IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (4)
OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.
NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA
ROMA – COI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862
DISCORSO QUARTO
ARGOMENTO
L’uomo innocente, re delle cose sensibili; scadde da quello stato; esso, come parte dell’universo, non può essere indipendente dalle leggi di questo. Il Paganesimo se ne francò e fu servo. La creatura importa dipendenza, il Creatore sovranità. Legge universale che fa schiavi i ribelli, avveratasi nell’antico Paganesimo, ed in parte nel nuovo. Suggezione cristiana. Cristo ne diede esempio e ne sarà guiderdone.
1 . Nobilissima parte aveva Iddio assegnata all’uomo nel creare e disporre questa grande opera del sensato universo.- Non dirò che tutte le creature corporali, eziandio le dotate di vita sensibile, non ebbero altro scopo immediato, che di giovargli comunque: questa vi parrà forse necessaria condizione di esseri, i quali poteano concorrere alla manifestazione di Dio, solamente col farsene occasione ed invito alle ragionevoli creature. Ma, oltre a questa preminenza naturale, ve ne ebbe un’altra moļto più splendida, e solo per grazioso favore conferita all’uomo. E questa fu l’averlo Iddio « coronato di gloria e di onore », giusta quella eccelsa parola del Salmista: Gloria et honore coronasti eum; in quanto che (come suona ebraicamente la congiunzione et) « lo costituì sopra tutte le opere delle sue mani: » Et constituit eum super opera manuum suarum (Psalm . VIII, 6). L’immensa e svariata schiera dei bruti animali, dei quali al presente tanti o ci sgomentano colla loro ferocia, o ci attossicano coi loro veleni, o ci molestano colle loro infestazioni, sarebbe stata tutta docile ed obbediente al nostro cenno; e noi ci saremmo dilettati al ruggito del leone ed al fischio del basilisco, come fa ora la innocente fanciulla al melodioso lamento dell’usignuolo romito nella foresta. Questa terra che coll’innaffio di tanti nostri sudori ci fornisce ora scarso alimento e misurata bevanda, e talora col negarci scortese or l’uno or l’altra, ci getta nella desolazione delle carestie; questa terra ci sarebbe stata spontaneamente larga dei doni suoi, e noi avremmo visto spuntare, crescere, granire e indorarsi le biade, come oggi veggiamo rigogliosi nelle terre incolte il maligno l’oglio, l’inutile ortica e la selvaggia ginestra. Questa folgore tremenda che, accendendo l’aria di bieca e subita luce, scoscende fragorosa dalla nube squarciata, e sgomenta i cuori, e porta ove meno è aspettata crollamenti, incendii, bizzarre distruzioni ed istantanee morti, questa folgore, dalla felice progenie dell’innocente Adamo saria stata mirata ed accolta con quel diletto, onde voi, o Romani, plaudite ai fuochi artificiosamente disciplinati ed alle maestose esplosioni delle vostre girandole. Che più? questa morte medesima, che al presente ci attrista tanto coi dolori che l’apparecchiano, col taglio che arreca e colla corruzione che le vien dietro, non sarebbe stata neppur conosciuta dall’uomo, qual Dio per grazia lo avea fatto; e lo avea fatto inesterminabile, come parla l’alto scrittore della Sapienza: Creavit hominem inesterminabilem (Sapient. II, 23). Ma ahimè! ché la colpa di origine cangiò la scena! e quale sia divenuto l’uomo dopo quella ed in pena di quella, non è alcuno che possa ignorarlo, se non fosse chi ha perduto perfino il sentimento dei proprii mali. – Ora sapete voi in che dimorò propriamente la rea indole di quella colpa, e l’indole lamentabile della pena, che le corrispose? Quella regale preminenza, onde l’uomo fu costituito sovrano di tutte le creature e soggetto a nessuna di loro, avea per condizione, che esso si fosse mantenuto, per libera soggezione, sommesso a Dio. Rotto quel vincolo di dipendenza soave, fu naturale e giustissimo, che l’uomo fosse fatto dipendente da tutte le creature e soggetto ad esse: ai bruti che lo infestano e talvolta lo sbranano o l’avvelenano; alla terra, che ne logora le forze e ne tradisce le speranze; alle folgori che se non l’uccidono sempre, lo spaventano; alla morte che dalla culla comincia a roderci, e non si cessa, che non ci abbia sospinti nel sepolcro. E tutti i superbi vantamenti e tutte le insulse borie, intorno al dominio acquistato dal nostro secolo sopra la natura, sono fiabe da parabolani. Questo vantato dominio sulla natura appena si riduce ad altro, che ad avere, in piccolissima parte ed in rarissimi casi, attenuati gli effetti disastrosi delle prepotenti sue forze. Nel resto io non so che siasi trovato finora qualche macchina a vapore, potente a rifrenare le eruzioni del Vesuvio, o i tremuoti ruinosi, come quelli di Melfi o di Norcia; né pare che i troppo affezionati alla vita nutriscano grande speranza, che un giorno od un altro si abbia ad inventare qualche nuovo apparato elettrico, che faccia risuscitare i morti, o almeno non morire i vivi. Una cosiffatta penale condizione di dipendenza e soggezione all’universo sensibile si esplicò in tutta la sua forza nel Paganesimo, il quale fu il genere umano separato da Dio, lasciato a sé stesso. In questa condizione la Gentilità non pure ignorò l’uomo, ma radicalmente ignorò l’universo; e sotto l’impero di lei il genere umano, disordinato riguardo al mondo, come in tutto il resto, fu dominato dagli elementi del mondo stesso, come parlò S. Paolo, i quali pure esso avrebbe dovuto dominare: Eratis elementis mundi huius servientes (Galat. IV, 3). Di questo secondo effetto della malaugurata separazione dell’uomo da Dio, debbo ragionarvi quest’oggi; e spero che il soggetto vi riuscirà di pratico frutto fecondo più di quello che forse a prima vista non pare. Incomincio.
II. L’indipendenza! Ecco, signori miei, la gran parola, che sta facendo girare le menti degli uomini ed agitandone i petti da sessanta secoli, quanti, un presso a poco, ne novera la nostra stirpe. Vero è che Iddio ce ne avea conferita quanto n’era compatibile colla nostra natura, la cui libertà d’arbitrio può esercitarsi e spaziare a talento, quanto è lungo e largo il campo del lecito e dell’onesto. Ma volere che l’uomo, parte del l’universo, sia indipendente dall’ordine prefinito all’universo dal Creatore, è un distruggere l’essere ed il concetto di parte e di ordine. Sarebbe ciò, quanto pretendere che nella costruzione, esempli grazia, di un orologio, un perno, una ruota, una molla avessero esercizio e funzione indipendente dalle altre parti e dall’artefice che costruì l’orologio. Non altrimenti nell’universo, nella società civile e nella domestica: la creatura umana individua essendone parte, deve di necessità avere azioni e funzioni sue proprie, da armonizzare con quelle delle altre parti, per tendere e giungere allo scopo prefinito al tutto dall’Autore di questo. Come dunque vorreste dare a questa parte un’assoluta indipendenza dagli ordinamenti di colui che costituì il tutto, e ne volle parte costitutiva la natura umana, attuata negli individui ed assembrata in consorzio di società civile o di famiglia? Ora non potendo l’uomo, parte dell’universo, essere indipendente dall’ordine dell’universo, non può neppure essere dalla legge, la quale finalmente non è altro, come insegna san Tommaso, che « ordine della ragione » Ordinatio rationis (2, q. 61, a. 1). Il quale concetto nobilissimo abbiamo noi improntato nei nostri linguaggi cristiani, in quanto presso di noi ordinare ed ordine suona il medesimo, che prescrivere o comandare, prescrizione o comando: riscontro che non so se si avverasse in alcuna delle lingue antiche. – Di tutto cotesto il mondo pagano non conobbe, non poté forse conoscere mai nulla! L’universalità delle cose era ai suoi occhi un libro chiuso, o certo tale, che esso ne ignorava l’alfa e l’omega, il principio ed il fine, Dio e l’uomo; tra i quali l’universo trammezza, come estrinsecazione di Dio per manifestarsi all’uomo, e come scala all’uomo per levarsi a Dio. Della quale meravigliosa armonia la scienza antica non capì, non seppe, non sospettò un iota, come Minucio Felice osservava: Quod ipsum (cioè la condizione della creatura ragione vole nell’universo), explorare et eruere sine universitalis inquisitione non possunt; quum ita cohærentiæ connexa, concatenata sint, ut nisi divinitatis rationem diligenter excusseris, nescias humanitatis (Octav.). Or pensate se e come si sarebbe potuto divinitatis ratio diligenter excuti, quando neppure sapeasi se la vi fosse! – A questi termini condotto l’uomo pagano; perduto, anzi non avendo mai posseduto il bandolo di questa matassa arruffata, che dovea parergli la sua natura e l’universo,il dentro di sé ed il fuori di sé; esso si restrinse, si rigirò e si ripiegò in sé medesimo, si raggomitolò incerta guisa, cercando nei suoi istinti, nelle sue propensioni, se volete pure nella sua ragione ogni bene,ogni bello, ogni vero; e credendosi di essersi fatto indipendente da tutto, si trovò, come già il figliuol prodigo nel deserto, nella solitudine, condannato a cercare da sé solo ed in sé solo la dignità, la scienza, la felicità, ogni cosa. Or questo era propriamente uno sconoscere, un rinnegare il suo essere di parte armonizzata coll’universo; era un costituire sé medesimo fine dell’universo, il quale tutto, all’uopo, si saria potuto immolare a lui; e l’uomo pagano non dietreggiò innanzi a così mostruoso pervertimento, perché questo era la sola uscita, che egli erasi lasciata aperta nel tenebroso caos, in cui per redata colpa e più ancora per proprie colpe si ravvolgeva. Sconobbe dunque e rinnegò il suo essere di parte nell’ordine fisico; e prefinitosi come bene supremo, il proprio soddisfacimento, a questo sacrificò ogni cosa sensibile, compresivi i propri simili, ó certo non dubitò per menoma guisa, che fosse lecito il sacrificarla. E così, supposto che egli trovasse gradevole soddisfacimento a vedere trucidarsi tra loro gli uomini, mentre gozzovigliava, sicché il costoro sangue spicciando dalle squarciate vene maculasse quelle infande mense, dove forse si gustavano murene, ingrassate di umane carni ancor palpitanti, perché avrebbe dovuto disdirsi quella soddisfazione? Lo fecero passim del miglior grado del mondo, senza che si trovasse un sapiente abbastanza severo, che almeno ne recasse in forse la licitezza. – Sconobbe l’uomo pagano il suo essere di parte nell’ordine morale, e rinnegò praticamente quella legge che, rannodandolo di sacri vincoli con altri esseri ragionevoli, ne avrebbe governato i disorbitanti appetiti; o piuttosto di quella legge prese quel solo, che potesse secondare e satisfare i suoi propri interessi, i quali tutti riducevansi al satisfacimento di quegli stessi appetiti. E così, supposto, e sempligrazia, che ci nascesse un figliuolo storpiato o deforme, il quale ai parenti dovesse essere di molto peso, ed alla patria non dovesse recare alcun servigio; la Legge delle dodici tavole, con tutta la solennità del linguaggio arcaico, non pure dava al padre facoltà di strozzarlo in culla, ma gliene faceva precetto, aggiungendo la raccomandazione di far presto. – Pater (Signori sì! proprio al padre era fatto questo comando; ché certo alle madri sariasi fatto indarno!). Pater insignem ad deformitatem filium cito necato. Avesse almeno detto puerum! ma no! filium cito necato. Sconobbe da ultimo l’uomo pagano e rinnegò il suo essere di parte nell’ordine razionale, e rigettando tutto, che le vetuste tradizioni gli avrebbero pure potuto tramandar di sicuro, volle fabbricare la scienza da capo a fondo col suo cervello; e ricusando di conoscere la maestà di Dio nel circostante universo, apparecchiato appunto per fargliela conoscere, andò a cercare la divinità, di cui pure non poté smettere o soffocare in sé stesso l’istinto, nei proprii sogni e negli altrui, meritando così di vaneggiare peggio che i bollenti di molta febbre non farebbero, rifluendo per rimbalzo quei vaneggiamenti ad oscurare viappiù i cuori d’insipienti e di orgoliosi: ché proprio cosi parla san Paolo dei pretesi sapienti del Gentilesimo. Evanuerunt in cogitationibus suis et obscuratum est insipiens cor eorum. (Rom. I, 21).
III. Voi crederete per avventura che il Paganesimo, straniandosi così dalle armonie dell’universo, e rinnegando tutte le leggi, onde la creatura ragionevole, siccome parte dell’universo stesso è circondata nel triplice ordine fisico, morale e razionale, che acchiudono rispettivamente il bello, il buono, il vero della natura, crederete, dico, che così l’uomo ne ottenesse almeno quel grande suo intento di essere indipendente. Nulla meno!, fu precisamente quella la via, per la quale precipitò in una servitudine abbiettissima a tutto ciò che era meno di lui! Ed oh! miei amatissimi! quanto vorrei che vi s’imprimesse altamente nell’animo la verità che sono per dirvi! sarebbe il farmaco più efficace a curare il famelico della indipendenza, che è la propria malattia del nostro tempo, e la quale io mi credeva da prima che fosse d’indole acuta e passeggera; ma oggimai mi vado persuadendo, che la è malattia cronica e poco meno che incurabile. Dio mio! qual vaneggiamento è mai codesto! La creatura indipendente dal Creatore? ma non vi accorgete che vi è contraddizione nei termini, come appunto dicesse altri di volervi mostrare nella geometria un cerchio quadrato, o di farvi trovare nell’aritmetica un sei che sia uguale al quattro. Creatura, come suona la stessa voce, significa un ente o sostanza qualunque, che abbia l’essere, non per propria virtù, ma comunicatole dall’Essere sussistente ed assoluto, che è Iddio. Quest’essere poi, partecipato alla creatura, non può rimanere indipendente dal suo principio più di quello, che possa rimanere nell’aria il raggio di luce, poi che ne fu rimosso il corpo luminoso. Se rimanesse il raggio, sarebbe corpo luminoso, come appunto la creatura se permanesse separata nell’essere dalla influenza del Creatore, sarebbe anch’essa essere sussistente, per sé ed assoluto, cioè sarebbe Dio: il che manifestamente ripugna. Trovandosi dunque la creatura dipendente dal Creatore nell’essere, non può supporsi che sia indipendente da lui nell’operare; stanteché la operazione non è in sostanza, che una emanazione dell’essere stesso; come appunto il calore, che procede dall’azione del fuoco, è quasi l’essere stesso del fuoco, che si diffonde nei circostanti obbietti: talmente che chi avesse in sua balia l’essere del fuoco, ne dovrebbe avere altresì la operazione del riscaldare. Le creature adunque sono necessariamente, assolutamente, essenzialmente dipendenti dal Creatore, e questa loro dipendenza si attua e si esercita nell’adempimento delle leggi, onde il Creatore medesimo le ha circondate nel triplice ordine fisico, razionale e morale. Questi differiscono solo, che nei due primi, cioè nel fisico e nel razionale, le leggi inducono necessità: nell’ultimo, cioè nel morale, sono commesse alla libertà dell’arbitrio; e chi vuole esimersi dalle prime, si dice pazzo, e si manda al manicomio: chi trasgredisce le seconde, si chiama malvagio, e, quando ne vien grave danno al comune, si manda, o certo si dovrebbe mandare in prigione. Ma sempre è irragionevole e ripugnante, è impossibile, che la creatura sia indipendente da quelle leggi. E così chi cerca la contentezza e la felicità nel la colpa; che vuol dire chi cerca perfezionarsi, facendo a rovescio di quelle leggi, che il Creatore ha stabilite per la sua perfezione, costui è tanto ragionevole, quanto chi volesse riscaldare col ghiaccio o rinfrescare col fuoco; quanto chi pretendesse che il quadrato sia rotondo, o che due e due sommino cinque. In questi casi la irragionevolezza salta agli occhi, perché si tratta di leggi fisiche e razionali, che necessitano l’assonso; ma nel primo, trattandosi di leggi morali imposte all’arbitrio, queste non sono meno autorevoli di quelle, e la facoltà che ha l’uomo di violarle non vi aggiunge altro, che la ragione di demerito, ogni qualvolta le trasgredisce, o di merito quando le osserva. La quale naturale e necessaria dipendenza inferita dalla parte della creatura, se si considera dalla parte del Creatore, piglia qualità e carattere di verissima sudditanza per questo appunto, che la creatura essendo opera di Dio, Egli deve avere sopra di lei autorità proporzionata all’essere che le ha conferito. Ora io non so se vi abbiate mai posto mente; ma l’osservazione è pianissima. Egli è tanto naturale, che chi fu operatore di alcuna cosa abbia preminenza e potestà sopra la cosa per lui fatta, che la parola stessa di Autorità si deriva proprio da Autore: Auctoritas, ab Auctore. Che se voi discorrete col pensiero per tutte le maniere di Autorità che sono a vostra notizia, alcuna non ne troverete, la quale non sia o preceduta od accompagnata da qual che maniera di essere Autore. Ed il padre è Autore della vita nei figli, ed il Principe dell’unità civile nella società, ed il maestro della scienza nello scolaro, e lo scultore della forma di statua nel marmo, ed il padrone del sostentamento nei servi, o famigliari e domestici, come con più cristiana parola sogliamo chiamarli, e così di cento altre somiglianti maniere di preminenze; nelle quali tutte, siccome non vi è Autorità, senza una qualche ragione di Autore, così non vi ha ragione di Autore, la quale non si faccia principio di una qualche Autorità. Ora perché non dovrebbe lo stesso avverarsi di Dio a rispetto delle sue creature? La sola differenza, che corre tra le Autorità umane e la divina, è posta in questo, che le umane sono sempre esili, circoscritte, secondarie, com’è l’essere che gli uomini possono altrui comunicare; laddove la divina dalla qualità appunto dell’essere che impartisce, si dimostra suprema e pienissima. E fate di entrare bene in questo pensiero. Qualunque operatore, non pure umano, ma creato, dà bensì un essere, ma non dà l’essere; in quanto alla sua azione deve sempre supporre un soggetto preesistente, che la riceva, il quale per conseguenza dee avere già l’essere. Così il Principe suppone il popolo, il maestro lo scolaro, lo statuario il marmo e così degli altri: perfino nelle opere d’ingegno, per le quali pure la denominazione di Autore si toglie per antonomasia, e sopra le quali si ha Autorità massima, pure in quelle medesime si suppongono molte cose, che non dipendono dall’Autore: non foss’altro, vi sono i principii razionali, le cose esteriori, da cui provengono i fantasmi e gli amminicoli materiali, senza cui le opere d’ingegno non hanno essere e vita nel mondo, e non potrebbero essere oggetto di autorità o di dominio. Solo Dio dà non pure un essere, ma l’essere; dà l’essere primo, l’essere, innanzi a cui della cosa fatta non ci è proprio nulla, e di lui solo può dirsi, che fa dal Ņulla, ex nihilo, non come da materia preesistente, ma come da termine affatto negativo. E però solo Dio ha sopra le opere delle sue mani Autorità piena, vera, totale, assoluta, siccome quegli che solo n’è pieno, vero, totale, assoluto Autore. E dopo ciò, non vi pare che io abbia ragione di esclamare un’altra volta: Dio mio! Qual vaneggiamento è mai cotesto! la creatura indipendente dal Creatore! quando il concetto stesso di creatura importa dipendenza, e quello di Creatore è il solo, che possa fondare Autorità piena ed assoluta!
IV. Vi chieggo scusa se forse per la rilevanza e nobilità della materia mi sono lasciato discorrere a troppo lunga digressione. Ma io queste cose ho voluto alquanto accuratamente ragionarvi, perché, assodato bene quel punto della nostra dipendenza da Dio, restano assicurate tutte le altre legittime dipendenze, le quali, per noi Cristiani, sono naturali derivazioni dalla divina; e singolarmente ne restano assicurate quelle due, che di tutte sono più splendide: volli dire la domestica dal padre nella famiglia, e la civile dal Sovrano nella società. Oltre a ciò volli dichiarare questo punto, perché, come vi accennai più innanzi, la faccenda della indipendenza è un gran malanno del nostro tempo, e non è uno degli ultimi modi, onde la società moderna torņa improvvidamente colle sue inclinazioni al Paganesimo. Ma io, tornandovi col mio discorso, dico, seguitando, che l’essersi l’uomo pagano rifiutato a riconoscersi parte dell’universo nell’ordine fisico colla iattura del vero bello, nell’ordine morale colla perdita del vero bene e nell’ordine razionale col privarsi della verità sincera; questo ripudio, dico, ed incentramento in sé medesimo, lungi dal fruttargli indipendenza, gli cangiò piuttosto la dipendenza; e di naturale che era la fece saturata, di spontanea che potea essere divenne violenta, e di dignitosa e di filiale, fu fatta tirannesca, abbietta, servile. Ella è legge costante della Provvidenza, attestata dalla storia di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che chiunque si ricusa a soggezione debita e legittima, ed esso in pena viene sommesso a potere arbitrario, illegittimo, violento. Della qual legge nelle memorie antiche e moderne potete trovare frequentissime applicazioni, cominciando da Cham, il quale, per avere schernita la dignità paterna, si udi dinunziare che saria stato servo; ed è notevole che proprio in quel caso fu adoperata la prima volta la voce servo, la quale non si scontra prima di quel luogo nell’antichissimo dei libri che è il Pentateuco. Ne abbiamo altresì l’applicazione sotto i nostri occhi, quanto all’ordine domestico, nel giovinotto scapato, il quale per un po’ di stentati baffetti che gli spuntan sul labbro, si crede in diritto di più non ascoltare i comandi paterni, e di spregiare le affettuose ammonizioni della madre. Ma intanto esso medesimo è ludibrio e zimbello di quattro giovinastri scapati come lụi ed inviziati più di lui, i quali egli conobbe alla bisca od al caffè, e dei quali per avventura ignora perfino il nome. Quanto all’ordine civile, quella legge si avvera in quasi tutte le pubbliche rivolture; e noi al presente ne vediamo l’applicazione in tanta parte della nostra Italia, che sottratta, lei o consenziente o non ripugnante, alle legittime autorità, obbedisce ora, più o meno fremente, ad un pugno di faziosi oscuri, che le fanno sentire per prova che sia vero servaggio, rendendole desiderabile quel servaggio immaginario, contro cui aveva forse troppo improvvidamente brontolato. Ora, in forza appunto di questa legge, il Paganesimo, il quale, separatosi da Dio, avea preteso di farsi indipendente da ogni cosa, e di non servire ad alcuno, fu condannato a dipendere da ogni cosa, ed a servire ad ogni cosa, meno quel Dio Ottimo Massimo, che solo avea titoli al servigio ed alla dipendenza dell’uomo. Lo so! vi parrà strana, quasi incredibile questa parola, grazie alle sperticate iperboli che, intorno alla sapienza ed alla grandezza pagana, si sono messe in voga. Ma che volete che io vi faccia? É forse colpa mia, che, a furia di sfringuellare a sproposito, si è giunto a rendere quasi incredibile il vero, come pur troppo si è reso più che verosimile il falso? Il vero adunque è, che la società pagana, tra tante borie di libertà e d’indipendenza, era un’accozzaglia di stupidi schiavi, era un assembramento di codardi mancipii, i quali tutti dal sommo all’imo, colla fronte per terra riverivano, veneravano, adoravano tutte le cose, animate od inanimate che fossero, dal sole fino ai lupi, ai cani ed agli scarafaggi: e dite voi tra quale di queste specie si debbano noverare certi mostri d’Imperatori, cui il Senato, nella coscienza della propria indipendenza, dichiarava divi; ma che i lupi, i cani e gli scarafaggi avrebbono riggettato dal loro consorzio, se avessero senno. Quei miseri riverivano, veneravano, adoravano tutte le passioni e tutti i vizii proprii, dalla frenesia dell’orgoglio, e dai furori della vendetta, fino alle abbominazioni della lascivia; tutte le fantasie dei poeti, dal Giove tonante, che si ruba un bel donzello, per sollazzare di lui un cotal poco i suoi ozii olimpici, fino alla dea Cloaca o Cloacina, che presiedeva alla nettezza delle case e delle contrade, senza dispensarli per questo dalla noia di scopare le une e le altre. Torno a dire, perché è punto capitalissimo: quei miseri tutto riverivano, servivano, adoravano, meno solo Colui, che unicamente avea diritto di essere riverito, servito ed adorato, come non finiva di ammirarsene Lattanzio: Admirari soleo maiestatem Dei singularis in tantam venisse oblivionem, ut quæ sola coli debeat sola potissimum negligatur (Div. Inst. II, 1). – Né ad altro che a questa universale ed abbiettissima schiavitudine, in che gemeva l’uman genere prima di Cristo, credo io che mirasse Isaia, quando celebrò, come ufficio del promesso Messia, non pure il dar luce agli occhi e stenebrare le intelligenze, ma é lo sciogliere dai ceppi incatenati, ed il trarre dalle carceri e dagli ergastoli i prigionieri. Dedi te (dice Dio pel profeta al suo Cristo) Dedi te in lucem Gentium ut aperires oculos cœcorum, ut educeres de conclusione vinclum, de domo carceris sedentem in tenebris (Isai. XLII, 7). Signorisì! non ci è a farne gli stupori! tale era il mondo pagano prima del Redentore. Un immenso ergastolo, una tetra e smisurata prigione, che non avea altri confini da quelli della terra; e, recatevi rarissime eccezioni, tutti schiavi, tutti prigionieri, tutti tra ceppi. La sola differenza, che si vedesse tra schiavi e schiavi, era, che alcuni,per la troppa superbia, n’erano usciti del sentimento, sì che si credeano di essere liberi, perché appartenevano all’ordine equestre o si chiamavano Senatori, Consoli, Re e Imperatori; ma in sustanza eran schiavi come gli altri, e più degli altri, in quanto trovavansi più sciolti degli altri a dare libera carriera alle propensioni nefande, da cui erano dominati. Che se vi prendesse vaghezza d’intendere quanto largo si stendesse quella schiavitudine, io ve la partirò in tre capi precipui, che saranno i soggetti di altrettanti seguenti discorsi. Il Paganesimo fu schiavo in generale della forza, non conobbe altro movente che la forza, e sopra di questa sola fabbricò tutta la immane mole della sua bugiarda grandezza. Fu schiavo delle forze naturali, e questa fu la schiavitudine più scusabile; fu schiavo delle forze sensuali, è questa fu la schiavitudine più ignominiosa; fu schiavo delle forze sociali, e questa fu la schiavitudine più codarda; ma sempre schiavo, e sempre schiavo della forza. Di ciascuna di queste schiavitudini diremo alcuna cosa nei seguenti giorni, senza preterire quello che, pei loro clienti, vorranno recare in mezzo gli avvocati passionati dei Temistocli, dei Muzii, delle caste Lucrezie o dei Catoni in Utica. Per ora dal Paganesimo antico e morto debbo far trapasso al nuovo e vivo; affine di aggiungere qualche pratica osservazione, eziandio per questo capo.
IV. E l’applicazione pratica mi si offre spontanea ed opportunissima in quello spirito d’indipendenza, il quale ha penetrato fino nelle midolla la società moderna, ne ha occupate tutte le inclinazioni, ne domina tutti gli amori, quasi dissi ne schizza per tutti i pori. Spirito d’indipendenza, per la quale i popoli miseramente sedotti dalle apparenze fallaci di libertà, sono sottratti al giogo soave di Cristo, che ci emancipò davvero dall’antico servaggio, e sono travolti nella via di un Naturalismo, dal quale, come l’antica Gentilità, si veggono poscia precipitati in una verissima schiavitudine. E forse che non si veggono ad ogni passo gli effetti di questo spirito d’indipendenza , dal quale è quasi infetta l’atmosfera stessa che respiriamo? Quasi mi par vederne un vestigio in famiglie anche cristiane e morigeratissime, nelle quali si tiene oggimai per assioma, che dai figliuoli non si debba esigere obbedienza, se non in ciò, di cui essi veggano la ragione e siano persuasi. Ma e non è la ragione dei genitori il naturale supplemento al difetto, che ne patiscono i nati? E quando il figliuolo opera, perché ne ha vista la ragione e n’è persuaso, a chi altro obbedisce, se non a sé medesimo, e quale ossequio porge all’autorità dei genitori? Che quella persuasione si cerchi alcune volte, non è riprensibile, e può giovare talora a rendere più soave l’obbedire. Ma che a questo si richiegga, come condizione indispensabile, quella previa persuasione, ciò è distruggere dalla radice il principio stesso dell’autorità, la quale non si appoggia ad altra ragione, che al diritto di chi comanda ed al dovere di chi obbedisce. Ma vi è qualche cosa di più universale. Che s’infrangano le leggi di Dio e della Chiesa eziandio da molti, non è certo cosa nuova nel mondo; ma che quell’infrangimento si voglia giustificare dal non dovere l’uomo dipendere, che da sé stesso; che non si voglia ammettere per vero, se non quello che sembra tale al losco nostro intelletto; che non si conosca distinzione di male e di bene, se non secondo i dettami di una coscienza illusa, malata e spesso ancora ingancrenita; che in somma quell’assoluta indipendenza dell’intelletto e della volontà s’innalzi a principio, sicché, fuori di quelli, non ci siano per noi altri regolatori del vero e del bene; tutto cotesto è cosa nuova tra i popoli cristiani, è privilegio del nostro secolo: privilegio che basta a chiarirlo mezzo cristiano, mezzo pagano, senza che sia davvero né l’uno né l’altro. E forse che non ne portiamo noi altresì il castigo della schiavitudine, come quegli antichi ne portarono? Non sarà la schiavitudine agl’idoli d’oro e d’argento, come nella idolatria grossiera dei vecchi Gentili si soleva; ma è schiavitudine del lasciarci menare pel naso da miseri rispetti umani, dove meno vorremmo; è schiavitudine del pensare e del parlare, fatta comune nel regno tutto moderno del Giornalismo, pel quale pensano coll’altrui testa e parlano coll’altrui lingua innumerevoli, a cui parve troppo grave uniformare i loro coi pensieri della Chiesa e le loro colle sue parole; è schiavitudine di passioni vergognose, cui andiamo blandendo, e inorpellando con mille sofismi non creduti neppur da noi, ed alle quali sacrifichiamo il danaro, la sanità, il decoro, la vita stessa temporale, e faccia Dio che non anche l’eterna; è schiavitudine all’idolo tutto pagano della patria, quale se la foggiano i fanatici e gli scredenti: idolo che addusse sul mondo tanti dolori e tante vergone, che spreme tante lagrime e tanto sangue dagli occhi e dalle vene dei miseri popoli, che divorò tante vittime: e ancora non è sazia l’ingorda sua fame! Tant’è! e siatene, miei cari, persuasi: l’indipendenza assoluta delle creature è un sogno! A noi esseri ragionevoli non è data, che la scelta tra la dipendenza legittima e l’illegittima, tra la filiale e la servile, tra la volenterosa e la forzata: in una parola, tra il dipendere da Dio o dalle creature. Quella è propria dei Cristiani,questa fu dei Pagani, ed è dei Cristiani che paganeggiano. Cristo nella Epifania chiamò le Nazioni dall’una all’altra; ed in quel Mistero medesimo non pure diede esempio della più umile e sommessa dipendenza, ma volle darlo eziandio del guiderdone, onde questa nobilissima virtù sarà da Dio meritata, come vi mostrerò dopo breve respiro.
V. Guardate, miei cari uditori, singolarissima coincidenza, la quale potrebbe dirsi casuale, se non sapessimo, che nessuna cosa non isfugge alla divina Provvidenza, e che da questa fu ordinato con peculiarissimo amore tutto ciò che si atteneva alla vita terrena del Verbo Incarnato. La benedetta Vergine si trova ad esporre alla luce il divino suo portato lungi dal natio suo ostello, in terra per lei straniera ed inospitale, con tutti i disagi della povertà, delle privazioni, del crudo verno, della fredda notte, dai cui rigori né a sé né al caro Infante facea schermo che bastasse il mal custodito ricetto. Ora tutto questo perché? Perché essa col casto suo sposo vollero ottemperare al comando di Augusto, che prescriveva si recasse ciascuno alla terra degli avi suoi per allistąrsi nel censo: ut describeretur universus orbis (Luc . II, 1). Ma Dio immortale! e quale avvilimento è mai cotesto dell’Unigenito Figlio vostro! come non ne dovrebbero sbalordire, non che queste fiacche nostre menti, ma le medesime angeliche intelligenze! E fia dunque vero che, per obbedire ai capricci di un orgoglioso tiranno, dovransi esporre a tanti disagi quel giglio d’intemerata purezza che fu Maria, e quel delicato fior nazzareno che fu Cristo, fino dal primo suo mostrarsi al mondo? E poi, per quante ragioni e tutte giustissime, quella beata coppia non avrebbe potuto giudicare di non esser tenuta all’adempimento di un comando, il quale, oltre al disagio, recava altresì qualche cosa di men conveniente alla sovrana dignità del Re dei Regi, che la Vergine Santa dovea partorire? – Ma che stiamo a cercare più innanzi? Tutta la nostra difficoltà si origina dal pensare noi, che Maria, Giuseppe, Gesù obbedissero propriamente a Cesare; quando anzi essi obbedivano al celeste Padre, le cui amorøse ordinazioni riconoscevano e riverivano nel comando stesso di Cesare. E qui dimora propriamente il gran segreto della dignità augusta acquistata alla soggezione, alla dipendenza, alla obbedienza del Cristiano. Essa dimora nel nuovo ed eccelso motivo, che il Cristianesimo ne ha rivelato. Né vi credeste che ciò sia poco. Tutt’altro! Negli atti morali il motivo è tutto, è ogni cosa; e non vi è bisogno di essere teologo per intendere che la medesima largizione di danari, la quale in un pietoso è carità insigne, in un laido può essere nefanda seduzione, ed in un micidiale rischia di diventare prezzo di assassinio. Cangiato pertanto il motivo, se n’è cangiato sostanzialmente l’atto; e la soggezione cristiana da quelļ’eccelso motivo n’è divenuta essa medesima cotanto eccelsa, che poté averne ad esemplare l’Uomo-Dio ed a guiderdone il Paradiso. E forse appunto per rivelarcene questa dignità sovrana e per darci pegno di quel celeste guiderdone, ordinò Iddio, come osserva il Crisostomo (Homil. VII in Matth), che innanzi a quell’Infante, che era nato tra tanti disagi, per obbedire in apparenza al comando di un Re orgoglioso, innanzi a quell’Infante proprio si prostrassero tre umili Re ad offrire i loro doni misteriosi e le loro suppliche. Di qui imparate, o Cristiani, qual gloria sarà serbata a voi, se saprete obbedire a cui dovete; ma obbedire da Cristiani; cioè con nobile sentimento di obbedire solo a Dio, dal quale ogni ordinata potestà si deriva. Allora, foste voi poveri, ignoranti, dispregiati, quella sola così eccelsa obbedienza vi acquisterà tanta gloria, che più non ne avreste cinti il capo di regale diadema. E non certo in questo mondo; oh! no! Chè i Cristiani, rispettano bensì, ma non invidiano, e paventano anzi le preminenze; ma fuori di dubbio nell’altro, dove, a premio della vittoria che avrete portata, come sopra le altre, così sopra questa naturale propensione al sovrastare, Cristo vi darà nientemeno, che assidervi con lui sopra il medesimo suo trono. Qui vicerit, dabo ei sedere mecum in throno meo (Apoc. III, 21).