IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (7)

 IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (7)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO SETTIMO

ARGOMENTO

Amore patrio alla pagana. Quell’amore si fonda nella natura, e pei Cristiani è carità del prossimo. Sacrifizio pel bene comune. Veri patrioti. Come il Paganesimo formasse della patria un idolo. Tirannide di questo e schiavitudine universale. Cristo ne francò il mondo. Solo Signore dei Cristiani è Cristo. Amor patrio e sudditanza nel concetto evangelico. Diritto divino. Politica erodiana.

I. Se non il più giusto, certo il più splendido orgoglio dell’antichità pagana fu quel caldissimo amore di patria, onde gli uomini alla grandezza di lei ogni loro cosa e sé medesimi, alacri, volenti ed in tanto numero, sacrificarono. E pari allo splendore di quella gloria furono le ammirazioni, colle quali i secoli appresso la celebrarono, per opera soprattutto dei retori e degli umanisti. E chi è di noi, signori miei, che alle rimembranze della sua fanciullezza non associi gli stupori e la riverenza pei Temistocli e per gli Epaminondi, pei trecento Spartani e pei diecimila di Senofonte, per Maratona e per Salamina? Chi di noi non ha celebrato, per esercitazione di scuola, gli Orazii e i Curiazii , i Camilli e gli Scevoli, gli Scipioni, i Pompei ed i Cesari, senza che vi mancasse, quando il pedante pizzicasse un poco del libertino, qualche fiore poetico, aggiunto dalla nostra musa balbettante alle civiche corone dei Gracchi, o dell’uno e dell’altro Bruto? Io non cercherò se e quanto siano ben consigliate quelle ammirazioni; questo dico solamente, che quando a quelle ammirazioni poco meno che puerili, vengano dietro insegnamenti, foggiati sulla stampa del Segretario fiorentino, non consolati da un alito di Cristianesimo o da un fiato di Fede, allora non ne può venire altro che lo spettacolo che abbiamo visto noi, che ne stan vedendo i popoli europei da un paio di generazioni, e ne vedranno, chi sa per quante altre! i nostri nipoti. Non ne può venire altro che una storpiata parodia del vecchio fanatismo pagano, tra il goffo e l’atroce non sapreste qual più, ma goffo ed atroce in supremo grado: parodia, per la quale popoli, che anelavano ad una felicità portentosa, si videro travolti in un mare di guai, e che in vece di diventarne gloriosi, furono fortunati, quando ne divennero solamente ridicoli. Né voi, o Romani, per esserne persuasi, avete uopo di risalire alle storie di Pierleone, di Cola da Rienzo o di Arnaldo da Brescia. A voi basta recarvi alla memoria ciò, di che, già poc’oltre a due lustri, voi medesimi foste parte e testimoni. Deh! che era divenuta a quei di questa vostra alma città, Capo dell’Orbe, centro del Cattolicismo, patria spirituale di quanti sono credenti, e gloria e stupore dell’universo mondo? Abbandonata alla balia d’una falange di forsennati, che, come paese di conquista, la correvano qual cosa loro; perduta ogni sicurezza della vita, ogni tutela delle sustanze, ogni riguardo ai diritti, vedea ogni pace, ogni decoro, ogni tranquillità cittadina tolta via; e dolorava intanto allo scorgere esule il suo Pontefice, disertati i suoi templi, perseguiti e manomessi i suoi Sacerdoti, e la pubblica cosa a tali termini divenuta, che essa dovette salutare con gaudio il fulminare delle artiglierie, che, battendola in breccia e squarciandole un fianco, venivano a liberarla da tanti dolori e da tante vergogne. E pure vi è chi vorrebbe cominciare da capo! E che altro chiedereste per convincervi, che sono pur troppo superstiti alla sconfitta quei fanatismi, dai quali eziandio le anime buone sogliono talora sentire qualche offesa? Nondimeno quanto non ci sarebbe agevole lo schermircene, se ci tenessimo saldi alle norme del santo Vangelo! Né credeste già che il santo Vangelo togliesse un pregio al mondo sterpandone quel fanatismo; esso anzi lo liberò dalle esorbitanze di un orgoglio feroce e dall’avvilimento di una schiavitudine codarda. Signori sì! Signori sì! non è a prenderne meraviglia: il tanto vantato amor patrio dei Pagani, salvo i rari casi in cui poté avere qualche naturale rettitudine, come era socialmente professato, era un indistinto di orgoglio e di schiavitudine, in cui solo non può definirsi chi fosse più misero, se chi opprimeva o chi era oppresso. Ma Cristo Redentore, chiamando il Paganesimo alla luce della sua verità, lo sciolse da quel fascino, e ritenendone il naturale fondamento, raddrizzò, ridusse alla sua vera misura, nobilitò e consacrò il medesimo amore della patria, come fece di tutti i legittimi amori. Questo mi studierò di mostrarvi nel presente discorso; e, senza più, prendo le mosse e comincio.

II. Come dunque io vi diceva testè, il fanatismo patrio dei Pagani, con tutte le sue forsennate esorbitanze, avea un fondamento legittimo nella natura. E qual cosa più naturale all’uomo, che amare di tenerissimo affetto il luogo natio? quel luogo natio, a cui si associano tante rimembranze della inconsapevole infanzia e della vaga puerizia; che accoglie tanti nostri beneamati o per vincolo di sangue, o per lunga consuetudine di dolci ami che in ogni via, in ogni piazza, in ogni tempio, starei per dire in ogni zolla ed in ogni sasso ha legata una qualche memoria degli anni che furono, e sembra ripeterci in sua favella i favori onde fummo lieti, le allegrezze e i dolori che partecipammo coi nostri o domestici o concittadini, e fino i lieti sogni della spensierata giovinezza e le speranze! Di questo poi soavissimo sentimento, se di altro mai, si avvera quello che a rispetto di tutti gli altri beni della vita suole avvenire; che cioè si cominciano ad apprezzare, quando si perdono. E voi che ora neppure avvertite gli agi, il decoro, le affezioni che vi circondano in questa nobilissima patria vostra; oh! voi li avvertireste davvero e con ismisurato desiderio li sospirereste, quando (che il cielo non voglia!), esuli da lei, vi aggiraste stranieri tra stranieri sembianti, visitando città, castella e borgate, che, poco dicendo al pensier vostro, affatto nulla non direbbero al vostro cuore; quando sorpresi in luogo solingo dal declinare del giorno, vi avvenisse di ascoltare una squilla da lungi: oh! allora, al rimembrare il nido natio e i cari lontani, sentireste serrarvisi il cuore e gli occhi vi si gonfierebbon di lagrime. Ed ora che questa Roma, sempre ospitale, accoglie tante vittime onorate delle ire civili, chi sa in quanti cuori avranno trovata un’eco affettuosa queste mie parole! – Che se alcuni per divino servigio abbandonano la patria loro, non credeste per questo che essi l’abbiano in poco pregio, o ne siano disamorati e indifferenti, come alcuni odiatori della pietà ne li hanno calunniati. NO! davvero! E quale sacrifizio farebbero essi a Dio, se per niente l’amassero? il sacrifizio consiste appunto nel lasciare per suo amore, e forse per sempre, cosa tanto caramente diletta. – O cielo ammantato d’azzurro! o fulgidi soli e dorati! o tranquille marine! o pendici fiorite, che sorrideste benigne alla mia culla, e forse alle stanche mie ossa non vi farete pietose! oh! Patria mia! Quanto non me li fece più cara la tua sventura! Tu, per ignavia e perfidia di pochi tuoi, di donna, che fosti e reina di province, sei fatta serva; e del servaggio stai cogliendo frutto amarissimo, nelle insidie che si tendono alla gemma dei pregi, che ti fanno cara ai presenti e dai lontani ammirata, alla Fede santissima dei padri tuoi! Sicché vedete che l’amore della patria è cosa legittima, naturale, che nulla non può avere di riprovevole, e che anzi può essere degno di molta commendazione, quando si mantiene nei limiti a lui segnati dalla ragione. Ma deh! questi limiti in quale amore seppe conoscerli e mantenerli la ragione umana, come giacque abbandonata a sé stessa nel Paganesimo? Neppure li sospettò quei limiti: tanto fu lungi dal non preferirli! Ma noi nati alla grazia, noi formati alla scuola dell’amore, noi sappiamo bene onde si origina quell’amore della patria, quanto largo si stende, quai doveri c’impone; ed insomma, illustrati la mente dalla Fede, lo possiamo quasi notomizzare, come colla scorta di san Tommaso ci è agevole a fare di tutte le altre umane affezioni. Ora, come insegna l’Angelico, l’amore della patria non si origina da altra fonte, che dalla carità verso del prossimo; la quale carità, benché nessuno non escluda dal suo affetto, deve nondimeno, per essere ordinata, pigliare la sua norma, appunto dalla prossimità; ed i più vicini amare più e prima, che i più lontani. Così il luogo, ove nascemmo e fummo educati, e gli uomini che lo abitano dobbiamo amare più, che non quelli della nostra Provincia, e questi più di quelli del nostro Stato, e questi più di quelli della nostra Nazione; e così via via, senza che una ragione di amare non manchi mai, quanlunque quell’attinenza, coll’allontanarsi dal centro, si vada facendo sempre più rimessa: appunto come avviene nel simbolo più espressivo dell’amore, che è il fuoco, dal quale quanto più vi allontanate, e tanto meno vi viene di calore. Di che si vede che l’amore della patria non è altro finalmente, che un’ampliazione dell’amore di famiglia, in quanto sono appunto le famiglie, le quali raggruppandosi fanno i Comuni, e questi, congiungendosi tra loro, costituiscono le Province, dalla cui riunione con altre, sotto l’Autorità medesima, è formato lo Stato. E quinci apparisce quanto sia insipiente il nostro secolo, il quale predica tanto l’amore della patria, e poi, col debilitare per tutti i modi l’amore della famiglia, ne scalza e ruina il primo fondamento e forse l’unico. Anzi è così naturale quella genesi dell’amor patrio, che le condizioni di questo si debbono ragionare, appunto per analogia all’amore della famiglia.

III. Ed il primo sentimento cristiano, che in questa materia ci si offre al pensiero, è questo: non essere cioè ordinato l’individuo al bene della famiglia, o della società civile, ma essere la famiglia e la società civile ordinata al bene dell’individuo; e ciò consuona perfettamente con quell’alta dignità, che la nostra Fede riconosce nella umana persona. Che se tutta questa gran macchina del mondo sensibile è costituita ed ordinata a servigio dell’uomo; crederemo poi che l’uomo sia come morto strumento, e mezzo quasi inanimato, pel bene di un essere collettizio, poniamo pure che voluto dalla stessa natura? E perché altro volle natura, che l’uomo nascesse in famiglia, vivesse in società, se non perché gli fossero assicurati i mezzi di ogni suo bene religioso e naturale, morale e fisico? Vero è che il bene della famiglia e della società rifluisce nei particolari soggetti, che compongono l’una e l’altra; ed in questo modo chi fa servigio a quelle lo fa a questi, e tanto più ampio lo fa, quanto la comunanza è più vasta. In tal caso è manifestissimo il principio, che il bene comune deve prevalere al privato, essendo certo che il bene di mille o di diecimila è cosa assai più rilevante, che non è di uno o di dieci. Ma quando si trattasse di vantaggi, i quali o veri beni non sono, o fossero tenuissimi e di pochi, il sacrificare a quelli l’individuo sarebbe uno sconoscere la dignità umana; sarebbe una tirannide in chi lo pretendesse da altri; sarebbe una pazza fantasia, scusabile appena per l’ignoranza, in chi si contentasse di patirlo per sé medesimo. E che direste di un uomo, il quale, per aggiungere un vano titolo alla sua casa, o per crescerne di alquanti scudi il patrimonio, vi rimettesse di sanità, di onore, e quasi che non dissi, vi sacrificasse la vita temporale e l’eterna? Ora ragionate alla stessa maniera della patria, la quale è appunto una grandissima famiglia, di cui siamo membri. Il vero bene di questa consiste nella pace, nell’ordine, e specialmente nella giustizia in tutto e per tutti, senza la quale l’ordine sarebbe fittizio, e la pace saria bugiarda. Ed è naturale che a procurare quei beni alla patria ogni sacrifizio dalla nostra parte saria ben collocato; stantechè se è bello trasandare le proprie utilità, per assicurare quei beni al fratello, al congiunto, all’amico; quanto sarà più il trasandarle per la patria, che vuol dire per l’accolta vastissima di tutti i parenti, di tutti gli amici, di tutti i congiunti, e di quegli altri innumerevoli, che, quantunque sconosciuti, ci sono pure legati col vincolo del medesimo consorzio civile? E quindi si origina la giusta ammirazione, che circonda quei generosi, i quali per assicurare alla patria loro qualche grande e vero bene, e più per liberarla da qualche grande e vera calamità, non dubitarono di esporre ad ogni sbaraglio la propria vita. Questo è propriamente il ponere animam pro fratribus, del quale Cristo insegnò non vi essere atto di carità più eccelso. Di che vedete che, per noi Cristiani, l’amore della patria appena è altro dalla carità verso il prossimo; e se non fosse prostituita la significazione di questa voce, come la voce stessa non è italiana, vorrei dire che i più grandi patrioti furono gli uomini apostolici, i quali spesero tutta la loro vita pel bene morale e spirituale dei popoli, nel cui mezzo vissero ed operarono. Furono, per figura di esempio, per questa Roma il vostro Filippo Neri, per Firenze il suo Antonino, il suo Carlo per Milano, per la mia Napoli il suo Francesco di Girolamo, e così di altri per altre città e regioni diverse. A questa stregua veri patrioti sono, esempli di grazia, que’ benemeriti professori che, decorando la patria della loro scienza, coll’insegnamento e coll’esempio, le apparecchiano, in una gioventù istruita e cristianamente morigerata, ottimi cittadini; sono quei pubblici ufficiali che, col pieno ed accurato adempi mento dei propri doveri, mantengono la buona contentezza nell’universale, guardando il proprio ufficio, non come un beneficio semplice, ma come un vero carico di servire al pubblico: della quale tutto cristiana parola meno d’ogni altro dovrebbero adontarsi gli uffiziali di uno Stato, il cui Sovrano non disdegna intitolarsi Servo dei Servi del Signore. Così, per la ragione dei contrari, non patrioti, ma parricidi sono quegli scellerati che, alle proprie cupidità ed ambizioni pretendendo non so che gloria e prosperità della patria, apparecchiano a questa giorni procellosi, ne contaminano il costume, ne insidiano la Religione, spogliando, perseguitando, proscrivendo e perfino trucidando i più specchiati e zelanti suoi Ministri.

IV. Ora, chieggo io a voi: questo verace amore di patria come poté aver luogo nel Paganesimo, il quale della carità, non che esercitare i doveri, non conobbe neppure il nome? E quando pure si volesse lasciare da banda la carità, come avrebbe potuto il Paganesimo coll’amore della patria ordinare il civile consorzio, quando esso ignorava di questo le condizioni essenziali e la natura? come già Minucio Felice avea notato: Non potest pulchre gerere rem civilem, quia non cognovit hanc communem mundi civitatem (OCTAVIUS, Cap. XVII). Conviene dunquedire, che nel fondo di questo patrio amore si trovassequell’orgoglio smisurato, che era come l’anima e la vitadel Gentilesimo, il quale per questa via, anelando dislargarsi ad obbietto più grande, riusciva a fabbricarsicolle proprie mani un nuovo idelo, a cui servire e percui sacrificarsi. Mi dichiaro; e voi fate di penetrareintrinsecamente in questo mio pensiero; ché forse ragionandovi del mondo antico, vi rivelerò una piaga bendolorosa del moderno.L’uomo, abbandonato a se stesso e perduta, non cheogni conoscenza, ma ogni rimembranza del suo principio, cercò in sé solo l’appagamento compiuto di ogni sua aspirazione. Ma ristretto alla cerchia del proprio individuo, sentì tosto che era vano cercarvi l’adempimento di desiderii che, lui inconsapevole, lo portavano all’infinito. Pertanto, uscito in certa guisa di sé medesimo, cercò nel mondo esteriore qualche cosa più ampia e più permanente, che non fosse l’individuo, angusto sempre, meschino e labile, come il fumo nell’aria o la spuma sull’acqua. Quest’obbietto credette avere trovato nella patria, nella nazione, nello Stato. Quindi si strinse ad esso; e tanto più ad esso si strinse, quanto sperò che, afferrato, in un modo o in un altro, se non il timone di quella gran nave, almeno un remo, avrebbe esso partecipato la potenza, le ricchezze, la gloria, di che sarebbe la patria depositaria e custode. Così quell’autolatria o adorazione di sé medesimo, la quale era il carattere più espressivo dell’uomo pagano, si amplificava, in certa guisa, e si distendeva in uno smisurato ente collettivo, nel quale tutti, adorando sé stessi, adoravano tutti; ed oltre a ciò se ne acquistava qualche sicurezza contro le invasioni degli altri popoli, i quali, però solo che erano forestieri, erano riputati, secondo le idee di quel mondo, non pure barbari, ma nemici. Eccovi dunque della Patria fatto un verissimo idolo, che s’impadroniva di tutto, che assorbiva tutto, che trasformava tutto in sé medesimo; ed eccovi i popoli trascinati ad immolarsi, a vendersi anima e corpo, per la prevalenza e per gl’incrementi di lei .. Né già, vedete, per gl’incrementi della contentezza privata, del costume, della pace, dell’ordine, della giustizia, la quale della pace e dell’ordine è unica norma e sicura custode; ma sì veramente a fare che la patria allargasse, quanto più si potesse, i suoi confini, annettendosi Stati e Province, quante più potesse (vedete come le annessioni sono cose stravecchie nel mondo); a fare che la patria fosse riverita servilmente dalle vicine nazioni e temuta dalle longinque; che potesse disporre dei destini dei popoli e, se fosse possibile, togliesse e donasse corone ai Regi; senza che in tutto questo entrasse altro motivo che l’orgoglio, altro movente che l’interesse, altro strumento che la forza, altro titolo che il diritto del più forte e la prepotenza. Qual parte si promettesse ciascuno di quella potenza, di quelle dovizie, di quello splendore è inutile a dire, quando è manifesto che tutti i liberi cioè i non mancipii, doveano prometterlasi grandissima, benché quasi tutti ne restassero a denti asciutti; come anche a’ dì nostri si è visto in più di un caso e si vede. Nè altro potea essere, stanteché, dovendosi pure innalzare quella smisurata mole (e tutti vi agognavano i popoli, benché un solo vi riuscisse), fu naturale, che a quella mole si dovesse dare per appoggio, per alimento e per sostegno, tutta la immensa turba dei cittadini, i quali, con isnaturato pervertimento, non più pensarono, la patria essere per bene loro; ma si giudicarono, sé essere per bene della patria, ed a quel mostruoso Moloc tutti doversi immolare i più santi affetti, tutte le più legittime propensioni, tutti gl’interessi, tutti i respiri, tutte le vite. Quindi quelle massime, contro cui la natura freme, e che nondimeno lasciarono eco prolissa infino a noi, i cittadini essere proprietà dello Stato; nulla possedersi in proprio da quelli, che dallo Stato non si possa occupare come cosa sua; i figli appartenere, non tanto ai propri genitori, quanto allo Stato, il quale ne può commettere a cui meglio gli sia in grado l’allevamento: per poco non si aggiungerebbe, i cittadini portare la testa sul collo, per graziosa degnazione dello Stato , il quale per ora non vede ancora nessuna sua utilità nel separarnela; ma se la vedesse, non penserebbe un quarto d’ora a fare loro la festa. Ed una società, a questa maniera costituita, che era dunque, se non un immenso branco di pecore, chiamate cittadini, i quali o le quali, perduta ogni coscienza, non che della propria dignità, ma della personale loro indipendenza, viveano atterrati e conquisi dal dominio assoluto di un essere misterioso e inesorabile, che impinguava di oppressioni, vivea di servaggio e si abbeverava, senza mai dissetarsene, di lagrime e di sangue? che altro era, se non un popolo che assassinava stupidamente sé stesso, perché lo Stato fosse abilitato ad assassinare altri popoli? Leggete con occhio cristiano le storie antiche, e voi non vi troverete altro. Erano popoli che si scannavano l’un l’altro per l’ingrandimento della patria rispettiva; e, finito o piuttosto sospeso il macello, trionfava la patria che più aveane uccisi degli altri, e meno ne trovava uccisi dei suoi; ma sempre uccisi. Direte che quella patria aveanla fabbricata essi: direte che volenti a lei e per lei s’immolavano. Ma che per ciò? forse che gl’idolatri non adorarono e non adorano un fantoccio fabbricato dalle loro mani? forse che il forsennato non si getta nel precipizio menando carole? Dite dunque forsennati quegl’idolatri, ed avrete spiegato il mistero. Nel resto quella medesima illusione di vedere nella patria un essere collettizio e quasi un corpaccio immenso, nella cui smisurata ventraia ognuno potea immaginarsi di carpire un siterello, per fruire potenza e ricchezza, quella medesima illusione sparì col decadere della Repubblica romana, concentratane l’autorità nelle mani di Ottaviano Augusto, il quale, col nome di principale, si prese il tutto. Personificatasi la patria in un uomo, quell’uomo fu Imperatore, fu despota, fu idolo, fu Divo, ed ebbe templi, ed are, ed incensi, e sagrifizii; quantunque i pretoriani si avessero arrogato il diritto di mandare all’altro mondo quelle vituperose divinità, quando diventavano intollerabili, e loro, senza più, sostituirne delle altre, che sarebbero spacciate al modo stesso. E si vide così lo spettacolo, prolungato per alquanti secoli, di quasi tutto il genere umano, almeno per la parte fino allora conosciuta ed esplorata, che, incatenato e pavido, allibiva o fremeva ai piedi di un uomo bestialmente mostruoso, spesso sarmata, talora trace, la cui volontà consideravasi come il fato, e la cui persona era adorata come divina. Oh! non vi pare che l’uomo fosse stato così ripagato con larga usura dell’alterigia, ond’erasi sottratto superbamente al dominio del vero Iddio? Da quaranta secoli il genere umano non era mai dechinato sì basso! e ben si dice, nei Fasti cristiani, che nell’anno quarantaduesimo di Augusto tutto il mondo era in pace: era la pace universale della universale schiavitudine! Ora fu proprio quello l’anno, in cui apparve al mondo il Salvatore, il Liberatore per antonomasia, il grande e vero Sospitatore!

V. Rientrata un’altra volta l’umana famiglia, mercè la grazia del Salvatore, sotto il dominio di Dio, se ne ristorò tosto la dignità, non già, vedete, rifiutando obbedienza a quei tiranni: tutt’altro. Mentre i Cristiani erano così perseguiti e manomessi, in tutte le cospirazioni, che si ordivano contro quegli esosi Imperatori, non si trovò che pigliasse mai parte un Cristiano; e Tertulliano sfidava a fronte alta i Gentili a nominarne un solo che l’avesse fatto! Ma sì veramente fu ristorata, per tale rispetto, la dignità umana, facendo che dalle generazioni redente s’intendessero le intime ragioni dell’ordinamento sociale, e la tanta parte, che il Re supremo ha nell’autorità civile, per quanto sia vero, che i depositarii di essa possano abusarne e talora ne abusino. Non più dunque l’uomo fu tenuto proprietà della patria, schiavo della Repubblica, mancipio del Principe o dello Stato. Oh! no! un’anima ragionevole ed immortale è cosa troppo sublime, sicché possa tributare le sue adorazioni ad altri, che a quel Re sempiterno, di cui sa di essere immagine espressiva; e quasi si sente spiracolo vivo. Il carattere del sacrosanto Battesimo, onde abbiamo insignita la fronte, ci onora assai più, che qualunque corona di Monarca non potrebbe; e l’ambizioso Civis romanus , di cui i padri vostri, o Romani, erano cotanto altieri, spari dai loro occhi, al pensiero di essere rinati per Cristo, come il Magno Leone con esso loro se ne gratulava: Nec tam gloriantur quod in Imperio geniti, quam gloriantur quod in Baptismate sunt renati (S. Leon. Serm. XXXVII). Noi amiamo la patria, riveriamo la legittima autorità civile; ma riveriamo questa ed amiamo quella di riverenza di amore ben diversi da ciò, che ne seppe e ne praticò il Paganesimo. Noi amiamo la patria, non come nostro fine ultimo: a questo modo, la nostra vera città, la vera nostra patria è il Paradiso. Noi amiamo altresì la terrena; ma l’amiamo come uno dei tanti mezzi fornitici dalla Provvidenza ad asseguire l’ultimo nostro fine; e perché questa destinazione si avveri, desideriamo che in essa patria fiorisca la Religione, la giustizia, la pace, l’ordine, senza aggiungere grande importanza al timore che essa possa incutere altrui colle sue forze di terra e di mare; e piangeremmo se vedessimo sperperate le sue ricchezze e versato a torrenti il suo sangue in guerre, di cui non si sapesse neppure il perchè, o si sapesse che sono a sostegno della nequizia; ed arrossiremmo quando sapessimo, che la nostra patria avesse perduta ogni fede nel mondo per le sue menzogne diplomatiche, o fosse da tutti guardata in cagnesco per le sue perfidie. Il prosperare materiale della patria piace anche a noi; ma non possiamo volerlo mai come bene assoluto, quale non è nessun bene creato; e così dobbiamo volerlo, e lo vogliamo subordinato ai beni morali ed agli eterni; e non sarebbe così subordinato, quando, per ragione di esempio, quella prosperità materiale, fattasi squisitamente voluttuosa e sibaritica in alquanti gaudenti del secolo, lasciasse ai più la fame, i dolori, le privazioni, una vita di pene incessanti e di fatiche. Per ciò che si attiene all’autorità legittima, il Cristiano non obbedisce all’uomo: no! il concetto dell’uomo, soggetto all’uomo, in quanto tale, è concetto altamente oltraggioso alla dignità di uomo, e più ancora alla professione di Cristiano. No! il Cristiano non ha altro Re o padrone che Dio, e precisamente il Dio Incarnato, e non obbedisce che a Lui solo. Noi coll’Apostolo Giuda professiamo di credere, a Gesù Cristo essere il solo Signore nostro: » Iesum Christum nostrum (Ephes. VI, 5, 6). E se Egli è Solo, non ve n’è, non ve ne può essere altro fuori di Lui. Qui, nei templi santi di Dio, sotto queste auguste volte, tra i solenni concenti dell’organo armonioso, in mezzo alla maestà dei riti cristiani, la nostra plebe, anche scalza, anche cenciosa, fa coro coi suoi Sacerdoti, che cantano altamente e proclamano uno, uno solo essere il Signore, il solo Altissimo Cristo Gesù: Tu solus Dominus, Tu solus altissimus, lesu Christe. E non vi pare, che questi scalzi, questi cenciosi siano al quanto dappiù di quel dorato servidorame, che, tenendo per unico Dio il suo padrone terreno, è dannato a imputridire nelle anticamere, aspettandone l’insigne onore di un comando, o il favore miracoloso di uno scherno? – Che se il Cristiano, com’è suo dovere, riverisce ed osserva eziandio le autorità terrene, ciò è solo, perché Iddio, nell’ordinamento della società e della famiglia, avendo conferita parte della sua autorità a chi alla famiglia od alla società fu preposto, egli il Cristiano in costui non paventa la forza, non teme l’astuzia, molto meno invidia la potenza; ma con semplice cuore riconosce un Luogotenente di Dio, un investito dell’autorità di Lui. Ed oh! che grande! che sublime parola è quella di Paolo là, dove conforta, non che i sudditi, ma gli schiavi medesimi ad obbedire ai loro preposti: “Servi obedite præpositis vestris sicul Deo …. non ad oculum servientes. Avete udito? Non bisogna fermarsi a quello che ce ne dice il senso; non dobbiamo mirarvi l’ambizione, l’ingiustizia, la prepotenza, la cupidità che spesso vi si trova, e più spesso vi si suppone; ma l’essere essi strumenti di Dio. Che se vi paresse strano, che Iddio pigli talora a strumento uomini inetti od anche malvagi, non ci è uopo di prenderne scandalo, e neppure meraviglia. Forse che Dio non castiga cogli scarsi raccolti, colle inondazioni, colle pestilenze, coi tremuoti? E perché dunque non ha potuto pigliare talora a strumento dell’ira sua, eziandio il mal governo di Reggitori incapaci o tristi, valendosene come il padre si vale della verga? Ché egli con questa corregge il figlio, e poscia al figlio riserba la eredità, e la verga getta ad ardere nel fuoco, secondo la viva immagine che ne dà Agostino. Or vedete fonte perenne di dignità, di pace, di contentezza rassegnata per qualunque sia sommesso a superiore potestà, eziandio quando questa o per incapacità tentenni e sbagli, o per malvolere, o per capricci trasmodi! soprattutto quando, riconosciuto da tutti il Potere come dato da Cristo, il suo Vicario in terra possa stendere la mano paterna, a rattento e correzione dei trascorsi di quello. Ma questa dottrina, che in sostanza è il tanto calunniato Diritto divino, e che mantenne il mondo, a tal riguardo, tranquillo per otto secoli, questo sistema, putiva troppo di sagrestia; ed i razionalisti umanitarii vollero rifare essi a modo loro la società. E che riuscirono a fare? scardinata la società europea dall’imo fondo, col sottrarle il fondamento cristiano, fecero una cotal pazza cosa, che né cristiana non è né pagana, ma va barcheggiando sciancata tra l’uno e l’altro, senza avere i vantaggi di alcuna: non la dignità della prima, non la stabilità e la forza della seconda. Dall’assoluta indipendenza individuale passarono a riconoscere l’autorità nelle moltitudini; nella impossibilità di ritrovare in queste il principio di autorità una ed operante, si gettarono alle maggioranze, ossia alla prevalenza del numero; ma essendo in questo troppi capi, si passò alle elezioni ed all’eletto. Talmente che, in ultima conchiusione, per non prestare obbedienza a Dio, si venne a prestare idolatria alla marmaglia; per iscuotersi da qualche dipendenza dalla Chiesa, si restò alla discrezione della piazza; per non riconoscere gli eletti di Dio, si riuscì ad accettare gli eletti del popolo, che significa, con rarissime eccezioni, i più furbi, i quali sanno meglio abbindolare le moltitudini passionate ed imperite. Voi non avete uopo che io vi dichiari gl’insigni guadagni, che con questi nuovi processi ha fatto la società, soprattutto nel costume e nella pubblica quiete, quando vedete le carceri e le galere sempre più amplificarsi, e le rivoluzioni essersi rese cotanto frequenti, che se il loro ricorrere fosse costante, noi potremmo misurare con esse il nostro tempo, come già i Greci facevano colle loro Olimpiadi. Riposiamo.

VI. Mi guarderei bene dal dire, che tutti i politici del nostro tempo esemplano in loro medesimi il perfido ed empio Erode, persecutore del Redentore fino dalla culla. Ma se l’asserzione, scendendo da quell’ampiezza, si restringesse a quei soli politici, i quali o non mai hanno avuto il dono della Fede, o ne fecero miseramente getto, sicchè appena hanno altra norma del loro pubblico operare, che l’ingrandirsi a tutti i patti ed il prepotere, alla maniera gentilesca; ahimè! che sarebbe purtroppo vero il paragone! E che fece finalmente Erode? volle conservarsi un Regno, a cui pare che avesse un qualche diritto, e volle conservarlosi ad ogni costo. E così, sentendo parlare di non so che nuovo nato Re dei Giudei, si dié a giocare di astuzia per saperne prima per minuto, e poscia per disfarsene in tutti i modi. Pertanto un po’ di politica machiavellica coi Magi, fingendo di volerlo adorare, quando avea in animo di sterminarlo; un po’ di acceso risentimento, quando si vide schernito dai Magi stessi, i quali più dell’Angelo si fidarono che non di lui; da ultimo un po’ di sangue infantile versato, un po’ di scipito guaire di madri piangolose, non erano cose da fare dietreggiare la ragione di Stato, la quale volea salvo il diadema, e segua che può. Or chieggo io: se si tolga quel troppo strepitoso macello d’infanti, cui la mitezza dei tempi moderni non vorrebbe tollerare, e quale è parte della politica erodiana, cui non abbiamo vista adoperata sotto i nostri occhi? colla sola differenza, che Erode lo fece per conservare il suo: noi l’abbiamo veduto fare per prendere l’altrui. Fingere ossequio, quando in cuore si cova odio; promettere amicizia, quando si stanno tendendo agguati; perseguitare qualche innocente , schiacciare qualche ardito, non si curare delle lagrime, delle sventure dei deboli, lasciar correre come acqua il sangue dei popoli, oh! e non sono cotesti i primi elementi della politica anticristiana, e peggio che gentilesca, tenuta in onore nel mondo? Ma Iddio che schernì gli scaltrimenti volpini dell’antico Erode, schernirà, siatene certi, anche quelli dei nuovi: Dominus irridebit eos. E valga a sostenere la nostra fiducia il saggio stupendo, che ci sta dando della protezione, onde Egli copre la Chiesa in maniera così analoga a quella, onde già protesse il divino Autore di lei fino dalla culla; massime chi consideri la qualità dei mezzi di cui si vale. Oh! guardate! Tanta strage d’innocenti dovea servire per ravvolgere in quella il temuto Re neonato; e pure il temuto Re neonato fu il solo, che non fosse ravvolto in quella strage. Ora non sapete come, nei disegni dei nemici di Dio e della sua Chiesa, la tempesta scatenata, in questi due ultimi anni, sopra i troni italiani era ordinata principalmente ad abbattere il trono del Vicario di Cristo? E non dimeno (voi lo state vedendo!) il trono del Vicario di Cristo è il solo, che non sia stato abbattuto da quella tempesta: Unus tot inter funera Impune Christus tollitur (Ecclesia in Officio SS . Innoc. Hymn. ad Matut.)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (8)

IL SEGNO DELLA CROCE (14)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (14 )

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA DECIMATERZA.

8 dicembre.

Effetti del segno della croce nell’ordine temporale. — Guarisce tutte le malattie ed allontana quanto può nuocerci. — Rende la vista a ciechi, l’udito ai sordi, la parola ai muti. L’uso delle membra agli zoppi, ed ai paralitici, guarisce le altre malattie e torna in vita i morti.

Povero nell’ordine spirituale l’uomo non l’è meno nell’ordine temporale: il suo corpo e l’anima non vivono che di accatto. Fra i beni necessarii al corpo ve n’hanno due, mio caro, che voglio ricordarti: la sanità, e la sicurezza. Il segno della croce ci procura con efficacia l’una e l’altra. – La sanità. Il Verbo eterno è la vita vivente e vivificante. L’evangelo parlandoci di lui quando viveva nel mezzo degli uomini ci dice una parola quanto semplice, altrettanto sublime: Una virtù emanava da Lui che guariva tutte le infermità; virtus de illo exibat et sanabat omnes. L’istoria c’insegna che questa parola può intendersi a cappello del segno della croce.  – Che i primi Cristiani si servissero del segno della croce a guarire le malattie, nulla v’ha di meglio dimostrato. San Cirillo e san Giovanni Crisostomo, uno patriarca di Gerusalemme e l’altro di Costantinopoli, affermano con ogni asseveranza, che il segno della croce continuava a guarire le infermità e i morsi delle bestie feroci al loro tempo, come all’epoca de’ loro maggiori (Hoc Signum ad hodiernum diem curat morbos. – Catech. XIII; S. Gris., hom. 54, in Math.).  Veniamo alle prove: Tutti i sensi dell’uomo sono soggetti a delle infermità. Cominciamo dal più nobile, la vista. Se invece d’impallidire di continuo su gli autori pagani i giovani leggessero gli atti de’ martiri, troverebbero in quelli di san Lorenzo il gran miracolo, che ancora celebra la Chiesa, qui per signum crucis cæcos illuminavit. L’illustre arcidiacono di Roma era entrato in una casa di un Cristiano, dove trovavasi il cieco Crescenzio. Questi distruggendosi in lagrime si gittò a’ suoi piedi dicendo: Mettete la vostra mano sugli occhi miei, perché io veda. Il beato Lorenzo profondamente commosso gli risponde: II nostro signore Gesù, che ha aperti gli occhi al cieco, ti doni la vista. E sì dicendo, fa il segno della croce su gli occhi di Crescenzio, che tosto vide la luce ed il beato Lorenzo (Vita del santo scritta da S. Oven vesc. di Raven, c. XXIX). – Il dotto Teodoreto ci racconta quanto segue della propria madre: « Mia madre aveva tale una infermità negli occhi, che inutilmente la medicina aveva posto in uso tutti i suoi mezzi contro di essa. Tutti i vecchi volumi ed autori interrogati, nessuno dava mezzo a guarirne. In tale stato noi eravamo, quando un’amica venne a vedere mia madre, e le parlò d’un certo santo uomo per nome Pietro, e contolle d’un miracolo da esso operato. Ella diceva: La moglie del Governatore d’Oriente era affetta dallo stesso male: si diresse a Pietro dimorante a Pergamo, « questi la guarì pregando per lei, e facendo sopra di essa il segno della croce. Mia madre non perde un istante; corre per l’uomo di Dio, si getta a’ suoi piedi e lo prega della guarigione. E questi a lei: Io non sono che un povero peccatore, io non ho punto presso Dio il potere che voi credete. Mia madre raddoppia le preghiere, e lagrimando protesta che non partirebbe se non guarita. Dio, riprese Pietro, è il medico di questi mali; Egli esaudisce quelli che credono. Desso vi esaudirà non per i miei meriti, ma per la vostra fede. Se questa è in voi vera, sincera, pura e senza esitazione, trasandate medici e medicine, ed accettate il rimedio che Dio vi offre. Sì dicendo, distese la mano su l’occhio, e fattovi il segno della croce il male disparve » ( Hæc cum dixisset, manum imposuit oculo, et salutane crucis signo facto, morbum expulit. – Hist. ss. Patr. in Petr.). De’ fatti men lontani da noi ti mostreranno che questo segno attraversando i secoli non ha mai cessato di essere il migliore degli oculisti. S. Eloi vescovo di Noyon, passando uno de’ ponti di Parigi, guarì un cieco, che a vece di chiedergli un soccorso, lo pregò che lo segnasse su gli occhi col segno della croce (Mabillon, Vita del santo, tom. 11). – Un simile miracolo leggesi nella vita di S. Frobert abate di un monastero presso Trojes nella Champagne. Era ancora fanciulletto, quando la madre cieca da più anni lo prese sulle sue ginocchia, e carezzatolo lo pregò di fare il segno della croce sopra i suoi occhi. Sulle prime il giovane santo si ricusò; ma, dietro le instanze materne, invocò il santo nome del Signore, fece il segno della croce richiesta, ed al momento la madre riebbe la vista.  – Il Mabillon nella vita di S. Bernardo cita oltre trenta ciechi di ogni età e condizione, che in Francia, Italia ed Alemagna furono guariti, alla presenza de’ re e de’ principi, col mezzo del segno della croce (Mabillon, ubi supra).- Dalla vista passiamo all’udito. Come N. S. il segno della croce rende l’udito ai sordi, e la loquela ai muti. Eccoci in Roma e nel palazzo del Prefetto: un giovane e brillante uffiziale è inanzi a noi, per nome Sebastiano. Questo nome illustre è ignoto ne’ collegi. Tu apprenderai ai tuoi compagni che S. Sebastiano comandava la prima coorte pretoriana al tempo di Diocleziano, che, alla moderna vuol dire, colonnello di un reggimento della guardia imperiale. Dotato di eloquenza pari al suo coraggio, egli usava i doni di Dio ad animare i martiri, che ogni giorno venivano tradotti al pretorio. In uno fra questi, Zoe femmina del prefetto ebbe la ventura di ascoltare uno di questi discorsi. Tuttavolta pagana, fu si commossa, che gittossi in ginocchio, e, comeché muta da poi sei anni, col gesto faceva intendere di voler essere cristiana. Fu intesa. Un segno di croce sulle labbra le diede la parola, di che, il primo uso che fece, fu in dimandare il battesimo (Atti di s. Seb.). – Tu dirai loro altresì, che con lo stesso mezzo l’immortale abate di Chiaravalle, san Bernardo, ha guarito un numero immenso di sordi e muti. A Cologna una giovinetta sorda e muta; a Bourlemont un fanciullo sordo e muto dalla natività; a Bile un sordo; a Metz un sordo al cospetto di una folla immensa; a Costanza, a Spira, a Maestricht de’ sordi e de’ muti; a Troyes una giovinetta zoppa e muta alla presenza de’ vescovi Geoffrai di Langres, e di Enrico di Troyes. In fine, a Chiaravalle un fanciullo sordo-muto, che attendeva da quindici giorni il suo ritorno. Mentre il Santo soggiornava a Spira, dove operava molte miracolose guarigioni, arrivò Anselmo vescovo di Havelsperg, cui una infermità di gola rendeva pressoché impossibile l’inghiottire ed il parlare. Voi dovreste guarirmi, disse questi a S. Bernardo. E S. Bernardo piacevolmente a lui: Se voi aveste la fede di queste buone femmine, io potrei, può essere, operar su di voi in pari modo. Se la mia fede non basta, riprese il Vescovo, mi guarisca la vostra. Allora il Santo lo toccò facendo su di lui il segno della croce, ed all’instante istesso l’enfiagione, ed il dolore sparirono (Ut signum sancte crucis expressit, confestim omnis vigor per membra diffunditur. – Vita cap. X).  – Il tatto è il senso sparso in tutto il corpo, epperò presenta agli attacchi delle infermità maggior presa. Come allontanare tutti i mali, gli uni più dolorosi degli altri, a cui è esposto? Per quanto numerosi siano, consola il pensiero che nessuno di essi sfugge alla potenza salutare del segno della croce, che, con la sua virtù, ricorda quella di colui, che guariva ogni maniera d’infermità ira gli uomini, omnem longuorem in populo. Uno de’ vescovi venuto in gran fama di santità, che abbia governato la diocesi di Parigi, è S. Germano. Questi conducevasi un giorno a render visita ad Ilario vescovo di Poitiers, suo degno collega. Sul suo passaggio due uomini gli presentarono, con pena, una donna muta e priva dell’uso delle gambe. Tosto che il Santo ebbe fatto il segno della croce sopra di essa, dessa ricuperò la favella e le gambe di modo, che dopo tre giorni si condusse a render grazie al suo benefattore (Mox multa eius membra cruce consignât, otille se sentit incolumis. Vit., lib. IV.). Un miracolo simile fu operato da S. Eutimio, il grande arcivescovo di Palestina. Terabone, figlio del governatore de’ Seraceni nell’Arabia, fin dalla fanciullezza avea perduto per paralisia la metà del corpo; com’ebbe inteso parlare della virtù del santo Abate, si fece condurre presso di lui in compagnia del padre e della madre, con numeroso seguito di barbari. Il Santo lo segnò con la croce, e tosto guari. Siffatta guarigione produsse la conversione de’ suoi genitori non solo, ma ancora de’ Saraceni compagni di viaggio, e spettatori del miracolo (Vit., lib. IV., c. 41, Vita, lib. II). – Gran tempo dopo questo miracolo, che aveva rallegrato l’Oriente, un simile fu operato da San Vincenzo Ferreri a Nantes in Francia, nella persona di un uomo paralitico da 18anni, che gli fu presentato perché lo benedicesse. Non ho oro, né argento, disse il Santo all’infermo, ma pregherò il Signore perché ti conceda la sanità dell’anima, e del corpo. Come ebbe detto tali parole fece il segno della croce sulle membra dell’infermo, il paralitico guarisce, si alza, e rende grazie a Dio ed al suo benefattore, torna a casa sua, senza più nulla risentire del passato malore! (Mabillon ubi supra, Lib. IV, c. 6, n. 33). – È tale alcuna volta la forza del dolore da far perdere il bene dell’intelletto e la sanità dell’anima a’ poveri figli di Adamo; ma il segno della croce spinge la sua forza in queste nuove trincee del male. Edmer, istoriografo di S. Anselmo Arcivescovo di Cantorberi racconta, che questo Santo andando a Cluni, guarì col segno della croce una femmina affetta di follia, e furiosa. S. Bernardo operò lo stesso a Sechigen, e a Cologna. In quest’ultima città gli fu presentata una femmina frenetica per la morte del marito, che usava delle sue esaltate forze contro sé stessa di modo, da doverle assicurare le braccia con catene. Il Santo ebbe pietà di lei; fece il segno della croce sopra di essa, e tosto tranquilla rivenne all’uso della ragione. – Il Verbo Redentore, che il Vangelo mostra, come il medico di febbri ostinate, ha comunicato al segno della croce la virtù di operare simile prodigio. S. Prix Vescovo di Clermont nell’Alvernia, essendo venuto nel Monastero di Dorange, vi trovò l’abate Amarin infermo di pessima febbre, di maniera, ch’eragli impossibile camminare e prendere cibo. Il santo Vescovo ricorse all’arma sua ordinaria e pagò il suo scotto con un miracolo, risanando col segno della croce siffattamente l’infermo, che andò perfettamente guarito della infermità sua (Cura vexillum crucis super ægrum fecisset, protinus, fugata febre, sanatus æger surrexit – Vite de’ SS. 25 Jan.). Dello stesso potere è dotato contro una malattia più difficile a guarire; l’epilessia. Nella vita di S. Malachia, Arcivescovo di Armagli, morto a Chiaravalle, S. Bernardo dice: « Innanzi partisse per Roma, dove si conduceva per ricevere il pallio da Eugenio III, il santo Arcivescovo guarì un epilettico col segno della croce». E S. Bernardo istesso operò simile prodigio nella persona di una giovinetta della Champagna a Troyes (Signavit eam statimque locuta est: Mabillon, ubi supra, c. XIV, n . 47).  – Secondo l’esempio da me datovi, guarite i lebbrosi, avea detto N. S. I Discepoli raccolsero questa parola, la cui virtù divina è passata nel segno della croce. La fama  di Francesco Saverio era sparsa in tutte le Indie, e dessa faceva accorrere presso il Santo i lebbrosi da tutti i luoghi, per ottenere la guarigione tante volte inutilmente sperata. Uno fra questi, non osando di comparire in pubblico, pregò il Santo di condursi presso di lui. Il Saverio non potè soddisfarlo, ed in sua vece commise ad un compagno una tal visita, dicendogli di domandare per tre volte all’infermo se crederebbe al Vangelo, ove venisse guarito, e che dopo tale promessa lo segnasse per tre volte col segno della croce. Tutto fu eseguito come il Santo avea detto, ed il lebbroso guarì (Vita, lib. V).- Innanzi procedere più oltre, credo esser mestieri, mio caro, il ricordarti una osservazione di S. Giovanni Crisostomo, da aver presente ragionando dell’azione del segno della croce, sia nella guarigione delle malattie, che per l’allontanamento de’ tristi accidenti. Se alcuna volta i mali non sono guariti e le calamità allontanate, tutta volta il segno della croce convenevolmente sia eseguito, non è difetto di potere del segno, ma perché questi mali ci sono utili pruove (Morbis iuiperans terribile est hoc nomen, et si non abigerit morbum, non hinc est quod infirmum sit hoc nomen, sed quod utilis est morbus. Ad Coloss. II, homil IX.). – V’ha una infermità non meno crudele della lebbra, ma più comune: il canchero. Ma questa come tutte le altre infermità umane non resiste alla potente azione della croce. Ascolta quanto narra S. Agostino testimone oculare. « A Cartagine una nobilissima donna per nome Innocenza aveva nel petto un canchero stimato da’ medici incurabile. Il medico nulla le avea nascosto del suo stato, ed Innocenza, posta in Dio ogni sua fiducia, da lui solo attendeva la guarigione. Una notte, verso la Pasqua, è avvertita in sogno di condursi al battistero nel luogo delle donne, e di far fare dalla prima catecumena che trovasse, il segno della croce sul membro infermo, ubbidisce, ed è guarita. Il medico meravigliato trovandola risanata, volle saperne il come. La donna tutto gli narrò. Il medico con grande indifferenza, il che facea temere alla donna dicesse qualche parola contro N. S., disse: Io mi attendeva qualche cosa straordinaria. E vedendola inquieta, soggiunse: Che v’ha di meraviglioso che Gesù Cristo abbia guarito un canchero; Egli che ha dato la vita ad un morto dopo quattro intieri giorni! (Quid grande fuit Christus sanare cancrum, qui quatriduanum mortuum suscitavit. Ang.de Civ. Dei, lib. XXII, c. 8.). A tutte queste infermità naturali spesso si congiungono gli attacchi delle bestie feroci e velenose, per togliere all’uomo la sanità e la vita. Contro esse gran rimedio è il segno della croce. Il santo anacoreta Tolasce, scrive Teodoreto, viaggiando fra le tenebre della notte, calpestò una vipera. Il rettile furioso lo morde nella pianta del piede. Il Santo s’inclina, porta la destra sulla ferita, e la vipera gliela morde, come altresì la sinistra accorsa al soccorso della destra. La bestia di tutto ciò non contenta, lo addentò per circa dieci volte, e poi si cacciò nella sua tana, lasciando la vittima in preda ad intollerabili dolori. In siffatto stato il servo di Dio crede non dover far ricorso a medicine. Per guarire le ferite si contentò impiegare i mezzi della fede: il segno della croce, la preghiera, e l’invocazione del santo nome di Dio (Theodoret. in Thalass.).  – Padrone della vita, N. S. , lo è ancora della morte. Questo impero sovrano si trova nel segno della croce. Ecco quanto leggesi nella vita di S. Domenico. Predicava il Santo in Roma: una dama, per nome Guttadona, devotissima di lui, per assistere al suo sermone, avea lasciato a casa un figlio infermo, al suo ritorno lo trovò morto. Senza dar sfogo al materno dolore, assembra le sue donne e porta il fanciullo a S. Domenico. Lo incontra alla porta del convento di S. Sisto, depone il morto a’ suoi piedi, e disfacendosi in lagrime, gliene dimanda la vita. Il Santo commosso s’inginocchia, e dopo breve preghiera fa il segno della croce, prende il fanciullo per la mano e lo rende in vita alla madre pregandola di profondo segreto.. Ma che! la buona donna nell’eccesso della gioia pubblicò l’avvenuto miracolo in tutta Roma (Vita di S. Dom., lib. II, c. 3).   Tu il vedi chiaro, mio caro Federico, io mi son contentato di citare uno o due fatti per ciascuna malattia, che se tutti rapportar si volessero, molti volumi non potrebbero neppure contenerli. S. Agostino, S. Griso-stomo, S. Cirillo, S. Efrem, S. Gregorio Nisseno, S. Paolino e cento altri testimoni dell’Oriente e dell’Occidente di tutti i secoli mostrano, con migliaio di fatti, che il segno adorabile di Colui, ch’è venuto per guarire ogni infermità, non ha mai cessato dal rendere la vista a’ ciechi, l’udito ai sordi, la parola ai muti, la sanità agl’infermi e la vita a’ morti.  Ecco l’istoria. È mestieri accettarla come è, o farne in pezzi le pagine e cader nello scetticismo: o farne un’altra più sapiente, più coscienziosa e veridica. Dimanda a’ tuoi compagni se hanno polsi da ciò, e quando dessa sarà compilata, noi vedremo. A domani.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. PIO XII – “SUMMI PONTIFICATO” (2)

Continua lo svolgersi maestoso e stupendo di questa prima Enciclica di Papa Pacelli in un serrare denso di contenuti e ricco di spunti per meditazioni spirituali. Tra gli altri ammonimenti ce n’è uno che risuona oggi di particolare importanza « … non meno dannoso al benessere delle nazioni e alla prosperità della grande società umana, che raccoglie e abbraccia entro i suoi confini tutte le genti, si dimostra l’errore contenuto in quelle concezioni, le quali non dubitano di sciogliere l’autorità civile da qualsiasi dipendenza dall’Ente supremo, causa prima e Signore assoluto sia dell’uomo che della società, e da ogni legame di legge trascendente, che da Dio deriva come da fonte primaria, e le concedono una facoltà illimitata di azione, abbandonata all’onda mutevole dell’arbitrio o ai soli dettami di esigenze storiche contingenti e di interessi relativi… » – Sciogliere l’autorità civile da qualsiasi dipendenza all’Ente supremo: ecco l’origine di ogni male sociale e politico così diffusi oggi nel mondo ateo e neopagano, truccato maldestramente da una maschera di falso Cristianesimo stantio ed ipocrita, intriso di massonismo liberista che incatena asservendoli ad un mondialismo luciferino, popoli e Nazioni incapaci per questo di uscire da una serie infinita di crisi insanabili, politiche, sociali, economiche, ambientali, filosofofico-ideologiche, ed ora pure sanitarie. Ma il Santo Padre, lungi dal perdere la fiducia cieca nell’azione salvifica divina, ci incoraggia con ardore … « … Chi vive dello spirito di Cristo non si lascia abbattere dalle difficoltà che si oppongono, anzi si sente spinto a lavorare con tutte le sue forze e con piena fiducia in Dio; non si sottrae alle strettezze e necessità dell’ora, ma ne affronta le durezze pronto al soccorso, con quell’amore che non rifugge dal sacrificio, è più forte della morte, e non si lascia spegnere dalle impetuose acque della tribolazione… » Parole che danno forza e coraggio soprattutto quando poi si accoppiano al ricorso alla preghiera ed ai mezzi della grazia … «All’ombra delle tue ali mi rifugio, finché passi la calamità» (Sal LVI, 2)… « Dio può tutto: al pari della felicità e delle sorti dei popoli, tiene nelle sue mani anche gli umani consigli e, in qualsiasi parte Egli voglia, dolcemente li inclina: anche gli ostacoli per la sua onnipotenza sono mezzi a plasmare le cose e gli eventi e a volgere le menti e i liberi voleri ai suoi altissimi fini. – Pregate, quindi, venerabili fratelli, pregate senza interruzione, pregate, soprattutto, quando offrite il divino Sacrificio d’amore …» Rifugiamoci dunque, pusillus grex, sotto le ali di Dio non come pulcini impauriti ma come aquilotti pronti ad affrontare ogni lotta che il maligno ci muove mediante le frecce che provengono da ogni lato, specie da dove meno le attenderemmo, cioè dalla falsa chiesa satanista vaticana, dai filantropi ed imbonitori delle logge e dei parlamenti, dagli ipocriti pseudocristiani che come “fuoco amico” ci colpiscono alle spalle.

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

SUMMI PONTIFICATUS (2)

PROGRAMMA DEL PONTIFICATO

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Venerabili fratelli, se la dimenticanza della legge di carità universale, che sola può consolidare la pace, spegnendo gli odi e attenuando i rancori e i contrasti, è fonte di gravissimi mali per la convivenza pacifica dei popoli, non meno dannoso al benessere delle nazioni e alla prosperità della grande società umana, che raccoglie e abbraccia entro i suoi confini tutte le genti, si dimostra l’errore contenuto in quelle concezioni, le quali non dubitano di sciogliere l’autorità civile da qualsiasi dipendenza dall’Ente supremo, causa prima e Signore assoluto sia dell’uomo che della società, e da ogni legame di legge trascendente, che da Dio deriva come da fonte primaria, e le concedono una facoltà illimitata di azione, abbandonata all’onda mutevole dell’arbitrio o ai soli dettami di esigenze storiche contingenti e di interessi relativi. – Rinnegata, in tal modo, l’autorità di Dio e l’impero della sua legge, il potere civile, per conseguenza ineluttabile, tende ad attribuirsi quell’assoluta autonomia, che solo compete al Supremo Fattore, e a sostituirsi all’Onnipotente, elevando lo stato o la collettività a fine ultimo della vita, a criterio sommo dell’ordine morale e giuridico, e interdicendo, perciò, ogni appello ai princìpi della ragione naturale e della coscienza cristiana. – Non disconosciamo, invero, che princìpi errati, fortunatamente, non sempre esercitano intero il loro influsso, principalmente quando le tradizioni cristiane, più volte secolari, di cui si sono nutriti i popoli, rimangono ancora profondamente, anche se inconsciamente, radicate nei cuori. Tuttavia, non bisogna dimenticare l’essenziale insufficienza e fragilità di ogni norma di vita sociale che riposi su un fondamento esclusivamente umano, s’ispiri a motivi esclusivamente terreni e riponga la sua forza nella sanzione di un’autorità semplicemente esterna. – Dove è negata la dipendenza del diritto umano dal diritto divino, dove non si fa appello che ad una malsicura idea di autorità meramente terrena e si rivendica un’autonomia fondata soltanto sopra una morale utilitaria, qui lo stesso diritto umano perde giustamente nelle sue applicazioni più gravose la forza morale, che è la condizione essenziale per essere riconosciuto e per esigere anche sacrifici. – È ben vero che il potere basato sopra fondamenti così deboli e vacillanti può raggiungere talvolta, per circostanze contingenti, successi materiali da destar meraviglia ad osservatori meno profondi; ma viene il momento, nel quale trionfa l’ineluttabile legge che colpisce tutto quanto è stato costruito sopra una latente o aperta sproporzione tra la grandezza del successo materiale ed esterno e la debolezza del valore interno e del suo fondamento morale. Sproporzione che sussiste sempre, quando la pubblica autorità misconosce o rinnega il dominio del sommo Legislatore, il quale se ha dato la potestà ai reggitori, ne ha per altro segnato e determinato i limiti. La sovranità civile è stata voluta dal Creatore, come sapientemente insegna il Nostro grande predecessore Leone XIII nell’enciclica Immortale Dei, affinché regolasse la vita sociale secondo le prescrizioni di un ordine immutabile nei suoi princìpi universali, rendesse più agevole alla persona umana, nell’ordine temporale, il conseguimento della perfezione fisica, intellettuale e morale e l’aiutasse a raggiungere il fine soprannaturale. È quindi nobile prerogativa e missione dello stato il controllare, aiutare e ordinare le attività private e individuali della vita nazionale, per farle convergere armonicamente al bene comune, il quale non può essere determinato da concezioni arbitrarie, né ricevere la sua norma primariamente dalla prosperità materiale della società, ma piuttosto dallo sviluppo armonico e dalla perfezione naturale dell’uomo al quale la società è destinata, quale mezzo, dal Creatore. – Considerare lo stato come fine, al quale ogni cosa dovrebbe essere subordinata e indirizzata, non potrebbe che nuocere alla vera e durevole prosperità delle nazioni. E ciò avviene, sia che tale dominio illimitato venga attribuito allo stato, quale mandatario della nazione, del popolo, o anche di una classe sociale, sia che venga preteso dallo stato, quale padrone assoluto, indipendente da qualsiasi mandato. Se lo Stato infatti a sé attribuisce e ordina le iniziative private, queste, governate come sono da delicate e complesse norme interne, che garantiscono e assicurano il conseguimento dello scopo ad esse proprio, possono essere danneggiate, con svantaggio del pubblico bene, venendo avulse dall’ambiente loro naturale, cioè dalla responsabile attività privata. – Anche la prima ed essenziale cellula della società, la famiglia, come il suo benessere e il suo accrescimento, correrebbe allora il pericolo di venir considerata esclusivamente sotto l’angolo della potenza nazionale e si dimenticherebbe che l’uomo e la famiglia sono per natura anteriori allo Stato, e che il Creatore diede ad entrambi forze e diritti e assegnò una missione, rispondente a indubbie esigenze naturali. – L’educazione delle nuove generazioni non mirerebbe a un equilibrato armonico sviluppo delle forze fisiche e di tutte le qualità intellettuali e morali, ma ad una unilaterale formazione di quelle virtù civiche, che si considerano necessarie al conseguimento di successi politici; quelle virtù invece, che dànno alla società un profumo di nobiltà, d’umanità e di rispetto, meno s’inculcherebbero, quasi deprimessero la fierezza del cittadino. Davanti al nostro sguardo si profilano con dolorosa chiarezza i pericoli che temiamo potranno derivare a questa generazione e alle future dal misconoscimento, dalla diminuzione e dalla progressiva abolizione dei diritti della famiglia. Perciò Ci eleviamo a fermi difensori di tali diritti in piena coscienza del dovere che Ci impone il Nostro apostolico ministero. Le angustie dei nostri tempi, sia esterne che interne, sia materiali che spirituali, i molteplici errori con le loro innumerevoli ripercussioni da nessuno vengono assaporati così amaramente come nella piccola nobile cellula familiare. Un vero coraggio e, nella sua semplicità, un eroismo degno di ammirato rispetto sono spesso necessari per sopportare le durezze della vita, il peso quotidiano delle miserie, le crescenti indigenze e le ristrettezze in una misura mai prima sperimentata, di cui spesso non si vede né la ragione né la reale necessità. Chi ha cura d’anime, chi può indagare nei cuori, conosce le nascoste lacrime delle madri, il rassegnato dolore di numerosi padri, le innumerevoli amarezze, delle quali nessuna statistica parla né può parlare; vede con sguardo preoccupato crescere sempre più il cumulo di queste sofferenze e sa che le potenze dello sconvolgimento e della distruzione stanno al varco, pronte a servirsene per i loro tenebrosi disegni. – Nessuno, che abbia buona volontà e occhi aperti, potrà rifiutare nelle condizioni straordinarie, in cui si trova il mondo, al potere dello Stato un corrispondente più ampio diritto eccezionale per sovvenire ai bisogni del popolo. Ma l’ordine morale, stabilito da Dio, esige, anche in tali contingenze, che s’indaghi tanto più seriamente e acutamente sulla liceità di tali provvedimenti e sulla loro reale necessità, secondo le norme del bene comune. – Ad ogni modo, quanto più gravosi sono i sacrifici materiali richiesti dallo stato agli individui e alle famiglie, tanto più sacri e inviolabili devono essergli i diritti delle coscienze. Può pretendere beni e sangue, ma non mai l’anima da Dio redenta. La missione assegnata da Dio ai genitori, di provvedere al bene materiale e spirituale della prole e di procurare ad essa una formazione armonica pervasa da vero spirito religioso, non può esser loro strappata senza grave lesione del diritto. Questa formazione deve certamente aver anche lo scopo di preparare la gioventù ad adempiere con intelligenza, coscienza e fierezza quei doveri di nobile patriottismo, che dà alla patria terrestre tutta la dovuta misura di amore, dedizione e collaborazione. Ma d’altra parte una formazione che dimentichi, o peggio, volutamente trascuri di dirigere gli occhi e il cuore della gioventù alla patria soprannaturale, sarebbe un’ingiustizia contro gli inalienabili doveri e diritti della famiglia cristiana, uno sconfinamento, a cui deve essere opposto un rimedio anche nell’interesse del bene del popolo e dello stato. Una simile educazione potrà forse sembrare a coloro, che ne portano la responsabilità, fonte di aumentata forza e vigoria; in realtà sarebbe il contrario, e le tristi conseguenze lo proverebbero. Il delitto di lesa maestà contro «il Re dei re e il Signore dei dominanti» (1 Tm VI, 15; Ap XIX,16), perpetrato da un’educazione indifferente o avversa allo spirito cristiano, il capovolgimento del «lasciate che i pargoli vengano a me» (Mc X, 14) porterebbero amarissimi frutti. Lo stato invece, che toglie ai sanguinanti e lacerati cuori dei padri e delle madri cristiane le loro preoccupazioni e ristabilisce i loro diritti, promuove la sua stessa pace interna e pone il fondamento per un più felice avvenire della patria. Le anime dei figli, donati da Dio ai genitori, consacrati nel battesimo con il sigillo regale di Cristo, sono un sacro deposito, su cui vigila l’amore geloso di Dio. Lo stesso Cristo, che ha pronunziato il «lasciate che i pargoli vengano a me», ha anche minacciato, nonostante la sua misericordia e bontà, terribili mali a coloro che dànno scandalo ai prediletti del suo cuore. E quale scandalo più dannoso alle generazioni e più duraturo di una formazione della gioventù mal diretta verso una méta, che allontana da Cristo, «via, verità e vita», e conduce ad un’apostasia manifesta o occulta da Cristo? Questo Cristo, da cui si vogliono alienare le giovani generazioni presenti e future, è quello stesso che dall’Eterno Padre ha ricevuto ogni potere in cielo e in terra. Egli tiene nella sua mano onnipotente il destino degli Stati, dei popoli e delle Nazioni. Appartiene a lui il diminuire o prolungare la vita, l’accrescimento, la prosperità e la grandezza. Di tutto ciò che è sulla terra, solo l’anima vive immortale. Un sistema di educazione che non rispettasse il recinto sacro della famiglia cristiana, protetto dalla santa legge di Dio, ne attaccasse le basi, chiudesse alla gioventù il cammino a Cristo, alle fonti di vita e di gioia del Salvatore (cf. Is XII, 3), considerasse l’apostasia da Cristo e dalla Chiesa come simbolo di fedeltà al popolo o a una determinata classe, pronuncerebbe contro se stesso la condanna e sperimenterebbe a suo tempo l’ineluttabile verità delle parole del profeta: «Coloro che si ritirano da te, saranno scritti in terra» (Ger XVII,13).

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La concezione che assegna allo Stato un’autorità illimitata non è, venerabili fratelli, soltanto un errore pernicioso alla vita interna delle nazioni, alla loro prosperità e al maggiore e ordinato incremento del loro benessere, ma arreca altresì nocumento alle relazioni fra i popoli, perché rompe l’unità della società soprannazionale, toglie fondamento e valore al diritto delle genti, apre la via alla violazione dei diritti altrui e rende difficili l’intesa e la convivenza pacifiche. Infatti il genere umano, quantunque per disposizione dell’ordine naturale stabilito da Dio si divida in gruppi sociali, nazioni o Stati, indipendenti gli uni dagli altri, in quanto riguarda il modo di organizzare e di dirigere la loro vita interna, è tuttavia legato, da mutui vincoli morali e giuridici, in una grande comunità, ordinata al bene di tutte le genti e regolata da leggi speciali, che ne tutelano l’unità e ne promuovono la prosperità. – Ora non è chi non veda come l’affermata autonomia assoluta dello stato si ponga in aperto contrasto con questa legge immanente e naturale, la neghi anzi radicalmente, lasciando in balìa della volontà dei reggitori la stabilità delle relazioni internazionali, e togliendo la possibilità di una vera unione e di una collaborazione feconda in ordine all’interesse generale. Perché, venerabili fratelli, all’esistenza di contatti armonici e duraturi e di relazioni fruttuose è indispensabile che i popoli riconoscano e osservino quei princìpi di diritto naturale internazionale, che regolano il loro normale svolgimento e funzionamento. Tali princìpi esigono il rispetto dei relativi diritti all’indipendenza, alla vita e alla possibilità di uno svolgimento progressivo nelle vie della civiltà; esigono, inoltre, la fedeltà ai patti, stipulati e sanciti in conformità alle norme del diritto delle genti. – Il presupposto indispensabile di ogni pacifica convivenza tra le leggi e l’anima delle relazioni giuridiche, vigenti fra di esse, è senza dubbio la mutua fiducia, la previsione e persuasione della reciproca fedeltà alla parola data, la certezza che dall’una e dall’altra parte si è convinti che «meglio è la sapienza che le armi guerresche» (cf. Eccle IX, 18) e si è disposti a discutere e a non ricorrere alla forza o alla minaccia della forza nel caso in cui sorgessero ritardi, impedimenti, mutamenti e contestazioni: cose tutte che possono anche derivare non da cattiva volontà, ma da mutate circostanze e da reali interessi contrastanti. – Ma d’altra parte, staccare il diritto delle genti dall’àncora del diritto divino, per fondarlo sulla volontà autonoma degli stati, significa detronizzare quello stesso diritto e togliergli i titoli più nobili e più validi, abbandonandolo all’infausta dinamica dell’interesse privato e dell’egoismo collettivo tutto intento a far valere i propri diritti e a disconoscere quelli degli altri. È pur vero che, col volgere del tempo e il mutar sostanziale delle circostanze, non previste e forse neanche prevedibili all’atto della stipulazione, un trattato o alcune sue clausole possono divenire o apparire ingiusti o inattuabili o troppo gravosi per una delle parti, ed è chiaro che, quando ciò avvenisse, si dovrebbe tempestivamente procedere a una leale discussione per modificare o sostituire il patto. Ma il considerare i patti per principio come effimeri e l’attribuirsi tacitamente la facoltà di rescinderli unilateralmente, quando più non convenissero, toglierebbe ogni fiducia reciproca fra gli stati. E così rimarrebbe scardinato l’ordine naturale, e verrebbero scavate delle fosse incolmabili di separazione fra i vari popoli e Nazioni. – Oggi, venerabili fratelli, tutti osservano con spavento l’abisso a cui hanno portato gli errori da Noi caratterizzati e le loro pratiche conseguenze. Son cadute le orgogliose illusioni di un progresso indefinito; e chi ancora non fosse desto, il tragico presente lo scuoterebbe con le parole del profetar «Ascoltate, o sordi, e rimirate, o ciechi» (Is XLII, 18). Ciò che appariva esternamente ordine, non era se non invadente perturbamento: scompiglio nelle norme di vita morale, le quali si erano staccate dalla maestà della legge divina e avevano inquinato tutti i campi dell’umana attività. Ma lasciamo il passato e rivolgiamo gli occhi verso quell’avvenire che, secondo le promesse dei potenti di questo mondo, cessati i sanguinosi scontri odierni, consisterà in un nuovo ordinamento, fondato sulla giustizia e sulla prosperità. Sarà tale avvenire veramente diverso, sarà soprattutto migliore? I trattati di pace, il nuovo ordine internazionale alla fine di questa guerra saranno animati da giustizia e da equità verso tutti, da quello spirito, il quale libera e pacifica, o saranno una lamentevole ripetizione di antichi e recenti errori? Sperare un decisivo mutamento esclusivamente dallo scontro guerresco e dal suo sbocco finale è vano, e l’esperienza ce lo dimostra. L’ora della vittoria è un’ora dell’esterno trionfo per la parte che riesce a conseguirla; ma è in pari tempo l’ora della tentazione, in cui l’Angelo della giustizia lotta con il dèmone della violenza; il cuore del vincitore troppo facilmente s’indurisce; la moderazione e una lungimirante saggezza gli appaiono debolezza; il bollore delle passioni popolari, attizzato dai sacrifici e dalle sofferenze sopportate, vela spesso l’occhio anche ai responsabili e fa sì che non badino alla voce ammonitrice dell’umanità e dell’equità, sopraffatta o spenta dall’inumano «Guai ai vinti!». Le risoluzioni e le decisioni nate in tali condizioni rischierebbero di non essere che ingiustizia sotto il manto della giustizia. – No, venerabili fratelli, la salvezza non viene ai popoli dai mezzi esterni, dalla spada, che può imporre condizioni di pace, ma non crea la pace. Le energie, che devono rinnovare la faccia della terra, devono procedere dall’interno, dallo spirito. Il nuovo ordine del mondo, la vita nazionale e internazionale, una volta cessate le amarezze e le crudeli lotte presenti, non dovrà più riposare sulla infida sabbia di norme mutabili ed effimere, lasciate all’arbitrio dell’egoismo collettivo e individuale. Esse devono piuttosto appoggiarsi sull’inconcusso fondamento, sulla roccia incrollabile del diritto naturale e della divina rivelazione. Ivi il legislatore umano deve attingere quello spirito di equilibrio, quell’acuto senso di responsabilità morale, senza cui è facile misconoscere i limiti tra il legittimo uso e l’abuso del potere. Solamente così le sue decisioni avranno interna consistenza, nobile dignità e sanzione religiosa, e non saranno alla mercé dell’egoismo e della passione. Se è vero che i mali di cui soffre l’umanità odierna provengono in parte dallo squilibrio economico e dalla lotta degli interessi per una più equa distribuzione dei beni che Dio ha concessa all’uomo come mezzi per il suo sostentamento e il suo progresso, non è men vero che la loro radice è più profonda e interna, poiché tocca le credenze religiose e le convinzioni morali pervertitesi con il progressivo distaccarsi dei popoli dall’unità di dottrina e di fede, di costumi e di morale, una volta promossa dall’opera indefessa e benefica della chiesa. La rieducazione dell’umanità, se vuole sortire qualche effetto, deve essere soprattutto spirituale e religiosa: deve, quindi, muovere da Cristo come da suo fondamento indispensabile, essere attuata dalla giustizia e coronata dalla carità. – Compiere quest’opera di rigenerazione, adattando i suoi mezzi alle mutate condizioni dei tempi e ai nuovi bisogni del genere umano, è ufficio essenziale e materno della chiesa. La predicazione dell’evangelo, affidatale dal suo divino Fondatore, nella quale vengono inculcate agli uomini la verità, la giustizia e la carità, e lo sforzo di radicarne saldamente i precetti negli animi e nelle coscienze, sono il più nobile e più fruttuoso lavoro in favore della pace. Questa missione, nella sua grandiosità, sembrerebbe dover scoraggiare i cuori di coloro che formano la Chiesa militante. Ma l’adoprarsi alla diffusione del regno di Dio, che ogni secolo compì in vari modi, con diversi mezzi, con molteplici e dure lotte, è un comando a cui è obbligato chiunque sia stato strappato dalla grazia del Signore alla schiavitù di satana e chiamato nel Battesimo ad essere cittadino di quel regno. E se appartenere ad esso, vivere conforme al suo spirito, lavorare al suo incremento e rendere accessibili i suoi beni anche a quella parte dell’umanità che ancora non ne fa parte, ai giorni nostri equivale a dover affrontare impedimenti e opposizioni vaste, profonde e minuziosamente organizzate, come mai prima, ciò non dispensa dalla franca e coraggiosa professione di fede, ma incita piuttosto a tener fermo nella lotta, anche a prezzo dei massimi sacrifici. Chi vive dello spirito di Cristo non si lascia abbattere dalle difficoltà che si oppongono, anzi si sente spinto a lavorare con tutte le sue forze e con piena fiducia in Dio; non si sottrae alle strettezze e necessità dell’ora, ma ne affronta le durezze pronto al soccorso, con quell’amore che non rifugge dal sacrificio, è più forte della morte, e non si lascia spegnere dalle impetuose acque della tribolazione. – Un intimo conforto, una gioia celeste, per cui giornalmente rivolgiamo a Dio il Nostro ringraziamento umile e profondo, Ci dà, venerabili fratelli, l’osservare in tutte le regioni del mondo cattolico evidenti segni di uno spirito che coraggiosamente affronta i compiti giganteschi dell’epoca presente, che con generosità e decisione è teso a riunire in feconda armonia con il primo ed essenziale dovere della santificazione propria anche l’attività apostolica per l’accrescimento del regno di Dio. Dal movimento dei congressi eucaristici, promossi con amorosa cura dai Nostri predecessori, e dalla collaborazione dei laici, formati nell’Azione Cattolica alla profonda coscienza della loro nobile missione, promanano fonti di grazia e riserve di forze, che, nei tempi attuali, in cui aumentano le minacce, maggiori sono i bisogni e arde la lotta tra cristianesimo e anticristianesimo, difficilmente potrebbero essere adeguatamente stimate. – Quando si deve con tristezza osservare la sproporzione tra il numero e i compiti dei sacerdoti, quando vediamo verificarsi anche oggi la parola del Salvatore: «La messe è molta, gli operai sono pochi» (Mt IX, 37; Lc X, 2), la collaborazione dei laici all’apostolato gerarchico, numerosa, animata da ardente zelo e generosa dedizione, appare un prezioso ausilio all’opera dei sacerdoti e mostra possibilità di sviluppo che legittimano le più belle speranze. La preghiera della chiesa al Signore della messe, perché mandi operai nella sua vigna (cf. Mt IX, 38; Lc X, 2) è stata esaudita in maniera conforme alle necessità dell’ora presente, e felicemente supplisce e completa le energie, spesso impedite e insufficienti, dell’apostolato sacerdotale. Una fervida falange di uomini e di donne di giovani e di giovinette, ubbidendo alla voce del sommo pastore, alle direttive dei loro vescovi, si consacra con tutto l’ardore dell’anima alle opere dell’apostolato, per ricondurre a Cristo le masse di popolo che da lui s’erano distaccate. Ad essi vada in questo momento, così importante per la chiesa e l’umanità, il Nostro saluto paterno, il Nostro commosso ringraziamento, la Nostra fiduciosa speranza. Essi hanno veramente posto la loro vita e la loro opera sotto il vessillo di Cristo re, e possono ripetere con il Salmista: «Al re io espongo le opere mie» (Sal XLIV, 1). «Venga il tuo regno» è non solamente il voto ardente delle loro preghiere, ma anche la direttiva del loro operare. In tutte le classi, in tutte le categorie, in tutti i gruppi questa collaborazione del laicato con il sacerdozio rivela preziose energie, a cui è affidata una missione che cuori nobili e fedeli non potrebbero desiderare più alta e consolante. Questo lavoro apostolico, compiuto secondo lo spirito della chiesa, consacra il laico quasi a «ministro di Cristo» in quel senso che sant’Agostino così spiega: «O fratelli, quando udite il Signore che dice: “Dove sono io, ivi sarà pure il mio ministro”, non vogliate correre col pensiero soltanto ai buoni vescovi e ai buoni chierici. Anche voi, a modo vostro, dovete essere ministri di Cristo, vivendo bene, facendo elemosine, predicando il suo nome e la sua dottrina a chi potrete, di modo che ognuno, anche se padre di famiglia, riconosca di dovere, anche per tale titolo, alla sua famiglia un affetto paterno. Per Cristo e per la vita eterna ammonisca i suoi, li istruisca, li esorti, li rimproveri, loro dimostri benevolenza, li contenga nell’ordine; così egli eserciterà in casa sua l’ufficio di chierico e in certo qual modo di vescovo, servendo a Cristo, per essere con lui in eterno». – Nel promuovere questa collaborazione dei laici all’apostolato, così importante ai tempi nostri, spetta una speciale missione alla famiglia, perché lo spirito della famiglia influisce essenzialmente sullo spirito delle giovani generazioni. Fino a che nel focolare domestico splende la sacra fiamma della fede in Cristo e i genitori foggiano e plasmano la vita dei figli conforme a questa fede, la gioventù sarà sempre pronta a riconoscere nelle sue prerogative regali il Redentore, e ad opporsi a chi lo vuole bandire dalla società o ne vìola sacrilegamente i diritti. Quando le chiese vengono chiuse, quando si toglie dalle scuole l’immagine del Crocifisso, la famiglia resta il rifugio provvidenziale e, in un certo senso, inattaccabile della vita cristiana. E rendiamo infinite grazie a Dio nel vedere che innumerevoli famiglie compiono questa loro missione con una fedeltà, che non si lascia abbattere né da attacchi né da sacrifici. Una potente schiera di giovani e di giovinette, anche in quelle regioni dove la fede in Cristo significa sofferenza e persecuzione, restano fermi presso il trono del Redentore con quella tranquillità e sicura decisione, che Ci fa ricordare i tempi più gloriosi delle lotte della chiesa. Quali torrenti di beni si riverserebbero sul mondo, quanta luce, quanto ordine, quanta pacificazione verrebbero alla vita sociale, quante energie insostituibili e preziose potrebbero contribuire a promuovere il bene dell’umanità, se si concedesse ovunque alla chiesa, maestra di giustizia e di amore, quella possibilità di azione, alla quale ha un diritto sacro e incontrovertibile in forza del mandato divino! Quante sciagure potrebbero venir evitate, quanta felicità e tranquillità sarebbero create, se gli sforzi sociali e internazionali per stabilire la pace si lasciassero permeare dai profondi impulsi dell’evangelo dell’amore nella lotta contro l’egoismo individuale e collettivo! – Tra le leggi che regolano la vita dei fedeli Cristiani e i postulati di una genuina umanità non vi è contrasto, ma comunanza e mutuo appoggio. Nell’interesse dell’umanità sofferente e profondamente scossa materialmente e spiritualmente, Noi non abbiamo desiderio più ardente di questo: che le angustie presenti aprano gli occhi a molti, affinché considerino nella loro vera luce il Signore Gesù Cristo e la missione della sua chiesa su questa terra, e che tutti coloro i quali esercitano il potere si risolvano a lasciare alla chiesa libero il cammino per lavorare alla formazione delle generazioni, secondo i princìpi della giustizia e della pace. Questo lavoro pacificatore suppone che non si frappongano impedimenti all’esercizio della missione affidata da Dio alla sua chiesa, non si restringa il campo della sua attività e non si sottraggano le masse, e specialmente la gioventù, al suo benefico influsso. Perciò Noi, come rappresentanti sulla terra di colui, che fu detto dal profeta «Principe della pace» (Is IX, 6), facciamo appello ai reggitori dei popoli e a coloro che hanno in qualsiasi modo influenza nella cosa pubblica, affinché la chiesa goda sempre piena libertà di compiere la sua opera educatrice, annunziando alle menti la verità, inculcando la giustizia, e riscaldando i cuori con la divina carità di Cristo. – Se la Chiesa, da una parte, non può rinunziare all’esercizio di questa sua missione, che ha come fine ultimo di attuare quaggiù il disegno divino di «instaurare tutte le cose in Cristo, sia le celesti sia le terrestri» (Ef 1,10), dall’altra, oggi la sua opera si dimostra più che in ogni altro tempo necessaria, giacché una triste esperienza insegna che i soli mezzi esterni e i provvedimenti umani e gli espedienti politici non portano un efficace lenimento ai mali, dai quali l’umanità è travagliata. – Edotti appunto dal fallimento doloroso degli espedienti umani per allontanare le tempeste che minacciano di travolgere la civiltà nel loro turbine, molti rivolgono con rinnovata speranza lo sguardo alla chiesa, rocca di verità e di amore, a questa cattedra di Pietro, donde sentono che può essere ridonata al genere umano quell’unità di dottrina religiosa e di codice morale, che in altri tempi diede consistenza alle relazioni pacifiche tra i popoli. Unità, a cui guardano con occhio di nostalgico rimpianto tanti uomini responsabili delle sorti delle nazioni, i quali esperimentano giornalmente quanto siano vani i mezzi, nei quali un giorno avevano posto fiducia; unità, che è il desiderio delle schiere tanto numerose dei Nostri figli, i quali invocano quotidianamente «il Dio di pace e di amore» (cf. 2 Cor XIII, 11); unità, che è l’attesa di tanti nobili spiriti, da Noi lontani, i quali nella loro fame e sete di giustizia e di pace, volgono gli occhi alla sede di Pietro e ne aspettano guida e consiglio. – Essi riconoscono nella chiesa cattolica la bimillenaria saldezza delle norme di fede e di vita, l’incrollabile compattezza della gerarchia ecclesiastica, la quale, unita al successore di Pietro, si prodiga nell’illuminare le menti con la dottrina dell’evangelo, nel guidare e santificare gli uomini, ed è larga di materna condiscendenza verso tutti, ma ferma, quando, anche a prezzo di tormenti o di martirio, ha da pronunziare: «Non è lecito». – Eppure, venerabili fratelli, la dottrina di Cristo, che sola può fornire all’uomo fondamento di fede, tale da allargargli ampiamente la vista e dilatargli divinamente il cuore e dare un rimedio efficace alle odierne gravissime difficoltà, e l’operosità della chiesa per insegnare quella dottrina, diffonderla e modellare gli animi secondo i suoi precetti, sono fatte talvolta oggetto di sospetti, quasi che scuotessero i cardini della civile autorità e ne usurpassero i diritti. – Contro tali sospetti Noi con apostolica sincerità dichiariamo – fermo restando tutto ciò che il Nostro predecessore Pio XI di v. m. nella sua enciclica Quas primas dell’11 dicembre 1925 insegnò circa la potestà di Cristo re e della sua chiesa che simili scopi sono del tutto alieni dalla chiesa medesima, la quale allarga le sue braccia materne verso questo mondo, non per dominare, ma per servire. Essa non pretende di sostituirsi nel campo loro proprio alle altre autorità legittime, ma offre loro il suo aiuto, sull’esempio e nello spirito del suo divino Fondatore, il quale «passò beneficando» (At X, 38). La Chiesa predica e inculca obbedienza e rispetto all’autorità terrena, che trae da Dio la sua nobile origine, e si attiene all’insegnamento del divino Maestro, che disse: «Date a Cesare quel che appartiene a Cesare» (Mt XXII, 21); non ha mire usurpatrici e canta nella sua liturgia: «Non rapisce i regni terreni Colui che dà i regni celesti». Non deprime le energie umane, ma le eleva a tutto ciò che è magnanimo e generoso e forma caratteri, che non transigono con la coscienza. Né essa, che rese civili i popoli, ha mai ritardato il progresso dell’umanità, del quale anzi con materna fierezza si compiace e gode. Il fine della sua attività fu dichiarato mirabilmente dagli angeli sulla culla del Verbo incarnato, quando cantarono gloria a Dio e annunziarono pace agli uomini di buona volontà (cf. Lc II, 14). Questa pace, che il mondo non può dare, è stata lasciata come eredità ai suoi discepoli dallo stesso divino Redentore: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv XIV, 27); e così seguendo la sublime dottrina di Cristo, compendiata da lui medesimo nel duplice precetto dell’amore di Dio e del prossimo, milioni di anime l’hanno conseguita, la conseguono e la conseguiranno. La storia – chiamata sapientemente da un sommo oratore romano «maestra della vita» – da quasi duemila anni dimostra quanto sia vera la parola della Scrittura, che non avrà pace chi resiste a Dio (cf. Gb IX, 4). Poiché Cristo solo è la «pietra angolare» (cf. Ef II, 20), sulla quale l’uomo e la società possono trovare stabilità e salvezza. – Su questa pietra angolare è fondata la Chiesa, e perciò contro di essa le potenze avverse non potranno mai prevalere: «Le porte dell’inferno non prevarranno» (Mt XVI, 18), né potranno mai svigorirla, ché anzi le lotte interne ed esterne contribuiscono ad accrescerne la forza e ad aumentare le corone delle sue gloriose vittorie. Al contrario, ogni altro edificio che non si fondi saldamente sulla dottrina di Cristo, è appoggiato sulla sabbia mobile, e destinato a rovinare miseramente (cf. Mt VII, 26-27).

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Venerabili fratelli, il momento in cui vi giunge questa Nostra prima enciclica è sotto più aspetti una vera ora delle tenebre (cf. Lc XXII, 53), in cui lo spirito della violenza e della discordia versa sull’umanità una sanguinosa coppa di dolori senza nome. È forse necessario assicurarvi che il Nostro cuore paterno è vicino in compassionevole amore a tutti i suoi figli, e in modo speciale ai tribolati, agli oppressi, ai perseguitati? I popoli, travolti nel tragico vortice della guerra, sono forse ancora soltanto agli «inizi dei dolori» (Mt 24,8), ma già in migliaia di famiglie regnano morte e desolazione, lamento e miseria. Il sangue di innumerevoli esseri umani, anche non combattenti, eleva uno straziante lamento specialmente sopra una diletta nazione, quale è la Polonia, che per la sua fedeltà verso la chiesa, per i suoi meriti nella difesa della civiltà cristiana, scritti a caratteri indelebili nei fasti della storia, ha diritto alla simpatia umana e fraterna del mondo, e attende, fiduciosa nella potente intercessione di Maria «Soccorso dei cristiani» l’ora di una risurrezione corrispondente ai princìpi della giustizia e della vera pace. Ciò che testé è accaduto e ancora accade appariva al Nostro sguardo come una visione, quando, non essendo ancora scomparsa ogni speranza, nulla lasciammo intentato, nella forma suggeritaci dal Nostro apostolico ministero e dai mezzi a Nostra disposizione, per impedire il ricorso alle armi e tener aperta la via ad una intesa, onorevole per ambedue le parti. Convinti che all’uso della forza da una parte avrebbe risposto il ricorso alle armi dall’altra, considerammo come dovere imprescindibile del Nostro apostolico ministero e dell’amore cristiano di metter tutto in opera, per risparmiare all’umanità intera e alla cristianità gli orrori di una conflagrazione mondiale, anche se vi era pericolo che le Nostre intenzioni e i Nostri scopi venissero fraintesi. I Nostri ammonimenti, se furono rispettosamente ascoltati, non vennero peraltro seguiti. E mentre il Nostro cuore di pastore osserva dolorante e preoccupato, si affaccia al Nostro sguardo l’immagine del buon pastore e Ci sembra di dover ripetere al mondo, in nome suo, il lamento: «Oh, se conoscessi … quello che giova alla tua pace! Ma ora questo è celato ai tuoi occhi!» (Lc XIX, 42). – In mezzo a questo mondo, che presenta oggi uno stridente contrasto alla pace di Cristo nel regno di Cristo, la chiesa e i suoi fedeli si trovano in tempi e anni di prove, quali raramente si conobbero nella sua storia di lotte e sofferenze. Ma proprio in simili tempi, chi rimane fermo nella fede e ha robusto il cuore, sa che Cristo re non è mai tanto vicino quanto nell’ora della prova, che è l’ora della fedeltà. Con cuore straziato per le sofferenze e i patimenti di tanti suoi figli, ma con il coraggio e la fermezza che provengono dalle promesse del Signore, la sposa di Cristo cammina verso le incombenti procelle. Ed essa sa: la verità, che essa annunzia, la carità, che insegna e mette in opera, saranno gli insostituibili consiglieri e cooperatori degli uomini di buona volontà nella ricostruzione di un nuovo mondo, secondo la giustizia e l’amore, dopo che l’umanità, stanca di correre per le vie dell’errore, avrà assaporato gli amari frutti dell’odio e della violenza. – Nel frattempo, però, venerabili fratelli, il mondo e tutti coloro che sono colpiti dalla calamità della guerra devono sapere che il dovere dell’amore cristiano, cardine fondamentale del regno di Cristo, non è una parola vuota, ma una viva realtà. Un vastissimo campo si apre alla carità cristiana in tutte le sue forme. Abbiamo piena fiducia che tutti i Nostri figli, specialmente coloro che non sono provati dal flagello della guerra, si ricordino, imitando il divino Samaritano, di tutti coloro che, essendo vittime della guerra, hanno diritto alla pietà e al soccorso. La Chiesa cattolica, città di Dio, «che ha per re la verità, per legge la carità, per misura l’eternità», annunziando senza errori né diminuzioni la verità di Cristo, lavorando secondo l’amore di Cristo con slancio materno, sta come una beata visione di pace sopra il vortice di errori e passioni e aspetta il momento in cui la mano onnipotente di Cristo re sederà la tempesta e bandirà gli spiriti della discordia che l’hanno provocata. Quanto sta in Nostro potere per accelerare il giorno in cui la colomba della pace su questa terra, sommersa dal diluvio della discordia, troverà dove posare il piede, Noi continueremo a farlo, fidando in quegli eminenti uomini di stato che prima dello scoppio della guerra si sono nobilmente adoperati per allontanare dai popoli un tanto flagello; fidando nei milioni di anime di tutti i paesi e di tutti i campi, che invocano non solo giustizia, bensì anche carità e misericordia; ma soprattutto fidando in Dio onnipotente, al quale giornalmente rivolgiamo la preghiera: «All’ombra delle tue ali mi rifugio, finché passi la calamità» (Sal LVI, 2). Dio può tutto: al pari della felicità e delle sorti dei popoli, tiene nelle sue mani anche gli umani consigli e, in qualsiasi parte Egli voglia, dolcemente li inclina: anche gli ostacoli per la sua onnipotenza sono mezzi a plasmare le cose e gli eventi e a volgere le menti e i liberi voleri ai suoi altissimi fini. – Pregate, quindi, venerabili fratelli, pregate senza interruzione, pregate, soprattutto, quando offrite il divino Sacrificio d’amore. Pregate voi, ai quali la professione coraggiosa della fede impone oggi duri, penosi e non di rado eroici sacrifici; pregate voi, membra sofferenti e doloranti della Chiesa, quando Gesù viene a consolare e lenire le vostre pene. – E non dimenticate di rendere, mediante un vero spirito di mortificazione e degne opere di penitenza, le vostre preghiere più accette agli occhi di Colui «che sostiene tutti coloro che cadono e rialza tutti gli abbattuti» (Sal CXLIV, 14), affinché egli nella sua misericordia abbrevi i giorni della prova e si avverino così le parole del Salmo: «Gridarono al Signore nella loro tribolazione, e dalle loro angustie li liberò» (Sal CVI, 13). – E voi, candide legioni di bimbi, che siete tanto amati e prediletti da Gesù, nel comunicarvi col Pane di vita innalzate le vostre ingenue e innocenti preghiere e unitele a quelle di tutta la chiesa. All’innocenza supplicante non resiste il cuore di Gesù che vi ama: pregate tutti, «pregate senza interruzione» (1Ts V, 17). –  In tal modo metterete in pratica il sublime precetto del divino Maestro, il più sacro testamento del suo cuore, «che tutti siano una cosa sola» (Gv XVII, 21), che tutti vivano in quell’unità di fede e di amore, da cui riconosca il mondo la potenza e l’efficacia della missione di Cristo e dell’opera della sua Chiesa. La Chiesa primitiva comprese e attuò questo divino precetto e lo espresse in una magnifica preghiera; e voi unitevi con gli stessi sentimenti, che tanto bene rispondono alle necessità dell’ora presente: «Ricòrdati, o Signore, della tua Chiesa, per liberarla da ogni male e perfezionarla nella tua carità e, santificàtala, raccòglila da ogni parte del mondo nel regno tuo, che le hai preparato; poiché tua è la virtù e la gloria per tutti i secoli». Nella fiducia che Dio, autore e amante della pace, ascolti le suppliche della chiesa, vi impartiamo come pegno dell’abbondanza delle grazie divine, dalla pienezza del Nostro animo paterno, l’apostolica benedizione.

Castel Gandolfo, presso Roma, il 20 ottobre dell’anno 1939, I del Nostro pontificato.

DOMENICA VI quæ superfuit POST EPIPHANIAM – IV. Novembris

DOMENICA VI quæ superfuit POST EPIPHANIAM – IV. Novembris

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le domeniche terza, quarta, quinta e sesta dopo l’Epifania sono mobili e si celebrano fra la 23a e la 24a Domenica dopo Pentecoste, quando non hanno potuto entrare prima della Settuagesima, cioè quando la festa di Pasqua e il suo corteo di 9 Domeniche, che ad essa preparano, vengono molto presto (vedi Commento liturgico del Tempo della Settuagesima). In questo caso l’Orazione, l’Epistola e il Vangelo sono quelli delle Domeniche dopo l’Epifania e basta interpretarli nel senso del secondo avvento di Gesù Cristo invece del primo, per adattarli al tempo dopo Pentecoste che prepara le anime alla venuta del Salvatore alla fine del mondo, segnata dall’ultima Domenica dell’anno o 24a Domenica dopo Pentecoste. Quanto all’Introito, al Graduale, all’Alleluia, all’Offertorio e alla Comunione, si prendono quelli della 23a Domenica dopo Pentecoste, che fa direttamente allusione alla redenzione definitiva delle anime (Intr.), quando Gesù, rispondendo alla nostra invocazione (Alleluia, Offertorio, Communio) verrà a giudicare i vivi e i morti ed a strapparci per sempre dalle mani dei nostri nemici (Graduale). Per riferire la Messa di questo giorno alla lettura del Breviario di quest’epoca, si può leggere quello che abbiamo detto dei Maccabei alla 20a, 21a e 22a Dom. dopo Pentecoste. – Per riferire la Messa di questa Domenica alla lettura del Breviario di questo tempo leggasi quello che abbiamo detto dei Profeti dopo Pentecoste.

La Messa di questo giorno fa risaltare la divinità di Gesù attestando chiaramente che Egli ha ricevuto il potere, come Figlio di Dio, di giudicare tutti gli uomini. Gesù è Dio, poiché Egli rivela cose che sono nascoste in Dio e che il mondo ignora (Vangelo). La sua parola, che Egli paragona a un piccolo seme gettato nel campo del mondo ed a un po’ di lievito messo nella pasta, è divina, perché seda le nostre passioni e produce nel nostro cuore le meraviglie della fede, della speranza e della carità di cui ci parla l’Epistola. La Chiesa, suscitata dalla parola di Gesù Cristo, è simbolizzata mirabilmente dalle tre misure di farina, che la forza di espansione del lievito ha fatto « completamente fermentare » e dalla pianta di senapa, la più grande della sua specie, ove gli uccelli del cielo vengono a cercare un asilo. Meditiamo sempre la dottrina di Gesù (Or.), onde, come il lievito, essa penetri le anime nostre e le trasformi, e, come il grano di senapa, irradia l’anima del prossimo con la sua santità. Così il regno di Dio si estenderà vieppiù, quel regno quale Gesù ci ha chiamati e di cui egli è il Re. Egli eserciterà questa regalità soprattutto alla fine del mondo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Jer XXIX:11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.
(Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.)

Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.


(Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.)

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

(Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.)

Oratio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, semper rationabília meditántes, quæ tibi sunt plácita, et dictis exsequámur et factis.
(Concedici, o Dio onnipotente, Te ne preghiamo: che meditando sempre cose ragionevoli, compiamo ciò che a Te piace e con le parole e con i fatti.)

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses
1 Thess 1: 2-10

Fratres: Grátias ágimus Deo semper pro ómnibus vobis, memóriam vestri faciéntes in oratiónibus nostris sine intermissióne, mémores óperis fídei vestræ, et labóris, et caritátis, et sustinéntiæ spei Dómini nostri Jesu Christi, ante Deum et Patrem nostrum: sciéntes, fratres, dilécti a Deo. electiónem vestram: quia Evangélium nostrum non fuit ad vos in sermóne tantum, sed et in virtúte, et in Spíritu Sancto, et in plenitúdine multa, sicut scitis quales fuérimus in vobis propter vos. Et vos imitatóres nostri facti estis, et Dómini, excipiéntes verbum in tribulatióne multa, cum gáudio Spíritus Sancti: ita ut facti sitis forma ómnibus credéntibus in Macedónia et in Achája. A vobis enim diffamátus est sermo Dómini, non solum in Macedónia et in Achája, sed et in omni loco fides vestra, quæ est ad Deum, profécta est, ita ut non sit nobis necésse quidquam loqui. Ipsi enim de nobis annúntiant, qualem intróitum habuérimus ad vos: et quómodo convérsi estis ad Deum a simulácris, servíre Deo vivo et vero, et exspectáre Fílium ejus de cœlis quem suscitávit ex mórtuis Jesum, qui erípuit nos ab ira ventúra.

“Fratelli: Noi rendiamo sempre grazie a Dio per voi tutti, facendo continuamente menzione di voi nelle nostre preghiere, memori nel cospetto di Dio e Padre nostro della vostra fede operosa, della vostra carità paziente e della vostra ferma speranza nel nostro Signor Gesù Cristo; sapendo, o fratelli cari a Dio, che siete stati eletti; poiché la nostra predicazione del vangelo presso di voi fu non nella sola parola, ma anche nei miracoli, nello Spirito Santo e nella piena convinzione: voi, infatti, sapete quali siamo stati tra voi per il vostro bene. E voi vi faceste imitatori nostri e del Signore, avendo accolta la parola in mezzo a molte tribolazioni col gaudio dello Spirito Santo, al punto da diventare un modello a tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia. Poiché non solo da voi si è ripercossa nella Macedonia e nell’Acaia la parola di Dio; ma la fede che voi avete in Dio s’è sparsa in ogni luogo, così che non occorre che noi ne parliamo. Infatti, essi stessi, riferendo di noi, raccontano quale fu la nostra venuta tra voi, e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire al Dio vivo e vero, e aspettare dal cielo il suo Figlio (che Egli risuscitò da morte) Gesù, che ci ha liberati dall’ira ventura”.

TRIBOLAZIONI E GIOIE CRISTIANE.

Una delle storie più interessanti per tutti, interessantissima per noi Cristiani, è la storia della prima diffusione del Vangelo, specialmente quando chi la racconta, più che semplice testimone, ne è stato autore e attore. È il caso di San Paolo. E, nella Epistola d’oggi, Egli, l’Apostolo infaticabile, di quella storia ci narra una pagina, un frammento, tanto più importante, perché quello che dice della introduzione del Vangelo in Salonicco vale di tante altre terre. La propagazione del santo Vangelo certo non fu fatta a colpi di gran cassa, o di sciabola o di scimitarra: niente di ciarlatanesco e niente di bellicoso nel senso materiale della parola. La ciarlataneria stonava col sano realismo del Vangelo e la sua umiltà: la spada contrastava con la mansuetudine evangelica. Ma non fu neppure una diffusione tranquilla, pacifica e blanda. San Paolo ci parla di una tempesta o tribolazione attraverso la quale e con la quale il Vangelo s’impiantò nella industre città commerciale: tribolazione è la frase che adopera l’Apostolo. E vuol dire che ci fu da soffrire per lui e per i primi discepoli, da soffrire non poco. – Il Vangelo è entrato nel mondo giudaico o greco-romano ch’esso fosse, come un soffio procelloso di travolgimento. Non veniva a conservare e quasi ad imbalsamare uno stato di anime e di cose ormai impiantato e sicuro: veniva a sconvolgere idee, affetti, leggi, costumi. Qui lo stesso Apostolo ricorda il passaggio dei suoi Cristiani dalla servitù degli idoli simulacri, (parvenze di forze divine) alla adorazione del Dio vivo e vero. Ma quella idolatria a cui il Vangelo col suo monoteismo spirituale gittava un guanto di sfida, dichiarava una guerra mortale, quella idolatria era una religione organizzata e trionfante. Con quella, Roma aveva fatto la sua fortuna militare, e stava facendo la sua fortuna politica. E il Cristianesimo non veniva a temperare blandamente, a ritoccare il politeismo pagano: no, veniva a distruggerlo. Lo negava da cima a fondo. Voleva radicalmente sostituirlo. Operazione di alta chirurgia. Perciò la lotta che suonò da parte degli elementi pagani era una specie di legittima difesa. Il che va letteralmente ripetuto anche per la religione giudaica, pure al Vangelo tanto più affine. – Ma il Cristianesimo veniva a surrogare anche il giudaismo, come il definitivo surroga, sostituisce il provvisorio, il meriggio l’aurora. N. S. Gesù Cristo l’aveva annunciato e predetto. Non sono venuto, non vengo a suggellare una pace tranquilla: vengo a suscitare una tempesta, guerra. Guerra, lotta che se da parte degli agnelli evangelici veniva combattuta con dolcezza e mansuetudine nuova, dall’altra parte si combatteva in quella vece, colla fierezza antica, tradizionale. Donde tra le file cristiane dolore, tristezza, «tribulatio multa.» Grande e gioconda, lieta, serena. Di questa gioia ripieni, i Cristiani primi sopportarono le loro tribolazioni di convertiti, di cui parla espressamente ancora una volta l’Apostolo. Il Maestro l’aveva detto: «Sarete beati quando vi perseguiteranno, pagani e Giudei, e questi vi cacceranno dalle loro sinagoghe, quelli dai loro templi come traditori. Godete, esultate in quel giorno.» E averlo detto fu poco di fronte alla energia che Gesù Cristo seppe ispirare ai suoi seguaci: quella gioia della persecuzione che dagli Apostoli passa ai loro fedeli, che dalle prime generazioni cristiane, arriva, come un soffio eroico, fino a noi, senza interruzione. Tornavano lieti, — dice dei primissimi Apostoli e confessori della fede, il sacro testo, — dal Sinedrio, perché  avevano avuto l’alto ed immeritato onore di soffrire per Gesù Cristo. L’onore di soffrire! È una delle manifestazioni più geniali e impressionanti dello Spirito di Dio nei suoi fedeli. Infatti, San Paolo chiama quello dei suoi Cristiani gaudio dello Spirito Santo. Al quale deve salire assidua la nostra prece perché nella Chiesa di Dio mantenga questo eroismo almeno sotto forma di una disposizione alacre e pronta a tutto soffrire piuttosto di rinunciare alle fede e alla legge di Cristo, piuttosto che perdere per noi e per altri i frutti della Redenzione di Gesù Cristo.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939).

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XLIII: 8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.
V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in sǽcula. Allelúja,

Allelúja.

(Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.

V. In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno. Allelúia, allelúia.)

Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.

(Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.)

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt XIII: 31-35
In illo témpore: Dixit Jesus turbis parábolam hanc: Símile est regnum cœlórum grano sinápis, quod accípiens homo seminávit in agro suo: quod mínimum quidem est ómnibus semínibus: cum autem créverit, majus est ómnibus oléribus, et fit arbor, ita ut vólucres cœli véniant et hábitent in ramis ejus. Aliam parábolam locútus est eis: Símile est regnum cœlórum ferménto, quod accéptum múlier abscóndit in farínæ satis tribus, donec fermentátum est totum. Hæc ómnia locútus est Jesus in parábolis ad turbas: et sine parábolis non loquebátur eis: ut implerétur quod dictum erat per Prophétam dicéntem: Apériam in parábolis os meum, eructábo abscóndita a constitutióne mundi.

[“In quel tempo Gesù propose alle turbe un’altra parabola, dicendo: È simile il regno de’ cieli a un grano di senapa, che un uomo prese e seminò nel suo campo. La quale è bensì in più minuta di tutte le semenze; ma cresciuta che sia è maggiore di tutti i legumi, e diventa un albero, dimodoché gli uccelli dell’aria vanno a riposare sopra i di lei rami. Un’altra parabola disse loro: È simile il regno de’ cieli a un pezzo di lievito, cui una donna rimestolla con tre staia di farina, fintantoché tutta sia fermentata. Tutte queste cose Gesù disse alle turbe per via di parabole: né mai parlava loro senza parabole; affinché si adempisse quello che era stato detto dal profeta: Aprirò la mia bocca in parabole, manifesterò cose che sono state nascoste dalla fondazione del mondo”].

OMELIA.

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

IL NOSTRO CRESCERE IN GESÙ

Crescere è la legge di ogni vita. – Nel Cristiano ci sono tre specie di vita, ed in ciascuna egli deve svilupparsi fino alla sua giusta e piena misura. C’è in lui la vita fisica del corpo. Il bambino che nasce, voi sapete come ha le membra esili, le ossa senza consistenza, le manine più piccole dei petali di rosa. Ma poi, giorno per giorno, cresce: e i muscoli si fanno robusti e nervosi, le ossa induriscono, le manine divengono larghe e possenti, i passi sicuri ed energici. Guai se anche un membro solo del corpo non si sviluppasse! resterebbe un deforme e un rachitico. – C’è ancora nell’uomo la vita spirituale dell’anima, fatta di volontà ed intelligenza. Anche questa vita esige il suo sviluppo. Il bambino dapprima incapace d’un minimo atto di volontà crescerà fino a sopportare la violenza delle grandi passioni; dapprima incapace della più semplice idea crescerà fino a scoprire l’ingranaggio di complicati problemi e a reggere sotto il fardello di gravi pensieri. Guai se una qualunque causa impedisse questa crescita nel fanciullo! resterebbe un anormale, un deficiente. – Nel Cristiano c’è una terza vita, preziosissima perchè lo avvicina a Dio, infinitamente superiore alle prime due che ormai non hanno più ragione d’essere se non per sostenere quest’altra come i fili elettrici non hanno più importanza che per la misteriosa energia da cui sono attraversati. Parlo della vita soprannaturale della grazia, che ci fu data nelle acque del santo Battesimo. Agli occhi di Dio è l’unica cosa che ha valore, l’unica necessaria, « Unum necessarium! ». Si pensi dunque alla sventura di chi la perdesse o anche solo di chi non la sviluppasse, restando in essa sempre un bambino. Nel Vangelo d’oggi, con due parabole, Gesù insinua la necessità e il modo di crescere nella vita soprannaturale. «A che cosa paragoneremo il regno di Dio? o con quale parabola lo rappresenteremo? Ecco io lo raffiguro al granello di senape. Quando lo si semina, esso è il più piccolo di tutti i semi che sono sopra la terra; ma quando è stato seminato, a poco a poco cresce, e diventa il più alto e produce degli ampi rami, talché gli uccelli del cielo possono ripararsi sotto la sua ombra ». – Anche il regno di Dio in noi, cioè la vita soprannaturale della grazia, segue la legge del progresso. Il Battesimo non ce la comunica nella sua pienezza, ma come in germe che deve svilupparsi in noi mediante la nostra collaborazione. – Col Battesimo non si è Cristiani finiti e perfetti; si comincia soltanto ad esserlo, poi, ogni giorno che passa, lo si deve diventare in una maniera sempre più profonda e piena. Proprio come l’albero di senape che spunta da un minuscolo granellino e progredisce insensibilmente ma continuamente, fino a distendere grandi e ombrosi rami. – S. Paolo, scrivendo ai Cristiani di Corinto, insiste sulla necessità della coscienza soprannaturale. « Fratelli, non restate bambini…; crescete e siate perfetti nei sentimenti dell’anima vostra ». Temeva che molti, ricevuto il Battesimo, restassero inerti senza svilupparsi nella vita divina. – Ciò che l’Apostolo temeva è diventato la frequente e dolorosa realtà di questi tempi. Sono moltissimi quelli che nella conoscenza della dottrina cristiana e nell’amore di Dio sono rimasti alle poche idee e ai pochi sentimenti della prima Comunione, se pure non hanno perduto anche quelli. Cresciuti in tutto: nel corpo e nell’intelligenza e nelle cognizioni del mondo; ma non nella vita cristiana, la sola vita che merita d’essere chiamata con tal nome e che il Vangelo qualifica eterna. Di cristiano resta soltanto il loro nome sui registri della parrocchia, e nel loro cuore resta il Battesimo inerte come un seme secco che non ha trovato terra per germogliare. Intanto il tempo, così prezioso per crescere nella vita soprannaturale, passa irrimediabilmente. Hanno trenta, cinquanta, sessant’anni: ma nell’anima sono rimasti bambini. Hanno studiato e imparato molto, sono forse ragionieri, professori, medici, avvocati: ma nell’anima sono rimasti bambini. Poi viene la morte che sfronda da ogni apparenza: ciascuno avrà allora solo l’età delle sue virtù. – S. Giovanni Damasceno narra che un solitario della Tebaide chiedeva un giorno a un eremita, logoro dalle austerità e bianco per antico pelo, quanti anni avesse. « Ne ho trentacinque » rispose l’eremita. L’interrogatore, con le labbra sfiorate da un sorriso arguto, gli fece osservare che quei trentancinque anni dovevano essere stati ben penosi se l’avevano ridotto bianco e macilento come un vegliardo di ottant’anni… « Sì, è ben possibile — rispose l’eremita — che sia vissuto ottant’anni dell’esistenza che ci è comune con gli insetti: ma è certo che sono vissuto per Dio solo trentancinque anni e innanzi a Lui questi soltanto contano ». Gli altri non erano vita. Vita è solo quella della grazia, al di fuori della quale è la morte, anche quando ci si illude di vivere. Cristiani, se ciascuno di noi togliesse dalla sua vita tutto il tempo che non ha vissuto per Dio, quanto gli resterebbe? – Alla prima parabola che c’insegna la necessità di crescere, Gesù ne aggiunse un’altra che ci mostra il modo di crescere nella vita soprannaturale. «Il regno di Dio è simile a un pugno di lievito che una donna prende per impastarlo con una massa di farina. A poco a poco tutta la farina si lascia penetrare e gonfiare dalla secreta forza del lievito ». La santa Chiesa è la donna della parabola che nel Battesimo mette nella nostra umanità il lievito della Grazia e della vita divina di Gesù. Gesù vuol crescere in noi, vuol assorbire e divinizzare tutta quanta la nostra povera vita d’uomini, e renderci così suoi fratelli, veri figli del suo celeste Padre, degni d’appartenere alla famiglia di Dio, godere nei cieli la gloria eterna di Dio. Due cose sono necessarie per crescere nella vita divina, e ce ne suggerisce S. Pietro: « Primo: rigettare da voi ogni malizia, ogni frode, ogni specie d’ipocrisia, d’invidia, di maldicenza. Secondo: come bambini di fresco nati, siate bramosi del latte spirituale purissimo e con esso crescete nella salvezza e gustate come è dolce il Signore » (I Pet., II, 1-3). – Ciò che dobbiamo bramare con incessanti preghiere, quel latte spirituale e purissimo che ci fa crescere nella salvezza, è la cognizione e l’amore di Dio. Si accresce la cognizione di Dio meditando il Vangelo e le vite dei Santi; ascoltando a cuore aperto le prediche, studiando la dottrina cristiana. Si accresce l’amore di Dio frequentando la santa Comunione, assistendo alla Messa, compiendo opere buone. Cristiani, che cosa fate di tutto questo? E se non fate le opere della vita, come pretendete di vivere? E se le fate raramente e male, come v’illudete di vivere intensamente e bene? – Quanto è da temere per quelli che avendo ricevuto la vita soprannaturale, l’hanno spenta col peccato mortale e restano così in uno stato di morte! Sono simili a certe piante del bosco colpite dal fulmine: si reggono per la corteccia ma dentro sono vuote, non gettano più che qualche raro germoglio che non diviene ramo e tanto meno porterà frutto. Quanto vi è da temere anche per quelli che hanno incominciato bene a progredire nella via della vita e poi si sono fermati, guardando indietro, rimpiangendo le sensualità del mondo e le cose visibili e transitorie. Sono simili alla moglie di Lot. Anch’essa per via dopo essere stata già liberata dalla città maledetta e infuocata; si volse indietro. Ma dove si volse, ivi rimase, mutata in statua di sale. « Essa fu data a te come esempio — scrive S. Agostino — affinché tu abbia senno e non te ne rimanga fatuo per via. Vedendo lei fermarsi, tu passa oltre; vedendo lei guardare indietro tu tieni lo sguardo fisso in ciò che hai dinanzi ». – Questa volta incominciamo da Diogene. Costui, da quel filosofo estroso che era, una volta, a giorno alto, fu veduto aggirarsi per la piazza di Atene, con una lampada tra le mani. Tutti ne ridevano. « Che cercate, Diogene, col lumicino? ». « Cerco l’uomo ». La piazza era gremita d’uomini, ma al filosofo nessuno appariva veramente uomo. Ora applichiamo: nella nostra Italia, nella nostra città, nella nostra parrocchia tutti, o quasi tutti, sono Cristiani cattolici: battezzati e registrati. Però si potrebbe con la lampadina andare in cerca del Cattolico. Non tutti gli uomini erano uomini per Diogene; e forse che tutti i Cattolici sono ora Cattolici? Quanti ne rubano il nome? – Anche il maestro di rettorica Mario Vittorino si vantava, si vantava di essere Cattolico: ma sapete che cosa gli ha risposto S. Simpliciano, il successore di S. Ambrogio nella cattedra di Milano? « Tu lo dici; ed io non ti crederò fino a quando non ti avrò visto nella Chiesa ad ascoltare i sermoni, a ricevere i sacramenti ». « Son forse i muri che fanno i Cristiani? », replicò, ridendo, Vittorino. Ma il Vescovo non si lasciò smuovere e aggiunse: « Eppure è così ». Se tutti quelli che lo dicono fossero Cattolici, dovrebbero intervenire alla dottrina cristiana, alle sante Comunioni, alle processioni: ma essi non vivono la vita della Chiesa Cattolica. Se tutti quelli che lo dicono fossero Cattolici, non dovrebbero leggere certi libri e certi giornali, non dovrebbero frequentare certi divertimenti, non dovrebbero permettersi certe azioni. Che fare allora? Ce lo suggerisce con due parabolette il Vangelo di questa domenica. Dice la prima: « Il regno dei cieli è simile a un granello di senapa, che un uomo prese e seminò. Era proprio il più minuto dei semi, ma, cresciuto che fu, divenne un albero, tanto che gli uccelli si ricoveravano sotto le sue frasche ». Dice la seconda: «Il regno dei cieli è simile a una manata di lievito che la massaia prese e nascose in tre staia di farina, la quale tutta fermentò ». – Il mondo è divenuto una terra brulla: è necessario lasciarvi un seme piccolo sì,  ma fecondo. Il mondo è diventato come una massa di farina inerte e insipida: bisogna lievitarla sia pure con una manata di lievito, ma vivo e saporito. Il seme, fecondo, il pugno di lievito in cui la Chiesa pone molta speranza è l’Azione Cattolica. Voglio dirvi che cosa è, che cosa fa l’Azione Cattolica. Ben lieto sarei se da queste mie parole qualcuno sentisse la vocazione di parteciparvi; ma già avrei ottenuto gran frutto se alcuni comprendessero la sublimità di questo ideale, e non lo guardassero più con occhio sospettoso… – Pregava un giorno S. Francesco nella chiesa di San Damiano, a pochi minuti di strada da Assisi. La chiesa, assai antica, era sgretolata, affumicata, senza lumi e senza devoti. Fuori, seduto, sui gradini, al sole, stava un vecchio prete. Dentro, dall’alto dell’altare, pendeva un Crocifisso bizantino. Improvvisamente sembrò a S. Francesco che il Cristo lo guardasse con dolorosi occhi, e gli sembrò anche che il Cristo parlasse. Nel silenzio della chiesetta le parole del Figlio di Dio agonizzante cadevano come un bisbiglio: « Francisce, vade et repara domum meam, quæ, ut cernis, tota destruitur ». Va, Francesco, e ripara la mia Chiesa: non vedi che da ogni parte è distrutta? Francesco si alzò tutto tremante e sbigottito: la chiesa era ripiombata nella sua immobilità, nel suo silenzio sepolcrale. Non era l’aiuto per la restaurazione d’una cappella in rovina che il Crocifisso voleva da lui, ma l’aiuto per la salvezza di tante anime, per la riforma della santa Chiesa dilaniata da tanti odi e da tanti peccati. Ma lui non era prete, e come poteva far questo? « Va, Francesco, e ripara la mia casa, non vedi che da ogni parte è distrutta? ». Ancora la Chiesa di Dio è assalita e combattuta da ogni parte: l’immoralità e l’indifferenza tentano di sgretolarla. Il Crocifisso ancora si lamenta… Ed il suo grido è stato raccolto ora, non da uno solo, ma da migliaia e migliaia di giovani, di uomini, di donne, di fanciulle: l’Azione Cattolica. Era invalso in mezzo a noi, che pur ci professiamo seguaci di Cristo, il pregiudizio che soltanto al Clero spettasse la difesa degli interessi di Dio, il dovere di promuovere la vittoria della Chiesa e di zelare la salute delle anime; anzi ognuno credeva che fosse compito dei laici disinteressarsene affatto. Non io negherò che la diffusione del Regno di Dio e la salvezza dei fratelli incombe, soprattutto, ai sacerdoti. Ma essi sono i capitani della santa battaglia, e l’esercito obbediente al cenno dov’è? Essi sono gli architetti per la restaurazione della casa di Dio in rovina, e la squadra solerte degli operai dov’è? Volete fare una guerra coi soli architetti? manca l’esercito, manca la squadra. L’Azione Cattolica vuole essere questo esercito e questa squadra, poiché, come il Santo Padre ha detto, essa non è altro che « la partecipazione dei laici all’apostolato gerarchico ». I membri dell’Azione Cattolica sono i veri collaboratori e cooperatori dei Vescovi e dei Sacerdoti per il trionfo di Cristo Re nel mondo: essi formano una spirituale milizia. « Mentre le forze giovanili intendono particolarmente alla formazione ed alla preparazione delle coscienze e delle intelligenze, e mentre le organizzazioni femminili svolgono efficace lavoro di penetrazione e di persuasione nel santuario domestico, le energie degli uomini, fortemente temprate nella fede e nella pietà, precisamente sviluppano l’azione di difesa, di diffusione e di pratica applicazione dei comandamenti cristiani alle contingenze della vita. Così tutti riporteranno ovunque con serena fortezza la nota della giustizia e della carità cristiana ». (Dal Messaggio di S.S. Pio XI al Congresso degli Uomini cattolici di Palermo). – A S. Francesco peregrinando per campagne e foreste deserte, accadde d’incontrarsi in ribaldi e ladri. « Chi sei?» gli gridarono assalendolo. «Io sono l’Araldo senza macchia e senza paura del Gran Re ». Ognuno dei membri dell’Azione Cattolica deve tendere a questo ideale. Annunciare che il Regno di Dio si avvicina alle anime, ed essere senza macchia davanti a Dio, senza paura davanti agli uomini. Quando, nei secoli scorsi, i Turchi con la loro ferocia minacciavano le nostre città e infestavano i nostri mari e devastavano la regione, furono i Papi che da ogni parte d’Europa suscitarono uomini per difendere la nostra fede e la civiltà. Ora non più una nazione, ma sono i peggiori vizi e gli errori che devastano le anime! È l’ateismo pratico, l’immoralità della moda e del divertimento, il divorzio e la calunnia contro la Chiesa. Il Papa ancora vuole raccogliere da tutte le parti del mondo un nuovo esercito spirituale per la battaglia santa del Signore. Il Papa sente che l’Azione Cattolica è il seme minuto, ma che presto frondeggerà su tutta la Chiesa con le buone opere e gli esempi buoni. Il Papa sente che l’Azione Cattolica è il pugno di lievito che solo potrà fermentare a novella vita cristiana i popoli moderni… il suo programma: preghiera, azione, sacrificio. Preghiera. « La pietà — scrive s. Paolo — è indispensabile in tutto; essa sola ha le benedizioni della vita presente e della vita futura» (I Tim., IV; 8). Se nel mondo le benedizioni di Dio mancano a tanti sventurati, se gli uomini si perdono eternamente, è perché la preghiera manca. Da molti si prega poco, da troppi non si prega più. I membri dell’Azione Cattolica vogliono vivere una vita di preghiera, persuasi che l’orazione rende fecondo l’apostolato. Vogliono la preghiera nel segreto dell’anima; la preghiera nella famiglia; la preghiera pubblica nella società: le ore di adorazione, i santi esercizi, le processioni solenni. Azione. Prima d’ogni altra, l’azione silenziosa del buon esempio. Il buon esempio è una predica che non si sente con le orecchie, ma si vede con gli occhi e quindi di effetto infallibile. La buona parola vola, ma il buon esempio trascina; una famiglia che ha per capo un Cristiano praticante e zelante, ne segue istintivamente la pietà, la modestia, la lealtà. In un paese dove ci sono parecchie decine di uomini, di giovani esemplari, a poco a poco tutto fermenterà in bene. Ma non basta l’azione personale e familiare, ci vuole anche l’azione sociale nella Parrocchia. I membri dell’Azione Cattolica vogliono e devono essere i docili collaboratori del Parroco in tutte le opere di bene. In prima linea partecipano alle funzioni religiose: coraggiosamente combattono contro la immoralità di certi divertimenti, di certe mode, di certe stampe, vigilano perché l’istruzione religiosa sia impartita nelle scuole secondo la legge, aiutano le opere di beneficenza cristiana; difendono il Papa e ì sacerdoti in cui vedono i rappresentanti di Cristo. – Sacrificio.  Ma per tutto questo è necessario un forte spirito di sacrificio. Sacrificio nel sapere dominare le proprie passioni più d’ogni altro Cristiano; vincere il rispetto umano; sacrificio di tempo, di lavoro, di denaro, di divertimento. Bisogna che i membri dell’Azione Cattolica si riempiano il cuore di Dio, per aver la forza d’essere sempre generosi e pronti a donarsi e a sacrificarsi. Ebbene, i membri dell’Azione Cattolica a tutto questo vogliono esser pronti.  – Dice la leggenda che Gesù Bambino voleva traghettare un fiume vorticoso. Allora venne a lui Cristoforo, il fortissimo traghettatore, che lo prese sulle sue spalle larghe e lo portò sopra le acque impetuose. Il nostro secolo è un impetuoso torrente di paganesimo e d’iniquità. Eppure Gesù ancora vuol regnare. L’Azione Cattolica sarà il fortissimo traghettatore e porterà il Signore ad un nuovo trionfo. – « Il regno dei Cieli — dice Gesù Cristo — è come un pugno di lievito che una donna rimescola in tre staia di farina, fin tanto che sia fermentata tutta ». Il pugno di lievito è Gesù Cristo. Quando visibilmente viveva su questo mondo sembrava il più povero degli uomini. Non aveva casa, non aveva danaro, non aveva né armi né armati: solo passava di paese in paese, donando a molti la salute e a tutti la sua parola buona, non mai udita sopra la terra. Eppure, fu questo umile Uomo che fermentò tutta l’umanità: fu Lui che portò la sapienza; Lui, l’amore; Lui, la vita eterna. Ma chi è quella donna evangelica, che ha preparato il mistico lievito e lo ha rimescolato nelle tre misure di farina? Quella donna è la Madonna. Il Figlio di Dio, fatto uomo per la nostra salute, ci venne dalla carne immacolata di Lei e dal sangue purissimo di Lei, Le tre staia di farina sono i tre tempi del mondo: il tempo antico, il presente, il futuro. Il tempo antico: quando la Madonna, non nata ancora, era predetta dai Profeti e il popolo la sognava come un’aurora immensa che da oriente s’innalza a dissipare il tenebrore notturno, come la rosa dei giorni primaverili sbocciata al sole, come il cipresso intatto dalla scure, come il terebinto che distende i suoi rami sul mondo. Il tempo presente: in cui tutte le arti l’hanno onorata, tutti i paesi le hanno fatto una Chiesa, o almeno un altare. Il tempo futuro: perché fin quando ci sarà un uomo, s’udirà sempre il suo bel nome. Le tre staia di farina possono anche significare le tre Chiese: la Chiesa militante in cui la Vergine mette il suo Gesù a fortificare nella lotta: la Chiesa purgante in cui la Vergine mette il suo Gesù a suffragare nel tormento; la Chiesa trionfante in cui la Vergine mette il suo Gesù a beatificare nel premio. E sembra che nessun desiderio abbia fuor che di fermentare ogni cuore col suo Figliuolo divino. Ella, come nel presepio, sta sempre nelle nostre Chiese in atto di offrire alla povertà delle nostre anime il ricco tesoro del sue viscere, come l’offerse ai poveri pastori di Betlemme. Ella, come nel tempio di Sion, sta sempre nelle nostre Chiese, per consegnare in braccio al nostro amore il suo eucaristico Gesù, come allora lo consegnò al vecchio Simeone profeta, e alla vecchia Anna profetessa. Chi è che non vorrà ricevere Gesù dalle mani di Maria? Chi è che preferisce rimanere sterile farina, invece che accogliere il divin Fermento, e trasformarsi in pane eletto? La Madonna, mettendoci il suo Figliuolo nell’anima, ci dà il perdono dei peccati commessi, ci dà la forza per non ricadere; ci dà tutto. Ella è madre di misericordia, è madre di valore, è madre d’amore. – Una donna di Thecua entrò un giorno nella sala del re, si gettò davanti al suo trono, e singultendo disse: « Salvami, o re! ». Davide, stupito e commosso, le rispose con voce buona: «Che hai tu? Parlami ». Allora la donna cominciò a raccontare la sua storia dolorosa, sospirando. « Ah! io sono una vedova e mio marito è morto lasciandomi due figli che son venuti a contesa. Erano alla campagna e non v’era nessuno che li potesse trattenere. Intanto l’uno percosse l’altro e lo uccise. Ma ecco che ora tutta la parentela si è levata contro di me e grida: — Dacci nelle mani colui che ha percosso suo fratello, che dobbiamo farlo morire: anima per anima. — Ed io che ho già perso un figlio, adesso dovrò vedere anche l’altro morire: così rimarrò sola al mondo, senza marito né figli, conculcata ». Il re, come la donna accasciata dalla sua sventura finì di parlare, balzò in piedi e disse: « Viva il Signore; un capello di tuo figlio non cadrà a terra ». Anche noi, coi nostri peccati, abbiamo ucciso nostro fratello Gesù Cristo. Rursum crucifigentes Filium Dei (Ebr., VI, 6). Gli Angeli della giustizia pretendono la nostra condanna e gridano: « Signore, dacci nelle mani quel peccatore che noi lo sprofondiamo nell’inferno ». Ed ecco la Madonna, come la vedova di Thecua, prostrarsi davanti al trono di Dio e supplicare: « Ho già perso un figlio; ho già subìto tutto lo strazio della sua morte in croce: come potrò sopportare adesso di veder l’altro precipitare nell’inferno? ». E Dio risponderà alla Vergine, come Davide alla Thecuite: « Non cadrà un capello di tuo figlio ». – Quando Iddio sta per scoccare la freccia della sua vendetta, accorre la Madonna e pone il suo Gesù in quell’anima, come un pugno di lievito nella farina. Come potrà allora il Signore colpirla se in essa vi è il Figliuol suo? Se alcuno, guardando alla sua vita, si accorge di essere caduto in basso, nella valle dei peccati, si rivolga con fiducia a Maria, ella è Madre dei peccatori che si vogliono convertire. Se i suoi vizi sono stati tanti, e le sue colpe sono state enormi, non si lasci scoraggiare, poiché quanto più grave è stata la sua colpa, tanta più gloria dalla sua conversione verrà a Maria. – Il giovanetto S. Pancrazio, che visse al tempo delle persecuzioni romane, tornando una sera dalla scuola, confidò a sua madre quello che gli era accaduto. Avevano saputo ch’era Cristiano: ormai non avrebbe più potuto vivere tranquillo, la beata fanciullezza era finita. Lo avrebbero ricercato, lo avrebbero perseguitato, tormentato, ucciso: gli bisognava una grande forza. La madre allora prese una piccola borsa, ornata di perle finissime e l’aprì: ne trasse una spugna secca imbevuta d’un liquido che il tempo aveva rappreso. Ecco, o figlio mio — e la voce le mancava e copiose lagrime sgorgavano dai suoi occhi — ecco il sangue di tuo padre; o Pancrazio. Io stessa l’ho raccolto dalle sue aperte ferite il dì in cui, sotto mentite spoglie, fui presente al suo martirio e lo vidi morir per Cristo ». Il giovanetto si mise al collo quella reliquia santa, e sentì nel suo spirito correre tutta la fierezza del martire genitore. E quel sangue stretto al suo cuore gli diede la forza di vincere il supremo combattimento, quando imprigionato e condotto nell’arena, aizzarono contro di lui l’avida pantera. Anche noi, nella vita, siamo attesi da terribili combattimenti; il mondo con dispiaceri ingannevoli, le nostre passioni, il demonio che, come pantera avida, gira intorno all’anima nostra per sbranarla. Abbiamo bisogno di forza e di valore. Ricorriamo alla Madonna. Ella, come già Lucina al figlio suo, ci metterà sul cuore il sangue di Gesù Cristo, quel Sangue che ha raccolto dalle aperte ferite il dì in cui, sotto la croce, lo vide spirare dopo tre ore d’agonia. E quel Sangue, penetrato nella nostra anima, sarà come un lievito che tutta la fermenterà e la farà invincibile ad ogni assalto infernale. – C’è una fanciulla che trema perché al lavoro, in famiglia, altrove, vive in mezzo ai pericoli morali? invochi Maria. Respice stellam, invoca Maria! C’è un uomo che il demonio con desideri impuri non lascia quieto? invochi Maria! Respice stellam, invoca Maria! O tutti, che ad ogni momento siamo sull’orlo d’un precipizio; e pare che una forza maligna ci spinga dentro, invochiamo Maria. Respice stellam, invoca Maria! Ella è terribile come un battaglione schierato in guerra. Iddio, incarnandosi, prese da Maria l’umana debolezza e donò a Lei in cambio la divina potenza della quale si prevale a favore dei suoi devoti. – Nell’inverno crudissimo, S. Ermanno pregava da lungo tempo, davanti alla Madonna. La Chiesa era deserta, ed egli tremava dal freddo e dalla fame. Povero fanciullo, non aveva calzatura sui piedini nudi, e non aveva sulle spalle tremanti fuor che uno sdrucito mantelletto. Solo aveva per riscaldarsi il fervore della sua preghiera. E la Madonna davanti a lui si mosse, s’irradiò di luce, e parlò: « Leva una pietra, che sotto v’è il denaro per comprarti un pezzo di pane e qualche vestito ». Il fanciullo ubbidì e trovò. Da quel giorno, qualunque volta ne abbisognasse, sotto quella pietra, trovò il danaro che occorrevagli. Quello che Maria ha fatto per un suo devoto, può farlo anche con noi. È tanto buona che non solo nei bisogni spirituali, ma anche in quelli materiali è pronta a soccorrerci. Se ci ha dato il suo Unigenito, ch’era la sua vita, tutto il suo amore, se ha lasciato che morisse in croce, purché noi fossimo salvi, che cosa ci potrà ancora negare? Ella è madre di bell’amore. Ego mater pulchræ dilectionis (Eccl., XXIV; 24). Ma se tale è l’amore di Maria, se più buona di così Dio non poteva crearla, guai all’uomo che non è attratto verso di Lei. Quando un’anima non sente più affetto e devozione verso la Madonna, quando il dolce nome di Maria più non lo muove, credetelo, il demonio è sicuro di una vittoria. – Nell’agosto del 1920, sul mare di Pola calava a picco il sommergibile «F 14». Quando i palombari, con un terribile lavoro di manovre, riuscirono a ripescarlo, si comprese che là dentro non c’erano che cadaveri. Ventisette: la morte aveva coperto quei volti di una maschera nerastra, sì che le vittime ebbero lo stesso aspetto, ma avevano avuto lo stesso puro e rassegnato coraggio. Solo dopo che furono riportate esanimi alla luce, e pienamente deterse, riapparvero le loro varie giovinezze, e il pallido viso. Dentro si trovò un foglio. « Mamma… ». La frase non fu compiuta. «Mamma! » In questo grido è racchiusa tutta la vita e tutta la morte d’un uomo. Oh in quell’ultimo istante, quando già l’asfissia anneriva il volto e dilaniava orribilmente le palpebre, l’immagine della mamma ignara lontana è apparsa davanti a ciascuno! Oh almeno la mamma fosse stata là a baciarli per l’ultima volta, ad aiutarli a morire!… Ma la madre terrena non può sempre essere accanto al suo figliuolo, né può vivere fin tanto che la sua creatura vive: spesso muore prima. – Ebbene, il Cristiano, conosce una Madre che non muore mai, che lo vede sempre, che sempre l’ascolta, che sta ai suoi fianchi sempre a rendergli meno triste la vita, e bella la morte, e felice l’eternità. Questa madre è la Madonna. – «Chi ha visto un granello di senape? è il più minuscolo di tutti i semi. Eppure lasciate che un contadino lo getti in terra buona: passano i giorni, passano i mesi ed ecco silenziosamente una lancetta verde occhieggiare su dal solco, e poi cresce e poi sale e poi ramifica e poi diventa il re di tutti i legumi, capace di ricoverare gli uccelli nel verde fresco delle sue foglie. Anche il lievito, gran cosa non è. Eppure, lasciate che una massaia ne prenda tanto quanto un pugno di bimbo, lo sciolga nell’acqua bollente, lo stemperi nella pasta nuova; saprà gonfiare anche tre staia di farina. Così avviene, — diceva alla gente Gesù — così avviene del Regno dei cieli, così la grazia si diffonde nei cuori: con questo silenzio, con questa umiltà ». – Al lievito, al grano di senape io nulla trovo di più somigliante che il buon esempio, sparso intorno con le opere e con le parole. Una parola buona sembra una cosa da nulla: è un debole suono che esce dai labbri e a fatica penetra negli orecchi. Ma lasciate che quella parola buona trovi la strada del cuore, saprà far meditare un’anima, farla piangere di pentimento, farla convertire. Ecco un giovanotto elegante, ricco, allegro che vive la vita spensierata: «Francesco — gli dice un giorno un amico — che cosa ti varrà il mondo intero se perdi l’anima? ». Questa parola gli cade in cuore come il seme di senape in terra; poco a poco mette radici, cresce, tutto lo invade. Quel giovane lascia il mondo, parte per le missioni, salva milioni di anime: è S. Francesco Saverio. Un gesto coraggioso; un’azione buona sembra una cosa da nulla: eppure talvolta bastano a trascinare al bene molte persone lontane dal Signore. Il padre di Luigi XV, a Strasburgo, durante la festa del Santissimo Sacramento, assiste alla processione in ginocchio e a mani giunte. In mezzo alla folla alcuni protestanti lo videro, ne furono commossi e si convertirono. Il buon esempio è simile a quell’altro seme, di cui è pure parola nel Vangelo, che un uomo getta nel campo. Poi se ne torna a casa: mangia, beve, dorme, lavora senza nessuna preoccupazione. Ma intanto quel seme da solo germina, cresce, fa la spiga e la granisce. Anche a nostra insaputa si estende l’influenza del buon esempio, si estenderà anche dopo la morte nostra. S. Maria Egiziaca era morta da molti anni quando un padre di famiglia dedito solo agli affari lesse un giorno la sua vita. Il buon esempio che quella santa diede al mondo con la sua conversione toccò ancora molti secoli dopo la sua morte il cuore d’un uomo che si convertì leggendo una vita della Santa, e divenne santo egli stesso: il Beato Colombini. Eppure sono molti i Cristiani che non diffondono intorno a sé il buon odore di Cristo, che non fermentano in bene la massa del prossimo tra cui vivono, che non fanno crescere il regno di Dio, ma lo isteriliscono come una pianta a cui manchi l’acqua e la luce: essi sono dominati dal rispetto umano. – Quando Federico Ozanam arrivò a Parigi per compiere gli studi universitari aveva diciotto anni. Non era incredulo, ma la sua anima era in crisi: nel frastuono della metropoli, in mezzo a studenti spassosi, con davanti agli occhi tanti spettacoli di corruzione, sentiva la fede materna illanguidire e tremare come la fiammella che sta per ispegnersi. Una sera entrò in una Chiesa della città e scorse in ginocchio in un angolo, un uomo, un vecchio, che fervorosamente recitava il santo Rosario. S’avvicina e nella incerta penombra lo riconosce: Ampére, il suo professore d’università. «Come? — pensa il giovane — Ampére inginocchiato come una donna? Lui, per la sua scienza famoso in tutto il mondo, con la corona in mano? ». Quella vista commuove fin nel profondo dell’anima; una segreta forza gli piega le ginocchia sul pavimento di marmo, lui pure si mette con le mani giunte accanto al gran maestro: le preghiere e le lagrime gli sgorgavano copiose dal cuore. Ormai non aveva più dubbi, non aveva più incertezze: era la piena vittoria della fede e dell’amor di Dio. « L’esempio d’Ampére — dirà poi frequentemente — su me ha fatto di più che tutti i libri e tutte le prediche ». L’influsso del buon esempio non si fermò in Ozanam, ma da lui passò in altri giovani, e da questi in altri ancora fino ai nostri tempi. La compagnia di San Vincenzo de’ Paoli con tutto il bene che compie, è ancora il frutto, che s’allarga sempre più, di quel primo buon esempio del professore Ampére. – Se in ogni famiglia ci fosse un padre che dà buon esempio, non perde mai la dottrina, non bestemmia, recita ogni sera devotamente il santo Rosario, io vi assicuro che in ogni famiglia vi sarebbero dei figliuoli d’oro. Ecco perché quando si convertì Zaccheo, Gesù ha detto: « Hodie salus domui huic facta est »(Lc., XIX, 9). Oggi abbiamo salvato tutta questa famiglia. Il Signore era persuaso che il buon esempio di quel padre, pronto a restituire quattro volte di più di quello che aveva rubato, sarebbe stato irresistibile anche per i figliuoli. Se in tutte le botteghe, se in tutte le officine ci fosse un padrone che dà buon esempio; che bella ripercussione non si avrebbe anche in tutti i dipendenti. Se tutti i servi, se tutti gli operai vedessero i loro padroni ogni festa alla Messa, ogni mese ai santi Sacramenti, certo che la Religione sarebbe più rispettata, certo che il regno di Dio nelle anime si svilupperebbe come il lievito nella farina, e come il granello di senape gettato in buona terra. Ecco perché quando il Regolo di Cafarnao credette nel Signore, tutti i suoi servi, i suoi soldati, i suoi parenti credettero. Credidit ipse et domus eius tota (Giov., IV, 53). – Perciò S. Girolamo scongiura i superiori a stare bene attenti, perché dalla loro condotta dipende la salvezza di molte anime. Perciò Gesù dal suo Vangelo ci dice di non essere carboni fumosi, ma lucerne ardenti che mostrano agli altri il modo di rendere gloria a Dio. – Eppure nel mondo sono più facili i mali esempi che i buoni: si ha vergogna del Vangelo. S. Paolo senza titubare poté dire in faccia a quei di Roma: «Io non ho mai arrossito della mia fede » (Rom., I, 16). Ma quanti sono i Cristiani che possono ripetere schiettamente la parola dell’Apostolo? Nel cuore dell’uomo facilmente si annida un microbo che guasta ogni più nobile affetto nel suo nascere: il microbo del rispetto umano. Se riesce ad acquistare padronanza, l’uomo diventa timido, irragionevole, e giunge a tanta viltà da tradire la propria coscienza. Ma è forse un delitto essere virtuosi perché si debba fare di nascosto ogni atto buono? Ci sono dei bravi giovani che sentono ripugnanza a mangiar di grasso in venerdì. Ma siccome tutti i compagni di lavoro, tutti i pensionanti dell’albergo non rispettano la legge della Chiesa, essi hanno vergogna e compromettono la loro anima. Ci sono degli uomini a cui piacerebbe iscriversi nella Confraternita del SS. Sacramento, fare un po’ di bene, acquistare molte indulgenze: ma hanno vergogna a portare l’abito, non vogliono mettersi in fila nelle processioni, temono che qualcuno li derida. Povere anime rovinate dalla paura di sembrar buone! – Là in quella casa, la conversazione della sera trascorre tutta nel fare strazio dell’onore altrui e si dicono anche cose indegne contro la Religione e i preti; fra tanta gente che ascolta, non manca una persona di sano criterio che vorrebbe insorgere, ma teme di riuscire sgradita a qualcuno e soffoca la parola in gola. Là in quell’ufficio, tutto il giorno è un parlare osceno, è un bestemmiare solo: costretta dal dovere, c’è anche qualche buona giovane. Vorrebbe levarsi in protesta a farla finita una benedetta volta, ma ha rispetto umano e finge con un sorriso di acconsentire. « In his omnibus apostasia est ». Qui c’è apostasia, esclama S. Cipriano. Parla e comanda il Signore e non lo si ascolta, il mondo fa un mezzo sorriso di scherno e subito si torce il collo dalla sua parte. Ma coloro che si fan vittima, per rispetto umano, di ogni diceria e di ogni giudizio della gente, che cosa s’aspettano poi dal mondo? Sentite. Molti secoli or sono l’Italia fu conquistata dall’esercito barbarico dei Goti con a capo re Teodorico. Il re e il suo popolo erano ariani. Orbene, un romano per acquistarsi simpatia e fiducia da Teodorico abiurò dalla Chiesa Cattolica e si fece ariano. Quando il re dei Goti seppe la cosa, se ne sdegnò fieramente e disse: « Costui che manca di fiducia al suo Dio, come potrà essere fedele al suo re, che è semplice uomo? ». E lo privò di ogni onore e lo scacciò dal suo palazzo. Così tratta il mondo quelli che, timidamente come conigli, lo servono, rinunciando a Dio, alla coscienza, alla ragione. Dopo di averli sfruttati, li disprezza e li getta via. – Si era saputo che anche Eufemia la giovane figlia di un senatore era cristiana. Neppure a lei si fece eccezione. Fu tradotta in tribunale e condannata a morire. La martire silenziosa e diritta stava in mezzo alla folla, davanti ai giudici, con gli occhi socchiusi come se di sotto le palpebre potesse già contemplare un mondo migliore. « Prendetela, legatela! » urlò il prefetto di tribunale a due soldatoni che gli stavano accanto. Quelli di scatto si precipitarono contro la vergine: come le furono vicini, si sentirono mutati e dissero: «Se la sua fede le dà tanta gioia a morire, non può essere che vera. Facciamoci anche noi Cristiani ». E si ricusarono di torcere un capello alla santa. Il giudice si sentì sconfitto da una fanciulla inerme. « Sòstenes! — gridò allora al centurione che aveva alla sua destra. — Sòstenes! gettala tu sopra la ruota dilaniatrice. E sia finita ». Anch’egli si avvicinò, ma anch’egli improvvisamente mutato da lei le chiese perdono e la forza d’imitarla. Poi col ferro sguainato si volse al giudice dicendo che più volentieri metterebbe quella lama nel suo petto che nel cuore di lei, la quale gli Angeli difendevano. Come S. Eufemia in mezzo al tribunale, così, o Cristiani, in mezzo al mondo faccia l’anima nostra. Che il profumo del buon esempio si diffonda dalle nostre azioni in tutti i giorni della vita, e chiunque ci avvicini, anche se in cuore è tristo, si allontani da noi edificato e col proposito di imitarci.

CREDO …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXIX1, 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

(Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.)

Secreta

Hæc nos oblátio, Deus, mundet, quǽsumus, et rénovet, gubérnet et prótegat.

(Questa nostra oblazione, chiediamo, o Dio, ci purifichi e rinnovi, ci governi e protegga.)

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI: 24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

(In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.)

Postcommunio

Orémus.
Cœléstibus, Dómine, pasti delíciis: quǽsumus; ut semper éadem, per quæ veráciter vívimus, appétimus.
(O Signore, nutriti del cibo celeste, concedici che aneliamo sempre a ciò con cui veramente viviamo.)

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (181)

Lo scudo 181

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XVIII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO TERZO

LA CHIESA

II. — I caratteri divini della Chiesa.

d) La Cattolicità della Chiesa.

D. Che cosa intendi per cattolicità?

R. Questa nota appartiene alla Chiesa secondo che essa è universale, vale a dire adattata a tutti gli uomini, fatta per tutti gli uomini, e, per questo, sciolta da ciò che limita, particolareggia e restringe in un genere qualunque il territorio di azione.

D. Non parli dunque di una universalità di fatto?

R. No, se non in desiderio o in speranza. La Chiesa fu sempre cattolica e non è sempre stata diffusa da per tutto; è lontana, anche oggi, dal raccogliere tutti gli uomini. Ma è universale di diritto. I suoi quadri sono del tutto pronti per ricevere l’umanità intera, per avvolgere le manifestazioni totali della sua vita, La vocazione universale degli uomini è di entrarvi, in tal modo che se non vi entrano e ciò sia per colpa loro, essi sono colpevoli riguardo ad essa e quindi ne fanno parte in certo modo, come transfughi. E se non è affatto per colpa loro, ma a cagione delle circostanze esterne o interne che non escludono punto il buon volere, essi ne fanno parte, perché il loro cuore ne fa parte, avessero pure sulle labbra delle negazioni, avessero pure nella bocca delle bestemmie.

D. Le ragioni della cattolicità sono le medesime che quelle della santità e dell’unità?

R. Esattamente le medesime. La Chiesa, non essendo che l’umanità organizzata in Dio per mezzo di Cristo, si trova essere cattolica per definizione: cattolica in estensione, facendone parte tutte le stirpi a titolo di aderenti o di candidati: cattolica in durata, non avendo i tempi altra missione che di render religiosa tutta l’umanità; cattolica in profondità, perché se ne trovano eliminati gli elementi umani che suscitano i particolarismi, siano essi etnici, nazionali, sessuali, intellettuali, politici, economici o mondani, senza dimenticare il particolarismo dell’io, sorgente delle religioni individualiste. La religione allora si dà pensiero esclusivamente del suo oggetto, che è di rilegare a Dio, Padre di tutti, e a Cristo, Figliuolo dell’Uomo, l’umanità e tutti i suoi membri vagheggiati nella loro unità, vale a dire nel loro fondo, dove non si spiega né si giustifica alcuna tendenza particolarista.

D. Tu ritorni sempre all’idea del germe universale, e alle proprietà di questo germe.

R. È vero. La cattolicità della Chiesa è anzitutto una proprietà; essa qualifica un organismo religioso operante al modo di un fermento, di un germe, potere universale riguardo alla materia che gli è sottomessa. Uno spermatozoo organizza l’animale intero; un po’ di lievito basta a una grossa massa di pasta; con un chicco di frumento si può, col tempo, coprire di semenza il mondo.

D. Il Vangelo non dice qualche cosa di simile?

R. Non faccio altro che riferire i suoi paragoni: Il regno de’ cieli sopra la terra è simile al lievito, che una donna prende e rimescola in tre staia di farina, finché sia levata tutta la massa. – Il regno di Dio è simile a un granellino di senapa, il più piccolo di tutti ì semi, che diventa un albero universale.

D. Il fatto dunque è la prova della proprietà di cui si parla.

R. Esso ne è in realtà la testimonianza. Volendo sapere se un grano è buono, lo si getta nella terra per vedere se germoglierà; ma non è necessario aspettare un grand’albero, e chi fosse dotato di una scienza perfetta si potrebbe contentare dell’analisi intima del granello. Qui, come abbiamo veduto, i due procedimenti si corroborano e i risultati concordano. La Chiesa ha tutto quello che occorre per un’opera universale, ed essa lo fa vedere.

D. Come lo fa vedere?

R. Adattandosi indifferentemente, nel corso della storia, a tutte le razze, a tutte le nazionalità, a tutte le forme intellettuali, a tutte le organizzazioni pratiche, a tutti i governi politici e sociali, a tutti i caratteri individuali, a tutti gli ambienti e a tutti i gradi che essi formano, a tutti gli stati di vita, purché siano rispettati i fini che essa si propone e i metodi indispensabili che li procurano.

D. La tua Chiesa non è forse orientale per la sua origine, romana per la sua costituzione e la sua sede?

R. La Palestina le prestò la sua culla, ma non ve la rinchiuse; Pietro e Paolo la misero subito al largo. Roma la servì, e noi vedremo in qual senso si chiama romana; ma non è affatto in senso restrittivo. Da Roma, come centro, la Chiesa irradia da per tutto. Essa è così poco orientale, che s’incorpora senza difficoltà lo spirito americano; è così poco occidentale, che si adatta al Giappone e lo conquista.

D. Non è particolarista in filosofia, col suo tomismo?

R. La Chiesa preconizza il tomismo, perché secondo il suo giudizio questo sistema di idee fondamentali è più favorevole al bene intellettuale dei credenti e si combina meglio col suo dogma. È la sua filosofia propria, come il canto fermo è la sua musica propria; ma essa non ne fa un obbligo universale più che non imponga il canto fermo ai nostri artisti contemporanei. S. Agostino era platonico; Fénelon era cartesiano; Malebranche aveva una sua filosofia propria; tutti e tre e una pleiade di altri, aderenti a sistemi diversi, professano intellettualmente come praticamente lo stesso Cristianesimo.

D. In politica, la Chiesa non sta per la monarchia?

R. Essa stessa è una monarchia; ma se la intende facilmente con le repubbliche, purché non si chiami repubblica un governo deliberatamente anticristiano.

D. In economia sociale e nella vita quotidiana, essa pare infeudata ai gruppi possidenti, ai potenti, ai padroni.

R. Come sarebbe ciò, quando essa stessa nacque povera, praticò ne’ suoi fervidi inizi il più stretto comunismo, fece sempre onore ai poveri per la loro « eminente dignità » e considerò la ricchezza quasi come una sventura? Fu detto del Cristianesimo che era una religione di poveri, e fu detto che desinava al castello: le due cose sono vere, come dello stesso Salvatore: è vero che era l’amico dei pastori e figurava alle nozze di Cana. Ciò significa che la Chiesa è tutta a tutti, a fine di salvarli tutti.

D. I sistemi sociali che favoriscono i piccoli non le sono sospetti?

R. I sistemi sociali appariscono tanto migliori alla Chiesa quanto più sposano le sue preoccupazioni universali. Ma coloro che più si dànno pensiero dei piccoli, come il socialismo, non mancherebbero del suo favore, se, rinunziando predicare una falsa dottrina di vita, a costituire una ribellione contro i rapporti più naturali degli uomini, e per giunta ad erigersi contro Dio, diventando così delle religioni a rovescio, consentissero a rinchiudersi nel loro oggetto: l’economia sociale.

D. Il tuo sacerdozio esclusivamente mascolino segna un particolarismo dei sessi.

R. Non si tratta punto di particolarismo, ma di divisione dei compiti e di adattamento di ciascuno al compito per il quale è riconosciuto più atto. Fin dal principio fu detto: Non vi è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né donna né uomo; perché voi siete una sola cosa in Gesù Cristo (S. Paolo). La testimonianza mistica di questo sentimento è la Vergine madre. In quanto alle sue testimonianze storiche, esse sono ricordate a sazietà. Ognuno sa che, se la donna ha nelle società moderne una situazione affatto nuova, una personalità morale riconosciuta, punto di partenza della sua emancipazione sociale, essa lo deve alla Chiesa e allo spirito nuovo che recava il suo Vangelo.

D. Il Vangelo non è la Chiesa.

R. Ho già detto che questa distinzione è fittizia. Quello che il Vangelo ha fatto, è la Chiesa che lo ha fatto. Quello che la Chiesa non avesse fatto sarebbe stato nel Vangelo allo stato di lettera morta; nulla di effettivo ne sarebbe uscito.

D. Che cosa intendevi di dire, eliminando dalla Chiesa « un particolarismo dell’io, padre delle religioni individualiste »?

R. Pensavo al protestantesimo, e a ogni dottrina che pretenda di partire dall’io per stabilire un sistema religioso senza radici sociali.

D. La religione non si rivolge all’io?

R. Essa non può partire di lì appunto perché si rivolge all’io. Bisogna che essa prima esista, che sia una vita, alla quale una individualità sarà chiamata ad aggiungersi. La Chiesa deve precedere l’individuo, e non l’individuo la Chiesa.

D. I protestanti non si trovano nello stesso vostro caso? Non hanno chiese in seno alle quali essi nascono religiosamente, che li formano, e che, dopo ciò, la loro libera volontà consacra?

R. Così è veramente, perché non può essere altrimenti; ma ciò contradice la dottrina protestante, e per conseguenza la giudica. I protestanti hanno delle chiese; anzi ne hanno troppe; e tutte sono di troppo, poiché non ce ne vuole che una; ma, secondo la loro teologia, queste Chiese sono formate dopo, per una iniziativa puramente umana, poiché la religione individuale prima esiste sola; di modo che queste Chiese procedono in realtà da un istinto gregario, o da fatti politici, senza nessun rapporto essenziale con l’atto di fede. Non è la religione che qui abbia l’iniziativa della socializzazione: dunque questa religione non è una religione umana, poiché l’uomo è un essere essenzialmente sociale, e più che mai, come lo abbiamo dovuto riconoscere, nel campo religioso. Dunque, finalmente, questa religione non può essere divina; non può rispondere all’incarnazione; essa divide il « Corpo di Cristo » in tante frazioni quanti sono gli uomini, o per dir meglio non lo forma affatto, e quindi non è propriamente cristiana.

D. Tu sei severo!

R. Io espongo una dottrina, che conserva un pieno rispetto alle persone. Dottrinalmente, sono obbligato a dire con Augusto Comte: «I protestanti non sanno che cosa sia una religione »; essi non sono una religione, poiché ignorano la sociabilità propriamente religiosa, non fondandosi religiosamente su una base sociale. Con ciò, ed è quello che volevo dire, essi presentano l’estremo opposto della cattolicità, cioè un individualismo stretto, antropologicamente falso, divinamente offensivo, poiché esso ignora il fiume di vita emanato dalla croce, la grazia sociale da cui ogni vita religiosa individuale procede.

D. Io non sapevo che foste così lontani gli uni dagli altri.

R. Intendimi! Quelli che noi chiamiamo nostri fratelli separati sono vicini a noi in molte cose; per la carità sono vicinissimi al nostro cuore; ma è un fatto che il loro allontanamento è al massimo in ciò che riguarda il concetto della Chiesa. Essi fanno parte di ciò che Bossuet chiama la « moltitudine confusa », nella quale ciascuno prende in se solo il suo pensiero e la sua parola d’ordine, in vece della «moltitudine ordinata», che un pensiero e un impulso venuti da più alto unificano e adunano. Ciò del resto apparirà meglio parlando dell’apostolicità.

e) L’apostolicità della Chiesa.

D. Che cosa è dunque questa apostolicità?

R. È un carattere che si attribuisce alla Chiesa per indicare che essa si riallaccia a Cristo con un vincolo di continuità ininterrotto, un vincolo visibile nello stesso tempo che spirituale, un vincolo sociale. Da ciò si vede, ben manifestato, quello che distingue il cattolico dal protestante, che intende di allacciarsi «a Cristo » direttamente, senza società intermedia, senza continuità visibile, a guisa degli apostoli senza dubbio, ma non per mezzo di loro e dei loro successori.

D. Come sì stabilisce per te la continuità?

R. Il suo punto di partenza è nella scelta dei dodici Apostoli, nella loro investitura come rappresentanti di Gesù, nella loro missione solenne e nella stabilità regolare della loro successione in ciò che riguarda l’autorità, della loro tradizione in ciò che riguarda l’insieme del gruppo. Al principio gli Apostoli sono la Chiesa; noi non possiamo essere oggi la Chiesa, la Chiesa visibile e vera società, senza allacciarci visibilmente e socialmente agli Apostoli. Sono i Dodici che tra Cristo e noi stabiliscono il passaggio. Essi saldano la catena. Sono il primo anello interamente umano. Se vi fosse una rottura; se tutta la catena non dipendesse dal primo anello, non dipenderebbe dunque nemmeno dal pezzo principale semidivino, semiumano che è Cristo; non dipenderebbe dunque da Dio. Siccome essa pretende di dipenderne, non bisogna meravigliarsi di veder chiamare, presso di noi, l’autorità centrale la Sede apostolica, e tutta la Chiesa rivendicare una nota di apostolicità senza la quale essa non sarebbe, autenticamente, questa sintesi del divino e dell’umano inaugurata in Cristo per questa incarnazione permanente, sociale, chiamata la Chiesa.

D. Tu vuoi, insomma, che tutta la tua Chiesa secolare non costituisca che una sola vita?

R. Il tuo pensiero, che è di fatto il nostro, si trova mirabilmente espresso in questa celebre frase di Pascal: « L’umanità è come un uomo unico, che sussiste sempre e impara continuamente », Un vivente è una continuità per evoluzione; l’umanità è una continuità per eredità; la Chiesa è una continuità per comunicazione e per tradizione. E nello stesso modo che il vivente individuale non può essere una continuità senza riallacciarsi vitalmente alla sua culla; nello stesso modo che il genere umano non può essere una continuità senza dipendere ereditariamente dai primi uomini: così la Chiesa non può essere una vita, una unità del genere umano in Dio, per Cristo, se non a patto che essa dipenda da Cristo e da Dio per il tramite dei primi Cristiani, che sono gli Apostoli.

D. Non dici tu che la tua Chiesa è al di sopra del tempo?

R. Anche un uomo è al di sopra del tempo per l’anima sua; ma egli è nel tempo, e l’anima sua con lui, per il suo corpo. Così la Chiesa è al di sopra del tempo per il suo Dio; ma tocca il tempo per il suo Cristo, e prolunga il contatto a mezzo degli Apostoli, poi a mezzo della successione apostolica e della tradizione, per le quali essa si estende verso l’avvenire.

D. Allora l’apostolicità non è una unità nel tempo?

R. Hai detto molto bene, ed è per questo che noi abbiamo intraveduto questa nozione parlando dell’unità stessa.

D. Tuttavia i protestanti pretendono di esser loro quelli che hanno la vera tradizione degli Apostoli.

R. Essi ciò intendono della dottrina, e io ho detto quello che vale questa pretensione. Ma supponendo che i protestanti e non noi, fossero in possesso della dottrina degli Apostoli ciò proverrebbe senza dubbio che noi non siamo apostolici ma non potrebbe provare che lo siano essi. È questa una condizione necessaria, ma non sufficiente. Professare la dottrina di qualcuno, professarla per conto proprio, sotto la propria responsabilità esclusiva, ciò non significa essere in continuità sociale con lui. La vita sociale ha altre esigenze; è una vita collettiva una vita organizzata, che importa la comunanza dei beni, sotto un’autorità che rappresenta la finalità sociale e la serve. Ora, per il protestante, propriamente parlando, non vi è vita sociale cristiana; non autorità centrale; non sacerdozio propriamente detto; non funzione religiosa veramente collettiva; tutto questo non è che minimato, se pure non è eliminato. Allora come parlare di apostolicità nel senso profondo e pieno che importa la teologia cattolica?

D. Non basta forse a se stesso il Cristiano che apre l’anima sua al cielo?

R. Il protestante che apre l’anima sua Dio crede di bastare a se stesso, almeno con la sua Bibbia, e almeno teoricamente; perché di fatto, come abbiamo veduto, egli si affida ad un gruppo, e siccome questo gruppo è privo di attacchi autentici con l’origine della vita che esso crede di trasmettere, si affida al caso. Ma il Cattolico, alla sua volta, non si crede sotto il Cielo e in relazione autentica col cielo se non a patto di essere nel gruppo organizzato che Dio anima, che Dio ha stabilito appunto per questo, che è l’effetto della sua incarnazione temporale e la prolunga attraverso alle età. È possibile, accidentalmente, che uno si attacchi a Dio senza ricorrere alla Chiesa visibile, come diremo più tardi, e già abbiamo suggerito più volte; ma non si tratta qui dell’accidente; noi definiamo il piano, l’ordine normale delle cose, e io constato che nel protestantesimo quest’ordine è distrutto.

D. Gli rimangono Dio e Cristo.

R. Sì, ma contradetti in tutti i loro pensieri, in tutti i loro disegni. Il Dio dei protestanti è individualista; il loro Cristo è un personaggio lontano, al quale essi non sono rilegati se non per mezzo di un libro. E in queste condizioni, i loro apostoli per essi non sono altro che dei protestanti prima del protestantesimo, degli isolati gli uni per rapporto agli altri, degli isolati per rapporto a noi, che siamo altresì degli isolati. Ciò, invece della grande effusione di vita, invece della stretta comunità che, nel concetto cattolico, avvolge i tempi e i luoghi nel suo amplesso immenso.

D. « La persona eterna» di Pascal sembra di fatto un più grande pensiero.

R. Trasferito al soprannaturale, è il pensiero della Chiesa Apostolica.

f) La Chiesa Romana

D. Avevi annunziato degli schiarimenti relativamente alla Chiesa romana.

R. Lo schiarimento essenziale consiste nel dire questo: Chiesa romana e Chiesa apostolica sono tutt’uno.

D. Allora perché queste due parole?

R. L’espressione Chiesa romana vuole indicare che la Chiesa, che si connette agli Apostoli il capo dei quali era Pietro, Vescovo di Roma, ha dunque per capo, nel corso delle età, il successore di Pietro, Vescovo di Roma.

D. È una concentrazione dell’apostolicità?

R. Si tratta di fatto di richiamare l’apostolicità al suo centro. Per connettere la Chiesa attuale al gruppo primitivo che servì di embrione alla Chiesa, non bisogna forse connetterlo al centro dell’unità di questo gruppo rappresentato da Simon Pietro?

D. Simon Pietro non fu sempre Vescovo di Roma?

R. Egli fissò per sempre il centro spirituale del mondo appunto diventando Vescovo di Roma.

D. Il centro spirituale del mondo non è a Gerusalemme, là dove fu piantata la croce?

R. Gerusalemme, città d’Oriente, città del passato religioso degli uomini, fu il punto di partenza delle sacre iniziative; ma non ne è il centro. All’oriente il sole spunta; ma al mezzogiorno si affermano la perseveranza del giorno, la distribuzione regolare delle chiarezze, la potenza di avvolgimento luminoso e la regolazione della vita sopra la terra. Roma è il mezzogiorno del sole Cristiano.

D. Perché Roma?

R. Qui non possiamo far altro che seguire la Provvidenza; le nostre ragioni non pretendono di reggerla. Ma si può osservare che Roma, nel momento che nacque la Chiesa, era per il mondo quello che Pietro era per la Chiesa; Roma era un centro di vita; e come la Città per eccellenza, Urbs, irradiava da per tutto e lanciava le proclamazioni de’ suoi padroni Urbi et Orbi: così nello spirituale, il capo della Chiesa. Questo era antecedentemente figurato da quello e da quello doveva essere servito. La Chiesa, collocata nel cuore del mondo dove essa nasceva, per esercitare subito il suo compito universale, non avrebbe che da seguire le pulsazioni di questo cuore, lanciare come esso, per tutti canali geografici e amministrativi secolarmente preparati, il suo sangue e l’anima sua. È quello che Bossuet descrisse così magnificamente nel suo Discorso sulla Storia universale.

D. Bisogna confessare che è un bell’incontro; ma era necessario?

R. Non era affatto necessario; il cattolicismo avrebbe potuto stabilirsi altrimenti e altrove. Ma Dio si serve naturalmente degli strumenti preparati dalla sua Provvidenza. L’opera dell’incivilimento temporale e l’opera religiosa sono fatte per unirsi: Dio aiuta l’una con l’altra.

D. Roma aiutò la Chiesa; ma che cosa ha fatto la Chiesa per Roma?

R. Se Roma esercita ancora oggi quell’attrazione che fa di essa non la città italiana, ma una città mondiale, godendo della frequenza è dell’ammirazione di un plebiscito universale, e chi lo deve? Le grandi vinte della storia: Memfi, Tebe, Ninive, Babilonia, Atene stessa perirono o si atrofizzarono. In grazia della Rocca evangelica, Roma si sollevò più in alto; salì al mondo dello Spirito e vi rimane. Lo scettro della croce le sarà stato più profittevole che le aquile. Essa aveva conquistato con le armi le rive ammirabili e fertili, ma strette, dopo tutto, del Mediterraneo: per lo Spirito essa conquistò il mondo lontano; entrò in comunicazione coi mondi. E quello che essa aveva perduto alla prima coalizione dei popoli contro di sé, una volta trasferita nel soprannaturale da Cefa, le viene acquistato per sempre.

D. All’inizio, era ben marcato il legame tra il Vescovo di Roma e gli altri pastori di chiese?

R. Era molto debole, e ne dico la ragione generale: l’embrione non è l’uomo. Come ragione particolare, vi è questo che il governo apostolico dava a ciascuno di quelli che avevano goduto del contatto personale di Gesù, che avevano udito le sue parole, una specie di compito universale analogo a quello di Gesù stesso. Una Chiesa che aveva alla sua testa uno dei Dodici si sentiva al sicuro da ogni deviazione. Ora questo governo durò qualche tempo ancora, nei successori immediati che approfittavano ancora delle abitudini acquisite. Il ricorso a Roma, difficile in quel tempo, non sembrava indispensabile. Se ne trovano tuttavia numerose tracce; ma relativamente deboli, e bisognava aspettarselo.

D. Come si fa la transizione?

R. Il potere degli altri vescovi diventa più ristretto alle loro chiese, più locale; quello del vescovo di Roma si universalizza in proporzione, con l’intento di soddisfare i bisogni nuovi di una crescente unità e di una complicazione funzionale che richiede un concentramento più forte.

D. E quando si compie questo concentramento?

R. Nel Concilio Vaticano, con la proclamazione dell’infallibilità personale del Papa e della sua indipendenza dai concili.

D. Non è questo un eccesso?

R. È l’accettazione letterale del testo che ti ho già citato: Tu sei Pietro, e sopra questa pietra io edificherò la mia Chiesa.

D. Ma il dare a Roma un tale primato non era un italianizzare la Chiesa universale?

R. Era un universalizzarla maggiormente, riconducendo all’oceano, dove la barca di Pietro si avanza, i fiumi che si attardavano nelle pianure nazionali.

D. Sembra che vi fossero degli abusi.

E. Ve ne sono sempre; ma un’istituzione secolare non si giudica secondo la misura di minuscoli incidenti.

D. E come interpreti i recenti accomodamenti tra la Roma civile e la Roma apostolica?

E. Non vi fu maggiore avvenimento dopo Pipino il Breve e dopo Costantino. Il Cesare aveva dato alla Chiesa il suo statuto sociale. Il figlio di Carlo Martello, facendo il Papa sovrano, garantiva l’indipendenza dello spirituale in un mondo politico movimentato; ma, in cambio, aggravava il potere religioso delle cure temporali che non tornavano sempre a suo vantaggio. Per il recente accordo, il grave pondo è rigettato, e rimane la garanzia spirituale, fondata oramai sull’accettazione spirituale delle anime e dei popoli.

IL SEGNO DELLA CROCE (13)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (13)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA DECIMASECONDA.

7 dicembre.

Necessità continua del segno della croce per ottenere la forza . — Esortazione e pratica  dei capi della lotta spirituale. — Il segno della croce nelle tentazioni. — Il segna della croce nella morte. — Esempio de’ martiri. — Esempio di veri Cristiani morenti di morte naturale. — Moribondi che li fanno segnare da’ loro fratelli.

Mio caro Federico

Il segno della croce nulla ha perduto della sua forza, e della sua necessità. È vero: i tiranni sono morti, e gli anfiteatri cadono in ruina, il segno della croce ha trionfato degli uni e degli altri; ma se i secondi non più si levano dalle loro ruine, i primi, di tanto in tanto, sortono dalle loro tombe. La razza de’ Neroni non sarà giammai estinta, e la più terribile deve ancora venire! Con un furore antico, quelli, che sono apparsi dipoi i Cesari, hanno decimato i Cristiani; quest’altra razza parimente immortale, è razza consacrata alla morte, come dice Tertulliano, expeditum morti genus. Quanto hanno fatto ieri in Occidente, e quello che fanno oggi in Oriente, potranno farlo dimani dapertutto dove comandano. Avviso a’ combattenti: niuno dimentichi ove trovasi la sorgente della forza! Attendendo, ricorda, caro amico, che la pace ancora ha i suoi martiri, habet et pax martyres suos. Qual è l’uomo che non ha uno, o più Neroni? V’ha un giorno della sua vita ragionevole, e ancora un’ora, in cui egli non debba vegliare, o combattere? Che dico? venti volte al giorno degli oggetti seducenti si presentano ai suoi sguardi, de’ pensieri non buoni importunano il suo spirito, i sensi in rivolta solleticano il suo cuore a vili tradimenti. Oh! che egli ha bisogno di forza! Dove la troverà? Nel segno della croce. – La testimonianza de’ secoli, l’esperienza de’ veterani e de’ coscritti della virtù, attestano oggi, come ieri, il sovrano potere del segno divino, per dissipare gl’incanti seduttori, scacciare i pravi pensieri e reprimere i movimenti della concupiscenza. Ascolta il poeta de’ martiri, Prudenzio, che conobbe ad un tempo i dettagli de’ loro trionfi ed il segreto delle loro vittorie. « Quando all’invito del sonno tu cerchi il casto letto, segna della croce la tua fronte ed il tuo cuore. La croce ti preserverà d’ogni peccato: le potenze infernali fuggono al suo cospetto; l’anima santificata per essa, non sa vacillare » (Fac cum vocante somno Castum petis cubile, Frontera locumque cordis Crucis figura signet; Crux pellet omne crimen, Fugiunt crucem tenebra;. Tali dicata signo Mens fluctuare nescit.  – Àpud S. Greg. Turón, lib. I Miracul c. 106).Ascolta ancora il capo della eterna battaglia. I grandi geni e gran santi peritissimi dell’arte della guerra spirituale, che si chiama ascetismo, tutti non hanno che una sola voce per esortare i soldati cristiani all’uso del segno della croce. « Senti il tuo cuore infiammarsi ? dice san Giovanni Grisostomo: fa il segno della croce sul petto, e all’istante istesso la collera si dissiperà al pari del fumo» (Si succendi cor tuum senseris, pectus continuo signaculo crucis signato, et ira illieo tamquam pulvis dissipabitur. – S. Joan. Chris. Homil. 88 in Matth.). E sant’Agostino: « Amalec vostro nemico, cerca di sbarrarvi la strada e d’impedirvi l’Avanzare?Fate il segno della croce, sarà vinto » (Si adversarius Amalecita iter intercludere atque impedire conabitur, pro reverentissima extensione brachiorum ejusdem crucis indicio superetur. – S. August. Homil, 20, lib. 50, Homil.). Ed il gran servo di Dio, Marco, che predice all’imperatore Leone l’ora della morte. « Per propria esperienza conosco come siffatto segno dissipi le interne guerre, e produca la sanità dell’anima. Immediatamente dopo il segno della croce la grazia opera: tutto si calma » (Statim post Signum crucis gratia sic operatur: sedat omnia membra pariter et cor. – Biblioth. PP. tom. V.). San Massimo di Torino: «Dal segno della croce noi dobbiamo attendere la guarigione delle nostre ferite. Se il veleno dell’avarizia si sparge nelle nostre vene, facciamo il segno della croce, ed il veleno sarà cacciato. Se lo scorpione della voluttà ci punge, facciamo ricorso allo stesso mezzo, e noi guariremo. Se gl’immondi pensieri della terra cercano insozzarci, facciamo il segno della croce, e noi vivremo vita divina » (Apud S. Ambros. Semi. 55.). San Bernardo: « chi è l’uomo si padrone de’ suoi pensieri da non averne d’impuri? Ma son da reprimere i loro attacchi, e tosto, per vincere l’inimico là dov’egli sperava trionfare; l’infallibile mezzo per riuscirvi è fare il segno della croce » (De passione Dom. c. XIX, ti. 65). San Pier Damiano: « Se per caso sperimentate che un pensiero non buono sorga nel vostro spirito, operate col pollice il segno della croce, e siate certi che tosto svanirà » (Institut. Monast.). Il pio Teberth:  Niente v’ha di più efficace, che il segno della croce, per dissipare le tentazioni per quanto siano disonorevoli » (lib. viar. Domin, c. XXIJ.).  Riassumiamo tutte queste testimonianze: « Qualsiasi la tentazione, che ci appena, conchiude san Gregorio di Tours, noi dobbiamo respingerla. Epperò fate, non vigliaccamente ma con coraggio il segno della croce o sulla vostra fronte, o sul vostro petto » (Viriliter et non tepide Signum vel fronti, vel pectori salutare superponas. (S. Greg. Tur. ubi supr).  – Se fosse mestieri confermare con la storia quanto tu leggi, mille fatti lo confermerebbero. Un solo basti. È la rivelazione di che fu favorito un santo monaco a nome Patroclo, con la quale Iddio gli manifestò la potenza sovrana di questo segno contro le tentazioni.  Un dì il demonio trasformandosi in angelo di luce si mostrò al venerabile abate, e con parole d’ogni maniera di astuzia gli consigliava lasciare la solitudine e tornare al mondo. L’uomo di Dio sentendosi correre per le vene come un fuoco, si prostese sul suolo e pregò il Signore, perché eseguita fosse la sua volontà. La preghiera è accolta. Un Angelo gli appare, e siffattamente gli parla: Se tu vuoi conoscere il mondo, ascendi questa colonna e tu saprai quel che si sia. Rapito in estasi il pio solitario crede avere dinanzi a sé una colonna di prodigiosa altezza, e l’ascende. Dal sommo di essa vede omicidi, furti, massacri, fornicazioni e tutti i delitti del mondo. Ah! esclama, Signore non permettete che io torni in un luogo di tante abominazioni. E l’Angelo a lui: Cessa adunque dal desiderare il mondo, per non perire con lui; invece corri nel tuo oratorio, prega il Signore che ti dia con che sostenerti nel mezzo delle prove del tuo pellegrinaggio. Detto, fatto: trovò un segno di croce scolpito in un mattone, e tosto comprese il dono di Dio, e che questo segno è inespugnabile fortezza contro le tentazioni (Greg. Turon, Vita Patr., c. 9). – Un martire della guerra, o un martire della pace: ecco l’uomo lungo il corso della vita. Ed alla morte che cosa è egli? Vedi questo infermo in preda al dolore ed abbandonato dal mondo, circondato da’ soli parenti ed amici impotenti a soccorrerlo? Per lo passato il tempo che fugge; per l’avvenire, l’eternità che si avanza, in cui sentasi trascinato, senza che alcuna potenza umana possa ritardare il momento della partenza, e addolcire le agonie del viaggio.  Questo malato, sei tu, mio caro, sono io, è ogni uomo ricco o povero che sia, suddito o monarca. Se lungo le guerre della vita noi abbiamo bisogno di lume, di forza, di consolazione e di speranza, dimmi, se un tal bisogno non cresce di mille tanti nelle lotte decisive della morte? E bene, il segno della croce opera tutto ciò. Per questa nuova considerazione desso fu caro a’ nostri avi, e dev’esserlo ancora a noi. Come i martiri andando all’ultima battaglia non mancavano di fortificarsi col segno della croce, cosi i veri Cristiani de’ secoli passati facevano ricorso a questo medesimo segno, per addolcire i dolori e santificare la loro morte: citiamo qualche esempio.  – Parlando della sua diletta sorella, santa Macrina, ch’egli stesso assistè negli estremi momenti della vita, san Gregorio Nisseno così si esprime: « Ella dicea: Signore, per mettere in fuga l’inimico, e proteggere la loro vita, voi avete dato a quelli, che vi temono, il segno della croce. E pronunziando tali parole ella formava il segno adorabile sopra i suoi occhi, le labbra ed il cuore » (Vita di S. Macrina). I primi Cristiani alcune volte invece di fare il segno della croce con la mano sul punto di morire, lo facevano distendendo le braccia, e ciò appellavano il sacrifizio della sera, sacrifìcium vespertinum. A questo modo di fare il segno della croce Arnobio applica le parole del Salmista: L’elevazione delle mani è il mio sacrifizio della sera. Egli dice, che tale sia il nostro sacrifizio della sera, voglio dire della sera della vita, quando tutta la nostra attenzione è da porre ad elevare le nostre mani in croce, per consolarci nel Signore, nel momento, che corriamo a lui (Tunc enim in sacrificio vespertino sumus. Ibi est tota nostra cogitationis ponenda intentio, ut levantes manus nostras, in signo crucis, dum ad Dominum pergimus, gratulemur in Christo Jesu. – In Ps. CXL).  – In pari attitudine mori Paolo il patriarca del deserto, come lo trovò Antonio (Introgressus speluncam, vidit gcnibus complicatis, erecta cervice, extensisque in altum manibus, corpus exanime – S. Hieron. De Vita S. Pauli). Né altrimenti san Pacomio: « Essendo sul punto di morire, scrive lo scrittore della sua vita, egli si armò del segno della croce, vide con grande gioia un angelo di luce venire a lui, e rese la sua santa anima a Dio »(4(4) Vita di S. Pacomio. c. 53). Della stessa maniera morì santo Ambrogio. « L’ultimo giorno di sua vita, scrive il prete Paolino, da poi circa l’undecima ora, fino a che egli rese l’anima, pregò con le mani distese in croce » (Eodem tempore quo migravit ad Dominum, ab hora circiter undecima diei, usque ad illam horam qua emisit spirituni). – Da Milano passiamo a Costantinopoli. Ecco un altro Vescovo che muore. Santo Eutichio, dice il suo istoriografo, fu preso da violenta febbre verso la metà della notte, e restò per ben sette giorni in tale stato, non cessando di pregare e di fortificarsi col segno della croce (Apud Sur. 2. Iul.).  Compiamo il nostro viaggio in Francia ed assistiamo alla morte di qualche nostro re. Arrestiamoci ad Aix-la-Chapelle per vedervi morire il grande imperatore: L’indomani giunto, dice un Vescovo testimone oculare, Carlo Magno sapendo quel che dovesse fare distese la destra e come poté, si segnò la fronte, il petto e tutto il corpo (Thegan. De Gestis. Ludov. Imper.). Tale dovea essere la morte di questo grande uomo. E suo figlio Luigi il Pio, disposti gli affari, ordinò che si recitasse presso di lui l’uffizio della notte, e che sul suo petto si mettesse una reliquia della croce, e lungo questo tempo, come le forze glielo permettevano, egli faceva il segno della croce sulla fronte e sul petto, e quando era stanco pregava il fratello di continuare (Apud Gretzer, lib. IV, c. 26, p. 618).  – Veniamo ad uno de’ suoi più degni successori, il buon re Roberto. Negli ultimi giorni di sua vita, egli non rifiniva dall’implorare il soccorso de’ santi del cielo col gesto e con la voce; si fortificava col segno della croce sulla fronte, su gli occhi, sulle narici e le labbra, sulla gola e gli orecchi, in memoria della Incarnazione, della Natività, della Passione, Risurrezione, dell’Ascensione del Signore, e della venuta dello Spirito Santo. Una tale consuetudine era stata conservata da questo principe in tutta la sua vita, e giammai trasandò d’aver con lui dell’acqua benedetta (Helgald. in Epitom. vit. Robert.). Citiamo ancora Luigi il Grosso. Vedendosi presso a morte, fece stendere un tappeto sulla terra, e sopra di esso spargere della cenere in forma di croce, e fattosi deporre da’ suoi uffiziali su di questo letto di morte, che gli ricordava quello del re del Calvario, il virtuoso monarca non cessò di fare il segno della croce fino all’ultimo respiro (Elevata aliquantulum manu omnes benedixit, rogavitque adstantes episcopo!, u t sanctissimis suis manibus cum crucis signo communirent. Apud Sur. 25 Maii).  Per un re morire come un Dio v’ha forse qualche cosa che disonori? Quel che disonora è morire senza comprendere la morte, morire con la insensibilità delle bestie.  Tu hai visto i martiri pregare i loro fratelli di segnarli del segno della croce innanzi morissero, se da per sé non lo potessero eseguire; ora i nostri avi facevano del pari morendo di morte naturale. Oltre l’esempio di Luigi Debonnaire che tu hai letto; voglio ricordartene qualche  altro de’ primi secoli, dessi mostrano la continuazione della tradizione. – San Zenobio, amicissimo di santo Ambrogio, sul punto di terminar la sua vita con una morte preziosa, elevò le mani e fece il segno della croce su quanti lo circondavano; quindi pregò i Vescovi di fare sopra di lui con le mani consacrate il segno della forza, della speranza e della salute (S. Elig. De rectitud. catech. etc. inter opp. S. August. tom. VI). – Dal letto di un prete passiamo al talamo di un semplice fedele. Una giovane con rispettoso affetto assiste la tenera ed illustre madre. Oggi quasi tutti usano prestare a’ loro più cari infermi delle cure materiali, si farebbero coscienza di trasandare la minima prescrizione del medico, ma l’assistenza cristiana? le prescrizioni del divin medico, e della Chiesa nostra madre? qual è la loro sollecitudine a compierle? I nostri avi più intelligenti e migliori di noi a queste cure univano quelle dell’anima. A Betlemme l’illustre figlia de’ Fabii muore. Presso del letto è Eustachio degna figlia di tal madre. Che cosa fa quest’angelo di tenerezza? « Dessa non cessa, dice san Girolamo, dal fare il segno della croce sulle labbra e sul petto di sua madre, studiando di addolcire le sue sofferenze con l’impressione del segno consolatore » (Eustochium Paulæ matris os stomachumque signabat, et matris dolorem crucis impressione nitebatur lenire. – S. Hier. in Epitaph. Paulae). – Tu il vedi: nella vita ed alla morte il segno della croce era presso i nostri avi il mezzo costantemente usato per ottenere a sé ed agli altri lume, forza, rassegnazione, coraggio e speranza. Il segno della croce è dunque gran cosa! esclamava un testimone di questi ammirabili effetti: Magna res signum crucis (Apud Sur. 10 Aug.)! Dimani noi vedremo la sua efficacia in un nuovo ordine di cose.

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (6)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (6)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G. NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO SESTO

ARGOMENTO

Illusione lagrimevole. L’istinto e la ragione riguardo alla sensualità. Tre gradi di corruttela. Il Paganesimo servì alla concupiscenza e l’adorò. Cristo francò il mondo da quella tirannide. La Vergine, la Sposa, la Madre: dignità conferita alla donna nel Cristianesimo. V’è onestà nel mondo, ma non è del mondo. Questo paganeggia nelle cose di costume. Segni che se ne hanno: un orrendo che se n’ebbe.

1. Una delle più compassionevoli nostre illusioni è il crederci non rade volte liberi, indipendenti, padroni assoluti di noi medesimi, quando gemiamo anzi in ischiavitudine tanto più lacrimabile, quanto meno avvertita. Mi pare di averlovi accennato altra volta; ma non vi gravi che vel ripeta, parendomi questa opportunissima somiglianza al mio proposito. Noi rendiamo allora immagine di un disgraziato, il quale, rinchiuso in prigione, costretto di ceppi, per farnetico che gli abbia preso il cervello, si creda essere un qualche gran fatto, un Principe, un Re, un Imperatore. Voi non sapreste dire se quel poveretto sia più a compassionare per la perdita della libertà, o del senno. Anzi vi dovrebbe parere questa seconda tanto più deplorabile dell’altra, quanto che per essa la persona perde l’uso della miglior parte di sé; laddove per la prima, gli si possono bene impedire alcune azioni esteriori, ma l’uso delle interne facoltà dell’anima gli resta sciolto ed intero: e può restargli nei ceppi più sciolto e più intero, che molti Re ed Imperatori sui medesimi loro troni non hanno. Or questa fu appunto la condizione dell’uomo pagano, il quale, separatosi da Dio e sconosciuto sé stesso, s’avvisò di essere signore assoluto di sé medesimo; ma ne fu punito, secondo la legge universale che fa servo il ribelle, coll’essere fatto schiavo. Né intendo già parlare della schiavitù propriamente detta, snaturata vergogna, da cui Cristo solo poté tergere la terra : quella fu condizione del massimo numero dei mortali nel Paganesimo, non fu di tutti. Parlo della schiavitù agli oggetti corporei, in cui gemea universalmente il Paganesimo: e più forse in esso quei pretesi Grandi, che si credevano padroni del mondo, in quella appunto, che servivano miseramente ad una voglia impura, ad un capriccio di orgoglio, ad una cupidità insensata e crudele. Voi lo vedeste nello alterarsene le relazioni dell’uomo colla sensibile natura, di cui divenne l’uman genere mancipio, quando pure era stato ordinato ad esserne signore. – Fia pregio dell’opera considerare quella servile condizione del Paganesimo a rispetto di due maniere di forze, che incatenarono ed oppressero l’uomo nella sua doppia qualità di persona individua, e di membro di consorzio civile, di popolo o nazione che vogliate chiamarla. E nel primo modo l’uomo servì alle forze sensuali; nel secondo servì alle forze sociali: ma nell’uno e nell’altro caso fu sempre servo della forza, colla pretensione per soprassetto di essere libero, quando si ravvolgeva come immondo animale nelle proprie sozzure, ovvero se medesimo immolava all’idolo vorace ed ampolloso, in cui il Paganesimo avea fatto degenerare l’amore della patria. Due subbietti sono questi, i quali per la loro ampiezza e rilevanza, vogliono essere trattati in due distinti discorsi; ed io, serbando a domani il secondo, mi tratterrò oggi nel primo. Pel quale intendo mostrarvi, come vergognosamente il mondo pagano servisse alla sensualità, e come Cristo lo līberasse da quel servaggio, recando ai mortali lume e forza bastevole a dominare regalmente, coi santi pensieri e coi casti affetti, quelle propensioni gagliardissime, le quali, inserite nell’uomo dall’Autore medesimo della natura, sono per la libera creatura il campo forse più fecondo di trionfi nobilissimi e d’ignominiose sconfitte. Intendo che di questo maledetto vizio, soprattutto quale fu in voga presso gli antichi, non si vorrebbe ascoltare neppure il nome in adunanza cristiana, essendo tal pece, che eziandio chi voglia tergerne altrui corre rischio di restarne imbrattato. Tuttavolta essendo non pure utile, ma necessario, che se ne favelli alcuna volta, io mi studierò di farlo per guisa, che eziandio i più schivi orecchi non ne abbiano a portare offesa, quanto che piccolissima. Incomincio.

II. E notate innanzi tratto onde si origini nell’uomo quella contraddizione con sé medesimo, per cui da una parte esso è sospinto con prepotente gagliardia alle opere del senso; da un’altra n’è ritratto con più tranquilla e riposata forza, la quale per questo appunto riesce molto spesso meno efficace. Io non farò, che esporvi in breve la dottrina di san Tommaso sopra questo punto. – Essendo la conservazione della specie un bene senza comparazione più rilevante, che non è quella degl’individui; a quella mira sempre la natura direttamente e per sé, ed a questi non mira che indirettamente e quasi per accidente. Pertanto se alla conservazione degl’individui fu provveduto colla propensione al cibo, pensate con quanto maggiore dovess’essere provveduto alla con servazione della specie, dovea essere tanto più gagliarda, quanto era più rilevante il bene, che per essa si voleva assicurato. Quindi in tutti gli animali furono inseriti gl’istinti che conducono alle opere richieste pel mantenimento dell’individuo e delle specie. Ma, oltre alla diversa loro intensità, è altresì diversa la maniera, onde quegl’istinti trovansi negli uomini e nei bruti animali. – In questi l’istinto è governato da una intelligenza, di cui essi non hanno né conoscenza né coscienza; e così senza poterne avere merito di sorta, in loro quegl’istinti non trasmodano mai fuori le norme, onde sono condotti, le quali finalmente sono le norme stabilite dalla Provvidenza. Il perché voi non vedete mai, che le bestie colgano, pel troppo bere o mangiare, ubriachezze, indigestioni ed altre cotali infermità che da quelle şi derivano; se non fossero di quelle bestie, le quali, introdotte in certa guisa nel consorzio civile, sogliono partecipare, come molti pregi, così alcune incomodità ed alcuni difetti della nostra cultura. Ma in generale i bruti animali non disordinano mai nel seguitare i proprii istinti. – Tutto diversamente fu ordinato per l’uomo. Anch’esso dovea avere norma e regola per gl’istinti animaleschi; ma perché questa norma potesse farsi radice di merito e di guiderdone, dovette essere liberamente assentita dall’operante ragionevole; ed alla libertà dell’assenso dovette di necessità prelucere la cognizione intellettiva della norma stessa. In somma gl’istinti hanno sempre uopo di regola: nei bruti l’hanno dalla ragione universale, che la imprime in essi necessaria; negli uomini debbono averla dalla ragione individuale, che la vede coll’intelletto, e vi aderisce colla libertà dell’arbitrio. Ora chi dice regola, dice per necessità limitazione, costringimento, disciplinata direzione di forze, le quali per sé medesime esorbiterebbero all’impazzata con proprio danno ed altrui. Né in altra maniera potreste dare regola ad un fiume, che arginandone la piena, costringendola a scorrere stretta tra limiti; senza i quali strariperebbe, dilagherebbe, perdendo perfino l’essere, il nome e la sembianza di fiume. Un tale costringimento poi negli esseri irragionevoli non reca ripugnanza o contraddizione di sorta; in quanto in essi l’istinto e la sua regola sono radicati nella medesima necessità naturale, e procedono dallo stesso principio. Di qualità che una fiera selvaggia, come è sospinta all’esca, quand’è affamata; così ne è ritratta indeliberatamente quand’è satolla: ed il sopraccaricarsi di cibo le è ugualmente ripugnante, che l’astenersene. – Per converso nell’uomo l’istinto e la regola, procedendo da diversi principii, quali sono la sensualità e la ragione, si trovano bene spesso in contraddizione tra loro; e lo scapestrare sbrigliato del senso non può avere costringimento e direzione, che dal rifrenarlo che dee fare la ragione. Dalla quale teorica di san Tommaso è spiegata ottimamente quella doppia legge, che san Paolo scorgeva e lamentava in sé medesimo, chiamando l’una legge delle membra, e legge della mente o della ragione l’altra, aggiungendo di sperimentarle in perenne ripugnanza fra loro. Video aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meæ (Rom. VII, 23). La legge delle membra è appunto l’istinto, il quale in noi è sgovernato, sconfinato, cieco, violento, smisurato, in quanto non ha altro motivo di gettarsi sul proprio obbietto, se non il trovare soddisfazione in quell’obbietto stesso. La legge della mente è la ragione, è la sinderesi, è il dettame della coscienza, che vede, sente o prescrive, senza alcuna nostra deliberazione, quell’istinto non si potere lecitamente secondare al di là di certi limiti, o fuori di alcune determinate condizioni. E tra questi due elementi siede arbitra la libertà; la quale si dice libertà di arbitrio, appunto perché tocca a lei l’arbitrare tra quei due contendenti. Ma tra questi è manifesto non potervi essere, che ripugnanza e contraddizione; almeno fino a tanto che la legge della mente non abbia preso il sopravvento sopra quella delle membra, imbrigliandola per forma, da non sentirne più alcuno contrasto; ed allora l’uomo si fa quasi Angelo: ovveramente fino a tanto che la legge delle membra non abbia soffocata la legge della mente; ed allora l’uomo si fa quasi bestia caso forse meno infrequente, che non è il primo. Ma nelle consuete condizioni dell’uomo quella lotta è accesa sempre, e se lascia respirare alcun poco, quel respiro ha piuttosto sembianza di tregua passeggera, che non di pace stabile e diuturna. Ora in questa condizione della nostra natura sapete voi per quali gradi si declina a poco a poco, fino ad un’abbiettezza ed avvilimento da fare scendere l’uomo bene al di sotto della bestialità animalesca, alla quale non può mai mancare la regola, perché è identificata coll’istinto stesso? Oh! miei amatissimi! così vi dia il Signore grazia da intendere questo gran vero! di quanto salutare vergogna non brucerebbe più di una fronte cristiana, da cui è forse scomparsa da un pezzo, nonché ogni dignità di Fede, ma ogni pudore di ragionevole creatura! Il primo grado adunque di cadimento è quando la libertà, benché non giunga a reggere e contenere il senso, scorge almeno il male, e lo riprova, lo condanna, lo deplora. Il secondo è quando, oscuratosi a poco a poco il lume della ragione, come il sole per fetidi e grossi vapori di sottostante palude, quella legge della mente resta mutola, inoperosa, svigorita d’ogni efficacia, non dirò a rifrenare l’istinto, che non trascorra ad opere di colpa, ma neppure a riconoscere e rimproverare, quando il trascorso è seguìto. Ma perciocchè la ragione non può rimanere lungamente inoperosa nell’ uomo; quando essa non si esercita a dirigere e governare la sensualità, o almeno a combatterla in buona guerra, avviene quasi sempre che si precipiti nel terzo ed infimo grado, nel quale la legge della mente si fa come complice della legge delle membra, ed in luogo di raffrenarla la sospinge, invece di rifrenarla la istiga. E condotta la cosa a questi termini, chi potrebbe immaginare profondo di abbominazioni e pazzi eccessi e mostruosi, a cui si arriva? Questo è precisamente il caso del proverbio, che corruptio optimi pessima; del quale san Tommaso avea assegnata la ragione in questo, che l’uomo, gettatosi alla sensualità, vi si deprava coll’aiuto di una facoltà ottima; si che quanto questa è più eccellente, e tanto la depravazione ne dee riuscire più squisita, più enorme, più sfoggiatamente abbominevole: fit malus per corruptionem optimæ facultatis.

III. E tale fu appunto la condizione del genere umano separatosi ed allontanatosi dal suo Creatore. La sensualità cominciò fin dagl’inizii a dominarlo e soggiogarlo per forma, che bene ebbe Iddio ragione di ritirare da lui il suo Spirito, come è scritto nel Genesi. Ciò importava che il lume della ragione e della rivelazione primitiva quasi più non servisse a rischiararlo; in quanto le propensioni carnali erano tanto in lui prevalute, che l’uomo oggimai non era altro, che carne. Non permanebit Spiritus meus in homine, quia caro est (Gen. VI, 3). E già sapete che le sozzure di quel mondo antinoetico andarono sì oltre, che appena poterono essere lavate colle acque di un diluvio, che, tranne otto anime, spense la vita in quante creature umane in quel tempo, ci vivevano. Al quale memorando castigo se accoppiate le fiamme piovute, per gran miracolo, dal cielo irato sopra la impura Pentapoli, voi avrete approvato dal fatto questo terribile documento: nessun umano eccesso avere Iddio punito mai con flagelli così universali e così strepitosi, come questo della concupiscenza sensuale. E ciò, credo io, per questo, che nessun altro eccesso ottenebra ed attuta e spegne così il lume della ragione, come questo fa, sospingendo. l’uomo a tutti gli altri vizi, ed alla medesima empietà contro Dio, come notò Lattanzio: ex luxuria ut vitia omnia , sic impietas adversus Deum nascitur (Div. Instit . II, 1). Tuttavolta in quel primo stadio della idolatria orientale, diciamo così, ed arcaica, la lussuria ebbe moltissima parte nel farla nascere; ma, quanto sappia io, non ne fu l’oggetto, e non ebbe culto speciale, se non fosse qualche simbolo, ordinato ad idoleggiare la fecondità della natura, ovvero in qualche piccolo popolo, come il fenicio ed il cananeo, dannato per questo da Dio allo sterminio. Ma in generale la ragione si contentava a tacersi, vinta dalla prepotenza della regnante concupiscibile, e, non che riprovare quegli eccessi, neppure avea forze da gemerne e vergognarne. Era proprio come se più non si trovasse la ragione nell’uomo, dominato, come questo era, dagli appetiti bestiali e sfrenati; ma almeno non se ne era dichiarata complice, avvocata, apologista ed adoratrice. Un privilegio cotanto obbrobrioso era serbato alla raffinata cultura del Paganesimo posteriore, e specialmente del forbitissimo mondo grecoromano. Questo, non pago ad avere la ragione mutola ed inerte per questa parte, la volle aiutatrice all’opera nefanda di corruzione; e l’ebbe per forma, da farne vergognare per lunghi secoli qualunque fronte non sia di bronzo. E qual cosa più ignominiosa di questa, che recare alla piena luce quelle turpitudini, di cui il cinismo più sfrontato arrossirebbe? Né recarle solamente alla luce, ma personificandole in questo o quell’essere fantastico o reale, costituirle in dignità di numi, e innalzare a loro onore are e delubri, e offerire sacrifizii e celebrare feste solenni e solenni riti. Dio immortale! e quale dovea essere una società, il cui supremo Nume, il Nεφεληγερέτα Zεύς [= Nefeleghereta Zeus]  di Omero, il Pater hominumque Deumque di Virgilio, il sommo Giove, era tale cima di sozze furfanterie, di ratti incestuosi e di snaturate libidini, che nessun galantuomo tollererebbe a dì nostri, che gliene fosse appiccata addosso la centesima parte? Ed intendo galantuomo nell’antico significato della parola; chè nel nuovo sarebbe un altro discorso. Certo Arnobio chiedea ai sapienti del Gentilesimo del suo tempo, qual mai colpa avessero essi trovata nel loro Giove, sicchè volessero condensato sul capo di lui una così sformata congerie d’ignominie mostruose? Quid tantum quæso de vobis Iuppiter iste, quicumque est, meruit, quod genus est nullum probri infame, quod in eius non caput, velut in aliquam congeratis vilem luteamque personam? (ARNOB. V, 22). Ma all’Apologista cristiano non sarà certo sfuggita larisposta a quel suo dubbio. Il mondo pagano s’era fabbricato un così turpe Nume supremo, per onestarne, giustificarne, ed all’uopo ancora magnificarne tutte le proprie più abbominevoli turpitudini.Sarebbe lungo troppo e poco dicevole alla santità di questo luogo, ed alla onestà delle vostre orecchie svolgere alquanto la tela di quegl’inverecondi misteri, di quei sozzi arcani, di quegli osceni amori, onde la mitologia antica formicolava; ma voi certo ne saprete giàtanto, che vi basti per inorridire al pensiero di una società , di cui quella mitologia era la religione, il culto,la teologia, la teogonia, la morale, ogni cosa; sicché sacro presso quei miseri dovea suonare poco altro, che lascivo. Basti dire che, secondo ricorda Minucio Felice, vi avea delle sacre solennità, per cui celebrare era più acconcia la donna, che potesse mostrare di avere più spesso violata la fede coniugale; sì che le cosiffatte cercavansi a grande studio: Magna religione conqueritur quæ plura possit adulteria numerare . Basti ricordare dallo stesso Minucio, non avere avuto il Gentilesimo architetti più industri di nefandezze, di quello che fossero i pretesi suoi sacerdoti; né luogo avevano a ciò più acconcio dei loro templi: Ubi aulem magis a sacerdotibus conduntur stupra, tractantur lenocinia , adulteria meditantur, nisi in templis? Sicché,com’egli medesimo osserva, ed io ricordai altra volta,a quelle oscene abbominazioni meglio servivano i templi che non i medesimi lupanari: Frequentius in ædituorum cellulis, quam in ipsis lupanaribus flagrans libido defungitur? (OCTAVIUS, Cap . XXV).Via! nondimeno. E che serve dimorarci a rimestare cotesto lezzo, da cui altro non possono venire, che impuri miasmi e fetide esalazioni? Il pochissimo, che ne ho toccato, vi può ben condurre a formarvi un concetto abbastanza adeguato di quello che fosse il Paganesimo per questo capo. Poco sarebbe il qualificarlo per un immenso postribolo, da cui era sequestrata ogni più languida idea di verecondia o di pudore; bisognerebbe definirlo una smisurata accozzaglia di sozzi animali, a cui la ragione serviva solamente per adorare codardi quelle infami propensioni, ond’erano dominati; senza che vi avesse filosofo, o sapiente, o moralista, il quale non dirò condannasse quegli eccessi, ma che solo ne recasse in dubbio la lecitezza, e che anzi non li credesse legittimissimi. Che se il Senato fece alcune leggi per questo rispetto, ciò fu per attenuare in qualche modo i disastrosi effetti della scostumatezza, non per ombra di riverenza che si avesse alla onestà del costume. Leggete il primo capo di san Paolo ai Romani (Rom. I, 14-19); e da ciò che l’Apostolo gettava in viso ai Gentili, senza che questi potessero, non che giustificarsi, neppur zittire, voi intenderete che lo schizzo, da me delineatone, non è poi condotto con tratti troppo severi.

IV. Dalla quale tirannide, che pesava così ignominiosa sopra il mondo pagano, come Cristo affrancasse le generazioni redente, voi potrete intendere di leggieri, se ripeterete colla memoria ciò, che ieri discorremmo intorno al dominio, che cella grazia può acquistarsi dal Cristiano sopra tutte le cieche propensioni dell’istinto. Ciò che dicemmo della generalità di queste, deve applicarsi con tutta ragione alla particolarità di quella, da cui è sospinta la natura animata alle opere di senso; ed è manifesto che alla sua gagliardia dev’essere ammisurato un aiutorio divino, il quale, a trionfarlo pienamente, non ha bisogno che della cooperazione della nostra volontà. Ma quando questa vi è, la vittoria è più facile e più frequente di quello, che gli uomini carnali non mostrano di voler credere; i quali, col negare perfino la possibilità della continenza, pensano di avere apparecchiata una scusa valevole alla propria vita in viziata ed oscena. E pure ciò che si legge, ciò che si sa, ciò che si vede nella società cristiana ci dovrebbe convincere della verità, che si acchiude in questa parola di un filosofo cristiano, nessuna propensione essere così difficile a dominare, quanto questa del senso, chi non lo voglia davvero: nessuna essere così facile, chi davvero lo voglia; perché, supposta questa risolutezza del volere, la grazia aiutatrice non può mancare; e la grazia è onnipotente. È poi notevolissimo che, a rispetto delle cupidità sensuali, il medesimo principio, onde si deriva la prepotente loro forza, ne rende possibile un pieno ed assoluto trionfo, quale negli altri istinti indarno si cercherebbe. – Io vi dissi fin da principio, quella gagliardia originarsi da questo, che una tate propensione è ordinata alla conservazione della specie, bene sommo e direttamente e per sé voluto dalla natura. Or quinci appunto nasce, che quel bene, non essendo commesso a veruno particolare individuo, ma alla specie, alcuni di questa possono non pigliarvi parte nessuna, non pure senza riprensione, ma con laude nobilissima di serbata purezza. Da questa fortunata radice germinò quel giglio intatto di verginale candore, che è l’ornamento, il decoro, quasi la gemma della Chiesa, e del quale il Giudaismo ebbe quasi dispregio, il Paganesimo non giunse neppure a formarsi il concetto, se non fosse nella microscopica, temporanea e molto problematica continenza delle Vestali. Né solo lo stato della verginità ebbe merito e decoro uguale nel Cristianesimo, ma nel sesso minore la condizione medesima di sposa e di madre furono nobilitate e direi quasi consecrate: quella nella indissolubilità del matrimonio fatto grande Sacramento ed onorabile in tutto, come parlò san Paolo: questa nel sublime uffizio di allevare ed educare cittadini pel Paradiso. Ma quando fu rivelato ai mortali quel tramirabile fra i portenti, operato dalla divina Onnipotenza, la quale in Maria da Nazaret volle riuniti i caratteri nobilissimi di Vergine, di Sposa e di Madre, e ciò a rispetto del Verbo Incarnato; allora il sesso, che diciamo minore, ne acquistò onore tanto e tanto decoro, che nulla non ebbe più quasi ad invidiare al più forte. Oh! sì! Non è a dubitarne! La persona più nobile, che sia nell’universo, a comprendervi gli stessi Angeli; la creatura più eccelsa, che sia uscita dalle mani dell’Onnipotente (e notate che Cristo, benché abbia una creata umana natura individua, né persona umana non è, né creatura); quella persona, dico, di tutte la più nobile, e quella creatura di tutte la più eccelsa, è una donna. Tant’é! – Quando Iddio volle riversare in certa guisa fuori di Sé tutti i tesori delle ineffabili sue ricchezze, togliendo quasi a sé stesso la possibilità d’innalzare a maggiore altezza una creatura, non ne trovò più degno ricettacolo, che il seno castissimo d’una fanciulla giudea. Cosi quello Spirito di Dio, che dall’uomo fatto carne fu ri tirato: non permanebit Spiritus meus in homine, quia caro est; quello Spirito fu ridonato al mondo, in maniera ben altrimenti amplissima, quando venne a riposare nel grembo immacolato di Colei, in cui fu il Verbo fatto carne: Spiritus Domini superveniet in te ….. et Verbum caro factum est. La quale meravigliosa dignità, conferita alla donna nel Cristianesimo, apparisce tanto più preziosa, quanto era più depressa ed avvilita la sua condizione nel mondo pagano. Questo, essendo la tirannide assoluta della forza dovea per conseguenza conculcare spietatamente quella metà dell’uman genere, la quale per antonomasia è detta debole. Deh! che era la femmina presso i Pagani? Devo dirlo? era strumento morto di vili servigi, era animale da razza, era materia abbietta di voluttà più abbiette. Che è essa divenuta nel Cristianesimo? È divenuta donna, cioè domina, cioè signora: nome che io non so se le sia stato attribuito da alcuna lingua antica; e mi pare difficile, perchè mancando esse del concetto, non ne poteano avere la parola. Certo i Giudei la dissero נּשּׁהּ (=nascha), cioè dimenticata, perché di lei non si tenea ricordo nelle genealogie; i Greci la chiamarono γυνή [=gune], forse da γίνομαι [=ghinomai], genero, i Latini l’appellarono mulier, quasi mollior, come pensa sant’Isidoro. Noi, nella nostra lingua cristiana, la chiamiamo domina, perché il Cristianesimo fu il primo ad introdurre nel mondo il nuovissimo, e mai più non udito sentimento del rispetto alla debolezza; ed esso che pelprimo alle infinite turbe degli schiavi avea fatta udirela dolce appellazione di fratelli, fu altresì esso il primo,che fece sentire alla porzione più gentile della umana famiglia quella di signora. Ed è davvero signora la donna, chi consideri il soave impero, che essa nelle famiglie cristiane può esercitare, ed esercita molto spesso col mite ingegno, colle pietose virtù, colla tenerezza del cuore nelle care relazioni dei domestici affetti; chi consideri come la donna, chiamata ad essere anima e perno della famiglia, compagna di amore dell’uomo, e quasi necessario suo lenimento nei bisogni e nelle tempeste della vita, è stata sortita a simboleggiare niente meno, che la Chiesa nella mistica esacramentale significazione del cristiano connubio. E dove è più dunque la tirannide della concupiscenza,quando quella, che n’è il precipuo obbietto, trovasinel Cristianesimo innalzata a tanto eccelsa e tutto spirituale altezza?

V. Piuttosto vi potrebbe parere difficile a dimostrare siccome la società moderna, eziandio per questo capo, rinverté miseramente e di buon passo alle idee pagane. – Oh! che? in un mondo così forbito e che ha in tanto pregio la onestà, la morigeratezza, il buon costume pubblico e privato, diremo riprodotti i mostruosi concetti e le turpi abitudini del Paganesimo? Io, signori miei, riverisco ed inchino tutto quello che la moderna società ha di bene: me ne rallegro, e fo voti che ne divenga ognora più ricca. Tuttavolta, a non torre abbaglio, converrebbe nelle nostre città e nelle nostre famiglie accuratamente sceverare ciò che è cristiano, da ciò che non è, e professa apertamente di non essere. Se questa cernita si facesse, lo so ben io che in ogni condizione si troverebbero uomini di vita morigeratissima nel connubio, od anche fuori di quello; si troverebbero matrone specchiatissime, che sono ornamento o decoro delle famiglie; si troverebbero caste ed innocenti fanciulle che, pur vivendo nel mondo, sanno tenersi separate dal mondo, e, come la mammola nascosa sotto il cespuglio, imbalsamano l’aria della loro fragranza; si troverebbero giovani, pieni di rigoglio e di vita, intemerati e puri, mostrare col loro intatto candore di neanche sentire le fiamme sordide e cocenti della seduzione e dello scandalo. Non fosse altro, si troverebbero a mille a mille quei fortunati di ambi i sessi, i quali, avendo pure alcun poco aleggiato sovresso le sozzure di questo mondo, e non trovato ove posare il piede senza lordarsi, come già la colomba noetica ritornò all’Arca, ed essi, di lei non meno schivi, ripararono nei claustri solitari; ed ivi in quelle caste dimore, alternando la loro vita tra gli scarsi riposi ed il salmeggiare prolisso, attendono di essere fatti consorti dell’immacolato Agnello. Ma tutta questa purezza, che, la Dio mercé, pure alberga nel mondo, non ha nulla che fare col mondo: è cosa tutta cristiana e celeste, e per serbarsi intatta, dee separarsi dal mondo; deve aiutarsi di mezzi sconosciuti, derisi, calunniati dal mondo; deve perfino rassegnarsi a vedersi conculcata, spogliata, proscritta, assassinata dal mondo. E l’Italia, se non lo sapesse , sta avendo tutto l’agio d’impararlo. Che se a siffatto mondo ci restringiamo, ahimè! quanto è vero! alla foga, onde lo vediamo precipitare nei pensieri e negli amori, esso cammina a gran passi, per ridivenire pagano. Né già, vedete, innalzando templi ai Giovi adulteri ed alle Veneri lascive: questo, lo capisco anch’io, non si usa più; ma questo non era propriamente la sostanza, il midollo e, come a dire, la parte formale del Paganesimo, per ciò che riguarda le propensioni del senso. Quella dimorava propriamente nel tacere che facea la ragione, a guida e corregimento di quelle propensioni stesse; dimorava più ancora nell’abuso che faceasi della ragione, per giustificare, per onestare, per irritare, e fino per divinizzare le cupidità sensuali. Ora tutto questo pur troppo si vede avverato nella società moderna; la quale, avendoci, per mezzo dei suoi sapienti umanitari, insegnato l’unico supremo bene dell’uomo essere posto nel soddisfacimento delle proprie propensioni, a satisfare e blandire questa, che è la più prepotente, pensate se non si dovesse mettere a giocare di mani e di piedi! E chi non conosce la indifferenza, onde sono oggimai guardate queste faccende attenentisi a costume, dagli uomini che si pregiano di progresso? E voi lo avrete sentito da loro le cento volte; che quelle soddisfazioni sono finalmente debolezze, a cui si vuol compatire: sono peccatuzzi, a cui si vuol perdonare, e per cui non si vede, come mai la giustizia divina debba tanto inseverire. E questo, signori miei, non è avere condannata al silenzio la ragione? la quale, quando ve ne potesse parlare alto e chiaro, ve ne direbbe ben tutt’altro nel rossore onde, voi quasi inconsapevoli, vi tinge la fronte; nei rimorsi onde, voi ancora renitenti, vi agita la coscienza; nei danni privati e pubblici, che non potete non iscorgere negli effetti della regnante scostumatezza. Ma se, oltre a ciò, volete vedere, come a’ di nostri si abusa altresì la ragione ad aizzare le fiamme impure, quando anzi essa ci fu data per temperarle, voi non dovete che portare attorno lo sguardo per le città nostre, e per quelle segnatamente, dove i nuovi padroni intrusi, ai miseri popoli, estenuati dalle gravezze, scompigliati dalle ire civili, insidiati nella Religione dei padri loro, non sanno dare altro lenimento o compenso di tante calamità, che la licenza degli scandali, e gli scandali della licenza. Girate, dico, per le città nostre: scorrete coll’occhio le poesie, le novelle, i romanzi che più vi sono in voga; osservate, non che negli studii degli artisti, ma nelle private case e nei pubblici ritrovi, le opere di scalpello, di pennello o di bulino che più vi sono celebrate; assidetevi ai teatri o ascoltandone i drammi, o godendone le armonie, o mirandone le danze artificiose e seducenti. In questa rassegna voi vedrete la letteratura, le arti belle e le meccaniche a loro modo, direi quasi le scienze medesime congiuratesi a soffiare in un fuoco, che già per sé medesimo avvampa abbastanza, senza che siavi bisogno di attizzarlo, perché infellonisca più furibondo e più vorace. Ma quello, che propriamente costituisce il carattere speciale del nostro secolo, razionalista ed utilitario, è l’abbandono, lo spregio, la calunnia stessa di tutti quei presidi, onde la pietà cristiana avea assiepata la onestà, appunto perché la conosceva somigliante a specchio tersissimo, cui ogni fiato men che puro può appannare; somigliante a canna fragilissima, cui ogni aura benché leggiera può inchinare. Questi presidii (nessun Cristiano può ignorarlo) sono la purità del cuore, l’uso dei Sacramenti e della preghiera, la devozione filiale alla Beata Vergine, la fuga delle occasioni, la mortificazione della carne: ecco i mezzi che la Chiesa ci fornisce, per trapiantare in terra questo giglio di paradiso, per educarlo all’aura della Fede, e quinci tramutarlo un’altra volta al natio suo luogo, che è il cielo. Ora io non dico che in tempi e paesi credenti tutti adoperavano siffatti mezzi; ma tutti certo li riverivano almeno nella teorica, ed anche nella pratica che altri ne facea per sé; laddove quale è di questi mezzi, cui il nostro secolo miscredente ed orgoglioso non screditi cogli scherni; non vilipenda col disprezzo, non denigri colle calunnie? – Preghiere, Sacramenti, pratiche pietose, e soprattutto mortificazione, sono parole poco meno che barbare pei nostri sapienti: sono cose da idioti, da vecchiarelle scimunite, da fanciulle superstiziose. Per essi oh! Per essi, ne hanno d’avvanzo dalla filosofia e dalla ragione! La filosofia e la ragione, avete detto? Or bene: sostenetemi un istante, fin che respiri, e poscia vi farò un cenno del quanto meravigliosamente la filosoſia e la ragione sogliano, in opera di costume, servire bene i loro cultori.

VI. Se vi è qualità di colpa, che più studiosamente gli uomini si argomentano di coprire, è appunto questa della disonestà, forse per la speciale ignominia che essa racchiude. E nondimeno se vi ha qualità di colpa  che meno si possa coprire, è appunto questa, che ammorba ed appesta, quasi carogna imputridita, un miglio da lungi. Non è dunque ridicolo venirci innanzi con coteste superbie di onestà naturale, quando appena ci è carità cristiana, che basti a coprirne in parte o dissimularne le turpitudini? Ma se io, smessi un poco siffatti riguardi, a questi presuntuosi barbassori del progresso umanitario volessi tastare il polso, od anche solo osservare la lingua, vi mostrerei davvero le febbri ignominiose, onde bollono le vene, ed i sintomi della gangrena che li divora fino nelle midolla delle ossa. Vi mostrerei i connubi male assortiti, peggio trattati e pessimamente conchiusi farsi seminario di cupi rancori, di prolungati dissidi, di gelosie smaniose, per riuscire alle separazioni scandalose, ed ai pubblici svergognamenti. Vi mostrerei un celibato, alla maniera musulmana, essersi fatto di moda tra uomini, che, portando tutti i pesi del matrimonio, le sante e caste delizie ne ignorano, e che avendo pure femmina e nati, né sposa né figli non hanno; ma dopo avere imbizzarrito, lascivi puledri tra vagabonde cavalle, si partono da una terra per essi contaminata, lasciando ad esseri inconsapevoli ed infelici, in perpetuo retaggio, la propria infamia. Vi mostrerei a cento a cento le sventurate fanciulle che, porgendo orecchio inconsulto a fallaci promesse, restarono, come madreperle abbandonate sull’arena spoglie della loro gemma, e piangono e trambasciano e si pentono, ma di tardo, d’inutile pentimento, e resterà inesaudito il loro pianto, come il lamento di tortora solinga sopra ramo vedovato di foglie: intanto che il perfido seduttore le disonesta colle calunnie, e più non le conosce, che per beffarle. Vi mostrerei una mano di fiorente gioventù; speranza che potrebb’essere della società e della Chiesa, gettatasi a disfreno al mal costume, rendersi zimbello e ludibrio di venali amanze, avvicendare la neghittosa loro vita tra la bisca ed il bordello, ed ivi disperdere le paterne sostanze, contaminare la sanità nel suo germoglio, manomettere la riputazione, e finire forse giorni vituperosi e tempestati nello squallore di uno spedale, nelle disperazioni incompiante di una prigione, e forse ancora nella infamia di un patibolo. E non vi basta questo, per convincervi, che l’uomo non ha alcun bisogno del timor di Dio per serbarsi onesto, e che la sola ragione e la filosofia sola a tant’uopo gli possono bastare? E non vi pare che la filosofia e la ragione abbiano serviti bene, e rimeritati meglio questi adoratori non tanto loro, quanto delle proprie animalesche propensioni? E adoratori veramente! ché se fossero essi soli al mondo, non dubito che, Pagani redivivi, innalzerebbero templi ed altari alla concupiscenza. E forse che non fu fatto a memoria dei nostri padri? forse che non ne corse un fremito immenso dall’un capo all’altro dell’Europa? fremito che nelle anime cristiane ancora non posa. Oh! che avranno detto i Santi del Paradiso! come gli Angeli della pace non si saranno velate delle eterne loro penne le lagrimose pupille! quando, nel maggior tempio che segga sulla Senna, sopra l’altare.augusto del Dio vivente, rimossane la effigie benedetta della purissima tra le creature, da mostri sbucati d’inferno, fu collocata (inorridisco a dirlo, e in petto mi trema il cuore! ma il pur dirò!) fu collocata la nudità nefanda d’una prostituta! E i successori di quei mostri, o certo i parteggiani delle coloro dottrine dovranno rigenerare le patrie nostre cristiane e credenti? — Oh! Dio grande! abbiate pietà di questa povera e conquassata Italia! Essa vi offese, è vero, vi oltraggið! ma la dolorosa non ha cessato mai di confessarvi; ed ora vi confessa e v’invoca forse con maggiore affetto, che non fece giammai. No! no! non la vogliate abbandonare, né tutta né lungamente, alla balia dei vostri e dei suoi nemici. Ne tradas bestiis animas confitentes tibi (Psalm. LXXIII, 19).

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (7)

IL SEGNO DELLA CROCE (12)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (12)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA UNDECIMA

6 dicembre.

Il segno della croce è un tesoro che ci arricchisce, comecché preghiera. — Prove. — Preghiera potente: prove. — Universale: prove. —Desso provvede a tutti i nostri bisogni. — Per l’anima l’uomo bisogno di lume. — Il legno della croce li ottiene: prove. — Di farti, il legno della croce li procura: prove.— Esempio dei Martiri.

II segno della croce è un tesoro che ci arricchisce: é questa una delle ragioni di sua esistenza. Ci arricchisce, perché desso è una eccellente preghiera. Ecco, mio caro amico, tu non l’hai dimenticato, il punto di dottrina che stabiliamo in questo momento. La prova è a metà già svolta; chedessa toglie la sua evidenza dall’antichità, universalità, e perpetuità del segno adorando. Nel mezzo dell’universale naufragio in che il mondo, idolatrandosi, lascia perire tante rivelazioni primitive, si vede sfuggire alla devastazione quella del segno della croce. Questo fatto ben chiaro e ragionevole per lo spirito cristiano, che riflette, ma forse per te e per gran numero di uomini incomprensibile, di quali verità è rivelatore? Desso afferma e rivela quanto sia utile all’uomo questo segno; avvegnaché ne mostra tutta la efficacia sul cuor di Dio. Dai ragionamenti passiamo ai fatti! – Il segno della croce è una preghiera, una preghiera potente, una preghiera universale!  È una preghiera. Che cosa è l’uomo che prega? È un uomo che confessa dinanzi a Dio la sua indigenza, indigenza intellettuale, morale, materiale. È il povero alla porta del ricco. Ora il povero dimanda con la voce, ma più eloquentemente col magro e smorto viso, con le infermità, i cenci e l’attitudine, come pregava sulla croce l’adorabile Povero del Calvario! In questo stato il figlio di Dio, più che in altro mai era l’oggetto delle compiacenze infinite del Padre, ed Egli stesso ci dice, che questa preghiera più eloquente, per l’azione che per la parola, fu la leva che innalzò tutto a lui (1 di Joan. XII, 32. Cum exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum. Joan. XII, 32. Humiliavit semetipsum etc. propter quod et Deus exaitavit ilium etc. (Ad Philip. II, 8). – Che cosa fa l’uomo facendo il segno della croce, sia con la mano, che con le braccia? Egli imprime sovra se stesso l’immagine del divino Povero; s’identifica con Lui, è Giacobbe che si copre delle vestimenta di Esaù per ottenere la paterna benedizione. In questa attitudine, espressione di fede, di umiltà e di oblazione, che cosa dic’egli? Egli dice: Vedete in me il vostro Cristo, respice in faciem Christi tui. Preghiera è questa più eloquente di tutte le parole : dessa ascende, dice santo Agostino, ed il soccorso discende: ascendit deprecatiti et descendit Dei miseratio. (August. Serm. 226 De temp.). Tal è il segno della croce, non parla e dice tutto; eloquente silenzio della croce!  È una preghiera potente. Quando l’agente dell’autorità, un delegato di polizia, un sindaco, un gendarme, mette la mano sul delinquente, gli dice: In nome della legge vi arresto. In questa parola in nome, il colpevole vede l’autorità della sua patria, la forza armata, i giudici, il re stesso, e preso da paura e riverenza, si lascia arrestare. Quando l’uomo trovasi in un pericolo, in preda alla sofferenza ed alle infermità, e pronunzia queste parole solenni, in nome del Padre etc, e, pronunziandole, fa il segno redentore del mondo, e trionfatore dell’inferno, il male non può opporre resistenza alcuna. L’uomo non ha forse eseguite tutte le condizioni necessarie al successo? Dio non è, in certo modo, obbligato d’intervenire, e di glorificare il suo nome e la potenza del suo Cristo? Ecco ragione che dell’efficacia particolare del segno della croce, né la Chiesa, né i secoli cristiani hanno dubitato; e teologi venuti in gran fama di profondo sapere insegnano che la croce opera per virtù propria indipendentemente dalle disposizioni di colui, che la esegue. Ne danno varie ragioni; io non ne citerò che due. La prima è l’uso incessantemente ripetuto del segno della croce. Se non producesse, dicono, i suoi effetti di per sé stesso, i Cristiani non avrebbero ragione facendone sì frequente uso. Perché usarne se un movimento dell’anima bastasse ad ottenere e realizzare quanto sperano ottenere e realizzare col segno della croce?  (Dicimus signum sanctissimæ crucis producere suos effectus exopere operato. – Gretzer loc. cit. lib. IV, c 62, p. 703 – Ita etiam doctissimi quique theologi sentiunt, ut Gregorius de Valentia, Franciscus Suarez, Bellarminus, Tyrsus,et alii. – Ibid. – Etcerte nisi ex opere operato crux eflectus suos ederet, non esset cur iam sedulo a ildetibus usurparetur; quia bono animi motu etactu omne iiiud perflcere seque certo possent, quod adhibito crucis signáculo peragunt et sese peracturos sperant. – Ibid.). La seconda riposa su de’ fatti celebri nella storia, e di tale una autenticità da non poter di essi in verun modo dubitare. Il primo è quello di Giuliano Apostata. Quando ruppe a Dio la sua fede, com’è inevitabile, divenne adoratore di satana. Per conoscere l’avvenire, mandò per tutti gli uomini, che in Grecia erano in rapporto con i cattivi spiriti. Un evocatore si presenta, e promettegli piena soddisfazione. Eccoli in un tempio d’idoli: si eseguono le evocazioni, e detto fatto, l’imperatore è circondato di demoni, il cui aspetto gli mette paura. Per sentimento di timore, e senza alcuna riflessione si segna, ed eccoti i demoni disparire. Il mago ne lo rimprovera, e ricomincia le sue evocazioni. Di nuovo le istesse apparizioni. Giuliano si segna nuovamente, e gli spiriti dispariscono. Questo fatto è riferito da San Gregorio di Nazianzo, da Teodoreto ed altri Padri (Ad crucem confugit, eaque se adversus terrores consignat, «unique quem persequabatur in auxilium adsciscit. Valuit signæulum, caedunt doemones, pelluntur timorés. Quid deinde? reviviscit malum, rursus ad audaciam redit; rursus aggreditur; rursusiidem terrores urgent, sursus obiecto signáculo daemones conquiescunt, perplexusque hoeret discipulus. – S. Gregor. Nazianz. Orot. I contra Julian.).  Il secondo è più noto nell’Occidente. La conoscenza di esso noi la dobbiamo al Pontefice San Gregorio, che siffattamente ce ne parla. « Quanto narro non può essere che certo, avvegnaché quanti sono gli abitanti di Fondi ne sono testimoni » (Nec res est dubia quam narro, quia pæne tanti in ea testes sunt, quanti et eiusdem loci habitatores existant. (S. Greg. Dialog. lib. III, c. 7). Un Giudeo dalla Campania si conduceva a Roma per la via Appia. Annottatosi verso Fondi, né potendo trovare ove passar la notte, si cacciò in un diruto tempio di Apollo. Quest’antica dimora di demoni gl’inspirava paura; però, tuttavolta non fosse Cristiano, si muni del segno della croce. Ma che! era già scorsa la metà della notte, ed il timore non gli consentiva dormire, quando una moltitudine di demoni entrò nel tempio, e pareva vi si recassero a rendere omaggio al loro capo, assiso nel fondo del tempio. Questo domandava aciascun di loro quel tanto che avesse fatto per indurre le anime a peccare, e ciascuno gli discopriva le male arti all’uopo usate. Nel mezzo di tali racconti, uno si avanza per narrare come avesse saputo tentare il Vescovo della città. Fino al presente, diceva, tutto avuoto: ma ieri, verso sera ho potuto instigarlo a dare un piccolo colpo sulla spalla della santa donna, che ha in cura l’azienda di lui. Continua, gli rispose l’antico inimico del genere umano, continua e compisci l’opera cominciata; da si grande vittoria ti verrà eccezionale compenso. A siffatto spettacolo il Giudeo respirava a pena: a farlo morir di paura, il presidente dell’infernale convegno ordinò che si prendessero indagini sul temerario, che ardiva rifugiarsi nel suo tempio. La folla degli spiriti si avvicina curiosa al Giudeo, e vedendolo segnato della croce esclama: Malore! malore! un vaso vuoto e segnato. Vae, Væ, vas vacuum et signatum. E cosi detto disparvero! Parimente il Giudeo si affrettò di sortire dal tempio, e si portò alla Chiesa, dimora del Vescovo, e gli narrò come sapesse del colpo dato il giorno innanzi, e lo scopo che il demonio si proponesse. Il Vescovo sorpreso il più che immaginar si possa, commiatò la santa donna ed inibì ad ogni femmina entrare nella sua dimora; sacrò a Sant’Andrea il vecchio tempio di Apollo, ed il Giudeo si rese cristiano (S. Greg. Dial. lib. III, cap. 7).  Citiamo un altro fatto. Le storie di Niceforo ci raccontano come Maurizio Cosro, secondo re di Persia inviasse a Costantinopoli de’ Persiani in ambasciata, i quali aveano nella fronte il segno della croce. L’imperatore domandò loro perché portassero quel segno, cui non credevano. Questo che vedi, risposero, è segno di un benefizio in altri tempi ricevuto; poiché la peste disertava il nostro paese, ed alcuni Cristiani ci consigliarono di segnarci siffattamente come preservativo contro del male. E didatti noi lo credemmo, ed eccoci salvi nel mezzo di migliaia di famiglie distrutte dalla peste (Hist. lib. XVIII, c. 20).  – A questi fatti naturalmente si unisce la riflessione del gran Vescovo d’Ippona, che pare decisiva in favore dell’insegnamento cattolico. « Non è da meravigliare, dice egli, se il segno della croce abbia gran potere quando è eseguito dai buoni Cristiani; poiché dessa è potente ancora quando è messa in uso da quelli che non credono, e ciò solo in onore del gran Re » (S. August. Lib. 83. De quæst. 79). – Ma per restare fra i limiti dell’ortodossia, è da aggiungere, che il segno della croce non opera da sé puramente e semplicemente, ma secondo che è utile alla nostra salute, o a quella degli altri, come di altre pratiche ha luogo, a mo’ d’esempio, gli esorcismi, a cui nessuna promessa divina assicura un effetto infallibile, e senza condizione alcuna. Aggiungasi ancora che la pietà di colui che fa il segno della croce contribuisce alla efficacia di esso. II segno della croce è una invocazione tacita di Gesù crocifisso, epperò la efficacia si proporziona al fervore con cui è invocato. Di maniera, che la invocazione del cuore, o della bocca è tanto più propria ad ottenere il suo effetto, quanto il fedele è più virtuoso e caro a Dio (Gretzer, ubi supra).È una preghiera universale. In un senso il segno della croce può dire come il Salvatore istesso: Ogni potere mi è stato dato nel Cielo e nella terra. Qui ancora più che altrove è da ragionare con i fatti, i quali sono sì numerosi da tornar solo difficile la scelta di essi. Tutti e ciascuno di essi, a sua maniera, proclama, da una parte la fede de’ nostri avi, e dall’altra l’impero del segno della croce sul mondo visibile ed invisibile, e come desso provveda a’ bisogni dell’anima e del corpo.  – Per l’anima l’uomo ha bisogno di lumi, ed il segno della croce li ottiene. S. Porfirio Vescovo di Gaza deve disputare con una femmina manichea. Per dissipare con la chiarezza del ragionamento le tenebre in che era inviluppata la infelice, fa il segno della croce, e la luce brilla in questa intelligenza traviata. – Giuliano, il sofista coronato provoca a disputa Cesario fratello di san Gregorio di Nazianzo. Il generoso atleta scende nell’arena munito del segno della croce, ed appone ad un nemico peritissimo nell’arte della guerra, e della dialettica lo stendardo del Verbo, e lo spirito di menzogna si trovò arreticato nella propria rete (S. Greg. Nazianz. In laud. Caesar). – San Cirillo di Gerusalemme, sì potente in opere ed in parole, comanda si ricorra a questo segno tutte le volte che si debbono combattere i pagani, ed egli afferma che saranno ridotti al silenzio (Accipe arma contra adversarios hujuscrucis; cum enim de Domino cruceque contra infideles quæstio tibi erit, prius statue manu tua Signum, et obmutescet contradicens. -).Nell’ordine temporale non meno che nell’ordine spirituale i lumi divini sono necessari all’uomo: il segno della croce li ottiene. Per la qual cosa gl’imperatori di Oriente, successori di Costantino, costumarono, parlando al Senato di cominciare dal segno della croce (Catech. Illum. IV). – Come di già vedemmo, san Luigi innanzi discutesse in consiglio gli affari del regno, si conformava a questa religiosa ed antica pratica.  Se al pari de’ principi, i più grandi che abbiano governato il mondo, i re e gl’imperatori del secolo decimonono ricorressero a questo segno, pensi che gli affari anserebbero sì male? Per me son convinto, come della mia esistenza, che andrebbero molto meglio. I governi nostri contemporanei hanno minor bisogno di lumi, che quelli d’altri tempi? Hanno essi la pretensione di trovarli altrove che in Colui che ne è la sorgente, lux mundi? Conoscono eglino un mezzo più efficace del segno della croce per invocarlo con successo? Tutti i secoli non depongono per la sua efficacia con ogni maniera di testimonianze? La Chiesa, che dovrebbe essere loro oracolo, non rifinisce dal proclamarlo. V’ha un concilio, un conclave, un’assemblea religiosa che non cominci dal segno della croce? Fedeli ereditieri della tradizione, i preti cattolici parlano essi dall’alto della cattedra senza armarsi di questo segno? Con ciò eseguiscono la prescrizione degli antichi Padri : « Fate il segno della croce, scrive san Cirillo di Gerusalemme e, voi parlerete. Fac hoc signum, et loqueris » (S. Cyrill. Hieros. Catech. XIII).  Quanto dissi de’ re, èda dire di quelli cui è commesso l’insegnamento altrui. Il Verbo incarnato, non è forse il Signore di tutte le scienze, il professore de’professori, il maestro de’ maestri? se il segno della croce presiedesse all’insegnamento moderno, a’ libri che si stampano, credi tu che sarebbero inondati di errori, di sofismi, d’idee false, di sistemi incoerenti, il cui effetto certo è di far discendere il mondo moderno nelle tenebre intellettuali, dalle quali il Cristianesimo l’aveva tratto? Per l’anima l’uomo ha bisogno di forza: ilsegno della croce n’è sorgente feconda. Guarda i tuoi illustri avi, i martiri. A chi questi domandano il coraggio pel trionfo nelle loro battaglie? Alla croce! Generali, centurioni, soldati, magistrati, senatori, patrizi o plebei, giovani e vecchi, matrone e candide vergini, tutti dimandano scendere nell’arena, muniti di questa invincibile armatura, insuperabilis christianorum armatura. Vieni, te ne mostrerò qualcuno. A Cesarea il generoso martire che cammina al supplizio èil centurione Gordio. Lo vedi ? calmo ed in sé raccolto, egli arma della croce lasua fronte (S. Basil. Orat. In S. Gord.).Qual è questa città dell’Armenia assisa nel mezzo delle nevi, e sulle sponde del lago di ghiaccio? È Sebaste. Eccoti verso sera quaranta uomini fra i ceppi, e nudi trasportati nel mezzo del lago condannati a passarvi la notte. Chi sono? Quaranta veterani dell’armata di Licinio. Una forza sovraumana è loro altrettanto più necessaria per resistere, che sulla riva son disposti de’bagni caldi per quelli che rinunziassero alla fede. Fanno il segno della croce, ed una morte eroica corona il loro coraggio (S. Ephrem, Encom. in 40 SS. Martyr.). – Abbiamo di già veduta Agnese segno di croce vivente nel mezzo delle fiamme. Ecco altre vergini nate all’epoca d’oro de’ martiri. La prima è Tecla d’illustre prosapia e più illustre ancora per la fede. I carnefici padroni di essa la conducono al rogo, e dessa coraggiosa l’ascende, e fatto il segno della croce tranquilla resta nel mezzo delle fiamme, ma una pioggia caduta a torrenti estingue le fiamme senza che un capello solo della giovane eroina venisse bruciato (Ado in Martir. 23 Sett.). -La seconda è Eufemia non meno celebre della prima. Il giudice la condanna alla ruota ed in un batter d’occhio il fatale strumento è allestito, per ricevere le delicate membra della giovane vergine. Questa si segna, e tutta sola s’avanza contro la spaventevole macchina armata di punte di ferro, la guarda senza neppure impallidire, ed al suo sguardo lo strumento va in pezzi e schegge (Apud. Sur. T.v., et Baron. Martirol. 16 Sett). Guarda ancora: noi siamo in uno de’ pretori romani che spesso rosseggiò del sangue de’ nostri padri, e fu testimone delle sublimi loro risposte, e della eroica costanza di essi. La persecuzione di Decio è nel suo bollore, e tu conosci questo sanguinario imperatore, che Lattanzio chiama esecrabile animale, execrabile animal Decius. Una folla di Cristiani è dinanzi al giudice incolpata dall’accusatore di mille delitti. I Cristiani sono condannati avanti il giudizio, ed eglino sel sanno. Che cosa fanno? elevano gli occhi al cielo, fanno il segno della croce e rivoltisi al proconsole, gli dicono: Vedrai non esser noi uomini timidi, e di nessun coraggio (Apud sur., 13 April.). Se volessi continuar siffatta storia dovrei fare defilare dinanzi agli occhi tuoi tutta 1’armata de’ martiri non v’ha un solo valoroso soldato del Crocifisso, che non abbia innalzato lo stendardo del suo re. Basti nominarne alcuni: san Giuliano, san Ponziano, i santi Costante e Crescenzio, santo Isidoro, san Nazario, san Celso, san Massimo, santo Alessandro, santa Sofia con le sue tre figlie, san Paolo e santa Giuliana, san Cipriano e san Giustino. Questi di tutti i paesi e di tutte le condizioni rendono testimonianza al costume de’ martiri di armarsi del segno della forza avanti entrassero in battaglia sia con gli uomini, che con le bestie e gli elementi. – V’ha ancor di più : temendo che il peso delle catene impedisse loro di formare il segno della croce, eglino pregavano i loro fratelli, i preti, loro padri spirituali di armarli del segno della vittoria. Corobo, convertito alla fede dal martire Eleuterio, corre nell’anfiteatro per ottenere la corona di martire: « Prega, per me, dice al suo padre in Gesù Cristo, ed armami col segno della croce, con che armasti Felice il condottiere dell’esercito » (Apud. Sur. 18 Aprile). Gliceria, nobile figlia di un padre per tre volte console, è messa nel fondo di una oscura prigione. Vedendosi alle prese con l’inimico, la prima cosa che opera è di pregare il prete Filocrate onde le segni la fronte col segno della croce. Filocrate esegue i suoi desideri dicendole: Il segno di Cristo compisca i tuoi voti (Ibid. III et Baron. T. II).Di fatti la giovane eroina discende nell’anfiteatro, e sul punto di raccogliere la palma della vittoria, rivolta a’ Cristiani confusi tra la folla degli spettatori, cosi dice loro: Fratelli, sorelle, figli e padri, e voi che potete essermi madre, vedete, e considerate, quale sia l’imperatore, di cui abbiamo il carattere, e quale sia il segno che onora la nostra fronte! (Ibid.). – Tu lo vedi; tutti i martiri hanno cercata la loro forza nel segno della croce. Avrebbero eglino cercato un sostegno nel niente? E questo grande Imperatore, per cui morivano, li avrebbe lasciati in siffatta incurabile illusione? Se qualcuno lo crede, ne apporti le prove.

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (5)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (5)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G. NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO QUINTO

ARGOMENTO

Lo spettacolo della natura soggiogó il Paganesimo, invece di rivelargliene l’Autore. Culto tribuito dal Paganesimo alle forze della natura; abbiettezza ridevole di quello. Cristo riordinò l’uomo verso la natura sensibile. Amore ed anche culto del Cristiano per questa. Esso ne domina le lusinghe, ne accetta i dolori, perché gl’intende, e vince la morte.

I. La singolare spensieratezza, onde noi mortali ci aggiriamo continuo in mezzo ad un mondo ricco di tante forze ed adorno di tante bellezze, senza talora degnarle, non che d’un’ammirazione, neppure d’uno sguardo, quella spensieratezza, io dico, non può ad altro attribuirsi, che alla lunga abitudine, la quale toglie alle cose eziandio più meravigliose la meraviglia. Ma io vado pensando tra me, che se un uomo sano ed adulto, col vigoroso esercizio di tutte le sue facoltà, sorgesse, come per incantesimo, di sotterra o piovesse dal cielo, tutt’un tratto, ed abbracciasse la prima volta d’un’occhiata il mondo; oh! questi davvero, al subito spettacolo di tanti portenti d’ordine, di vigore e di bellezza, sarebbe trasportato quasi fuori di sé in un’estasi di stupore. Vedere questa terra vestita di biade, adorna di fruttifere piante ed ammantata di fiori, sustentar tante vite, provvedere a tanti bisogni, fornirci tanti diletti e tante ricchezze, chiudersi in grembo di vaghissime pietre, di preziosi metalli e di gemme pellegrine. Osservare questa sterminata e svariatissima famiglia di bruti animali, e quali vigorosi e pazienti alla fatica per nostro servigio, quali sustanziosi e dilicati al gusto per nostro sustentamento, ed altri vaghissimi in vista e nel gorgheggiare canori, per nostro diletto. Mirare queste acque, dove raccolte in immensi fortunosi Oceani, non preterire i confini loro segnati dal dito di Dio; dove ristrette in maestosi fiumi favorire i commerzi di nazioni tra loro lontane; dove in limpidi ruscelli, dechinando da freschi e verdi poggi, fecondare innaffiando le sottostanti pianure: e queste acque medesime, assottigliate in vapori e librate nel liquido aere, ora condensarsi in piogge, ora indurarsi in grandine, ora spiumacciarsi in candidissime nevi. Ammirare questo cielo, che quasi padiglione maestoso ci si stende sul capo: bello quando versa a torrenti la vita, il calore e la luce nella chiarezza del giorno; ma più bello forse quando, nei sereni silenzii di tranquilla notte, muovono in loro danza i folgoranti astri, mentre veleggia solinga in quel suo mare d’azzurro l’argentea luna, e perle ruggiadose piovono dal manto stellato dell’antica notte. – Ora chi crederebbe che in mezzo di una natura così inestimabilmente splendida e feconda, l’uomo, creato ad esserne il re, abbandonato a sé stesso, lungi dal farsene conoscitore ed ammiratore intelligente, ne fu anzi stupido spettatore, timido schiavo e cultore superstizioso ed abbietto? E pure proprio questa fu la condizione lamentevole dell’uomo pagano, nelle sue attenenze coll’universo sensibile. Esso, separatosi da Dio e se stesso ignorando, non volle conoscere la sensata natura, la quale era stata appunto costituita, per essere come scala, o via mediana tra l’uomo e Dio: due termini a lui ugualmente oscuri ed ignoti. Pertanto la universalità delle cose esteriori, restando pel Paganesimo un libro chiuso, esso non vi lesse nulla di quello che il Creatore vi avea scritto; e sentendo la natura seducente, se ne lasciò sedurre; scorgendola inesplicabile, la disse fatale; sperimentandola prepotente, si abbassò ad adorarla, struggendo incensi ed offerendo sacrifizii a quegli obbietti ed a quelle forze naturali, da cui avrebbe dovuto essere servito come re e signore. Della quale mostruosa perversione credo io, che le medesime insensate creature vergognassero e gemessero e fremessero a loro modo; e così forse può intendersi quella profonda parola di Paolo ai Romani, laddove disse di sapere, che la creatura, fino ai tempi di Cristo, gemebonda dolorava, per partorire una volta quella cognizione del Creatore, alla quale produrre era stata ordinata. Scimus enim quod omnis creatura ingemiscit et parturit usque adhuc (Rom. VIII, 22). E questo appunto ho divisato móstrarvi nell’odierno discorso: come cioè il Paganesimo si rendesse mancipio della natura; come Cristo ce ne restituisse in certa guisa il dominio, abilitandoci colla sua grazia a superarne le seduzioni, a portarne con rassegnata tranquillità le molestie, ed a trionfare perfino la stessa morte. Incomincio.

II. Il dominare la natura sensibile o corporea non importa già, come alcuni maleavvisati potrebbero credere, il valersene ai proprii usi, alimentandoci del regno vegetale e dell’animale, respirando l’aria, rinfrescandoci dell’acqua, riscaldandoci col fuoco. A questa maniera se ne valgono eziandio i bruti animali, e non per questo si dice che essi dominano la natura corporea. Che se noi ne caviamo servigi ed emolumenti assai maggiori, che non fanno i bruti, perché nel valercene ci aiutiamo dell’intelletto; ciò significa che noi per natura siamo da più delle cose irragionevoli ed insensate, ma non ci conferisce alcuna perfezione morale o preminenza sopra di esse. Il trovarci dunque in questa natura sensata colla dignità propria dell’uomo e colla indipendenza da cose tanto minori di noi, suppone primamente l’intenderle per quello che sono; val quanto dire conoscerle come procedenti dall’Autore supremo dell’universo. Suppone secondamente il sapere perché sono, cioè a qual fine prossimo ed immediato furono ordinate, ed il saperlo non già di questa o quella cosa particolare, a che giunge spesso la scienza dei naturali; ma conoscerlo di tutto il complesso di questa gran macchina dell’universo. Il quale doppio conoscimento del che è, e del perché è, appartiene così propriamente alla nostra natura razionale ed intellettiva, che forse è il primo desiderio che si schiude nelle anime giovinette coi primi albori della ragione. E voi, o genitori, che assistete, senza avvedervene, a quel successivo svolgersi della ragione, che va a mano a mano aggiornando nelle care animucce dei vostri figliuoletti, voi avete potuto osservarlo le cento volte in quel richiedervi che essi vi fanno appunto di questo; ed in ogni tempo, in ogni luogo, qualunque cosa nuova si offra al loro occhio o qualunque nuova voce giunga loro all’orecchio, ed essi, afferrandovi pel braccio o tirandovi pel gherone, vi richieggono con molta istanza: babbo, mamma, che è egli codesto? e perché è codest’altro. Anzi se vi ponete mente, vi accorgerete che la domanda: perché è? viene alquanto più tardi dell’altra: che è? in quanto il concetto di causa, inchiuso nella prima, è posteriore al concetto dell’essere espresso nella seconda. Saputo poi che sono e perché sono le cose, cioè saputo che le sono creature di Dio, e sono state fatte ed ordinate da Lui a solo nostro servigio, noi acquistiamo tosto coscienza della nostra dignità, acquistiamo sentimento della nostra stragrande preminenza sopra tutta la natura corporea, della quale sentiamo di essere il fine immediato e lo scopo. O non sapete voi, più degno essere l’oggetto, per cui si fa alcuna cosa, che non la cosa che si fa? come più degno è il vostro figliuolo, che non la vesticciuola od il ninnolo, che gli comperaste in questi giorni per la Befana. Anzi le creature medesime irragionevoli ed insensate starei per dire, che sono, alla loro maniera, liete e gloriose di essere conosciute a questo modo; ché incapaci esse di conoscere Dio, in questo pongono ogni loro vanto, come acutamente osservò Agostino, nel rivelarlo a noi colle loro bellezze è nel farlo conoscere ed amare da noi: Cum noscere non possint, quasi innotescere velle videntur (August. Conf. XI). In questa economia poi tutte le forze della natura, non essendo che ministre di Dio, qualunque benefizio da esse ci venga, e dico ancora qualunque incomodo o danno, si guarda come venuto da Dio medesimo. Dirò più innanzi quanta dignità, quanta pace, quanta contentezza viene al Cristiano dal conoscere ed intendere la natura a questa maniera. Per ora mi è uopo venire all’antico Paganesimo, il quale dal non conoscere le creature a quel modo, trasse appunto gli effetti contrarii a quelli, che ne traggono i Cristiani. – In quel tempo di universale cecità l’uomo, considerandosi come balestrato guaggiù a caso, senza sapere da cui e perché, si vedea abbandonato alla balia della pazza fortuna o del cieco fato, che è tutto lo stesso. L’universale sensibile natura era per lui affatto mutola e diserta; le cose esteriori gli facéano solamente sentire il bisogno che esso ne avea, la dipendenza assoluta da loro, nella quale esso versava; e non trovando schermo che bastasse contro le prepotenti forze di quelle, se ne vedeva spesso vittima e zimbello, senza aver modo, non che di attenuarne gli effetti, neppure d’intenderne il perché. Noi nati alla Fede, noi allevati e cresciuti nel Cristianesimo non possiamo mai interamente svestire i concetti bevuti col latte; e però mal ci potremmo formare un’idea di quello, che dovea essere un uomo ed una società aggirantesi tra quelle tenebre. Generazioni incalzate da tanti dolori privati e pubblici, oppresse da tante sventure naturali ed artificiale, con innanzi agli occhi una morte indeclinabile, di cui s’ignorava al tutto che fosse o a che menasse; e frattanto senza un lenimento al mondo, senza una consolazione, senza una speranza, senza neppure una spiegazione che valesse, proprio come quelli, qui spem non habent (1 Thessal. IV, 12). Quando io vi penso, mi sento compreso e vinto da tanta pietà, che non so quale sia maggiore la mia, o la compassione per tanti milioni di creature umane passate per la vita cosi sconsolate ed afflitte, o la riconoscenza a Cristo Redentore che, per sola sua grazia, a quella misera e svilente condizione ci ha tolti. Ed aggiunsi a vero studio alla qualificazione di misera quella altresì di svilente. Perciocchè qual cosa più vergognosa per un essere intelligente, che il divenire giuoco e ludibrio di creature vilissime, di forze cieche, di un inesorabile fato? Il quale sembra per dileggio detto fato, dall’antico for faris, parlare o dire, perché addirittura il fato non parlava mai e non diceva mai nulla. Ma l’avvilimento del genere umano toccò il suo colmo, quando esso, abusando l’idea di Divinità, che pure ritenea confusamente, l’attribuì, per somma empietà, a quelle creature medesime, che erano state ordinate a servirlo, e se ne fece altrettanti dei, atterrandosi innanzi ad esse con maggiore riverenza , che molti Cristiani non farebbero al presente innanzi alla Croce, od alla medesima santissima Eucaristia. E pure questa fu la più compatibile delle idolatrie, la quale dichiarava dio tutto ciò di cui avesse bisogno o paura, come disse Minucio Felice: Sacra facta sunt, quae fuerant assumpta solatia (OCTAVIUS, cap. XX). E così in Apollo si adorò il Sole, perché fonte di luce e di calore; in Cerere si venerarono le biade, in Vulcano il fuoco, in Eolo il vento, in Bacco avea culto il vino, e così di altri innumerevoli. Anzi non pure le forze cieche della natura e gli oggetti necessarii o minacciosi alla vita erano, senza più, dichiarati divinità ed aveano templi, are e sacrifizii; ma erano divinizzate le azioni .più volgari della vita, da farsene una falange di numi, che si contavano a migliaia, con una stranezza e bizzarria di nomenclature, da imbrogliarvisi dentro i più consummati antiquarii. Certo da Varrone, che ne sapea a menadito, ricorda Arnobio, che una lupa, immemore dei proprii nati, diè nome a Luperca ed ai Lupercali; quod, abiectis infantibus, pepercit Lupa non mitis, Luperca est auctore appellata Varrone; e poscia ricorda di Præstana da præstare, di Pandica o Panda da pandere, di Pellona da pellere; e fino vi avea il genio o dio Lateranus, che presiedeva al focolare, perché questo era costrutto di mattoni, latinamente lateres. Che dirò poi della pavida e ridevole superstizione, onde dipendeano così ciecamente dagli augurii e dagli aruspici, dei quali riderebbero i nostri putti tant’alti, e che erano nondimeno la quintessenza della sapienza sacra di quei grandi uomini dell’antichità pagana. Signori si! io non conto favole! I Fabii ed i Camilli, i Cincinnati e gli Scipioni, anzi i Duci, i Consoli, il Senato, l’esercito ed il popolo allibivano dalla paura e soprassedevano le deliberazioni e le battaglie, se un uccello fosse volato di sbieco, se un maiale avesse grugnito in mal punto, se nelle interiora di un pollo si fosse scoperta una benché lieve magagna, la quale non impedirebbe il vostro cuoco dall’apprestarvene un intingolo alla mensa. Tant’è! la cosa è qui! a tale codarda abbiettezza, a tale vergognosa sommissione alla natura insensata era dechinato il Paganesimo, che un suo sapiente avrebbe temuto più la dea Tosse o la deessa Febbre di quello, che i più vili mancipii non temano la verga del loro padrone.

III . Come Cristo Redentore, colla pietosissima sua venuta e colla celeste sua dottrina, cangiasse in tutt’altra questa scena obbrobriosa e lagrimevole, sottraendo il genere umano alla servitù professata per gli elementi del mondo, e ricollocandolo sopra di quelli, voi potreste intenderlo con niente altro, che col volgere lo sguardo alla società cristiana; anzi con solo consultare i vostri pensieri ed i vostri affetti. Ma badate! io dissi la società cristiana, quale la fece la Chiesa, non quale la vorrebbero rifatta i nostri ammodernatori umanitari, ed in gran parte vi sono riusciti: io intendo i vostri pensieri ed i vostri affetti, quali ve li formò una madre pietosa, e ve li educò un pio maestro od una famiglia cristiana, non quali avete potuto voi storpiarlivi con conversazioni da scredenti o con letture mezzo atee. Se dunque voi in quella società cristiana guardate ed in voi medesimi, vedrete immensa distanza, smisurata differenza che dispaia l’uomo gentile dal Cristiano, nelle sue relazioni colle forze cieche della natura sensata e corporea. Questa pel Cristiano è una vasta orma della Bontà divina; è un raggio quasi sfolgorato fuori da quell’Oceano lucidissimo della ineffabile sua bellezza; e le forze e le operazioni della natura non gli appariscono altrimenti, che come altrettanti benefizii venutigli da un Padre affettuoso, che lo ama e lo provvede non pure del necessario e dell’utile, ma eziandio del dilettevole. Così la rivelazione, nel domma della creazione, non solamente ci ha svelata la verità fondamentale, che chiarisce, purifica, feconda e coordina in una immensa sintesi tutto il caos delle umane conoscenze; ma essa ci ha dischiusa nella medesima natura corporea una sorgente inesauribile di bellezze e di letizie, le quali, nel mondo del tirocinio, sono il saggio e l’apparecchio delle letizie e delle bellezze celestiali della patria. – Sapete pertanto perché noi Cristiani, e noi solamente intendiamo bene la creatura? Perché noi crediamo nel Creatore; e la inestimabile svariatezza degli oggetti che ne circondano, sotto quella luce riflessa della Fede, si abbellano, s’ingemmano, si avvivano in certa guisa e ci parlano in loro favella le glorie del loro Fattore. E i pesci che guizzano silenziosi nelle limpide onde, e i cari augelletti che dei loro canti rallegrano le foreste, e i fiori variopinti, e le erbe odorate, e le placide marine vestite di azzurro espresso dal cielo, e l’aurora inghirlandata di rose, e i dorati zaffiri di un sereno tramonto, e le tremolanti stelle mattutine, e l’iride che coi sette suoi colori s’accorda sì bene coi sette toni della musica; tutto in somma che è venusto, che è bello in questo mondo, lungi dallo sviarci da Dio e farcene dimenticare le ineffabili bellezze, ce ne è anzi testimonio eloquente, e ci conduce soavemente ad ammirarle, a sapergliene grado: dall’ammirazione poi e dalla riconoscenza è piccolo il varco all’amore. Che più? fino questo vuoto aere che ne circonda per tutto e che respiriamo, al nostro occhio cristiano si avviva quasi, si anima, si popola d’intelligenze separate o di spiriti angelici, che vogliamo dirli, mandati da Dio a nostro servigio ed a nostra custodia: concetto sì caro alle moltitudini credenti, che l’arte cristiana non seppe quasi mai istoriare un quadro, senza camparvi per aria alquanti angeletti, od anche solo delle testine alate, simbolo espressivo di esseri, tutta la cui vita è l’intendere, e che vincono di celerità gli stessi venti. Di qui voi vedete che pel Cristiano l’amore, e se volete, ditelo pure senza sospetto, il culto della natura è amore e culto di Dio; stante che, riguardata la natura come immagine del suo Autore, lo stesso alto, che si porta all’immagine, uopo è che si porti e si termini aļl’immaginato, come notò il Filosofo: eodem actu fertur intellectus in imaginem  el in id cuius est imago (Aristot. Phys. VIII). Appunto come voi   mirando con tanto affetto il ritratto del figlio, della sposa o dell’amico lontano, nel ritratto amate propriamente gli originali. Di questo santo e castissimo amore diligevano la natura un Filippo Neri, un Francesco di Sales, un Ignazio di Loiola, e soprattutto quel Serafino di Francesco d’Assisi, che, in tempi di feroci ire e di fraterne stragi, fu mandato dal cielo per ischiudere al mondo tesori di tenerezza e di amore: tesori che, dopo sei secoli, sono ricchi ancora. Per quell’anima innamorata suo caro fratello era il Sole, suora sua diletta gli era la Luna; e fratelli gli erano i fiori ed i passerini, sorelle le semplicette colombe e le modeste viole. Oh! che? non erano forse tutti figli dello stesso Padre? Ed era una delizia a sentirlo inneggiare a Dio dallo spettacolo della natura! udirlo conversare alla dimestica cogli astri lucenti, colle tranquille rugiade, colle rose vermiglie, coi candidi gelsomini e colle innocenti agnellette! Ti parea di essere trasportato, quasi per miracolo, nel giardino di Eden ad ammirarvi l’uomo, quale lo avea fatto e nobilitato Iddio, non quale esso si era ridotto per propria colpa. E vi è più oltre. L’uomo in questa guisa, rigenerato e rimesso quasi sull’antico suo seggio per la grazia del Salvatore, ci mostra qualche cosa di più stupendo, che non fosse lo stesso Adamo innocente. Perciocchè in Adamo innocente quello stato era in piena armonia colla natura; laddove nell’uomo rigenerato è proprio la natura estenuata e guasta, la quale così, trionfata dalla grazia, trionfa.

IV. Né è ch’io non vegga ciò che voi potreste opporre. Voi potreste dire, che anche i Cristiani dopo il Vangelo sono lusingati dalle bellezze seducenti della natura; si veggono tribolati e spesso ancora stritolati dalle prepotenti sue forze, né più né meno di quel che fossero i Pagani; ed in ogni caso vi è la morte, colla quale il mondo cristiano non ha potuto venire a patti più di quello, che potesse già il gentilesco. Voi dite verissimo, signori miei, ed io non potrei certo recare in forse le vostre asserzioni. È indubitato: un oggetto lascivo, un cumulo d’oro, un rinomo glorioso esercitano, per quello che materialmente è in loro, lo stesso fascino sopra un’anima cristiana, che già facesse sopra una pagana: ed i nostri credenti ed i nostri Santi patiscono fame e sete, caldo e freddo, dolori, agonie e morte proprio come le patirono i ciechi ed empi Gentili: questo è certissimo. Ma che perciò? Pretendo io forse che la Redenzione abbia cangiata la natura? Neppure per ombra! La natura è restata la stessa, e lo stomaco digiuno latra, e le folgori incendiano, e le stagioni si stemperano, e i dolori affliggono, e la morte uccide ora, siccome prima, e forse, da che la medicina ha fatto tanti progressi, più presto di prima. Quello che sostengo io è, che per la Redenzione si sono cangiate le relazioni dell’uomo verso la natura corporea; sicché la dipendenza si è fatta libertà, ed il servaggio si è fatto dominio, e le privazioni violente si sono fatte volenterosa rassegnazione, ed il patimento si è mutato in gaudio, e la morte medesima si è cangiata in ferma speranza di eterna vita. Ora vi pare egli poco tatto cotesto? E che è finalmente la schiavitudine, che è il servaggio, se non il perdere la padronanza di sé medesimo, ed essere la persona da forza estrinseca costretta a fare quello che non vorrebbe, od impedita dal fare quello che vorrebbe? Pertanto se un obbietto sensibile mi lusinga a quello, che il mio intelletto ripudia, che la mia coscienza condanna e che la mia ragionevole volontà non vorrebbe; ed io nondimeno mi ci piego, è manifesto che io non fo quel che voglio, ma fo piuttosto quello che non vorrei, e che sento di non dover volere. È proprio la parola di san Paolo, il quale, in persona dell’uomo debilitato per la colpa, dice appunto: Non quod volo bonum hoc facio, sed quod nolo malum hoc ago (Rom . VII , 15 .). Avete notato? Non fo quello che vorrei; ma fo quello che non vorrei. Ora questo appunto è la schiavitudine: fare ciò che l’uomo non vorrebbe fare: ed è schiavitudine tanto più abbietta, quanto è più abbietta la cosa che così ci domina. Il Paganesimo per questa parte, io già vel mostrai, era un popolo di schiavi, perchè tutti a questa maniera servivano agli oggetti sensibili, e non sospettàvano neppure la possibilità del dominarli. Questo fu dono prezioso di Cristo e dell’Evangelio; in quanto che noi, illuminati dalla Fede e confortati dalla grazia, facciamo propriamente quello che vogliamo colla parte migliore di noi, senza che vi abbia, non che cosa terrena, ma potenza creata, che valga ad imporci quello che non vogliamo od a rivolgerci da quello che vogliamo. Eh! questa sì! che è vera signoria di sè, vera libertà ed indipendenza vera! Ma quando noi dalle prescrizioni di Cristo ci dipartiamo, per attaccarci a qualche oggetto illecito, che ci captiva, allora, in quell’atto almeno, diventiamo dipendenti e schiavi di quell’obbietto stesso.- Ed oh! miei cari! fossero meno frequenti quegli atti! ma troppo spesso veggiamo persone anche gravi, anche addottrinate ed autorevoli servire ed obbedire, non dirò ad un paio d’occhi cerulei, o ad una bocchina rosata, ma all’odore di un pollo arrosto in venerdì. Quasi mi vergogno, che siami sfuggita di bocca una così vulgare parola: e ve ne chieggo scusa; ma la sconvenienza che forse vi è stata nel dirlo, vi ammonisca della sconvenienza tanto maggiore che vi sarebbe nel farlo. Ed il peggio si è, che i poveretti si credono di esercitare proprio allora il loro libero arbitrio, quando proprio allora la fanno da schiavi, di cui meno dovrebbero; e se interrogano bene la propria coscienza, si accorgeranno di servire ancora a cui meno vorrebbero. Per converso il Cristiano allora propriamente si fa padrone di tutti gli oggetti sensibili ed allora li domina tutti, quando quelli accetta che vuole, quelli rifiuta che non vuole, e, secondo la bella parola di Minucio Felice, allora propriamente li possiede tutti, quando contro i dettami della ragione e della Fede non ne agogna nessuno. Quæ omnia, si non concupiscimus, possidemus (OCTAVIUS ,. cap . XXXVI).

V. Che se tanta è la differenza dell’uomo pagano dal Cristiano, quanto alle lusinghe della natura, non credeste che sia minore, quanto alle forze della natura stessa, ed agli scomodi, ed ai dolori, ed alle distruzioni che ce ne derivano, compresavi ancora la suprema. Perciocché credete voi che sia piccolo il divario tra il soffrire alcun travaglio coll’assenso della volontà, o colla ripugnanza di essa? Io anzi vi so dire che questo è il tutto; stante che il patire dell’uomo non dimora tanto nella fisica reazione ad esteriori impressioni sgradevoli, quanto nella violenta opposizione della volontà, che a quelle ripugna. Ove questa ripugnanza si togliesse, ove in suo luogo vi succedesse la conformità della volontà stessa, non solo sarebbe tolto ciò che ci ha di più cocente nel patire, ma questo si convertirebbe in rassegnazione e quasi che non dissi in soddisfazione ed in gusto. Oh! che? non sapete con quanta soddisfazione una madre affettuosa si priva del sonno, si priva del cibo, non cura i divertimenti, per assistere le lunghe notti un figliuoletto infermuccio? E quella soddisfazione non si volgerebbe in vera contentezza, in verissimo gaudio, quando essa fosse certa che, con quei suoi disagi, giungerà ad assicurare la vita e la sanità a quel caro sofferente? Ditemi ora voi: Forse che il digiuno, le lunghe vigilie, la solitudine, l’aere putido e graveolente che empie la stanza e circonda il letto di un infermo, non sono incomodi? non sono disag ? Sono, qual dubbio c’è? ma se la volontà, non che accettarli, li desidera, se ne compiace, se ne dice beata; che cosa vorreste più innanzi, perché tutta la persona se ne debba tenere contenta? Supposto dunque che gl’incomodi ed i mali, originati dalle forze necessarie della natura, siano indeclinabili, il vero segreto di attenuarli consisterebbe nel trovar modo, che la volontà non vi ripugnasse, ne fosse anzi non solo rassegnata, ma soddisfatta. – Ora di questo modo il Paganesimo non conobbe, non sospettò un’acca; e chi ne avesse parlato saria stato tenuto poco meno che mentecatto: chi avesse professato di desiderare e di cercare il patimento, saria stato accolto colle fischiate, come sarebbe a’ dì nostri, esempligrazia , un Cappuccino nelle vie di Londra. Come! vi avrebbono detto: accettare, amare, procurare fino il dolore! ma cotesto ripugna al senso comune! come se altri dicesse, che si odii il bene e si ami il male. Ne potea altro essere in una società, la quale appena conosceva altro bene ed altro male che il fisico, e ristretto all’individuo, di cui era bene o male. So che vi avea una setta nominata degli Stoici, che faceano professione di non turbarsi ai mali della vita; e ciò per la sola ragione, che il turbarsene non valeva a medicarli. Ma io non basto ad intendere che razza di conforto dovea essere questo! La impossibilità di schivarlo, lungi dall’attenuare il dolore, spesso lo aggrava; e quella stupida ed orgogliosa insensataggine se vietava i femminili lamenti a sfogo dell’ambascia, traboccava l’uomo nei cupi dispetti e nella sterile rabbia dell’impotenza! Tutto al contrario il Cristianesimo! Esso, rivelandoci da cui ci vengono i mali fisici, i fini perché ci vengono, i frutti di necessaria espiazione e di virtù preziose, che se ne possono cogliere in questa vita, ed i guiderdoni immortali, che ne possiamo sperare nell’altra, ci ha spiegato il dolore, lo ha lenito, lo ha confortato, lo ha reso, non che accettabile, desiderevole. Né ciò il Cristianesimo ha fatto colla sola dottrina (che pure sarebbe molto); ma di questa dottrina ci tiene perpetuamente sotto degli occhi l’attuazione parlante, prima in Cristo, per antonomasia « l’Uomo dei dolori »: Vir dolorum (Isai. LIII , 3), poscia in tutta l’agiografia e nella vivente santità, soprattutto nei claustri religiosi; in quanto quella e questa, esemplando in loro il divino modello, appena sono altro, che la professione delle privazioni e delle sofferenze. Che se l’abbracciarle volontariamente è di pochi, il rassegnarvisi con molta pace può e deve essere di tutti; ed è in fatto di moltissimi, fino a parerci divenuta la cosa tanto comune, che più non vi si bada. E chi è che badi alla risposta dell’infermo o del comunque altro tribolato, che richiesto del come stia, vi risponde: Come Dio vuole? Ed ha ragione! sta come Dio vuole; e stando così, qual cosa più facile, che il conchiuderne di stare ottimamente? E se tutte le forze della natura sono ministre di Dio; se questo Dio è mio Padre amoroso, che vuole la mia eterna felicità più di quello che non possa desiderarla io medesimo; deh! quale calamità privata o pubblica, qual mio infortunio, o dolore, o scomodo, o traversia mi dovrà parere soverchia? lo penso di essere un infermo, e volentieri accetto dal medico i tagli benché dolorosi, i farmaci benché amari, perché so che quei tagli e quei farmaci saranno la mia salute. Io sono un figlio, e lungi dal gravarmene, mi rallegro, quando mi veggo corretto e castigato dal Padre affettuoso, che con ciò mi dà nuovo pegno del suo amore. Dove è dunque la ripugnanza ai mali, se io anzi li accetto, li amo, me ne rallegro? E se io non ripugno, non io servo ad essi, ma essi servono a me per la mia eterna salute; e così io domino, io signoreggio quei mali, perché in sostanza il dominare, il signoreggiare alcuna cosa non è altro, che il potersene valere liberamente a proprio profitto. – E benché questa non sia cosa, che si attenga necessariamente al nostro discorso, non voglio nondimeno preterire di osservare, come questo può applicarsi eziandio a quei mali che ci vengono, non dalle forze della natura irragionevole, ma dalla malizia degli uomini. Alla quale ragione di mali, appunto per quell’ intervento della rea altrui volontà, noi ci sogliamo porgere più impazienti assai e più restii, che non ai naturali. E pure se vi è cosa esploratissima nelle Scritture, nei Padri e nei Dottori, ella è questa; che cioè la malizia stessa degli uomini, in maniera più assai arcana, ma nulla meno vera, è strumento nelle mani di Dio altrettanto docile, che le forze cieche della natura. E benché del morale disordine, che è nella colpa, Iddio non abbia altra volontà che permissiva, cioè quella di lasciare operare le cause seconde alla loro maniera; l’effetto nondimeno, che procede dalla colpa a detrimento degli eletti di Dio , è voluto positivamente da Lui a loro correggimento, a loro santificazione ed ammaestrevole disciplina: proprio come vuole, all’intento medesimo, le mortalità, le grandini ed i tremuoti. Così noi possiamo benissimo in questo modo patire ingiustizie, come purtroppo ne patiamo; ma per noi Cristiani non è mai vero, che ci debba parere ingiusto il patire quelle ingiustizie, secondo la bella parola del Crisostomo: iniusta patimur, sed non iniuste (Homil . XVII ad populum Antiochenum); essendovi una mano segreta e giustissima, la quale, a nostro verace vantaggio, adopera, come le forze cieche della natura, così la de liberata malizia degli uomini e le sapienti loro nequizie.

VI. Ma sopratutto la morte! come non ha cangiato aspetto nel mondo cristiano la morte! E che è finalmente questo spauracchio della povera nostra natura? che è esso mai divenuto, dopo che Cristo è nato, è morto ed è risorto per noi? Niente altro che un riposare, requiescit; niente altro che una migrazione, obitus; niente altro che un sonno, dormitio: ecco come la chiamiamo noi Cristiani; ed i sepolcri sono appunto dormitorii, come suona la greca voce κοιμητήριον [=koimeterion). Talmente che, quando voi vi trovate in uno di questi, dovete fare ragione di trovarvi come, di ferma notte, in un gran corridoio di Religiosi, che dormono quinci e quindi, ciascuno nella sua cella, ed aspettano la sveglia del domani. Oh! sì! anche i nostri trapassati, riposando in questo gran dormitorio che è il cimitero, aspettano una sveglia, che fia più sicura di quella, che desterà i Religiosi. Anzi qualche cosa meno del sonno è la morte, come notò il Crisostomo; in quanto nel dormente sono impedite le migliori facoltà dell’uomo: nel trapassato queste sono speditissime, e solo le minori e le infime restano sospese. – Ora non è questo un averci liberati dalla schiavitudine della morte, la quale pesò già così inesorabile e ferrea sul mondo pagano? Ed oh! che conforto pel passaggio nostro e dei nostri cari! E che hanno gli uomini scredenti del nostro tempo, per confortarsi in questa tremenda necessità della natura? Infelici! essi colla Fede hanno ripudiato ogni dignità, ogni blandimento, ogni consolazione, di che essa si fa madre e ministra! Hanno un bel multiplicare di fiori, di poesie, di necrologie e di bugiarde iscrizioni! Hanno un bello innalzare di monumenti più bugiardi delle iscrizioni, i quali la giusta posterità coprirà di fango, se non si vorrà pigliare il fastidio di ridurli in polvere! Ad essi, Pagani redivivi, la tomba non ha altra risposta a dare, che la già data agli antichi: o un dubbio desolante se sono scettici, od uno stupido nulla se sono materialisti. E per converso quante cose non dice a noi la tomba di un nostro diletto estinto, che dormì nel bacio del Signore! Quanto non ci conforta la fiducia, che esso sappia di noi, preghi per noi, e che noi possiamo stendergli la mano soccorrevole e pietosa, fino in quella regione di pene espiatrici e di speranze! E se morte vi ghermì un fantolino, come fiore appena sbocciato sullo stelo e reciso, deh! qual balsamo alla piaga del vostro cuore non è il dolce pensiero, che esso sia al presente un angioletto di più nel Paradiso! Oh! che? non lo vedete da quei seggi inzaffirati e splendenti invitarvi festoso e farvi cenno, coi cari occhietti e colle innocenti manine, d’andarlo a raggiungere, nella patria comune, in seno a Dio? Riposiamo.

VII. A renderci preziosa la chiamata, che di noi fece il Redentore dalla cecità gentilesca alla luce dell’Evangelio, quand’anche non vi fosse altro, che il ragionatovene quest’oggi, mi pare che noi dovremmo stare continuo colla fronte nella polvere, a professare la nostra gratitudine a tanta rivelata salute. E questa chiamata, come sapete, s’iniziò nel Mistero della Epifania. Dio immortale! qual grazia, qual favore, qual dignità acquistata all’uomo per quella chiamata! Di servi abbietti delle più vili creature, quasi tornati ad essere re e signori della universa natura sensata, intendendone per Fede e ragione lo scopo, dominandone regalmente le seduzioni, sostenendone con rassegnata tranquillità le punture, usufruttuandole a vita eterna, e guardando sicuri in viso la stessa morte; la quale in fin dei conti non potrà fare, che tramutarci da una vita tenebrosa e caduca, ad una infinitamente splendida ed immortale. Talmente che la Chiesa, rammemorando nel Martirologio il giorno della morte dei suoi Santi, lo chiama loro giorno natale o natalizio. Ma ad acquistare tanta dignità, non fanno nulla, miei amatissimi, i ricchi patrimonii, i titoli pomposi, la scienza profana, la potenza del comando, e quanti sono mai altri fallaci beni, di che la umana superbia si gonfia e l’umana cupidità si abbevera. Tutti questi obbietti riescono anzi a difficultarci gravemente quella eccelsa dignità; e quasi sempre signoreggiano essi ed opprimono di vera tirannide gli sciagurati, che troppo li agognano quando non li hanno, o li amano troppo quando, per loro sventura, li ottennero. Quello che ci acquista una tanta dignità è la semplicità del cuore, l’umile sentire di noi medesimi, la partecipazione alla povertà,ai dolori, agli obbrobrii del Redentore. Or queste doti non si trovano comunemente, che nei poveri, nei pusilli, negli spregiati dal mondo, i quali sono per questo appunto i prediletti di Dio e la sua più cara porzione. La quale predilezione Cristo dichiarò fino dal suo nascere, come notò il Magno Gregorio, in quanto che egli prima si manifestò a semplici e poveri pastori, che non ai ricchi ed ai saputi Principi di Oriente. Il mondo avrebbe fatto tutto a rovescio: prima i grandi e poscia i piccoli; ma Cristo sapea bene quel che si fare. Dove siete adunque, o diseredati dalla fortuna, oppressi dagli uomini, perseguitati dalla ingiustizia, schiacciati dalla prepotenza, e che vi divorate, nel segreto del vostro cuore straziato, tante privazioni, tante, lagrime, tanti dolori? oh! dove siete? Venite qua! ché io vi voglio mettere in capo stasera quella corona, che vi compete sopra tutto il creato. Se voi siete fedeli a Dio, non vi è lusinga che vi seduca, non vi è male che vi sgomenti, non dolore che vi vinca, non forza che sopra di voi prevalga. Voi avete tutto quel che volete, perché altro non volete avere da quello che Dio vuole; e se Dio vuole in voi passeggero abbassamento e sofferenze passeggere, vorrà (statene certi!) e molto presto gaudii ineffabili e gloria sempiterna.

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (6)

IL SEGNO DELLA CROCE (11)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (11)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA DECIMA

5 dicembre.

Secondo modo di fare il legno della croce presso i pagani. — Testimonianze. — La PIETAS PUBLICA. — I pagani riconoscevano nella croce un potere misterioso.  — D’onde questo venisse. — Gran mistero del mondo morale. — Importanza della croce agli occhi di Dio. — Il segno della croce nel mondo tisico. — Parole dei Padri e di Platone. — Inconseguenza de’ pagani antichi e moderni. — Ragioni dell’odio del demonio contro questo segno.

Uscendo di collegio dopo dieci anni di studio di latino e di greco, non conosciamo neppure la prima parola dell’antichità pagana; l’educazione ci mostra la superficie delle corti, e mai il fondo. Quello che ha luogo in Francia si osserva presso tutti i nostri vicini, e n’ho ben ragione di dirlo. Di che segue, che il fatto di che devo parlarti sarà per molti una strana novella: eccolo. – Quando un’armata romana assediava una qualche città, la prima operazione, che eseguiva il generale, fosse questi un Camillo, un Fabio, un Metello, un Cesare o Scipione, non era di scavar fossati, o di elevar linee di circonvallazione, ma d’invocare gli dei difensori della città, perché passassero nel proprio campo. La formula dell’invocazione è troppo lunga per una lettera, tu potrai leggerla in Macrobio. Ora profferendola il generale faceva per ben due volte il segno della croce. La prima come Mosè, come i primi Cristiani, come al presente il prete all’altare, con le mani distese verso il cielo invocava Giove. Quindi fiducioso per l’efficacia della sua preghiera, crociava devotamente le mani sui petto (Cum Jovem dicit, manus ad cœlum tollit: cum votum recipere dicit, manibus pectus tangit. (Macrob. Saturnal, lib. III, cap. 2).Ecco due forme della croce incontestabili, universali e perfettamente regolari. Se questo fatto degno di considerazione è generalmente ignorato, ecco un’altro che l’è un poco meno. L’uso di pregare con le braccia in croce era comune fra i pagani dell’Occidente e dell’Oriente. Su questo punto non v’ha alcuna differenza fra noi ed i Giudei. Rileggi i tuoi classici. Tito Livio ti dirà: In ginocchio elevavano le loro mani supplicanti verso il cielo, e verso gli dei (Nixæ genibus supinas manus ad cœlum ac Déos tendentes, – lib. XXXVI). Dionigi d’AIicarnasso: Bruto conoscendo la sventura e la morte di Lucrezia, elevò le mani al cielo, invocò Giove con tutti gli dei (Brutus, ut cognovit casum et necem Lucretiæ, protensis ad cœlum manibus: Jupiter, inquit, diique omnes etc. – Antiquit.,lib. IV). E Virgilio: Il padre Anchise sulla riva invoca i grandi dei, con le mani distese (At pater Anchises, passis de littore palmis, Numina magna vocat – Æneid. lib. III). Ed Ateneo: Dario avendo inteso come Alessandro trattasse le sue figlie prigioniere, prostese le mani verso il sole, e pregò, che se egli regnare più non dovesse, il regno fosse dato ad Alessandro. Ed in fine, Apuleo dichiara formalmente che tale maniera di pregare non era eccezionale, o come qualche giovane potrebbe qualificarla, una eccentricità, ma un permanente costume « L’attitudine di quelli che pregano, egli scrive, è di elevare le mani verso il cielo » (Cum hoc Darius cognovisset, manus ad Solem extendens precatus est, ut vel ipse imperaret, vel Alexander, – lib. XIII, c. 87). Un istinto che appellerei tradizionale, altrimenti non avrebbe nome, loro insegnava il valore di questo segno misterioso. Poterlo fare negli estremi momenti del viver loro, era per essi sicuro argomento di salute. Se la morte mi sorprende nel mezzo delle mie occupazioni, mi sarà sufficiente poter levare le mani al cielo, (Habitus orantium sic est, ut manibus extensis ad cælum precemur. – Lib. de Mundo vers. for.) diceva Arieno. E qui è da osservare, ed attendi bene ch’egli non dice: Se posso piegare il mio ginocchio, o battere il petto, o prostrare nella polvere la fronte; ma: Se posso stendere le mie braccia, ed elevarle verso il cielo. Perché ciò? Domandalo a’ tuoi compagni. E domanda ancora perché gli Egiziani aveano la croce nei templi, e pregavano dinanzi questo segno reputandolo nunzio di futura prosperità? Ai tempi di Teodosio, dicono gl’istorici greci Socrate e Sozomeno, quando erano distrutti i tempi degli dei, quello di Serapide in Egitto si trovò pieno di pietre su cui era scolpita la croce. Il che faceva dire a’ neofiti che fra Cristo e Serapide v’era qualche cosa di simile. Questi storici aggiungono che presso di loro la croce simboleggiava il secolo futuro (Theodosio magno regnante, cum fana gentilium diruerentur; inventæ sunt in Serapidis templo hieroglyphicæ litteræ habentes crucis formam, quas videntes illi, qui ex Gentiiibus Christo crediderant, aiebant significare crucem, apud peritos hieroglyphicarum notarum, vitam venturam. – Socrat. lib. V, c. 11. — Sozom. lib VII, c. 15;.). – Presso i Romani, questo istinto si era tradotto in fatto, di che dubiterei, se non avessi sott’occhio una medaglia, che me ne dà una prova materiale. Conoscendo eglino la forza del segno della croce, di che parlo, né volendo restare come Mosè, ed i primi Cristiani con le braccia distese lungo tutto il tempo di loro preghiere, che cosa fecero? Immaginarono una dea cui era commesso d’intercedere continuamente per la repubblica; e la rappresentarono nella postura di Mosè sul Monte, Per la qual cosa in Roma, nel mezzo del Forum olitorium, dove sono al presente i ruderi del teatro Mercello, si elevò la statua della dea detta : Pietas Publica. Dessa era rappresentata in piedi con le braccia distese da far croce col corpo, come Mosè, o come i primi Cristiani delle catacombe, avendo a sinistra un altare su cui bruciava l’incenso simbolo della preghiera (GRETZER, De Cruce, p. 33. — Porcellini, art. Pietas etc.).  – Sul conio del valore impetratorio e latreutico del segno della croce, l’Oriente del Nord era d’accordo con l’Occidente, i Cinesi coi Romani. Il crederesti tu? L’imperatore Hien-Suen sì antico da essere pressoché favoloso, avea come Platone presentito il mistero della croce. Per onorare l’Altissimo, questo antico imperatore congiungeva due pezzi di legno uno dritto e l’altro trasverso (Discours prelim. du CHOU-KING del P. PRIMARE. cap. IX, p. XCII). Dalle quali cose seguita, che de’ sette modi onde la croce può esser fatta, i pagani ne conoscevano tre, da essi eseguiti religiosamente e nelle importanti contingenze. – Benissimo, mi dici, ma sapevano eglino quel che facessero? Non era un segno puramente arbitrario, di nessun significato, e da che nulla è da dedurre? Che i pagani avessero inteso come noi il segno della croce, non è mia pretensione affermarlo; poiché presso di loro questo segno era come le figure presso i Giudei. Presso questi le figure aveano un significato reale, un grande valore più o meno misterioso a seconda de’ tempi, de’ luoghi e delle persone. Tu devi conoscere le lettere scritte con inchiostro simpatico. Queste tuttoché sieno reali, pure sono pressoché inapparenti, ma l’azione del fuoco le rende in un subito visibili. Così e non altrimenti è del segno della croce de’ pagani. Quando fu irradiato dalla luce evangelica questo segno chiaro oscuro, divenne intelligibile a tutti, si scoperse, parlò, come le figure dell’Antico Testamento.  Credere che il segno della croce presso i pagani fosse un segno arbitrario è tale una supposizione che di per se svanisce, poiché tutto ciò ch’è universale non è arbitrario, ed il segno della croce è universale più che ogni altra cosa. Noi tocchiamo, mio caro Federico, uno de’ più profondi misteri dell’ordine morale.  Non dimenticare lo scopo che mi son proposto, devo dimostrare, che la croce è un tesoro che ci arricchisce. Per essere arricchito è mestieri che l’uomo domandi; che Dio lo esaudisca, e che all’uopo l’uomo sia caro a Dio. Non v’ha di più caro a Dio che il suo Figlio e quelli, che a questo si assomigliano.  Ora il Figlio di Dio è un segno di croce vivente, e vivendo eternamente segno di croce, di poi l’origine del mondo, Agnus occisus ab origine mundi, è il gran Crocifisso, e questo gran Crocifisso è il nuovo Adamo, il tipo del genere umano. Per tornar caro a Dio è forza che l’uomo si assomigli al suo divino modello, è mestieri ch’egli sia un crocifisso, un segno di croce vivente. È questo il suo destino sulla terra come quello del Verbo. Povero, in tale attitudine deve presentarsi a Dio dimandandogli soccorso. La Provvidenza non ha voluto lasciargli ignorare questa condizione necessaria pel successo della sua preghiera. Come l’uomo non ha perduto la memoria della sua caduta, e la speranza della redenzione, cosi egli non ha perduto la conoscenza dello strumento redentore. Quindi la esistenza della conoscenza e della pratica, sotto una od altra forma, del segno della croce nelle preghiere, di poi l’origine de’ secoli sino a noi. Dio non solo ha commesso nel cuore dell’ uomo l’istinto del segno della croce, ma ha voluto che nel mondo materiale tutto fosse fatto secondo questo segno, per ricordare all’uomo ancora per Io mezzo degli occhi corporali la necessità di questo segno salutare, ed il ministero sovrano che esercita nel mondo morale. Diffatti, tutto quaggiù ne riproduce l’immagine. Ascolta quelli che hanno occhi per vedere! « È degno di grandissima considerazione, dice Gretzer, che di poi la origine del mondo Dio ha voluto la croce fosse presente agli occhi umani, ed all’uopo ha di maniera disposte le cose, che l’uomo nulla potesse fare senza l’intervento del segno della croce » (Illud consideratione dignissimum est, quod Deus flguram crucis ab initio semper in hominum oculis versari voluit, namque ita instituit, ut homo propemodum nihil agere posset; sine interveniente crucis specie. –De Cruce, lib. 1, c. 58). – Gretzer è il centesimo eco della filosofia tradizionale; ascoltane altri. « Quanto v’ha nel mondo è messo in opera secondo questo segno. L’uccello che attraversa gli spazi del cielo, e l’uomo sia che egli nuoti, o preghi non può agire che secondo questo segno. Per tentare la fortuna, e cercare le ricchezze fino negli estremi confini del mondo, l’uomo ha bisogno di una nave. Questa non può solcare le onde senza alberi, e questi di braccia a croce, senza che, impossibile tornerebbe darle una direzione. L’agricoltore dimanda alla terra il suo cibo, e quello de’ ricchi, e de’ re? ad ottenerlo adopera l’aratro, che col vomero rappresenta una croce » (Aves quando volant ad æthera formam crucis assumunt; homo natans per aquas, vel orans, forma crucis visitur. (S. Hieron. in c. XI, Marc.) — Antennae navium, velorum cornua, sub figura nostræ crucis volitant. – Origen. homil. Vili in divers.) – Sicut autem Ecclesia sine cruce stare non potest, ita et sine arbore navis infirma est. Statim enim diabolus inquiétat, et illam ventis allidit. At ubi signum crucis erigitur, statim et diaboli iniquitas repellitur, et ventorum procella sopitur. (S. Maxim. Taurin, ap. S. Ambr. t. III, ser. 56, etc.).Se il segno della croce è mezzo all’uomo per agire sulla natura fisica, l’è altresi per communicare con i suoi simili. Nelle battaglie non è la vista degli stendardi, che anima i combattenti? Che ci mostrino le cantabra e i sipario, de Romani, che non eran che degli stendardi a forma di croce. Gli uni e gli altri erano delle lance dorate sormontate da un legno orizzontale, di dove pendeva un velo d’oro, o di porpora. Le aquile colle ali distese al sommo delle lance e delle altre insegne militari ricordano invariabilmente il segno della croce; i monumenti delle vittorie, ed i trofei formano la croce. La religione de’Romani tutta guerriera, adora gli stendardi, giura per essi, e li preferisce a’ suoi dei, e questi stendardi sono delle croci : omnes illi imaginum suggestas insignes monilia crucium sunt (Tertull. Apolog. XVI). Di modo che, quando Costantino volle perpetuare nel vessillo imperiale, la memoria della vittoria avuta per la croce, vi aggiunse solo il monogramma di Cristo (EUSEB. lib. IX. Histor. 9). L’uomo si distingue dalla bestia perché cammina ritto su i piedi, e può distendere trasversalmente le braccia; e l’uomo in piedi con le braccia distese è la croce. Per lo che c’è imposto pregare in tale attitudine, affinché le nostre membra proclamino la passione del Signore, e quando ciascuno a sua maniera con lo spirito e col corpo confessa Gesù in croce, è sicuro che la nostra preghiera è esaudita. Il cielo istesso è disposto a questa forma. Qual cosa mai rappresentano i quattro punti cardinali, se non le quattro braccia della croce e la universalità di sua virtù salutare? La creazione tutta intiera ha l’impronta della croce. Platone istesso non ha forse scritto che la potenza più vicina al primo Dio, s’è estesa sul mondo in forma di croce? (Ideo elevatis manibus orare præcipimur, ut ipso quoque membrorum gettu passionem Domini fateamur. Tum enim citius nostra exauditur oratio, cum Christum, quem mens loquitur, etiam corpus imitatur. – S. Maxim. Taurin. Apud S. Ambros. tom. Ill, Serm. 36. — S. Hier, in Marc. XI. — Tertull. Apol. XVI.—Origan. Hom. VIII in divers). – Dalle cose dette segue la risposta da Minuzio Felice indirizzata ai pagani, che rimproveravano a’ Cristiani di fare il segno della croce. « E che, forse la croce non è da per tutto, diceva loro? Le vostre insegne, i vostri stendardi, le bandiere e i trofei, che cosa sono, se non la croce? Non pregate voi come noi a braccia distese? ed in tale attitudine non pronunziate voi delle formole che proclamano un solo Dio? Non vi assomigliate voi allora a’ Cristiani adoratori di un Dio unico, e che hanno il coraggio di confessare la loro fede nel mezzo delle torture dispiegando le braccia in forma di croce? Tra noi ed il vostro popolo qual differenza vi corre, quando con le braccia distese esclama: Gran Dio, Dio vero, se Dio lo vuole? È questo il linguaggio naturale del pagano, o la preghiera del Cristiano. Quindi, o il segno della croce è il fondamento della ragione naturale, o desso serve di base alla vostra religione istessa! » (Ita signo crucis aut. ratio naturalis innititur, aut vestra  religio formatur. Minut. Felix in Octavio.).Perchè adunque, soggiungono altri apologisti, lo perseguitate voi? Ed io altresì, mio caro Federico, potrei domandare a’ moderni pagani: Perché lo perseguitate questo segno? Perché ne avete onta? Perché siete larghi in lanciar sarcasmi contro i coraggiosi che lo fanno? La risposta è a capello quella che veniva data in altri tempi. « satana che scimmia Dio in tutto, si era impossessato di questo segno, e lo faceva eseguire a’ pagani per proprio conto. Il perfido! Egli era contento di vedere che gli uomini usano, per adorarlo e perdersi, il segno destinato alla adorazione del vero Dio, e salvare il genere umano. » Riguardo ai Cristiani era tutt’altra cosa. Per essi questo segno esercitava il suo vero ministero, comeché mezzo da onorare il vero Dio, e precipuamente il Verbo incarnato, oggetto dell’odio di satana cui il Cristo strappava l’uomo per salvarlo. E se pel Cristiano siffatto segno diveniva oggetto di scherno, era per lui un delitto degno della morte.  – D’onde procede che gl’iniqui di tutti i secoli mostrano de’ sentimenti contraddittori, d’amore e di odio, di rispetto e di scherno per questo segno adorabile? Da satana istesso, risponde Tertulliano. « Spirito di menzogna, agogna ad alterare la verità e le cose sante a profitto della idolatria. Così egli battezza i suoi adepti assicurandoli che quest’acqua li purificherà da ogni colpa, e di questa maniera inizia al culto di Mitra. Segna la fronte de’ suoi soldati, celebra l’oblazione del pane, promette la risurrezione, e la corona guadagnata con la spada. Che altro dirò? Egli ha un Sommo Pontefice cui interdice le seconde nozze, ha le sue vergini, e i suoi continenti. Se noi esaminassimo per minuto le superstizioni stabilite da Numa, gl’impieghi sacerdotali, le insegne, i privilegi, l’ordine e le parti de’ sacrifizi, gli utensili, i vasi da sacrifizio, gli oggetti per le espiazioni e le preghiere, non troveremmo noi che il demonio, scimmiando Mosè, ha tutto ciò stabilito? Dopo l’Evangelio lacontraffazione si è continuata » (A diabolo scilicet, cujus sunt partes intervertendi veritatem, qui ipsas quoque res sacramentorum divinorum ad idolorum mysteria æmulatur etc. (TERTULL. de præscript.). satana s’è spinto più oltre! Conoscendo tutta la potenza della croce ha voluto appropriarsela interamente, e sostituirsi alDio crocifisso per averne gli onori. « Questo implacabile nemico del genere umano risaputo, per lo mezzo degli oracoli profetici, dice Firmico Materno, ha reso strumento d’iniquità il segno che arrecar dovea la salvezza al mondo. Che cosa sono le corna di che si gloria? Strazio di quelle che l’inspirato profeta ha nominato, e che, o satana, credi adattare alla tua orribile figura. Come puoi tu trovarvi la tua gloria, ed il tuo ornamento? Queste corna non sono altro che il segno venerabile della croce » (Agitans et contorquens comua biformis… nequissimum hostem generis humani, de Sanctis venerandisque propheta-rum oraculis ad contaminata furoris suae transtulisse. Quæ sunt ista cornua quæ habere se jactat? Alia sunt comua, quæ propheta Sancto Spiritu annuente commemorat, quæ tu, diabolo, ad maculatam faciem tuam putas posse transferee, linde tibi ornamenta quæris et gloriam? Cornua nihil aliud, nisi venerandum crucis Signum monstrant. De error, prof. Relig. t. XXII). Così la fronte armata di questo sacro segno lo fa fremere di bile, e non trova supplizio, per crudele che sia, per punirlo d’aver portato l’immagine del Verbo incarnato; epperò, mio caro, egli ha fatto pessimo strazio de’ nostri padri e delle madri nostre, de’ fratelli e sorelle martiri di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ora ha fatto loro scuoiare la fronte, e sulle denudate ossa imprimere ignominiosi caratteri; ora pendere in forma di croce, e stirarli con corde e batterli con nervi di bue da far sconoscere in essi la figura umana (GRETZER: De Cruce lib. IV, c. 32, pag. 688). Grande insegnamento! L’odio di satana per la croce sia per noi norma della fiducia e dell’amore che dobbiamo a questo segno: Dimani vedrai che desso ha altri titoli ancora per questo duplice sentimento.

IL SEGNO DELLA CROCE (12)