DOMENICA III DOPO L’EPIFANIA (2022)

DOMENICA III DOPO L’EPIFANIA (2022)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le Domeniche III, IV, V, e VI dopo l’Epifania hanno il medesimo Introito, Graduale, Offertorio e Communio, che ci manifestano che Gesù è Dio, che opera prodigi, e che bisogna adorarlo. La Chiesa continua, infatti, in questo tempo dopo l’Epifania, a dichiarare la divinità di Cristo e quindi la sua regalità su tutti gli uomini. E il Re dei Giudei, è il Re dei Gentili. Così la Chiesa sceglie in San Matteo un Vangelo nel quale Gesù opera un doppio miracolo per provare agli uni e agli altri d’essere veramente il Figlio di Dio. – Il primo miracolo è per un lebbroso, il secondo per un centurione. Il lebbroso appartiene al popolo di Dio, e deve sottostare alla legge di Mosè. Il centurione, invece, non è della razza d’Israele, a testimonianza del Salvatore. Una parola di Gesù purifica il lebbroso, e la sua guarigione sarà constatata ufficialmente dal Sacerdote, perché sia loro testimonianza della divinità di Gesù (Vang.). Quanto al centurione, questi attesta con le sue parole umili e confidenti che la Chiesa mette ogni giorno sulle nostre labbra alla Messa, che Cristo è Dio. Lo dichiara anche con la sua argomentazione tratta dalla carica che egli ricopre: Gesù non ha che da dare un ordine, perché la malattia gli obbedisca. E la sua fede ottiene il grande miracolo che implora. Tutti i popoli prenderanno dunque parte al banchetto celeste nel quale la divinità sarà il cibo delle loro anime. E come nella sala di un festino tutto è luce e calore, le pene dell’inferno, castigo a quelli che avranno negato la divinità di Cristo, sono figurate con il freddo e la notte che regnano al di fuori, da queste « tenebre esteriori » che sono in contrasto con lo splendore della sala delle nozze. Alla fine del discorso sulla montagna « che riempi’ gli uomini d’ammirazione » S. Matteo pone i due miracoli dei quali ci parla il Vangelo. Essi stanno dunque a confermare che veramente « dalla bocca di un Dio viene questa dottrina che aveva già suscitato l’ammirazione » nella Sinagoga di Nazaret (Com.). –Facciamo atti di fede nella divinità di Gesù, e, per entrare nel suo regno, accumuliamo, con la nostra carità, sul capo di quelli die ci odiano dei carboni di fuoco (Ep.), cioè sentimenti di confusione che loro verranno dalla nostra magnanimità, che non daranno ad essi riposo finché non avranno espiato i loro torti. Così realizzeremo in noi il mistero dell’Epifania che è il mistero della regalità di Gesù su tutti gli uomini. Uniti dalla fede in Cristo, devono quindi tutti amarsi come fratelli. « La grazia della fede in Gesù opera la carità » dice S. Agostino (2° Notturno).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVI: 7-8
Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae.

[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]


Ps XCVI: 1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.

[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae.

[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, infirmitatem nostram propítius réspice: atque, ad protegéndum nos, déxteram tuæ majestátis exténde.

[Onnipotente e sempiterno Iddio, volgi pietoso lo sguardo alla nostra debolezza, e a nostra protezione stendi il braccio della tua potenza].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII: 16-21
Fratres: Nolíte esse prudéntes apud vosmetípsos: nulli malum pro malo reddéntes: providéntes bona non tantum coram Deo, sed étiam coram ómnibus homínibus. Si fíeri potest, quod ex vobis est, cum ómnibus homínibus pacem habéntes: Non vosmetípsos defendéntes, caríssimi, sed date locum iræ. Scriptum est enim: Mihi vindícta: ego retríbuam, dicit Dóminus. Sed si esuríerit inimícus tuus, ciba illum: si sitit, potum da illi: hoc enim fáciens, carbónes ignis cóngeres super caput ejus. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum.

“Fratelli: Non vogliate essere sapienti ai vostri propri occhi: non rendete a nessuno male per male. Procurate di fare il bene non solo dinanzi a Dio, ma anche dinanzi a tutti gli uomini. Se è possibile, per quanto dipende da voi, siate in pace con tutti gli uomini. Non fatevi giustizia da voi stessi, o carissimi, ma rimettetevi all’ira divina, poiché sta scritto: A me la vendetta; ripagherò io », dice il Signore. Anzi, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; perché, così facendo, radunerai sul suo capo carboni ardenti. Non lasciarti vincere dal male; al contrario vinci il male con il bene”. (Romani XII, 16-21).

 P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

LA VITTORIA DEL BENE SUL MALE.

Questa volta bisogna proprio che ve la legga questa lettera o porzione di lettera di S. Paolo ai Romani, ve la leggo e niente altro. È troppo delicato l’argomento che tratta, è troppo importante lo sviluppo che gli dà. Del resto, purtroppo la sentite così di rado la parola di San Paolo, il grande predicatore della verità. Continua l’Apostolo a dare ai romani i consigli morali più tipicamente cristiani; li chiamo consigli, pensando al tono che è d’esortazione, ma si tratta di precetti belli e buoni. L’Apostolo insiste sul tasto delicato e forte della carità cristianamente intesa, così diversa e superiore alla filantropia. « Non fate del male a nessuno, e fate del bene a tutti gli uomini » frase molto chiara e dove l’accento cade su quel nessuno e quel tutti. Cristiani battezzati di fresco, Cristiani troppo freschi per essere Cristiani profondi, potevano credere che la carità nella sua doppia espressione di non fare del male e di fare del bene, potesse e dovesse restringersi nell’ambito dei fedeli. Per gli infedeli, pei pagani doveva essere, poteva essere un altro conto, un altro affare. Ebbene, no. S. Paolo dissipa l’equivoco. Male un Cristiano non deve fare a nessuno, neanche al più scomunicato dei pagani, e bene a tutti. Ma se non dovendo fare e non facendo del male a nessuno il buon Cristiano non può mettersi in contrasto con nessuno, purtroppo possono gli altri mettersi in contrasto con lui, rompendo quello stato pacifico nel quale sfocia logicamente la carità. L’Apostolo lo sa e perciò soggiunge: « se è possibile e per quanto dipende da voi. Siate in pace con tutti ». Soggiunge così per continuare il filo logico del suo discorso ai Cristiani in caso di confitti che altri (non essi) abbiano suscitato, turbando il pacifico equilibrio della carità. In questo caso il dovere del Cristiano, offeso, oltraggiato, danneggiato è di non farsi giustizia da sé: « non vi vendicate, dice il testo, e continua: rimettetevi alla giustizia di Dio, giusta la frase del V. T.: « È mia la giustizia, penserò io a farla ». Dove tocchiamo un’altra volta con mano il mirabile equilibrio del Cristianesimo contrario alla vendetta, ma pieno d’ardore per la giustizia, anzi tanto più dalla vendetta aborrente quanto più alla giustizia devoto. Ogni vendetta individuale rischia di essere un’ingiustizia, perché si fa giudice chi è parte in causa. La giustizia, questa idealità obbiettiva, cristiana per sua natura, non può essere soggettivizzata; o ci si rinuncia, o la si affida a Dio. – Affidato a Dio l’esercizio eventuale, eventualmente necessario, della giustizia, il buon Cristiano anche nel caso di ingiuria sofferta deve riprendere verso il suo offensore l’esercizio della carità. La quale nella fattispecie esercitata verso un nemico, verso chi l’ha demeritata diventa perdono. « Ci penso io alla giustizia, a mettere a posto il malvagio », dice il Signore, e allora a noi non resta che continuare per il solco radioso della carità. E perciò: « se — riprende la parola l’Apostolo Paolo — il tuo nemico (colui che ha voluto essere tale per te) viene ad avere fame, tu, da buon fratello, perché non sei, non puoi, non devi essere altro, tu dagli da mangiare, se ha sete dagli da bere. Lo richiamerai così, collo spettacolo vivo, edificante della tua bontà indomita ed indomabile, a coscienza più chiara e cosciente della sua malvagità ». – E qui senza tradire il concetto dell’Apostolo Paolo ho dovuto modificare un po’ le sue parole. Ma il concetto come è bello e profondo! Quando uno ti picchia, tu, secondo la morale del mondo, dovresti, devi picchiarlo: al gesto violento e brutale rispondere con un altro gesto egualmente brutale e violento, scendere anche tu su quel terreno bestiale e brutale, dove si è collocato lui. Dare a lui un cattivo esempio, come egli lo ha dato a te. Il Cristianesimo ragiona ben altrimenti. A chi si brutalizza, bisogna dare esempio di umanità; il Cristiano rimanga al suo posto, alto e nobile, e potrà condurvi l’avversario. E così avrà una vittoria non di Pietro su Cesare, dell’uomo sull’uomo, del più forte e violento sul più debole, no; si avrà la vittoria, una vittoria del bene sul male, del bene che lo ferma sul male che vorrebbe continuare le sue gesta. La Vittoria del bene sul male, il segno e il programma del Cristianesimo che Paolo riafferma a conclusione del suo discorso: « non ti far vincere dal male, ma vincilo tu il male e vincilo col bene, la sola arma efficace all’uomo, « noli vinci a malo, sed vince in bono malum ».

Graduale

Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.

[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua
.

[V. Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps XCVI: 1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja.

[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt VIII: 1-13
In illo témpore: Cum descendísset Jesus de monte, secútæ sunt eum turbæ multæ: et ecce, leprósus véniens adorábat eum, dicens: Dómine, si vis, potes me mundáre. Et exténdens Jesus manum, tétigit eum, dicens: Volo. Mundáre. Et conféstim mundáta est lepra ejus. Et ait illi Jesus: Vide, némini díxeris: sed vade, osténde te sacerdóti, et offer munus, quod præcépit Móyses, in testimónium illis.
Cum autem introísset Caphárnaum, accéssit ad eum centúrio, rogans eum et dicens: Dómine, puer meus jacet in domo paralýticus, et male torquetur. Et ait illi Jesus: Ego véniam, et curábo eum. Et respóndens centúrio, ait: Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur puer meus. Nam et ego homo sum sub potestáte constitútus, habens sub me mílites, et dico huic: Vade, et vadit; et alii: Veni, et venit; et servo meo: Fac hoc, et facit. Audiens autem Jesus, mirátus est, et sequéntibus se dixit: Amen, dico vobis, non inveni tantam fidem in Israël. Dico autem vobis, quod multi ab Oriénte et Occidénte vénient, et recúmbent cum Abraham et Isaac et Jacob in regno coelórum: fílii autem regni ejiciéntur in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Et dixit Jesus centurióni: Vade et, sicut credidísti, fiat tibi. Et sanátus est puer in illa hora.

[“In quel tempo, sceso che fu Gesù dal monte, lo seguirono molte turbe. Quand’ecco un lebbroso accostatosegli lo adorava, dicendo: Signore, se vuoi, puoi mondarmi. E Gesù, stesa la mano, lo toccò, dicendo: Lo voglio; sii mondato. E fu subito fu mondato dalla sua lebbra. E Gesù gli disse: Guardati di dirlo a nessuno; ma va a mostrarti al sacerdote, e offerisci il dono prescritto da Mose in testimonianza per essi. Ed entrato che fu in Capharnaum, andò a trovarlo un centurione, raccomandandosegli, e dicendo: Signore, il mio servo giace in letto malato di paralisi nella mia casa, ed è malamente tormentato. E Gesù gli disse: Io verrò, e lo guarirò. Ma il centurione rispondendo, disse: Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; ma di’ solamente una parola, e il mio servo sarà guarito. Imperocché io sono un uomo subordinato ad altri, e ho sotto di me dei soldati: e dico ad uno: Va ed egli va; e all’altro: Vieni, ed egli viene; e al mio servitore: Fa la tal cosa, ed ei la fa. Gesù, udite queste parole, ne restò ammirato, e disse a coloro che lo seguivano : In verità, in verità vi dico, che non ho trovato fede sì grande in Israele. E Io vi dico, che molti verranno dall’oriente e dall’occidente, e sederanno con Abramo, e Isacco, e Giacobbe uel regno de’ cieli: ma i figliuoli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridore di denti. Allora Gesù disse al centurione: Va, e ti sia fatto conforme hai creduto. E nello stesso momento il servo fu guarito”.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

SALVIAMO L’ANIMA DAL PECCATO

Il Vangelo della Messa odierna ci propone due miracoli che insegnano come efficacemente possiamo ottenere da Gesù la salvezza dell’anima nostra, e la salvezza dell’anim:a di qualche nostro prossimo. – IL LEBBROSO E LA SALVEZZA DELL’ANIMA NOSTRA. Il primo miracolo è di un lebbroso che corse coraggiosamente ai piedi di Gesù, e, adorandolo, gli disse: « Se vuoi, tu puoi guarirmi »; Era proibitissimo ai colpiti dall’orrendo inguaribile male avvicinarsi all’abitato, accostare i sani; e similmente chiunque avesse toccato un lebbroso, tosto era dichiarato immondo, per legge di Mosè e veniva segregato dal consorzio civile. Ma il lebbroso era così certo nella sua fede, che già si vedeva guarito e non badò più a nessun divieto legale. E Gesù si sentiva talmente superiore ad ogni legge e ad ogni contagio che distese la sua bianca mano divina a toccare quella carne tumefatta e imputridita. «Se vuoi, tu puoi guarirmi ». «Lo voglio, e sii guarito ». Istantaneamente la lebbra scomparve. Voi lo sapete, Cristiani, la lebbra del corpo è figura di un’altra lebbra più disastrosa, che colpisce la parte migliore dell’uomo: voglio dire il peccato che è perdizione dell’anima. Vorrei che tutti quelli che si sentissero oppressi da questo orrendo male, l’unico vero male, salvassero la loro anima, imitando il lebbroso evangelico in due cose: nella decisione della volontà, e nel coraggio della sincerità. – a) Decisione della volontà. Il lebbroso ebbe quel desiderio e quella decisa volontà di guarire, che spezza ogni indugio, supera ogni difficoltà. È questo che dovrebbero avere i peccatori se conoscessero il loro male: invece sono freddi e indifferenti. Par che stimino sventura da poco la lebbra spirituale, e per conseguenza par che stimino fortuna da poco l’essere mondati. Dicono: «un giorno o l’altro, voglio anch’io fare la mia confessione; adesso ho tante altre brighe che mi disturbano; se mi riesce di mettere a posto quell’affare, poi verrò a mettere a posto anche i conti coll’anima ». Ma è volontà decisa, questa? La salvezza dell’anima, la pace con Dio viene dunque per ultima nell’ordine dei vostri desideri? – Una sorella di S. Tommaso d’Aquino avendo saputo della fama di santità e di sapienza che circondava il fratello, gli scrisse una lettera, nella quale lo pregava di indicarle il modo sicuro per diventare santa. S, Tommaso, per provare il suo desiderio, non risponde. La sorella gli scrive una seconda e una terza volta. Finalmente le invia un biglietto con due parolette di risposta: « Si vis ». Se vuoi! – b) Coraggio della sincerità. Tanta era nel lebbroso la decisione della volontà che gli levò la vergogna, che naturalmente doveva sentire, di mostrarsi così schifoso com’era davanti a Gesù e alle altre persone che erano con Lui. A molti invece il coraggio di aprire le piaghe e le cancrene della loro coscienza viene meno. E non osano, non dico in pubblico, ma neppure nel secreto della confessione, manifestarsi a Gesù rappresentato dalla persona del suo ministro. Pare ad essi troppo gravoso il confessare schiettamente i loro peccati, e per mancanza di coraggio nella sincerità o non si confessano o si confessano male. Così non salvano la loro anima dalla orribile lebbra. – IL CENTURIONE E LA SALVEZZA DEL PROSSIMO. Il secondo miracolo è la guarigione d’un servo del Centurione di Cafarnao e c’insegna come dobbiamo interessarci anche per la salvezza dell’anima del nostro prossimo. I Centurioni erano ufficiali dell’esercito che avevano sotto di sé un centinaio circa d’uomini. Uno di questi, di presidio a Cafarnao, aveva uno schiavo morente, che egli amava tanto. Avendo udito parlare di Gesù, forse avendo anche veduto parecchi suoi miracoli, pensò che soltanto Lui glielo avrebbe potuto guarire, purché volesse. Ma, essendo pagano, non osò fare direttamente la domanda al Messia; degli amici la fecero in vece sua. – Alcuni anziani e maggiorenti si incaricarono della cosa, e si presentarono a Gesù: « Merita che tu gli guarisca il servo, perché è un uomo che ama la nostra nazione e ha costruito a sue spese una sinagoga ». Rispose a loro Gesù: « Verrò Io e glielo guarirò ». E subito si pose in cammino. – Quando il Centurione seppe che il Signore si degnava di venire in casa sua, fu talmente commosso, che gli mosse incontro per fermarlo: « Non incomodarti così che è troppo! Signore, io non sono degno che tu entri nella mia casa, ma dì una sola parola e il mio servo sarà guarito ». E aggiunse un paragone pieno di vita. « Anch’io, Signore, sono uomo di qualche potere e posso farmi ubbidire dai soldati e servi che ho sotto di me. Se dico a uno: « va! » ed egli va; e se dico a un altro: « vieni!, ed egli viene. Ma tu hai tutto sotto di te, le cose e le forze, la vita e la morte, e ciò che comandi viene eseguito sempre ». Gesù, davanti a un’anima leale ed aperta che di colpo si elevava a riconoscere in Lui un potente sovrano sull’universo, meravigliato e commosso, si rivolse alla gente che lo circondava ed esclamò: « Non ho mai trovato tanta fede neppure in Israele ». Poi disse al Centurione: « Torna a casa, che già è stato fatto come hai creduto ». In quel momento stesso, il suo servo guariva. Nel Centurione ci sono tre cose che devono essere imitate: il suo interessamento per la salvezza del servo, le sue buone opere, l’umiltà del suo cuore. Bisogna interessarsi dell’anima del nostro prossimo, specialmente delle persone che sono legate a noi da vincoli particolari o di parentela, o di servizio, o d’amicizia. Vedete come il Centurione in un tempo e in una società in cui di solito i padroni trattavano gli schiavi come cose, si affligge e si adopra per il suo servo morente come fosse un suo figliuolo. Perché altrettanto interesse e premura non vengono adoperati dai genitori per i figliuoli, dai padroni per i servi e i dipendenti, dai superiori per i sudditi, quando sanno che han l’anima morente o fors’anche già morta? «Ho provato ogni mezzo, — si scusano alcuni, — ma non ho ottenuto nulla. Non vuol sapere di mutar vita, continua come prima, e peggio di prima ». Non avete però provato i mezzi del Centurione: le buone opere e l’umiltà. Bisogna compiere opere buone e fare buone preghiere per avere presso Dio dei potenti intercessori. Se gli Angeli della vostra parrocchia, se le anime del purgatorio, se i poveri potessero ripetere a Gesù quelle parole che già gli anziani e i maggiorenti dissero a favore del Centurione, otterreste la guarigione e la salvezza di quante anime vorreste: « Signore, merita che tu gli converta quella persona per cui ti prega: ama e sostiene le opere parrocchiali (potessero dire gli Angeli della Parrocchia!); si ricorda sempre di noi e ascolta e fa celebrare molte sante Messe in nostro suffragio (potessero dire le anime purganti!); è compassionevole e generoso davanti ad ogni nostra miseria e sofferenza (potessero dirlo i poveri!) ». Bisogna infine essere molto umili. Non confidare sui nostri meriti, quasi ne avessimo, e quasi fossero tali da obbligare Dio a chinarsi verso di noi. Ricordiamo sempre le belle parole che l’umiltà pose sulle labbra del Centurione e che la Chiesa ha rese popolari e immortali nella sua liturgia: « Domine, non sum dignus… » L’umile, quando prega, non ha pretese, ma implora; se non ottiene subito non si sgomenta né desiste, ma dolcemente insiste; e se dopo anni di continuate preghiere non vede frutto alcuno, non dispera, ma crede che le sue preghiere non andranno perdute anche s’egli non ne vedrà mai l’effetto. Chi può intuire quello che avviene nei cuori? Forse all’ultimo istante della vita per quelle umili, ripetute, disinteressate preghiere, la grazia vincerà la resistenza del cuore indurito, e l’anima si salverà. – « Se vuoi, tu puoi guarirmi da un male inguaribile » dice il lebbroso. «Se vuoi, con una parola soltanto che tu dica, tu puoi salvare il mio servo agonizzante » dice il Centurione. Due belle e profonde professioni di fede in Gesù, Figlio di Dio, e Dio stesso onnipotente. – Orbene, moriva tant’anni fa il servo di un principe il quale aveva per tutta la sua lunga vita adempiuto il suo ufficio con la massima fedeltà. Il principe lo andò a visitare che già era agli ultimi istanti. Il morente allora aprì gli occhi già torbidi e lo guardò a lungo con una straziante supplicazione. «Che hai? qualunque cosa desideri, dimmela, e l’avrai ». « Principe, non lasciarmi morire! ». « Questo, non te lo posso fare ». « Allora allungami la vita d’un anno, d’un mese almeno… ne ho bisogno per riabbracciare il mio figlio lontano ». « Questo, non te lo posso fare ». « Allora, provvedimi di buona scorta per il viaggio ch’io sto per fare all’eternità; almeno levami un poco di quest’orrore della morte che mi fa tutto tremare… ». « Non posso, non posso » Il servo sospirando dolorosamente, come chi s’accorga d’un grande inganno che gli sia stato fatto, disse: « Me infelice! ecco che dopo una vita di continuo e pesante servizio, il mio padrone non può darmi nemmeno una delle ricompense di cui ho desiderio e bisogno. Ho dunque sciupato la vita». E spirò. – Dalla parabola di questo misero servo, impariamo a non servire quei padroni che non possono né salvarci dalla morte eterna, né darci la piena felicità a cui aspira l’anima nostra. Da questo momento senza più infedeltà poniamoci al servizio del Signor nostro Gesù, il quale può tutto ciò che vuole. Con una sua parola, può tramutare il nostro cuore, da incostante, egoistico, pauroso del sacrificio com’è, in un cuore forte nel bene, generoso nell’amore, coraggioso nelle difficoltà. – Che bel carattere d’uomo questo Centurione! Da una parte sentiva la necessità di Gesù, per non lasciar morire in atroce spasimo quel servo che gli era prezioso come un figlio, dall’altra tremava al pensiero di vedere Dio con i suoi occhi impuri, di parlargli colla sua bocca profanata da tante parole non giuste, non buone, di riceverlo nella sua casa ove ancora forse stava eretto qualche idolo nelle nicchie. Questi devono essere i sentimenti di tutti i Cristiani davanti a Gesù nella Comunione. – Il desiderio e la necessità devono spingerci continuamente a Lui; il timore di riceverlo indegnamente ci deve far tremare ogni volta, prima di toccare la sacra mensa. Chi non mangia di questo Pane, non ha la vita. Ma chi ne mangia male, avrà la morte. Probet autem se ipsum homo (I Cor., XI, 28). – a) Desiderio della Comunione per ottenere la forza di sopportare le tribolazioni e le fatiche. – All’albeggiare Giosuè levò il campo e comandò all’esercito e al popol di passare il Giordano. La primavera e le piogge avevano ingrossato il fiume fino al  colmo, e l’acque correndo vertiginosamente mandarono un rombo cupo che s’udiva da lontano. Ma appena i portatori dell’Arca santa misero piede nell’onda, le acque superiori s’irrigidirono e s’accumularono come un monte, mentre le acque inferiori scolarono al mare, lasciando secco il fondo (Giosuè, III). – Anche noi dobbiamo attraversare il fiume vorticoso della vita: sono le acque della fatica quotidiana, sono le acque delle tribolazioni che si susseguono senza finire mai quaggiù, sono le acque delle malattie che colpiscono noi o i nostri cari e della morte che tratto tratto fa un vuoto in giro al nostro povero cuore. Non disperiamo; se i soldati e le genti di Giosuè ebbero l’arca, noi abbiamo qualche cosa di infinitamente più grande e più divino: la Santa Comunione. Con essa l’uomo attraversa sicuro la vita e tocca la sponda beata della terra promessa: il Paradiso. – b) Desiderio della Comunione per vincere le tentazioni. – Era notte di battaglia. I Madianiti e gli Amaleciti e tutti i popoli d’oriente armati contro Israele giacevano sparsi nella valle come una moltitudine di cavallette; i cammelli erano innumerevoli come l’arena che è sul lido del mare. Gedeone, a spiare il campo nemico. Il vento gli porta un bisbiglio umano; si ferma e ascolta. Era un soldato nemico che raccontava al suo vicino un sogno misterioso che lo turbava. « Ascoltami — diceva quella voce nell’oscurità — ho avuto un sogno e mi pareva di vedere come un pane d’orzo cotto sotto la cenere rotolare contro di noi: faceva stramazzare i soldati, faceva traballare le tende, tutti morivano ». Gedeone raggiante di gioia tornò al suo campo e gridò: « Sorgete! Il Signore ci ha dato nelle mani tutti i nemici » (Giud., VII, 13-15). – La nostra vita, o Cristiani, è tutta una battaglia, molti nemici ci combattono, ogni momento. Il demonio con le tentazioni, il mondo col mal esempio e con gli scandali e coi piaceri, la nostra carne con le sue passioni. C’è un misterioso Pane col quale potremo rovesciare tutti gli inganni e vincere il terribile combattimento spirituale da cui dipende la nostra salvezza: la Santa Comunione. – c) Desiderio della Comunione per la salvezza eterna. Giorno terribile fu quello della distruzione di Gerico. Le sette trombe squillavano, il popolo intiero non era più che un’unica bocca per gridare l’anatema contro la città che Dio voleva abbattere. Ed ecco le mura e le torri e i palazzi scrosciare con fragore in una nube immensa di polvere: ogni abitante, uomo o donna, vecchio o fanciullo era ucciso; perfino i buoi e le pecore e gli asini erano messi a fil di spada. Intanto sul cielo saliva, tutta rossa come una paurosa macchia di sangue, l’aurora d’un nuovo giorno. In quella rovina solo una donna fu salvata: Rahab la peccatrice. Perché essa aveva bene ricevuto nella sua casa due esploratori di Israele, in quel giorno le venne usata misericordia! Ma dite: quando allo squillare delle trombe angeliche questo vecchio mondo scroscerà nella rovina finale, e tutti gli uomini morranno, e verrà la terribile giustizia di Dio, volete che il Signore non abbia misericordia di quelli che l’hanno ben ricevuto nella santa Comunione, Egli che salvò dalla rovina di Gerico la peccatrice Rahab solo perché aveva dato alloggio a due esploratori? – Questi sono i principali motivi che ci devono far bruciare di desiderio per la Eucarestia; questo, e la parola che disse David nei suoi salmi: « Chi s’allontana da te, muore » (Ps., LXXII 27). – È spaventoso quello che si narra nella Sacra Scrittura (Lev., X). Nadab e Abiu, figli d’Aronne, presi i turiboli vi misero del fuoco profano e dell’incenso e con quello, contro il divieto di Dio, entrarono a far profumi nel tabernacolo santo. Fu un attimo: un fuoco sprigionatosi dall’altare li investì e li abbruciò. I loro cadaveri, così come erano, furono gettati via; fu proibito di scoprirsi il capo in segno di lutto, di stracciarsi le vesti in segno di pianto. – Tremendo castigo: ma pensate quanto più tremendo sarà quello dei Cristiani che osano accostarsi alla Comunione indegnamente. I due figliuoli di Aronne avevano profanato il luogo santo che Dio con segni speciali aveva benedetto; ma coloro che con fuoco profano, ossia col peccato e coll’irriverenza nel cuore, ricevono l’Eucarestia, profanano il Corpo e il Sangue di Dio stesso. Di Giuda il traditore è scritta una parola terribile nel Vangelo di San Giovanni: « Et post buccellam introivit in eum satanas » Così è dei sacrileghi: aprono la bocca per ricevere Gesù e ingoiano il demonio. Tornano a casa e il rimorso li dilania, e non comprendono più la strada della redenzione, e vanno nella notte. Cum ergo accepisset ille buccellam exivit continuo: erat autem nox (XIII, 30).A Mosè, per accostarsi al roveto dov’era Dio, fu imposto che si levasse i calzari; ma agli Apostoli, prima di ricevere la Comunione, fu imposto non soltanto di togliersi i calzari, ma di lasciarsi lavare i Piedi da Gesù stesso, per significare la mondezza che Dio vuole da noi quando ci avviciniamo al banchetto degli Angeli. Come sono lontani da questa purezza coloro che si comunicano dopo una confessione senza dolore, fatta alla rinfusa! come sono lontani quelli che si comunicano senza raccoglimento, senza fede, senza dire una preghiera! come sono lontani quelli che si comunicano con rancori nell’anima, con passioni conservate in fondo alcuore. – Allora — concluderà qualcuno — meglio comunicarsi una volta all’anno, o al più una volta ogni sei mesi. – Ma se dopo i peccati di otto o quindici giorni ve ne stimate indegni, dopo quelli di un anno o quasi in qual modo sperate di diventarne degni? Meglio seguire il consiglio che S. Agostino rivolgeva ai Cristiani del suo tempo: « Deposto ogni affetto al peccato, sforzatevi tutte le domeniche di rendervi degni della Santa Comunione ».

Ecco simboleggiati due sacramenti: nella guarigione del lebbroso, la confessione che ci monda dalla lebbra del peccato: nelle parole del centurione, l’Eucaristia che guarisce da ogni paralisi spirituale e ci dà la forza a correre sulla via dei comandamenti del Signore. Quando, nei secoli del Medio evo, la nostra patria fu spartita a brani, ed ogni brano aveva un principe, ed ogni principe con grande apparato di vessilli, di cavalli, di armi, di trombe usciva in guerra per conquistare altri regni ed altri uomini, ci fu chi amò lanciare in mezzo al folto della mischia uno stendardo magnifico con queste parole: « Qui v’è il cuore e la mano ». Iddio pure, movendo alla conquista delle nostre anime coi due sacramenti della confessione e della comunione, può dire: « qui v’è il mio cuore e la mia mano ». Solo l’amore di Dio poteva perdonarci i peccati. Solo l’onnipotenza di Dio poteva darci in cibo la sua carne e in bevanda il suo sangue. – L’AMORE MISERICORDIOSO DI DIO NELLA CONFESSIONE. Cesare Augusto venne a sapere che Lucio Cinna, cavaliere romano, congiurava nell’ombra contro di lui. Fremette e già meditava lo sterminio del cospiratore e della sua famiglia, quando mutò consiglio. Fece chiamare il colpevole, che s’illudeva nella segretezza della sua trama, lo condusse nella sala più recondita del palazzo imperiale, e tutto solo con lui, così gli parlò. « Lucio! non hai nulla da dirmi? ». « Nulla. » – « Allora ti dirò io qualche cosa. Quando con le mie armi occupavo l’impero, tu e la tua famiglia mi eravate nemici, vi siete nascostamente opposti; io sapevo e non vi ho puniti. Quando tutto il mondo mi proclamò imperatore, tu mi hai chiesto un posto onorevole nella repubblica: altri me lo domandavano, e più degni, eppure a te, non a loro io lo concessi. Non è vero? ». «Verissimo », rispose il cavaliere. « È per questo, allora, che tu congiuri, che tu mi vuoi uccidere? ». « Falso! falso!» urlò Cinna. « Lucio! taci che so tutto. So la notte in cui hai convocato i traditori, so il luogo, so i nomi, so le parole che dicesti. So che nella tua casa sono nascoste le armi per uccidermi;… negalo, se puoi ».  Lucio Cinna tremava come una foglia di pioppo. Dopo una pausa, Cesare ripigliò cupamente: Se ti facessi pugnalare col tuo pugnale stesso e ti gettassi nella cloaca massima sarebbe troppo poco. Se con la tua moglie e i tuoi figli ti chiudessi in carcere, senza luce né respiro, se ti lasciassi morire a goccia a goccia sarebbe ancora troppo poco, troppo poco sempre. Or ecco invece che a te, mio nemico nel passato e mio traditore nel presente, lascio la vita, lascio la famiglia, i beni, la libertà, il grado. E non mi basta; ti faccio quello che non hai sognato di essere mai: console ». – Lucio vinto dalla bontà di Augusto ruppe in pianto chiedendo perdono. La dolcezza d’Augusto è poca cosa in confronto a quella del Signore nel sacramento della penitenza. Non ci rinfaccia i nostri peccati; non una volta sola, ma sempre ci perdona e ci ama di nuovo. Ci ridà la grazia santificante, si fa nostro amico, nostro padre, e ci prepara, dopo la morte, un trono di gloria in paradiso. Quanto amore! Al lebbroso guarito Gesù aveva imposto di offrire al tempio il dono prescritto da Mosè: due passeri. Il sacerdote giudaico, ricevendoli, ne uccideva uno e col sangue appena sgorgato aspergeva l’altro, che solo così veniva lasciato in libertà. Il passero che vien ucciso per la salute dell’altro è un simbolo di Gesù Cristo che muore per il peccatore. Nella confessione siamo lavati dal sangue sgorgato dal cuore di Gesù, e questo sangue ci monda dal peccato e ci libera dalla schiavitù del demonio. – L’AMORE ONNIPOTENTE DI DIO NELLA COMUNIONE. Nostro Signore apparve a S. Paola Maria di Gesù, carmelitana scalza, e le disse così: « Fra tutte le mie opere, la più grande, la più potente, la più rara, è l’invenzione del santissimo Sacramento ». Infatti: se Dio fu potente quando trasse dal nulla le cose e con le sue mani plasmò l’uomo, più potente è quando converte tutta la sostanza del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo. – Se fu buono quando nell’Incarnazione nascose lo splendore della sua divinità nel velame della carne umana, più misericordioso ancora è nell’Eucaristia ove nasconde la maestà divina e l’affabilità umana nell’apparenza di un po’ di pane bianco. Se fu sapiente Dio quando mise nella vite la forza che trasforma gli umori della terra in rosso vino, più sapiente è certamente quando diede al sacerdote la potestà di consacrare il vino nel suo sangue, ripetendo la miracolosa parola della consacrazione. Dio nell’Antico Testamento, quando faceva piovere fuoco, quando divideva le acque del mar Rosso, quando dettava la sua legge dal Sinai, soleva mostrare la sua potenza nella grandezza e nella forza. Nel Nuovo Testamento, istituendo l’Eucaristia, preferì mostrare la sua potenza nell’umiltà e nella debolezza. Ha preferito ridurre la sua vita al minimo perché noi potessimo avere la nostra vita al massimo. E da Dio forte si è fatto debole nell’Eucaristia perché noi che siamo deboli divenissimo forti. – Dice, infatti, S. Giovanni Grisostomo che quando ritorniamo dalla Sacra Mensa, siamo come leoni spiranti fiamme, terribili allo stesso demonio. Ut leones flammam spirantes; terribiles effecti diabolo. E Dio si è fatto pane, perché noi mangiando di questo pane diventassimo come Dio. – « Eritis sicut dii » aveva promesso il demonio quando offrì ad Eva il frutto proibito: se ne accorse ben presto, l’incauta, quanto bugiarda fosse una tale promessa, e quanto funesta. Eppure, Gesù Cristo, Redentore nostro, ha voluto renderla vera con un altro frutto: la S. Comunione. Chi la riceve vivrà della vita divina: « Vivet propter me ». – Geremia udì questo lamento del Signore: « Stupite, o cieli, stupite, o Angeli! E fuggiam via inorriditi dalle porte degli uomini. Due mali ha fatto il popolo: abbandonò la fontana dell’acqua viva e si scavò delle cisterne, delle cisterne avvelenate e rotte che non sanno contenere neppure una stilla d’acqua buona ». Dereliquerunt fontem acquæ vivæ et foderunt sibi cisternas, cisternas dissipatas quæ continere non valent acquas (Geremia, II, 13). Fontana non d’acqua viva, ma di preziosissimo sangue sono i due sacramenti della Confessione e della Comunione: ci furono dati solo a prezzo della vita di un Dio. Ma noi li abbiamo abbandonati, o tutt’al più ci accostiamo assai di rado; ma noi ci siamo scavati nel peccato la nostra cisterna avvelenata che par che ci disseta mentre invece ci cuoce dentro col rimorso e ci cuocerà poi per sempre nell’inferno. Figlio mio — ci ripete Gesù con voce lamentosa — perché m’hai tu fatto due mali? Hai abbandonato la fontana dell’acqua viva e ti sei scavato la cisterna dell’acqua marcia ». – Nella preghiera di questi due bisognosi, sentite quanta fede nella potenza di Gesù. Il lebbroso dice: Tu puoi guarirmi! ed il Centurione a sua volta: Basta che tu comandi e tutto andrà bene! Notate ancora quale rassegnazione alla volontà del Signore. L’ammalato di lebbra non domanda subito la grazia, ma dice: Se tuo vuoi, cioè sta a te il decidere della mia salute. Il comandante romano poi non chiede neppure che il suo servo guarisca, solo espone il suo triste caso, così come è: tocca poi a Gesù volere che il suo servo guarisca. Fede e rassegnazione sono le caratteristiche delle preghiere del Vangelo di oggi, fede e rassegnazione devono essere le doti delle nostre preghiere di ogni giorno. – FEDE. Una santa giovinetta della quale fu scritta la vita davvero edificante, un giorno faceva alla mamma questa domanda: « Mi permetti che alla Messa preghi senza servirmi del libro? ». « Per qual ragione mi fai questa domanda? ». « Perché spesso quando leggo mi distraggo. Invece non sono mai distratta quando parlo col buon Gesù, sai, mamma, quando parlo con Lui è come quando si discorre con qualcuno; si sa bene quello che si dice ». – Questa figliuola aveva capito che vuol dire pregare con fede. Non sono necessari libri, non è necessaria tanta istruzione, tanta scienza, no. Ci sono delle povere persone ignoranti che non sanno forse neppure leggere e sanno pregare benissimo. Basta credere che il Signore sia una persona viva vera e presente e l’orazione diventa facile. « Cos’è la fede? », fu domandato un giorno al Curato d’Ars. « C’è la fede quando si parla a Dio come si farebbe con un uomo » rispose. Comprese bene questa verità quel buon contadino d’Ars che se ne stava tanto tempo inginocchiato in chiesa. « Cosa fate, cosa dite — gli domandò il Santo Curato — quali sono le vostre preghiere? », « Io guardo il mio Dio e Dio guarda me! ». Ecco, o Cristiani, che cosa vuol dire pregare con fede. Bisogna guardare Dio, bisogna parlare con Dio. – Affinché la nostra preghiera sia davvero uno sguardo e una parola rivolta a Dio con pienezza di fede, mi pare che pregando dobbiamo essere convinti di tre cose: a) Anzitutto che Dio è grande. Egli è infinitamente più grande di come lo possiamo immaginare con la nostra piccola testa. Egli è il Creatore di ogni cosa, colui che trasse dal nulla anche la nostra vita. – b) Poi, dobbiamo essere convinti che Dio è buono, ed ha promesso di donarci qualunque cosa gli chiederemo. Nessun padre ama e aiuta i suoi figli come il Padre Celeste. Una volta Dio adirato sta per lanciare lo sterminio contro il popolo d’Israele; Mosè prega: e Dio ritira la sua vendetta. Un’altra volta il popolo eletto, dopo una giornata di battaglia, è sorpreso dalla sera senza aver potuto dare il colpo decisivo; eppure era necessario che il nemico avesse una notte in mezzo da potersi rifare. Allora Giosuè prega: ed ecco il sole arrestarsi sull’orizzonte e prolungare la giornata di qualche ora. I tre fanciulli innocenti, gettati nella fornace ardente, sono risparmiati perché  hanno pregato; Daniele nella fossa dei leoni rimane incolume perché ha saputo innalzare la sua mente al Signore. – c) Infine, pregando ci dobbiamo unire a Gesù. Distaccati da Lui noi siamo peccatori, indegni d’ogni sguardo misericordioso da parte di Dio. Ma uniti a Lui, con la grazia e con l’amore, noi siamo suoi fratelli, figli di Dio, teneramente amati dal Padre Celeste. Uniti a Cristo, è Cristo che prega per noi ed offre al Padre le sue suppliche, i suoi meriti, il suo Sangue. A tanto imploratore potrà forse Dio ricusarsi? Son fatte così le nostre preghiere? Pensiamo queste verità mentre preghiamo? Se non è questa la nostra preghiera, non lamentiamoci di essere sempre distratti, di non provarci nessun gusto; non lamentiamoci soprattutto di non ottenere nulla. – RASSEGNAZIONE. Quando con fede sentita domandiamo al Signore le grazie che riguardano il bene dell’anima, le nostre preghiere hanno infallibile effetto. Di questo noi dobbiamo essere sicuri: altrimenti non sarebbero vere le tante promesse che Gesù Cristo ci ha fatto di essere ascoltati quando chiediamo al Padre il Regno dei cieli. Invece non sempre otteniamo le grazie che riguardano il corpo, perché esse non sempre giovano al nostro vero bene. Ed ecco la necessità della rassegnazione alla santa volontà di Dio, rassegnazione che diventa facile quando si vive di fede. Se, con la vivezza della nostra fede, crediamo che Dio è infinitamente sapiente, e conosce il passato, il presente ed il futuro, comprendiamo allora che soltanto il Signore sa quello che è utile per la nostra vita, per la salvezza della nostra anima. Dunque fidiamoci di Dio. – Si portò un giorno da S. Giovanni Elemosinario, Patriarca di Alessandria, un ricchissimo uomo che aveva un figliuolo gravemente malato. Gli recava una grossa somma di denaro da distribuire ai poveri perché con le loro orazioni gli ottenessero che suo figlio guarisse. Ma appena distribuito il denaro e fatte molte preghiere il fanciullo morì. Se ne lamentò il Santo amorosamente con Dio osservando che a questa maniera i fedeli non avrebbero stimolo a fare elemosine ai poveri e poi perderebbero la fede nelle loro preghiere. – Invece il Signore gli rivelò che quella morte era stata appunto l’effetto della elemosina del padre e delle preghiere di poveri. Se quel ragazzo fosse guarito, si sarebbero dannati tutt’e due: il padre a motivo della troppa avarizia per lasciar ricco il figliuolo; e questi perché avrebbe dissipato il patrimonio in stravizi e in disordini. Dunque chiediamo pure a Dio le grazie materiali; ma poi lasciamo fare a Dio, che ci vuol sempre bene. Se un Cristiano vive di fede, dal suo labbro non dovrebbero mai uscire i lamenti. « Perché — dicono alcuni — mi ha messo in tanta povertà? ». E se con tante ricchezze avessi perduto l’anima? Fidiamoci di Dio, che non sbaglia mai! – S. Bernardo, quando si recava in chiesa, era solito dire a se stesso, stando sulla porta: « Pensieri di mondo e di affari terreni, fermatevi qui e aspettate finché sarò uscito. Allora tornerò a riprendervi ». E dalla preghiera, dalla unione con Dio trasse la forza per compiere un bene immenso. Sono pochi gli uomini che come S. Bernardo hanno esercitato un così largo influsso. Sapete perché le nostre orazioni riescono male ed ottengono poco? Perché ci manca il raccoglimento. Sforziamoci davvero, quando preghiamo, di tenere la mente rivolta al Signore: facilmente allora ci sarà la fede nella grandezza e nella bontà di Dio; ci sarà la rassegnazione ai voleri di Dio e se Iddio è con noi di che cosa possiamo temere? Abituiamoci a parlare con Dio e la grazia più bella che noi otterremo sarà di migliorarci ogni giorno sul cammino del bene, verso il Paradiso. – Cristiani, se con sofferenze spirituali o dolori materiali le braccia e le mani di Gesù ci venissero a percuotere, ricordiamoci che esse possono diventare per noi un ascensore. Esse ci portano al cielo: basta che noi ci lasciamo trasportare colla stessa confidenza di un bambino quando è sulle braccia di suo padre.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXVII: 16;17
Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini.

[La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quǽsumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.

[Quest’ostia, o Signore, Te ne preghiamo, ci mondi dai nostri delitti e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Luc IV: 22
Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei.

[Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

 Postcommunio

Orémus.
Quos tantis, Dómine, largíris uti mystériis: quǽsumus; ut efféctibus nos eórum veráciter aptáre dignéris.

[O Signore, che ci concedi di partecipare a tanto mistero, dégnati, Te ne preghiamo, di renderci atti a riceverne realmente gli effetti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (189)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXVI)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUARTO

I SACRAMENTI

VI. — L’Estrema Unzione.

D. Che cosa è l’Estrema Unzione?

R. È il sacramento dei malati in pericolo di morte.

D. Qual pensiero vi presiede?

R. Essa è l’intervento supremo, in favore di un partente, del gruppo unito in Cristo e in Dio che noi chiamiamo Chiesa.

D. Pascal disse: « Sì muore da solo ».

R. Egli pensava agli attori o ai complici di una vita dissoluta. Di fatto, quando la morte ci sovrasta, costoro diventano lontani come se appartenessero a un altro mondo. Ma la solidarietà cristiana è immortale come Cristo e come Dio; la morte non la raggiunge.

D. L’Estrema Unzione è dunque un atto di solidarietà?

R. È un atto di solidarietà da parte dei membri della Chiesa che vi prendono parte, e un atto di maternità da parte della Chiesa stessa. Avendo generato questo figlio e avendolo guidato nella vita, essa dev’essere lì all’ora estrema. Il morente, ormai insolvibile e impotente, si abbandona a lei, ed essa si piega sopra di lui teneramente.

D. È forse per significargli la partenza?

R. No affatto, e hanno assai torto coloro che si rappresentano « l’uomo nero » come un uccello lugubre.

D. Che cosa si propone essa dunque?

R. Il sollievo spirituale e corporale del malato.

D. Di qual sollievo spirituale sì tratta?

R. Si tratta di aiutare il fedele a compiere in extremis l’opera di penitenza, a distruggere le «reliquie del peccato », affinché la morte che minaccia sia definitivamente spogliata del suo potere di nuocere, e lo Spirito di pace e di gioia stabilito nell’anima allontani gli spaventi.

D. Hai tu la pretesa di togliere alla morte è suoi terrori?

R. La morte per il Cristiano, è un avvenimento come un altro; ma la debolezza ha gran bisogno che si ridesti il suo spirito di fede.

D. Un tal desiderio suppone già la fede.

R. Difatti, colui che ha la fede deve desiderare assai vivamente questa salvaguardia, nel momento in cui si conclude il pericoloso passaggio da questo mondo. Ma un principio di fede, aiutato dal sacramento e dalla preghiera comune, genera una fede più grande. E se, per grazia la fede venisse a sbocciare da questo fatto stesso, il fortunato malato potrebbe dire con Giacomo Rivière: « Adesso, io sono miracolosamente salvo ».

D. Ma se si è vissuto bene?

R. Chi è vissuto bene ha il diritto di essere fiducioso; ma di fronte al mistero, sapendo che alla porta dell’altro mondo siede la giustizia accanto all’amore, egli sarebbe assai incosciente se non provasse un salutare timore.

D. Perché salutare?

R. Perché esso invita ad accrescere le proprie garanzie e a valersi del suo soccorso.

D. Si dà l’Estrema Unzione ai condannati a morte?

R. No, e neppure ai soldati in estremo pericolo, né in generale a chiunque affronta la morte fuori della malattia e della sofferenza.

D. Perché questa parzialità?

R. L’uomo in possesso delle sue forze ha dei soccorsi ai quali egli può cooperare, o che si procura da se stesso; il malato attende, e la sua attesa fraterna vede venire a sè una fraternità larga come la nostra Chiesa universale, tenera come l’anima di Cristo e potente come Dio.

D. Hai anche parlato d’un sollievo corporale.

R. Riguardo al corpo, la preghiera sacramentale domanda la guarigione, ed essa l’attenderebbe con una fiducia totale, se non sapesse che questo effetto, come tutto quello che riguarda il temporale, rimane sottomesso alla Provvidenza.

D. La Provvidenza non ha essa pietà?

R. « La pietà dei mortali non è quella de’ cieli ». (VICTOR Hugo). Qui ti devi richiamare al pensiero quello che abbiamo detto della condotta di Dio in questo mondo.

D. È tutto quello che aspetti?

R. Noi speriamo ancora, nel malato, una felice calma dello spirito.

D. Quale ne sarà la ragione?

R. « Queste sante cerimonie, queste preghiere apostoliche, per una specie d’incanto divino, sospendono i dolori più violenti, e, come spesso ho veduto, fanno dimenticare la morte a chi le ascolta con fede » (BOSSUET).

D. Qual è il rito dell’Estrema Unzione?

R. La materia del sacramento è l’olio, conforto per l’atleta dell’estremo combattimento, rimedio per l’anima dolente e mai liberata dal peccato, sorgente di calore e di luce per l’anima intirizzita e brancolante sull’orlo dell’abisso semiaperto.

D. In che modo usi questa materia?

R. Si praticano delle unzioni sulle parti del corpo che possono passare per il principio delle nostre miserie morali: gli occhi, le orecchie, le narici, la bocca, le mani, i piedi, i reni, e si accompagnano con una preghiera.

D. Perché una preghiera in vece della forma affermativa degli altri sacramenti?

R. Perché ci si rivolge a colui che è senza forza e non si può aiutare da se stesso; perché il morente è già come partito, rimesso nelle mani di Dio, che solo la preghiera può raggiungere.

D. Questo sacramento dell’ora estrema dev’essere l’ultimo dei sacramenti?

R. È l’ultimo dei sacramenti individuali; ma resta da provvedere, mediante l’Ordine e il Matrimonio, all’arrolamento della gerarchia religiosa e al popolamento dei nostri gruppi d’immortali.

VII. — L’Ordine.

D. Quale idea s’introduce sotto questo termine un po’ speciale: l’Ordine?

R. $i tratta dell’ordine delle comunicazioni spirituali nella città di Dio.

D. Quali comunicazioni?

R. La gerarchia ordinata deve comunicare i benefizi della redenzione ai fedeli, nel nome di Cristo che essa rappresenta e di cui essa continua l’azione sopra la terra.

D. Che nome dài a questa comunicazione stessa?

R. È il sacerdozio.

D. Quali sono le sue attribuzioni?

R. Esso è incaricato di preparare e di distribuire a tutti il nutrimento spirituale: nutrimento delle intelligenze mediante la predicazione dottrinale; nutrimento dei cuori mediante le esortazioni e mediante il ricordo delle divine speranze; nutrimento sovrumano dell’Eucaristia, che comprende tutti i doni della vita dandoci il loro Autore.

D. Quest’ultimo compito è certamente a’ tuoi occhi è principale?

R. È l’opera propria del sacrifizio; tutto il resto vi si riferisce come una preparazione, un accompagnamento o una continuazione.

Onde il sacerdote è il centro e il fine di tutta la gerarchia. Tutti gli uffizi che si esercitano sotto di esso: diaconato, suddiaconato, ordini minori, non sono che servitori. Tutti i poteri superiori: episcopato, prelature di ogni classe, papato, servono in un’altra maniera, incaricati di procurare dei sacerdoti, poi di sorvegliare l’esercizio del loro potere, non in quanto al principale, che è l’azione consacratrice, ma per l’uso che se ne fa e le condizioni esterne che essa suppone.

D. Chi stabilisce i sacerdoti?

R. Il Vescovo « principe dei sacerdoti », secondo il linguaggio dell’antica legge, e di cui si dice che possieda la pienezza del sacerdozio, per significare che la sua funzione, oltre che essere completa, è indipendente, e la comunica mediante l’ordinazione.

D. Non è il Papa «il principe dei sacerdoti »?

R. Sotto l’aspetto propriamente sacerdotale, il Papa è un Vescovo come gli altri; ma egli ha inoltre una giurisdizione universale, vale a dire un potere di governo.

D. Tu dici che questo potere è supremo, e non è forse un principato?

R. Il potere del Papa è supremo nel campo dov’esso si esercita; ma gravita attorno al sacerdozio, per la ragione che tutto gravita attorno all’Eucaristia, e ciò stesso si spiega perché Cristo, che arreca l’Eucaristia è il tutto della nostra vita in Dio: mezzo universale, sorgente unica di luce, di arricchimento vitale, di gioia. Che tutto funzioni secondo la legge della sua istituzione, e si vedrà la gerarchia, dall’alto in basso, da destra a sinistra, in tutte le sue ramificazioni e in tutti i suoi gradi, impiegata in una sola opera: la santificazione per mezzo di Cristo, con l’Eucaristia, opera del sacerdozio, che ci dà sostanzialmente Cristo come centro d’influsso.

D. Il sacerdozio è dunque per noi una grandissima cosa?

R. È la cosa unica, superiore e ogni cosa umana, e che di superiore non ha che il divino.

D. Ma la Chiesa?

R. La Chiesa stessa non è che un sacerdote collettivo, corpo spirituale di Cristo sacerdote, il cuore del quale, ciborio vivente, ci offre la Divinità.

D. Eppure la Chiesa è un’amministrazione, una politica.

R. La sua essenza è in fondo mistica. La politica, l’amministrazione non vi si uniscono se non per le necessità del suo funzionamento umano. La Chiesa ci vuole divinizzare; essa dispone per questo di un mezzo vivente, che è Cristo. Là dov’è Cristo, ivi è dunque l’essenziale del suo compito, la ragione del suo organamento, il nodo vitale in cui tutti i suoi movimenti si coordinano.

D. I riti del sacramento dell’Ordine saranno dunque relativi all’Eucaristia?

R. Sì, ed essi consistono in questo che il consacratore segna il potere che egli intende di concedere mediante la consegna degli oggetti religiosi che servono a ciò: il calice con il vino, la patena con il pane, l’evangeliario, oppure il calice vuoto, ecc., secondo gli ordini. Vi si aggiungono parole che esprimono all’imperativo l’uso di queste cose. Ed è una consacrazione, analoga alla consacrazione dei re, in cui un segno sensibile accompagna l’attribuzione di un reale potere.

D. La consacrazione sacerdotale conferisce una grazia?

R. Conferisce insieme una grazia e un potere. Il potere corrisponde a quello che noi chiamiamo carattere sacerdotale, per sempre inseparabile da chi l’ha ricevuto. In quanto alla grazia sacramentale annessa all’ordinazione sacerdotale e a tutte quelle che ne dipendono, essa segna la volontà di Cristo di dare al suo servo, quando Egli lo consacra, i mezzi di compiere non materialmente, ma degnamente il suo ufficio.

D. La funzione dipende forse dall’uomo?

R. No certo; l’ufficio del sacerdote è indipendente dal suo valore personale, e, per il fedele, quello che importa, è questo ufficio e non questo valore. Tuttavia, che il dispensatore dei beni di Dio non possieda egli stesso i beni di Dio, è un disordine. L’istituzione religiosa, che mira al perfetto, cerca di procurare l’armonia del vaso e del profumo, del canale e del liquore che scorre, del sacerdote e della santa vita che deve promuovere.

D. I capi religiosi dovrebbero dunque essere dei santi?

R. Quanto più sono essi elevati in potere, tanto più si desidera che siano elevati in grazia, a fine di essere elevati in abbassamento di umiltà davanti a Dio e in abbassamento di servizio verso i loro fratelli. Per questo l’episcopato, sacerdozio completo, è chiamato dalla teologia « uno stato di perfezione », poiché la pienezza del sacro potere, anziché dispensarlo da qualche cosa, lo obbliga. Sancta sancte! santamente, l’amministrazione delle cose sante; più santamente, l’amministrazione delle cose più sante!

D. E se questo non si effettua, quale è secondo te il rimedio?

R. Da un lato la riforma o la santificazione sempre maggiore del clero; dall’altro, lo spirito di fede dei fedeli.

D. In che consiste questo spirito di fede?

R. Nel vedere il sacerdote così grande, che quando egli è meno degno personalmente, la santità del suo compito risplende anche di più, perché questo compito lo schiaccia.

D. Il sacerdote è in una condizione privilegiata riguardo alla salute?

R. È in una condizione a un tempo privilegiata e più pericolosa; la sua sorte dipende dell’uso che fa dei suoi doni. A ogni modo, il suo sacerdozio per se stesso non lo salva, ma egli deve guadagnarsi il cielo come tutti gli altri.

VII. — Il Matrimonio.

D. Qual è l’oggetto del sacramento del matrimonio?

R. Esso ha rapporto alla propagazione della specie e si propone di ciò fare nelle condizioni dell’uomo religioso, degne dell’umanità religiosa.

D. La propagazione della specie riguarda la religione?

R. Tutto riguarda la religione, è specialmente quei riti della natura che reclutano la Chiesa sopra la terra a fine di popolare il cielo.

D. La Chiesa sì farà dunque legislatrice dell’amore?

R. Essa intende di assegnargli il suo posto, quanto di glorificarlo nell’opera sua, e d’impedirgli di diventare, come tende continuamente, uno spaventoso flagello.

D. È questo il compito di un sacramento?

R. Il compito di un sacramento è di rendere possibile, per l’intervento di Cristo nel contratto che lega due esseri, quello che vuole la dottrina in favore del bene umano e del bene divino.

D. Il matrimonio tuttavia non ha di mira che un’opera di

natura.

R. La natura non è senza Dio; essa è compresa nel piano religioso del mondo, e l’uomo, nel cammino del suo reale destino che è soprannaturale, deve impegnare tutto quello che concorre a spingerlo avanti e che, mal condotto o trascurato, potrebbe tirarlo indietro.

D. In che modo si può di certe cose fare un oggetto religioso?

R. Vi è qui un pregiudizio apparentemente rispettoso, ma che, in realtà, offende la gravità della Chiesa. La natura è figlia di Dio; Cristo l’ha adottata tutta; dove le deviazioni sarebbero più formidabili, ivi soprattutto è necessaria l’azione dello Spirito santificatore. Ma là dove questo Spirito s’introduce, fa del matrimonio, di tutto il matrimonio, una funzione religiosa; perché in Lui, la funzione naturale e la funzione sociale fanno parte dell’organizzazione di cui Cristo è il capo, di cui Lui stesso è il principio. Onde la nostra Chiesa, senza falso pudore e senza timidità infantile, ma con la maestà di un’avola dallo sguardo pieno di eternità, osa benedire il letto nuziale, dopo avere benedetto le anime.

D. Qual è la materia di questo sacramento?

R. Gli sposi stessi, nel dono scambievole che si fanno,

D. Qual rito lo costituisce?

R. Lo scambio dei consensi.

D. E il ministro è il sacerdote?

R. No, il sacerdote è testimonio necessario, ma non operante riguardo al sacramento. Qui i ministri sono gli sposi, ministri officianti del rito che li unisce.

D. E questo sacramento conferisce una grazia?

R. Ogni sacramento conferisce una grazia. Del rimanente, la propagazione del genere umano non ha valore religioso e senso religioso se non in ragione della vita della grazia. Si vuole espandere la grazia, nello stesso tempo che alzarla in ogni essere; il matrimonio come sacramento ne è il mezzo: è dunque naturale che ne sia prima impregnato esso stesso, per essere all’altezza del suo doppio compito.

D. Il matrimonio ha per te una gran dignità?

R. « È un gran Sacramento! » dice S. Paolo.

D. Perché dunque perori in favore della verginità?

R. La grandezza del matrimonio, che pianta l’albero della vita, non impedisce un valore più grande. L’umanità ha bisogno non solo di frutti, ma le occorrono anche dei fiori.

D. I frutti non sono superiori ai fiori?

R. Per il corpo; ma non per l’anima. Lasciamo che alcuni chiamati conducano la vita dell’anima, e abbandonino i frutti della terra per i fiori del cielo.

D. Queste persone non sono, socialmente, degli inutili?

R. Sono utili allo stesso matrimonio, che esse tendono a purificare e a ingrandire; farebbero meno a pro di esso, aggravate dalle sue catene. Del resto la loro rinunzia le libera in favore di più alti impieghi.

D. Intendi parlare dei tuoi preti?

R. Intendo parlare del sacerdote e anche di altri; ma in quanto al sacerdote, oltre una folla di considerazioni tutte pressanti, una speciale convenienza viene dall’Eucaristia. – Ogni cuore delicato capisce che il contatto di un Dio impone qualche riserva, e che la verginità conviene al sacerdote come convenne a Maria.

D. Finalmente egli rinunzia alla famiglia.

R. « Di’ piuttosto che all’uomo estende egli la sua famiglia » (LAMARTINE).

D. Ma la sua azione sul mondo non esige dal sacerdote che egli sia mescolato al mondo e cosciente dei suoi bisogni?

R. Il sacerdote si stabilisce sopra il mondo distaccandosene; lo smarrirvisi non gli darebbe una migliore esperienza, e nel suo disinteressamento, nella sua abnegazione egli trova la sua forza.

D. Quale simbolismo adotti per il sacramento del matrimonio?

R. S. Paolo paragona l’unione degli sposi a quella di Cristo e della Chiesa: ecco il simbolismo del sacramento e il punto di partenza delle sue leggi.

D. L’idea pare strana.

R. Essa invece è di una filosofia profonda. L’integrazione religiosa del mondo esige l’unione dell’uomo e della donna per formare l’uomo completo, poi l’unione dell’uomo completo a Cristo, nella Chiesa, per formare l’uomo completo religiosamente, cioè divinizzato dalla grazia. Così il parallelismo indicato da S. Paolo si rivela: ciò che Cristo è per la Chiesa universale per formare l’umanità religiosa, lo sposo lo è per la sposa per costituire un elemento di questa umanità, e il sacramento che simboleggia sotto questa forma il fatto religioso universale, tende da parte sua a realizzarlo, unendo gli sposi secondo leggi concordanti con l’unione dell’uomo a Cristo, nella Chiesa, e con ciò all’unione dell’uomo a Dio nell’incarnazione.

D. Cristo viene così per terzo nell’intimità del matrimonio?

R. Non sarà un terzo ingombrante, e neppure il sacerdote, suo rappresentante, come certuni paventano. Ospite dei cuori, Cristo sarà nello stesso tempo il loro legame, come la loro consolazione nei cattivi giorni e la loro forza nell’arduo compito che assumono. Dio non separa, ma lega; è il vincolo universale degli esseri. Forse ci separa il luogo dove ci troviamo? Dio è il luogo degli spiriti. Forse li separa la legge di azione e la vita intima dei membri? Dio è la nostra legge di azione più profonda e la vita della nostra vita: essere in Lui, è essere meglio in noi stessi e in ciò che non forma più che una sola cosa con noi.

D. Questa mistica del sacramento ha delle conseguenze pratiche?

R. Noi ne ricaviamo i due caratteri essenziali del matrimonio, che sono l’unità e la perpetuità.

D. Come ciò?

R. Se il matrimonio deve fornire un punto fermo di partenza per la costituzione religiosa del mondo sotto l’aspetto della sua estensione, senza dimenticare il suo valore, deve anche essere saldo, e deve stabilirsi in condizioni che permettano al focolare lo sviluppo di individualità virtuose, pacifiche e utili.

D. L’unità è indispensabile per questo?

R. Sì, perché senza parlare di poliandria, che la stessa fisiologia condanna, la poligamia indebolisce, corrompe e disorganizza il focolare domestico dividendolo; invita l’uomo all’egoismo e all’autocrazia, alla sensualità e al capriccio; spinge la donna a costumi di schiava; fa regnare le gelosie, gl’intrighi, le disillusioni, i rancori, divide i figli e della prole non fa che una tribù di vincoli deboli, non una famiglia nel pieno senso della parola.

D. Eppure vi sono delle civiltà poligame.

R. Sì, ma inferiori e stagnanti. Non si fa una casa solida con argilla impastata, e l’edificio non potrebbe salire in alto se pecca alla base.

D. Ma che cosa esige l’indissolubilità?

R. Delle ragioni affatto simili. L’unione di Cristo all’umanità religiosa è perpetua; è una vita che non deve finire. Il matrimonio alimenta questa vita, esercita l’ufficio di formare i suoi elementi nuovi: i figli, e di formare anche l’uno per l’altro, in una mutua tolleranza, degli sposi che siano una vita, nell’interno della vita collettiva. Sarebbe sorprendente che l’instabilità fosse per questo una buona condizione, essendo un così cattivo simbolo.

D. Non sai che nel corso della storia, l’indissolubilità del matrimonio fu sempre o inesistente o minacciata?

R. So che questa condizione del matrimonio non è riconosciuta praticamente e integralmente, non è difesa con fermezza se non dal Cattolicismo, e so che certi preferirebbero dire: ciò accusa il Cattolicismo, come se solo esso rifiutasse di riconoscere le condizioni reali della vita. Ma quando odo d’altra parte i più autorevoli sociologi dirmi che, a dispetto delle leggi che lo ammettono, il divorzio è condannato dall’opinione pratica di tutte le collettività coscienti, antiche e moderne (leggi solamente Proudhon!), io mi do a pensare che il Cattolicismo, ben lontano dal disconoscere le condizioni reali della vita, le considera da più alto, le difende contro le deviazioni individuali abbastanza numerose da pesare sulle leggi, ma che sono nondimeno delle deviazioni, sotto l’aspetto dell’interesse largamente preso del genere umano.

D. Quali sono le ragioni?

R. Esse concernono l’interesse morale degli sposi, che il principio del divorzio compromette gravemente, favorendo matrimoni male studiati, anticipatamente disuniti, e che il minimo incidente viene a sconvolgere o a corrompere. Concernono specialmente la donna, così impari all’uomo nel contratto, in ragione della sua fragilità e della precarietà dei beni che ella vi reca. Ma concernono soprattutto la prole, vale a dire l’umanità futura, temporale ed eterna, a cui si deve il cuore cristiano.

D. Perché la prole vuole l’indissolubilità?

R. Perché la sua educazione è lunga, e perché, quando termina, ha ancora bisogno del focolare domestico. La prole è legione; le tappe della sua vita, della sua educazione e de’ suoi impieghi si succedono per lunghi anni, durante i quali la famiglia deve irradiare sopra di essa calore e luce, mantenere, tra i nuovi gruppi che compone, une felice coesione che è una gran parte dell’ordine sociale. Dov’è il focolare, se l’unione si sgretola? Cerca bene: non vi è un momento assegnabile — generalmente parlando, come bisogna quando si tratta di istituzioni — in cui il vincolo matrimoniale si possa rompere senza grave danno umano.

D. Esso viene rotto dalla morte.

R. Grazie tante! O che vorresti assumerti l’ufficio della morte e di rendere orfani i bambini?

D. E se non si hanno bambini?

R. Restano gli altri motivi, e, inoltre, non si può legiferare per l’eccezione deplorevole; non si può dare un privilegio all’infecondità.

D. Non si potrebbero almeno sciogliere i cattivi matrimoni? Essi non giovano a nessuno, ma nuocciono e fanno soffrire.

R. È vero, e la religione lo riconosce permettendo allora la separazione, scrutando, se vi è ragione, le origini del matrimonio, per vedere se qualche fessura non permettesse di spezzare, senza danno per l’istituzione stessa, questo contratto disgraziato. Ma quando si parla di divorzio, io sono colpito dalla leggerezza dell’obiicente che crede di dirci così delle cose inconfutabili. Si cerca una legge che rispetti i buoni matrimoni e che permetta di distruggere i cattivi, ciò sembra semplicissimo, ed è una pura assurdità.

D. E perché?

R. Ciò non sarebbe possibile se non a condizione che tu potessi nascondere la tua legge nei codici, e non metterla fuori se non per il caso in cui giudicassi prudente e necessario. Una volta pubblicata la tua legge agirà di per sé, e agirà dovunque; agirà nello spirito dei fidanzati, nello spirito dei parenti, nello spirito degli sposi, nello spirito dei figli. Dovunque essa introdurrà il dubbio, l’instabilità, la tentazione, l’irresponsabilità. Tu avrai stabilito la vita in un corridoio, e l’esistenza comune non avrà più saldo assetto.

D. Le leggi del divorzio prendono delle precauzioni.

R. E la passione le elude. Si arriva sempre alla legge del beneplacito, fosse pure quello d’uno solo dei due coniugi. La breccia si allarga per il passaggio delle moltitudini, e l’unione libera, anarchia al preteso servizio della sociabilità, si prospetta in un non lontano avvenire.

D. Stimi dunque che il divorzio sia contrario alla società come alla Religione?

R. Esso non è contrario alla Religione se non perché è contrario alla società, all’individuo morale, uomo e donna, in una parola alla vita umana. Cristo sposò l’umanità tal quale essa è, e la natura, la società, la fede, qui non hanno che un solo e identico interesse.

D. Donde viene allora che il Cattolicismo forma una schiera a parte ed esige più degli altri?

R. Perché vede più chiaro degli altri e sa di essere divino. Essendo divino, deve vegliare sopra l’ordine del mondo, luogo di lavoro del suo Dio. Essendo divino, si prende l’incarico della natura, della moralità, della sociabilità, del culto, come di un unico oggetto che lo riguarda, quando altri gruppi gli sono estranei. Essendo divino, esso ardisce, quando gli altri tergiversano e piegano. Essendo divino, ha delle divine promesse per quei che esso sacrifica momentaneamente, e delle divine consolazioni per quei che esso invita ai sacrifizi.

D. Così parlando, tu non tieni più conto dell’incredulo.

R. Io lascio che l’incredulo risponda secondo il suo cuore. A lui spetta di sapere se, in difetto dei divini compensi che gli mancano, voglia salvare il suo proprio caso decretando rovine, e se, legislatore, egli intenda soddisfare i suoi casi commoventi, tragici se si vuole, ma relativamente rari, e aprire il varco alla corrente di rilassatezza e di sensualità che trascina gli uomini.

D. E se egli dicesse di sì?

R. Sarebbe una ragione di ricordarsi fino a qual punto la Religione è necessaria alla natura stessa, e quanto la qualità di sacramento conferisce al matrimonio in favore dell’umanità.

LE VIRTÙ CRISTIANE (2)

LE VIRTÙ CRISTIANE (2)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO

Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C.; Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE Ia

LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

CAPO I.

LA VIRTÙ DELLA FEDE

Tre soavi e nobilissimi sentimenti dell’animo, la fede, la speranza e l’amore; l’uomo intelligente e libero li può volgere a Dio; e, quando li volge a Lui, si sente migliore, più consolato, più nobile e più grande. Or in noi Cattolici questi tre sentimenti, elevati a Dio per i meriti di Gesù Redentore, e per movimento della grazia dello Spirito Santo, diventano tre virtù soprannaturali. Per esse crediamo in Dio e nella divina rivelazione insegnataci dalla Chiesa, speriamo in Lui, e lo amiamo con carità ineffabile, amando altresì in Dio le creature sue. A quel modo poi che il discorso dottrinale intorno a Dio è grecamente detto Teologia; così questi tre moti dell’anima, o piuttosto queste tre virtù, fede, speranza e carità, le quali elevano le ali del nostro spirito a Dio, le diciamo virtù teologali. – E ora qui sul principio, il discorso nostro sarà della fede che è il fondamento di tutto l’edifizio delle cristiane virtù; il quale tanto più si eleva maestosamente in alto, quanto maggiore e più salda è la fede nostra. Però 1’Apostolo S. Paolo, che insegnò ogni giusto vivere di fede, parla di essa mirabilmente nella Lettera agli Ebrei, dove dice. “ La fede essere sustanza delle cose che si Sperano, e prova delle cose che non si vedono.”  A intendere cotesto insegnamento, che non manca di sottigliezza, è da notare che la fede qui profondamente è detta sustanza, non come si direbbe dell’anima, che è sustanza spirituale, o del corpo che è sustanza materiale; ma in quanto che la fede fa sussistere nell’ intelletto umano le cose sperate con tanta certezza, come se fossero già realmente esistenti in noi. È poi la fede argomento delle cose non apparenti, in quanto che essa ci persuade a fermamente credere ciò che, secondo natura, non apparisce. Or di questa fede fa un elogio assai caloroso sant’Agostino dicendo: « Nessuna ricchezza, sia pure grandissima, nessun tesoro, nessun onore, niuna cosa del mondo s’ha da stimare più della fede cattolica. La quale salva i peccatori, illumina i ciechi, cura gl’infermi, battezza i catecumeni, giustifica i fedeli, perdona i penitenti, accresce il merito dei giusti, corona i martiri, conserva le vergini, le vedove e i maritati in casto pudore, ordina i chierici, consacra i sacerdoti, e fa arrivare i giusti con gli Angeli santi nell’eterno regno.” Or bene studiamo un po’ addentro cotesta fede, luce per i figliuoli di Dio, e tenebre per i figliuoli del mondo, tanto amata dagli uni, e tanto odiata dagli altri, da parecchi anche invano desiderata; cotesta fede che consola e turba, che è oggetto di tanta pace, e pure di tanta guerra tra gli uomini. Incominciamo dal definirla il più chiaramente che sia possibile. Fede è, secondo l’insegnamento cattolico, un atto soprannaturale, col quale l’uomo fermamente e pienamente assentisce a quelle cose, che La Chiesa propone come rivelate, e vi assentisce per effetto dell’autorità sommamente verace di Dio rivelante. — Tale è la fede teoricamente considerata. Ma noi Cattolici, che avemmo da Dio il dono della fede da bambini, insieme col latte materno, e ci sforzammo di custodirlo come tesoro prezioso, ne abbiamo altresì una conoscenza pratica nell’animo nostro. La sentiamo dolcemente nella nostra coscienza; e però ci torna gradito il considerarla un tratto, dentro di noi, dove è luce adombrata di mistero, ed è pur sentimento pieno d’allegrezza. Invero cotesta fede benedetta, mentre che noi la sentiamo come un soave acchetamento e appagamento dell’anima, ci riesce una risposta determinata e certa ai problemi più ardui e più travagliosi, che sin dai primi anni si affacciarono avanti agli occhi della nostra mente. Chi non ha inteso e non sente dentro di sé una voce misteriosa, ora più viva e ora meno, che gli susurra all’orecchio, dicendo: perché tanta guerra interiore dell’intelletto, del cuore, della fantasia, della coscienza, dell’anima, dei sensi in me? Donde siamo noi dunque? E perché siamo? Che è mai la vita? E a qual fine viviamo? Perché tanta grandezza e tanta miseria nello stesso uomo? Perché le malattie, la morte? Perché l’amore con le sue dolcezze, i suoi disinganni e le sue titubanze? Perché la speranza e il desiderio di viver sempre? A tutte queste e a molte altre somiglianti interrogazioni, che la mente, il cuore, la fantasia, la memoria fanno a sé stesse: la fede cattolica in prima dà risposte sicure e immutabili, perciocché noi crediamo fermissimamente che ci sieno date, non dall’uomo, ma da Dio, infinita Sapienza ed eterno Amore. E le risposte sono altresì tanto nobili e consolatrici, che anche gli uomini retti; a cui non risplende il lume della fede, spesso pensano che il credere in esse li renderebbe o meno infelici o forse anche felici. Pensando a queste cose, la mente umana scorge facilmente quanto sia falsa e menzognera l’illusione di coloro, che vogliono con la scienza supplire alla fede. La scienza a queste interrogazioni né risponde né potrà risponder mai, e ogniqualvolta lo tenta, s’impiglia in una tela inestricabile. La fede dunque, anche guardata umanamente, resterà salda, come torre ferma, che non crolla. – Giammai la cima per soffiar dei venti, insino a che non si trovino (ed è impossibile) altre risposte migliori, più consolatrici, e soprattutto più autorevoli alle interrogazioni, che l’uomo ha fatto e farà sempre a sé stesso. Intanto l’acchetamento e 1’appagamento della fede non ci addormentano, con un riposo inerte e agghiacciato della mente e del cuore, nella verità che tanto ci sublima; ma invece la stessa fede, che ci acqueta e ci dà le dolcezze del riposare nel vero, riesce a noi altresì un principio possente di moto, di calore e di operosità della mente, del cuore e della vita. Le verità della fede, ripensandole, amandole, studiandole, paragonandole con i principj razionali, con i nobili inchinamenti del cuore, e mettendole in armonia con tutte le cose create, eccitano in noi una così larga vena di pensieri, di affetti, di raziocinj, di analogie, che noi, per la fede, viviamo in una quiete operosissima e piena di vita, di calore e di moto. Nondimeno è impossibile che a coloro, i quali vivono nel nostro tempo, non arrivi spesso il suono molesto di parecchi, che muovono difficoltà d’ogni sorta, per toglierci dall’animo il nobile tesoro della fede. Gli avoli nostri questo suono poco o punto lo udivano, ché intorno a loro spirava da ogni parte un’aura di fede, la quale ora gli agghiacciati venti nemici hanno dispersa. Ma qual forza mai potrebbe impedire a noi di sentir questo suono, se esso ci percuote le orecchie tra le pareti domestiche, nelle vie, negli allegri convegni, nelle scuole, nelle università e dappertutto? – Ora la prima difficoltà, che si muove contro i dommi della fede, è che essi non derivano dalla ragione: sono dunque fantasmi o bei sogni di menti calde, o almeno non sono certi. Laonde l’uomo, particolarmente se colto e d’ingegno acuto, non deve accettarli. Ma in verità questa obiezione, che disgraziatamente ritrae parecchi uomini ciechi o passionati dal credere in Gesù Cristo e nella sua dottrina, procede solo da una certa nebbia intellettuale, che intorbidando le nostre idee, le confonde, e c’impiglia in una stretta rete di ambiguità e di errori. – In vero non è punto necessario per accettare ragionevolmente una verità, di vederne l’evidenza in sé stessa,o di dedurla per mezzo di raziocinj e di argomenti intrinseci. Vi ha ancora un altro modo da conoscere il vero, non meno sicuro e comune del primo; e chi lo nega questo modo, a parole, lo conferma con la propria vita ad ogni passo. – Certezza per noi non è altro, che convenienza sicura tra soggetto e attributo, e questa convenienza la si conosce per varj modi, i quali, a voler parlare esattamente, si riducono a due. L’uno è quando la nostra mente o vede tosto, o trae dall’idea del soggetto e dall’attributo argomenti evidenti, che dimostrino la loro convenienza: l’altro, quando la mente non trova convenienza o ripugnanza di sorta tra soggetto e attributo, ma cerca argomenti estrinseci per vederla, o meno. Il primo modo produce l’evidenza: e, quando poi, per via di raziocinj, dalla verità evidente, se ne deducono altre, si ha o la cognizione di altre verità certe o la scienza, Il secondo modo, allorché gli argomenti estrinseci sieno poderosi e certi, produce la fede umana. La quale, col raziocinio e con la dialettica, si sorregge e si estende, e da ciò deriva che anche nella fede umana entri la ragione, ma per un altro modo. Nel primo caso il giudizio nostro nasce da cognizione diretta o ragionata, che si ha della convenienza o ripugnanza di due cose: nell’altro da una cognizione indiretta ed estrinseca. Dell’uno e dell’altro modo noi si fa uso quotidianamente nel vivere; e, certo, più spesso del secondo, che del primo. Quasi sempre poi i due modi del conoscere, per il misterioso ed intimo connubio che è in noi, si armonizzano insieme: e la certezza della scienza s’illumina pure di qualche raggio di fede umana negl’intelletti, che la professano; come la certezza della fede umana si avvalora e si abbellisce d’una certa luce nel vedere le misteriose analogie tra la fede e la scienza. Né è giusto dire in alcun modo che l’una certezza sia maggiore dell’altra, sia perché nel certo non si trova il più o il meno, sia perché i due modi sono due raggi del medesimo eterno e infinito Sole di verità che è Dio. – Oltre a ciò è bene considerare e tener sempre a mente che i due modi del conoscere appartengono a due ordini diversi di cose da noi conosciute. E questa è bella manifestazione della divina sapienza, la quale ci ha dati, secondo le differenti nature delle cose, differenti modi di conoscerle. Se, poniamo, io affermo che il tutto è maggiore di ciascuna sua parte, e poi affermo altresì un teorema di matematica, il quale chiaramente si deduce da questo principio; in tali casi si ha una certezza che dicesi razionale e scientifica. Se invece, per virtù di testimonj, io affermo qualche verità di fatto, come per esempio, che ci fu una battaglia delle Termopili, o che esistette Giulio Cesare, o anche che oggigiorno, al settentrione delle Indie, sorgono altissimi i monti dell’Himalaya, da me non mai veduti; queste diverse affermazioni, benché certe, derivano in noi, non dai primi principj, o da raziocinio scientifico, ma dalla fede umana. Senza dubbio, una fede umana è questa, la quale è tanto secondo ragione, che chi volesse negare le verità delle cose dette, sol perché non sono intrinsecamente evidenti, o dedotte da argomenti scienziali, lo si giudicherebbe poco meno che folle. Accade ancora, e spesso, che le stesse verità scientifiche noi le conosciamo e le accettiamo per fede umana. Tutti, quanti siamo non affatto digiuni di una certa cultura, affermiamo che la terra, benché apparentemente immobile, giri intorno al sole. (Il Cardinale, evidentemente non credeva al dogma all’inerranza biblica che dichiara la terra stabile e ferma ed il sole che gira sopra la terra, potendosi addirittura fermare e retrocedere! – ndr -). E nondimeno, salvo un piccol numero di astronomi e pochi altri, i più non sono punto arrivati al conoscimento di siffatta verità per deduzioni scientifiche del proprio intelletto, ma perché cotesta verità o l’hanno udita dire o l’han letta in qualche libro autorevole. Anche dunque le verità scientifiche spessissimo noi le crediamo per la fede umana, che abbiam messa nei maestri i quali ce le insegnano. – Ora il passaggio dalla fede umana alla fede divina è di per sé al tutto logico e agevole. Ponete, invece del maestro umano, al quale credete nel dire che la terra gira intorno al sole, un Maestro divino, Gesù Cristo; invece della testimonianza umana, che vi accerta dei fatti storici o della esistenza di terre, di mari, di monti, che non avete veduti, la testimonianza infinitamente autorevolissima di Dio; e voi avrete facilmente compreso e dichiarato quel che avviene umanamente nel Cattolico, quando ci crede nelle cose insegnategli dalla Chiesa. Nella fede umana io credo alla scienza di uomini colti, se l’argomento è scientifico, ovvero credo alla asserzione autorevole di uomini probi, se si tratti di fatto storico o di cosa soggetta ai sensi. E nella fede divina io credo all’infinita sapienza e scienza dello stesso Iddio, Autore supremo dell’essere, della scienza, della sapienza e di me stesso. E poiché la parola di Dio, testimonio infallibile di verità, non mi può arrivare all’orecchio, come quella degli uomini; io la cerco e la trovo dove è veramente, e dove l’hanno cercata e trovata gli uomini di ogni tempo, come mi accadrà di dire poco più avanti. In che mai dunque questo procedere dell’intelletto o s’oppone alla ragione o non è anzi supremamente ragionevole? La sola domanda, pare a me, che un uomo di mente sana può muovere a sé stesso, è questa: Le verità e i fatti di religione, affermati dalla Chiesa cattolica, li ha veramente insegnati Iddio, sicchè sieno corroborati dalla sua autorità? Ci ha molti e molti milioni di uomini, i quali hanno risposto, e tuttora rispondono a questa interrogazione che è la più importante fatta mai al mondo: SÌ. L’affermazione loro dura da poco meno di due mila anni; resiste alle innumerevoli contraddizioni della scienza orgogliosa, e al torbido torrente delle umane passioni. È un affermazione non solo del popoli più o meno colti, civili e viventi sotto diverso cielo, ma ancora di molti principi dell’umano pensiero, di molti intelletti vigorosi e possenti, in paragone dei quali i nostri  altezzosi miscredenti sono poco più che pigmei; è un’affermazione, che ha avuta e ha altresì un’efficacia grandissima nella vita intellettuale e civile della società; è un’affermazione infine, che ha arrecati, essa sola, tanti benefizj all’uomo, che i maggiori non si son veduti mai. Sarebbe dunque giusto, che l’uomo, senza ombra di studj e di riflessioni, rigettasse cotesta affermazione, quasi assurda, fantastica e assolutamente contro ragione? No, mille volte no. – L’esaminare profondamente se questa affermazione o piuttosto questa fede abbia prove, e quali, appartiene piuttosto all’apologetica o alla teologia dommatica. Nondimeno per chiarire alquanto il tema, è da por mente che, come i diversi rami e fiori e frutti d’un grande albero e annoso vivono e vegetano, prendono nutrimento e crescono nel ceppo loro, sicché in esso si riducono a unità; così avviene della religione cristiana. – Il Cristianesimo è tutto nel solo Gesù Cristo, Dio-Uomo, vivente tuttora nella sua Chiesa, e insegnante e governante per mezzo di essa. Le verità, onde il Cristianesimo si compone, sono, indubbiamente, molte, come son molti i rami, i fiori, i frutti di un bell’albero e vigoroso, ma il ceppo loro è sempre un solo: Gesù Cristo vivo e parlante nella Chiesa Cattolica, Sposa amatissima di lui, Sposa, come insegna la Bibbia, senza grinze e immacolata. Ora quali sono mai le prove, onde risulta vero questo fatto centrale di tutta la fede Gesù Cristo essere Dio-Uomo e vivente e parlante nella Chiesa Cattolica? O, che è il medesimo, quali sono le prove del Cristianesimo, secondo che è professato dalla Chiesa benedetta Madre nostra, che ci ha ripartoriti alla vita nuova dell’eterna salute? Sono moltissime e di una indiscutibile gravità. Chi le volesse indicare ampiamente, ed ei dovrebbe scrivere chi sa quanti libri, i quali per verità non mancano: anzi ce ne furono e ce ne ha molti e di vario genere, in tutti i secoli della Chiesa. Al mio proposito basta però di farne un cenno fugace sì per meglio dichiarare che il nostro ossequio alla fede è ragionevole, sì per riposarci sempre più soavemente nelle ineffabili consolazioni che essa ci dona. E in prima qual è mai il genere di prove possibili quando si tratta del Cristianesimo? Forse le prove dirette, intrinseche e dedotte, come si hanno in un certo ordine di cognizioni scientifiche, quali sarebbero per esempio, quelle delle matematiche e della metafisica? Assolutamente no. Il Cristianesimo è un fatto storico; onde scaturiscono verità misteriose e insieme illuminatrici, che trascendono i nostri criterj, la nostra luce intellettuale e la nostra capacità; ma è sempre innanzi tutto un fatto storico. Come mai la prova di esso potrebbe scaturire da argomenti intrinseci? Forse che i fatti si provano così? E ancora, forse che le verità, le quali: superano il nostro intelletto e la nostra ragione, si potrebbero mai dedurre dal nostro intelletto e dalla nostra ragione? Chi pretenderebbe mai da un fanciullo ch’ei comprendesse gli ardui problemi dell’algebra e della trigonometria? E noi uomini, anche se ricchissimi di luce intellettuale, che altro siamo se non fanciulli, anzi bambini poppanti, al cospetto dell’infinito intelletto e dell’infinita Ragione di Dio? – Tutto il Cristianesimo, come è detto, si assomma in Gesù Cristo Dio e Uomo, vissuto prima trentatré anni nella Palestina a modo degli altri uomini, e vivente ora nella Chiesa trionfante e nella militante, come capo, e maestro, e vita, e anima, e amore ineffabile dell’uno e dell’altro regno. Ben provato questo fatto, tutte le verità dommatiche e morali, o che è il medesimo tutta la nostra fede resta provata con quel genere di prove indirette ed estrinseche, onde qualsiasi fede è capace. È le prove estrinseche e indirette di questa, dolcissima fede, che tanto ci sublima, sono moltissime. Ma soprattutto si ha da por mente che la maggiore loro efficacia si desume non tanto da ciascuna di esse, presa di per sé, quanto dall’armonia e dall’unione di tutte. Avviene delle prove estrinseche della fede quel medesimo, che accade di molti strumenti musicali, i quali suonino insieme. Il suono di ciascuno strumento, preso di per sé, diletta soavemente le orecchie ed è gradito; ma nessuno può dire quanta dolcezza invade l’anima allorchè suonino tutti insieme, con armonie e melodie trovate da un geniale e valente musicista. – Tra le principali prove esterne della fede va avanti a tutte la storia ammirabile del popolo di Israele sino a Cristo; la quale, illuminata dalle due luci dell’Unità di Dio e dell’aspettazione del Messia, abbellita da molti personaggi di santità e sapienza rara, guidata da un Libro, che per tanti rispetti si rivela divino, riesce essa stessa un proemio e una prova ammirabile del Cristianesimo. Seguono poi, come prove dateci dal Signore di secolo in secolo, le profezie, che anticipatamente palesarono Cristo e la sua mirabile vita; tutte pienamente verificate. Viene di seguito la chiara affermazione, che Cristo fece della propria divinità, efficacemente dimostrata da molti miracoli d’ una evidenza, d’una semplicità, d’una bellezza morale inarrivabile: Ancora, le varie prove sono accresciute ed arricchite, come un tempio da una cupola d’ oro, sì dalla storia stupenda della età apostolica, anche essa abbellita da molti portenti, sì dalla prodigiosa diffusione del Cristianesimo. La quale diffusione, come notò sottilmente l’Alighieri con sant’Agostino, o avvenne per effetto di molti miracoli, e dunque fu divina; o avvenne senza miracoli di sorta, e allora essa stessa fu un miracolo maggiore di tutti.

Se il mondo si rivolse al Cristianesmo.

Diss’io, senza miracoli, quest’uno

È tal, che gli altri non sono il centesmo!

Oltre a ciò anche bella e convincente prova del Cristianesimo sono i milioni di martiri che lo testimoniarono col testimonio del sangue. Anche il martirio cristiano l’umano intelletto non vale a spiegarlo senza miracolo, particolarmente se si guardi alla cagione, per la quale i martiri morivano, ai tormenti che soffrivano, all’infamia che spesso ne derivava loro, e al numero, all’età, alle condizioni differentissime dei volontariamente e lietamente pazienti. – Del rimanente tutte le prove addotte sin qui, ben si assommano nella prova del miracolo, considerato in diverse forme. Però la miscredenza già da secoli si sforza a tutto potere di battere in breccia la prova dei miracoli, senza che abbia fatto un sol passo avanti nell’assalto. Dopo tanta luce di scienza, oggi si oppugnano i miracoli proprio come lo si faceva ai tempi di Giuliano Apostata. I miscredenti gridano tutti a più non posso contro i miracoli; e le grida loro, per quanto diverse, son sempre queste medesime. Un coro d’increduli grida, il miracolo è impossibile: un altro coro grida, no, è possibile, ma nessun miracolo è provato: l’ultimo coro infine dice, il miracolo è possibile, si può ben provare, ma non è parola di Dio e testimonio di verità. Queste furono le grida delle età passate; queste ci suonano all’orecchio nell’età presente; e queste, si può metter pegno, che saranno le grida dell’età ventura. Sono tre affermazioni, che l’una contradice all’altra; e non hanno ombra di prove gravi. Gli stessi razionalisti spregiudicati convengono di ciò. E d’altra parte il fatto costante è che il genere umano, e la coscienza di ciascun uomo retto hanno accettato e accettano sempre i miracoli, corredati da prove gravi e molteplici, come testimonio indubitabile di verità. – Intorno al valore della prova dei miracolo, la cosa è stata sottilmente e ampiamente discussa da san Tommaso e da altri; ma poiché io non scrivo un libro polemico, mi basterà di accennare quale sia, secondo il Cattolicismo, il significato del miracolo nell’ordine generale della Provvidenza. Nell’ universo sono assolutamente immutabili le leggi del pensiero e di tutte quelle verità assolute, che si hanno da considerare come un raggio della divina natura. Sono anche immutabili, ma assai diversamente, le leggi del mondo creato, le quali, poiché non son punto necessarie, ma date da Dio, dipendono dal libero volere di lui e ad esso obbediscono. Però Iddio, volendo sapientissimamente far servire il mondo fisico al mondo religioso e morale, decretò, prima e fuori d’ogni tempo, insieme con le leggi naturali, alcune sospensioni di esse, dette miracoli. Le decretò; e, poiché egli solo le può produrre, volle che fossero la parola, onde ei parla di sé, dei suoi misteri e dell’eterna salute degli uomini. Or tutti questi miracoli da Adamo a Cristo, e da Cristo all’ultimo Santo, che opererà prodigi, e Cristo stesso miracolo dei miracoli, sono il centro luminoso e fiammeggiante, che, illuminando l’ampia sfera delle verità religiose, le rende credibili e indirettamente le prova tutte. – Intanto un’altra prova ben poderosa della nostra fede cattolica, una prova che splende dirò così di luce interiore, è quella che si desume da un esame attento, profondo e meditativo delle sue dottrine e dalla loro piena armonia con quanto vi ha di grande, di nobile, di vero, di consolante nella natura umana. Chi volge una rapida occhiata a tutte le dottrine del Cristianesimo, d’un tratto ei s’avvede che esse, altre sono dommatiche e altre morali. Nella parte dommatica della nostra fede, vi ha alcuni misteri, che trascendono la nostra intelligenza, e non se ne ha cognizione, né se ne potrebbe avere, neppure dagli intelletti più alti, senza la rivelazione. Questi misteri da noi non si comprendono appieno, ma il non comprenderli non c’impedisce d’averne una notizia bastevole, per farci scoprire in essi tesori di carità, di bontà, di bellezza, di sapienza infinita. Tali sono, per esempio, i misteri profondi e pur dolcissimi dell’Incarnazione e del Sacramento e Sacrifizio eucaristico. L’uomo, quanto più li pensi e li mediti questi misteri, tanto più ci trova amore, e sempre amore, e sempre forme, sacrifizj ed entusiasmi di amore nuovo e inenarrabile. Altre verità, come la esistenza e l’unità di Dio, benché anche esse molto alte e nobili, non sono tali, che non si possano raggiungere con la ragione, come è accaduto in parte dei filosofi pagani e poi molto più dei Cristiani. Anche queste verità accertate, chiarite, determinate e raffermate dal Cristianesimo, sono di una tale nobiltà e perfezione, che la maggiore non si può neanche pensare. – Le verità dommatiche dunque della nostra fede, considerate in sé stesse e intrinsecamente; non solo negli animi retti non riescono intoppo al credere, ma anzi lo agevolano. – Che dire poi della parte morale del Cristianesimo? Essa risplende di tanta luce di bellezza, di nobiltà e di purezza, è tanto profondamente consolatrice e adatta a tutti i bisogni dell’anima umana, che la miglior prova della morale cristiana è la morale cristiana essa stessa. Come mai avviene questo? Pel modo che ora sono per dirvi. Noi sentiamo tutti nelle misteriose profondità della nostra coscienza una legge morale e imperativa; ma la sentiamo spesso tentennante, incerta, e, perché combattuta dalle passioni, non abbastanza chiara e autorevole, da mantenere la sua signoria sopra tutto l’uomo. Questa legge che ci parla nella coscienza, rassomiglia a una voce esile, la quale, quando è coperta dallo strepito delle passioni, poco o punto si sente. Ebbene la legge morale cristiana, penetrando nella nostra coscienza, a volte assonnata, a volte confusa, a volte tentennante e a volte turbata, la sveglia, la illumina, la rinvigorisce; la eccita con divina autorità, e infine la infiamma per modo, che, tra la morale venutaci di fuori per divina rivelazione, e quella scritta di dentro nella nostra coscienza, si vede e si sente un’armonia piena e bellissima. Allora la morale naturale prova la rivelata, e questa quella; di che tutte due specchiandosi l’una nell’altra, si provano, s’illuminano e si avvalorano insieme. Inchinati, come siamo, al bello, al nobile, al santo, e a tutto ciò che consola lo spirito inquieto; la bellezza, la nobiltà, la santità e l’efficacia consolatrice della morale cristiana ce la provano vera. E poiché le verità morali e le dommatiche sono nel Cristianesimo, come due corde della medesima lira, le quali, toccate da una mano esperta, rendono un medesimo e dolcissimo suono; ne segue che le verità della morale cristiana, più facili a conoscersi e a gustarsi dagli animi nobili e puri, riescano ai credenti una prova poderosa e convincentissima della verità anche della parte dommatica, e però di tutta la fede nostra. – In tutte le cose dette fin qui si assommano le prove del Cristianesimo, e però i motivi della nostra fede. Ma, in quella guisa che, da un sommario conciso e brevissimo d’un libro appena si ha un’idea incompleta del libro stesso; così si ha da dire della fede. Chi ne vuol conoscere addentro le prove, e anche le bellezze, ed egli studii e studii sempre, preghi e preghi molto, e si sentirà irradiato da una luce sempre più viva. Nondimeno alle prove, che abbiamo sin qui addotte, intorno alla fede nostra, si suole opporre che la verità, quando sia corroborata di prove sufficienti, gli uomini la accettano di pari consentimento tutti. Come mai dunque accade il contrario della nostra fede cattolica? Quanti anzi in tutte le età, conosciuta e abbracciata la fede, la ripudiarono? E oggi, più che mai, perché questo torrente del miscredere preme così fortemente anche gli animi dei battezzati? A questa obiezione vi ha una risposta data dall’altissimo e nobilissimo intelletto del Leibnitz; la quale, anche sola, basterebbe a persuadere e ad acchetare gli uomini di mente sana. Supponete, ei dice, che le verità delle matematiche avessero contro di loro tante passioni, quanto ne hanno le verità di religione e di morale; e io credo che si dubiterebbe di quelle assai più di quel che non si dubita di queste. Invero, anche che si tratti di quelle verità morali, le quali splendono di tanta luce nella coscienza dei buoni; dimmi, tu che leggi, quale uomo, per esempio, che prenda diletto dell’inebriarsi, avrà mai intelletto così sereno e lucente, da conoscere quanto grave sia l’ebrietà? Sino gli adulteri o i ladri o gli omicidi trovano ragioni apparenti per negare che questi tre gravissimi mali siano veramente mali. Io ho poi notato, durante la mia vita sacerdotale ed episcopale, che i figliuoli della Città del mondo accettano di buon grado tutte quelle parti della morale cristiana, che da essi non è violata, e non è violata il più delle volte, perché non ne hanno bisogno né desiderio. Per lo contrario, i medesimi uomini negano o rimpiccioliscono tutte quelle verità, la cui violazione torna ad essi o in diletto o in utilità. Oggidì anzi evvi pure una scuola di superbi sofisti, la quale vuole dimostrare, a suo modo, che le idee del bene e del male sieno affatto soggettive. Grandissimo accecamento dell’intelletto è indubbiamente questo! Ma esso stesso riesce a provare ciò che sin qui è detto delle umane passioni, e che l’Alighieri insegna nella Monarchia, sentenziando così: “La cupidità è essa sola la corruttrice dei nostri giudizi” (Monarch. l. 13.). Or questo, che vale per la morale naturale, vale molto più nelle verità dommatiche e morali della nostra fede. Contro al domma sorge battagliero l’accecamento dell’orgoglio: contro la morale quello dell’orgoglio, dell’egoismo e di tutte le altre turpitudini, che essa combatte. A ciò si aggiunga che, mentre le prove di molte verità naturali ci cadono sott’occhio di per sé, o con una grandissima facilità; quelle della fede cattolica è mestieri che la mente nostra le cerchi, le studi più o meno profondamente, le mediti con animo sereno e riposato. È poi nessun’altra verità al mondo è stata sin dai primordj, e soprattutto ai nostri giorni, combattuta quanto la fede cristiana. Di qui segue che i credenti siamo come viaggiatori, messi in una via, nella quale ad ogni passo noi si incontra un intoppo, uno sterpo,  un precipizio, e talvolta un torrente, che o ci rallenta, o c’impedisce il cammino. Il quale cammino, del rimanente, riesce anche difficile, perché agli impedimenti esteriori, che ci vengono dai cattivi libri spesso dotti e pieni di attraimenti, dalle scuole, dalle conversazioni, dai giornali, e oggidì dall’aria malefica che ci spira intorno, si aggiungono gl’impedimenti che nascono dentro di noi stessi. Dentro di noi, chi nol sa, anzi chi nol sente, sono due leggi, pugnanti l’una contro dell’altra, o piuttosto due uomini, l’uno carnale e che piega verso il senso, l’altro spirituale, che eleva le ali dell’intelligenza e dell’amore ai beni Spirituali, e aspira all’eterno e all’infinito. È dunque naturale che l’uomo carnale in noi oscuri la verità della fede nostra, e prenda tutte le occasioni per impicciolirla, per combatterla e per rubarcela dal cuore. –  Nonpertanto questa fede cattolica vive e resiste nelle anime di moltissimi: e ciò perché alla luce e alla forza derivanti in noi dai motivi e prove, che ce la fanno credibile, si aggiunge una luce e una forza interiore assai più vivace, penetrante e calda, che si chiama grazia. Questa luce celestiale e soavissima della grazia, che è il principio vero e sustanziale della nostra fede, si sposa dolcemente in misterioso nodo con le prove umane delle verità di religione, e produce quel convincimento certissimo e fermo, quel riposo dell’anima nella verità soprannaturale insegnataci dalla Chiesa, il quale è detto fede. Né s’ha da credere che nell’uomo semplice e indotto, poniamo nel villico, che conduce gli armenti e faticosamente coltiva la terra, e nell’operajo, tutto intento al lavoro di mano, la fede sussista solo per effetto di grazia, o per consuetudine, senza che il suo intelletto grossolano e incolto cerchi e trovi qualche motivo della sua credibilità. Una delle maggiori perfezioni del Cattolicismo è appunto questa, che esso si attagli benissimo ai più alti e nobili intelletti, come ai più semplici e piccoli. Però la fede cattolica ha una certa luce, che assai variamente e in diverso grado, sfavilla agli occhi degli uni e degli altri, sempre che gli uni e gli altri, avendo ascoltata la Buona Novella di Gesù Cristo, non servano al peccato ma a Dio, e non siano sordi alla voce di Lui, che parla al cuore con la grazia e parla a tutto l’uomo per molti altri modi ancora. Molti Cattolici ignoranti credono nella fede cattolica da essi, come da tutti, ricevuta per dono divino nel Battesimo, sia perché non essendo guasti dalle passioni, sentono dentro di sé le bellezze ineffabili delle verità morali della fede, sia per altre ragioni. Alcuni, illuminati dalla grazia, credono perché mettono fiducia nelle parole, poniamo, del proprio curato pio e buono o perché sanno che tanti uomini di cuore d’ingegno, di bontà abbracciano la fede: altri credono perché, mentre ascoltano misteriosamente dentro la voce interiore della grazia, che li invita a credere, si confermano nella fede, avendo notizia dell’eroismo e dei miracoli dei Santi e della Madonna. Insomma i motivi di credibilità li hanno ancora i semplici, i poveri, i rozzi a lor modo: e anche in essi si uniscono con la grazia divina per nutrire la loro fede. – Dalle cose dette sin qui ci sarà agevole il comprendere come e perché la fede sia una virtù soprannaturale nel Cristiano, e anzi la prima radice d’ogni virtù sua. In vero la virtù cristiana noi la dobbiamo considerare come un odoroso fiore di giardino, che spunta nella volontà umana, s’abbellisce e si perfeziona grado grado, e poi con altri fiori, che nascono dalla medesima pianta, forma ghirlanda. La grazia divina, la quale piove dall’alto, quasi rugiada celeste; è la luce che, fecondando la nostra libera volontà, e quasi ad essa disposandosi, produce ogni fiore di virtù. Or il primo e più olezzante fiore di virtù nel Cristiano è questo della fede. Né a ciò può fare impedimento il pensare, che la fede un assentimento dell’intelletto nostro alle verità di religione, intanto che ogni virtù ha da nascere e fiorire nel nostro libero volere. Perciocchè l’assentimento dell’intelletto nostro, non libero ma necessario nelle verità di per sé evidenti, è poi al tutto libero nelle verità della fede: però nasce e si matura nella volontà. Ed è libero questo assentimento nostro alle verità della fede cattolica; perché noi liberamente cerchiamo i motivi della nostra credibilità, liberamente allontaniamo tutti gli ostacoli intellettuali che ci si presentano, liberamente vinciamo le passioni che, annebbiando il giudizio, c’impediscono di accettare la fede, liberamente ci sforziamo di vincere le obiezioni che o ci nascono nell’animo o ci vengono di fuori. – Abbiamo veduto che la fede, per alcuni rispetti, ben si paragona a un fiore. Ma guardata in un’altra luce, mi apparisce come il tronco verdeggiante d’un grande albero. Potremmo anche dire che essa rappresenti l’Albero della vita, da Dio posto nel giardino dell’Eden; un albero che non è mai appassito, ma che da Gesù benedetto è stato ridonato a tutto il genere umano. Intanto è da por mente che, a quel modo, onde dal ceppo spuntano i ramoscelli, i fiori, i frutti; così dalla fede nascono tutte le virtù cristiane. Nascono invero sì per effetto di nuova rugiada di grazia celestiale, sì per effetto della nostra libera volontà. E quando la volontà nostra non coopera alla grazia, quel primo tronco della fede rimane infruttifero, a poco a poco vegeta meno, ed è come morto. Anzi, stando alla terminologia teologica, una fede siffatta, senz’altro, si dice fede morta. Per lo contrario è detta fede viva quella, che germoglia in virtù e in opere buone, come germoglia l’albero, il quale è messo presso la corrente di un fiume. Talvolta però disgraziatamente avviene che lo stato di languore nella fede, infruttifera o morta che sia, s’accresce di grado in grado tanto, che il ceppo stesso della fede non ha più vegetazione di sorta, è colpito da morte, e l’uomo ridiventa infedele, com’era prima d’aver da Dio questo ineffabile e grandissimo dono. Anzi quasi sempre la via del miscredere nei battezzati è questa: appagarsi per un certo tempo della fede morta, e poi perdere la fede stessa. Benediciamo dunque il Signore di averci dato la fede, senza alcun nostro merito, e sforziamoci di custodirla, come la gemma più bella e più ricca dell’anima nostra. Faccia Iddio, che ciascuno di noi possa ripetere alcune parole del Newman, dottissimo e piissimo uomo, il quale, dopo quarant’anni di burrasca interiore, e di ricerche erudite, afferrò il porto della fede cattolica. E le parole son queste: “Dal dì che io son cattolico, vivo in una pace e in un’allegrezza piena; perciocché non mai più l’ombra di un dubbio ha offuscata e turbata la mia mente. Da quel dì fui come un viaggiatore, il quale, dopo la tempesta, raggiunse il porto, e la gioja di quel soave riposo, passati già molti anni, mi dura tuttora. Non è già che io non senta le difficoltà, che si possono muovere e si muovono contro le verità della religione; ma diecimila difficoltà non bastano per creare in un intelletto ponderato e grave un dubbio ragionevole. In vero un uomo assennato ben può rammaricarsi di non sapere il modo, onde si risolve un problema di matematica, senza dubitare per questo che il problema abbia una propria e verissima soluzione.” (Istoria delle mie opinioni, ecc., pag. 367 e seg.) – E ora, prima che io proceda avanti a parlare delle altre virtù, o fede benedetta, che mi sei stata compagna cara e indivisibile sin dalla fanciullezza, che pietosamente mi hai condotto giovanetto nella Casa di san Filippo, e hai custodito il mio cuore sempre, e sei stata la illuminatrice della mia mente nel governare me stesso, negli studj, e in tutto ciò che scrissi: o fede dolcissima, che mi hai tante volte consolato nelle burrasche, nei dolori, nelle tentazioni e nelle angosce, e pur tante volte hai nobilitata e santificata la mia allegrezza: o fede benedetta, che mi hai fatto e mi fai tuttora vivere nella dolce conversazione della madre, del padre, dei congiunti, degli amici morti alla terra, ma, come spero, viventi al Cielo e alla gloria eterna: o fede, che sei stata sempre e sei la mia consigliera nel mio ministero pastorale, non mi abbandonare mai, insino alla estrema ora della vita. Mostrami anzi sempre più le caste e ineffabili bellezze tue, sino al giorno in cui, come spero, mercé la divina misericordia, tu, o fede, diventerai per me visione e amore perfetto di quel Signore Iddio, che a me si donò.

CRISTO REGNI (9)

CRISTO REGNI (9)

 P. MATHEO CRAWLEY (dei Sacri Cuori)

TRIPLICE ATTENTATO AL RE DIVINO [II Edizione SOC. EDIT. VITA E PENSIERO – MILANO]

Nihil obstat quominus imprimatur Mediolani, die 4 febr. 1926 Sac. C. Ricogliosi, Cens. Eccles.

IMPRIMATUR In Curia Arch. Mediolani die 5 febr. 1926 – Can. M. Cavezzali, Provic. Gener.

CAPITOLO III

L’onore del Re della gloria disdegnato

Crisi di vocazioni sacerdotali e religiose

Dic ut sedeant hi duo filii mei, unus ad dexteram tuam et unus ad sinistram in regno tuo

[Di’ che seggano questi due miei figlioli uno alla tua destra, l’altro alla tua sinistra nel tuo regno.]

(Matteo XX, 21).

I. – Lo spirito contemporaneo riguardo al sacerdozio ed alla vita religiosa. Come siamo lontani dal tempo in cui la madre degli Zebedei, credendo alla Regalità temporale di Gesù e spinta dal suo amore materno, chiedeva al Maestro che si degnasse « far sedere i suoi due figliuoli, l’uno alla destra, l’altro alla sinistra nel suo Regno! » C’era un errore, nello spirito di questa donna, sulla natura del Regno Messianico; e c’era forse anche un sentimento reprensibile di vanità; e tuttavia nobile e previdente cuore d’una madre! Essa non chiede nulla per sé: non pensa che alla gloria dei suoi figli; e li vede già nel suo pensiero, ministri del Re-Gesù, e forse forti d’una potenza eguale a quella di Giuseppe, in Egitto. – La razza delle madri che si dimenticano, offrendo i loro figli a Nostro Signore, minaccia di estinguersi. Era un meraviglioso linguaggio, a traverso i secoli cristiani; perché non continua in tutta la sua santa nobiltà e la sua feconda bellezza? L’onore d’essere scelti e preferiti dal Re d’Amore, l’onore immenso di servir Gesù e di darlo alla terra, con la potenza del Sacerdozio e il sacrificio della vita religiosa, non è più oggetto d’ambizione, ma di timore e di disdegno. Perchè? È la risposta inquieta e negativa. alla grave domanda di nostro Signore: « Potete bere il calice che io bevo? » – In ogni tempo, il Sacerdozio e la vita religiosa sono stati una via dolorosa per quelli che le hanno seguite, ed hanno avuto la grazia di comprendere la gloria sanguinante del Calvario e le pesanti responsabilità legate a questa gloria. – Ma con le idee di libertà sfrenate che corrono come un uragano devastatore, con lo spirito ragionatore e orgoglioso, conseguenza di questa falsa libertà, nell’atmosfera satura del sensualismo raffinato dell’epoca nostra, le vocazioni sacerdotali e religiose diventano spesso un eroismo. E gli eroi sono pochissimi, specialmente quando l’eroismo è intimo, segreto, e che non deve contare né sulla benevolenza, né sugli applausi umani, ma sullo staffile terribile delle critiche e del disprezzo sociale. Era più facile, una volta, alle famiglie cristiane di conformarsi alla volontà divina e di accordare ai loro figlioli la libertà santa di seguire le chiamate del Signore. I campi erano molti più divisi allora: non si incontravano i giudei e i samaritani. Non era stata stretta l’alleanza fra i figli di Dio e i figli degli uomini. Negli ambienti cattolici si godeva di una maggiore indipendenza, e l’influenza delle critiche era molto diminuita dalle distanze reciprocamente stabilite e rispettate. – La società moderna ha spezzato gli ostacoli; e i mondani più audaci hanno rumorosamente invaso, con la loro dottrina, lo spirito, l’educazione e i costumi della vita familiare e sociale dei Cristiani. Le emanazioni malefiche delle loro teorie hanno soffocato la gran deferenza e l’ammirazione simpatica che si aveva, sempre per tradizione, per gli eletti al chiostro e all’Altare, tanto negli ambienti, cristiani e ferventi, che tra le persone semplicemente oneste. La persecuzione ha fatto il resto. Confusi tra la folla, relegati negli ultimi posti, carichi di obbrobri, spogliati, spesso scacciati, siamo il rifiuto di una società deformata. La confidenza delle famiglie, di quelle famiglie persino, in cui si trasmettevano le tradizioni di venerazione verso di noi, ha ceduto a delle ragioni spiegabilissime di prudenza. Quanto all’immensa maggioranza delle famiglie — dominate dal rispetto umano, e scosse da questa mondanità, il cui cammino sempre facile, conduce all’indifferenza religiosa — essa si rifiuta con sempre maggiore energia, di dare i propri figlioli ad una istituzione sconosciuta e criticata. Questa indifferenza delle famiglie, più nefasta d’una persecuzione odiosa, è la prima causa della sterilità deplorevole della nostra società, in relazione alle vocazioni. – La fede è diminuita, il credito del religioso e del sacerdote è finito, a causa dell’attentato del mondo al suo prestigio soprannaturale, alla sua aureola evangelica… Ed ecco che questi due stati son divenuti, per una falsa concezione moderna, delle comuni carriere, apprezzabili, cioè, unicamente nella misura in cui esse possono dare un certo avvenire al giovane o alla fanciulla, e far conseguire alle loro famiglie, qualche vantaggio materiale. Le persecuzioni recenti e le condizioni critiche che traversano lo stato ecclesiastico e gli ordini religiosi, non promettono più quell’avvenire splendido e sicuro che poteva non produrre, ma facilitare almeno in altri tempi le vocazioni. Da allora, quale recisa opposizione non offre la nostra società, materialista e indifferente, all’aspirazione d’un ragazzo, che si dica chiamato al seminario o al convento! Si chiedevano onori alla Chiesa, quando essa poteva darne attraverso la sua potenza e il suo trionfo sociale. Tutti l’amavano nell’ora del Thabor; quanta differenza coll’attitudine ingrata d’adesso, che è l’ora del Pretorio. Si dimentica che la gloria di essere al bando per Iddio, è una gloria che sorpassa tutti gli onori. Se sono poche le madri, ammirabili nella loro ambizione, le quali vogliono vedere i loro figlioli consacrarsi a Gesù-Re, ciò avviene perché non si riconosce l’onore che questo Re fa ridondare sui suoi ministri e sulle sue spose. – Cos’è un principe o un re della terra, in confronto di un sacerdote? Misurate la loro potenza; il principe firmerà forse, migliaia di sentenze di morte; il sacerdote, con l’assoluzione, emetterà migliaia di sentenze di vita eterna, compresa quella dello stesso principe. Egli battezza, assolve e sotterra i Re! Che cos’è una regina, in confronto di una religiosa? Meno di una portinaia, in confronto della sposa d’un re! Un’umile religiosa, che insegnava il catechismo alle figliuole di Luigi XV, dette in proposito una simile risposta, quando una di esse, urtata dal un’osservazione della sua maestra, disse fieramente: « Pensate voi che parlate alla figlia del vostro Re? » E la religiosa: « Non dimenticate neanche, Signora, che siete dinanzi alla sposa del Dio di vostro padre e del vostro Dio! » – Il secolo nostro, pieno di se stesso, e tanto lontano da qualsiasi idealismo, soprattutto da quello che s’ispira al Vangelo, misconosce e rifiuta le grandi idee ed i nobili sentimenti delle precedenti generazioni. Esso ha sostituito, al concetto ereditario della dignità cristiana, un criterio molto più elastico e comodo, nel senso morale, e molto più egoista nelle risultanze pratiche. Non c’è da meravigliarsi, dunque, che si consideri il Sacerdozio come una carriera qualunque, molto umile, poco rispettabile, e molto meno redditizia di tante altre. Ed il mondo i fa presto a giudicare i motivi di questa inferiorità. La religiosa, oh, essa non ha potuto pensare al chiostro che per puntiglio o in un momento d’inesplicabile storditezza; ammenoché non vi abbia trovato il rifugio ad una impotenza fisica o morale o la manifestazione d’un forte egoismo. – Numerose famiglie cristiane pensano oggi come il mondo e dicono: « Oh, no, Signore, non sei Tu che chiami il mio figliolo: è lui che sì inganna. » Oppure: « la nostra figliola crede vocazione, ciò che è un illusione, essa non deve lasciare i suoi genitori, se non per maritarsi, ma giammai per consacrarsi a Te. La madre degli Zebedei non si incontra quasi più… Ma il Maestro buono, che non è mutevole come noi, continua a passare fra gli uomini, affascinando con uno sguardo, trascinando con una parola « Lascia tutto, vieni e seguimi! » Nonostante il mondo e la bufera di modernità che ha investito la società cristiana, l’esercito degli apostoli e delle o spose di Cristo rimane. Se è meno numeroso, è però meglio agguerrito, nello spirito della sua sublime vocazione. – Se il mondo si affretta tanto a giudicare e a valutare quel che gli è superiore, può essere permesso anche a noi di scoprire e di abbattere l’incoerenza dei ragionamenti, per i quali esso si vanta di essere saggio. Guardate: nella misura in cui la famiglia si disfà, a poco, a poco, dell’autorità del Maestro, i genitori reclamano per sé un aumento di autorità. In virtù di essa, che costoro dichiarano sacra, inviolabile, si oppongono alla scelta che i loro figli hanno fatto della vocazione religiosa o sacerdotale. Pertanto, essi dicono di lasciarli liberi, oh, assolutamente liberi di scegliere la loro via… a meno che la scelta non cada proprio sul solo stato decisamente escluso. È forse logico tutto questo? Si può aspirare a tutte le carriere degne e, onorevoli; si può sposare o restar celibi; si può tentare la fortuna, esponendo la propria salute e anche la vita, ma non si ha il diritto di indossare l’abito talare o religioso. La chiamata intima, l’attrazione potente, irresistibile, il diritto di cercare la felicità secondo ciò a cui spinge la propria coscienza, possono essere invocati… invano. Temporeggiare, provar a piegare la mentalità degli oppositori, tutto è inutile: non si ha il diritto di consacrarsi a Dio. Si può dare tempo, gioventù, cuore ad una società frivola; si può darlo con giuramento ad una creatura che, buona oggi, è capace di darci disinganni orribili domani.. Si può consacrarsi alla salvezza della patria, mostrarle un amore eroico, offrirle il proprio sangue. Tutto questo è bello, è buono… eccettuato servire il Signore e consacrargli la propria vita. – Ora bisogna che il Signore disprezzato accordi questi diritti. Cerca l’uomo di vendicarsi della sua impotenza, rifiutandosi di riconoscere, nel Creatore la sorgente divina da cui emanano tutti i diritti e quello inviolabile, di far primeggiare il suo onore e il suo servizio? – Se si fosse veramente logici, non si dovrebbe invocare il titolo di « padre » per opporsi al Padre per eccellenza, Giudice divino dei genitori, fedeli o infedeli rappresentanti di Lui. La gerarchia diritti e dei doveri spezzata, quando Dio non ha più l’autorità suprema, e non può dire ai genitori quel che disse ad Abramo: « Offrimi il figlio tuo in olocausto alla mia «gloria ». La famiglia può chiedere a buon diritto dei sacrifici ai membri che la compongono, per il bene generale del focolare. La società può imporre alle famiglie, per il bene sociale, dei veri sacrifici. La Nazione può esigere, anche per forza, delle grandi immolazioni, per il bene pubblico e nazionale. Ed è nell’ordine naturale delle cose accettare tutto questo. Non vi sarebbe che Dio, il Signore di ciascun uomo, il Padrone assoluto delle famiglie, il Re Sovrano della società e delle nazioni, che non potrebbe reclamare, imperiosamente e con pieno diritto, le sue proprietà, prestate temporaneamente ai genitori? Per l’onore, per il denaro, per la pace, per l’umanità, i genitori possono e debbono cedere tutti i giorni parte del loro relativo diritto. E Gesù Cristo avrà meno diritto degli avvenimenti che Egli stesso conduce, e delle creature che vivono del suo soffio?… – Il sacerdozio e la vita religiosa, doni sublimi del Signore, sono talmente al disopra di tutti i beni, di tutti gli Stati, di tutti gli onori della terra! Vale a dire che, quando Egli chiama al suo seguito è giusto lasciar tutto e passare, se fosse necessario, su un braciere ardente. Perché nulla, sulla terra è così nobile e così bello; e pertanto le sofferenze più inaudite non possono comprare l’onore, l’amore, la felicità che il Cuore di Gesù riserba a questi predestinati. – Noi siamo convinti che la maggior parte delle famiglie, che lasciano bussare invano alla porta loro il Re dei re, lo fanno in un momento di timore del sacrificio, in un pensiero spiegabilissimo, cioè, d’egoismo. Esse non si rendono conto del bene inapprezzabile, del tesoro senza pari che esse rifiutano, del torrente di benedizioni celesti di cui esse si privano e del giusto pentimento che ne avranno un giorno, forse troppo tardi! Il sacerdote e la religiosa sono tanto poco e male conosciuti, che è ben facile spiegarsi i mille pregiudizi diffusi contro il loro nobile stato. Allontanàti più o meno da ogni relazione con le creature esclusivamente mondane, spesso separati dalla vita pubblica sociale, essi non possono essere compresi dal mondo, che hanno lasciato, d’altronde, con ragionevole disdegno. E il mondo risponde a questa indifferenza giustificata, accentuando la sua diffidenza verso questi « eccentrici », la cui vita seria e felice è una condanna alla loro, vana, molle e inquieta. Aggiungiamo a questa diffidenza generale, a questa misconoscenza, tutte le calunnie che sono state diffuse dall’ignoranza e dalla malizia, tutti gli oltraggi fatti loro, ed avremo una spiegazione più che sufficiente di questa atmosfera ostile alle vocazioni. Questo è antimilitarismo contro l’esercito del Signore. Oh, se le famiglie cristiane, i focolari veramente onesti e fedeli conoscessero il « dono di Dio », il segno d’onore, il valore della grazia, la distinzione soprannaturale, il beneficio inaudito, la preferenza gratuita e gloriosa che suppone l’appello di Gesù, tanto per gli eletti che per loro stesse, oh, come tratterebbero il Signore alla porta loro! Come gli direbbero, prese da santa confusione: « Allontanati da noi, Signore, che siamo peccatori! O Maestro, non siamo degni che Tu entri sotto il nostro tetto! »  Ahimè! il gesto che ferma su tante soglie il Re di gloria, che va in cerca di apostoli e di vergini, non mai ispirato ad umiltà, forma delicata d’adorazione! Esso è provocato dalla misconoscenza dei diritti divini di Gesù Cristo!

II. – I figlioli appartengono a Dio

A chi appartengono i figli, e quale è il loro destino? Ecco adunque la vera soluzione della questione della vocazione. Sono, i genitori, i padroni o i semplici depositari, incaricati d’interpretare una volontà ed un comandamento divino? Essi sono stati gli strumenti per la vita naturale, ma il diritto cristiano non riconosce loro alcuna autorità assoluta, sull’avvenire dei loro figlioli. – Il quarto comandamento è sempre subordinato al primo. I genitori devono andare a Dio, poiché essi sono da Dio; i figli, attraverso i genitori, devono tendere a Dio, poiché anche essi sono da Dio. Se la società, e soprattutto la Patria, hanno dei diritti che genitori debbono rispettare, e ai quali sacrificano le loro più legittime 00affezioni, in un grado infinitamente superiore, il Signore s’è riservato il pieno diritto di disporre della vita e della morte delle creature affidate, temporaneamente e condizionatamente, alla cura affettuosa, alla custodia cristiana di altre creature – E come il potere civile, anche più legittimo e meglio stabilito, non può assolutamente misconoscere i sacri diritti dell’individuo, e questi, quando si tratta di difendere la sua coscienza cristiana, per esempio, è obbligato a disubbidire alla autorità umana opposta alla divina, così la patria podestà, fondata sulla natura e confermata dalla legge evangelica, non può contrariare il diritto del figlio, chiamato dal suo Dio. Il figlio è del Creatore, passando attraverso i genitori che l’han ricevuto per Lui, e che debbono renderglielo, non solo all’ora della sua morte, ma anche quando il Signore lo sceglie e lo chiama, lo trae dietro a sé e lo fa camminare pel sentiero stretto, ma glorioso, dei consigli evangelici. Se neanche un sol capello del nostro capo può cadere senza il permesso del Maestro, se ogni uccello e ogni fiorellino è nutrito e rinfrescato per ordine di Lui, che pensare dell’autorità divina e della Provvidenza amorosa che vegliano sull’esercizio dei suoi sovrani diritti, e sull’avvenire temporale ed eterno dei figli?… D’altra parte, chi ha il segreto di questo avvenire? Dio solo, nessuno all’infuori di Lui, ed Egli se lo riserba gelosamente. Non vediamo forse tutti i giorni, per esperienza, fallire le previsioni così prudentemente calcolate, così ben combinate? E quando noi crediamo aver raggiunto lo scopo, con un piano sapientemente elaborato, sopravvengono avvenimenti imprevisti, malattie improvvise, agitazioni materiali o morali, che distruggono immediatamente le nostre previsioni. Anche la morte ci prova che l’avvenire delle creature non è che nelle mani del Creatore. – Chi può tracciare all’uomo la sua via, se non Colui che conosce l’uomo? Ora, chi conosce veramente, intimamente e profondamente l’uomo, se non Dio? La vocazione è un problema troppo grave per affidarne la soluzione al corso delle circostanze, delle velleità o degli interessi umani. Il legame fra l’avvenire temporale e l’avvenire eterno è molto stretto. La vocazione è la strada, l’eternità è la mèta cui questa strada deve condurre. Vi è un ingranaggio fatto da una sapienza increata; guardiamoci dallo spezzare una molla della catena, che comincia dalla culla e, che, intrecciata da una mano provvidenziale, conduce all’eternità. Quanto spesso il fermarsi d’un’anima, per colpa sua o di altri, una deviazione definitiva dalla diretta via, ha delle fatali conseguenze quaggiù e nella sua vita avvenire. Se è vero che le stelle hanno la loro via, invariabilmente tracciata, non l’avrà forse l’anima cristiana, più preziosa di tutte le costellazioni? Da ciò sembra che il Cristiano, soprattutto se ha la responsabilità della paternità, non dovrebbe osare, per nessun pretesto, far deviare un’anima di fanciullo dalla via divina verso cui è spinta. Ahimè! il numero di questi audaci incoscienti aumenta, ma non negli ambienti religiosi, dove le vocazioni sono un’eccezione straordinaria, ma nelle famiglie in cui si riversa la misericordia del Cuore di Gesù. Questo. gesto, quanto mai pericoloso, è un attentato contro la Sapienza e l’assoluta Sovranità di Dio e tanto più grave in quanto esso è commesso proprio da coloro che sono ufficialmente incaricati da Dio d’educare i loro figlioli in modo che essi siano sempre pronti ad ascoltare la Sua voce, e ad ubbidire alle Sue chiamate. Di conseguenza, si rende vana l’attesa divina, si sviano i disegni di Lui, si arresta la corrente della Sua misericordia, si assume un’enorme responsabilità morale. – Privare così il Signore della sua gloria non può dare la felicità. Un sacerdote di meno: calcolate, se potete, il bene immenso che sarebbe stato Compiuto e che non lo sarà mai!… Un sacerdote di meno, vuol dire 368 messe di meno; e supponete che questo sia soltanto per 25 anni e così potremo calcolare, se si aggiunge l’amministrazione dei Sacramenti, la grazia delle predicazioni e le iniziative di zelo?… Potremo mai farci un’idea di questo bene immenso, incalcolabile, che sorpassa ogni previsione, e a cui ci si è opposti? – Un religioso o una suora di meno, una sposa cioè una lampada, una particella d’ostia di meno sull’altare, è la soppressione di tutta una vita di lavoro, di preghiera, di sacrificio, la distruzione di grazie, di vita divina, di fecondità spirituale. – È forse permesso di rifiutare impunemente il mantello di porpora con cui Gesù stesso avvolge un fanciullo predestinato? di togliere il diadema regale ch’Egli pone sulla fronte di una giovinetta? Si può forse privare impunemente di tante glorie, il Re dei re? È possibile esporre migliaia di anime alla loro perdita eterna, soffocando delle vocazioni di sacerdoti, di contemplativi, di spose, zelatrici della gloria sua, senza provocare la giusta collera di Dio? Poiché non si tratta soltanto, né principalmente, di rifiutare questo onore che Dio decreta e offre gratuitamente, ma di sconvolgere l’ingranaggio della salvezza, di rompere la rete meravigliosa destinata ad una meravigliosa pesca. E il sangue di Gesù è versato inutilmente per migliaia di creature, che periranno per mancanza di ministero sacerdotale, e del ministero nascosto dell’umile religiosa. Se a causa dell’astensione di un uomo onesto, d’uno solo, dalle elezioni, il paese può subire dei grandi disastri politici e nazionali, cosa sarà nel piano della Redenzione se, per colpa d’una famiglia cristiana, un sacerdote o una suora mancano, nel torrente di misericordia che il Cuore di Gesù vorrebbe riversare, con il loro zelo e col sacrifizio loro, sul mondo intero? Nel mondo morale, come nel fisico, un cataclisma spaventoso delle disgrazie irreparabili, possono essere la conseguenza d’una lacuna, apparentemente leggera ed isolata. Così ragionava un gran Vescovo, col Marchese de B… qualche anno prima della guerra. Il figlio minore del Marchese, giovane di 19 anni, manifestava il desiderio di farsi sacerdote. Il padre si opponeva: « Rifletta, diceva Monsignore, all’enorme responsabilità di fronte a Dio e di fronte alla Chiesa. Un sacerdote di meno, specialmente alla nostra epoca così sterile di vocazioni ecclesiastiche, porta gravi conseguenze! ». E poiché il Marchese si ostinava ed esprimeva freddamente un’irrevocabile volontà, Monsignore, congedandosi, disse con triste gravità: « Chiedo a Nostro Signore di illuminarvi su una questione così seria e delicata, e, in ogni caso, desidero sinceramente che questo sacerdote di meno nella diocesi, già tanto provata dal numero esiguo delle vocazioni, non manchi proprio a Lei, all’ora della sua morte! » La guerra scoppia. 1 due sacerdoti del paese prossimi al castello del Marchese partono come soldati portaferiti. Tre anni dopo, il Marchese vien colpito da apoplessia, e chiede un prete. Il curato del villaggio più vicino è vecchio ed infermo, e deve assistere molti parrocchiani. Si deve cercare altrove un altro prete, e quando questo giunge, il malato è morto. Il prete che è di meno nella diocesi è forse quello che manca al capezzale dell’agonizzante. – E notare che la guerra ha reso ancora più acuta questa crisi, alla quale S. S. Pio XI allude nella sua Enciclica con queste parole: « Come è per noi doloroso il vedere che il contingente dei preti diminuisce dappertutto ». Il Papa se ne duole!

CRISTO REGNI (10)

LE VIRTÙ CRISTIANE (1)

LE VIRTÙ CRISTIANE (1)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO

Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni

Desclée e Lefebre e. C. – Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

INTRODUZIONE

I PRODIGI di sapienza, di virtù e di civiltà, onde da quasi diciannove secoli è rallegrato l’universo, derivano in gran parte da che il Cristianesimo armonizza in sé stupendamente, e congiunge in nodo strettissimo la vita religiosa e la vita morale dell’uomo. Cotesta unione delle due mirabili vite, nella Paganità fu nulla o quasi: nella religione poi, data da Dio agl’Israeliti, non mancò ma non raggiunse mai, neanche da lontano, la profondità e l’universalità, che ha presso le genti cristiane. Or questa unione così nobile e così ricca di armonie in sé stessa, riuscì di grandissima efficacia in tutta la storia della cristianità. Però io stimo che il risorgere e il decadere del Cattolicismo, e anche il fruttificare e l’isterilirsi di esso presso questo o quel popolo sia derivato e derivi sempre, in massima parte, dal mantener salda o no questa unione della Religione e della morale nel pensiero, negli affetti e nella vita. In vero nel Cristianesimo la Religione che c’induce a credere i dommi insegnatici da Dio, onorandolo con culto e orazioni, e la morale che intende praticamente a dirigere, secondo rettitudine, i costumi e la vita, procedono da un medesimo principio che è Gesù Cristo, Dio e Uomo, Verità e Bontà, Maestro e Legislatore sapientissimo. Laonde il Vangelo suo, com’è inteso dalla Chiesa, esso è fonte ubertoso e ricchissimo tesoro sì della nostra fede e sì della nostra morale. E senza dubbio in ogni verità della fede cristiana spunta e si matura un germe di qualche virtù cristiana; come nella pratica di ciascuna virtù cristiana ci ha uno stimolo a rinvigorire la nostra fede. L’intelletto che crede, e la volontà che, bene amando, dà frutti di vita, l’uno illumina e l’altra infiamma. Ma la luce della fede è luce intellettuale piena d’amore, e la fiamma della volontà che santamente ama, diffonde ad ogni tratto luce viva e scintillante di fede nelle nostre menti. Dal conoscimento di Dio, secondo il Vangelo e la Chiesa, procede il conoscimento di ciò che è l’uomo; e dal conoscimento di ciò che è l’uomo, si perfeziona e si chiarisce in noi il conoscimento di Dio stesso. Il tipo di ogni nostra virtù morale lo troviamo in qualche attributo di Dio, insegnatoci dalla fede, o in qualche virtù predicata e messa in pratica da Cristo; « intanto, quando l’animo nostro si è sposato intimamente alla morale cristiana; ecco che esso comprende meglio i divini attributi, e le ineffabili virtù di Gesù Signore. Infine tutta la sustanza della Religione è amore di Dio, che si diffonde nel prossimo: e tutta la sustanza della morale è amore del prossimo, che si eleva a Dio. E poiché l’amore di Dio e l’amore del prossimo nel Cristianesimo, come sarà dichiarato meglio appresso, non sono due amori ma un solo amore: si conchiude che la Religione e la morale noi Cattolici le consideriamo come un solo bene, guardato in due aspetti diversi. – Nella divina Scrittura si legge che, quando Iddio volle, per mezzo di Salomone, elevare a sé stesso un tempio, il quale esprimesse esteriormente in qualche maniera l’ineffabile perfezione divina, e pure insieme riuscisse un possente incentivo alla vita religiosa e morale, tra le altre cose, ordinò questa: nella parte più veneranda e più nobile del tempio, che era il Santo dei Santi, si scolpiscano due cherubini di grande bellezza e riccamente dorati. I due cherubini, con l’ampiezza delle loro ali distese, occupino tutto, quanto è ampio il luogo. E il testo della Bibbia aggiunge che, mentre due ali dei cherubini arrivavano alle pareti opposte, le altre due si toccavano l’una con l’altra, nel punto di mezzo del tempio. Ora a me pare che i due cherubini del tempio, e più le due ali, ciascuna d’un cherubino, le quali si toccavano e si univano nel mezzo della Casa del Signore, sieno un’immagine parlante di ciò che ho detto. I cherubini e le ali così unite significano che noi dobbiamo volare in alto verso Dio, con due ali, dateci da Dio stesso, cioè con l’ala della Religione e con quella della morale. Le quali due ali si toccano l’una con l’altra; e chi volesse volare con una soltanto, o non potrebbe o, dopo un primo sforzo, ricadrebbe in giù. – Ma disgraziatamente gli uomini, corrotti dalla originale prevaricazione, assai spesso tentano di separare la vita religiosa dalla vita morale; e oggidì più che mai. Ma questa separazione riesce sempre a grande e irreparabile danno. Non parlo qui dei miscredenti, i quali sognano una morale senza Dio o senza vita soprannaturale o senza Religione di sorta, e le danno nome di morale indipendente. Il sogno loro, o piuttosto i varj e diversi sogni di ciascuno di loro sono vani. In vero, sebbene la coscienza interiormente ci suggerisca leggi morali, essa non vale a darcene una veramente autorevole, certa, universale e universalmente accettata. Parlo sì bene dei Cattolici, e dei Cattolici quali li vediamo ora nella cristianità. Essi, salvo la parte veramente buona e ferverosa, sono o soprattutto malamente credenti, o soprattutto malamente operanti. Però, secondo che appartengono ad uno piuttosto che ad un altro ordine della cittadinanza, per lo più si dividono in due schiere differenti. Coloro che hanno una certa coltura intellettuale, e vivono agiatamente e comodamente, i più, vinti dall’orgoglio e dall’egoismo, poco o punto si curano della fede, della Religione e delle pratiche sue. Non le negano recisamente, ma il cuor loro ne è affatto lontano. Quasi sempre l’orgoglio impedisce ad essi di pensare alle verità della fede che sono la sapienza degli umili, e molto più di meditarle, di approfondirle e di vederne le inenarrabili bellezze. L’ orgoglio medesimo poi, unito con l’egoismo, li tengono lontani dalla pietà, e dai sacramenti rigeneratori della nostra vita morale. Spacciano che ciò, che rileva soprattutto all’uomo colto, è la vita morale, della quale, per poco non si dicono innamorati. Ma, a ben giudicare, la morale loro, in pratica è disgraziatamente assai monca e imperfetta. Talvolta anzi pare un’ombra della vera morale cristiana; onde ci piange il cuore a vedere come l’etica di alcuni Cattolici, predicatori di morale, sia scesa tanto in basso, e sia così piena di miserie e di vanità. Lasciando stare che una parte della vita morale, secondo il Cristianesimo, sta nelle nostre relazioni religiose con Dio; si vede chiaramente che la morale degli stessi Cattolici, quando sia separata della Religione, si riduce alla pratica di quei soli comandamenti, per i quali non è necessario di vincere le proprie passioni e di sacrificare sé medesimo. Quanto poi agli altri precetti, cotesti Cattolici facilmente s’ inducono a credere che o non obbligano punto la coscienza di un uomo spregiudicato o son buoni soltanto per i bigotti o s’hanno da stimare precetti leggeri, sicché il tascurarli si debba tenere quasi come un nonnulla. – Per lo contrario la gente poco colta, come gli artigiani delle città e i contadini delle campagne (principalmente tra essi le donne) credono che le pratiche esteriori della pietà bastino a tutto. In essi la vita religiosa, considerata nella sua parte esteriore, prevale alla vita morale. Le processioni, le feste, il culto esteriore, l’atteggiamento riverente della persona in Chiesa (ottime cose in sè), le orazioni profferite. a fior di labbra, i sacramenti ricevuti spesso senza buone disposizioni interne, costituiscono la sustanza di tutta la loro vita cristiana. Intanto, a volte sono maledici, a volte poco casti, a volte ingiusti, rapaci, avari, iracondi, spregiatori del prossimo; e nondimeno sperano che questi mali siano facilmente riparati con la loro pietà esteriore. Ma anch’essi s’ingannano a partito. La Religione di costoro rassomiglia a una vite, che ha pampini belli a vedere e grappoli appetitosi, ma nutre un tarlo dentro che la corrode. A poco a poco nella vite non corre o corre assai lento il succo vitale: prima dà grappoli d’uva magri e malaticci, e poi non ne dà punto, insino a che le foglie stesse s’ingialliscono, e avvizzite cadono. Insomma, a dir tutto in uno, la Religione di costoro, perché soltanto esteriore, è appena un’ombra della Religione vera; onde il frutto desiderabilissimo della vita morale manca o quasi. – Dalle cose dette sin qui si rIleva assai facilmente che il fervente ministro di Gesù Cristo, e molto più il buon Pastore di anime, debba spendersi tutto nel persuadere i Cristiani che, allora soltanto saranno degni del nome che portano, quando ei vivano insieme le due vite del Cattolicismo, cioè la vita religiosa, e la vita morale. Con questi pensieri nell’animo, parecchi anni addietro, io scrissi un libro della Dottrina Cattolica; nel quale, dichiarando, come potei, i dommi della fede di Gesù Cristo, mi sforzai di promuovere principalmente la vita religiosa tra i Cattolici. In quel libro volsi pure talvolta amorosamente lo sguardo alla vita morale del Cristiano, parendomi gran bene di non separar mai luna dall’altra, anche nello scrivere libri. Ma il feci solo incidentemente. Non pertanto sin d’allora mi balenò nella mente il pensiero di scrivere qualcosa di proposito intorno alla Dottrina morale del Cattolicismo. E questo pensiero o piuttosto questo desiderio mi si è incalorito nell’animo, col passare degli anni, e mi ha fatto compagnia per lungo tempo. Però se non ho potuto metterlo ad effetto prima, è stato contro mia voglia, e ne ho inteso rammarico. Ora il Signore mi ha concesso di compiere un libro intorno a questo argomento: e, benché ni accorga che l’opera mia sia riuscita assai monca e imperfetta; pure mi consolo, pensando di avere obbedito a una buon ispirazione dell’animo, e vivo nella dolce speranza che un qualche piccol bene ne debba derivare alla cara famiglia dei miei lettori. Questo nobilissimo tema della morale cattolica lo si può guardare in due modi differenti. Il primo modo si ha, quando altri scriva di Teologia morale; ed esso serve soprattutto alla retta e salutare amministrazione del Sacramento della penitenza; onde si può dire libro proprio dei sacerdoti. È invero la Teologia morale un libro prezioso, che sottilmente e profondamente scruta soprattutto la scienza dei vizj, e l’applica ai casi molti e diversi della coscienza. Benché si occupi incidentemente del bene da fare, il suo primo pensiero si volge al male da fuggire; perciocché il vizio è disposizione abituale al male. Di questa scienza i maestri sono molti nella Chiesa; ma nessuno l’ha illuminata di più viva luce, di quel, che abbia fatto il mio dilettissimo sant’Alfonso. Onde, come mi accadde di dire nella Vita che scrissi di lui, egli e san Tommaso sono come due fari di luce della Chiesa cattolica; san Tommaso nella dommatica, sant’Alfonso nella morale. L’altro modo di considerare la morale cristiana consiste nello studiarne la parte positiva, e per questo rispetto essa potrebbe chiamarsi la scienza del bene, o piuttosto la scienza delle virtù; perciocché virtù sia abituale propensione dell’animo al bene. Or anche cotesta scienza non è mancata nella Chiesa del Signore, benché sia più facile trovarla, sparsa qua e là negli scritti dei Padri e dei Teologi, anzi che unita in un solo libro; come è avvenuto, dal secolo XIII in poi, di quella che ho chiamata scienza dei vizj. Se alcuno ce la desse nei nostri tempi ringiovanita e accomodata alle presenti condizioni della vita, certo, farebbe un gran bene. Io non ho voluto, e non avrei potuto elevarmi tant’alto. Tratto sì in questo mio libro delle virtù cristiane; ma l’intendimento mio non è strettamente scientifico. Mi sono sforzato piuttosto di considerare un po’ addentro le principali virtù cristiane, di spiegare ciò che veramente sono, e specialmente di mostrare l’ineffabile bellezza loro, e le armonie soavissime, che corrono tra esse e quanto ci ha di luminoso, di grande e di nobile in tutti gli uomini, splendenti come sono, dell’immagine di Dio. Per tal guisa i nobili sentimenti d’un animo, scevro di passioni e considerato naturalmente, e quelli più nobili e santi dell’animo medesimo, elevato al soprannaturale, riescono per me quasi due corde d’una medesima lira, le quali suonano all’unisono, benchè il suono che manda la seconda sia incommensurabilmente più soave e più vibrato dell’altro. Queste considerazioni intorno alle virtù cristiane le ho scritte non per effetto di molto studio, ché la mia vita pastorale e l’ età non me lo avrebbero consentito, ma, secondo che me le hanno dettate dentro il cuore e la mente. Talvolta mi sono giovato delle Scritture e dei Padri e teologi; ed è stato sempre che la memoria me lo ha suggerito. Infine, ho pure spesso addotte le testimonianze di Dante, per due ragioni. In prima io non conosco altri, che abbia, meglio del grande Alighieri, effigiate e poetizzate le sovrumane bellezze del Cristianesimo; e la bellezza, a ben giudicarne, è quasi un fermaglio d’oro, che unisce la verità alla bontà; e fa risplender l’una e l’altra. Ancora, il nome di Dante oggi è caro a tutti, e presso taluni, che di autorità religiosa non vogliono più saperne, l’autorità di lui resta tuttora invulnerata, quasi come una dolce ricordanza dei tempi andati, e come un testimonio di quel che valga tuttora la bellezza letteraria presso l’universo cristiano. Il lettore vedrà da sé l’ordine, onde ho trattato delle principali virtù cristiane; e, se taluna non si trova menzionata in modo particolare, egli è perché, o rassomiglia molto alle altre, o nelle altre è compresa. Infine ei s’avverrà in un Appendice intorno al godere e alla felicità umana, che è un Discorso da me scritto parecchi anni indietro, e che mi pare abbia diverse attinenze col resto del libro, e forse in qualche maniera lo completi. A me non rimane ora dunque che di conchiudere questa mia Introduzione, esprimendo il desiderio di mettere ad effetto, in questo scorcio della mia vita, con fervente amore, le cose che il Signore mi ha fatto scrivere: “Oh! volesse Iddio che nella via del bene non mi addormentassi affatto io, che tanti esempj ho veduto, e sì spesso, di anime fervorose!”

Capua 20 Decembre 1896.

LE VIRTÙ CRISTIANE (2)

COSTUMI MODERNI ANTICRISTIANI

COSTUMI MODERNI ANTICRISTIANI

P. MATHEO CRAWLEY (dei Sacri Cuori)

Da: TRIPLICE ATTENTATO AL RE DIVINO

[II Edizione SOC. EDIT. VITA E PENSIERO – MILANO]

PROPRIETÀ LETTERARIA

Nihil obstat quominus imprimatur Mediolani, die 4 febr. 1926 – Sac. C. Ricogliosi, Cens. Eccles.

IMPRIMATUR In Curia Arch. Mediolani die 5 febr. 1926 – Can. M. Cavezzali, Provic. Gener.

PREM. TIP. PONT. ED ARCIV. S. GIUSEPPE – MILANO

LA SANTITÀ DEL RE D’AMORE SOCIALMENTE OLTRAGGIATA

1. – Modestia e Moralità

Il profeta Isaia, indirizzando ai Pastori negligenti le minacce del Signore, li chiama, nel suo linguaggio ardito, dei cani muti che non sanno abbaiare (Is. LVI, 19). Guai infatti alla sentinella che non dà l’allarme, e il cui silenzio porta alla rovina coloro che il cielo le ha affidati! È dovere gravissimo e urgente, quello di denunziare il pericolo. – Ora, sembra evidente che una delle epidemie morali tremende, se non la più tremenda, in forza del suo carattere di provocazione pubblica e contagiosa, sia l’assenza di pudore che manifesta oggi la società. Ma per stigmatizzare i termini di questa passione scatenata, bisogna usare nello stesso tempo una suprema delicatezza, una chiarezza persuasiva. Non bisogna ometter nulla, ma neanche dir niente che possa offendere le coscienze cieche ed innocenti, che tuttavia l’aspetto esteriore accusa. Numerose infatti sono quelle — avremo l’occasione di dirlo — per le quali il candore eccessivo non permette di comprendere il perché delle severe prescrizioni della Chiesa; eppure la loro disobbedienza le conduce ad un abisso. L’affare della moda, checché se ne dica, implica una seria questione di coscienza, poiché, dopo il peccato originale, una relazione molto intima esiste fra il vestiario e la purità. Il pudore, che obbliga a coprirsi modestamente, è una virtù tanto delicata quanto il candore dei gigli… tanto sensibile quanto la limpidezza «d’uno specchio, cui un leggero soffio offusca. Che la natura in se stessa sia buona, che possa esercitare î suoi diritti, tutto ciò sarebbe stato vero difatti senza il peccato originale. Che si usi un simile linguaggio nei paesi non per anco illuminati dalla fulgida bellezza del Vangelo e del Cristianesimo può, a rigore, concepirsi; ma che sì senta proclamar questo, nel nostro mondo, è inammissibile. Il Signore Gesù ha permesso che, per le circostanze eccezionali del mio ministero, nei centri di vita intensa, potessi convincermi della gravità di tale questione, della sua importanza per il Regno sociale del Cuore di Gesù. Oh, come vorrei comunicare tutta la convinzione dell’anima mia, a quelli e soprattutto a quelle che leggeranno queste pagine! Vorrei dir loro tutto ciò, ma con il grande, l’immenso rispetto alla squisita delicatezza che avrei per mia madre, se mi trovassi nella dura necessità di farle una lezione indispensabile, un doloroso e pesante richiamo. Possano esse essere accettate con una docilità ed una sommissione dolcemente illuminate e dirette dalla grazia. – Più che mai vorrei aver la soavità di Gesù, per dire tutto quel che debbo dire in suo nome, a delle anime belle, trascinate dalla vertigine d’un mondo seduttore. Quando il sole cade dietro le montagne, sembra che porti con sé la bellezza delle cose, l’armonia delle linee e dei colori. I più bei quadri della natura, i sommi, come i minimi capolavori della creazione, si cancellano, ingolfati in un impenetrabile abisso di tenebre.  – V’è un Sole che non si contenta di render sensibile al nostro sguardo la beltà intrinseca delle cose, ma che è esso stesso! la sorgente di ogni bellezza morale e spirituale: questo Sole è Gesù. Chiunque non gravita attorno alla sua Legge ed al suo Cuore, non può percepire le sublimi altezze d’un’anima cristiana, la sua nobiltà, la dignità sua, i secreti tesori di uno splendore intimo che rapisce gli Angeli; e vive allora necessariamente nelle tenebre. Nell’ordine della natura, vi sono le stelle che di notte brillano di luce propria, come per vendicarsi di essere state eclissate dallo splendore del sole. Ma nell’ordine morale, le stelle, voglio dire le anime che possono esser luminose e belle per se stesse, senza Gesù Cristo; radiose fuori di Lui, caste e nobili, disconoscendolo, di queste stelle, dico, non ne possono esistere. Noi potremmo, parlando di bellezze morali, distinguere due categorie: una, fatta di quei fiori il cui succo avvelenato dal peccato, nel Paradiso terrestre, è stato come guarito sul Calvario, dal Sangue del Cristo; l’altra fatta di fiori, per così dire, creati dalla Legge Evangelica, nati nel Cuore di Gesù, fiori squisiti dell’umiltà, e soprattutto della castità, della purezza e della modestia. – Il miracolo d’amore della Risurrezione fu coronato da un altro miracolo, unico nella storia, quello di una verginità feconda. Sembra che Dio abbia voluto inaugurare l’èra cristiana in un’atmosfera fino allora sconosciuta, quella della purezza. Da allora, la castità personificata e incarnata, rimarrà il prototipo della bellezza morale. Essa è, nel suo splendore, una creazione, una sublimità divina e inconcepibile: Maria Immacolata. Il naturalismo fu il primo serpente schiacciato dal suo piede verginale. Lo splendore immacolato della Regina dell’amore, non è che il riflesso della santità del Re, suo figlio; ora, chiunque ama Gesù e l’adora, deve anche rassomigliare a Maria: il suo spirito, il suo cuore, come la sua carne, devono tendere a raggiungere la verginale purezza di Lei. Soltanto i cuori puri vedranno Dio e riceveranno Gesù dalle mani della Vergine Maria. – Ecco la dottrina, il principio cristiano. Ma quando consideriamo la società, noi constatiamo che siamo ritornati al paganesimo immondo della antica Roma e di Atene. – L’affermazione non è ardita né personale: ma si appoggia su testimonianze evidenti; si basa su fatti innegabili. – Questo ritorno ad un passato che non aveva conosciuto Gesù, dopo venti secoli di Cristianesimo, non è tuttavia un fenomeno anormale, ma una logica conseguenza della « scristianizzazione ». Le tenebre, le bruttezze morali ci avviluppano come una fitta nebbia, perché la famiglia e la società allontanano da sé il Sole Divino che feconda e conserva ogni bellezza morale; quella del fanciullo, come quella della madre. V’è peraltro qualche cosa di strano e di allarmante, nella evoluzione nefasta del costume e delle mode: è la larga parte che vi occupa, da qualche tempo, l’ambiente cristiano, il mondo cattolico. Sì: e tutta l’amarezza delle nostre riflessioni sorge da questa dolorosa constatazione: con grande e felice sorpresa dei rilasciati che ci spiano e ci criticano, un certo numero di famiglie che credono, pregano e hanno l’etichetta di Cattolici, sono, da qualche tempo, tocche e contaminate da questo naturalismo degradante ed estremamente pernicioso. – Si è sempre visto, in ogni tempo, lavorare il male alla sua opera di seduzione: ma i suoi operai naturali non erano, fin qui, che gli amici d’un mondo basso e volgare, la cui influenza era mediocre. Vi sono state in ogni tempo delle mostre destinate all’ufficio di diffondere l’immoralità, di far la « réclame » alle novità perniciose (con le quali si riesce spesso a far fortuna). L’inferno ebbe, ed avrà sempre, i suoi agenti di perdizione: lasciamoli passare, ed abbassiamo gli occhi, con la pietà nell’anima. Questo male, troppo comune, ahimè, noi lo sorvoliamo, per fermare lo sguardo sull’evidente rilasciamento esteriore dell’ambiente sinceramente cristiano. Non vogliamo analizzare la vita interiore, la coscienza intima del Cristiano; ma condannare una pubblica manifestazione di collettiva spudoratezza; ma elevarci contro una licenziosità di abitudini, di costumi, di mode, il cui credito è dovuto alla malaugurata debolezza delle famiglie cristiane. – Siamo ancora a tempo ad arginare. questa corrente di fango, prima che essa abbia invaso tutti i salotti ed avvelenate tutte le manifestazioni della vita sociale moderna. Non è veramente doloroso veder vestite come persone frivole la Signora X… e le sue figliole? Eppure esse si comunicano spesso e fanno il loro ritiro annuale! eppure sono delle eccellenti persone… Illuminale Tu, Gesù! Non è da meravigliare che un’altra madre cristiana abbia condotto le sue figliole ad una rappresentazione teatrale scabrosa, ove siano scene disgustose per la loro cruda realtà, scandalose per la loro indecenza? Ne son rimaste forse sorprese e dispiacenti? No, perché avevan già letta la produzione disonesta! E domani, nonostante quel po’ di scandalo, nonostante l’errore della loro presenza al cattivo spettacolo, esse probabilmente andranno alla Comunione… Forma Tu stesso la loro coscienza, Gesù!

Non è forse cristianamente inesplicabile veder su quella spiaggia mondana, adagiate nei liberi atteggiamenti dei bagni di sole, le signorine tali e tali? La loro conversazione è molto animata. Le frasi vive e leggere come delle palle di tennis, si scambiano col gruppo dei giovanotti che le circondano. E le loro toilettes, che sarebbero al massimo permesse sott’acqua, appartengono tuttavia ad un pubblico che si chiama rispettabile. La mattina quasi tutte erano andate in Chiesa, ed hanno protestato il loro amore a Gesù-Ostia. E se si fosse presentato ora là, questo Gesù, Dio di santità? … Novelle Eve colpevoli, come sarebbero fuggite vergognose e confuse, per sottrarsi allo sguardo divino che condanna ogni impudicizia…

II. – Mentalità moderna – Sue cause

Che pensare d’un’aberrazione talmente inqualificabile? Non è forse un segno dei tempi?  La fiaccola del male entra nelle case dei buoni; e ciò comunemente; qui, là, dovunque… Gesù ne ha il cuore ferito. La Chiesa geme e protesta invano! Per quel certo mondo, le tavole della Legge giacciono in pezzi, e non è davvero la Chiesa che le ha spezzate,  come Mosè… – « Ci vorrebbero, scrive un polemista cristiano – molta più  unità e logica pagana e mondana. » È vero re perché noi non abbiamo nell’insieme quella coesione e questo modo di ragionare profondo, dobbiamo assistere ad una  resurrezione della Roma pagana. Ma essa non consiste tanto nelle diverse manifestazioni dell’arte, pittura, scultura, ecc., quanto nella vita sociale: e questo è peggio. Niente da meravigliare, certo che questa rinascita furiosa del paganesimo, si ripeta in differenti epoche, come il cratere di un vulcano infernale che sì riapra; ma è assai preoccupante constatare che i suoi gas, mortalmente asfissianti, abbiano penetrato fino alle porte chiuse dei focolari cristiani. Qual è dunque la spiegazione plausibile di questa ibrida mescolanza di pietà e di vita sociale frivola; di buona volontà intima, e di scandalo esteriore, di comunioni frequenti e di costumi licenziosi? –  Per rispondere, torno ad un’affermazione del capitolo precedente, che qualcuno può aver trovato strana. Il Giansenismo disseccò l’amore di Dio nei cuori e soppresse, nel focolare domestico, l’impero di Gesù. Bandì il Re d’Amore e lo sostituì con un Cristo severo, con un Dio terribile, schiacciante, tonante come Giove. Per molto tempo, un certo nucleo di Cattolici ha vissuto di Giansenismo. Questa camicia di forza doveva cadere e cadde finalmente. Noi assistiamo da qualche tempo agli eccessi della libertà, alla sfrenata licenza di una società, che vuole inconsapevolmente rivalersi d’aver vissuto troppo lungamente sotto la pressione d’un terrore religioso pseudo-cristiano; La menzogna non è mai un elemento di educazione morale. Io dicevo anche che la mancanza d’una carità forte, vigorosa, in quelle famiglie avvelenate dal Giansenismo, aveva provocato una educazione artificiale, formalista, che non poteva durare. Convenzioni religiose. d’un rigorismo assurdo e troppo spinto, educazione senza base, senza vera conoscenza del Vangelo, senza l’Anima e il cuore di questo Gesù evangelico ed eucaristico. Ecco dunque almeno  in parte, la ragione d’essere di queste famiglie, cattoliche di titolo ma pagane di costume, di abiti e di godimenti, nella vita sociale. I cattivi vi sono forse in piccolo numero. ma i deboli, i profondamente ammalati vi abbondano. Noi risentiamo soprattutto delle mancanze di Eucarestie, nel sangue di molte generazioni cristiane, istruite nel Catechismo, ben imparato a memoria ma mai vissuto, nello spirito, per amore.  E poiché il Sangue del Salvatore non corre con sovrabbondanza nelle vene dei nostri Cristiani, perché non s’è fuso col sangue di tante famiglie cattoliche, non c’è oggi in noi, la forza di una energica e coraggiosa reazione. – Lo sappiamo: senza Gesù-Ostia, nessuna vita interiore, nessuna energia morale per la lotta; nessuna castità possibile, né nella carne né nello spirito. Che l’acqua scorra sulle fronti, ma che il Sangue Divino scorra anche nelle vene! La forma religiosa non esiste senza essere animata da un amore ardente. Esso è l’anima della nostra anima, ed è la grande carità che civilizza, non già la superficie, ma il cuore degli individui e delle società. Con la cittadella cattolica così minata, non era difficile farla diventare la preda dei mondani e metterla, dopo qualche sforzo combinato di prudenza e d’audacia, alla stregua del secolo dissoluto. – Non ci manca davvero molto, fra noi, per giungere all’apoteosi di Venere. Essa è l’idolo vivente verso il quale la sommissione è cieca alle sue leggi tanto nelle vie, quanto nella famiglia e nel mondo.  Il gesto rituale alla dea non è ancora compiuto di fatto; ma il culto è già reale. Eravamo ad una funzione di riparazione. In una tribuna di Chiesa che loro era riservata, in considerazione della casta e della condizione sociale che occupavano nelle opere cattoliche della città, io vidi un gruppo di Signore molto raccolte, ma il cui assieme sarebbe stato francamente scorretto anche fuori di Chiesa. Siccome la cerimonia si prolungava, esse si ritirarono per assistere ad un ballo in un albergo, il cui scandalo degli abiti e della danza era quanto mai notorio, ed era stato, per parte della autorità ecclesiastica, il tema obbligato della censura dei quaresimalisti… – Non è questa una penosa disfatta per Gesù e per l’Immacolata, che delle donne cristiane cioè, escano calme e soddisfatte da una festa di riparazione per andare senza indugio, senza apparente rimorso, ancora fragranti dell’odore dell’incenso, a partecipare ad una riunione, dove si sa che il Maestro sarà flagellato? E non è anche un fenomeno morale degno di studio?  Non si può supporre « a priori », che tutte le persone che agiscono così, vogliano volontariamente, consapevolmente il male, e che vogliano accrescerlo con lo scandalo: no. Che non si dica peraltro che il dovere di piacere al marito sia ordinariamente la causa del contegno e dell’atteggiamento frivolo e mondano. Nell’ambiente sinceramente retto di cui parliamo, si potrebbe, la maggior parte delle volte, metter sulle labbra dei mariti quel che mi diceva uno di loro, riguardo a certe conferenze che dovevo fare alle Signore: « Dica loro, Padre mio, dica loro ben chiaramente che i mariti, anche quelli che son poco religiosi, ratificano la legge divina che vuole che le nostre spose fuggano il lusso, la vanità, la spudoratezza. Noi lo vogliamo per interesse di onore umano e sociale, molto più che per interesse economico. Insista, faccia loro questa grande ed urgente carità. Ne conosco qualcuna che ha già compreso… Lei non perderà certo il suo tempo… – Sono rari i mariti che non hanno questa mentalità. L’assenza di una vera e profonda carità nella educazione cattolica, ci ha condotti a questo stato di paganesimo. Si è vigilato con diligenza alla formazione dello spirito, si è stabilita la conoscenza speculativa. Dei grandi principî, ma sì è troppo trascurato di formare il cuore all’amore del Salvatore. Si è considerato come un accidente quel che è una sostanza; sì è mostrato il Vangelo e dettato la Legge, ma non s’è abbastanza diretto il cuore nella via dell’amore, e della confidenza verso il Legislatore di luce e di carità verso l’adorabile persona di Nostro Signore soprattutto nel Santo Sacramento. Senza questo amore senza la sua potenza morale, si possono sapere molte cose senza viverle. La conoscenza della teoria non fa che rendere più colpevoli quelli che non vi si uniformano nella vita pratica. – Bisogna amare Gesù Cristo per osservare pienamente la sua Legge ed il suo Vangelo. Infatti, nella vita sociale, in moltissime circostanze è quasi impossibile resistere alla corrente mondana e frivola, senza la base di un amore serio, intimo, fervente. Bisogna rendersi conto del tempo e delle circostanze, per apprezzare il dono di forza morale che suppone spesso, in una persona del mondo, il fatto di opporsi al disordine della società seducente che lo circonda. Ecco perché in questo caso, più che criticare, compatisco. Rendersi indipendente è spesso senza che ci se ne avveda, un eroismo segreto. Ma questo eroismo non sarà mai se non il frutto di una santa passione d’amore per il Maestro adorabile. Solamente col possesso del suo Cuore, si possono sfidare il mondo ed i suoi sarcasmi: non altrimenti. Guardate i meravigliosi sacrifici di dignità morale cristiana, che la fidanzata ottiene dal fidanzato, quando essa sia una giovanetta veramente pia, consapevole dei propri doveri e della responsabilità cui va incontro nell’avvenire. Guardate reciprocamente, quel che il giovane ottiene da lei, in omaggio alla loro affezione: l’astensione da certe riunioni mondane e dall’avvicinar persone frivole e volgari: un cambiamento di abitudini e di contegno… e così via. Il cuore comanda ed è obbedito. Oh, se il Cuore di Gesù avesse questa Sovranità vittoriosa! L’applicazione di questo metodo, in un ordine molto più elevato, trattandosi d’amor divino, farebbe dei Santi nelle schiere dei più eletti Cristiani. E. nello stesso modo che il Dottor Angelico « ha potuto dire che la pace più autentica e reale, si raggiunge più con la carità che con la giustizia » (Citata da S. S. Pio XI nell’Enciclica Ubi arcano Dei Consilio), così si può affermare che l’insieme della vita cristiana si incoraggia e si vivifica molto più che dalla conoscenza dei diritti di Dio e delle sue Leggi, dalla carità, dall’amore che ci porta verso Colui che ha stabilito questi principî e che ne è il fondamento irremovibile e la indefettibile sorgente. È vero che il meraviglioso sforzo soprannaturale di grazia che è il movimento verso il Cuore di Gesù, trascina a poco a poco le famiglie cristiane in questa via del verace amore, ma la vittoria sulla immensa maggioranza non è ancora compiuta.

III. – Profondità del male

Entriamo adesso in uno studio concreto di questo male di spudoratezza collettiva che diventa sempre più una regola convenuta, e di cui non si arrossisce più, di cui non ci si può neanche meravigliare di non arrossire, senza esporsi a passare per ingenui… o maliziosi od eccentrici. Non perdiamo di vista che il nostro studio riguarda coloro che son ritenuti, e non senza ragione, Cattolici convinti e praticanti. Nell’età d’oro del nostro tempo, il pudore era considerato come un angelo vigilante e venerato; come una vergine di celestiale bellezza, ed era ambito fra le più belle virtù. Poi divenne, con la sventurata evoluzione dei tempi e con l’indifferenza religiosa, una semplice vestale che le famiglie meno cristiane tolleravano con freddezza. Nel periodo di rinascimento pagano in cui viviamo, Venere regna senza rivali… II pudore non è più ai giorni nostri, la vergine cristiana, e neppure la. Degna vestale. La si tratta come una « vecchia zitella » decaduta, antiquata, le cui ridicole esigenti pretese non si adattano più alla nostra epoca di emancipazione, che intende liberare la donna da pregiudizi assurdi e caduchi.  Il vecchio adagio cristiano diceva che la donna deve essere onesta e deve anche mostrarlo. Se ai nostri giorni ella deve esserlo nello stesso modo, non ha però più bisogno di mostrarlo, per essere ricevuta, stimata e ammirata. Il fondo intimo della coscienza è un affare privato, si dice; quanto alla fama esteriore, modesta, pudica, questo non ha nulla che vedere con la coscienza. Che triste aberrazione! Povera morale, tanto lontana dal Vangelo. L’immodestia non è più un peccato: così ha decretato un certo mondo, (e qual mondo!) Essa è snobismo, eleganza, igiene! Così parlava Venere… e la sua corte s’è allargata con grande scapito della virtù. – Questa bruttura ed abiezione morale ostentate, erano prima le caratteristiche di una certa categoria di persone. assai poco rispettabili, ahimè, e che certo, allora, non dettavano legge. Oggi invece esse dettano il contegno nella via, nei ricevimenti, nei teatri, nell’estate e nell’inverno. Costoro hanno, con forbici diabolicamente malefiche, diminuito, tagliato, soppresso, come hanno voluto, dispoticamente, costantemente, determinando le dimensioni e le fantasie della moda. Una parte dell’elemento onorato e cristiano, si piega alle loro pagane novità, e spoglia inconsapevolmente Gesù della sua tunica, di quel Gesù già flagellato dai suoi nemici, per flagellarlo un’altra volta e più crudelmente, con le mani dei suoi stessi amici. – Le frivole lanciano la moda… ma troppo numerose sono le virtuose e le serie che la pagano e l’accreditano dinanzi alla società. I fatti che stanno a mostrare l’inesplicabile accecamento, hanno provocato, a più riprese, gli anàtemi del Papa e dell’Episcopato del mondo intero. In Polonia, come in America, nel Belgio come nella Spagna, in Germania come nella Svizzera, e in Austria, ed in Francia, i Vescovi hanno parlato tanto forte e chiaramente, come l’avevano fatto in Italia; ora, sarebbe insensato credere che tale uniformità di riprovazione non abbia altra base che una fantasia eccitata, o degli scrupoli da disprezzare. Se i nostri Pastori, i Vescovi hanno dovuto imporre regole di modestia, anche alle persone pie, che frequentano la Chiesa e s’accostano alla Comunione, ciò significa che le leggi generali di convenienza. non bastano più! … E queste regole di modestia devono essere applicate anche un po’ largamente, per non creare costantemente dei seri inconvenienti nella casa di Dio… Noi siamo dunque in questa crisi di pudore, in presenza di uno squilibrio morale collettivo. Poiché la legge cristiana obbliga tanto alla modestia esteriore, quanto alla interiore purezza, e la mancanza della prima, aggiunge alla colpabilità, la terribile responsabilità dello scandalo: la provocazione al male. Ecco una testimonianza schiacciante del potere del peccato d’impudicizia. Un giovane di buona famiglia si trova convalescente dopo la grave malattia che lo ha trattenuto, a letto in una clinica, per oltre tre mesi. Quanto prima, dunque, esso potrà ritornare a casa sua. Il medico primario, grande amico della famiglia, ha il diritto, e sente il dovere di fargli una lezione di morale. Come medico, ha un’autorità incontestata, e ne approfitta per parlare chiaramente al giovanotto: « Lei conosce già, per dolorosa esperienza, ove conducano le mondanità pericolose; adesso, si tenga in guardia; prenda delle ferme risoluzioni ». Ascoltate la risposta sfolgorante di verità del povero convalescente: « Dottore, grazie! Ma perché Lei, medico, non può salire in cattedra e dire anche alle signore e alle signorine che si chiamano oneste e che lo sono forse nell’intimo, di esserlo molto, molto di più anche all’esterno? Perché anch’io, senza uscire dall’ambiente rispettabile della mia famiglia e della cerchia delle mie relazioni, io trovo già ad ogni passo, fra quelle che sono, senza dubbio, le migliori, il fuoco che brucia le vene… e che finisce un giorno per irrompere nella foga della passione. Grazie, dottore; ma poiché Lei è Cattolico, parli ai Sacerdoti, dica che non si contentino delle buone intenzioni delle persone virtuose, ma che fustighino e condannino la loro immodestia del vestire e del contegno, inconsapevole, voglio crederlo, ma pericoloso per chi le avvicina o deve viver con loro. Esse forse andranno in paradiso, ma senza pensarci, lanciano noi, talora, nell’abisso ». Tale quale il coscienzioso dottore me lo ha trasmesso, io, predicatore ed apostolo, lo ripeto a quelle che, essendo rette dinanzi a Dio, non sembrano altrettanto di esserlo dinanzi alla società, ed incorrono perciò in tremende responsabilità. – Non dimentichino esse che la modestia è, nello stesso modo che una virtù privata, una inestimabile ed imperiosa virtù sociale. Dobbiamo forse contribuire e possiamo farlo impunemente, alla caduta del nostro fratello? Ora, la immodestia per sé stessa, come ho già detto, è un’eccitazione al male più pericoloso, perché più seducente; e questo non è soltanto vero per le persone pervertite, ma anche, starei per dire, soprattutto per quelli, più numerosi che non si creda, la cui natura, nonostante i loro sforzi, è anemizzata, malaticcia, propensa al male. Tutti portiamo il tesoro della virtù in un vaso prezioso, ma fragilissimo: coloro che affermano il contrario, mentono. Questo vaso, bisogna portarlo e farlo portare con una prudenza e una delicatezza di carità veramente cristiana, perché la carne è debole. Noi viviamo sotto un regime cristiano, nel quale la modestia è un principio stabilito da intima virtù e di dignità sociale esteriore. La società dunque, ha il diritto di reclamare quando, mancando a certi elementari riguardi, si fa mostra di brutture morali che non sono lezioni di onestà e di virtù, soprattutto per la generazione che cresce, che formerà la società di domani. D’altronde, noi sappiamo troppo bene che questo male è una fiamma che divora rapidamente il più bell’edificio morale. – Ricordate l’orribile battaglia dei laghi Masuriani? Migliaia e migliaia di russi, caduti in un’imboscata, perirono nei pantani simulati, affogando nel fango, e divorati dai rettili. Lo spettacolo di quei reggimenti incalzati dalle baionette fino al fondo dell’abisso, annegantisi sotto il peso delle loro stesse armature, dovette esser terribile. Questa stessa battaglia, senza molta resistenza, ahimè, si continua ancora, pur troppo. Il mondo spinge con le sue critiche pungenti, l’elemento rispettabile cristiano, che il rispetto umano travolge. Da tutte le parti, sono le paludi fangose che minacciano d’inghiottire i reggimenti delle giovani generazioni. È tutto un piano strategico, mirabilmente ed accuratamente elaborato da satana, in perfetto accordo con gli uomini del progresso, i grandi luminari e superuomini del secolo. Guardate come sono strette le maglie di queste reti mondane! Guardate come la battaglia pagana continua, coinvolgendo spietatamente nei vortici del rilasciamento. La Chiesa porta ai giorni nostri il grande lutto dei suoi migliori perduti. Studiamo dunque brevemente le insidie ed i pericoli della mondanità moderna.

IV. – La moda

Essa è un’autorità ordinariamente nefasta, arbitraria, molto spesso immorale. I protestanti avevano inventata la papessa Giovanna, un essere di finzione detestabile, una favola mille volte assurda. Io credo di aver scoperto una papessa reale, di una autorità mondiale, infallibile per i suoi adepti e che facendo fronte ai Pontefici ed ai Vescovi, distrugge, con un solo suo decreto, una parte della legislazione cristiana: è la papessa – Moda. Io le riconosco tutta la sua indiscutibile e triste autorità, che sopravvive in grazia a coloro che sono inclini all’imitazione per la propria stessa natura e per un vano rispetto umano. Tuttavia, nonostante quelli che dicono che il parlare contro di esso, sia una perdita di tempo, più di una volta, con la grazia di Gesù, credo di essere riuscito a far distruggere i suoi decreti di ignominia. La moda siede di diritto in due o tre grandi capitali, ma di fatto, percorre il mondo, assoldando le sue vittime per l’inferno, in tutti i paesi. La condizione attuale, indispensabile per ottenere i suoi favori, con il titolo di elegante, è di abbigliarsi appena dell’indispensabile e più ancora… per produrre l’impressione che sì è vestiti, senza esserlo. San Girolamo lo diceva già, quando rimproverava questa licenza alle patrizie convertite: « i vestiti di seta tessuti d’oro coprono i corpi senza vestirli ». lo concepisco l’esistenza della moda ed ammetto che per ragioni di estetica e d’igiene essa cambi e vari i suoi modelli secondo le stagioni, i gusti, i paesi. Comprendo come essa faccia spendere dei milioni, quando essa stessa li divora. Io mi rendo conto delle esigenze del secolo e della raffinatezza che esso ha potuto apportare in tutto. Ma è cosa biasimevole e inaccettabile che la Moda si faccia un veicolo per l’inferno; che sacrifichi al culto di Venere, il candore, la modestia, la bellezza morale delle famiglie cristiane. – Signore Gesù, tu ami talmente i fiori di giglio, che ne hai affidato la cura a tua Madre immacolata! – Come ne restano pochi di questi fiori ai giorni nostri! Come è facile il contare le giovinette pie, quelle cioè che santamente pure, rifiutano di bruciare l’incenso della loro delicatezza e della loro dignità di cristiane, davanti alla Dea! Tuttavia, le regine non dovrebbero vestirsi come le schiave… Eppoi, quando le figlie di Maria hanno perduto il valore di questo fiore di neve, di questa beltà caratteristica della Madre loro, di questo celestiale riflesso di candore, chi potrebbe renderle mai più rassomiglianti agli Angeli? Ahimè! se in una festa data da gente scelta e cristiana si presentassero due regine: Maria Immacolata e… Venere, io credo pur troppo che la Vergine Purissima non potrebbe riconoscere le sue figliole… « Regina dei gigli, Santissima Madre, oh! fa vedere a quelle che ti proclamano il loro amore, che non te lo confermano mentre sempre con le loro azioni, fa vedere che v’è una virtù tanto cara al tuo Cuore che non sarà mai abbastanza praticata: la modestia « Conserva il loro candore e la loro purezza ». La moda comanda con tale audacia « le si obbedisce  con tale sottomissione che il conflitto fra i diritti di Dio e quelli che essa si arroga, giunge finanche ai piedi dell’altare. – Molti giornali si occupano di questo, il che prova che molte donne pie, pur senza essere cattive, sono spesso incoscienti. Ad  X… si parla molto, in società, d’un incidente avvenuto nella Chiesa del G. Il giorno della festa di S. I. il Cardinale B. celebrava in quella Chiesa una Messa solenne alla quale molte nobili signore erano venute pe ricevere la S. Comunione dalla mano del Porporato. Ma esse avevano dei vestiti piuttosto da teatro che a Chiesa. Al momento di scendere dall’altare, per dare la Comunione, il Cardinale se ne accorse, e rivoltandosi verso l’altare, ripone il ciborio nel Tabernacolo. Poi,   nuovamente rivolo verso il pubblico, cominciò a palare. Che cosa disse? … Quelle signore avranno lungamente nella memoria la sua veemente apostrofe. Quel che egli disse, lo disse in tono tale che esse lasciarono immediatamente la Chiesa, inseguite fino alla porta dalla parola del Cardinale, indignato che delle donne osassero venire ad inginocchiarsi all’altare, con un vestiario da concerto, da teatro o da ballo… E veramente non troviamo eccessiva l’indignazione del Prelato. – Ho detto: autorità nefasta, tirannica, della moda; ed aggiungo, dispotismo. Essa non nasconde più — ed è molto meglio — le sue tendenze pagane e scandalose, essa confessa chiaramente la vera ragione dei vestiti troppo corti, delle stoffe trasparenti. Io mi permetto ancora di stralciare da una rivista elegante e diffusa, sfogliata a caso nel parlatorio di un istituto d’educazione, questo brano suggestivo: « Alcuni ballerini entusiasti hanno organizzato, l’estate passato, dalle undici a mezzogiorno, sulle spiagge di moda, il tango-aperitivo che si ballava in costume! È naturale che le sarte si siano occupate della creazione di abiti da ballo « sensationnels » « deshabillants ». Il tango, che si ride degli anàtemi, continua la sua carriera brillante, ma esige un vestiario appropriato al ritmo lascivo della sua cadenza ». Considerate il cinismo di queste parole! – La pubblicazione citata, è fatta per un ambiente onesto… Notate questo, famiglie cattoliche, e rileggete: il tango si ride degli anatemi… Ora voi sapete benissimo che i Vescovi hanno elevato all’unanimità la loro voce per condannare e proibire il tango, il fox-trott, ecc. Il Santo Padre stesso li ha testé interdetti. Ridetevene, dice il mondo, acclamate la Venere trionfante!… Autorità nefasta che altera i cuori e falsa la coscienza.  – Ascoltate questo strano incidente: Dopo aver assistito ad una Messa solenne in onore della Santissima Vergine, patrona di una confraternita molto in onore nell’aristocrazia della città, una signora e la sua bambina di quattordici anni vanno in un grande negozio di moda. La madre esamina molti modelli e infine ne sceglie uno, ma al momento di provarselo, sente in sé un rimorso molto giusto: quello di scandalizzare la figliuola. Allora, piuttosto che rinunziare al modello, le dice: « Vai in fondo alla sala, figlia mia, e voltati verso il muro » Oh! che una fanciulla non possa vedere sua madre, senza essere turbata, e che la madre lo riconosca senza rimediarvi! Che deviazione inaudita del più profondo senso morale, che, negli umili come nei grandi, è dappertutto una luce di natura! A quale cataclisma morale siamo per arrivare? – Un sintomo di questa allarmante decadenza è, da qualche anno, la profanazione del candore delle ciulle da 7 a 15 anni già vestite con delle acconciature in completo disaccordo con le regole elementari della morale e della modestia. La moda aveva per molto tempo rispettato l’innocenza verginale delle piccole; questo rispetto oggi non c’è più. Eppure, si son viste arrossire di sé stesse, piccole innocenti, in presenza di persone rispettabili cercare istintivamente di coprirsi, e restare confuse di non averne la possibilità materiale. È crudele e disgustoso, certamente, perché l’infanzia è sacra. Ora l’abuso può diventare scandaloso e « guai a colui che scandalizza uno di questi piccoli che sono miei », dice sempre Nostro Signore. –  Il grave peccato non consiste solamente nel fatto, tuttavia tanto condannabile, dei vestiti troppo corti, ma nella perdita del pudore, della delicatezza femminile, per l’abitudine contratta della nudità. Dove saranno, ohimè!, le nostre piccole Agnesi tredicenni, che soffrono il martirio, che versano il loro sangue per conservare il loro fiore verginale? Come le norme fisiche, così quelle della morale si apprendono dalla prima infanzia. Come sono felice di poter dichiarare ai Cattolici che leggeranno queste pagine, che S. S. Benedetto XV si è degnato, non soltanto di benedire, ma di incoraggiare risolutamente la campagna che difende la purezza delle famiglie cristiane, contro le audacie dell’odierno paganesimo. Ecco un estratto dell’autografo pontificio. È ancora la voce di Gesù che difende i suoi piccoli: « Il formidabile torrente di vizi, che inonda la società moderna, riceve un funesto appoggio da questo abuso che è la moda incedente. E questa moda, per la negligenza, o peggio ancora per la vanità colpevole di tante madri di famiglia, si estende malauguratamente alle fanciulle, esponendo ad un gran pericolo il candore della loro innocenza. « Tuttavia, se simili calamità contristano il cuore paterno, siamo confortati d’altra part nel vedere sorgere felici iniziative, il cui scopo è di combattere questa frenesia di licenza nel modo di vestire » (Lettera di S. S. Benedetto XV al R. P. Mathéo). Se qualcuno, poco rispettoso dell’autorità suprema, osa discutere le parole sagge ed opportune del Papa, io gli rispondo con il seguente fatto, che dà una lezione chiara e severa.  Un venerabile curato incontra una fanciulla di tredici o quattordici anni, vestita secondo la moda attuale, senza calze, con una veste estremamente corta e leggera. La fanciulla, accompagnata dalla sua governante, va a fare la sua passeggiata in tale acconciatura. Il Curato è un vecchio amico della famiglia, ed ha anche preparato la piccola alla sua prima Comunione. Egli la ferma infatti, e le dice: « Va a dire a tua madre da parte mia di allungarti il vestito almeno fino al ginocchio ed anche di più, perchè tu non sei più una bimbetta. E le dirai che sono rimasto impressionato di vederti in una acconciatura così poco cristiana.  La fanciulla, che è molto intelligente e molto buona, fa, tutta commossa, l’ambasciata del Curato. Insiste, perché è perfettamente convinta che egli ha ragione: « Ho vergogna di uscire vestita come se andassi al bagno », dice lamentandosi. Ma la madre risponde: « che il Curato s’occupi dei suoi affari in chiesa, io m’occupo dei miei in casa mia ». La risposta viene riferita al Curato dalla fanciulla, dopo la lezione di catechismo. Ma ecco che qualche giorno più tardi la madre, da buona cristiana (!) va a comunicarsi, come era sua abitudine, alla Messa del Curato. Quando questi giunge davanti a lei, per la Comunione, passa appresso… Distrazione?… una seconda volta lo stesso… una terza egualmente… Oh! allora? La Messa è finita, la signora si precipita furente in Sacrestia ed investe violentemente il buon Curato, rimproverandogli il suo sorprendente modo di agire. Ma le parti erano cambiate: « Signora, vogliate pensare ai vostri affari, come è vostro desiderio, in Chiesa io mi occupo dei miei ». – Infatti, se il prete che ha il diritto di assolvere, non ha anche quello di indicare ciò che è contrario alla Legge del Signore, perché andare da lui a confessarsi? Termino con questa lettera che Sua Eminenza il Cardinale Mercier volle indirizzarmi, per riaffermare il suo appello lanciato alle famiglie cristiane per invitarle alla modestia: « Sì, Lei ha ragione: l’andazzo oggi in voga, per cui le madri imprudenti subiscono la tirannia della moda e denudano le loro figliolette, col pretesto dell’eleganza o dell’igiene, è colpevole e giustifica la sua riprovazione. Noi ci uniamo a Lei per supplicare le madri cristiane di ascoltare gli avvertimenti del nostro bene amato Pontefice, Benedetto XV, Vicario di Gesù Cristo, supremo interprete della morale cristiana. Educatori ed educatrici dell’infanzia e della gioventù considerate le vostre responsabilità. « Noi decliniamo la nostra, indicandovi il vostro dovere; voi non vi sottraete alla vostra, rifiutando di obbedirci » (Lettera del 10 gennaio 1921 al R. P. Matéo). – Ascoltate il lamento di Gesù: « Misericordia di me! Abbiate pietà di me e delle vostre anime, voi che vi piegate a tutte le esigenze pericolose della moda e che vi mettono in condizioni tali di provocare il male con condannabili sfrontatezze. « Misericordia di me: Abbiate pietà di me, mamme, spose e figliuole cristiane che io amo tanto. Non offuscate la vostra bellezza morale, facendovi ingannare da un miraggio di vanità mondana. Perché mi flagella, calpestando la mia legge Divina?… »

V. – Gli spettacoli

Roma pagana reclamava il pane… e gli spettacoli del circo. La società pseudo cristiana dei nostri giorni invoca anche essa a gran voce gli spettacoli. Essa non potrebbe farne a meno, ne è febbrilmente assetata. Io non condannerei, certamente, un teatro sano ed idealista, che potrebbe essere, a rigore, una scuola di virtù e di pensieri nobili, ma questo genere di teatro, ancora ricordato dai nostri nonni, non esiste quasi più. Il teatro moderno, invece, non dà che il quadro di passioni smodate e scandalose, e lo dà con una seduzione tentatrice. Con questi filtri diabolici esso abbellisce il peccato. La società moderna vi sì è assuefatta. Chi, oggi, si astiene da una rappresentazione, perché scabrosa e indecente? Una cerchia ben ristretta di Cristiani. Contro tale astensione vi è un rispetto umano molto più potente della delicatezza di coscienza. Far vedere di essersi privati, per scrupolo, da una rappresentazione, significherebbe essere indicati a dito da tutti. Quelli che osano affrontare la critica e che sì permettono di farlo valorosamente, quando se ne presenta l’occasione, sono una minoranza molto piccola. La mentalità attuale, d’altra parte, non permette più la critica sana. Qualche tempo fa si discuteva, in un salotto cristiano, intorno ad una scena veramente scandalosa. Un’artista insolente si era permessa di presentarsi in modo che io non posso dire. Ebbene, il pubblico l’aveva applaudita. Qualche famiglia indignata aveva abbandonato il teatro ed aveva attirato l’attenzione della polizia in proposito. Colui che raccontava il fatto era indignato contro un tale attentato al pudore. Ma di comune accordo gli si fece osservare che la cosa in se stessa non poteva avere nulla di speciale per essere additata alla censura, se nel teatro non vi fossero persone di età matura! Ciò significava dire chiaramente che tali spettacoli potevano essere permessi. Significava dire, in un modo molto farisaico, che la licenza, il peccato di impudicizia, la seduzione, la provocazione non esistono più, quando si sono varcati i venticinque anni! Dopo questa età che cosa se ne fa, l’uomo del sesto  e nono comandamento, e di tutto quello che essi contengono, come la purezza dello spirito, dei desideri, dei pensieri, ecc.? E ad eccezione di una sola persona, tutti in un salotto cristiano, pensavano egualmente e qualcuno portava anche come esempio che in Grecia, ai tempi dei famosi tragici, l’abuso di cui si parlava, era invece diventato un’abitudine. Che modo di pensare veramente cattolico, quello di cercare, dopo venti secoli di Cristianesimo, come scusa alle licenze della nostra epoca, queste licenze maledette ed abbominevoli in uso in Grecia e a Roma! Dopo venti o venticinque anni, è permesso di veder tutto, di sentir tutto… si è confermati nelle grazia!… – Quale bene immenso si potrebbe fare con le ingenti somme, sacrificate dai buoni in tanti spettacoli più che leggeri, frivoli e mondani… Bisogna reagire con coraggio ed ottimismo cristiano. Ma questa reazione deve cominciare dalla classe dirigente, perché il male, come il bene, discende quasi sempre da essa. Nel dire classe dirigente, voglio indicare soprattutto il fior fiore delle famiglie cristiane. Ad esse sta il decidere il gran conflitto morale dei nostri giorni, se il Maestro Gesù dovrà cioè subire ancora per molto tempo l’ignominioso flagello di cui la impudicizia lo rende vittima. « Misericordia di me: abbiate misericordia di me, voi che affollate gli spettacoli, davanti ai quali, secondo voi, tutto è permesso. Cessate di ridervi del sesto comandamento che io v’ho dettato. Fermatevi, figli miei! Oh! guardate alla luce del Tabernacolo; che torrente di fango, di frivolezza, di odiosa immodestia giunge come un insulto, quasi fino ai miei piedi divini! Esso minaccia la fede, i costumi del focolare, l’innocenza dei vostri fanciulli. Perché mi battete calpestando la mia Legge Divina? »

VI. – Divertimenti mondani – Danze

La vera vita sociale, vale a dire lo scambio sincero di relazioni degne, semplici e cortesi fra le famiglie, è un elemento di moralità, di educazione, nello stesso tempo che una barriera che regola, in una vita rettamente onesta, la legittima espansione dei nobili sentimenti di cristiana solidarietà. La vita sociale ben compresa, cristianamente vissuta, intensifica la vita di famiglia, e le impedisce di esser travolta dalla vertigine d’una vita mondana diametralmente opposta. La mondanità, con i suoi incalcolabili pericoli, nasce da una corruzione della vita sociale. Nella cerchia della famiglia e delle relazioni, quando non si trova più l’onesto riposo e la gioia legittima, il teatro, il casino ed il club offrono con successo, i loro frutti proibiti. Ai giorni nostri si vede un eccesso spaventoso di vita mondana a detrimento della vera vita sociale e di famiglia. Ecco perché le riunioni che vengono chiamate di società, sono nella maggior parte dei casi, delle riunioni mondane, ove la frivolezza e strane libertà comandano, procurando malsani divertimenti. Donde vengono questi balli « zoologici », come li chiama uno scrittore molto liberale? No, certo, da salotti distinti ed aristocratici. Le sale da ballo di alcuni casini ed alberghi molto volgari li hanno messi in voga. E come il vento fa penetrare negli atri più eleganti i detriti e le lordure della strada, così essi sono penetrati negli ambienti più distinti: hanno dovuto ben fare il giro di « halls » poco decenti e morali per ottenere il lasciapassare; ma si finisce sempre per concedere qualche cosa alle invenzioni dell’inferno… perché satana è più tenace ad attaccarci, che noi a difenderci. – La sconvenienza di tali balli è così sfacciata e il loro uso s’è così radicato, anche tra le persone rispettabili, che lo stesso Santo Padre ha dovuto protestare energicamente e riprovare con indignazione un tale andazzo. Ecco l’anàtema del. Sovrano: Pontefice: « Noi non deploreremo mai abbastanza l’accecamento di tante donne d’ogni età e di tutte le condizioni: invasate dal desiderio di piacere, esse non veggono fino a che punto l’indecenza del loro vestire turba l’uomo il più onesto ed offende Dio. La maggior parte avrebbero in altri tempi arrossito, come di un fallo molto grave contro la modestia cristiana: ed oggi non è per loro abbastanza l’esibirsi in tal modo nelle pubbliche vie; ma non sì peritano neanche di oltrepassare le soglie delle Chiese, di assistere al Santo Sacrificio della Messa, di accostarsi alla Comunione, portando là, ove si riceve il Celeste Autore della purezza, l’alimento seduttore di vergognose passioni. non parliamo di quelle danze esotiche e barbare, recentemente importate nei circoli mondani, una più indecente dell’altra: non si saprebbe immaginare niente di più adatto a bandire ogni residuo di pudore ». – Bisognava che l’abuso ed i pericoli fossero eccessivamente gravi, perché il Sovrano Pontefice fosse obbligato a precisare l’anàtema contro l’insieme delle mode e dei costumi particolarmente contro queste danze « esotiche e barbare ». Sembra veramente che Roma e l’antica Grecia, sepolte da secoli sotto la polvere dei loro idoli, rialzino la testa, e minaccino, con una rinascenza pagana, il Cristianesimo che aveva condannato inesorabilmente le passioni delle loro deità. Ed ecco che il nuovo Pontefice gloriosamente regnante, S. S. Pio XI, leva anche la sua autorevole voce: « Nessuno ignora come le frontiere del pudore siano state varcate, soprattutto nelle acconciature e nelle danze, dalla frivolezza delle donne e delle fanciulle, i cui abiti lussuosi eccitano l’indignazione dei poveri » (Enciclica: Ubi arcano Dei Consilio). « Le porte dell’inferno non prevarranno contro la Chiesa », è certo; ma si direbbe che in ogni crisi come quella che subiamo attualmente, l’anima cristiana, vale a dire il fondo cattolico dei popoli, è straziata dalle perfide tenaglie di questo modo, che crocifisse Gesù, e tende a rinnovare costantemente la sua Passione in mezzo a noi. Il peggio di tale sventura, non è il compito dei carnefici ufficiali di questo moderno calvario, ma l’inconcepibile cooperazione, ed il servile consenso dei buoni, degli amici… tolleranti e rilasciati… – Che pensare ad esempio del seguente episodio? Dopo la lettura, nella Chiesa parrocchiale di una spiaggia elegante, degli anàtemi del Papa, e d’un  vigoroso commento del Vescovo, lo zelante Curato dichiara chiaramente che i Cristiani che non si asterranno da quei divertimenti, non potranno ricever la assoluzione. Qualche giorno dopo, una combinazione è trovata, da un gruppo di pie (?!) danzatrici che vogliono, nondimeno, comunicarsi per la festa della Madonna. Si farà un’escursione, la vigilia della solennità, andando un po’ lontano, fino alla città di X… in un’altra diocesi. Là ci si confesserà, sfuggendo così all’anàtema; si tornerà un po’ tardi, per potersi facilmente scusare di mancare alle danze serali, e la mattina… comunione … E dopo la festa, si ricomincerà a ballare, e così… fino alla prossima festa! Non si chiama questo, prendersi giuoco della propria coscienza e dei giudizi di Dio? Non è voler procedere con alla destra l’Immacolata e alla sinistra il serpente del male, in un’alleanza impossibile quanto quella del peccato grave con lo stato di grazia? « Miseremini mei! Abbiate pietà di me, e anche delle anime vostre, voi che prodigate follemente il vostro danaro, la vostra giovinezza, la vostra salute! « Miseremini mei! Pietà di me, delle anime vostre, voi che perseguite i piaceri d’un’ora fuggevole, e vi stordite nella vertigine della passione sfrenata!

« Perché mi colpite, calpestando la mia Legge Divina? »

VII. – Costumi e libertà alla moderna

Che libito fe’ licito in sua legge » (Inf. V, 56 – NdT.)

Ebbi ultimamente occasione di incontrarmi con un uomo di raro talento, reduce da un viaggio di studio nel Giappone. Aveva vissuto lunghi mesi laggiù, studiando ed osservando i costumi. Vi aveva trovato cose notevoli, ma mi esprimeva, nonostante la sua ammirazione per una tale civilizzazione, questo rammarico: « Peccato che quel paese sia ancora tanto profondamente pagano! » E mi enumerava dei fatti e mi spiegava i costumi… Quando ebbe finito, io lo meravigliai dall’applicazione che a mia volta potevo disgraziatamente fare, delle sue critiche, ai costumi parimenti pagani dei grandi centri europei, delle spiagge e delle stazioni mondane, frequentate da un pubblico eletto e creduto cristiano. – Forse che il Giappone è più pagano, e soprattutto più colpevole nel suo paganesimo, delle nostre società convenzionalmente cristiane? Ahimè! Se i paesi del Levante son capaci di progresso, si direbbe che i paesi d’Occidente sono davvero, dal punto di vista del costume cristiano, i paesi del « sole che tramonta ». – Noi non possiamo ripetere in queste pagine, quel che, moltissimi dei! giornali più in vista annunziano in grossi caratteri e raccontano con particolari mostruosi … La leggerezza con la quale pubblicano quei grandi e piccoli scandali di costumi, l’inavvertenza con cui si leggono e ne parla, provano che si tratta di fatti abituali, quotidiani, generali, ai quali non si dà importanza, nella vita morale della società moderna. Ma per non citare che una manifestazione di questo paganesimo, parliamo di quello delle spiagge di moda. – Se qualche anno prima della guerra ci avessero fatto il quadro di una di queste Spiagge, con i relativi bagni di sole, le animate conversazioni sulla sabbia, e le danze « barbare » in maglia, avremmo immediatamente pensato alle terre infami di Roma e di Atene. E tutti avremmo condannato con indignazione tali costumi. In pochi anni appena, i tempi sono cambiati; e lo spavento annienta, pensando a questa giovane generazione formata nella frivolezza, e in conseguenza capace di produrre, quanto prima, frutti di sventura morale. – Convenite che se vi è una misura di dignità, e delle forme di convenienza e di virtù, per il contegno e l’acconciatura della donna, nelle vie o nei salotti, esse sono da applicarsi soprattutto alla spiaggia, e per una delicatezza che dovrebbe essere elementare, sembra che siano più necessarie sulla sabbia che altrove. Il pudore, è esso una virtù cristiana, o una semplice convenzione sociale: come quella di salutare con la mano destra, o di vestirsi di nero quando si è in lutto? Convenzione che si può dunque abolire o cambiare col tempo o per il capriccio di una società?.… Non è più adunque un immutabile principio di evangelica virtù, che la donna cristiana debba essere pura e che debba anche apparir tale, sempre e dovunque. Ma allora, come chiamare questa libertà che denuda e fa il gioco della più volgare immodestia, sotto il pretesto della moda o dell’igiene? Da quando in qua, la delicatezza femminile cristiana, è da considerarsi come una esagerazione di spregevole bigottismo, della quale, si possa disimpegnarsi e prendersi gioco? Il paganesimo non ha il diritto di rinascere, e la convenzione. e la morte non han diritto che al sepolcro! – Aspettando il Conte di… nella splendida sala della sua dimora, io guardavo le incisioni di una rivista reputata seria: ed ecco che trovo nel numero di agosto, una, due, tre vedute di una spiaggia mondana molto frequentata. Che indecenza di costumi! Che vergognosa licenziosità! Si leggeva, sotto quelle fotografe: « Scene deliziose della spiaggia di X …… – Bagni di sole e di « flirt ». « Un istante di riposo dopo il tango in maglia ». Prove pratiche che i vecchi pregiudizi scompaiono! « Pietà, Gesù!… » Leggo qualche rigo della cronaca mondana e trovo, fra le altre prove di audacia anti-cristiana, questo: « Quando fa molto caldo, si torna al bagno per la seconda o terza volta, la sera, sul tardi, quando le ombre del crepuscolo avvolgono già la spiaggia. Inutile dire che i giovani soprattutto aspettano con impazienza le ombre per godere d’una legittima libertà, che nessuno, ai giorni nostri, oserebbe criticare. Qualche anno ſa ci si sarebbe meravigliati delle cose che s’impongono all’epoca nostra, e che fanno il loro cammino come frutto d’una civilizzazione più raffinata. – Questa promiscuità senza scrupoli, é una felice innovazione che attira un mondo elegante alla spiaggia di K.…., come lo provano d’altronde le istantanee che riproduciamo più su ». Ancora una volta, pesate le parole insultanti e il cinismo delle affermazioni scandalose. – Ma il Conte entra: gli manifesto il mio stupore di vedere in una rivista che gode credito di onestà, delle fotografie di persone i cui atteggiamenti rendono certamente la loro moralità assai dubbia. Ed egli di rimando: « Oh, non lo dica, Padre mio; queste sono fotografie d’una società distintissima ed elegante. Ecco in quest’altro numero le mie tre figlie, mentre prendono il loro bagno di sole. Quei giovani che lei vede presso di loro, sono il fiore della nostra società » Pietà, Gesù! Il suo Cuore adorabile avrà trovato, io spero, una riparazione nell’angoscia, nello stringimento di cuore che provai sentendo un Cristiano (!) in così perfetto accordo col cinico cronista, vedendo un padre tanto cieco e noncurante della bellezza morale delle proprie figlie e delle insidie mondane tese alla loro virtù. Le spiagge mondane son luoghi malefici che hanno pervertito tanto le coscienze, quanto i cattivi spettacoli. Esse sono spesso il teatro sconveniente in cui gli attori sono proprio gli stessi Cristiani. Leggete questa osservazione d’un giornalista, tanto intelligente quanto coscienzioso: « Ero, qualche giorno fa, 1n una delle più eleganti stazioni balneari. Vidi passare a centinaia, donne giovani e adolescenti. Quante, fra loro, erano appena uscite da istituti di educazione tra i più rispettati del paese? Quasi tutte m’hanno fatto arrossire: molte m’avrebbero fatto piangere… » Così constata e parla un giornalista. Ma è anche il Vicario di Cristo che denunzia, costernato, questa disfatta morale: « In molti luoghi », dice S. S. Pio XI, « non si trovano più costumi degni di un Cristiano, a tal punto che non solamente la società umana non progredisce verso questo progresso universale di cui ci si glorifica abitualmente, ma sembra addirittura ricondurci alla barbarie » (Enciclica citata). « Miseremini mei! » Abbiate pietà. di me, e delle anime vostre, voi che vivete inebriati dai rischioso piacer d’una malsana sensualità! « Miseremini mei! » Abbiate pietà di me e anche delle anime vostre, voi che vivete la vita spensieratamente folle dei circoli, del salotto e delle spiagge mondane ». « Perché  mi batti, calpestando la mia Legge divina? ». Pietà del nostro Re! Non castigate come uno schiavo, Colui che è il nostro Dio!

VIII. – Rimedi

E, per chiudere questo capitolo, tanto penoso a scriversi, eppure tanto necessario per essere letto e meditato, noi faremo, in forma di corollari, alcune flessioni importanti. La prima sarà pet scusare in parte, un gran numero di questi colpevoli. Come spiegarsi infatti, la resistenza d’un nucleo tanto vasto di Cristiani alle prescrizioni della Chiesa, relative alla immodestia delle mode e ai divertimenti disonesti? La donna cristiana, in generale, tanto casta e pura, non vede e non può vedere quel che non comprende. Essa ha gli occhi limpidi e giudica con questa limpidezza il cuore e lo sguardo altrui. – L’innocenza è una celestiale beltà; ma essa è un grave rischio senza la docilità. La disobbedienza alle severe leggi della modestia, nasce dunque dal fatto che la donna e la giovanetta non comprendono il perché di tal severità, e la giudicano una « pia esagerazione ». Esse cedono alla vanità, al rispetto umano; fanno come le altre, forse con qualche piccolo rimorso, ma spesso senza la minima malizia. Questo è evidente. Ma non è meno evidente che il male cagionato da questa infantile incoscienza, da questa mancanza di sommissione alla Chiesa, è immenso e positivo, intorno ad esse e loro malgrado. Per discrezione, è impossibile dimostrarlo loro; ché si può entrare in certi particolari che offenderebbero la loro delicatezza. Ma occorre affermar loro decisamente, in nome di un’autorità divina, che esse debbono obbedire in coscienza ed integralmente. Io posseggo la copia di una lettera curiosissima e molto interessante. È firmata da una persona conosciuta ed è scritta da una giovinetta dall’anima molto onesta e retta: « lo sono giovane, ho venti anni; sono molto gaia ed amo pazzamente la moda ed i balli. Ho sempre considerato fino a questo momento le condanne lanciate contro i balli moderni e le mode attuali, come invettive esagerate e ridicole di gente bacchettona, di vecchie zitellone e di persone maliziose. Avendo sentito commentare la pastorale dell’Arcivescovo, sull’immoralità dei nostri odierni divertimenti, ho voluto leggerla, per curiosità. Questo le proverà che io non sono una cattolica praticante; non ho ancora fatto la prima Comunione. Ho dunque letto la Pastorale. Mi pareva molto strano che un prelato reputato così saggio e santo, potesse condannare severamente quel che ci diverte tanto comunemente. Ebbene, tutto quel che afferma questa Pastorale, è profondamente vero. Le dirò come ne sia stata pienamente convinta, in modo semplice e assolutamente inatteso. « Ero in viaggio: sentendomi poco bene, andai nel corridoio e là, in un vicino compartimento di lusso, sentii la conversazione di un gruppo di giovani della nostra società. Essi si scambiavano le loro riflessioni e le loro impressioni sopra i nostri balli, le nostre acconciature vaporose, le nostre mode poco modeste. Ho ascoltato sì, coi miei stessi orecchi, quel che non avrei mai creduto, se me lo avessero raccontato: in che modo, cioè, essi interpretavano e giudicavano maliziosamente le nostre maniere, i nostri atteggiamenti, le nostre innocenti famigliarità, la nostra libertà. Parlavano e ridevano forte, designando e nominando di quando in quando l’una o l’altra delle mie amiche. Con mio stupore, sentii nominare e giudicare ed accusare anche me, mentre la coscienza non mi aveva mai nulla rimproverato. « Quel viaggio decise del mio avvenire. Non soltanto non ballerò più e mi terrò discosta da una società di cui là, in quel vagone, era raccolto il fior fiore… ma da oggi decido d’istruirmi nella dottrina della Chiesa che veglia tanto amorosamente sul bene spirituale e l’onorabilità dei figli suoi. Sì, io mi avvicinerò ad essa; e diventerò la sua figlia sommessa e riconoscente per sempre. Ho compreso a che cosa portano le leggerezze; ho sentito cosa si poteva pensare di noi, ed eccomi convinta. Ah, se potessi mettere in guardia altre fanciulle imprudenti, candide, spensierate e incredule come me! » – Insistiamo sulla risoluzione finale: « Diventerò una figlia sottomessa e riconoscente alla Chiesa ». Ecco il solo rimedio, poiché la saggezza e l’amore della nostra Santa e dolce Madre, la Chiesa, fanno della sua direzione, una regola sicura e indefettibile di onore, di pace, di salute. Se la Chiesa, ed essa sola, ha il potere di dar l’assoluzione, essa sola in conseguenza è giudice nella determinazione di quel che è immorale e pericoloso. – Ah! se essa potesse, rompendo il suggello del segreto sacerdotale, divulgare le abominevoli conseguenze quotidiane prodotte dalla licenza sempre crescente! Se i Sacerdoti potessero dire tutto, come confonderebbero i più incuranti, i più increduli, i più ingenui di questa questione estremamente grave e delicata dei costumi e delle mode anticristiane. « Io vi faccio i complimenti per la vostra sincerità apostolica » mi diceva il dottore di una grande clinica, « ma se io dovessi giudicare, io direi tre volte di più, senza violare il segreto professionale ». – Crediamolo: coloro che gridano contro la malizia, quando noi tocchiamo questa questione, sono ordinariamente i più grandi, i più raffinati maliziosi!… Essi vogliono godere con disonestà a detrimento delle anime candide, in cui cercano provocare la rivolta contro l’autorità, a loro profitto. Ipocriti! Si scandalizzano essi, gli scandalosi, della nostra indignazione e perché noi vogliamo prevenire lo scandalo di cui essi godono e approfittano!… Ecco sempre coloro che accusano la Casta Susanna… per vendicarsene. – Un Cardinale Arcivescovo, cosciente dei suoi doveri e delle sue responsabilità, parlava molto chiaramente di questa questione in una recente ordinanza. Un giornale poco degno, nonostante, o forse a cagione della sua grande popolarità, osò rispondere,, domandando in tono ironico, come mai il Cardinale poteva essere al corrente degli abusi e dei misfatti condannati. In verità bisogna essere o molto povero di spirito o disonesto più che altro per fare questa domanda. Come mai noi siamo al corrente degli abusi scandalosi, se viviamo lontani dagli scandali? La risposta è semplicissima. Ad ogni istante, i feriti gravi, raccolti sotto l’infuriar delle mitraglie, vengono condotti dai portaferiti, nell’ospedale più vicino al campo di battaglia. Il capo dell’ospedale, un grande chirurgo, dopo lunghe e penose ore di lavoro, esclama sfinito: « Che orribile battaglia! che sanguinoso combattimento ». Un ufficiale gli dice: « che ne sa Lei dottore? Noi veniamo dal campo di battaglia e noi potremmo dirlo, ma lei, come può affermarlo? Ohimè, risponde tranquillamente il chirurgo, io lo so meglio di lei. Lei non ha visto forse che le sue ferite e quelle di coloro che le sono caduti vicino; mentre che centinaia di poveri resti umani sono passati per le mie mani… mutilati dalla mitraglia… alberi sradicati dalla spaventosa tempesta. Per tutto questo, per il fatto di essere sempre occupato e dover pensare a curare orribili ferite, io posso giudicare meglio di lei del furore… dell’uragano, della asprezza della battaglia. È il nostro caso: meglio dei mondani distratti, storditi, troppo abituati alle malsane mondanità, noi siamo in condizione ci comprendere a distanza, dal numero delle vittime curate nelle nostre « ambulanze e cliniche morali » quale è la potenza infausta e mortale dell’immortalità del nostro secolo. Nessuno meglio di noi è in istato di portare un giudizio equo sulla moralità sociale. Noi siamo la riva, dove approdano tanti poveri malati morali, tanti naufraghi, di tutte le età e di tutte le condizioni! Si viene a noi, con l’anima straziata, la confessione sincera sulle labbra, e con le lagrime che bruciano il cuore e gli occhi. Ma non si viene a noi mai troppo tardi, lasciatemelo dire! Non che il male deplorato non sia molto grave, ma perché il Cuore di Gesù è l’Onnipotenza di resurrezione morale. – Dopo quello di perdonare, noi abbiamo sempre il dovere di prevenire tanti mali, comunque dispiaccia al mondo, predicandone coraggiosamente i rimedi. Questo nostro dovere è tanto più urgente, quanto più ovunque si soffre, per mancanza di lume soprannaturale. Difatti è questo un segno evidente che si impone in questa crisi di pudore. Il senso morale della modestia e della purezza si affievolisce di giorno in giorno, diventa pressoché nullo. Gli occhi del Cristiano, ed a poco a poco la sua coscienza, s’abituano allo spettacolo del male, fino al punto di non esserne più turbati. Il pericolo è grave: insinuandosi nel cuore, può prenderci tutti. Già molti dei buoni blandamente addormentati dall’abitudine della rilassatezza sociale e degli spettacoli immorali, sono giunti all’indifferenza. Io ho anche trovato delle scuole cattoliche dove si era abituati a vedere i fanciulli con i loro vestiti poco modesti, la cui indecente acconciatura, non urtava più le maestre cristiane… – Se mancano i controllori della virtù, le sentinelle deste e zelanti, noi toccheremo il fondo dell’abisso. Non è vero, per esempio, che alcune mode, che qualche anno fa sarebbero state condannate, soltanto se viste in figurino, sono oggi accettate, generalizzate, a cagione di una tolleranza che degenera in abitudine? Uno dei più sicuri e caratteristici sintomi della lebbra è l’insensibilità degli organi. L’insensibilità morale è un sintomo reale della lebbra morale che ci invade vittoriosamente. « Guai! » ha detto il Signore, « a colui che scandalizza! » Se con piena giustizia, noi abbiamo osservato che la grande maggioranza delle donne e delle giovinette hanno una scusa, quella della loro ignoranza del male, sottolineiamo però molto chiaramente che le loro responsabilità restano gravi, dal momento soprattutto che esse hanno per guidarle, la materna difesa della Chiesa. Esse non potranno, con questo, scusarsi interamente delle loro colpe davanti al Tribunale del Dio di ogni purezza e di ogni giustizia, che ha affidato appunto alla Chiesa la cura delle nostre anime. Quante Cristiane deplorano i deviamenti e la mancanza di sottomissione nei loro mariti? Quante donne si lamentano della libertà di pensiero, della politica pericolosa degli uomini? Quante si indignano, perché i consigli della Chiesa non sono ascoltati nella scelta delle letture, nelle direttive delle idee filosofiche e sociali! Ora, che fanno esse del resto, per provare questa sottomissione alla Santa Chiesa, ch’esse vorrebbero invece tanto trovare nei loro fratelli? Riconoscono esse questa autorità, che i loro mariti misconoscono? Tuttavia, se la Chiesa esagera nel difendere le mode indecenti, perché non esagera nel proibire alcune letture o nel respingere alcune dottrine di filosofia pericolose? Le donne non agiscono in modo diverso dagli uomini. La Chiesa non ha due misure: questi e quelle debbono ubbidire. – Una signora di eleganza tutta moderna, e poco modesta, mi viene a visitare, per confidarmi la sua pena: « Come, come convertire mio marito ? » « Col convertire se stessa, Signora », le rispondo… Comprese? Lo spero; ma perché lamentarsi della colpa altrui e portare inconsideratamente in sé il peccato? – « Perché » mi dice una giovanetta, bianca come un fiocco di neve, ma molto dedita per vanità a seguire tutte le mode, « Perché lei ha predicato così severamente contro le mode attuali? Non veggo dove sia il gran pericolo, né per me, né per gli altri. Voglia compiacersi spiegarmelo più chiaramente, e le prometto, uniformerò la mia linea di condotta alla sua. « Mi promette Lei » le rispondo, « di accettare una sola osservazione molto grave, che io le farò come risposta definitiva ai suoi dubbi e alla sua curiosità? ». « Glielo prometto, padre ». Ascolti: « Se in un’acconciatura poco modesta, con vesti troppo corte ed una scollatura esagerata, lei fa una passeggiata di molte ore, nel centro della città, volendo, per semplice vanità, attirar l’attenzione sulla sua persona, creda pure che, tornando a casa sua, lei avrà probabilmente la responsabilità di qualche peccato grave, forse di molti, che lei avrà fatto commettere… – « Voglio rispettare il suo candore, ma le debbo questa risposta severa; e ora, da fanciulla veramente pia, sia docile, e bandisca ogni frivolezza esteriore ». – Ella ne fu molto colpita, e si mantenne, nonostante il suo ambiente, di una modestia ammirabile. Bisogna far cadere le scaglie, senza aprire gli occhi. Molte Cristiane, come questa giovinetta, peccano per vanità, cedendo alla sconvenienza della moda. La loro responsabilità rimane, a motivo dei reiterati ed imperativi avvertimenti della Chiesa, alla quale Nostro Signore ha detto: « Chi ascolta voi, ascolta me ». E nello stesso modo che i genitori comandano, senza spiegare ai loro figli, le ragioni degli ordini che danno: così la Chiesa, nostra Madre, non è obbligata a dirci il motivo delle sue prescrizioni. Veramente; noi ci domandiamo d’altronde, come una donna o una fanciulla intelligente, e Cristiana possa credere che l’insieme della Chiesa docente, che tutti i Vescovi, assolutamente d’accordo, su questo punto, col Nostro Santo Padre, il Sommo Pontefice, s’ingannino ed esagerino tutti, parlando unanimemente in favore della modestia, condannando decisamente gli abusi e la licenziosità moderna. Non è dunque, se non per la via della sommissione perfetta, che si otterrà una coscienza tranquilla, in tutti gli atti della vita e soprattutto nelle ore angosciose dell’agonia. – Meditate questa fine infinitamente triste d’una donna mondana. Nella sua giovinezza, e durante i lunghi anni della sua vita, la signora *** è stata frivola e leggera, nonostante la sua educazione, e la tradizione della sua famiglia; ed ha sempre sorriso degli anatemi della Chiesa. Ma quando l’età e soprattutto la malattia l’hanno paralizzata, essa fece di necessità virtù, e nel suo letto, sembrò almeno a riparare le sue follie. Non le si è nascosta la gravità del suo male, tanto che s’è spesso confessata, ha avuto qualche scrupolo, ed ha ricevuto gli ultimi Sacramenti. Ma ecco che una sera, ella si ridesta di soprassalto da un sonno leggero, e, spalancando gli occhi con spavento, mostra il Crocifisso a quelli che la circondano e grida: « Guardate! Oh, guardate come il Cristo è coperto del sangue della flagellazione che io gli ho fatto subire con le mie mondanità!… Guardate come questo sangue gronda… e cade sopra di me! Ascoltate come questo Cristo mi maledice!… Le si fa osservare che si è confessata, ma ella insiste: « Egli mi maledice, perché ho scandalizzato le mie figliole le quali, mondane come me, formeranno i loro figli alla scuola del peccato. E queste responsabilità sono mie, e mi schiacciano. Guardate, oh, guardate il sangue di Cristo, flagellato dalle mie follie! Che orrore! Ho tradito l’educazione delle mie figliole, scandalizzandole col cattivo esempio. Guardate, il Cristo mi maledice, e il suo Sangue cade sopra di me… » E si abbatté, estenuata: qualche sospiro ancora… ella era dinanzi al suo Giudice! Vorreste voi agonizzar così?

IX. – Conclusione

Privilegiate del Cristianesimo, non parlate d’esagerazioni. voi sapete di abusi incalcolabili delle grandi città, i delitti sociali; i delitti d’immoralità che amareggiano da ogni i parte il Cuore di Gesù, con un oceano di fiele e di orribile ingratitudine; ma a voi che siete gli amici, incombe di gridare alla riparazione e fare un’ammenda onorevole piena di amore, piuttosto che trovare te nelle proteste dei vostri Vescovi e nei loro insegnamenti, un tema di critica. Babilonia, oggi sembra sventuratamente rinascere dalle sue ceneri più che secolari. E se l’abuso dei sensi pervertiti provocò il diluvio, quale non dovrebb’essere oggi la collera della giustizia vendicatrice che l’indecenza dei costumi moderni eri ammassa sul nostro capo senza un assalto prodigioso d’amore misericordioso e redentore? Questi molteplici Babilonesi, che irritano il Cielo e gli gettano una sfida di sacrilega insolenza, dovrebbero accorare i fedeli: l’ardore e la sincerità della loro fede dovrebbe provocare in essi una recrudescenza d’amore, che a sua volta dovrebbe tradursi in una vita più casta, più austera, più profondamente e socialmente cristiana. – Amici del gran Re oltraggiato e flagellato, non osiamo chiedervi di portare il cilicio ma vi chiediamo, meglio ancora, un cuor contrito, un’anima penitente, una vita sociale purificata dall’infetto paganesimo che ci avvelena. –  Fate della vostra vita, Cattolici praticanti, una grande riparazione d’amore. Madri e spose cristiane, giovanette pie, amate con cuore sincero e con coraggio Maria, il cui titolo più radioso e prezioso è quello d’Immacolata. Non dimenticate che è Lei che vi ha riscattate con la sua vittoria: è per Lei che voi avete questa dolce regalità sociale della Chiesa cristiana, di cui voi godete. Non dimenticate che Gesù ve l’ha voluta come Madre, la sua Vergine Madre! Conservate dunque la santa e legittima fierezza della vostra dignità e della vostra beltà cristiana, difendete questi tesori con una santa collera nell’anima. Rassomigliate per amore e purezza, per candore e modestia, a colei che ha potuto dire a Bernardina: «Io sono l’Immacolata Concezione » Non fate arrossire vostra Madre. Pensate a Lei, nel salotto e sulla spiaggia, nella strada e a teatro. Non velate di lagrime il suo sguardo, che vi segue sempre con materna tenerezza. Non l’obbligate ad allontanarsi con dolore da una figlia poco delicata e poco pudica! Dimostrate a Maria che voi siete le sue figlie di gloria. Ella vi mostrerà che è la Regina potente e fedele. – « O Regina dell’amore, copri con un manto di giglio e di neve, quelle fanciulle che il serpente del mondo cerca strapparti ! »

Il lamento del Cuore di Gesù

« Voi siete tutti puri oggi, ma non lo siete sempre. Tra coloro che seggono alla mia tavola, che mangiano al mio banchetto, che bevono nel mio calice, che sono perciò i miei figli, i miei amici, i miei fratelli, i miei cari discepoli, ve ne sono di quelli che mi straziano e mi trafiggono crudelmente il Cuore. Nell’ascoltarmi, non guardate gli stolti, gli ignoranti che non sanno quel che si fanno, quando bestemmiano il mio Nome. Non sono essi i più colpevoli. Sono quei disgraziati che si dicono Cristiani, ma che m’oltraggiano odiosamente nelle manifestazioni della loro vita nel mondo. Oh! come sono dolorosi i colpi che Io ricevo da questi Cattolici mondani, colpi che riaprono tutte le mie ferite e mettono le mie ossa allo scoperto. Come potrebbero non flagellarmi queste anime cristiane, che di mattina si comunicano, professandomi la loro fedeltà e di sera osano condurmi nel fango?… Dimenticano dunque che io sono la Santità?.. Sì, voi vi ingannate, miei piccoli figlioli, nel proclamare, contro ogni principio della coscienza cristiana, che l’immoralità è autorizzata dall’arte, dall’igiene… scusando così le indecenze della moda, e lo scandalo del teatro moderno. Io ho schiacciato Venere ed il paganesimo, ho maledetto ogni impurità, ho maledetto ogni licenza, tutte le provocazioni al male, Io le maledico sempre. Io sono l’Eterno Presente! – Il mio Cuore è amaramente angosciato da tutti quelli che amo e che discutono la mia Legge, disprezzando i consigli miei e della Chiesa e condannandoli come un’esagerazione di scrupoli troppo puerili. Io piango per i miei figli, i miei amici, che contribuiscono con il loro talento, con il loro denaro, colla loro bellezza, allo sviluppo di questa moda rilasciata, di queste lubricità provocanti, e che sono stimolo alle passioni. Essi adducono come pretesto i loro obblighi sociali, le esigenze moderne!… Che fanno essi della mia Legge Divina con i suoi obblighi e i suoi doveri, assunti verso di me, col battesimo? Non disprezzate i carnefici del Calvario, perché questi infedeli mi hanno eretto un nuovo calvario di cui essi sono i carnefici. Non parlate della vigliaccheria dei soldati che sono di guardia alla prigione; altri mi flagellano più crudelmente ancora e mi sputano sul viso. Non pensate al tradimento di Giuda. Guardate piuttosto tutti questi nuovi Giuda, che abbandonano il loro Maestro ed Amico, per la soddisfazione dei loro sensi. Tutto quel denaro che essi lasciano alla porta dei teatri è per il mio Cuore, come i trenta denari di un continuo tradimento. Il vostro Gesù tradito, il vostro Gesù flagellato e crocifisso; il vostro Gesù col Cuore trafitto dalla impudicizia sociale, vi supplica di aver pietà di Lui. Abbiate pietà di Lui, voi che vivete nel fasto e nel piacere e nelle raffinatezze dei sensi! Abbiate pietà di Me, voi che col vostro nome, colla fortuna, col credito, coll’esempio, reagite contro lo scatenarsi delle passioni. Fate servire alla mia gloria l’influenza che voi esercitate nella società! Respingete come illegittimo, ogni basso e indegno divertimento, ogni abitudine anti-cristiana, ogni trovata del raffinato sensualismo, ogni piacere equivoco e pericoloso. Guardatevi, guardatevi, che la vostra responsabilità un giorno non vi schiacci. Gesù, flagellato dall’impudicizia della società, vi supplica di aver pietà di Lui. – Abbiate pietà di Me, voi i cui salotti non dovrebbero mai tollerare libertà di vestiti, di balli, di linguaggio! Io ho fatto in pezzi gli idoli pagani. Voi che vi accostate alla Comunione, oserete restaurarli? I tempi cambiano — dite voi, Io che sono la Legge ed il Giudice, Io non cambio mai. Gesù flagellato dall’impudicizia della società, vi supplica di aver pietà di Lui. Abbiate pietà di Me, voi madri e spose che Io ho nobilitato! La vostra influenza è grande e spesso decisiva sull’animo dei vostri, per lo spirito che potete far regnare nel vostro focolare. Se vi ho riscattate, era mio intento di fare di voi, col senso più delicato che avete di ogni dovere e di ogni diritto, un centro di luce. Diventereste voi invece una sorgente di scandalo e di tenebre? Conservate; oh! conservate la mia Legge di purezza, con il riflesso della bellezza immacolata della Madre mia, la vostra Regina! Vigilate sulla modestia cristiana dei vostri fanciulli e delle vostre fanciulle. Non desiderate per essi che la splendente e radiosa beltà del candore. Difendete, dal mondo perverso e corruttore, la soglia della vostra dimora. Il Maestro, il solo Maestro in casa vostra sono Io, il vostro Dio tutto amore, il vostro Re-Amico. Non lo dimenticate, lottate con Me, per Me, Io sono lo stesso Gesù, il supremo e giusto Legislatore della vita privata e della vita sociale. – Gesù flagellato dall’impudicizia del mondo, vi supplica di aver pietà di Lui. E. voi, i gaudenti della vita, anime affievolite, così facilmente sedotte dalle sirene del piacere, dalla dea volubile e menzognera, la vanità; anime malaticce, assetate di sensazioni, prese dalle vertigini del mondo, cuori buoni, ma che un facile carattere ed una virtù poco solida, rendono così compiacenti; coscienze troppo facili e sensibili ad ogni mutamento della moda e delle dottrine, arrestatevi nella vostra corsa verso l’abisso. Questo mondo corruttore, che vi attira e vi piace, è il vestibolo dell’inferno; arrestatevi! Il mio Vangelo non vi inganna. La vostra salvaguardia è la mia Legge. La vostra saggezza è la saggezza della Chiesa. Di grazia, arrestatevi! Non calpestate con la vostra vita mondana, la mia Croce sanguinante! Nessuno, fuori di me, vi ama di un amore vero. Io vi tendo, le braccia. Dimentico i vostri traviamenti; amatemi alla vostra volta, di un amore intero e leale! Perché voi entriate nell’intimità del mio Cuore, vi apro la ferita del mio Costato. Entrate, prendetevi tutto per voi, il Cuore di un Dio, ardente di voi! Venite, abbiate pietà di Me! Gesù tradito, Gesù flagellato, Gesù crocifisso, Gesù dal Cuore trafitto, vi supplica di aver pietà di Lui!

TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO (13)

TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO (13)

TITOLO ORIGINALE: TRAITÉ DU SAINT – ESPRIT Edit. Bloud-Gay.- Paris 1950

V. Per la Curia Generalizia Roma, 11 – 2 – 1952 – Sac. G. ALBERIONE

Nulla osta alla stampa – Alba, 20 – 2 – 1952 Sac. S. Trosso, Sup.

lmprimatur:Alba, 28 – 2 – 1952 Mons. Gianolio, Vic. GEN.

CAPO DECIMOPRIMO

I DONI DELLO SPIRITO SANTO

Per santa Teresa tutta la vita spirituale faceva capo ai doni dello Spirito Santo. Secondo lei ne erano come le facoltà. Tutti i disordini della vita spirituale li attribuiva ad una incomprensione o a una mancanza dei doni dello Spirito Santo; mentre tutta la perfezione della vita spirituale era, a suo parere, effetto dei doni dello Spirito Santo. Dal punto di vista della vita mistica, dal quale la considerava, aveva ragione. – La grazia è Dio che viene in noi, rendendoci soprannaturalmente conformi alle esigenze della Sua presenza. In primo piano, che è quello dei Vangeli sinottici e di san Paolo, la grazia è Cristo che ci unisce a Sé per mezzo del Suo Spirito Santo, ci rende conformi alle Sue disposizioni, ai Suoi sentimenti, e ci fa partecipare alle Sue virtù e ai Suoi misteri. – Nel secondo piano, che è più specialmente quello di san Giovanni e dei Padri greci, la grazia è la Trinità Santa, Padre, Figlio di Dio fatto uomo e Spirito Santo, che si stabilisce nell’anima nostra. Lo Spirito che viene dal Padre per il Figlio di Dio, Verbo incarnato, ci unisce prima di tutto al Verbo di Dio fatto uomo e, per mezzo del Verbo, al Padre. Unendoci al Verbo di Dio fatto uomo, ci rende conformi alla Sua santa umanità e ci trasforma spiritualmente. Così il Padre ed il Figlio operando più specialmente per lo Spirito, creano in noi tutta una vita nuova, soprannaturale che, per agire, dispone di virtù soprannaturali e dei doni dello Spirito Santo. Che cosa sono i doni dello Spirito Santo?

1.

Dio interviene nell’anima nostra in moltissimi modi che si possono tuttavia ridurre a due principali. O Dio interviene in noi piegandosi in qualche modo alla nostra maniera umana di agire, quasi umanizzandosi. Ci fa pensare, volere ed amare mediante le virtù teologali di fede, speranza e carità. Fa sì che conformiamo la nostra volontà alla Sua santa volontà per mezzo delle grandi virtù morali di prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Queste sono forme umane di attività. In tutti questi casi l’anima nostra si muove veramente ed è mossa. La parte di Dio e quella dell’uomo sono quasi eguali. Tuttavia, si può dire che l’anima nostra piuttosto che essere mossa, si muove. Anima est movens potius quam mota, scrisse san Tommaso; è l’ascesi cristiana o la vita ascetica. Oppure Dio interviene in noi, ma questa volta in maniera nettamente superiore al nostro modo umano di agire. Illumina, agisce con noi, in noi, ci attira, ma in modo che ci sorpassa interamente. E come un’invasione dello Spirito Santo nell’anima nostra. Egli ci piega al Suo modo divino di agire.In tutti questi casi, l’anima sicuramente si muove quanto può. Ma molto più è mossa da Dio e trasportata da Lui. Anima est movens ac mota, sed est potius mota. Essa è più passiva che attiva; più governata da Dio che da se stessa; più abbandonata a Lui e da Lui trascinata che intenta a cooperare alla grazia divina. Un esempio della vita mistica che colpisce, è ciò che avvenne nell’anima degli Apostoli il giorno della Pentecoste, quando ebbero ricevuto lo Spirito Santo; furono trasportati, trascinati da una luce viva e ardente. E Pietro alzandola voce disse alla folla che rimase conquisa: «Quel Gesù che avete messo a morte, è il Messia annunziato dai profeti, atteso da Israele. È il Figlio di Dio fatto uomo. Avete commesso il più abominevole delitto. Fate penitenza per il vostro peccato»; È la mistica cristiana o la vita mistica. Essa è una perfezione della vita ascetica. È la vita ascetica ma divenuta più viva, più ardente, più divinizzata. Ora i doni dello Spirito Santo sono come le facoltà della vita mistica. Di qui, questa definizione dei doni dello Spirito Santo: sono degli abiti soprannaturali che dànno alle nostre facoltà soprannaturali, alle virtù, una tale pieghevolezza per l’azione, una tale facilità e prontezza che corrispondono e obbediscono prestissimo e con slancio ai minimi impulsi della grazia. – Così i doni dello Spirito Santo sono nettamente degli abiti soprannaturali, cioè delle maniere soprannaturali di agire, e non delle abitudini preternaturali, ossia dei compimenti della nostra natura, destinati a perfezionarla nel suo ordine, in vista tuttavia dell’ordine soprannaturale. Quindi, nonostante i doni soprannaturali dello Spirito Santo, la sofferenza dimora nell’anima nostra. Essa proviene dalla disproporzione che esiste e che noi sentiamo tra la nostra natura e la grazia. Avverrà che lo sviluppo dei doni soprannaturali sarà pure occasione di una sofferenza ancor più viva. L’anima, come perduta in Dio per la grazia, è costretta a trascinare un corpo di peccato, soffre di tale situazione ma questa sofferenza contribuisce alla sua maggiore santificazione. Di più, come lo fa benissimo osservare san Tommaso, i doni dello Spirito Santo sono delle potenze attive, attive il più possibile, ma che richiedono sempre un potere di recettività ad accogliere doni in abbondanza sempre più grande. Questa recettività è tanto più grande quanto i doni sono più perfetti. Del resto, è così di tutte le grazie che ci sono date su questa terra. Esse sono ad un tempo potenze attive e potenze recettive, tanto più recettive, quanto più sono attive (Summa theol. 1-II, q. 68; II-II, qq. 8, 52.- Le traîtè du Saint-Esprit de saint Basile, introduzione, testo e traduzione del P. B. PRUCHE, Collezione « Sources chrètiennes », Editions du Cerf, 1947. – JEAN DE SAINT-r-THOMAS, Les dons du Saint-Esprit, traduzione R. MARITAIN).

2.

Si vede subito l’eccellenza dei doni dello Spirito Santo. Per mezzo di questi doni, soprattutto quando sono stati elevati ad un grado altissimo, l’anima è trascinata in Dio, si muove in Dio, non agisce che per divino impulso. Essa vede tutto in Dio, gli avvenimenti, gli uomini e le cose. Comprende il mistero di Dio nel mondo, quanto lo si può comprendere su questa terra. Soprattutto, il mistero di Gesù Cristo, Dio fatto uomo, nostro Redentore, nostro Salvatore, Sacerdote della Nuova Legge. Essa comprende il Cristo nella sua vita evangelica, nella Sua vita eucaristica, nella Sua vita nelle anime per lo Spirito Santo e nello Spirito Santo. Un amore ardente la unisce a Cristo, da nulla può separarla, né la vita, né l’intenso lavoro, né le tribolazioni, né le sofferenze. E questa carità ardente accresce ancora la sua penetrazione dei misteri. Una oscurità continua certamente ad avvolgerli. Ma la nube che ondeggia, dà già l’impressine che stia per dileguarsi. Tuttavia non scomparirà che al momento della nostra morte. L’anima così elevata dai doni dello Spirito Santo vede chiaramente il disegno di Dio sopra di lei e la sua vocazione particolare. Essa sa e sente di essere nello stato, nell’ambiente voluto per lei da Dio. Si sente nella propria via, nella via che Dio le ha tracciata. Perciò, ama questa via, questo ambiente, sia pure un ambiente di fatiche e di tribolazioni, di febbre intellettuale o di attività eccessiva, di azione personale o sociale. Come vede chiaro in se stessa,  vede con chiarezza nell’anima degli altri, e sa dare i consigli adatti al loro bene temporale e alla eterna salvezza. – Una forza irresistibile la trasporta o la trascina. Nessuna difficoltà la spaventa, alcuna lotta l’arresta. Non ha rispetto umano, né timore di critiche, e quando la voce di Dio le ha tracciato il dovere, è la marcia in avanti, franca e leale. Nessun timore di dispiacere agli uomini, neppure a parenti ed amici. E nonostante, nessuno sgarbo né durezza. Nessun compromesso coi partiti opposti per timori di perdere vantaggi temporali o la propria dignità. Nessuna fermata sul posto, oppure quel far due passi avanti seguiti quasi sempre almeno da un passo indietro. Scrivendo questioni controverse, non frasi incerte nelle quali l’affermazione è sempre accompagnata da qualche riserva di negazione. Non lesinerie. Non di quei volti che, sotto pretesto di un bene maggiore, ossia di carità ed anche di amicizia, soffiano, sul conto vostro, con eguale facilità il caldo e il freddo. È meglio non aver amici, che averne di simile tempra. Non è vero? Una lotta intensa contro tutto ciò che è male. Perseveranza, costanza, tenacia. Un solo timore, ma questo proviene da un amore grande, profondo ed intero, il timore di dispiacere a Dio, il timore del minimo peccato. Esso si accompagna ad una pietà filiale per Dio Padre, per Dio Figlio, Verbo di Dio fatto uomo, per Dio Spirito Santo; a una pietà dolce e tenera per la santa Eucarestia, a una pietà di venerazione e di azione di grazie per i santi Angeli e specialmente per l’Angelo Custode; a una pietà di amico per i santi, a una pietà di bimbo per la Santa Vergine. È questa la superiorità che i doni dello Spirito Santo conferiscono. Ne risulta una grandezza e una bellezza morale che attirano tutti coloro che ne sono testimoni, li soggiogano, li conquidono. Alla luce di questa dottrina si comprende l’anima dei santi. Si comprende per esempio l’anima di una santa Teresa di Avila, che fu favorita dei doni dello Spirito Santo al più alto grado. Essa va, corre per la sua via. È ammirabile nella contemplazione quanto nell’azione. Trova nella contemplazione tutta la forza per agire e soffrire. Essa è come perduta in Dio e nei Suoi misteri, soprattutto nel mistero di Dio fatto uomo in Gesù Cristo; mediante una intuizione che sboccia nell’amore. Resta però stupendamente pratica; essa è pratica alla maniera di Dio, occupandosi dei minimi, particolari delle sue fondazioni, delle sue comunità, dei suoi monasteri. Si comprende l’anima di una santa Giovanna d’Arco che, anche lei, aveva ricevuto i doni dello Spirito Santo in tutta la pienezza. Essa ha continuamente lo sguardo dell’anima rivolto a Gesù, nostro Salvatore, e a Maria, Sua Madre. Trova, in questa contemplazione, la luce che le mostra la via da seguire, le detta le parole da dire; la forza che la sostiene nei combattimenti, nelle prove, sul rogo.

3.

Ecco come Isaia descrive la venuta dello Spirito Santo nell’anima del Messia:

Un germoglio spunterà dalla radice di Iesse,

un fiore verrà su da questa radice.

Sopra di Lui si riposerà lo Spirito del Signore,

spirito di sapienza e d’intelletto,

spirito di consiglio e di fortezza,

spirito di scienza e di timor di Dio (Is. XI, 1-2).

Così lo Spirito di Dio verrà nell’anima del Messia e gli comunicherà la pienezza dei doni che gli occorrono pet il compimento dell’opera Sua. La tradizione biblica ha sdoppiato il dono del timor di Dio in quelli del timor di Dio e di pietà. Questi due doni corrispondono ad una medesima realtà spirituale. Essi possono essere uniti e separati.

Di qui i sette doni dello Spirito Santo. I doni del Messia saranno pure, con le dovute proporzioni, doni di tutti coloro che appartengono al Messia. Quindi possiamo studiarli applicandoli a tutti i Cristiani. Non perderemo mai di vista la somiglianza tipica che stabiliscono tra Cristo e i Cristiani. –  La teologia è stata portata a fare una distinzione fra i doni intellettuali che sono quelli di scienza e d’intelletto, di sapienza e di consiglio, e i doni affettivi, cioè quelli di fortezza, di timor di Dio e di pietà. È questo l’ordine che seguiremo. – Il dono della scienza di Dio, non è né la scienza della natura, né la filosofia e neppure la teologia. È quella scienza dei santi che faceva loro vedere tutte le cose e soprattutto le creature umane in Dio. Essa s’ispira a quella dottrina che, per i santi. non è soltanto speculativa, ma sommamente pratica. Nel mondo, Dio è dappertutto: lo sostiene con la Sua potenza, lo dirige con la Sua Provvidenza. Se Dio si ritirasse dal mondo, il mondo ricadrebbe nel nulla. Nella misura in cui, per le nostre colpe, lo costringiamo ad allontanarsi da noi, conduciamo una vita meschina, è il disordine ed il male. – Questa presenza fisica è unita alla presenza di amicizia, alla presenza di grazia per mezzo della quale Dio ci rende conformi a Sé nel profondo del nostro essere, per abitare nell’anima nostra; ci illumina con la luce della fede, ci eleva verso di Lui con la speranza; ci unisce a Sé con l’amore; ad agire secondo la Sua volontà per mezzo di tutta un insieme di virtù morali. Si comprende, come sotto una tale luce, il mondo appaia in una realtà concreta che colpisce, conquide tutto l’essere umano, diventa ispiratrice dei suoi giudizi sopra tutte le cose, delle sue azioni e imprime una direzione di vita. Un san Francesco di Assisi vede Dio ovunque nella natura. Lo adora, lo ringrazia, si offre a Lui, lo invoca con tutta l’anima: non vive che di Lui. Se nei poveri che mi circondano, non vedessi che la creatura umana, con le sue miserie fisiche e morali, come me ne allontanerei, scrive san Vincenzo de’ Paoli. Ma perché in essi, vedo il mio Dio, vado a loro con tutta l’anima e con tutti i miei mezzi. Li amo tanto più, quanto maggiormente sono infelici, perché in essi vedo ed amo il mio Dio. Nella creatura umana san Francesco di Sales invitava a scorgere l’uomo totale, cioè l’uomo in Dio. Se qualcuno dice che ama Dio, e non ama il prossimo e non si sacrifica per esso, costui mentisce, come ha detto l’Apostolo san Giovanni. Nella natura, santa Teresa di Lisieux non vedeva direttamente Dio, come san Francesco di Assisi, ma dei simboli che le ricordavano Dio, i suoi misteri, la sua azione nelle anime. Nei petali delle rose che brillano al mattino e che la brezza della sera fa cadere e il vento trasporta lontano, ella vede l’immagine dell’anima che lascia la terra e se ne vola a Dio. Nella pratolina che si dischiude al sorgere del giorno, scopre il simbolo dell’anima che si apre alla grazia, o dell’ostia santa che si offre alle nostre adorazioni. Nell’allodola che cantando dispiega il volo verso il cielo, scorge il simbolo della religiosa che canta o salmeggia l’Uffizio divino per adorare Dio, ringraziarlo, offrirsi a Lui, pregarlo. — Al di là di tutte le teste di fanciulli o di giovani che giocano, lavorano, o sono semplicemente vicini a me, mi diceva M. Esquerrè, ammirabile direttore di Opere, mi applico di continuo a vedere la persona di Gesù, mio Salvatore che è unita a loro. E la vista del mio Salvatore ispira tutta la mia condotta, detta ogni mia parola, mi sostiene nel lavoro, nelle fatiche, nelle pene. Ai suoi ragazzi, diceva volentieri le parole dell’Apostolo che faceva sue, e furono il suo testamento: « Tanto teneramente vi amiamo che bramiamo donarvi non solo il Vangelo di Dio, ma anche la nostra stessa vita » (1 Tess. II, 8). – Così è tutta una sorgente di vita nuova, fatta di luce, di energia, di generosità, di coraggio, che il dono di scienza apre nell’anima di colui che lo possiede. E tutta questa vita si esercita nell’ordine, nel dominio di sé, in una delicatezza squisita, perché si ha continuamente il sentimento netto e vivissimo che, negli esseri creati che noi consideriamo, troviamo Dio, amato con passione. La contemplazione è l’atto nel quale si concentra tutta la vita mistica. San Tommaso l’ha definita: « Intuitio veritatis quæ terminatur ad affectum »: una intuizione della verità, della verità divina, rivelata, che termina e sboccia nell’amore ». Ora, è facile comprendere che della contemplazione così intesa, il dono di scienza è una mirabile facoltà, anzi si sarebbe anche inclinati a dire che ne è l’unica facoltà. E ciò perché il dono di scienza di Dio, contiene già tutti gli altri doni. Del resto è così di ogni dono dello Spirito Santo che, in realtà, molto spesso, non si può discernere se non da qualche nota particolare che dipende soprattutto dal carattere di colui nel quale viene studiato. – Il dono d’intelletto deve intendersi, nel senso etimologico della parola intelligere, intus legere. Mediante il lume soprannaturale che esso comunica, colui che lo possiede, legge, vede. Vede il Salvatore attraverso i testi evangelici, nella vita dei santi, in quella della Chiesa, secondo la misura in cui lo si può vedere. Perciò quando ne parla, o scrive di Lui, la sua parola, il suo stile assumono l’accento di una testimonianza, e non solamente quello di una relazione, di un racconto storico. Si conosce la differenza che esiste tra l’accento di un testimone e quello di un semplice storico. Il primo afferra, conquide, soggioga, il secondo non può che più o meno interessare. — Il dono d’intelletto conferisce pure una penetrazione viva e approfondita non tanto delle ragioni che stabiliscono il dogma, quanto dello stesso dogma. È una specie d’intuizione delle divine realtà espresse dal dogma, quanto tali realtà possono essere conosciute in questo mondo, e che suggerisce quelle formule semplici e brevi, singolarmente espressive, che si trovano sia sulle labbra dei semplici fedeli, come nell’insegnamento e negli scritti dei teologi contemplativi, per esempio di un san Giovanni Crisostomo, di un san Bernardo, di un san Bonaventura, di un Thomassin. – Nella piccola chiesa di Ars il santo curato ha notato uno dei suoi parrocchiani, formato senza dubbio dalla sua dottrina e dai suoi esempi. Ogni pomeriggio è in Chiesa, in ginocchio, con gli occhi fissi sul tabernacolo. Che cosa fate dunque così? gli chiese. Ed egli rispose queste semplici parole, additando il suo Salvatore: “Lo guardo ed Egli mi guarda”. Questo parrocchiano di Ars possedeva il dono d’intelletto in grado molto elevato. Come il dono d’intelletto, quello di sapienza deve intendersi nel senso etimologico della parola latina sapere che lo esprime e che significa provare gusto per…, gusto, cioè compiacenza, attrattiva, amore. Il dono di sapienza è il dono d’intuire Dio e i Suoi misteri mediante l’amore, è l’intuizione per mezzo del cuore. Tutte le nostre cognizioni sono prese in prestito dalle cose create. Quindi, quando le applichiamo a Dio e ai Suoi misteri, ci è necessario riferirle a Lui e purificarle. Ma per quanto riferite a Lui e purificate, sono sempre relative alle cose create. Non esprimono che imperfettamente Dio e i Suoi misteri. Non potrebbe essere altrimenti. Anche se vi è qualche somiglianza, vi sono sempre delle differenze. Esse sono, come si suol dire, analogiche. Ora non è così dell’intuizione di Dio mediante la carità ed il cuore. Senza dubbio questa intuizione è inesprimibile, o l’espressione ne sarà sempre confusa; ma è diretta. È in questo modo che il dono di sapienza permette d’intuire Dio e i Suoi misteri. Prima di tutto applica l’intelletto ad approfondirne tutti i dati, a trasporne e purificarne sempre più le espressioni intellettuali e verbali. Ne critica facilmente tutti i tentativi, suggerendo delle osservazioni semplici ma decisive: non è così, non è così. Talmente che colui il quale possiede nel medesimo tempo il dono d’intelletto e quello di sapienza non sarà mai soddisfatto del proprio pensiero. Proverà un vero tormento per la disproporzione fra il suo pensiero e la realtà. Non si racconta forse che san Tommaso, dopo aver composto la Somma theologica voleva bruciarla tanto la trovava imperfetta? Così l’intuizione per mezzo del cuore applica innanzi tutto il pensiero ad una più grande penetrazione dell’oggetto che esso considera. Ma inoltre intuisce Dio e i Suoi misteri direttamente e con certezza, e trova in tale intuizione una gioia ineffabile. – Un uomo di buon consiglio è colui che sa dire a chi lo interroga, lo scopo della vita che deve perseguire o, se lo scopo è già conosciuto, sa indicare i mezzi che bisogna prendere, la via da seguire per raggiungere tale scopo. Un uomo di buon consiglio ha l’arte di essere oggettivo. Se possiede una grande esperienza della vita, sa spogliarla di tutto ciò che potrebbe avere di partito preso, di teorie, di quelle vedute personali e del tutto soggettive, che talvolta rendono le persone anziane, insopportabili ai giovani, quando si mettono a invocare la propria esperienza. L’esperienza nell’uomo di buon consiglio, non fa che perfezionare, in lui, l’arte di essere oggettivo. Poi egli non ha che una preoccupazione cioè il bene degli altri, il loro maggior bene. Nessun interesse personale, né quello di piacere ad una terza persona con la quale ci si sarebbe già consigliati o che avrebbe raccomandato le proprie vedute. Ecco l’uomo di buon consiglio. Trasponiamo ed eleviamo il più possibile questo piano di vita e avremo un’idea esatta del dono di consiglio. Colui che ha ricevuto il dono di consiglio è l’uomo che abbiamo descritto. Ma il suo pensiero è interamente impregnato di una luce divina che accentua, sviluppa, in lui, il lume naturale. Il Curato di Ars, per esempio possedeva eminentemente questo dono di buon consiglio. A tal punto da poter dire di lui che sembrava leggete nelle anime. A tutti, a tutte, indicava lo scopo da raggiungere, la via da seguire. Una giovane gli chiede se deve entrare in religione: le consiglia il matrimonio. Un’altra gli parla di un prossimo matrimonio: le consiglia di entrare in religione. Un tale confessandosi, non accusa che colpe leggere. « Sta bene, gli dice, ma bisognerebbe soprattutto accusare questo peccato grave ». Un giovane diacono lo interroga e gli parla del suo progetto di entrare nella Compagnia di Gesù: « È diacono, amico mio, gli dice il santo Curato: ah! è diacono. Mi creda: ami molto la Santissima Eucarestia ». Il giovane diacono se ne va, un po’ sconcertato di questa direzione che egli giudica assai spicciativa. In seguito ho avuto occasione d’incontrare il diacono di allora, quando, ottuagenario, terminava la sua vita in una Società di Sacerdoti secolari, ove la sua più grande applicazione era sempre stata di far meglio conoscere ed amare il Santissimo Sacramento. « Mai, mi disse, ho ricevuto una direzione più illuminata, né più opportuna ». Sono questi i doni intellettuali dello Spirito Santo. I doni di scienza e d’intelletto, sono sviluppi della virtù della fede e più ancora dello spirito di fede. Il dono di sapienza, è uno sviluppo della virtù della carità. Quanto al dono del consiglio, lo è della virtù morale di prudenza. Ci restano da esaminare i doni affettivi dello Spirito Santo, il dono di fortezza che è uno sviluppo della virtù di fortezza; i doni del timor di Dio e della pietà che sono sviluppi della virtù di religione.

4.

La fortezza è una virtù morale soprannaturale che rende più salda la nostra volontà nella ricerca del bene soprannaturale che, senza dubbio, si ottiene difficilmente, ma nel quale è ancor più difficile perseverare e crescere. La fortezza rinvigorisce la nostra volontà comunicandole quel vigore soprannaturale che le permetterà di non lasciarsi turbare, né scoraggiare o paralizzare moralmente da tutti quei timori che nell’anima nostra, vengono ogni giorno ad opporsi all’adempimento del nostro dovere di stato. La fortezza rende pure ferma la nostra volontà dandole quel vigore soprannaturale che le permetterà di non lasciarsi trascinare da folli audacie. Così la fortezza esercita sulla nostra volontà un duplice influsso: è per essa un appoggio ed un freno. Est probibitiva timoris et moderativa audaciarum. Con la grazia della rigenerazione battesimale, la fortezza è data al battezzato per metterlo in condizione di non cedere sia al timore delle difficoltà della vita, che all’apprensione delle lotte da sostenere: Horror difficultatis et labor certaminis. Tale fortezza è accompagnata da una comunicazione dei doni dello Spirito Santo, ma specialmente del dono di fortezza, soprattutto nell’adulto che dovrà impegnare la lotta, fin dall’ingresso nella nuova vita. – La grazia di forza, è la grazia sacramentale che riceve il cresimato e che gli permette di non lasciarsi vincere dalla potenza del peccato che è nel mondo, cedendo al peccato o lasciandosi scoraggiare da esso, e gli consente invece di vincere il peccato operando il bene in sé e attorno a sé. Al cresimato si addice la parola d’ordine dell’Apostolo: Noli vinci a malo, sed vince in bono malum (Rom. XII, 2). Il cresimato riceve la fortezza che gli permetterà anche di lottare contro tutte le forme di rispetto umano, la paura della critica e degli uomini peccatori, fossero anche suoi amici. Più che il neo battezzato, il cresimato riceve i doni dello Spirito Santo, in proporzione è vero delle sue disposizioni, e questi doni gli permetteranno di diventare un Cristiano di vera e soda maturità. Egli riceve specialmente, ma sempre nella misura delle sue disposizioni, il dono di fortezza che farà di lui un lottatore, preparato ed armato per i combattimenti della vita. – Al Diacono che riceve già il sacramento dell’Ordine, molto più che al battezzato e al cresimato, sono comunicati in abbondanza i doni dello Spirito Santo. Ed è in particolare, una larga partecipazione a quella fortezza di cui è stato rivestito il Salvatore, Sommo Sacerdote, per lottare contro il peccato e la morte, per vincere il peccato e la morte. In realtà i doni dello Spirito Santo sono comunicati al Cristiano nella recezione fruttuosa di ogni sacramento, e ad ogni nuova venuta della grazia nell’anima sua. Lo Spirito Santo viene in lui non soltanto per condurlo con la grazia comune, ma per trascinarlo per mezzo dei doni, e sempre maggiormente, verso il Figlio unico di Dio fatto uomo, e per Lui, verso il Padre. Se egli resta inerte nel peccato o nella mediocrità, la responsabilità e la colpa sono interamente sue.  – Il dono del timor di Dio procede contemporaneamente dall’altissima idea che mediante la fede, ci formiamo di Dio e delle cose di Dio, e dal grande amore che abbiamo per Iddio e per tutto ciò che direttamente a Lui si riferisce. Niente nel timor di Dio, di ciò che sarebbe paura, turbamento, avversione. Invece, una vista di Dio che ispira infinito rispetto, amore profondo e vivo, compiacenza infinita e somma attrattiva. Nei rapporti con Dio, nella maniera di trattare con Lui, l’anima sarà piena di premura, di dedizione e metterà tutto ciò che ha di migliore e di più perfetto. Attenzione e applicazione nelle preghiere, sforzo per penetrarne il significato reale e liturgico, un contegno esterno irreprensibile, il più degno che possa essere. Ricordiamo il giorno della nostra Prima Comunione. Con quale fede, amore e delicatezza squisita, ci siamo accostati alla Santissima Eucarestia. Con quale sincerità, semplicità e amabilità abbiamo detto a Gesù Ostia: « Gesù ti adoro e ti amo. Prendimi perché sia tuo per sempre». Quel giorno il dono del timore di Dio era in noi. – La devozione conferisce alla vita cristiana slancio, generosità, applicazione sostenuta. nella preghiera, negli esercizi, nel lavoro. Alla devozione, la pietà aggiunse una nota di particolare confidenza, di cordialità, semplicità, spontaneità. Penetriamo col pensiero in una famiglia e consideriamo, il modo di agire di un padre e di una madre rispetto ai figli, oppure dei figli rispetto ai loro genitori. È la pietà materna; la pietà filiale. Trasponiamo ed eleviamo sul piano spirituale questo modo di agire riferendolo alle nostre relazioni con Dio, nostro Padre; col Verbo Incarnato, nostro Salvatore; con lo Spirito Santo, nostro santificatore. Avremo l’idea della vera pietà. Colui che non ha avuto e non ha sentito la pietà filiale potrà difficilmente formarsi l’idea della pietà cristiana. Trasponiamo ed eleviamo ancora, ed avremo l’idea esatta del dono di pietà. Come si vede il dono di pietà può confondersi con quello del timor di Dio, come pure è permesso distinguerli. L’uno e l’altro sono uno sviluppo della virtù di religione, la quale può sempre procedere da una grande fede e da un grande amor di Dio.

5.

Ogni volta che, essendo in istato di grazia, facciamo il bene, religioso o profano, compiamo una opera meritoria che ci conferisce uno stretto diritto a ricevere muove grazie, cioè una nuova venuta dello Spirito Santo, che accentua le precedenti, con una grazia santificante più abbondante e diritti a ricevere da Dio soccorsi soprannaturali. Possiamo così andare di merito in merito, di grado in grado, fino a una santità sempre più elevata. È ciò che si chiama il merito nel vero senso della parola, il merito propriamente detto. Ora la vita mistica e i doni dello Spirito Santo, che ne sono le facoltà, sfuggono a questo merito. Però non ne concludiamo che la vita mistica non ci è data e i doni dello Spirito Santo non ci sono stati accordati, oppure che la vita mistica e i doni dello Spirito Santo ci sono comunicati con parsimonia. In realtà, o a titolo di merito di semplice convenienza, Dio, nella Sua infinita liberalità, ci accorda la vita mistica e i doni dello Spirito Santo, quando facciamo il bene, soprattutto in certi giorni, nei quali vi mettiamo maggiore buona volontà, più applicazione, dedizione, generosità. In quei giorni abbiamo l’impressione di una grazia che ci prende, ci trascina, ci rallegra o mette nell’anima nostra una grande calma e una pace profonda. Abbiamo il sentimento di Dio in noi e diciamo: Quanto è buono Dio! oppure: Quanto è dolce stare qui! È la vita mistica, almeno ai suoi inizi, coi doni dello Spirito Santo. –  Una riserva tuttavia s’impone. Dio non accorda la comunicazione della vita mistica e dei doni dello Spirito Santo con grande pienezza se non a certe  anime privilegiate da Lui chiamate ad una più grande santità, come i martiri, i confessori, le vergini, oppure ad alcune anime che Egli ha destinate ad esercitare nella società un’azione di primo piano, alle quali ha affidato una specie di missione. Tali sono i grandi missionari, i fondatori o le fondatrici di Ordini religiosi. – Si vede tutta l’attività mirabile, potente e molteplice, pieghevole quanto varia, che i doni dello Spirito Santo conferiscono o possono conferire a quelli che li ricevono. Possono nondimeno esercitarsi nell’anima nostra, prima che sia stata elevata alla vita mistica. Ed è senza dubbio in questo modo che operano nella maggior parte degli adulti che ricevono il battesimo, nei giovani cresimati, in moltissime anime sante. – La vita mistica consiste essenzialmente nella contemplazione, che può essere solo agl’inizi, ed in seguito andare di progresso in progresso fino a raggiungere i massimi sviluppi. Senza dubbio i doni dello Spirito Santo la invocano. Ma, ancora una volta, non la esigono. Quando l’anima in istato di grazia ha raggiunto la contemplazione e vi si è sviluppata, allora i doni dello Spirito Santo, le sue facoltà, si dispiegano in tutta la loro ampiezza, in tutta la loro multiformità e la bellezza santa dell’azione che le caratterizza. – La vita mistica, lo abbiamo notato, sfugge al merito propriamente detto. Ma è data da Dio con liberalità alle anime che fanno il bene, soprattutto nei giorni di maggiore santità. Il modo di ottenere che venga data con più grande abbondanza, è corrispondere con slancio, prima ai doni dello Spirito Santo, poi alla vita mistica che essi invocano. In maniera generale, è mettersi coraggiosamente alla pratica della vita ascetica, come santa Teresa c’invita a farlo. Facciamo del nostro meglio corrispondendo fedelmente alla grazia comune che ci è data; nella Sua sapienza e liberalità infinita, Dio ci accorderà il resto per sovrappiù.

CONCLUSIONE

«Piego le ginocchia dinanzi a Dio Padre da cui ogni famiglia umana e nei cieli e sulla terra prende nome, e gli chiedo che vi mandi lo Spirito Santo, acciò questo divino Spirito vi radichi, per la fede, nel Nostro Signor Gesù Cristo, e riempia il vostro cuore di carità per il nostro adorato Maestro, affinché tutti, penetrati dalla carità del Cristo per voi, possiate conoscere quale ne sia la lunghezza e la larghezza, cioè l’universalità, quale l’altezza e la profondità, cioè l’infinita perfezione, e perché vi circondi tutti individualmente, col suo ardente amore, con quell’amore che sorpassa tutto ciò che la scienza umana, sia pur penetrante può afferrarne, e quanto l’umana intelligenza, sia pur potente, può comprenderne. » E così tutti uniti al Cristo per mezzo di una fede viva, una carità perfetta, un ardente amore, e questo, per lo Spirito che viene dal Padre, per il Figlio, e che ci trascina verso il Padre, per il Figlio, vivere, per voi, sia Cristo. Abbiatelo nello spirito, nel cuore e nelle mani cioè, diventate nel mondo, delle copie vive e fedeli di Lui… ». – Lo Spirito Santo, il « Divino Sconosciuto! » diceva un illustre Vescovo francese dell’inizio del nostro secolo, Mgr. Dupanloup. Questa parola è stata notata e spesso citata. Infatti, lo Spirito Santo è il «Divino Sconosciuto ». Ci muoviamo in Lui, naturalmente e soprannaturalmente. La liturgia Lo celebra nei suoi inni al termine di ciascun salmo che ci fa cantare o recitare. E nonostante lo Spirito Santo resta il « Divino Sconosciuto ». Se ne parla poco; non s’invoca abbastanza; la teologia stessa è troppo muta a suo riguardo. Questo libro è stato scritto per cercar di colmare tale lacuna. L’autore ringrazia lo Spirito Santo di aver permesso che al termine della sua vita, potesse offrirgli questa testimonianza di teologia dogmatica. A tutti coloro che ha conosciuti e sui quali ha esercitato il suo pensiero, la sua azione, questa parola d’ordine che è nel medesimo tempo un regolamento di vita: Al Padre, per il Figlio, nello Spirito. –

* * * *

Al termine di questo « Trattato dello Spirito Santo », cerchiamo di comprendere a fondo, per ammirarla, adorarla e ispirarne tutta la nostra vita, la relazione stretta, intima, profonda che esiste fra lo Spirito Santo e la Santissima Eucarestia. Dopo aver istituito la vita soprannaturale, il nostro divino Salvatore, nell’esaltazione del Suo amore per noi, pensa a istituire un pane che sarà il nutrimento di questa vita. La vita soprannaturale è Lui stesso, il Verbo generato dal Padre, da cui procede lo Spirito, per il quale, col quale, nel quale viene in noi per vivificarci. Il pane, è ancora Lui stesso, Verbo di Dio fatto uomo, realmente presente sotto le specie del pane e del vino, che vuol essere nutrimento e bevanda di questa vita. Questo strettissimo legame che esiste tra lo Spirito Santo e l’Eucarestia non si spiega che con l’amore infinito del nostro Salvatore per noi, secondo queste parole dell’Apostolo san Giovanni: Cum dilexisset suos qui erant în mundo, în finem dilexit eos (Joan. XIII, 1). – I protestanti non hanno compreso ciò che l’Eucarestia recava alla presenza spirituale del Salvatore sulla terra, come non hanno capito quel che il Sacrificio eucaristico aggiungeva al Sacrificio della croce. Non hanno compreso che molto imperfettamente tutto l’amore del Salvatore per noi. Errore di persone intellettuali, che hanno capito solo una parte dell’opera di Cristo. La presenza reale e la Comunione al corpo e al sangue di Cristo procedono dall’amore infinito del Verbo di Dio fatto uomo. L’amore del Cristo che, nonostante hanno sempre avuto e conservano, vivo e profondo, avrebbe dovuto e dovrebbe condurli o ricondurli alla presenza reale e alla Comunione sacramentale. Sarebbe questo l’accordo tanto desiderato fra tutti i Cristiani. I protestanti si stupiscono del nostro amore ardente per il Cristo. La spiegazione è nell’Eucarestia. Abbiamo la vita nel Cristo, e, mediante l’Eucarestia, abbiamo il nutrimento normale di questa vita. Essi, anche se hanno la vita nel Cristo, sono privi del normale nutrimento. Di qui, la loro anemia spirituale, la loro. debolezza. Così, il nostro Salvatore, prima di lasciarci, ci ha detto:

« Nunc relinquo mundum et vado ad Patrem (Joan. XVI, 28).

Sed non relinquam vos orphanos. Et iterum venio ad vos (Joan. XIV, 18 ).

Venio ad vos per Spiritum, cum Spiritu, în Spiritu (cfr. passim).

Hoc est corpus meum hic est calix sanguinis mei (Mt. XXVI, 26; Mc. XIV, 22; Lc. XXII, 19). Adesso io lascio il mondo e vado al Padre mio. — Ma non vi lascerò orfani. Torno a voi. Torno a voi per il mio Spirito, col mio Spirito, nel mio Spirito; ciò che significa: vivo in voi per il mio Spirito, col mio Spirito, nel mio Spirito. — Il nutrimento di questa vita sono Io stesso. È il mio corpo, il mio sangue: è la mia Eucarestia »; queste tre grandi affermazioni del nostro Salvatore sono, secondo noi, inseparabili e unite da una relazione molto stretta, intima e profonda; esse dicono tutta la vita spirituale che il Cristo continua sulla terra; ne mostrano tutta la grandezza, la bellezza, la potenza santificante. È il nostro dogma, la nostra fede. Nulla è più operante di una tale fede, quando è ben stabilita nello spirito e nel cuore.

F I N E

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XV – “SPIRITUS PARACLITUS” (1)

La Spiritus Paraclitus di S. S. Benedetto XV, è una Enciclica straordinaria e di una importanza dottrinale immensa, riferendosi, nell’esaltazione dell’opera e della figura di S. Girolamo, alla Sacra Scrittura nella quale – si ribadisce solennemente – non può trovarsi errore di sorta perché redatta, se pur mediante l’ausilio terreno di molti scrittori, dal sommo Autore, Dio stesso nella Persona dello Spirito Santo. Si tratta di un documento che dovrebbe essere letto e riletto continuamente, ricco com’è di principi assolutamente veritieri e senza inganno di sorta, un vero schiaffo per tanti illustri asini, atei, protestanti, ebraizzanti da strapazzo, massoni di scarso profilo culturale, inattendibili improvvisati biblisti “fai da te”, sbandierati dalla propaganda anticattolica in libercoli insulsi messi in mostra e venduti in edicole ferroviarie e autostradali e fatti passare per novelli studiosi la cui ignoranza è palese oltre che truffaldina. Lo stesso atteggiamento tengono i modernisti indovati nella setta vaticana postconciliare, sempre pronti a discreditare, contro ogni evidenza, ogni rifermento alla vera Chiesa Cattolica, quella dalla quale hanno vergognosamente apostatato trascinando alla perdizione eterna tanti ignari incolti pseudo-fedeli. Oltretutto la Sacra Scrittura è un’arma per confutare e respingere gli eretici di ogni sorta di ogni epoca, in particolare della nostra  … « Una volta che sarai erudito nelle Sacre Scritture, armato delle loro leggi e delle loro testimonianze, che sono i vincoli della verità, tu andrai contro i tuoi nemici, li domerai, li incatenerai e li riporterai prigionieri; e di questi avversari e prigionieri di ieri, tu farai tanti figli di Dio (EpLXXVIII, XXX, al. 78, mansio).» – Per la sua lunghezza dividiamo la Lettera in due parti, così da renderne la meditazione più godibile e fruttuosa.

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Benedetto XV
Spiritus Paraclitus

Lettera Enciclica (1)

Lo Spirito Santo, che diede al genere umano, per iniziarlo ai misteri della divinità, il tesoro delle Lettere Sante, ha con immensa provvidenza fatto sorgere nel corso dei secoli numerosi esegeti, notevoli per santità e per dottrina, i quali, non contenti di non lasciare infecondo questo Celeste tesoro (Conc. Trid., s. V. decr. di riforma, c. I), dovevano far ampiamente gustare attraverso i loro studi e le loro opere, ai fedeli cristiani, “la consolazione delle Scritture“. È universalmente riconosciuto l’eccelso posto tenuto da San Gerolamo, nel quale la Chiesa Cattolica riconosce e venera il più gran Dottore di cui il Cielo le abbia fatto dono per l’interpretazione delle Sacre Scritture. Invero, poiché fra pochi giorni dobbiamo commemorare il quindicesimo centenario della sua morte, Noi non vogliamo, Venerabili Fratelli, lasciar passare un’occasione così favorevole per intrattenervi a bell’agio sulla gloria che San Gerolamo ha acquistata e sui servizi che egli ha reso con la sua sapienza nelle Sacre Scritture. – La coscienza del Nostro ufficio Apostolico e il desiderio di dare incremento allo studio nobilissimo delle Scritture, Ci incitano da un lato a proporre come esempio da imitarsi questo grande genio, e dall’altro a confermare con la Nostra Apostolica autorità ed a meglio adattare ai tempi che oggi la Chiesa attraversa le preziosissime direttive e le prescrizioni date in questa materia dai Nostri Predecessori di santa memoria: Leone XIII e Pio X. Infatti San Gerolamo, “spirito grandemente impregnato di senso cattolico e molto versato nella conoscenza della legge santa” (Sulp. Sev., Dial., 1, 7), maestro dei cristiani” (Cass., De inc. VII, 26), “modello di virtù e luce del mondo intero” (San Prospero, Carmen de ingratis, V, 57), ha esposto meravigliosamente e validamente difeso la dottrina cattolica intorno ai Libri Santi; e a questo proposito Ci fornisce un insieme di insegnamenti di altissimo valore, di cui Noi Ci valiamo per esortare tutti i figli della Chiesa, e specialmente i membri del clero, al rispetto, alla lettura devota e all’assidua meditazione delle Scritture Divine. Come sapete, Venerabili Fratelli, San Gerolamo, nato a Stridone, città “un tempo di confine tra la Dalmazia e la Pannonia”, (De viris ill., 135), allevato fin dalla più tenera infanzia al Cattolicesimo (Ep. LXXX, 11, 2), dopo che col Battesimo ebbe preso qui in Roma stessa l’abito di Cristo (Ep. XV, 1, 1; XVI, 11, 1), fino alla fine della sua lunghissima vita consacrò tutte le sue forze allo studio, alla esplicazione e alla difesa dei Libri Sacri. – Istruitosi in lettere latine e greche, appena uscito dalla scuola dei rètori, ancora adolescente, si sforzava di commentare il profeta Abdia; questo Saggio “della sua prima gioventù” (Abdpraef.) fece crescere a tal punto il suo amore per le Scritture, che, seguendo la parabola del Vangelo, egli decise di dover sacrificare al tesoro che aveva scoperto “tutti i vantaggi di questo mondo” (Matth. XIII, 44). – Perciò, sfidando tutte le difficoltà di una simile decisione, abbandonò la sua casa, i genitori, la sorella, i parenti, rinunziò all’abitudine di una lauta mensa e partì per i luoghi santi dell’Oriente, allo scopo di procurarsi con maggior abbondanza le ricchezze di Cristo e la conoscenza del Salvatore, con la lettura e lo studio dei Libri Santi (Ep. XXII, XXX, 1). Più volte egli stesso ci descrive come si sia dedicato a questa impresa, senza risparmiare fatica: “Una meravigliosa sete di sapere mi spingeva ad istruirmi e non fui affatto, come alcuni pensano, il maestro di me stesso. Ad Antiochia ascoltai spesso le lezioni di Apollinare di Laodicea (1), che frequentavo; ma benché fossi suo discepolo nelle Sacre Scritture, non ho però mai adottato il suo dogmatismo ostinato in materia di senso” (Ep. LXXXIV, 111, 1). San Gerolamo dalla Palestina si ritirò nel deserto della Calcide, in Siria; e al fine di penetrare più profondamente il senso della parola divina e per frenare nello stesso tempo, con accanito travaglio, gli ardori della giovinezza, si mise alla scuola di un ebreo convertito, dal quale ebbe anche modo di apprendere la lingua ebraica e quella caldea. “Quali pene tutto ciò mi sia costato, quali difficoltà abbia dovuto vincere, quali scoraggiamenti soffrire, quante volte abbia abbandonato questo studio, per poi riprenderlo più tardi, stimolato dalla mia passione per la scienza, io solo, che l’ho provato, potrei dirlo, e con me coloro che mi vivevano accanto. E benedico Iddio per i dolci frutti che mi ha arrecati l’amaro seme dello studio delle lingue” (Ep. CXXV, 12). San Gerolamo, fuggendo le bande di eretici che venivano a turbarlo perfino nella solitudine del deserto, si recò a Costantinopoli. Il Vescovo di questa città era allora San Gregorio il Teologo celebre per la fama e la gloria universali della sua scienza. Gerolamo lo prese per quasi tre anni a guida e a maestro nell’interpretazione delle Sacre Lettere. In quest’epoca egli tradusse in latino le Omelie di Origene sui Profeti e la Cronaca di Eusebio e commentò la visione dei Serafini in Isaia. – Ritornato a Roma, per le difficoltà che la Cristianità attraversava, vi fu accolto paternamente dal Papa Damaso, che egli assistette nel governo della Chiesa (Ep. CXXIII, IX, al., 10; Ep. CXXVII, VII, 1). Sebbene assorbito in ogni senso dalle preoccupazioni di questa carica, tuttavia mai trascurò sia di dedicarsi ai Libri Santi (Ep. CXXVII, VII, 1 e segg.) e di trascrivere e di esaminare i codici (Ep. XXXVI, 2; Ep. XXXII, 1), sia di risolvere le difficoltà che gli venivano sottoposte e di iniziare i discepoli d’ambo i sessi alla conoscenza delle Scritture (Ep. XLV, 2; CXXVI, 3; CXXVII, 7). – Il Papa gli aveva affidato l’importantissimo compito di rivedere la versione latina del Nuovo Testamento: egli rivelò in quest’impresa una tale penetrazione e una tale finezza di giudizio, che la sua opera è sempre più stimata e ammirata dagli stessi esegeti moderni. Ma tutti i suoi pensieri, tutti i suoi desideri l’attiravano verso i luoghi della Palestina. Fu così che, alla morte di Damaso, Gerolamo si ritirò a Betlemme; ivi, fondato un monastero presso la culla di Gesù, si consacrò tutto a Dio, dedicando tutto il tempo che la preghiera gli lasciava libero allo studio e all’insegnamento delle Scritture. “Già – così egli ci riferisce – il mio capo s’incanutiva e avevo ormai l’aspetto più di un maestro che di un discepolo; ciò nonostante mi recai ad Alessandria e mi misi alla scuola di DidimoMolto a lui io devo: mi insegnò quello che ignoravo, e ciò che già sapevo mi rivelò sotto diversa forma. Sembrava che non avessi più nulla da imparare, e ora, a Gerusalemme e a Betlemme, a prezzo di quali fatiche e di quali sforzi ho io seguito ancora durante la notte le lezioni di Baranina! Egli temeva gli Ebrei e mi faceva l’effetto di un secondo Niccodemo” (EpLXXXIV, 111, 1 e segg.). Lungi dall’accontentarsi delle lezioni e dell’autorità di quei maestri – e non solo di questi – egli si valse, per raggiungere nuovi progressi, di fonti di documentazione d’ogni genere: dopo di essersi procurato fin dall’inizio i migliori manoscritti e commentari delle Scritture, studiò i libri delle sinagoghe e le opere della biblioteca di Cesarea, fondata da Origene e da Eusebio; il confronto di questi testi con quelli che già possedeva, doveva metterlo in grado di fissare la forma autentica e il vero senso del testo biblico. – Per meglio raggiungere il suo scopo, visitò la Palestina in tutta la sua estensione, fermamente convinto del vantaggio che ne avrebbe tratto, come faceva notare nella sua lettera a Domnione e a Rogaziano: “La Sacra Scrittura sarà molto più penetrabile per colui che ha visto con i suoi occhi la Giudea, che ha ritrovato i resti delle antiche città, ed appreso i nomi rimasti identici o trasformatisi delle varie località. Questo è il pensiero che ci guidava quando ci siamo imposta la fatica di percorrere, insieme ai più grandi eruditi ebrei, la regione il cui nome risuona in tutte le chiese di Cristo” (Ad Domnionem et Rogatianum in I. Paral. Prefaz.). Ecco dunque San Gerolamo nutrire senza posa il suo spirito di questa manna Celeste, commentare le Lettere di San Paolo, correggere, secondo i testi greci, i codici latini dell’Antico Testamento, tradurre di nuovo in latino dall’originale ebraico quasi tutti i Libri Sacri, spiegare ogni giorno le Sacre Scritture ai fedeli insieme riuniti, rispondere alle lettere che da ogni parte gli giungevano per sottoporgli difficoltà esegetiche da risolvere, confutare vigorosamente i detrattori dell’unità e della fede cattolica, e – tanto grande era l’energia che gli infondeva l’amore per le Scritture – non smettere dallo scrivere e dal dettare, finché la morte non ebbe irrigidito la sua mano e spento la sua voce. – Così, non risparmiando né fatiche, né veglie, né spese, mai, fino all’estrema vecchiaia, cessò di meditare giorno e notte, presso il Santo Presepio, sulla legge del Signore, rendendo maggiori servigi al nome cattolico, dal fondo della sua solitudine, con l’esempio della sua vita e con i suoi scritti, di quelli che avrebbe potuto rendere se fosse vissuto a Roma, centro del mondo. – Dopo questo rapido esame della vita e delle opere di San Gerolamo, vediamo ora, Venerabili Fratelli, quale fu il suo insegnamento sulla dignità divina e l’assoluta veracità delle Sacre Scritture. A questo proposito, si analizzino gli scritti del grande Dottore: non v’è pagina in cui non sia reso evidente come egli abbia fermamente e invariabilmente affermato, in armonia con l’intera Chiesa Cattolica, che i Libri Santi sono stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, che autore di essi va ritenuto Dio stesso e che come tali la Chiesa li ha ricevuti (Conc. Vat. I. III, Const. de fide cath. cap. II). I Libri della Santa Scrittura – egli afferma sono stati composti sotto l’ispirazione o la suggestione o anche la diretta dettatura dello Spirito Santo; ed è per di più questo stesso Spirito che li ha composti e divulgati. D’altronde però San Gerolamo non dubita minimamente che ogni autore di questi libri abbia secondo la propria possibilità e il proprio genio, dato libero contributo all’ispirazione divina. Non solo dunque egli afferma senza riserve l’elemento comune a tutti gli scrittori di cose sacre – sarebbe a dire il fatto che la loro penna è guidata dallo Spirito divino, a tal punto che Dio stesso deve essere considerato causa principe e determinante di ogni espressione della Scrittura – ma anche distingue accuratamente e pone in rilievo ciò che in un singolo scrittore vi è particolarmente caratteristico. Sotto diversi punti di vista, secondo cioè l’ordinamento del materiale, secondo l’uso dei vocaboli, la qualità e la forma dello stile, egli dimostra. come ciascuno abbia messo a profitto le proprie facoltà e le proprie capacità personali; giunge in tal modo a fissare e a ben delineare il carattere singolo, le impronte, per così dire, e la fisionomia di ogni autore, soprattutto riguardo ai Profeti e all’Apostolo San Paolo. Per meglio porre in rilievo questa collaborazione di Dio e dell’uomo alla stessa opera, San Gerolamo adduce l’esempio dell’operaio, che si serve, nella costruzione di un oggetto qualsiasi, di uno strumento o di un utensile; infatti tutto quello che gli scrittori sacri dicono “altro non è che la parola stessa di Dio e non la loro parola, e parlando per mezzo della loro bocca, Dio volle servirsi come d’uno strumento (Tract. de Ps., LXXXVIII). – Se noi cerchiamo inoltre di comprendere come bisogna interpretare questa influenza di Dio sullo scrittore di sacri argomenti e l’azione che Egli come causa principale esercitò, noi vedremo che l’opinione di San Gerolamo è in perfetta armonia con la dottrina comune della Chiesa Cattolica: Dio – egli afferma – con un dono della Sua grazia illumina lo spirito dello scrittore, riguardo alla verità che questo deve trasmettere agli uomini “per ordine divino“.Egli suscita in lui la volontà e lo costringe a scrivere; gli conferisce un’assistenza speciale fino al compimento del libro. E’ principalmente su questo punto del concorso divino, che il nostro Santo fonda l’eccellenza e la dignità incomparabili delle Scritture, la cui scienza paragona al “tesoro prezioso (Matth. XIII, 44; Tract. de Ps. LXXII) e alla “splendida perla” (Matth. XIII, 45 e segg.) e in cui assicura si trovano “le ricchezze di Cristo” (Quaestin Gen., Prefaz.) e “l’argento che orna la casa di Dio” (Agg. II, 1 e segg.; cfr. Gal. 11, 10 ecc.). Proclamava eloquentemente, sia con le parole che con i fatti, l’autorità sovrana della Scrittura. Non appena si sollevava una controversia, egli ricorreva alla Bibbia come alla più autorevole fonte per dedurne testimonianze, argomenti molto saldi e assolutamente inconfutabili al fine di dimostrare apertamente gli errori degli avversari. – Così San Gerolamo rispose, con massima schiettezza e semplicità, a Elvidio, che negava la perpetua verginità della Madre di Dio: Se ammettiamo tutto ciò che dice la Scrittura, neghiamo logicamente ciò che essa non dice. Noi crediamo che Dio sia nato da una vergine, appunto perché lo leggiamo nella Scrittura; e neghiamo che Maria non sia rimasta vergine dopo il parto, perché la Scrittura non lo riporta assolutamente (Adv. Helv., 19). Si ripromette, servendosi di queste stesse armi, di difendere con la massima vigoria, contro Gioviniano, la dottrina cattolica sullo stato di verginità di Maria, sulla perseveranza, l’astinenza e il merito delle buone opere: “Io farò ogni sforzo per opporre, a ciascuna delle sue asserzioni, i testi delle Scritture: eviterò così che egli vada ovunque lamentandosi che io l’ho vinto più con la mia eloquenza che con la forza della verità” (Adv. Iovin., 1, 4). – Nella difesa delle sue opere contro lo stesso eretico, aggiunge: “Sembrerebbe che l’abbiano supplicato di cedere davanti a me, mentre egli non s’è lasciato prendere che a malincuore, dibattendosi nei lacci della verità (Ep. XLIX, al. XLVIII, 14, 1). – Sull’insieme della Sacra Scrittura, leggiamo ancora nel suo commentario su Geremia, che la morte gli impedì di condurre a termine: “Non bisogna seguire l’errore dei genitori né quello degli antenati, bensì l’autorità delle Scritture e la volontà di Dio maestro“(Ier. IX, 12 e segg.). Ecco come descrive a Fabiola il metodo e l’arte per combattere il nemico: “Una volta che sarai erudito nelle Sacre Scritture, armato delle loro leggi e delle loro testimonianze, che sono i vincoli della verità, tu andrai contro i tuoi nemici, li domerai, li incatenerai e li riporterai prigionieri; e di questi avversari e prigionieri di ieri, tu farai tanti figli di Dio (EpLXXVIII, XXX, al. 78, mansio). Per altro San Gerolamo insegna che l’ispirazione divina dei Libri Santi e la loro sovrana autorità comportano, quale conseguenza necessaria, l’immunità e l’assenza di ogni errore e di ogni inganno: tale principio egli aveva appreso nelle più celebri scuole d’Occidente e d’Oriente, come tramandato dai Padri e accettato dall’opinione comune. E invero, dopo che egli ebbe intrapreso, per ordine del Papa Damaso, la revisione del Nuovo Testamento, alcuni “spiriti meschini gli rimproverarono amaramente di aver tentato “contro l’autorità degli antichi e l’opinione di tutto il mondo, di fare alcuni ritocchi ai Vangeli”; San Gerolamo si accontentò di rispondere che non era abbastanza semplice di spirito, né così estremamente ingenuo, per pensare che la più piccola parte delle parole del Signore avesse bisogno d’essere corretta, o per ritenere che non fosse divinamente ispirata (Ep. XXVII, 1, 1 e segg.). Nel commento alla prima visione dì Ezechiele intorno ai quattro Evangeli, fa notare: “Non troverà strani tutto quel corpo e quei dorsi disseminati d’occhi, chi si è reso conto come dal più piccolo particolare del Vangelo si sprigiona una luce che illumina col suo raggio il mondo intero: ed anche la cosa che è apparentemente la più trascurabile brilla di tutto il maestoso splendore dello Spirito Santo (Ex. I, 15 e segg.). Ora, questo privilegio, che egli qui rivendica per il Vangelo, lo reclama poi in ognuno dei suoi commentari per tutte le altre “parole del Signoree ne fa la legge e la base dell’interpretazione cattolica; questo è d’altra parte il criterio di cui San Gerolamo si vale per distinguere il vero profeta dal falso (Mich. II, II e segg.; III, 5 e segg.). Poiché: “la parola del Signore è verità, e per Lui dire significa realizzare” (Mich. IV, 1 e segg.). Pertanto “la Scrittura non può mentire” (Ier. XXXI, 35 e segg.) e non è permesso accusarla di menzogna (Nah. 1, 9) e neppure ammettere nelle sue parole anche un solo errore di nome (Ep. LVII, VII, 4). Del resto, il Santo Dottore aggiunge che egli “non pone sullo stesso piano gli Apostoli e gli altri scrittoricioè gli autori profani; “quelli dicono sempre la verità, mentre questi, come capita agli uomini, si ingannano su alcuni punti” (Ep. LXXXII, VII, 2); molte affermazioni della Scrittura, che a prima vista possono sembrare incredibili, sono tuttavia vere (Ep. LXXII, II, 2), e in questa “parola dì verità” non è possibile scoprire nessuna contraddizione, nessuna discordanza, nessuna incompatibilità (Ep. XVIII, VII, 4; cfr. Ep. XLVI, VI, 2); per conseguenza “se la Scrittura contenesse due dati che sembrassero escludersi, entrambi” resterebbero “veri, quantunque diversi” (Ep. XXXVI, XI, 2). – Sempre fedele a questo principio, se gli capitava di incontrare nei Libri Sacri apparenti contraddizioni, San Gerolamo concentrava tutte le sue cure e tutti gli sforzi del suo spirito per risolvere la difficoltà; e se giudicava la soluzione ancora poco soddisfacente, riprendeva, non appena si presentasse l’occasione, senza perdere coraggio, l’esame del problema, anche se talora non giungeva a risolverlo completamente. Mai tuttavia egli incolpò gli scrittori sacri della minima falsità: “Lascio fare ciò agli empi, come Celso, Porfirio, Giuliano” (Ep. LVII, IX, 1). In ciò era perfettamente d’accordo con Sant’Agostino: questi – leggiamo in una delle sue lettere allo stesso San Gerolamo – aveva per i Libri Sacri una venerazione così piena di rispetto, da credere molto fermamente che nessun errore fosse sfuggito alla penna di uno solo di tali autori; perciò, se incontrava nelle Lettere Sante un punto che sembrava in contrasto con la verità, lungi dal credere ad una menzogna, ne attribuiva la colpa a un’alterazione del manoscritto, a un errore di traduzione, o a una totale inintelligenza da parte sua. Al che aggiungeva: “Io so, fratello, che tu non pensi diversamente: voglio dire che non m’immagino affatto che tu desideri vedere le tue opere, lette nella stessa disposizione di spirito in cui vengono lette le opere dei Profeti e degli Apostoli; dubitare che esse siano prive di ogni errore, sarebbe un delitto (Sant’Ag. a San Gerol., tra le lettere di San Gerol. CXVI, 3). – Questa dottrina formulata da San Gerolamo conferma dunque splendidamente e nello stesso tempo spiega la dichiarazione del Nostro Predecessore di santa memoria, Leone XIII, in cui era precisata la credenza antica e costante della Chiesa sulla perfetta immunità che mette la Scrittura al riparo d’ogni errore: “E’ tanto assurdo che l’ispirazione divina incorra il pericolo di errare, che non solo il minimo errore ne è essenzialmente escluso, ma anche che questa esclusione e questa impossibilità sono tanto necessarie, quanto è necessario che Dio, sovrana verità, non sia l’autore di alcun errore, anche il più lieve“. – Dopo aver riferito le conclusioni dei Concili di Firenze e di Trento, confermate dal Sinodo in Vaticano, Leone XIII prosegue: “La questione assolutamente non cambia per il fatto che lo Spirito Santo s’è servito di uomini come di strumenti per scrivere, come se qualche errore avesse potuto sfuggire non certo all’autore principale, ma agli scrittori che da Lui erano ispirati. Poiché Egli stesso li ha con la sua azione soprannaturale eccitati e spinti lino a che si ponessero a scrivere; li ha poi assistiti nel corso della loro opera a tal punto che essi pensavano secondo assoluta giustizia, volevano riportare fedelmente e perfettamente esprimevano, con esattezza infallibile, tutto quello che Egli ordinava loro di scrivere, e solo questo riportavano: diversamente non potrebbe essere lo Spirito Santo l’autore di tutta la Sacra Scrittura“(Lett. Encicl. Providentissimus Deus). Queste parole del Nostro Predecessore non lasciavano adito ad alcun dubbio, né ad alcuna esitazione. Ma, ahimè!, Venerabili Fratelli, non mancarono tuttavia, non solo fra gli estranei, ma anche tra i figli della Chiesa Cattolica e – strazio ancor più grande per il Nostro cuore – perfino fra il clero e i maestri delle Scienze sacre, spiriti che con fiducia orgogliosa nel proprio criterio di giudizio, – apertamente rifiutarono o attaccarono subdolamente su questo punto il magistero della Chiesa. Certamente noi approviamo l’intenzione di coloro che, desiderosi per sé e per gli altri di liberare il Testo Sacro dalle sue difficoltà, ricercano, con l’appoggio di tutti i dati della scienza e della critica, nuovi modi e nuovi metodi per risolverle; ma essi falliranno miseramente nella loro impresa, se trascureranno le direttive del Nostro Predecessore e se oltrepasseranno i limiti precisi indicati dai Santi Padri. – Ora l’opinione di alcuni moderni non si preoccupa affatto di queste prescrizioni e di questi limiti: distinguendo nella Sacra Scrittura un duplice elemento, uno principale o religioso, e uno secondario o profano, essi accettano, si, il fatto che l’ispirazione si riveli in tutte le proposizioni ed anche in tutte le parole della Bibbia, ma ne restringono e ne limitano gli effetti, a partire dall’immunità dall’errore e dall’assoluta veracità, limitata al solo elemento principale o religioso. Secondo loro, Dio non si preoccupa e non insegna personalmente nella Scrittura se non ciò che riguarda la religione: il resto ha rapporto con le scienze profane e non ha altra utilità, per la dottrina rivelata, che quella di servire da involucro esteriore alla verità divina. Dio soltanto permette che esso vi sia e l’abbandona alle deboli facoltà dello scrittore. Perciò non vi è nulla di strano se la Bibbia presenta, nelle questioni fisiche, storiche e in altre di simile argomento, passaggi piuttosto frequenti che non è possibile conciliare con gli attuali progressi delle Scienze. Alcuni sostengono che queste opinioni erronee non sono affatto in contrasto con le prescrizioni del Nostro Predecessore: non ha forse Egli dichiarato che, in materia di fenomeni naturali, l’autore sacro ha parlato secondo le apparenze esteriori, suscettibili quindi d’inganno? Quanto questa affermazione sia temeraria e menzognera, lo provano manifestamente i termini stessi del documento Pontificio. L’apparenza esteriore delle cose – ha dichiarato molto saggiamente Leone XIII, seguendo Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino – deve essere tenuta in una certa considerazione; ma questo principio non può suscitare il minimo sospetto di errore nella Sacra Scrittura: poiché la sana filosofia asserisce come cosa sicura che i sensi, nella percezione immediata delle cose, oggetto vero di conoscenza, non si ingannano affatto. Inoltre il Nostro Predecessore, dopo aver negato ogni distinzione e ogni possibilità di equivoco tra quello che è l’elemento principale è l’elemento secondario, dimostra chiaramente il gravissimo errore di coloro i quali ritengono che “per giudicare della verità delle proposizioni bisogna senza dubbio ricercare ciò che Dio ha detto, ma più ancora valutare il motivo che lo ha indotto a parlare“.Leone XIII precisa ancora che l’ispirazione divina è presente in tutte le parti della Bibbia, senza selezione né distinzione alcuna, e che è impossibile che anche il minimo errore si sia introdotto nel testo ispirato: “Sarebbe un errore molto grave restringere l’ispirazione divina solo a determinate parti della Sacra Scrittura, o ammettere che l’autore sacro stesso abbia potuto ingannarsi“. – E non sono meno discordi dalla dottrina della Chiesa, confermata dall’autorità di San Gerolamo e degli altri Padri, quelli che ritengono che le parti storiche delle Scritture si appoggiano non sulla verità “assoluta” dei fatti, ma soltanto sulla loro “verità relativa“, come essi la chiamano, e sul modo volgarmente comune di pensare. Per sostenere questa teoria, essi non temono di richiamarsi alle stesse parole del Papa Leone XIII, il quale avrebbe affermato che i principi ammessi in materia di fenomeni naturali possono essere portati in campo storico. Come nell’ordine fisico gli scrittori sacri hanno parlato seguendo le apparenze, cosi – essi pretendono – quando si trattava di riportare avvenimenti non perfettamente noti, li hanno riferiti come apparivano fissati secondo l’opinione comune del popolo o le relazioni inesatte di altri testimoni; inoltre essi non hanno citato le fonti delle loro informazioni, e non hanno garantito personalmente le narrazioni attinte da altri autori. – A che confutare più a lungo una teoria veramente ingiuriosa per il Nostro Predecessore e nello stesso tempo falsa e piena di errore? Quale rapporto, infatti, vi è tra i fenomeni naturali e la storia? Le scienze fisiche si occupano di oggetti che colpiscono i sensi e devono quindi concordare con i fenomeni come essi appaiono; la storia invece, narrazione di fatti, deve – ed è questa la sua legge principale – coincidere con questi fatti, come realmente si sono verificati. Se si accettasse la teoria di costoro, come sarebbe possibile conservare alla narrazione sacra quella verità, immune da ogni falsità, che come il Nostro Predecessore dichiara in tutto il contesto della sua Enciclica, non si deve affatto menomare? – Che anzi, quando egli afferma che v’è interesse a trasportare nella storia e nelle scienze affini i principi che valgono per le scienze fisiche, non intende stabilire una legge generale e assoluta, ma indicare semplicemente un metodo uniforme da seguire, per confutare le obiezioni fallaci degli avversari e difendere contro i loro attacchi la verità storica della Sacra Scrittura. Se almeno i partigiani di queste teorie si fermassero a ciò! Ma non giungono invece fino al punto d’invocare il Dottore dalmata per difendere la loro opinione? San Gerolamo, a credere in loro, avrebbe dichiarato che bisogna mantenere l’esattezza e l’ordine dei fatti storici nella Bibbia “prendendo per regola non la realtà obiettiva ma l’opinione dei contemporanei“, che, veniva così a costituire la vera legge della storia (Ier. XXIII, 15 e segg.; Matth. XIV, 8; Adv. Helv. 4). Come sono abili a trasformare in loro favore le parole di San Gerolamo! Ma non è possibile avere dubbi sul suo esatto pensiero: egli non afferma che nell’esposizione dei fatti lo scrittore sacro si appropria di una falsa credenza popolare a proposito di dati che ignora, ma dice soltanto che nella designazione delle persone e degli oggetti egli usa il linguaggio corrente. Così quando uno scrittore chiama San Giuseppe padre di Gesù, indica chiaramente in tutto il corso della sua narrazione come intenda questo nome di padre. Secondo San Gerolamo, “la vera legge della storia” richiede che nell’impiego delle denominazioni lo scrittore si attenga, dopo aver eliminato ogni pericolo d’errore, al modo generale d’esprimersi; poiché l’uso è l’arbitro e il regolatore del linguaggio. E che? Forse che il nostro Dottore non pone sullo stesso piano i fatti riportati dalla Bibbia e i dogmi nei quali è necessario credere, se si vuol raggiungere la salvezza eterna? Ecco infatti ciò che leggiamo nel suo commentario sull’Epistola a Filemone: “In quanto a me, ecco ciò che penso: uno crede in Dio Creatore: ciò non gli sarebbe possibile se non credesse alla verità di tutto quello che Scrittura riporta riguardo ai suoi Santi“.E compila una lunghissima serie di citazioni tratte dall’Antico Testamento, concludendo: “Chiunque rifiuti di prestar fede a tutti questi fatti e a tutti gli altri, senza eccezione alcuna, riguardanti i Santi, non potrà credere al Dio dei Santi” (Philem. 4). – San Gerolamo si trova quindi in perfetto accordo con Sant’Agostino, il quale, interprete del sentimento comune di tutta l’antichità, così scriveva: “Noi crediamo tutto ciò che la Sacra Scrittura, posta al supremo culmine dell’autorità dalle testimonianze sicure e venerabili della verità, ci attesta riguardo ad Enoch, ad Elia e a Mosè… Così, se noi crediamo che il Verbo è nato dalla Vergine Maria, non è per il fatto che Egli non avrebbe potuto trovare altro mezzo per assumere una forma realmente incarnata, e per manifestarsi agli uomini (come pretendeva sostenere Fausto), ma perché così è detto in quella Scrittura, alla quale dobbiamo prestar fede, se vogliamo rimanere cristiani e salvarci” (San Aug. Contra Faustum, XXVI, 3 e segg., 6 e segg.). Vi è poi un altro gruppo di denigratori della Sacra Scrittura: intendiamo parlare di coloro che, abusando di certi principi, giusti del resto se si trattengono entro determinati limiti, giungono a distruggere la base della veridicità delle Scritture, e a denigrare la dottrina cattolica trasmessa dai Padri. – Se ancora vivesse, certamente San Gerolamo lancerebbe acuminati strali contro questi imprudenti che, disprezzando il sentimento e il giudizio della Chiesa, ricorrono con troppa facilità a quel sistema da essi definito “delle citazioni implicite” o delle narrazioni che sono storiche soltanto apparentemente; i quali pretendono di scoprire nei Libri Sacri procedimenti letterari inconciliabili con l’assoluta e perfetta veracità della parola divina, e professano sull’origine della Bibbia un’opinione che tende unicamente a scuoterne l’autorità o addirittura ad annullarla. E che pensare di coloro che, nella interpretazione del Vangelo, ne attaccano l’autorità, sia umana che divina, diminuendo quella e distruggendo questa? Delle parole, delle opere di Nostro Signor Gesù Cristo, nulla ci è pervenuto, secondo costoro, nella sua integrità e senza alterazioni, malgrado le testimonianze di coloro che hanno riportato con religiosa cura ciò che avevano visto ed udito; essi non vi vedono – soprattutto per ciò che concerne il IV Vangelo – che una compilazione costituita da un lato dalle aggiunte considerevoli dovute all’immaginazione degli Evangelisti, e dall’altro dal racconto di fedeli di altra epoca; queste correnti perciò, sgorganti da dubbia fonte, hanno oggi cosi ben confuse le acque nello stesso letto, che non è possibile assolutamente avere un criterio sicuro per distinguerle. . Non è così che Gerolamo, Agostino e gli altri Dottori della Chiesa hanno compreso il valore storico dei Vangeli, nei quali: “Chi ha visto ha reso testimonianza, e la sua testimonianza è vera. Ed egli sa di dire il vero, affinché anche voi lo crediate” (Ioan. XIX, 35); San Gerolamo, dopo aver rimproverato agli eretici, autori di Vangeli apocrifi, di “aver tentato più di ordinare la narrazione che di stabilire la verità” (MatthProl.) aggiunge al contrario, a proposito dei Libri Canonici: “Nessuno ha il diritto di mettere in dubbio la realtà di quello che è scritto” (Ep. LXXVIII, 1, 1; cfr. Marc. 1, 13-31). Su questo punto è nuovamente d’accordo con Sant’Agostino, il quale in modo eccellente diceva, a proposito del Vangelo: “Queste cose vere sono state scritte con tutta fedeltà e veridicità a suo riguardo, affinché chiunque crede nel suo Vangelo, sia nutrito di verità, e non sia ingannato da menzogne (San Aug., C. Faustum, XXVI, 8). – Vedete quindi, Venerabili Fratelli, con quale ardore dovete consigliare ai figli della Chiesa di fuggire questa folle libertà d’opinione, con la stessa cura che avevano i Padri. Le vostre esortazioni saranno più facilmente ascoltate se convincerete il clero e i fedeli, affidati alla vostra custodia dallo Spirito Santo, che San Gerolamo e gli altri Padri della Chiesa hanno attinto questa dottrina riguardante i Libri Sacri alla scuola stessa del Divin Maestro Gesù Cristo. Infatti, leggiamo noi forse che Nostro Signore abbia avuto una diversa concezione della Scrittura? – Le parole: “E’ scritto“, e “Bisogna che la Scrittura s’avveri” sono sulle Sue labbra un argomento senza eccezioni, tale da escludere ogni possibile controversia. Ma insistiamo con maggior agio su questa questione. Chi non sa e non ricorda come nei Suoi discorsi al popolo, sia sulla montagna prossima al lago di Genezareth, sia nella sinagoga di Nazareth e nella Sua città di Cafarnao, Gesù Nostro Signore traeva i punti principali e le prove della Sua dottrina dal testo sacro? Non è da esso che Egli attingeva armi invincibili per le discussioni con i Farisei e i Sadducei? Sia che insegni o discuta, Egli riporta affermazioni ed esempi tolti da ogni parte della Scrittura; così, ad esempio, si riferisce indistintamente a Giona, agli abitanti di Ninive, alla regina di Saba e a Salomone, a Elia e ad Eliseo, a Davide, a Noè, a Loth, agli abitanti di Sodoma e alla moglie stessa di Loth (Matth. XII, 3, 39-47; Luc. XVII, 26-29, 32, ecc.). Egli rende una grande testimonianza alla verità dei Santi Padri con la solenne dichiarazione: “Non passerà un solo iota o un solo tratto della legge, finché tutto non sia adempiuto” (Matth. V, 18); e ancora: “La Scrittura non può essere annullata” (Ioan. X, 35); perciò: “Colui che avrà violato anche il più lieve di questi comandamenti e insegnato agli uomini a fare altrettanto, sarà il più trascurabile per il regno dei Cieli” (Matth. V, 19). Prima di raggiungere il Padre Suo in Cielo, Egli volle donare questa dottrina agli Apostoli, che ben presto doveva abbandonare sulla terra: “Aprì loro gli spiriti, affinché comprendessero le Scritture, dicendo: così è scritto, e così bisognava che Cristo soffrisse e che risuscitasse da morte il terzo giorno” (Luc. XXIV, 45 e segg.). La dottrina di San Gerolamo sull’eccellenza e la verità della Scrittura è dunque, per esprimerCi brevemente, la dottrina di Cristo stesso. Perciò Noi esortiamo vivissimamente tutti i figli della Chiesa, e in particolar modo coloro che insegnano la Sacra Scrittura agli studenti ecclesiastici, a seguire senza posa la via tracciata dal Dottore di Stridone; ne risulterà certamente che essi avranno per le Scritture la sua stessa profonda stima, e che il possesso di questo tesoro procurerà loro godimenti sublimi. – Non solo i grandi vantaggi, che già abbiamo ricordato, verranno dal prendere il grande Dottore come guida e maestro, ma molti altri ancora ne scaturiranno e considerevoli: Ci piace, Venerabili Fratelli, ricordarveli sia pur brevemente. Innanzi tutto, poiché prima d’ogni altro si presenta al Nostro spirito, rileviamo l’appassionato amore per la Bibbia, testimoniato in San Gerolamo da ogni atto della sua vita e dalle sue parole, tutte infervorate dallo Spirito di Dio, amore che egli ha cercato di destare sempre più nelle anime dei fedeli: “Ama la Sacra Scrittura – sembra voler dire a tutti quando si rivolge alla vergine Demetria – e la saggezza ti amerà; amala teneramente, ed essa ti custodirà; onorala e riceverai le sue carezze. Che essa sia per te come le tue collane e i tuoi orecchini” (Ep. CXXX, 20). La lettura assidua della Scrittura, lo studio profondo e diligente di ogni libro, anzi di ogni proposizione e di ogni parola, gli hanno permesso di familiarizzarsi col Testo Sacro, più di ogni altro scrittore dell’antichità ecclesiastica. Se la Versione Vulgata, compilata dal Nostro Dottore, lascia, secondo il parere di tutti i critici imparziali, molto dietro di sé le altre versioni antiche, perché si giudica essa renda l’originale con maggior esattezza ed eleganza, ciò è dovuto alla conoscenza che San Gerolamo aveva della Bibbia, conoscenza unita in lui ad uno spirito di fine sensibilità. – Questa Versione Vulgata, che il Concilio di Trento ha deciso di considerare autentica e di seguire nell’insegnamento e nella liturgia, “essendo consacrata dal lungo uso che ne ha fatto, la Chiesa per tanti secoli“, è Nostro vivo desiderio vedere corretta e resa alla sua purezza primitiva, secondo l’antico testo dei manoscritti, se Dio nella sua infinita bontà vorrà concederCi vita sufficiente; compito arduo e grandissimo, affidato, con felice decisione, ai Benedettini dal Nostro Predecessore Pio X di santa memoria, che costituisce, Noi ne siamo sicuri, nuove fonti autorevoli per la comprensione delle Scritture. Questo amore di San Gerolamo per la Sacra Scrittura si rileva in modo del tutto particolare nelle sue lettere, si che esse sembrano una trama di citazioni tratte dai Libri Santi; così come San Bernardo trovava insignificante ogni pagina che non racchiudesse il dolcissimo nome di Gesù, San Gerolamo non gustava nessuno scritto che non splendesse della luce delle Sacre Scritture. Con tutta semplicità poteva egli scrivere in una lettera a San Paolino, un tempo brillante senatore e console, e da poco convertito alla fede di Cristo: “Se tu avessi questo terreno d’appoggio (voglio dire la scienza delle Sacre Scritture), le tue opere nulla avrebbero da perdere, ma acquisterebbero anzi una certa finitezza, e non cederebbero a nessun’altra per l’eleganza, per la scienza e per la finezza della forma… Unisci a questa dotta eloquenza il gusto o la comprensione delle Scritture, e presto ti vedrò posto nelle prime file dei nostri scrittori” (Ep. LVIII, IX, 2; XI, 2). Ma quale via e quale metodo seguire per cercare con lieta speranza di scoprire quel prezioso tesoro che il Padre Celeste ha donato ai suoi figli quale consolazione durante il loro esilio? San Gerolamo stesso ce lo indica col suo esempio. Ci esorta innanzi tutto ad intraprendere lo studio della Scrittura con accurata preparazione e con animo ben disposto. – Osserviamo lo stesso San Gerolamo, dopo che ebbe ricevuto il Battesimo: per superare tutti gli ostacoli esteriori che potevano opporsi al suo santo desiderio, imitando il personaggio del Vangelo che, dopo aver trovato un tesoro, “nella sua gioia, se ne va, vende tutto ciò che possiede ed acquista quel campo” (Matth. XIII, 44), egli dice addio ai piaceri effimeri e frivoli di questo mondo, desidera ardentemente la solitudine ed abbraccia una vita austera con tanto maggior ardore quanto più si è reso conto del pericolo che fino allora aveva corso la sua salvezza in mezzo alle seduzioni del vizio. – Superati questi ostacoli, egli doveva ancora d’altra parte disporre il suo spirito ad acquistare la scienza di Gesù Cristo e a rivestirsi di Colui che è “dolce ed umile di cuore“; aveva in realtà provato quella stessa ripugnanza che Sant’Agostino confessava di aver sofferto quando s’era accinto allo studio delle Sante Lettere. Dopo essersi dedicato durante la sua giovinezza alla lettura di Cicerone e degli altri autori profani, quando vuole rivolgere il suo spirito alla Scrittura Sacra, così si pronunzia: “Mi parve indegna d’essere paragonata alla bellezza della prosa ciceroniana. La mia enfasi aveva orrore della sua semplicità e la mia intelligenza non penetrava nel senso suo più profondo; si riesce a penetrarla sempre meglio, quanto più ci si fa piccini, ma io disdegnavo di farmi piccolo, e la boria m’ingigantiva dinanzi ai miei stessi occhi” (S. Aug. Conf. III, 5; Cfr. VIII, 12). Non altrimenti San Gerolamo, anche nella sua solitudine, gustava a tal punto la letteratura profana, che la povertà di stile delle Scritture gli impediva ancora di riconoscere in esse Cristo nella Sua umiltà. “Così – egli dice – la mia follia mi portava al punto di digiunare per leggere Cicerone. Dopo aver passato moltissime notti insonni, dopo aver versato molte lagrime. che il ricordo delle colpe passate faceva scaturire dal fondo del mio cuore, prendevo in mano Plauto. E quando, ritornato in me stesso, intraprendevo la lettura dei Profeti, il loro barbaro stile mi inorridiva, e quando i miei occhi ciechi restavano chiusi alla luce, io non accusavo di ciò gli stessi miei occhi, ma il sole” (Ep. XXII, XXX, 2). Ma ben presto amò con tale ardore la follia della Croce, da rimanere la prova vivente di quanto un animo umile e pio contribuisca alla comprensione della Bibbia. – Cosciente, come egli era, che “nell’interpretazione della Sacra Scrittura noi abbiamo sempre bisogno del soccorso dello Spirito Santo” (Mich. 1, 10, 15) e che per la lettura e la comprensione dei Libri Santi dobbiamo attenerci “al senso che lo Spirito Santo intendeva avere al momento in cui furono scritti” (Gal. V, 19 e segg.), questo santissimo uomo invocava con le sue suppliche, rafforzate dalle preghiere dei suoi amici, il soccorso di Dio e il lume dello Spirito Santo. Si racconta anche che, iniziando i commentari dei Libri Santi, egli volle raccomandarli alla grazia di Dio e alle preghiere dei confratelli, alle quali attribuì il successo, dopo che l’opera fu compiuta. – Oltre che alla grazia divina, egli si rimette all’autorità della tradizione così pienamente da affermare di aver appreso “tutto quello che non sapeva, non da lui stesso, cioè alla scuola di quel cattivo maestro che è l’orgoglio, ma dagli illustri Dottori della Chiesa” (Ep. CVIII, XXVI, 2). Confessa infatti “di non essersi mai fidato delle proprie forze per ciò che concerne la Sacra Scrittura” (Ad Domnionem et Rogatìanum in I. Par. Prefaz.), e in una lettera a Teofilo, Vescovo d’Alessandria, egli cosi formula la regola secondo la quale aveva ordinato la sua vita e le sue sante fatiche: “Sappi dunque che nulla ci sta più a cuore che salvaguardare i diritti del Cristianesimo, non cambiar nulla al linguaggio dei Padri e non perdere mai di vista questa Romana fede, di cui l’Apostolo fece l’elogio” (EpLXIII, 2). E alla Chiesa, sovrana padrona nella persona dei Pontefici Romani, Gerolamo si sottomette con tutto il suo spirito di devozione. – Dal deserto di Siria, ove era esposto alle fazioni degli eretici, in questi termini scrive a Papa Damaso, volendo sottoporre alla Santa Sede, perché la risolvesse, la controversia degli Orientali sul mistero della Santissima Trinità: “Ho creduto bene di consultare la Cattedra di San Pietro e la fede glorificata dalla parola dell’Apostolo, per chiedere oggi il nutrimento all’anima mia, laddove un tempo ho ricevuto i paramenti di Cristo. Poiché voglio che Egli sia per me unica guida, mi tengo in stretto legame con la Tua Beatitudine, cioè con la Cattedra di San Pietro. Io so che su questa pietra è edificata la Chiesa… Decidete, ve ne prego; se così stabilite non esiterò ad ammettere tre ipostasi; se voi l’ordinate, io accetterò che una nuova fede sostituisca quella di Nicea e che noi, ortodossi, ci serviamo delle stesse formule che usano gli ariani” (Ep. XV, I, 2, 4). Infine, nell’epistola seguente, egli rinnova questa notevolissima confessione della sua fede: “Nell’attesa, grido a tutti i venti: Io sono con chiunque sia unito alla Cattedra di San Pietro” (Ep. XVI, 11, 2). Sempre fedele, nello studio della Scrittura, a questa regola di fede, egli si valse di questo solo argomento per confutare un’interpretazione falsa del Testo Sacro: “Ma la Chiesa di Dio non ammette affatto questa opinione” (DanIII, 37), e con queste sole parole rifiuta un libro apocrifo, contro di lui sostenuto dall’eretico Vigilanzio: “Questo libro non l’ho mai letto. Che bisogno dunque abbiamo di ricorrere a ciò che la Chiesa non riconosce?” (Adv. Vigil. 6). Uno zelo così ardente nel salvaguardare l’integrità della fede, lo trascinava in polemiche molto dibattute contro i figli ribelli della Chiesa, che egli considerava come nemici personali: “Mi basterà di rispondere che non ho mai risparmiato gli eretici e che ho impiegato tutto il mio zelo per fare dei nemici della Chiesa i miei personali nemici” (Dial. c. Pelag., Prolog., 2); e in una lettera a Rufino così scrive: Vi è un punto sul quale non potrò essere d’accordo con te: risparmiare gli eretici e non mostrarmi cattolico” (Contra Ruf., III, 43). Tuttavia, rattristato per la loro defezione, li supplicava di ritornare alla loro Madre addolorata, fonte unica di salvezza (Mich. I, 10 e segg.), e in favore di coloro che erano usciti dalla Chiesa e avevano abbandonato la dottrina dello Spirito Santo “per seguire il proprio criterio“, invocava con tutto il cuore la grazia che ritornassero a Dio (Is. l. VI, cap. XVI, 1-5).

[1. Continua.]

DOMENICA II DOPO L’EPIFANIA (2022)

DOMENICA II DOPO L’EPIFANIA (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio – Paramenti verdi.

Fedele alla promessa che aveva fatta ad Abramo ed ai suoi discendenti, Dio inviò il Figlio suo per salvare il suo popolo. E nella sua misericordia, Egli volle anche riscattare tutti i pagani. Gesù è il Re che tutta la terra deve adorare e celebrare come suo Redentore (Intr., Grad.). Morendo sulla croce Gesù è diventato il nostro Re, e col S. Sacrifizio – ricordo del Calvario – applica alle nostre anime i meriti della sua redenzione ed esercita quindi la sua regalità su di noi. Cosi col miracolo delle Nozze di Cana – simbolo dell’Eucaristia – Gesù manifesta per la prima volta in modo aperto ai suoi Apostoli la sua divinità, cioè il suo carattere divino e regale, ed è allora che « i suoi discepoli credono in Lui ». – La trasformazione dell’acqua in vino è il simbolo della transustanziazione, che S. Tommaso chiama il più grande di tutti i miracoli, e in virtù del quale il vino Eucaristico diviene il Sangue dell’Alleanza di Pace (Or.) che Dio ha stabilito con la sua Chiesa. E poiché il Re divino vuole sposare le nostre anime, è con l’Eucaristia che si celebra questo sposalizio mistico, poiché essa aumenta la fede e l’amore che ci fanno membri viventi di Gesù nostro Capo. (« L’unità del corpo mistico è prodotta dal vero corpo ricevuto sacramentalmente » – S. Tommaso). Le nozze di Cana raffigurano anche l’unione del Verbo con la Chiesa sua sposa. « Invitato alle nozze – dice S. Agostino – Gesù vi andò per confermare la castità coniugale e per mostrare che Egli è l’autore del Sacramento del Matrimonio e per rivelarci il significato simbolico di queste nozze, cioè l’unione del Cristo con la sua Chiesa. In tal modo anche quelle anime che hanno votato a Dio la loro verginità, non sono senza nozze, partecipando esse con tutta la Chiesa a quelle nozze in cui lo Sposo è Cristo».

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 4

Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime.

[Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Ps LXV: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.

[Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: canta salmi al suo nome e gloria alla sua lode.]

Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime.

[Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Oratio

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui coeléstia simul et terréna moderáris: supplicatiónes pópuli tui cleménter exáudi; et pacem tuam nostris concéde tempóribus.

[O Dio onnipotente ed eterno, che governi cielo e terra, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo e concedi ai nostri giorni la tua pace.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom XII: 6-16

“Fratres: Habéntes donatiónes secúndum grátiam, quæ data est nobis, differéntes: sive prophétiam secúndum ratiónem fídei, sive ministérium in ministrándo, sive qui docet in doctrína, qui exhortátur in exhortándo, qui tríbuit in simplicitáte, qui præest in sollicitúdine, qui miserétur in hilaritáte. Diléctio sine simulatióne. Odiéntes malum, adhæréntes bono: Caritáte fraternitátis ínvicem diligéntes: Honóre ínvicem præveniéntes: Sollicitúdine non pigri: Spíritu fervéntes: Dómino serviéntes: Spe gaudéntes: In tribulatióne patiéntes: Oratióni instántes: Necessitátibus sanctórum communicántes: Hospitalitátem sectántes. Benedícite persequéntibus vos: benedícite, et nolíte maledícere. Gaudére cum gaudéntibus, flere cum fléntibus: Idípsum ínvicem sentiéntes: Non alta sapiéntes, sed humílibus consentiéntes.

[Fratelli, avendo noi dei doni differenti secondo la grazia che ci è stata donata, chi ha la profezia (l’eserciti) secondo la regola della fede; chi il ministero, amministri, chi l’insegnamento, insegni; chi ha l’esortazione, esorti; chi distribuisce (lo faccia) con semplicità; che fa opere di misericordia, con ilarità. La vostra carità non sia finta. Odiate il male; affezionatevi al bene. Amatevi scambievolmente con amore fraterno, prevenendovi gli uni gli altri nel rendervi onore. Non pigri nello zelo, ferventi nello spirito, servite al Signore. Siate allegri per la speranza, pazienti nella tribolazione, assidui nella preghiera. Provvedete ai bisogni dei santi; praticate l’ospitalità. Benedite quelli che vi perseguitano: benedite e non vogliate maledire. Rallegratevi con chi gioisce; piangete con chi piange, avendo gli stessi sentimenti l’uno per l’altro. Non aspirate alle cose alte, ma adattatevi alle umili.]

 P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

LA CARITÀ PIÙ DIFFICILE.

San Paolo in materia di carità è un Maestro straordinario; grande in tutto, è grandissimo in questo. Assurge al grido più sublime, discende alle considerazioni più pratiche e in questo terreno pratico che pare umile, spiega un’abilità, una finezza che lo mette in contrasto, vittorioso da parte sua, con le idee che hanno più facile e maggior voga nella società. Ecco qua un binomio nel quale si riassume l’esercizio pratico della carità: « gaudere cum gaudentibus, flere cum flentibus ». Dove il consiglio o precetto di piangere con chi piange appare a tutti un precetto caritatevolissimo. Non è egli giusto e bello compiangere chi soffre? aiutarlo, per stimolo di compassione sincera a non soffrire più? a superare il suo dolore? È così bella e caritatevole questa funzione del piangere coi dolenti che per molti la carità predicata da Cristo si riduce lì. La carità per lo meno più autentica, più meritevole è questa. Gli altri, quelli che non soffrono né punto né poco anzi godono, se la scialano, se la ridono, che bisogno hanno di carità? O come la possiamo esercitare verso di loro? Come possiamo essere con loro e verso di loro caritatevoli? Domanda che S. Paolo non ammette in quanto tendono a rimpicciolire l’esercizio della carità nel campo della miseria umana. La carità spazia in termini più vasti. È possibile anche coi felici, solo che è più difficile. È molto difficile. Impietosirsi cogli infermi è più facile. Strano, ma vero. E neanche strano. Il nostro egoismo in fondo è carezzato, vellicato, soddisfatto quando vede soffrire gli altri, quando incontra il dolore. E assumiamo volentieri l’attitudine della pietà perché è un’attitudine universalmente apprezzata, facciamo il gesto del soccorso perché esso pare a tutti un bel gesto. Ci dà una doppia superiorità, la superiorità di chi non soffre e quella di chi benefica. Impalcatura psicologica che crolla quando il nostro prossimo è fortunato; quando invece di passare lagrimando dalla gioia al dolore, dalla ricchezza alla povertà, dalla salute alla malattia, passa allegramente, ridendo, cantando dal dolore alla gioia, e per esempio dalla povertà alla ricchezza. Quando una famiglia ricca per un rovescio diventa povera, quanti dicono, e abbastanza sinceramente: povera gente! e piangono e aiutano. Ma quando accade il rovescio, quando il povero diventa ricco sono molti che si rallegrano sinceramente? Attenti a questo sinceramente! Perché la commedia delle congratulazioni la recitano molti, troppi: ma è una commedia. Sotto sotto, dentro di sé, in realtà crepano d’invidia. Il buon Cristiano, il vero caritatevole si rivela in quel « gaudere cum gaudentibus » prima e più che nel « flere cum flentibus », nel partecipare alle altrui gioie prima e più che nel dividere gli altrui dolori.

Graduale

Ps CVI: 20-21

Misit Dóminus verbum suum, et sanávit eos: et erípuit eos de intéritu eórum.

[Il Signore mandò la sua parola e li risanò: li salvò dalla distruzione.]

V. Confiteántur Dómino misericórdiæ ejus: et mirabília ejus fíliis hóminum. 

[V. Diano lode al Signore le sue misericordie e le sue meraviglie in favore degli uomini. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXLVIII: 2

Laudáte Dóminum, omnes Angeli ejus: laudáte eum, omnes virtútes ejus. Allelúja.

[Lodate il Signore, voi tutti suoi Angeli: lodatelo, voi tutte milizie sue. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. [Joann II: 1-11]

In illo témpore: Núptiæ factæ sunt in Cana Galilaeæ: et erat Mater Jesu ibi. Vocátus est autem et Jesus, et discípuli ejus ad núptias. Et deficiénte vino, dicit Mater Jesu ad eum: Vinum non habent. Et dicit ei Jesus: Quid mihi et tibi est, mulier? nondum venit hora mea. Dicit Mater ejus minístris: Quodcúmque díxerit vobis, fácite. Erant autem ibi lapídeæ hýdriæ sex pósitæ secúndum purificatiónem Judæórum, capiéntes síngulæ metrétas binas vel ternas. Dicit eis Jesus: Implete hýdrias aqua. Et implevérunt eas usque ad summum. Et dicit eis Jesus: Hauríte nunc, et ferte architriclíno. Et tulérunt. Ut autem gustávit architriclínus aquam vinum fáctam, et non sciébat unde esset, minístri autem sciébant, qui háuserant aquam: vocat sponsum architriclínus, et dicit ei: Omnis homo primum bonum vinum ponit: et cum inebriáti fúerint, tunc id, quod detérius est. Tu autem servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc fecit inítium signórum Jesus in Cana Galilaeæ: et manifestávit glóriam suam, et credidérunt in eum discípuli ejus.

[In quel tempo: Vi furono delle nozze in Cana di Galilea, e li vi era la Madre di Gesù. E alle nozze fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la Madre di Gesù disse a Lui: Non hanno più vino. E Gesù rispose: Che ho a che fare con te, o donna? La mia ora non è ancora venuta. Disse sua Madre ai domestici: Fate tutto quello che vi dirà. Orbene, vi erano lì sei pile di pietra, preparate per la purificazione dei Giudei, ciascuna contenente due o tre metrete. Gesù disse loro: Empite d’acqua le pile. E le empirono fino all’orlo. Gesù disse: Adesso attingete e portate al maestro di tavola. E portarono. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino, non sapeva donde l’avessero attinta, ma i domestici lo sapevano; chiamato lo sposo gli disse: Tutti servono da principio il vino migliore, e danno il meno buono quando sono brilli, ma tu hai conservato il vino migliore fino ad ora. Così Gesù, in Cana di Galilea dette inizio ai miracoli, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

GESÙ A NOZZE

Tre cose sono care allo Spirito Santo: l’amore tra fratelli, la carità verso il prossimo, un marito e una moglie che vadano ben d’accordo. Et vir et mulier bene sibi consentientes (Eccl., XXV, 2). O mille volte beata quella casa, dove si trova la terza di tali cose, cioè la lieta corrispondenza tra coniugati (dove lo sposo. alla superiorità e alla previdenza di capo, aggiunge un grande amore ed una scrupolosa fedeltà; dove la sposa ubbidisce fedelmente a suo marito, come a Dio, e ne cerca di indovinare i gusti e desideri!). Fu appunto perché in tutte le famiglie regnasse questa divina armonia di bene e d’amore, che Gesù accettò un invito a nozze, in Cana di Galilea. Vi giunse co’ suoi discepoli quando le feste erano già incominciate. L’arrivo di Gesù, amico di famiglia e, credo, anche parente, perché vi si trovava invitata anche Maria, portò un’ondata d’allegrezza devota nella brigata già lieta. L’aggiungersi di sei nuovi convitati, il protrarsi della conversazione, contribuì non poco a finire la provvista di vino. Maria attenta e compitissima se n’era accorta per la prima: « Gesù, non hanno più vino » E Gesù fece il miracolo: sei anfore d’acqua divennero vino. E squisito. Tanto che il direttore del banchetto disse allo sposo: « Tutti gli altri offrono prima il vino buono e serbano in fine quello che ha preso il fusco o lo spunto; ma tu invece dopo il buono dài il migliore ». – Gesù amava talvolta frammischiarsi alle gioie del mondo per santificarle, come spesso frequentava la compagnia dei pubblicani e dei peccatori per convertirli. Ma non era appena per questo che andò a nozze; non era appena per rivelarsi Dio nella conversione dell’acqua in vino; fu, soprattutto, per elevare il matrimonio alla dignità di Sacramento. Come il Sacramento del Battesimo ci dà le grazie per essere Cristiani, e la Cresima le grazie per essere valorosi soldati di Cristo, l’Eucaristia nutrisce le anime per la vita eterna, il Sacramento del Matrimonio dà agli sposi l’aiuto necessario per lo stato coniugale. – Sacramentum hoc magnum est, dico ego in Christo et in Ecclesia (Efes., V, 32). Cristo, dunque, lo ha reso grande facendolo un sacramento efficace di grazia, Cristo lo ha reso grande facendolo simbolo della sua mistica unione con la Chiesa. Per ciò, come Gesù andò alle nozze in Cana di Galilea, è necessario che venga alle nozze di tutti i Cristiani. Ora voglio soltanto dire come s’invita Gesù alle nostre nozze, e perché si debba invitarlo. COME S’INVITA GESÙ A NOZZE. A Rages, città della Media, ove si era recato a riscuotere una somma a nome di suo padre, il giovane Tobia trovò un cugino: Raguele. Costui l’invitò a casa sua a ristorarsi per alcuni giorni, ma il giovane Tobia avendo già sentito parlare di Sara, figliuola di questo suo parente, così disse: « Da te, oggi, io né mangio né bevo, se prima non mi prometti tua figlia in isposa ». Raguele dopo alcune titubanze acconsentì alla sua domanda. Allora Tobia disse a Sara: « Sara, preghiamo Dio, oggi, domani e dopo, perché  dobbiamo vivere insieme. Noi siamo figli di santi e non dobbiamo unirci come quelli che ignorano Dio ». Poi levati gli occhi in alto aggiunse: «Signore, Dio dei nostri maggiori, vi benedicano il cielo e la terra, il mare e i fiumi e tutte le creature. Voi che formaste Adamo col limo della terra e gli deste Eva in aiuto, sapete bene ch’io piglio questa mia congiunta non per accontentare le passioni, ma per desiderio di buoni figliuoli che attraverso i secoli lodino il vostro Nome » (Tob., VIII, 4-9). Sublime preghiera che la Sacra Scrittura ci ha conservato perché ogni Cristiano imparasse quali sentimenti lo devono spingere al matrimonio, se alle sue nozze vuol avere Gesù! – Gesù s’invita con la preghiera: è il catechismo che la inculca. Bisogna pregare per conoscere da prima se realmente siamo chiamati allo stato matrimoniale; bisogna pregare perché Dio ci illumini nella scelta della persona; bisogna pregare, infine, per ottenere le grazie necessarie per lo stato in cui si sta per entrare. Gesù s’invita quando non si allaccia una relazione all’insaputa dei genitori. Gesù s’invita con qualche mortificazione, con qualche elemosina, con la retta intenzione riguardo all’avvenire della vita coniugale. Quelli che nel contrarre matrimonio si lasciano unicamente guidare dalla bellezza del corpo e dal denaro, non invitano Gesù. La bellezza è un fiore che dissecca, il danaro favorisce la discordia e la superbia; ed in fondo non rimarrà che l’infelicità. Quelli che prima dello sposalizio tengono una cattiva condotta di tratti e di parole, non invitano Gesù. Le nozze che cominciano coll’impuro piacere del senso finiscono nel pianto. – Indubbiamente non invitano Gesù quelli che s’accostano al gran Sacramento in disgrazia di Dio. Che direste voi di chi invita a una festa una persona di riguardo, e poi, quand’è giunta, gli chiude l’uscio in faccia? questo è il modo di agire di coloro che ascendono l’altare a contrarre matrimonio e hanno un peccato mortale sul cuore. Eppure non sono pochi quelli che s’accostano indegnamente a questo gran sacramento: o senza confessione, o con una confessione fatta per forza senza esame di coscienza, senza sincerità, senza dolore. Infelici anche nei momenti più austeri e solenni della loro vita, non sanno quel che si fanno. PERCHÈ SI DEVE INVITARE GESÙ. Gesù non aveva ancora messo piede nelle contrade della Perea, che subito i Farisei gli furono intorno a fargli una questione; « Maestro, è permesso al marito ripudiare la moglie per un qualsiasi motivo? ». Si era nella tetrarchia di Erode Antipa che aveva rimandata la sua donna legittima per sposare la moglie del suo fratellastro e quella domanda era assai imbarazzante. Una risposta audace poteva mettere nel rischio di fare la fine del Battista. Ma Gesù non aveva paura di nessuno, e parlò aperto. «Non avete letto — rispose a quelli che l’avevano interrotto, — che Dio creò da principio l’uomo e la donna, e disse: per ciò lo sposo lascerà il padre e la madre per star unito alla sua sposa, e i due saranno una sola carne? Ebbene, poiché non sono due ma una sola carne, non divida l’uomo quel che Dio ha congiunto ». I Farisei osarono sussurrare: « Perché allora Mosè ha prescritto di dare alla donna il libello di ripudio e così divorziare? ». « Ah, — esclamò Gesù — fu in conseguenza della durezza dei vostri cuori che Mosè ha permesso questo. In principio non fu così. Ed io vi dico: quando un uomo manda via la moglie per prenderne un’altra, è sempre un adultero ». La severità dell’ultime parole del Salvatore parve terribile; i discepoli stessi meravigliati sussurrarono: « Quand’è così, non conviene sposarsi ». Il Maestro, udendo questo mormorìo, non lo disapprovò, perché sapeva bene le tribolazioni e le croci della vita familiare. Questo episodio del santo Vangelo, o Cristiani, non è tanto per metterci spavento del Sacramento del Matrimonio, quanto per farci apprendere la necessità dell’assistenza e dell’aiuto di Dio, per bene adempierne gli obblighi. Senza Gesù, com’è possibile portare un giogo non lieve ed accettarne i quotidiani sacrifici? – Le nozze cristiane sono un nodo indissolubile, che priva della libertà personale e rende l’uno signore dell’altro. Impongono un amore rispettoso, poiché una familiarità senza rispetto insensibilmente ma infallibilmente porta al dispregio. Impongono un amore fedele sino ad abbandonare il padre e la madre, sino alla completa rottura di ogni altro vincolo che possa legare il cuore o anche solo la mente. Impongono un amore costante, che deve resistere agli anni, alle amarezze, alle gelosie, sempre e solo. Ora come è possibile tutto questo senza la grazia di Gesù? Non basta: considerate ancora quale peso deriva dalla diversità di carattere, che soventemente s’incontra tra marito e moglie. Un marito saggio e modesto con una moglie svagata e dissipatrice; una moglie esemplare e quieta con un marito dissoluto ed empio: che croce, che pazienza! Se Gesù non è invitato a levigare le asprezze di queste nozze, ad aiutare a portar la croce, questi crucci domestici sembreranno insopportabili e l’odio e la disperazione invaderebbero due anime che avevan creduto di trovare insieme la felicità, escludendo la Religione. Ma non c’è bisogno di costruire casi tragici; l’inevitabile diversità di carattere fra due persone impone un vicendevole e continuo spirito di comprensione, di arrendimento, di generosità: per avere un’atmosfera di amabile convivenza. Infine, quale sorgente inesausta di sofferenze è l’educazione dei figli. La Sacra Scrittura dice che un figlio buono è la gioia di suo padre, mentre un figlio cattivo è l’amarezza della madre sua. Questo è vero, ma in un altro senso tutti i figli, o buoni o cattivi, per i genitori che li debbono allevare son sempre un peso. Che tormento quando nella miseria si teme che il pane manchi! Che dispiacere aver numerosi figli e non poterli collocare bene! Quanto piangere se vengon le malattie, se vien la morte a strapparcene qualcuno fuor dalle braccia, via dal nostro cuore! Ma quello che costa più è l’allevare figliuoli che si mostrano indocili e ingrati: non ubbidiscono, non accettano correzioni, scialacquano, non aiutano, sono ingrati, disonorano la casa. « Con questo — diceva S. Ambrogio — non intendo sconsigliare lo stato matrimoniale, ma espongo i vantaggi della dignità consacrata al Signore ». Chi si sposa fa bene, ma si prepari a portare la sua croce. Tribulationem tamen carnis habebunt huiusmodi (I Cor., VII, 28). Se così gravi sono i pesi dello stato nuziale, è pur necessaria la Grazia divina che ci sostenti. – Alle nozze di Cana vi erano sei pile d’acqua piene fino al sommo: simbolo queste di tutte le lagrime, di tutti gli affanni, di tutti i pesi dello stato coniugale. Ecco arriva Gesù, e le tramutò in sei pile di ottimo vino, piene fino al sommo. Voi tutti che sentite il peso della vostra famiglia, voi che la discordanza di carattere, o la gelosia, o il lavoro della casa, o i figli, riempiono di tristezza o di stanchezza, e, comunque, di ansie e preoccupazioni, chiamate Gesù. Che Egli venga alle vostre nozze! L’acqua si tramuterà in vino che letifica, e le vostre angustie in gioie. – LA MADONNA A NOZZE. A Cana, paese della Galilea, si sposava forse un parente di S. Giuseppe. Si capisce quindi come tra gl’invitati ci fosse anche la Madre di Gesù. S. Giuseppe, con ogni probabilità, era premorto e perciò di lui non si fa cenno in questo avvenimento. Notate subito che, dove c’è la Madonna, ivi non può mancare il suo Figlio divino. Forse fu Lei che suggerì agli sposi novelli d’invitarlo. Gesù, che in quei giorni cominciava la sua vita pubblica, vi arrivò con alcuni discepoli; e cominciarono le feste. Ma sul più bello del banchetto venne a mancare il vino; l’imbarazzo fu subito intuito dalla Vergine, la quale si fece premura d’avvertire il Figlio: « Non hanno più vino ». « Che importa a me e a te? — le rispose Gesù, ed aggiunse: — la mia ora non è ancora venuta ». Queste parole non parvero a Maria un rifiuto, se poi con suadente accortezza avvisò gl’inservienti di tenersi pronti ai cenni di suo Figlio. Il quale comandò di colmare d’acqua le sei pile che v’erano là per lavare le mani e i piatti secondo gli usi giudaici. Tutta quell’acqua fu poi tramutata in vino eccellente come non s’era mai bevuto. Perfino il direttore del banchetto ne fu meravigliatissimo, tanto che disse allo sposo: « Tutti servono da principio il miglior vino, e fan passare il meno buono quando i convitati sono brilli, ma tu hai serbato il migliore per ultimo ». – Questo fu il primo miracolo di Gesù ed accadde alla presenza di Maria, per sua intercessione. A considerarlo attentamente, si rivela la bontà e la potenza di Maria. – LA BONTÀ DI MARIA – a) La Madonna è la prima ad accorgersi del serio imbarazzo in cui si trovano sposi. Essi, forse, non lo sapevano ancora, e già il cuore della Madre divina è trepidante per loro: le pare già di assistere alla delusione, alla meraviglia e alle proteste dei convitati che si trovano senza vino nel momento in cui lo si desidera maggiormente; di assistere allo sgomento e alla vergogna degli sposi novelli che si vedono offuscata anche l’ora più gioiosa della vita. Ella si preoccupa e soffre come di una sventura sua, capitata nella propria casa. Noi, chiusi nel cerchio dei nostri interessi personali, noi egoisti e dimentichi di chi soffre nell’anima e nel corpo, come siamo indegni d’essere figli d’una Madre così buona! Sappiamo che ci sono nazioni intere a cui manca il vino della fede, e ci sono missionari estenuati e insufficienti perché senza mezzi; sappiamo che anche nelle mostre parrocchie il male e l’ignoranza trionfano perché i sacerdoti non bastano, se non sono aiutati; eppure viviamo nella beata indifferenza, come se fossero bisogni le pene che non ci riguardano. Sappiamo che non lontano da noi c’è una famiglia in miseria, c’è un infermo, c’è una disgrazia; sappiamo che, mentre cade la neve e tira il vento freddo, c’è gente senza casa, o senza coperte, o senza fuoco, o senza scodella di minestra calda; noi bene pasciuti, ben riscaldati, allegri e sani, ci chiudiamo nella felicità di casa nostra. Non si arriva talvolta a provare un istintivo e malvagio senso di gioia per qualche infelicità toccata agli altri, quasi che l’umiliazione altrui aumenti la nostra gloria, quasi che il dolore altrui aumenti il nostro benessere? E, per contrario, non si arriva a provare un istintivo e malvagio senso di pena per la fortuna toccata ad altri? Perfino nella preghiera, portiamo il nostro egoismo, la grettezza del nostro cuore, e, pregando non ci ricordiamo che dei nostri dolori, dei nostri bisogni. La vera preghiera dei figli di Dio non è egoistica, ma s’impietosisce anche dei dolori e alle disgrazie altrui, allarga le braccia verso i peccatori, gli infedeli, le anime purganti, la gerarchia ecclesiastica, il Papa, la Chiesa universale, la gloria immensa di Dio. Non viviamo soli al mondo, Cristiani, ma siamo uniti tutti in una sola famiglia che è la Chiesa, siamo membri di un sol corpo che è il mistico Corpo di Cristo. Niente è più contrario alla religione dell’individualismo egoistico. Torniamo alla Madonna, e aggiungiamo un’altra riflessione sul suo buon cuore. – b) La Madonna non sa criticare. Un’altra persona al suo posto, vedendo mancare il vino, avrebbe fatto due sorta di ragionamenti. Avrebbe detto: « Che gente irriflessiva, senza giudizio, senza avvedutezza! Ti fanno un banchetto, invitano gente, e non pensano a provvedere almeno l’indispensabile. Se adesso resteranno scornati, se lo sono meritato: un’altra volta ci penseranno meglio ». Oppure avrebbe detto: «Che spilorci! come si fanno compatire in una circostanza in cui anche i più miserabili sanno apparire signori! Pretendevano che si venisse a festeggiarli bevendo più acqua che vino ». Simili pensieri non attraversarono mai, neppure lontanamente, il cuore di Maria. Ella non sa criticare, sa provvedere e aiutare, Invece sono moltissimi che sanno inasprire le sofferenze altrui con i loro giudizi, le loro assennate disapprovazioni, i loro pareri per l’avvenire, ma non muovono un dito per correre efficacemente. Oh; sapessero almeno tacere! – c) La Madonna non sa tardare. Un’altra persona al suo posto non si sarebbe mossa, dicendo fra sé e sé: « Aspettiamo che me lo dicano ». Invece la Madonna non sa aspettare: benché non informata, Ella indovina la situazione; benché non pregata, soccorre liberamente. La bontà di Maria vede due cose nel nostro cuore. La prima è che spesso siamo così distratti, così pieni di sonno, che non ci accorgiamo neppure d’essere sull’orlo dell’abisso; come i due sposi non s’accorgevano che non c’era più vino. Siamo tutti come i bambini che si mettono nei pericoli senza saperlo. Ma una madre non aspetta che il suo fanciullo la chiami, ma ella accorre quando un veicolo, una bestia, o qualsiasi altro accidente minaccia la sua vita. Chissà quante volte la Madonna è accorsa a salvarci, ha interceduto e pianto per noi! Se avesse aspettato sempre che la pregassimo, a quest’ora forse saremmo già all’inferno. – Come sei buona, dolce madre Maria, non ho parole per ringraziarti! La Madonna sa un’altra cosa di noi. Ed è che ci brucia terribilmente aprire agli altri la nostra miseria, abbassarci a chiedere aiuto: si preferirebbe soffrire, anche morire. E Maria, la buona, la dolce Regina, c’insegna che la carità migliore si deve fare senza essere richiesti e senza umiliare, e, se fosse possibile senza farsi conoscere da nessuno, neppure dal beneficato. Nei « Promessi Sposi » gran libro di sapienza cristiana, c’è un buon sarto che doveva aver imparato dalla Madonna a far la carità. Era povero, ma sapeva di una persona più povera di lui, benché non gli avesse detto nulla. Un giorno di festa mise insieme in un piatto delle vivande che erano sulla tavola, e aggiuntovi un pane, mise il piatto in un tovagliolo, e preso questo per quattro cocche, disse alla sua bimbetta maggiore: « Va’ qui da Maria vedova; lasciale questa roba, e dille che è per stare un po’ allegra co’ suoi bambini. Ma con buona maniera ve’: che non paia che tu le faccia l’elemosina. E non dir niente, se incontri qualcheduno; e guarda di non rompere ». (cap. XXIV). – Osservate il delicato accorgimento di accettare qualcosa dai bambini. Cristiani, mandate spesso i vostri bambini a fare l’elemosina. Osservate ancora che saggi avvisi dà il sarto, soprattutto non dimenticate le parole: « che non paia che tu le faccia l’elemosina ». Cristiani, dobbiamo essere riconoscenti ai poveri quando si degnano d’accettare il nostro superfluo, perché essi ci arricchiscono nel cuore di bene essenziali. – LA POTENZA DI MARIA. La parte più interessante del miracolo di Cana è in quel sommesso dialogo di Maria con Gesù. C’è come un combattimento tra la misericordia e la giustizia, tra l’ansioso cuore d’una Madre e la volontà imperscrutabile dell’Onnipotente, tra la Madonna e Dio. Il meraviglioso è che vince la Madonna. O Vergine potentissima, vinci, anche per noi, così! Dice Maria sottovoce: « Gesù, non hanno più vino ». Risponde Gesù: « Né Io, né tu abbiamo colpa; noi non c’entriamo ». La Madonna non è contenta: il suo amore non si volge soltanto a quei casi dove in qualche modo è interessata; la sua carità non cerca mai il proprio tornaconto. Ripete Maria sottovoce: « Gesù, non hanno più vino ». Risponde Gesù: «Lascia andare! Non è questo il momento per farmi conoscere Figlio di Dio ». Solo una madre sa capire perfettamente le parole di un figlio; e la Madonna sentì che sotto a quel no, in fondo in fondo tremava un sì. Subito ne approfittò con un atto che diremmo audace, se non fosse della Vergine prudentissima. – Chiamò i servi e li mandò davanti al Figlio pronti a ricevere ordini. E Gesù disse loro: « Riempite d’acqua le sei pile ». Come Ella udì, tremò tutta di gioia. Aveva vinto. Aveva ottenuto di far lieti due cuori. La Madonna è vittoriosa! E che vittoria! Ciascuna pila conteneva più di cento litri: bastava dunque che l’acqua d’una sola fosse tramutata in vino. Ma la Madonna non fa le grazie su misura, Ella abbonda e sovrabbonda, è magnificentissima. Le sei pile si trovarono tutte colme di gustoso e redolente vino. I due sposi ne ebbero per quel giorno e per un anno intero. Cristiani, nella nostra vita manca forse il vino del fervore, dell’amore di Dio. Purtroppo, da tanti e tanti l’amor di Dio non si conosce neppure. Amore alla carne, amore ai danari, amore agli onori, amore a questo mondo bugiardo: ecco quel che hanno in cuore. Se ci troviamo in questo numero, preghiamo Maria perché per noi si rivolga a dire al suo Gesù: « Non hanno più vino ». Pregatela così, e sentirete un generoso vino, dolce e forte, riempire i vostri cuori, e vi troverete cangiati da quei di prima. – Può darsi che qualcuno, pur convinto della bontà e della onnipotenza di Maria, non osi invocarla per sé, perché da moltissimo tempo in balìa del vento d’ogni più brutto piacere, più non l’ha pregata e forse l’ha oltraggiata. Ora è triste in fondo al cuore, vorrebbe ritornare, ma dispera. Per costui voglio ricordare una graziosa leggenda tessuta intorno a un convento di Vienna, detto il convento della Celeste Portinaia. Si racconta che, moltissimo tempo fa, la suora portinaia di quel convento, disamorata della vita claustrale, fu presa da una forte smania di ritornare al mondo e appressare le sue smunte labbra al vino della felicità mondana, Una notte, che tutte le suore dormivano nella pace purissima, ella non poteva dormire per la veemenza di quel desiderio. La sciagurata non era cattiva ma debole, e ad un certo momento non seppe più resistere. Si alzò, discese in portineria, aprì; poi prese la chiave e il suo velo di suora e li depose dietro la statua della Vergine Maria che stava vicino alla porta, con queste parole: « Regina del Cielo, ecco la chiave; fate di buona guardia al convento… » E, senza voltarsi, uscì. La notte oscura era senza stelle. Per sette anni visse nel mondo e bevve al suo calice lunghi sorsi, ma non erano di felicità. Il mondo è cattivo, bugiardo, ingannatore; non era vino quello che dava alla sua sete, ma liquidi melmosi e piccanti ed esasperanti. La delusione fu terribile. Dopo sett’anni quella povera suora senza velo, umiliata, distrutta, pentita, con la promessa d’una severa penitenza, colla volontà d’un totale rinnovamento, s’avvicinò al suo chiostro. Era ancora notte, ma una notte piena di stelle. Il cuore le batteva forte. Fece per bussare alla porta, ma era aperta: dietro la statua della Vergine c’era un velo e le chiavi. Il suo velo e le sue chiavi. Al giorno dopo riprese il suo ufficio di portinaia, senza che alcuno facesse meraviglie del suo ritorno o le dicesse alcunché. Nessuno si era accorto della sua lontananza perché la Vergine benedetta s’era messa ogni giorno il suo velo, aveva preso la sua sembianza, ed aveva fatto al suo posto la portinaia. Cristiani, se delusa dagli avvelenati piaceri del demonio e del mondo, un’anima vuol ritornare a bere il vino casto della pace e della gioia di Dio, per quanto male abbia commesso, non abbia disperazione o timore veruno. Troverà la porta aperta. Una dolce Madre, da tanto tempo, gliela tiene aperta, aspettando, piangendo, pregando.

Questo è uno dei sette miracoli raccontati in tutto il Vangelo di S. Giovanni; è il primo miracolo con cui Gesù inizia la vita pubblica, e ci richiama quello con cui la terminerà, quando non l’acqua in vino ma il vino tramuterà in sangue suo. Nel brano evangelico la figura che più risalta è quella della Madonna: Ella appare qual è, Regina e Madre, potente e clemente. Regina potente fino ad indurre il Signore, quasi contro voglia, a compier fuor di tempo un miracolo. Madre clemente fino a diventare la confidente nei crucci della casa; fino a interessarsi del vino per risparmiare un disonore agli sposi; fino a far le cose con tale discrezione che neppure il direttore del banchetto sulle prime se ne avvide. Infatti, nella sala dove si beveva, s’udì la sua voce risonare: « Sposo, tu hai fatto diverso da tutti: gli altri servono da principio il vino migliore e mandano alla fine, quando s’è già brilli, lo scadente. Ma tu hai serbato l’ultimo fino ad ora ». E non sapeva l’architriclino che quello era il vino della Madonna: frutto della sua potenza regale verso Dio e della sua materna clemenza verso gli uomini. – REGINA POTENTE. Salomone, re d’innumerabile popolo e d’inestimabile ricchezza, accanto al suo trono fece innalzare un nobile seggio per la madre sua, a cui disse: « Non mi è più possibile opporre un rifiuto a qualsiasi desiderio tuo ». Questo fatto della Sacra scrittura, la Chiesa e i Santi l’hanno più volte applicato a Maria santa: e giustamente. Accanto al trono di Cristo Re dei secoli, un altro seggio è, in mezzo al Paradiso, innalzato: quello della Regina del cielo e della terra. Qualsiasi desiderio suo è sempre esaudito. Ella è potente perché tutta santa. Nessuna macchia ha potuto contaminarla mai, neppure la macchia originale che ogni figlio d’Eva contrae nascendo. E non solo non conobbe peccato, ma la sua anima è adorna della luce d’ogni virtù; è umilissima, purissima, pazientissima. La santità di tutti i santi che furono e che saranno, non raggiunge quella di Maria. Perciò Iddio è rapito nella contemplazione del capolavoro della sua abilità santificatrice e non può resistere alle sue preghiere. Ella è potente perché Regina degli Angeli e dei Santi: tutto il paradiso a lei s’inchina. Le schiere angeliche attendono il suo cenno per accorrere in nostro aiuto. » tutti i santi sono felici d’eseguire il suo comando. Ella è potente perché invincibile contro il demonio: col suo calcagno ha schiacciato il capo al serpente antico il quale non ha potuto mai nulla contro di Lei. Con la luce dei suoi occhi ha fulminato tutte le eresie, e col solo suo Nome ha messo in fuga lo spirito delle tenebre. « Terribilis ut acies ordinata! ». Ella è potente perché Madre di Dio. Le madri possono tutto ottenere dai figli; i figli non sanno nulla negare alle madri. Se la Madonna supplica, se piange per noi, come potrà il suo Figlio divino lasciarla inconsolata? A parole oserà rispondere: « Donna, che cosa importa a me e a te di quei peccatori? », ma poi farà come Ella vuole. – Se in tante famiglie manca il vino dell’amore e della concordia e il giogo maritale è divenuto una catena penosa per gli sposi e uno scandalo per i figli, è perché in quella famiglia la Madonna è stata dimenticata, è stata scacciata. Altrimenti saprebbe Lei, la Madre clemente, rinnovare il miracolo di Cana. Se tanti uomini non sono capaci di portare la loro croce, e nel dolore perdono la speranza e imprecano di disperazione, è perché nel loro cuore la Madonna è stata dimenticata, è stata scacciata. Quando a Santa Teresa morì la mamma, ella, appena dodicenne, singhiozzando si gettò ai piedi di una statua della Vergine e la supplicò di essere la madre sua… Con questa confidenza, nei grandi dolori della vita; noi dobbiamo ricorrere a Maria. – Se l’amore della Madonna ci accompagnasse nei giorni della vita, non avremmo nulla da temere neppure nel giorno della morte. Entrando nel regno dei beati dove Ella è Signora, le diremmo con eterna riconoscenza: « Madre clemente! ». – Fanciullo ancora, Giovanni Maria Vianney, che fu poi il curato d’Ars, andava a lavorare la terra con suo fratello maggiore il quale, più robusto di lui, dissodava zone più vaste e lo lasciava indietro per un buon tratto. Giovanni ne aveva rimproveri e vergogna. Allora per eccitarsi al lavoro portava alla vigna una statuetta della Madonna che issava sopra un bastone a qualche metro davanti a sé. Poi, un colpo di vanga e uno sguardo a Maria, lavorava con la brama d’arrivare presto a Lei che poi, di nuovo, trasportava di qualche metro più avanti. Così riusciva a sorpassare il fratello che dissodava una zona di terreno accanto. Come il giovane Vianney così noi tutti, o Cristiani, dobbiamo dissodare il campo della vita: non perdere mai di vista la Regina potente, la Madre clemente. Ad ogni fatica, a ogni pericolo, ad ogni dolore, ad ogni giorno, almeno uno sguardo a Lei. Quante belle devozioni non hanno saputo trovare le anime gentili per la Madonna? Alcuni santi, ogni giornata, recitano tre « Ave Maria » per ottenere la purezza. Che cosa sono tre « Ave Maria? ». Eppure, per esse, confessarono d’aver vinto tutte le tentazioni della carne. Molte famiglie hanno conservato la bella tradizione dell’« Angelus » mattina, mezzodì e sera. In molte altre non manca mai il Rosario quotidiano. Case fortunate dove la Madonna è amata! Io vorrei conchiudere queste parole col raccomandare a ciascuno di scegliersi una propria devozione alla Vergine: sia quella di privarsi della frutta o del vino altro; sia quella di salutarla con una giaculatoria ad ogni scoccar d’ore; o quella di recitare un’« Ave » tutte le volte che s’entra o si esce di casa, o quella ancora di comunicarsi ad ogni sua festa. Ognuno deve avere la sua devozione a Maria. – IL CONTRATTO MATRIMONIALE TRASMUTATO IN SACRAMENTO. S. Francesco di Sales aveva ospite in casa da alcuni giorni un suo amico. Ed ogni sera, fatto un poco di conversazione, lo accompagnava fino alla sua camera. L’altro protestava e non voleva che un Vescovo si disturbasse tanto per un laico. « Amico mio, non siete voi sposato? ». « Non ancora ». Allora avete ragione di protestare: vi tratterò con più confidenza e minori riguardi ». Per il santo dunque una persona sposata doveva essere circondata di una maggior venerazione. Perché? per la dignità del sacramento del matrimonio che conferisce agli sposi una grazia che li rende capaci d’amarsi soprannaturalmente, e di educare i figli per il Paradiso, e di sopportare con serenità i pesi del loro stato. – Appunto per santificare le nozze, Gesù volle trovarsi a quelle di Cana. Come ha preso la lavanda a simboleggiare e a conferire la grazia che lava dal peccato originale, nel Battesimo, così ha preso il mutuo e perpetuo impegno degli sposi a donarsi l’uno all’altra per simboleggiare la sua unione con la Chiesa e per conferire la grazia d’amarsi indissolubilmente come Egli e la Chiesa si amano. Perciò in Cristo e nella Chiesa il matrimonio è diventato un grande sacramento. Se è un Sacramento, ed un Sacramento dei vivi, bisogna prepararsi con retta intenzione; accostarsi con pura coscienza; perdurarvi secondo la legge di Dio. – a) Prepararsi con retta intenzione: non per calcoli umani, né per stimoli unicamente passionali. « Stammi a sentire: — diceva l’angelo Raffaele al giovane Tobia — io ti mostrerò chi sono quelli sui quali può prevalere il demonio. Quelli che vanno al matrimonio dimenticando Dio, solo per sfogare la propria libidine, come il cavallo ed il mulo che non hanno intelletto: su quelli il demonio ha potestà ». Ma Tobia pregava: «Signore, tu sai ch’io prendo moglie non per lussuria, ma per desiderio di figli nei quali il tuo Nome sia benedetto nei secoli dei secoli » (Tob., VI, 16 – 17; VIII, 9). – b) Perdurarvi secondo la legge di Dio: non significa appena la condanna di ogni infedeltà, ma anche la condanna di ogni uso del matrimonio che non rispetti il fine per cui il Signore l’ha istituito. – Quel Gesù che alle nozze di Cana trasmutò l’acqua fredda e insapore in vino, forte e generoso, nelle mistiche nozze della Divinità con la umanità avvenute nella sua Incarnazione trasmutò noi da poveri decaduti figli di Adamo in figli di Dio. Come rami di un ulivo selvatico siamo stati staccati dal vecchio e maligno tronco, siamo stati innestati nel divino ulivo Gesù, ed ora assorbiamo la linfa della sua vita, e uniti a Lui possiamo produrre frutti degni della Santissima Trinità. Orbene, ogni innesto richiama una doppia ferita: una nel tronco che deve ricevere il ramo, l’altra nel ramo che deve essere tagliato via dal ceppo maligno. Cristo ricevette la sua ferita sul Calvario. Noi dobbiamo infliggercela di giorno in giorno per strapparci ai desideri e alle opere dei figli del secolo, per vivere soltanto nei desideri e nelle opere di figli di Dio. – Ricordate la meravigliata espressione del direttore di tavola: « Tutti bevono prima il vino migliore e serbano per ultimo lo scadente… tu hai fatto il contrario ». Sono gli stolti seguaci del mondo che eleggono il vino buono e allegro per questa vita e nell’altra si riserbano lo scadente… Noi Cristiani, seguaci dello Sposo divino Gesù, in riconoscenza delle preziose trasmutazioni che per nostro amore ha operata, eleggiamo per questa vita il vino amaro della mortificazione, ed Egli nell’altra ci riserberà quello ottimo del gaudio eterno.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps LXV: 1-2; 16

Jubiláte Deo, univérsa terra: psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja.

[Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: cantate un salmo al suo nome: venite, e ascoltate, voi tutti che temete Iddio, e vi racconterò quanto Egli ha fatto per l’anima mia. Allelúia.]

Secreta

Oblata, Dómine, múnera sanctífica: nosque a peccatórum nostrórum máculis emúnda.

[Santifica, o Signore, i doni offerti, e mondaci dalle macchie dei nostri peccati.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann II: 7; 8; 9; 10-11

Dicit Dóminus: Implete hýdrias aqua et ferte architriclíno. Cum gustásset architriclínus aquam vinum factam, dicit sponso: Servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc signum fecit Jesus primum coram discípulis suis.

[Dice il Signore: Empite d’acqua le pile e portate al maestro di tavola. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino disse allo sposo: Hai conservato il vino migliore fino ad ora. Questo fu il primo miracolo che Gesù fece davanti ai suoi discepoli.]

Postcommunio

Oremus.

Augeátur in nobis, quǽsumus, Dómine, tuæ virtútis operatio: ut divínis vegetáti sacraméntis, ad eórum promíssa capiénda, tuo múnere præparémur.

[Cresca in noi, o Signore, Te ne preghiamo, l’opera della tua potenza: affinché, nutriti dai divini sacramenti, possiamo divenire degni, per tua grazia, di raccoglierne i frutti promessi.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (188)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXV)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUARTO

I SACRAMENTI

V. — La Penitenza.

D. Quale posto tiene il sacramento della penitenza nell’economia cristiana?

R. Lo stesso posto che il peccato nella vita. La religione, avendo da fare con l’uomo, non poteva dimenticare il peccatore; non poteva abbandonarlo a se stesso; bisognava trovar ripiego e ingegnarsi per riuscire, per farci riuscire, ad onta delle nostre costanti sconfitte.

D. Come intendi tu il peccato?

R. I Cristiani lo definiscono un’offesa a Dio, o una disubbidienza alla legge di Dio.

D. Si può offendere Dio?

R. È possibile purtroppo, ed è una grande sventura se si bada al fatto; se poi ci si richiama alla mente il nobile privilegio che lo permette: la libertà, è il triste prezzo di una gloria.

D. Offendere Dio!… Io penso al verso di Victor Hugo nel La Conscience: « E nella notte si lanciavano frecce contro le stelle».

R. Se le stelle fossero vive, si offenderebbero del gesto, benché perfettamente tranquille per i suoi effetti. Impotenza non significa irresponsabilità o innocenza.

D. Se non si nuoce?

R. L’Essere a cui non si potrebbe nuocere, a cagione della sua grandezza, è quello che si deve venerare di più, dunque è quello che si offende sommamente, se si tocca la sua gloria.

D. Che cosa fa il peccato alla gloria di Dio?

R. Umilia il pensiero creatore; contraria una volontà di perfezione e d’ordine; nell’armonia dell’opera divina, introduce delle dissonanze e compromette il « regno de’ suoi fini » (KANT).

D. Pochi pensano a queste cose; nessuno vuole queste cose. Si opera come questo e quello; ma chi intende di offendere Dio?

R. Non s’intende di offendere Dio; per lo meno ciò è raro; ma si vuole contentare se stesso a rischio di offendere Dio, ad onta dell’offesa di Dio. Se si potesse fare in modo che Dio non fosse offeso, senza dubbio ciò si farebbe; ma questo vuol dire che si desidera di cambiare il male in bene, piuttosto che guardarsi dal male.

D. Siamo dunque tutti peccatori?

R. «Il più mortale peccato è l’orgogliosa coscienza di essere senza peccato » (CARLYLE).

D. Che cosa chiami tu peccato veniale e peccato mortale?

R. Il peccato mortale è quello che si oppone formalmente a una volontà di Dio, che per questo ci toglie la sua amicizia, in tal modo che il peccatore, recedendo dal suo Dio, volta le spalle al suo ultimo fine in favore d’un bene frivolo. – Il peccato veniale, pur rispettando l’amicizia di Dio e il buon orientamento della vita, devia però un poco dal sentiero del bene.

D. Da che dipende una così gran differenza di natura e di risultati?

R. Può dipendere dalla maggiore o minore gravità della materia, che in un caso si reputa oggetto di una volontà formale del legislatore, e nell’altro no. Può dipendere, in una stessa materia grave, dalla pienezza dall’imperfezione del consenso.

D. L’uomo in stato di peccato grave fa ancora parte della Chiesa?

R. Sì, come un membro morto. Non riceve più il sangue del cuore, che è l’amore divino; non ubbidisce più all’idea direttrice del corpo, che è lo Spirito di Cristo; è privo del calore vitale e della motricità spirituale; non ha più diritto al pane di vita che dovrebbe mantenere in lui la vita che gli manca; è «uno scomunicato dell’interno » (Bossuet), benché circoli ancora nel gruppo e nei sacri edifizi.

D. Che cosa è dunque il sacramento della Penitenza?

R. È quello che è destinato a cancellare i peccati commessi dopo il Battesimo e a rendere al peccatore la grazia del suo Dio.

D. È dunque un Sacramento di purificazione?

R. E di riconciliazione. Sono lì quelle acque di Siloe « che scorrono in silenzio » nelle quali Gesù invita i malati a purificarsi. Ma dopo, o piuttosto per il fatto stesso della purificazione, che ristabilisce la grazia battesimale, l’anima pura si sente in Dio, « chiarezza fusa alla chiarezza » (FRANCESCO JAMMES).

D. La Religione si adagia facilmente col peccato! Essa sì rassegna dunque al peccato?

R. La Religione non si rassegna al peccato; ma si rassegna all’uomo peccatore; è il peccatore che Cristo le ha affidato, affinché con Lui, essa lo salvi.

D. Il peccato dunque non è più una disgrazia?

R. Il peccato è la più grande delle disgrazie; si potrebbe dire che è la sola; ma esso non è irreparabile; dopo di esso non è finito tutto; dopo di esso tutto si può riprendere, tutto si può riparare, tutto può ridiventare puro, tutto si può mostrare più alto che prima, ed è qui che sta il capolavoro.

D. Dunque il cattivo sarà l’oggetto della più apparente bontà?

R. Gesù disse: Io non sono venuto per quei che stanno bene, ma per quei che sono malati.

D. Si possono amare è cattivi?

R. I cattivi hanno bisogno d’amore più degli altri; essi sono in estremo pericolo, ed è l’amore che li rialza.

D. Non vi sono eccezioni? Certi mostri

R. Un mostro è un uomo spaventosamente deviato; l’umanità, in lui, rimane; egli può finalmente disarmare; solo l’amore divino non disarma.

D. Ma il peccatore ha offeso quest’amore.

R. La penitenza cristiana ci obbliga a collocare la nostra fiducia nello stesso amore che abbiamo disconosciuto.

D. Lo sforzo della Penitenza è dunque

R. Di vincere il peccato, di passargli per così dire sul corpo, per riprendere il sentiero.

D. Non è questo un compromesso?

R. Il sole si compromette forse spazzando via il fango?

D. Il sole regna lassù in alto.

R. La Religione non teme il peccato appunto perché essa regna lassù, cioè perché è divina; esso lo maneggia con dita di luce.

D. Che cosa domanda ai peccatori?

R. «Che vengano a subissarsi tra due braccia tese» (O. PÉGUY).

D. Vi sono però delle condizioni?

R. Vi sono delle condizioni, ma che tutte favoriscono il peccatore; gli si procura a un tempo l’onore della giustizia e il benefizio della misericordia. La penitenza è l’amplesso della giustizia e della misericordia.

D. Qual è la parte della giustizia?

R. È lo sforzo. Per la penitenza ci si dà il mezzo di rientrare in possesso di noi come per il lavoro noi riconquistiamo la natura ribelle. Qui e là, è una stessa fatica, che ricompensa una stessa ascensione verso l’innocenza dell’anima e delle cose.

D. E ne segue?…

R. Il possesso rinnovato della grazia, una migliore esperienza di se stesso, una fiducia crescente nel soccorso di Dio  che rialza, e una nobile pace,

D. Certi peccati hanno conseguenze esterne o interne.

R. Dio se le addossa insieme con noi; e nella proporzione di quello che ci è possibile, noi dobbiamo addossarcele insieme con Lui.

D. E le abitudini peccaminose?

R. Quello che prima era responsabilità crescente, a cagione della frequenza dei cattivi voleri, diventa poi scusa. Se un uomo ha colpevolmente avvilito l’anima sua, ma poi si emenda, dopo egli viene trattato come un convalescente che l’amore tratta con riguardo.

D. Non è ciò un invito a mal fare?

R. Tu riporti un’obiezione di Giuliano Apostata.

D. Non importa, non è invero troppo comodo scaricarsi così tutto a tratto delle proprie colpe, forse di tutta una vita di peccato?

R. Preferiresti un’incomodità eterna? Non sta appunto lì quello che si oppone all’inferno? Bisogna ben che tutto finisca; ma ciò non avviene senza che ci siano proposti, e proposti molte volte, dei « comodi » ricominciamenti.

D. Nondimeno certi atti sì dicono irreparabili.

R. La penitenza smentisce colui che disse: « Ciò che si rimette non è mai ben rimesso; ma ciò che si smette è sempre bene smesso » (C. Péguy); essa è in certo modo creatrice; ci rifà un’anima, e ci ricrea un universo, quello di Dio, tutto fatto di bontà e di sapienza, senza quel disordine e quel turbamento in cui il peccato ci aveva immersi.

D. Si può concedere l’amnistia a un colpevole; ma la società non gli restituisce mai la sua intera stima.

R. La società non vede il cuore, ed ha poco cuore. Gesù tracciò la condotta della sua Chiesa facendo sua amica e sua apostola una donna disonorata.

D. Il peccatore deve dunque essere nella gioia?

R. La gioia è per noi un dovere, perché è un omaggio, e significa: Padre, io credo al tuo perdono, credendo al tuo amore.

D. Consigli tu ai penitenti di ricordare sovente i loro peccati?

R. Essi devono ricordare la loro debolezza e la misericordia di Dio, ma non vagliare la loro miseria. Una volta usciti dalla notte, bisogna camminare, e non indugiarsi a contare le cadute fatte nell’ombra.

D. Da che dipende la frequenza delle cadute, ad onta della frequenza dei rialzamenti?

R. A volte dalla fiacchezza dello sforzo che raddrizza; ma specialmente da quella terribile inclinazione naturale che ci rende caro il peccato, e dall’abitudine, che tende a renderlo necessario.

D. Quante volte si perdona?

R. È la domanda di S. Pietro al suo Maestro, e Gesù risponde: « Settantasette volte sette », senza dubbio con un tenero sorriso. Lui che ci lascia nella nostra debolezza, pur rialzandoci dall’antica caduta, tiene conto di questa debolezza e la soccorre; essa dev’essere un mezzo di salute, ed egli non vuole farne una causa di perdizione. Per l’amore che egli ci offre ancora e che possiamo ricuperare, egli intende di valersi, per rialzarci, della nostra potenza di caduta. Non sono certi falsi amori che c’ingannarono? La bilancia risalga, dopo essere sfuggita al suo punto morto!

D. Non vi è nessun limite?

R. Nessuno; l’amore del Padre è tale, che l’infedeltà ostinata del figlio non lo scoraggia mai. I perdoni del Signore sono una moltitudine », dice il salmo. « Quando gli diciamo: Ti ho tradito, egli ci risponde: Va in pace, io ho fiducia in te ».

D. Non vi è dunque mai motivo di disperare?

R. Il disperare è un disconoscere Dio e se stesso. Si fosse pur Caino, si fosse pur Giuda, si è sempre figli di Dio, e si hanno da prendere per sè queste parole del dolce Maestro, che non si rivolgono meno alla sventura colpevole che alla sventura innocente: « Venite a me, voi tutti che soffrite e siete oppressi, e Io vi solleverò ».

D. Perché la Chiesa interviene in un atto così intimo come la penitenza?

R. Noi siamo membri della Chiesa; quando siamo ammalati spiritualmente, la Chiesa è ammalata in uno dei suoi membri: non è forse normale che essa cerchi di guarire se stessa guarendo noi?

D. Io mi meraviglio di questo pensiero che per un peccato isolato la Chiesa sia ammalata.

P. « Non vi sono che malattie generali », dicono i medici; a cagione della solidarietà funzionale, un elemento che si turba è un male del tutto.

D. Il peccato però è un’offesa a Dio.

R. Dio è per mezzo di Cristo il capo o la testa della Chiesa; per mezzo dello Spirito Santo Egli ne è l’anima. Dio, Cristo e Chiesa dunque sono qui tutt’uno, come direbbe Giovanna d’Arco.

D. Il peccato sarebbe dunque un male universale?

R. « Il minimo movimento importa a tutta la natura; il mare intero cambia per una pietra. Così nella grazia. La minima azione, per le sue conseguenze, importa a tutto » (PASCAL).

D. Tuttavia il peccatore sovente è solo.

R. Il peccatore crede di essere solo; ma è in presenza del cielo e della terra, ed egli offende il cielo e la terra, di cui sconcerta le leggi.

D. E ciò, ai tuoi occhi crea un diritto d’intervento in favore della Chiesa?

R. È un diritto, poiché essa è lesa da parte sua, ed è un benefizio perché là dove c’è solidarietà organica, la guarigione, come la malattia, è funzione di questa solidarietà. « Dio non volle assolvere senza la Chiesa, dice Pascal; com’essa ha parte all’offesa, vuole che essa abbia parte al perdono, e l’associa a questo potere, come i re i parlamenti.

D. Come dunque si possono mettere insieme le condizioni della conversione per mezzo della penitenza?

R. Il peccatore si è mostrato colpevole verso se stesso, verso la Chiesa e verso Dio: se egli si deve convertire, ciò non potrà essere se non per un atto spontaneo, per un intervento della Chiesa e per un intervento di Dio. Nessuna medicina opererebbe sopra un membro, se questo membro non reagisse vitalmente per liberarsi dal male. Nessuna medicina parimenti opererebbe, se la solidarietà organica non interessasse tutto il corpo a questo risanamento che guarisce il corpo stesso. Finalmente nessuna medicina agirebbe, e meno ancora, se l’idea direttrice della vita chiamata anima non si facesse artefice della riparazione, come fu agente della fabbricazione, della crescenza e della nutrizione dell’organismo.

D. Quali sono gli atti del penitente che corrispondono alla sua « reazione » necessaria?

R. Sono la contrizione, la confessione e la soddisfazione.

D. Qual è la parte di Dio?

R. Il perdono.

D. E la parte della Chiesa?

R. La Chiesa opera necessariamente per rappresentante, ed è il sacerdote come giudice, come ministro di assoluzione, come determinatore della soddisfazione.

D. Mi vuoi spiegare queste cose, e prima di tutto, che cosa è la contrizione?

R. Etimologicamente, significa uno «spezzamento o stritolamento del cuore » per il rimorso del peccato.

D. Il peccatore può sempre provare un tale spezzamento?

R. Non ci si domanda che il possibile, e l’immagine usata ha per scopo di farci capire che la contrizione cattolica non è una passività, ma un atto. Io spezzo il mio cuore davanti a Dio in onore della sua santità oltraggiata.

D. Senza immagine, che diresti?

R. «La contrizione è un pentimento delle nostre colpe con la volontà della loro distruzione » (S. TOMMASO D’AQUINO).

D. Che cosa è la confessione?

R. È la dichiarazione delle colpe commesse quanto alla loro specie, al loro numero e alle circostanze che ne modificano la natura o la gravità.

D. E la soddisfazione?

R. È la riparazione consentita in favore di Dio oltraggiato e del prossimo che ha potuto essere leso dalle nostre colpe.

D. Qual è la miglior riparazione riguardo a Dio?

R. Oltre a quello che il sacerdote indica, e che di solito è così poca cosa, è il sopportare pazientemente i mali che Dio ci manda.

D. Perché è la miglior riparazione?

R. Perché è la più conforme alla sua volontà e la più opposta alla nostra.

D. E qual è la miglior riparazione riguardo al prossimo?

R. È quella che annulla e compensa il più esattamente e il più delicatamente possibile il torto che gli abbiamo fatto.

D. In che modo ci viene il perdono di Dio?

R. Per l’assoluzione.

D. Bisogna dunque chiederla a Lui?

R. Sì, ma per mezzo della Chiesa, che ci riallaccia a Lui, e per la quale altresì ci viene la sua risposta.

D. Non vi è qui un’usurpazione di coscienza?

R. Ho già detto e ridetto le ragioni di questo intervento; ma devi osservare che nella Chiesa tutti si confessano, compreso il tuo confessore, compreso il Sommo Pontefice. Dunque si tratta qui d’un fatto che oltrepassa l’uomo, il che esclude ogni idea di usurpazione. Non ne hai forse il segno ben chiaro in questo fatto che il confessore, quando ha assolto, domanda al penitente di «pregare per lui »?

D. Ammetto il compito dell’istituzione; ma, nel fatto, ci si domanda di aprire la nostra coscienza a un uomo.

R. Come l’istituzione potrebbe operare altrimenti, e in un modo più favorevole? Preferiresti confessarti a tutta la Chiesa?

D. Non si faceva così una volta?

R. Così si faceva sotto il nome di confessione pubblica, richiesta per certi delitti. Ma vi si rinunziò presto, a cagione di inconvenienti derivanti dalla nostra miseria comune; però il diritto assoluto non è stato abolito; la nostra credenza al giudizio universale lo rammenta, e ciò dovrebbe farci riflettere quando critichiamo la disposizione prudente e misericordiosa che la Chiesa mette in pratica.

D. Quello che urta i nervi è siffatta dichiarazione di uomo a uomo.

R. Ascolta quello che dice in proposito Pascal: « Noi non vogliamo che gli altri c’ingannino; non troviamo giusto che essi vogliano essere stimati da noi più di quel che essi meritano: non è dunque giusto che noi inganniamo loro e che noi vogliamo che essi ci stimino più che non meritiamo… Ecco i sentimenti che nascerebbero da un cuore che fosse pieno di equità e di giustizia. Che dobbiamo dunque dire del nostro, vedendovi una disposizione affatto contraria?… ». La Religione cattolica non obbliga a svelare i propri peccati a tutti indifferentemente; tollera che si rimanga nascosti a tutti gli altri uomini, ma ne eccettua uno solo, al quale essa comanda di svelare il fondo del proprio cuore e di farsi vedere quello che si è. Non vi è che un solo uomo al mondo che essa ordini di disilludere, e lo obbliga a un segreto inviolabile, il quale fa sì che questa conoscenza sia in lui come se non vi fosse. È possibile immaginare qualcosa di più caritatevole e di più dolce? Eppure la corruzione degli uomini è tale che ancora si trova della durezza in questa legge, ed è una delle principali ragioni che fecero ribellare contro la Chiesa una gran parte di Europa ».

D. Non vi sono gravi inconvenienti in una tale pratica?

R. Tutto ha gravi inconvenienti, in una vita esposta all’accidente e alla debolezza. Ma si tratta di valutare il pro e il contro, e i benefizi della confessione son tali, che la sua soppressione sarebbe un immenso impoverimento per la vita religiosa e la vita sociale.

D. Perché la vita sociale?

R. Perché la vita religiosa è necessaria alla vita sociale, come abbiamo spiegato tante volte, e specialmente su questo punto. Nietzsche giunge a dire che la stessa coscienza scientifica è figlia della morale cristiana, e che essa si è «acuita nei confessionali ».

D. Che cosa procura dunque la confessione?

R. Argina la corrente del male opponendogli una diga reale, visibile, e periodica; — essa sforza a raccogliersi e a precisare il proprio caso, poiché lo si deve esporre; così è una luce, per l’anima spesso ottenebrata e accecata nella sua incoscienza; mette a nudo il peccato, lo fa giudicare tanto meglio in quanto te lo senti giudicato da altri, lo spoglia de’ suoi incanti e lo rende alla sua malizia, a volte alla sua ignominia ipocrita; la confessione procura la liberazione per via della dichiarazione; ti rende la disponibilità dell’anima tua; rigenera con lo sforzo le energie virtuose e spezza il determinismo perverso; la schiavitù delle passioni, nella sua lusinghiera e implacabile stretta, ne sarà attenuata, oltrecché, moralmente, essa cambia segno: aggravamento ieri, triste scusa domani. Da un’altra parte, la confessione ti accerta il perdono divino e così alleggerisce l’anima tua de’ suoi terribili pesi segreti;  di fronte all’invisibile e muta eternità, t’ispira il sentimento di essere inteso, amato, incoraggiato per l’avvenire; reca dunque seco questo conforto, la cui assenza cagiona gli abbattimenti e le disperazioni, di avere davanti a te una pagina bianca, sulla quale oramai tu puoi scrivere un testo santo. — Finalmente, nello stesso tempo che un atto di nobile libertà ti rialza, l’amicizia e la fraternità ti soccorrono, giacché il confessore si fa consigliere, sostegno, consolatore, purché egli conosca il suo compito e tu dal canto tuo sappia richiedere il suo aiuto.

D. Eppure i protestanti non sì confessano che a Dio.

R. Qui bisognerebbe dire: « È troppo comodo! ». Ma io preferisco dire: È troppo poco misericordioso, troppo poco consolante, troppo poco efficace. Chi non conosce le grida di desiderio mandate da certi protestanti quando pensano a questo bagno dell’anima, a questa frizione energica e roborativa, a questo sollievo, a questa reazione di pace!

D. Psicologia geniale, sia pure! ma autenticità e verità?

R. Ho detto ripetute volte, che nella Chiesa, nulla è pullulato per psicologia; l’autenticità del sacramento della Penitenza è quella della Chiesa stessa; ma di fatto, qual senso dell’anima umana in una simile istituzione, se essa non fosse da Dio?