch’ei peccasse. E questo che son venuto dicendo del ricco e del povero, si vuole intendere di tutte quelle gradazioni intermedie di agiatezza, e di minore o maggiore ricchezza. Le diverse quantità del possedere non mutano nulla alla sustanza di questa virtù; la quale, come le altre virtù, essendo illuminata da un concetto giusto e sano della mente intorno alle ricchezze, risiede tutta nel libero arbitrio della nostra volontà. La povertà dello spirito, considerata nel modo che ho detto, è comandamento dato a tutti i Cristiani. Ma (a che gioverebbe tacerlo?) è comandamento non facile a praticare sì pel povero sì pel ricco. Per adempiere questo comandamento, l’uomo, in qualunque condizione viva, s’ha da levare in alto con la mente e col cuore; perciocché solo in alto troverà il giusto concetto di Dio, di se stesso e dei diversi ordini dei beni. E intanto l’uomo, per la primitiva corruzione, è come un infermo sanguinante per molte ferite, cui riesce grave il tenersi ritto in piedi, e anche più grave il muovere il passo per ascendere su le cime alte dell’etica cristiana. Ma le difficoltà della virtù della povertà in ispirito non sono eguali nel povero e nel ricco; e la quotidiana esperienza ce ne avverte. Nel ricco riescono infinitamente maggiori; perché le ricchezze sono all’uomo terribilmente e sediziosamente tentatrici. Sono tentatrici; perché inducono facilmente l’uomo a banchettare, a rumoreggiare, a sfoggiare nel lusso, a scialacquare, a gonfiarsi di vanità e d’orgoglio, a disprezzare i poverelli, a tenere in nessun conto i beni e i piaceri dello spirito. Tralascio poi che, a volte producono il tarlo dell’avarizia, roditore d’ogni buon sentimento, a volte fanno l’uomo dimentico della giustizia, e altresì dell’eguaglianza sustanziale tra tutt’i figliuoli del solo padre Adamo. Le quali cose tutte l’Apostolo san Paolo compendiò scrivendo a Timoteo così: “Coloro, che vogliono diventar ricchi, cadono nelle tentazioni e nei lacci del diavolo, e in molti desiderj inutili e nocivi, i quali menano gli uomini alla morte e alla perdizione; perciocché radice d’ ogni male è la cupidità (del danaro).” (1 Tim. VI, 9). Di qui poi s’intende anche perché Gesù Cristo, secondo che scrive san Luca, dopo di aver detto beati i poveri in ispirito, aggiunse che sono infelici i ricchi. Le parole di Gesù Cristo suonano così: “Guai a voi o ricchi, perché avete avute (qui in terra) le vostre consolazioni.” (Luc. VI, 24) Ora è evidente che queste parole di Gesù Cristo sono messe in contrapposto delle prime: beati i poveri in ispirito. Laonde, poiché quelle si vogliono intendere dei poveri virtuosi; queste s’hanno da spiegare dei ricchi oziosi, che o accumulano ricchezze illecitamente, o sono avari o mettono l’ultimo fine loro nelle dovizie e nei piaceri che esse procurano. Costoro non solo sono infelici, per le minacce dell’eterna pena, ma altresì, se si guardino umanamente, per le seguenti ragioni addotte da Dante nel Convito: “Né solamente i ricchi per desiderio di accrescere le cose che hanno, si tormentano, ma eziandio tormento hanno nella paura di perdere quelle.” (Conv. IV, 12). Considerata, nel modo che s’è detto, la virtù della povertà in ispirito, mi par chiaro, che non solo essa sia nobile e bella, non solo spinga l’animo in alto, sollevandolo dalle basse paludi dei piaceri del senso; ma si manifesti al tutto consentanea alla luce intellettuale della nostra ragione. Ancora, è da aggiungere che la pratica, sia pure universale, di questa virtù non contrasterebbe né punto né poco all’accrescimento dei commercj, dell’industria e di ogni maniera di umana ricchezza, come talvolta fu opposto dagli economisti di corte vedute. Perciocché il precetto della povertà in ispirito non è ordinato a diminuire l’umana ricchezza, ma a ben governare l’animo di coloro che la possiedono. – Chi può dubitare che il Cristianesimo, dando a tutti gli uomini, senza eccezione di sorta, il comandamento del lavorare, conferisca moltissimo all’accrescimento dell’umana ricchezza? Però la Religione di Gesù Cristo sarebbe in evidente contraddizione con sé medesima, se con una mano si adoperasse ad accrescere le ricchezze, e con l’altra a diminuirle. La sustanza della povertà cristiana risiede tutta nello spirito; e però non sta nel possedere più o meno, ma nel possedere e nello spendere secondo Dio e la legge evangelica. Poniamo, in grazia di esempio, che noi in Italia avessimo un reddito di due o trecento milioni di più di quel che abbiamo, non saremmo per ciò peggiori Cristiani, anzi diventeremmo presto migliori, se avessimo in odio l’avarizia, l’usura e la dissipazione; se spendessimo, molto più di quel che non facciamo, pel culto del Signore, per i poverelli, per i buoni studj, e pel conseguimento di tutti quei beni spirituali, che ci elevano a Dio. – Ed ora entriamo per breve tratto nel campo fiorito della cristiana perfezione, nel quale spira un’aura soave e profumata, il cui odore però non arriva agli animi grossi e soggiogati dalle passioni. La povertà in ispirito diventa consiglio evangelico, generatore di perfezione, allorché il fedele, per essere più libero e pronto nel servire Dio, si spoglia delle proprie ricchezze, e si contenta del puro necessario alla vita. Il primo esempio di siffatta povertà eroica ce lo dette Gesù Cristo; che, in se stesso ricchissimo di ogni dovizia, volle nei trentatré anni della sua vita terrena, esser povero e viver da povero. Poi l’esempio suo fu imitato da molti Santi, tra i quali primeggia forse, nella Chiesa dei primi secoli, Paolino da Nola. Seguirono romiti, monaci, frati, religiosi d’ogni sorta, i quali tutti molto si giovarono di questo consiglio evangelico della santa povertà, per camminare nelle vie del proprio perfezionamento. I più di costoro unirono alla povertà il celibato, e quasi sempre anche una stretta e costante obbedienza ai superiori loro. Come usa tra i religiosi, si votarono a Dio coi tre voti di povertà, di castità e d’obbedienza; perciocché questi diversi consigli evangelici si dànno la mano, e si compiono più agevolmente sempre che sieno tra loro uniti. Abbiamo nondimeno nella storia della Chiesa un esempio santamente riuscito di questa povertà dei perfetti, seguita senza il celibato. E lo troviamo tra i fervori dell’età apostolica nella piccola Chiesa primitiva di Gerusalemme; della quale negli Atti degli Apostoli è detto così: “Tutt’i credenti avevano ogni cosa in comune. Vendevano le possessioni e i beni, e distribuivano il prezzo a tutti, secondo il bisogno di ciascheduno.” (Act. II, 44 e 45). Or questo medesimo esempio di una sola piccola Chiesa particolare durò poco, e non poteva accadere diversamente: durò sino a che quelli, che valutavano i bisogni di ciascuno, erano gli Apostoli di Gesù Cristo, e le famiglie, le quali docilmente accettavano la misura dei bisogni, e la distribuzione degli Apostoli, possiamo credere che fossero tutte famiglie di Santi. Io non so, se nel secolo XIII la sete delle umane ricchezze fosse maggiore di quella, che oggi affatica gli uomini, e quasi sempre li rende inquieti, annojati e mesti. Conosco nonpertanto, per giudizio dei migliori storici, che anche allora questa sete era straordinariamente grande. – La povertà dei perfetti il Cristiano dunque, non che sprezzarla, come usano oggidì molti, la stima e la venera, in quella guisa che ei stimerebbe e venererebbe la stessa sposa di Cristo e d’ un gran Santo. L’uomo perfetto poi ama la povertà come Gesù amò la Chiesa sua sposa, di amore celestiale e castissimo; trova in essa le sue maggiori delizie, e la antepone a qualsiasi altro bene. Da essa non si separerà mai, neanche nel gaudio dell’eterno regno; perocché lassù nel Cielo l’uomo sarà ineffabilmente più ricco di tutti i ricchi della terra, ma le ricchezze sue saranno ben altre, infinitamente più nobili, più spirituali, più celesti di queste ricchezze terrene che appena le adombrano. Basti il sin qui detto intorno alla povertà in ispirito, e alle cime altissime, sulle quali essa conduce i perfetti. Ora è bene studiare brevemente l’altra interpretazione che tutt’Padri della Chiesa dànno alla prima beatitudine evangelica: beati i poveri in ispirito. Essi intendono che la povertà in ispirito sia l’umiltà; anzi taluno crede che questo sia il principale significato inteso allora da Cristo. Certo, non mancano luoghi paralleli della Scrittura Santa per avvalorare cosiffatta interpretazione, e anche ragioni di diverso genere. Nondimeno io mi tengo pago ad addurne una di sant’Agostino, e che suona così: “Comunemente usa dire che i superbi hanno grande spirito, e ancora che essi son gonfi e quasi pieni di vento. A buon dritto dunque gli umili che temono il Signore, noi li diciamo poveri di spirito, cioè tali che né orgoglio né vanità interiore li gonfino.” (Aug. L. I. De Sermone Dom. in Monte). – Nessuna virtù cristiana è stata mai così malamente intesa o piuttosto presa a rovescio, come questa dell’umiltà; la quale per alcuni rispetti è la regina delle virtù cristiane, ma una regina che cela la sua leggiadria e le sue grazie ai profani, ed è bellissima soprattutto per bellezza interiore. Forse il fatto che essa è così poco e mal compresa deriva da che si contrappone all’orgoglio, il quale è come uno sterpo, più o meno fortemente abbarbicato in ciascun uomo. Forse anche han conferito al fatto gli eroismi d’umiltà dei Santi cristiani. I quali eroismi, appunto perché eroismi, hanno un lor linguaggio proprio, e son difficili a comprendersi. Ma di questi accadrà di dir qualche cosa più giù. Guardiamo ora l’umiltà nella sua sustanza. Chi voglia ben comprendere la natura dell’umiltà cristiana, è bene che consideri innanzi tutto che l’uomo ha in sé un intemperante appetito di onore e di stima, che è seme dell’orgoglio, e cagione d’infiniti mali. Ora a siffatto appetito si contrappone la virtù dell’umiltà, cui san Bernardo definisce: “L’umiltà è virtù, onde ciascuno, per verissima cognizione di sè medesimo, a sé medesimo si fa vile. ” (Aug. L.I. De Sermone Dom. in Monte). Ora la prima luce che dalle parole del Santo sfolgora alla nostra mente, è che non si dia vera umiltà, dove non è piena verità; e anzi l’umiltà cristiana (è necessarissimo tenerlo bene a mente) deriva proprio dalla verità, come raggio da sole, o come rivo da fonte. Però, se taluno non trova in se medesimo motivi sufficienti per farsi vile a sé medesimo umiliandosi, gli è perché o gli manca affatto una vera cognizione di sé, o la cognizione che ne ha, è involta tra nebbie di passioni, e quindi al tutto errata. Chi mi legge, si allontani, come può, dallo strepito esteriore del mondo e da quello più intimo delle passioni, si ripieghi un tratto sopra sé medesimo, e pensi. Troverà nella propria persona molti difetti e mali morali, la concupiscenza, l’irascibile, la propensione al male, l’ignoranza, l’errore, il peccato; tutte cagioni di miserie, d’invilimento, d’umiltà. Lo umilieranno altresì molti mali fisici, dico i morbi, la povertà, la fame, la morte e in breve tutte le innumerevoli forme del dolore. Ma non so se abbiate mai posto mente a quel che sono per dirvi. I beni, gli innumerevoli beni, onde Iddio arricchì la nostra natura, attentamente guardati e ponderati, per un altro verso ci riescono anche essi cagione di grande e profonda umiltà. Son molti è vero questi beni, e belli e desiderabili e ammirevoli. Ma ce li siam dati forse noi a noi medesimi? E se li abbiamo dal Signore, non c’inducono essi alla dipendenza, all’ossequio, all’umiltà? Ancora, cotesti beni sono angusti, finiti, circoscritti, e anzi per la nostra corruzione spesso essi stessi generano in noi il male. Come dunque non umiliarci noi, se siam così fatti, che di frequente il bene da Dio largitoci lo volgiamo al male? Di più i beni nostri di qualunque genere sieno, li possiamo perdere da un momento all’altro, e li perdiamo di fatto: solo il Signore, che ce li ha dati, ce li può ridare, conservare e accrescere. Chi è dunque grande? Noi che abbiamo essi beni, o il Signore, che ce li dà, e senza di cui non li abbiamo, non li conserviamo, non li accresciamo mai? Che vale invero il bene supremo della vita, senza Colui che me la dette, se un microbo, un granello di potente veleno, un soffio d’aria malefica me la può togliere, nell’ora in cui più la desidero? Che vale il mio ingegno, se una malattia, una percossa, talvolta un dolore morale me lo spegne? Che vale la scienza senza Dio, quando per ogni raggio di luce, che essa mi dona, mi accora e mi umilia con la vista d’una maggiore e più estesa quantità di tenebre? Che se tutto ciò è vero dei beni più nobili e grandi, molto più è vero delle ricchezze, degli amori, della potenza, della gloria. Infine, i pregi della nostra natura, per quanto siano tutti nobili e grandi, non valgono mai ad appagarci pienamente, e pare anzi che quanto sono maggiori, tanto più eccitino il desiderio del Bene infinito. Riescono dunque facilmente a umiliarci, per la distanza grandissima che ci mostrano, tra ciò che abbiamo e ciò che vorremmo avere. – So pur troppo, che il superbo, appunto da questi medesimi beni prende occasione di gonfiarsi e d’inorgoglirsi; ma ciò deriva da che egli a poco a poco si forma un’idea affatto bugiarda dei proprj beni. Li considera come beni, che egli stesso si ha dati; ed è bugia: si sforza con un inganno puerile, nel quale follemente si culla, di credere che egli non li perderà mai; ed è bugia anche questa: tenta vanamente, di trovare il pieno appagamento in essi, mutando, per esempio, un piacere in un altro, un amore in un altro, l’appetito delle ricchezze in quello della gloria, e via dicendo; ma questa è bugia anch’essa. È quando poi la piena dei dolori morali e fisici lo sopraffà, spesso egli s’induce a proclamare disperatamente l’infinita vanità di se stesso e del tutto, mutando una bugia in un’altra bugia, una forma d’orgoglio facile e comune, in un’altra forma d’orgoglio più sottile e più sprezzante, più profonda e più nociva, che per non riconoscere da Dio i proprj beni, superbamente li nega. – Dalle cose dette si conchiude dunque che l’uomo, il quale rifletta profondamente sopra se stesso, è inclinato ad umiltà, e dovrebbe quasi naturalmente esser umile. E se non riusciamo umili veramente, senza un ajuto possente di luce e di grazia suprema, questo è un nuovo motivo di umiltà per noi. Ma penetriamo un poco più intimamente nel mistero dell’umiltà cristiana, la quale fu tanto spesso commendata da Gesù Cristo nei santi Vangeli, e si trova quasi ad ogni passo della santa Scrittura. La prima considerazione da fare è che non si ha mai vera umiltà cristiana, quando la cognizione della propria vilezza non sia congiunta con la cognizione della infinita grandezza di Dio. Anzi, per avere umiltà vera, queste due cognizioni è giusto guardarle, come le due coppe di una bilancia; nella quale, quanto più scende il conoscimento di sé, tanto più sale il conoscimento di Dio: proprio l’opposto di quello, che accade nel superbo, dove i pesi delle due coppe sono assolutamente invertiti. Il superbo in vero pensa molto a sé, e a Dio pensa poco; e poiché stima molto sé, stima poco Iddio, procedendo di grado in grado sino all’occulta idolatria di sé medesimo. Nell’umile l’accoppiamento delle due cognizioni opposte, quella che ciascuno ha di sé, e quella che ha di Dio, è a ragione giudicato essenziale da tutti Padri della Chiesa, e molto più dagli scrittori di ascetica. Ma niuno forse scolpì cotesto concetto, in modo più sintetico di quel che fece sant’Agostino in questa sua orazione: “Signore, che io conosca te e conosca me, affinché ami te, e umili me.” — Dal non por mente abbastanza al bisogno, che vi è per avere umiltà vera dell’unione del conoscimento basso di sé, col conoscimento altissimo di Dio, deriva in parte che l’umiltà si confonda spesso con i suoi contrarj, cioè con la pusillanimità, la grettezza d’animo, la immoderata abiezione di se stesso, l’oblio della propria dignità. Ma tutti questi sono o vizj o difetti, o inchinamenti al male; i quali, non che confondersi con l’umiltà, le fanno guerra. In effetti il vero umile, quanto più conosce di esser vile e debole in sé, tanto più sa di esser forte e grande in Dio. – Oltre a ciò, dal già detto segue pure che la virtù dell’umiltà e la virtù della magnanimità dell’animo non solo non si oppongano tra loro, come stima il volgo dei sapienti, ma si armonizzino mirabilmente; sicché l’una completa l’altra. L’umiltà in vero, benché guardi anche a Dio, seguendo la propria natura, tiene l’occhio particolarmente alle miserie umane, e c’inclinerebbe a ritrarci in qualche modo dalle cose difficili, splendide ed eccelse, anche perché esse ci procurano onore. Ma ecco che la magnanimità cristiana, da buona amica, le viene in ajuto. La sua missione è di spingerci alle cose difficili ed eccelse, che, secondo prudenza, non superano però le nostre forze; perciocché se le superassero, la magnanimità si muterebbe in audacia folle e presuntuosa. Ma nel misurare le forze nostre, la magnanimità cristiana non guarda o poco guarda alle miserie umane, sì molto alla potenza, alla bontà e alla sapienza di Dio, che Dio stesso amorevolmente comunica ai veramente umili e fiduciosi. Da ciò si comprende come il Cristiano profondamente umile voli spesso in alto, come aquila, con i pensieri e i desiderj, e spesso abbia propositi arditi e difficili. Però se, a volte lo vedi umile e mogio come un agnello; a volte anche, trattandosi della gloria di Dio manomessa e del bene delle anime, assume il coraggio del leone. – La virtù dell’umiltà cristiana ha pur questo di proprio, che riesce insiememente la prima pietra dell’edifizio della vita cristiana, e altresì la prima pietra della perfezione cristiana. Ben è vero che il fondamento della vita cristiana è la fede, secondo le parole di san Paolo: “Senza la fede nessuno può piacere a Dio.” (Heb. XI, 6). Ma il maggiore ostacolo alla fede è l’orgoglio, come il maggiore stimolo ad abbracciarla è l’umiltà. L’orgoglio impedisce la fede, perché o non riconosce Iddio lo fa poco da meno, e quasi eguale all’uomo. Il superbo nel suo cuore dice: “Io non posso sospendere le leggi di natura e far miracolo: dunque Iddio non può: i misteri di religione non mi sono evidenti, e provati direttamente dalla mia ragione: dunque non sono evidenti a Dio, né veri avanti a lui, verità sustanziale ed eterna: io non so il futuro; e Dio nol sa e via dicendo.” Assolutamente contrarie a queste sono le disposizioni di un animo umile, il quale, come è chiaro, discorre dentro di sé proprio nel senso opposto; onde crede perché è umile, e tanto più fortemente crede, quanto più s’avanza nell’umiltà. – Per quel che poi riguarda la perfezione cristiana, sant’Agostino apertamente insegna: “Vuoi tu costruire un nobile e alto edifizio di perfezione in te? Pensa innanzi tutto al fondamento dell’umiltà?” (Aug. De verbis Domini). Ma veramente non ci sarebbe bisogno né di questa né di altra autorità dei Padri della Chiesa o dei cristiani scrittori di etica. L’umiltà fu la virtù prediletta dal Santo dei santi e dell’infinitamente perfettissimo Gesù Cristo, che disse e dice a tutti noi in ciascun’ora della vita, e soprattutto quando l’orgoglio ci tenta: “Imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore.” (Matth- XI, 29). L’umiltà fu la virtù più cara alla Vergine, Umile ed alta più che creatura; onde Ella stessa cantò: “Perché il Signore guardò all’umiltà della sua ancella, perciò mi diranno beata tutte le generazioni” (Luc. I, 48). Che dire poi dei Santi eroicamente umili tutti, ma forse in modo particolare umili san Francesco d’Assisi e il mio san Filippo? – Se non che, mentre scrivo qui dell’umiltà dei Santi, mi sovviene d’una obiezione che ho intesa tante volte, la quale forse sarà bene di sciogliere. Essa è di questo tenore: Come mai i Santi possono, paragonandosi anche talvolta ai peccatori più famosi, dire di sé che sono peccatori e anzi grandi peccatori? Non mentiscono forse allora? In qual guisa dunque sono eroi, se si oppongono alla verità, che, guardata nella sua essenza, è Dio stesso? Questa difficoltà se la fanno molti; e io ricordo che la feci a me stesso, la prima volta, quando avevo vent’anni, e vidi su Montecassino una Bolla di Papa Alessandro III sottoscritta da san Pier Damiano, innocentissimo e grandissimo Santo, in questa forma: Ego Petrus peccator. — Io Pietro peccatore. Alcuni potrebbero rispondere all’obiezione, dicendo che cotali espressioni siano mere iperboli dei Santi; e il parlare iperbolico non è menzogna, né disdice ai Santi, che sono tutti, pare a me, nobilmente e celestialmente poeti. Io non rigetto questa risposta; ma credo che si debba vedere la cosa anche un po’ più addentro. Allorché il Santo dice di essere grande, grandissimo peccatore, non guarda né la qualità né la quantità dei peccati di un furfante qualsiasi, per trarne argomento di paragone con i proprj peccati. Il suo parlare è ben altro: è tutto soggettivo. Egli sa, che nessun uomo è al tutto mondo dal peccato, neanche il fanciullo, che bevve soltanto le prime aure della vita. Paragona quindi la cognizione, che ha dei proprj peccati, siano pure veniali, con la cognizione che ha di Dio, e messosi in questa luce, la malizia, la miseria, l’orrore di qualsiasi cosa contro Dio gli si accresce tanto nell’animo, che egli si sente e si proclama gran peccatore. Ogni nuovo raggio di sapienza, che gli piove nella mente, ogni nuovo benefizio che ha da Dio, ogni nuova considerazione che faccia della divina bontà, gli accresce nella mente e nel cuore la gravezza di qualsiasi peccato; ed egli non si sazia mai di credersi e di proclamarsi gran peccatore. Narrano che, tra i selvaggi, alcuni, fissando gli occhi nel disco del sole all’ora d’un bel tramonto, lo credono così vicino a sé, che per poco non si muovono ad incontrarlo. Ma l’astronomo, che ha la mente illuminata dalla scienza, conosce che la distanza tra sé e quel disco apparentemente vicino, è di migliaia di miglia. Ora, se trasferiamo la nostra mente dal sole corporeo all’infinito Sole di verità e di bellezza che è Dio, accade che ogni superbo rassomigli all’uomo selvaggio, di cui ho fatto parola, e ogni Santo all’astronomo. Il primo si crede vicinissimo, e poco differente da Dio: il secondo, nel misurare la sua distanza da Dio, non si appaga di quel che l’astronomo insegna della distanza dal sole, ma corre col pensiero assai più avanti. – Oh, se gli uomini dell’età nostra meditassero con animo spregiudicato le parole di Cristo; beati i poveri in spirito, quanto bene ne verrebbe a tutta la cristianità! Le passioni dei poveri oggi, più che mai, si ribellano contro i ricchi; intanto che l’orgoglio dei sapienti volgari mette in confusione e in tempesta tutte le idee, tutt’i sentimenti e tutta la vita delle genti civili. A tutti pare che il terreno che ci sta sotto i piedi, sia a guisa di una mina, e che da un momento all’altro qualche scintilla da noi non preveduta mettendovi fuoco, ci faccia saltare in aria. E la ragione di questo tormentoso stato, in cui si trova particolarmente l’Europa, è che Iddio, quell’Iddio che ci ha comunicata la sapienza del suo Vangelo, e ci ha redenti, e ci ha fatti nuovamente suoi figliuoli, non regna più, per colpa dei miscredenti, quanto dovrebbe, in mezzo a noi: lo hanno scacciato da noi soprattutto l’orgoglio delle menti e l’amore smodato delle ricchezze e dei piaceri. Gli uomini, gonfiati dalla scienza e dalle proprie passioni, hanno detto in cuor loro: beati i ricchi, beati coloro che sentono altamente di sé medesimi. Or bene, insino a che costituiremo tutta la nostra vita in contraddizione delle parole di Cristo beati i poveri in spirito, non avremo pace. Ai poveri in spirito Gesù promise il regno dei cieli; ed essi incominciano a pregustarlo e quasi a sentirlo in questa vita terrena. Ai ricchi malvagi e ai superbi, che mettono in questo mondo, e nei suoi piaceri l’ultimo loro fine, vanno invece applicate le parole lella Bibbia: “Gli empj non avranno mai pace.’” (Isai. XLVIII, 22).

LE VIRTÙ CRISTIANE (14)