DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le letture dell’Ufficio divino che si fanno in questa Domenica sono spesso quelle dei Maccabei (vedi Dom. precedente). « Antioco, soprannominato Epifane, avendo invaso la Giudea e devastato tutto, dice S. Giovanni Crisostomo, aveva obbligato molti Ebrei a rinunziare alle sante pratiche dei padri loro, ma i Maccabei rimasero costanti e puri in queste prove. Percorrendo tutto il paese, essi riunivano tutti i membri ancora fedeli e integri che incontravano; e di quelli che si erano lasciati abbattere o corrompere, ne riconducevano molti al loro primo stato, esortandoli a ritornare alla fede dei padri loro e rammentando loro che Dio è pieno di indulgenza e di misericordia e che mai rifiuta di accordare la salvezza al pentimento, che ne è il principio. E questa esortazioni facevano sorgere un esercito di uomini più valorosi, che combattevano non tanto per le loro donne, i loro figli, i loro servitori, o per risparmiare al paese la rovina e la schiavitù, quanto per la legge dei padri loro e i diritti della nazione. Dio stesso era il loro capo, e perciò, quando in battaglia serravano le file e prodigavano la loro vita, il nemico era messo in fuga: essi stessi fidavano meno nelle loro armi che nella causa che li armava e pensavano che essa sarebbe sufficiente per vincere anche in mancanza di qualunque armatura. Andando al combattimento, non empivano l’aria di vociferazioni e di canti profani come usano fare alcuni popoli: non si trovavano tra loro suonatori di flauto come negli altri campi; ma essi pregavano invece Iddio di mandar loro il suo aiuto dall’alto, di assisterli, di sostenerli, di dar loro man forte, poiché per Lui facevano guerra e combattevano per la sua gloria » (4a Domenica di ottobre Notturno). Dio non considera nel mondo che il suo popolo, Gesù Cristo e la sua Chiesa che sono una cosa sola. Tutto il resto è subordinato a questo. « Dio, che esiste ab æterno e che esisterà per tutti i secoli, è stato per noi, dice il Salmo del Graduale, un rifugio di generazione in generazione» (Introito). «Allorché Israele usci dall’Egitto e la casa di Giacobbe da un popolo barbaro » continua il Salmo dell’Alleluia, Dio consacrò Giuda al suo servizio e stabilì il suo impero in Israele ». Dopo aver mostrato tutti i prodigi, che Dio fece per preservare il suo popolo, il salmista aggiunge: « Il nostro Dio è in cielo, tutto quello che ha voluto, Egli lo ha fatto. La casa di Israele ha sperato nel Signore; Egli è il loro soccorso ed il loro protettore ». Il Salmo del Communio e del Versetto dell’Introito, dice il grido di speranza che le anime giuste innalzano al cielo: « L’anima mia è nell’attesa della tua salvezza, quando farai giustizia dei miei persecutori? Gli empi mi perseguitano, aiutami, Signore mio Dio». «Signore, aggiunge l’Introito, ogni cosa è sottomessa alla tua volontà, poiché Tu sei il Creatore e il padrone dell’Universo ». – « Signore, dice ugualmente la Chiesa nell’Orazione di questo giorno, veglia sempre misericordiosamente sulla tua famiglia, affinché essa sia, per mezzo della tua protezione, liberata da ogni avversità e attenda, con la pratica delle opere buone, a glorificare il tuo nome ». Il popolo antico e il popolo nuovo hanno un medesimo scopo, che è la glorificazione di Dio e l’affermazione dei suoi diritti. Tutti e due hanno anche gli stessi avversari, che sono satana e i suoi ministri. La Chiesa, ispirandosi alle Letture del Breviario delle Domeniche precedenti, ricorda oggi gli assalti che Giobbe ebbe da sostenere da parte di satana (Offertorio) e Mardocheo da parte di Aman, che fu calunniatore come il demonio (Introito). Dio liberò questi due giusti, come pure liberò il suo popolo dalla cattività d’Egitto, come venne in aiuto ai Maccabei che combattevano per difendere la sua causa. Cosi pure i Cristiani devono subire gli assalti degli spiriti maligni, poiché i persecutori della Chiesa sono suscitati dal demonio, come quelli del popolo d’Israele nell’antica legge. «Abbiamo da combattere, dice San Paolo, non contro esseri di carne e di sangue, ma contro i principi di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male sparsi nell’aria (Epistola). Come per i Maccabei che, per quanto valorosi, fidavano più in Dio che nelle loro armi, così i mezzi di difesa che devono adoperare i Cristiani sono anzitutto di ordine soprannaturale. « Fortificatevi nel Signore, dice l’Apostolo, e nella sua virtù onnipotente. Rivestitevi dell’armatura di Dio per difendervi dal demonio ». – I soldati romani, servono di esempio al grande Apostolo nella descrizione minuziosa che ci dà della panoplia mistica dei soldati di Cristo. Come armi difensive la Chiesa ha ricevuto nel giorno della Pentecoste, la rettitudine, la giustizia, la pace e la fede; come armi offensive le parole divinamente ispirate dallo Spirito Santo. Ora la parabola che Gesù ci dice nell’Evangelo di questo giorno, riassume tutta la vita cristiana nella pratica della carità, che ci fa agire verso il prossimo come Dio ha agito verso di noi. Egli ci ha perdonato delle gravi colpe: sappiamo a nostra volta perdonare ai nostri fratelli le offese che essi ci fanno e che sono molto meno importanti. Il demonio geloso porta gli uomini ad agire come quel servitore cattivo che prese per la gola il compagno, che gli doveva una somma minima e lo fece mettere in prigione perché non poteva pagare immediatamente. Se anche noi agiremo così, nel giorno del giudizio, cui ci prepara la liturgia di questa Domenica, dicendo: « Il regno dei cieli è simile ad un re che volle farsi rendere i conti dai suoi servi », Dio sarà verso di noi, quali noi saremo stati verso il prossimo. – L’Apostolo parla di una lotta accanita contro i nemici invisibili che ci lanciano dardi infiammati. Il combattimento è terribile e dobbiamo armarci fortemente per poter restare in piedi dopo aver riportata una vittoria completa. Come il soldato, il Cristiano deve avere un largo cinturone, una corazza, dei calzari, uno scudo, un elmo ed una spada.

Mostrarci implacabili per una ingiuria ricevuta, dice s. Girolamo, e rifiutare ogni riconciliazione per una parola amara, non è forse giudicare noi stessi degni della prigione? Iddio ci tratterà secondo le intime disposizioni del nostro cuore: se non perdoniamo, Dio non ci perdonerà. Egli è nostro giudice e non vuole un semplice perdono puramente esteriore. Ognuno deve perdonare a suo fratello « di tutto cuore », se vuol esser perdonato nell’ultimo giorno » (Mattutino).

Incipit9

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Esth. XIII: 9; 10-11
In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, cœlum et terram et univérsa, quæ cœli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es.

[Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, coelum et terram et univérsa, quæ coeli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es.

[Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Oratio

Orémus.

Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut a cunctis adversitátibus, te protegénte, sit líbera, et in bonis áctibus tuo nómini sit devóta.

[Custodisci, Te ne preghiamo, o Signore, con incessante pietà, la tua famiglia: affinché, mediante la tua protezione, sia libera da ogni avversità, e nella pratica delle buone opere sia devota al tuo nome.]

Lectio

Lectio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes VI: 10-17

Fratres: Confortámini in Dómino et in poténtia virtútis ejus. Indúite vos armatúram Dei, ut póssitis stare advérsus insídias diáboli. Quóniam non est nobis colluctátio advérsus carnem et sánguinem: sed advérsus príncipes et potestátes, advérsus mundi rectóres tenebrárum harum, contra spirituália nequítiae, in coeléstibus. Proptérea accípite armatúram Dei, ut póssitis resístere in die malo et in ómnibus perfécti stare. State ergo succíncti lumbos vestros in veritáte, et indúti lorícam justítiæ, et calceáti pedes in præparatióne Evangélii pacis: in ómnibus suméntes scutum fídei, in quo póssitis ómnia tela nequíssimi ígnea exstínguere: et gáleam salútis assúmite: et gládium spíritus, quod est verbum Dei.

“Fratelli, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. Vestite tutta l’armatura di Dio, perché possiate tener fronte alle insidie del demonio; poiché noi non abbiamo a combattere contro la carne ed il sangue, ma sì contro i principati, contro le podestà, contro i reggitori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti malvagi, per i beni celesti. Per questo pigliate l’intera armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio e in ogni cosa trovarvi ritti in piedi. Presentatevi adunque al combattimento cinti di verità i lombi, coperti dell’usbergo della giustizia, calzati i piedi in preparazione dell’Evangelo della pace. Sopra tutto prendete lo scudo della fede, col quale possiate spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Pigliate anche l’elmo della salute e la spada dello spirito, che è la parola di Dio „.

SOLDATI DI CRISTO.

L’Epistola d’oggi ci schiude dinanzi degli orizzonti di una vastità sconfinata, che sono però gli orizzonti stessi della vita cristiana. Ogni vita, nessuno ormai lo ignora, è a base di lotta, dalla forma più elementare e semplice alla più alta e complicata. La lotta è la condizione naturale della vita, ne è la intima legge. Non tutte le lotte hanno la stessa importanza appunto perché non tutte le forme di vita si svolgono allo stesso livello. Purtroppo, noi diamo molta importanza a lotte che ne hanno poca, pochissima. Tali, ad esempio, le nostre lotte economiche, che pure tanto ci appassionano, che noi giudichiamo spesso le maggiori, le massime nostre lotte. Il poeta moderno le poté perciò definire: « il ronzìo d’un’ape dentro un bugno vuoto ». Le grandi lotte, le vere, sono le lotte tipiche del Cristianesimo, le lotte morali. Il Cristianesimo è vita superiore, vita altissima dell’anima in Dio, Dio verità, Dio giustizia, Dio bontà, bontà sovratutto. La vita della verità, la vita cristiana della verità è per la bontà morale. E questa vita è lotta perché il bene ha un misterioso avversario: il male. Lotta individuale e sociale; ogni Cristiano impegna la sua lotta, per la verità contro l’errore, per la giustizia contro l’iniquità, per il bene contro il male. L’ultimo Cristiano, il più modesto, la povera donnicciola, l’umile contadino, l’operaio, sono militi di questa guerra. Che è poi la vita e la lotta della società cristiana, della Chiesa. – Ebbene, nelle lotte economiche anche più colossali, è impegnata una piccola parte del nostro pianeta. E ne risulta che le lotte (economiche) più all’apparenza gigantesche, sono piccole, sono cosa da poco, da nulla. E lasciano effettivamente di sé traccia così breve! Di fronte ad esse il Cristianesimo ha sempre affermato, afferma ancora la grandezza della sua lotta, la grande lotta morale, la lotta del bene e del male. San Paolo scrive frasi classiche per questa epica grandezza. Grandezza cosmica. In esso è interessato il mondo, proprio il mondo, tutto il mondo spirituale. Questo mondo spazia oltre la materia, oltre l’umanità per gli innumeri gradi che ricollegano Dio, lo Spirito più alto, all’uomo, l’infimo nella gerarchia spirituale. Tutto questo vastissimo mondo visibile e invisibile è ricollegato da quella unità di interesse. Nella vittoria del bene è interessata con Dio la falange degli spiriti buoni; nella vittoria del male è interessata l’opposta falange degli spiriti malvagi. Ecco le vere forze che stanno le une di fronte all’altre, di qua e di là tutte collegate. Il piccolo soldato che ha il suo piccolo settore di combattimento non si accorge della vastità del fronte suo, del fronte avverso; non la sente questa grandezza. San Paolo scuote questa incoscienza, scarsa coscienza nella quale ciascuno di noi rischia di precipitare: questa, chiamiamola così, involuzione, per cui ciascuno crede di avere il suo nemico solo dentro di sé, come dice benissimo l’Apostolo, la carne ed il sangue, il nostro egoismo, la nostra corruzione. Questa nemica individuale, intima, piccola c’è e bisogna rompere questa trincea fatale dell’egoismo; bisogna guarire dalla corruzione per vincere, per dar ragione in noi stessi a Dio, per diventare soldati suoi. Ma il nemico interiore ha degli alleati fuori di noi, alleato il mondo, l’ambiente sociale, le coalizioni di tutta la parte dell’umanità che non è con Dio. La quale, non essendo con Lui, è contro di Lui e contro tutti quelli che lo amano e lo seguono. E colla carne e col mondo, compie il trinomio grandioso il demonio, la coalizione del male, e la coalizione contro Dio. – Quando siamo chiamati a deciderci, e la decisione è il punto saliente, il vero momento tragico, della vita, non siamo chiamati a deciderci tra entità astratte, bene e male, ma tra forze concrete e vive e innumerevoli, estesissime. Ogni vittoria nostra, ogni vittoria in noi del bene ha ripercussione immensa in tutta la falange degli spiriti buoni, di rabbia nel mondo degli spiriti malvagi: e viceversa d’ogni nostra sconfitta che noi decretiamo al bene, si rallegra la falange malvagia; la santa falange si rattrista. E anche questo deve essere a noi motivo e stimolo di valore. Alla grandezza della pugna dev’essere proporzionata la grandezza spirituale del combattente. Armiamoci nel Nome di Dio, per una lotta nella quale sono impegnati l’onore di Lui e i destini del mondo.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps LXXXIX: 1-2
Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie.
V. Priúsquam montes fíerent aut 9 terra et orbis: a saeculo et usque in sæculum tu es, Deus.

[O Signore, Tu sei il nostro rifugio: di generazione in generazione.
V. Prima che i monti fossero, o che si formasse il mondo e la terra: da tutta l’eternità e sino alla fine]

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps 113: 1
In éxitu Israël de Ægýpto, domus Jacob de pópulo bárbaro. Allelúja.

[Quando Israele uscí dall’Egitto, e la casa di Giacobbe dal popolo straniero. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XVIII: 23-35
In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Assimilátum est regnum cœlórum hómini regi, qui vóluit ratiónem pónere cum servis suis. Et cum cœpísset ratiónem pónere, oblátus est ei unus, qui debébat ei decem mília talénta. Cum autem non habéret, unde rédderet, jussit eum dóminus ejus venúmdari et uxórem ejus et fílios et ómnia, quæ habébat, et reddi. Prócidens autem servus ille, orábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Misértus autem dóminus servi illíus, dimísit eum et débitum dimísit ei. Egréssus autem servus ille, invénit unum de consérvis suis, qui debébat ei centum denários: et tenens suffocábat eum, dicens: Redde, quod debes. Et prócidens consérvus ejus, rogábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Ille autem nóluit: sed ábiit, et misit eum in cárcerem, donec rédderet débitum. Vidéntes autem consérvi ejus, quæ fiébant, contristáti sunt valde: et venérunt et narravérunt dómino suo ómnia, quæ facta fúerant. Tunc vocávit illum dóminus suus: et ait illi: Serve nequam, omne débitum dimísi tibi, quóniam rogásti me: nonne ergo opórtuit et te miseréri consérvi tui, sicut et ego tui misértus sum? Et irátus dóminus ejus, trádidit eum tortóribus, quoadúsque rédderet univérsum débitum. Sic et Pater meus cœléstis fáciet vobis, si non remiséritis unusquísque fratri suo de córdibus vestris.

In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. E avendo iniziato a fare i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Ma non avendo costui modo di pagare, il padrone comandò che fosse venduto lui, sua moglie, i figli e quanto aveva, e cosí fosse saldato il debito. Il servo, però, gettatosi ai suoi piedi, lo supplicava: Abbi pazienza con me, e ti renderò tutto. Mosso a pietà, il padrone lo liberò, condonandogli il debito. Ma il servo, partito da lí, trovò uno dei suoi compagni che gli doveva cento denari: e, presolo per la gola, lo strozzava dicendo: Pagami quello che devi. E il compagno, prostratosi ai suoi piedi, lo supplicava: Abbi pazienza con me, e ti renderò tutto. Ma quegli non volle, e lo fece mettere in prigione fino a quanto lo avesse soddisfatto. Ora, avendo gli altri compagni veduto tal fatto, se ne attristarono grandemente e andarono a riferire al padrone tutto quello che era avvenuto. Questi allora lo chiamò a sé e gli disse: Servo iniquo, io ti ho condonato tutto quel debito, perché mi hai pregato: non dovevi dunque anche tu aver pietà di un tuo compagno, come io ho avuto pietà di te? E sdegnato, il padrone lo diede in mano ai carnefici fino a quando non avesse pagato tutto il debito. Lo stesso farà con voi il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello.”

OMELIA

Sulla collera.

Tenens suffocabat eum, dicens: Redde quod debes.

(MATTH. XVIII, 28).

Come sono differenti i sentimenti dell’uomo da quelli di Dio! Questo miserabile, cui era stato condonato tutto ciò che doveva al suo padrone, invece di sentirsi mosso a riconoscenza ed esser pronto ad usare la medesima indulgenza verso il suo fratello, non appena lo scorge, monta su tutte le furie, non sa trattenersi, lo prende per la gola e sembra volerlo strozzare. L’altro può ben gettarglisi ai piedi per domandargli grazia, niente lo commuove, niente lo trattiene. Bisogna che sfoghi il suo furore contro quell’infelice, e lo fa gettare in prigione finché abbia pagato il debito. Tale è, Fratelli miei, la condotta della gente del mondo. Dio ci è rappresentato nel padrone. Se Egli ci condona volontariamente quanto dobbiamo alla sua giustizia, se ci tratta con tanta bontà e dolcezza, è perché, dietro il suo esempio, noi ci abbiamo a comportare allo stesso modo coi nostri fratelli. Ma un uomo, ingrato e violento, dimentica subito ciò che il buon Dio ha fatto per lui. Per un nonnulla lo si vedrà abbandonarsi a tutto il furore d’una passione così indegna di un Cristiano, e così oltraggiosa verso un Dio di dolcezza e di bontà. Temiamo, F. M., una passione così malvagia, così capace di allontanarci da Dio e che fa condurre a noi ed a tutti quelli che ci circondano una vita infelice. Vi mostrerò:

1° quanto la collera oltraggi Dio;

2° quanto sia indegna d’un Cristiano.

I. — Non intendo parlarvi di quelle piccole impazienze, di quei borbottamenti che sono così frequenti. Sapete che ogni qualvolta non vi frenate offendete Dio. Sebbene questi non siano ordinariamente peccati mortali, non dovete però mancare di accusarvene. Se voi mi domandate che cos’è la collera, vi risponderò che è un moto violento, impetuoso dell’anima, che rigetta con veemenza ciò che le dispiace. Se apriamo i libri santi dove si contengono le azioni degli uomini che formarono l’ammirazione del cielo e della terra, vediamo dappertutto che essi hanno sempre avuto in orrore questo maledetto peccato, e che l’hanno considerato come segno di riprovazione. Frattanto vi dirò con S. Tommaso che v’ha una santa collera, la quale proviene dallo zelo che abbiamo nel difendere la causa di Dio. Si può, dice egli, qualche volta adirarsi senza offendere Dio, secondo il Re profeta: Adiratevi; ma non peccate„. (Ps. IV, 5) Vi ha dunque una collera giusta e ragionevole, la quale si può piuttosto chiamare zelo che collera. La sacra Scrittura ce ne mostra un gran numero d’esempi. Vi leggiamo che Finees (Num. XXV), uomo che temeva il Signore e sosteneva la sua causa, entrò in una santa collera alla vista dello scandaloso peccato di un Giudeo con una Madianita, e li uccise con un colpo di spada. Non solo egli non offese il Signore colla morte di quei due miserabili, ma al contrario fu lodato del suo zelo nel vendicar le offese che gli si facevano. E tale fu la condotta di Mosè. Indignato perché gli Israeliti avevano adorato un vitello d’oro disprezzando il vero Dio, ne fece uccidere ventitré mila per vendicare il Signore; e ciò per ordine di Dio stesso (Exod. XXXII, 28). Tale ancora fu quella di Davide che, fin dal mattino, dichiarava guerra a tutti quei grandi peccatori che passavano la vita oltraggiando Iddio (Ps C, 8). E tale infine fu quella di Gesù Cristo stesso, quando entrò nel tempio per scacciare quelli che compravano e vendevano, dicendo loro: “La mia casa è casa di preghiera, e voi ne avete fatto una spelonca di ladri (Matt. XXI, 13)„. – Tale deve essere la collera d’un pastore, cui sta a cuore la salute dei suoi parrocchiani e la gloria di Dio. Se un pastore resta muto vedendo Dio oltraggiato e le anime perdersi, guai a lui! Se non vuol dannarsi bisogna che, se vi è qualche disordine in parrocchia, metta sotto i piedi il rispetto umano ed il timore d’essere odiato o disprezzato dai suoi parrocchiani, e quand’anche fosse certo d’esser ucciso appena sceso dal pulpito, ciò non deve trattenerlo. Un pastore che vuol adempiere il suo dovere deve sempre avere la spada in mano per difendere gli innocenti, ed incalzare i peccatori finché non siano ritornati a Dio; questo continuo incalzare deve durare fino alla morte. Se non fa così, è un cattivo sacerdote, che perde le anime, invece di condurle a Dio. Se vedete succedere qualche scandalo nella vostra parrocchia, ed i vostri pastori non dicono nulla; guai a voi, perché Dio mandandovi tali pastori vi punisce. Dico dunque che tutte queste collere non sono che sante collere, lodate ed approvate da Dio stesso. Se tutte le vostre collere fossero così, non si potrebbe che lodarvi. Ma quando riflettiamo un poco su ciò che avviene nel mondo, quando s’odono tanti sussurri, si vedono dissensioni regnare tra vicini e vicine tra fratelli e sorelle; riconosciamo in ciò una passione violenta, ingiusta, viziosa ed irragionevole, di cui occorre mostrarvi gli effetti dannosi, per farvene concepire l’orrore che merita. Ascoltate quello che ci dice lo Spirito Santo: L’uomo quando s’incollerisce, non solo perde la sua anima ed il suo Dio, ma accorcia anche i suoi giorni, « Zelus et iracundia minuunt dies ». (Eccli. XXX, 26). – Ve lo provo con un esempio sorprendente. Leggiamo nella storia della Chiesa che l’imperatore Valentiniano, ricevendo gli ambasciatori dei Quadi, s’infuriò così grandemente, che perdette il respiro e morì sull’istante. Dio mio! che orrore! che passione detestabile e mostruosa! essa dà la morte a chi se ne lascia soggiogare. So bene che non si va di frequente a tali eccessi; ma quante donne incinte, abbandonandosi alla collera, fanno perire i loro poveri figli prima di aver loro dato la luce ed il battesimo! Questi disgraziati non avranno dunque mai più la fortuna di vedere Dio! Nel giorno del giudizio li vedremo perduti: essi non andranno mai in cielo! E la collera d’una madre ne sarà stata la sola causa! Ahimè! questi poveri fanciulli gridano spesso nell’inferno: Ah, maledetto peccato di collera, di quanti beni ci hai privati!… tu ci hai strappato il cielo; tu ci hai condannati ad essere divorati dalle fiamme! Dio mio, quanti beni ci ha strappati questo peccato! Addio, bel cielo, noi non ti vedremo mai: ah! quale disgrazia!… Mio Dio, una donna che si fosse resa colpevole d’un tal delitto, potrebbe vivere senza versare giorno e notte torrenti di lacrime, e non ripetere ad ogni momento: Disgraziata, che hai fatto? dov’è il tuo povero bambino? tu l’hai gettato nell’inferno. Ahimè! quali rimproveri nel giorno del giudizio, quando lo vedrai venire a domandarti il cielo! Questo povero bambino si getterà sulla madre con un furore spaventoso. Ah! madre! le dirà, maledetta madre! rendimi il cielo! tu me l’hai strappato! Questo bel cielo che non vedrò mai, te lo domanderò per tutta l’eternità; questo bel cielo che la collera d’una madre mi ha fatto perdere!… Mio Dio! che disgrazia! Eppure quanto è grande il numero di questi poveri bambini! — Una donna incinta, confessandosi d’un peccato di collera, se vuol salvarsi non deve mancare di far conoscere il suo stato, perché invece d’un peccato mortale può averne commessi due. Se non fate così, cioè se non dite questa circostanza, dovete dubitare delle vostre confessioni. Così un marito che ha fatto incollerire sua moglie deve accusarsi di questa circostanza, e lo stesso devono fare tutti coloro che si sono resi colpevoli del medesimo fallo. Ahimè! come son pochi quelli che si accusano di questo! Mio Dio! quante confessioni cattive! Il profeta Isaia ci dice che l’uomo in collera è simile ad un mare in tempesta. (Isa. LVII, 20). Bella similitudine, F. M… Infatti, niente rispecchia meglio il cielo come il mare quand’è calmo; è un grande specchio nel quale gli astri sembrano riprodursi; ma subito, quando l’uragano commove le acque, tutte queste celesti immagini scompaiono. Così, l’uomo che ha la fortuna di conservare la pazienza e la dolcezza è, in questa calma, un’immagine sensibile di Dio. Ma non appena la collera e l’impazienza hanno distrutta questa calma, l’immagine della divinità scompare. Quest’uomo cessa d’essere l’immagine di Dio, e diventa l’immagine del demonio. Ne ripete le bestemmie, ne riproduce il furore. Quali sono i pensieri del demonio? Non sono che pensieri di odio, di vendetta, di divisione, e tali sono quelli di un uomo in collera. Quali sono le espressioni del demonio? Maledizioni e bestemmie orribili. Se ascolto un uomo in collera, dalla sua bocca non si sentono che spergiuri e maledizioni. Mio Dio! che triste compagnia è quella d’una persona che va soggetta alla collera! Vedete una povera donna che ha un tal marito: se essa ha il timor di Dio e vuol evitare a lui delle offese, ed a sé dei cattivi trattamenti, non può dire una sola parola, anche se ne avesse il più gran desiderio. Bisogna che si accontenti di lamentarsi e piangere in segreto, per poter vivere d’accordo e non dare scandalo. — Ma, mi dirà un uomo stizzoso, perché ella mi resiste? sa bene che sono stizzoso. — Voi, amico, siete stizzoso, ma credete che gli altri non lo siano al par di voi? Dite piuttosto che non avete religione, e direte quello che veramente siete. Una persona che ha il timor di Dio non deve forse saper domare le proprie passioni, invece di lasciarsi domare da esse? – Ahimè! se ho detto che vi sono delle mogli disgraziate perché hanno mariti furiosi; vi sono dei mariti che non sono meno disgraziati con donne, che non sapranno mai dire una parola dolce, che per un nonnulla s’infuriano e vanno fuori di sé. Ma quale disgrazia in un matrimonio quando né l’uno né l’altra si vogliono piegare; sono continui alterchi, collere e maledizioni. Gran Dio! Non è questo un vero inferno anticipato? Ahimè! a quale scuola sono quei poveri fanciulli? quali lezioni di bontà e di dolcezza ricevono? S. Basilio ci dice che la collera rende l’uomo simile al demonio, perché non vi sono che i demoni capaci di abbandonarsi a tale sorta di eccessi. Una persona in questo stato è simile ad un leone furente, il cui ruggito fa di terrore gli altri animali. Vedete Erode, poiché i re Magi l’avevano ingannato, preso da tale collera, o meglio da tale ira che fece sgozzare tutti i piccoli fanciulli di Betlemme e dei dintorni (Matt. II, 16). E non si contentò di questi orrori, ma fece pugnalare anche sua moglie ed i suoi figli. Ahimè! quanti poveri fanciulli sono storpiati per tutta la loro vita, per i crudeli colpi che hanno avuti dai loro genitori in questi eccessi di collera! Ma aggiungo che la collera quasi mai è sola, essa è sempre accompagnata, come vedremo, da molti altri peccati.

II. — La collera trascina con sé spergiuri, bestemmie, rinnegamenti di Dio, maledizioni, imprecazioni. S. Tommaso ci dice che il giurare è un peccato così grave, così orribile agli occhi di Dio, che noi non potremo mai comprendere l’oltraggio che gli fa. Questo peccato non è come gli altri che per la leggerezza della materia sono soltanto peccati veniali. Nei giuramenti, più la materia è leggera, e più il peccato è grave, perché è un maggior disprezzo ed una maggior profanazione del santo Nome di Dio. Lo Spirito Santo ci assicura che la casa dell’uomo solito a giurare sarà piena d’iniquità, e non cesseranno per essa i castighi di Dio fino a che non sarà distrutta (Eccli. XXIII, 12). Si può sentire senza fremere questi disgraziati, che osano portare il loro furore fino a giurare sul santo Nome di Dio, questo Nome adorabile che gli Angeli con tanta gioia ripetono incessantemente: “Santo, santo, santo, è il Dio degli eserciti! sia benedetto per tutti i secoli de’ secoli! „ Se si riflettesse bene prima di usare la lingua, che essa è un organo datoci da Dio per pregarlo, per cantare le sue lodi; che questa lingua è stata bagnata dal Sangue prezioso di Gesù Cristo, che essa tante volte ha servito di altare al Salvatore stesso; si potrebbe servirsene per oltraggiare un Dio così buono, e per profanare un Nome così santo e così rispettabile?… Vedete come i Santi abborrivano i giuramenti. S. Luigi, re di Francia, aveva fatta una legge per la quale chi giurasse avrebbe la lingua forata da un ferro rovente. Un cittadino di Parigi, in un alterco, giurò il santo Nome di Dio. Fu condotto davanti al re, che tosto lo condannò ad avere forata la lingua. Essendo venuti tutti i personaggi insigni della città per domandare grazia, il re rispose loro che, se egli avesse avuto sventura di cadere in tale peccato, da stesso se la sarebbe traforata. Ed ordinò che la sentenza fosse eseguita. Quando andò a combattere in Terra santa, venne fatto prigioniero. Gli si domandò un giuramento che, del resto, non sembrava offendere la sua coscienza, tuttavia, preferì esporsi alla morte, tanto temeva di giurare (Ribadeneira, 25 Ag.). Perciò vediamo che chi giura spesso, d’ordinario è una persona abbandonata da Dio, oppressa da mille disgrazie che fa non di rado una fine infelice. Leggiamo nella storia un esempio che può ispirarci il più grande orrore pel giuramento. Quando S. Narciso governava la chiesa di Gerusalemme, tre libertini lo calunniarono orribilmente, appoggiando le loro asserzioni con tre esecrabili giuramenti. Il primo disse che, se quanto affermava non era vero, voleva essere abbruciato vivo; l’altro che voleva morire di male caduco; ed il terzo che  voleva gli fossero strappati gli occhi. Per queste calunnie, S. Narciso fu scacciato dalla città come un infame, cioè come un Vescovo che s’abbandonava ad ogni sorta d’impurità. Ma la vendetta di Dio non tardò a punire quegli infelici. Essendosi appiccato il fuoco alla casa del primo, questi vi restò abbruciato vivo. Il secondo morì di male caduco; il terzo, spaventato da sì orribili castighi, perdette la vista piangendo i suoi peccati. So che questi giuramenti avvengono di rado. I più ordinari sono: In fede mia! — In coscienza! — Mio Dio! sì; — Mio Dio! no; perbacco! — caspita! — cane d’un…! – Quando vi confessate, dovete dire il perché avete giurato; se per affermare cose false o vere: se avete fatto giurare altre persone, perché non volevate credere ad esse. Dovete dire se ne avete l’abitudine, e da quanto tempo. Bisogna poi guardarsi bene di non aggiungere al giuramento l’imprecazione. Vi sono alcuni che dicono: “Se questo non è vero, che non mi muova mai più di qui; che non veda il cielo; che Dio mi danni! che la peste mi soffochi! che il diavolo mi porti via! …„ Ahimè! amico, forse il diavolo non aspetta che la tua morte per portarti via! … Dovete dire nelle vostre confessioni, se ciò che avete detto era o no contro la verità. Alcuni credono che non sia alcun male giurando per assicurare che una cosa è vera. Il male, non è certo così grave come se si fosse giurata una cosa falsa; ma è sempre un peccato e grave. Siete adunque obbligati di accusarvene sempre, senza di che vi dannerete. Eccone un esempio che fa tremare. Si racconta nella vita di S. Edoardo, re d’Inghilterra (Ribadeneira, 13. ott.) che il conte Gondevino, suocero del re, era così geloso che non poteva sopportare persona alcuna vicino al re. Il re l’accusò un giorno d’aver cooperato all’uccisione di suo fratello. Il conte rispose che se ciò era vero, voleva che un boccone di pane lo soffocasse. Il re fece il segno di croce su un pezzo di pane; il suocero lo prese e, mentre l’inghiottiva, il pane gli s’infisse nella gola e lo soffocò, ed egli morì. Terribile punizione, F. M. Ahimè! dove andò la sua povera anima, poiché morì nell’atto di commettere questo peccato? Non solo: non dobbiamo giurare per qualunque pretesto, anche se si trattasse di perdere i beni, l’onore e la vita; perché, giurando, perdiamo il cielo, il nostro Dio e la nostra anima; ma non dobbiamo nemmeno far giurare gli altri. S. Agostino ci dice (Serm. CCCVIII) che, se prevediamo che quelli che facciamo chiamare in giudizio, giureranno il falso, non dobbiamo farli chiamare; noi siamo colpevoli al par loro, ed ancor più colpevoli che se togliessimo loro la vita. Infatti, uccidendoli, non facciamo che dare la morte al loro corpo, se hanno la fortuna di essere in istato di grazia; il male è tutto nostro; invece facendoli giurare, perdiamo la loro povera anima, e la perdiamo per tutta l’eternità. Si racconta che un cittadino di Ippona, uomo dabbene, ma molto attaccato alla terra, costrinse uno, cui aveva prestato del denaro, a giurare in giudizio; costui giurò il falso. La stessa notte, si trovò in sogno presentato al tribunale di Dio. — Perché hai tu fatto giurare quest’uomo?… Non dovevi perdere ciò che ti doveva piuttosto che rovinare la sua anima? Gesù Cristo gli disse che per questa volta gli perdonava, ma che lo condannava ad essere staffilato; il che fu sull’istante eseguito dagli Angeli. Al domani si trovò tutto coperto di piaghe. — Voi mi direte: Devo perdere quello che mi si deve? — Sì, dovreste perdere quello che vi è dovuto: stimate voi, dunque, meno l’anima del vostro fratello che il vostro denaro? – Del resto, siete sicuri che se farete questo per Iddio, Egli non mancherà certo di ricompensarvene. I padri e le madri, i padroni e le padrone devono esaminarsi se non sono mai stati, per i loro figli o dipendenti, causa di qualche giuramento, pel timore d’essere maltrattati o rimproverati. Si giura tanto il vero che il falso. Guardatevi bene, quando sarete chiamati in giudizio, di non giurare mai il falso. Anche se non avete giurato, dovete esaminarvi se avete avuto il pensiero, e quante volte l’avete avuto; se avete consigliato agli altri di giurare il falso col pretesto, che, dicendo la verità, verrebbero condannati. Siete obbligati a dire tutto questo. Accusatevi anche se avete usato qualche astuzia di parole per dire in modo differente da quello che pensavate; perché siete obbligati di dire ciò che pensate, ciò che avete visto e sentito; altrimenti commettete un grave peccato. Dovete altresì accennare distintamente se avete fatto qualche cosa per indurre gli altri a mentire: così un padrone, che minacciasse il servo di maltrattarlo o di fargli perdere il posto, deve dir in confessione tutto questo, altrimenti la confessione non sarebbe che un sacrilegio. Lo Spirito Santo ci dice che il falso testimonio sarà punito rigorosamente (Deut. XIX, 18. 21).  – Ho detto che cos’è il giuramento e lo spergiuro; vediamo ora che cos’è la bestemmia. Vi sono molti che non sanno distinguere la bestemmia dal giuramento. Se non sapete distinguere l’uno dall’altra, non potete sperare che le vostre confessioni siano buone, poiché non fate conoscere i vostri peccati come li avete commessi. Ascoltatemi dunque, affinché abbiate a togliere questa ignoranza che certissimamente vi dannerà. Bestemmia è parola greca che vuol dire detestazione, maledizione d’una beltà infinita. S. Agostino ci dice (De morìbus Manichæorum lib. II, lib. XI) che si bestemmia quando si attribuisce a Dio quello che non ha o non gli conviene: quando gli si toglie quello che gli compete, o, infine, quando si attribuisce a sé quello che non è dovuto che a Dio. Spieghiamoci.

1° Noi bestemmiamo quando diciamo che Dio non è giusto, se ciò che facciamo od intraprendiamo non riesce.

2° Dire che Dio non è buono, come fanno alcuni nell’eccesso della loro miseria, è una bestemmia.

3° Bestemmiamo quando diciamo che Dio non sa tutto; che non bada a quello che avviene sulla terra; ch’Egli non sa che noi siamo al mondo; che tutto va a casaccio; che Dio non si cura di sì poca cosa; che venendo al mondo siamo destinati ad essere felici od infelici, o che Dio non vi muta nulla.

4° Quando diciamo: Se Iddio usasse misericordia con quel tale, non sarebbe proprio giusto, perché ne ha fatte troppe, e non merita che l’inferno.

5° Quando ci adiriamo con Dio per qualche perdita, e diciamo: No, Dio non può farmi più di quello che mi ha fatto. Ed è pure una bestemmia mettere a burla e motteggiare la Ss. Vergine od i Santi dicendo: È un santo che ha poca potenza; son già più giorni che prego… e non ho nulla ottenuto; certo non ricorro più a lui. È una bestemmia dire che Dio non è potente, e trattarlo indegnamente, come dicendo: A dispetto di Dio! ecc. – I Giudei avevano talmente in orrore questo peccato che, quando sentivano bestemmiare, si stracciavano le vesti in segno di dolore (Per esempio Caifa, durante la passione. Matth. X. vers. 65). Il santo Giobbe temeva questo peccato a tal segno che, nel timore che i suoi figli l’avessero a commettere, offriva a Dio dei sacrifizi in espiazione (Job. I, 5). Il profeta Nathan disse a Davide: Poiché sei stato la causa che si bestemmiasse Dio, tuo figlio morrà, ed i castighi non si allontaneranno dalla tua casa per tutta la tua vita (II Reg. XII, 14). Il Signore dice nella sacra Scrittura (Lev. XXIV, 16.): Chiunque bestemmierà il mio santo Nome, voglio sia messo a morte; quando gli Ebrei erano nel deserto, venne sorpreso un uomo che bestemmiava, ed il Signore ordinò che fosse ucciso a colpi di pietra (Lev. XXIV, 14). Sennacherib, re degli Assiri, che assediava Gerusalemme, aveva bestemmiato il Nome di Dio, dicendo che a dispetto di Dio prenderebbe la città e la metterebbe tutta a ferro e fuoco; il Signore allora mandò un Angelo, che in una sola notte uccise cento ottantacinquemila uomini, e il re stesso fu sgozzato dai suoi propri figli al suo ritorno a Ninive, nel tempio di Moloch, (IV Reg. XIX). Fin dal principio del mondo la bestemmia è sempre stata in orrore: essa è infatti il linguaggio dell’inferno, poiché il demonio ed i dannati non cessano di proferirla. Quando l’imperatore Giustino sapeva che qualcuno dei suoi sudditi aveva bestemmiato, gli faceva tagliare la lingua. Durante il regno del re Roberto, la Francia fu afflitta da una grande guerra. Il buon Dio rivelò ad un’anima santa che tutti questi mali durerebbero sino a che nel regno non si cessasse dal bestemmiare. Non è dunque uno straordinario miracolo, che una casa dove si trova un bestemmiatore non venga schiacciata dalla folgore, ed oppressa da ogni sorta di disgrazie? S. Agostino dice ancora che la bestemmia è un peccato più grave dello spergiuro; perché in questo si prende Dio come testimonio d’una cosa falsa; in quella invece è una cosa falsa che si attribuisce a Dio (S. Aug. Contra mendacium, c. XIX). Riconoscete dunque con me, F. M., l’enormità di questo peccato e la disgrazia di chi vi si abbandona. Quando taluno vi si è abbandonato, non deve temere che la giustizia di Dio lo punisca sull’istante come ha fatto con tanti altri? – Vediamo ora la differenza che passa tra la bestemmia ed il rinnegar Dio. Non voglio parlarvi di quelli, che rinnegano Dio abbandonando la Religione Cattolica per abbracciarne una falsa, come i protestanti, i giansenisti e tanti altri. Noi chiamiamo queste persone rinnegati ed apostati. Parlo ora di quelli che, dopo qualche perdita o qualche disgrazia, hanno la maledetta abitudine di uscire in parole di collera contro Dio. Questo peccato è orribile, perché per la minima cosa che ci accade, ce la prendiamo con Dio stesso, e ci adiriamo con Lui: è come se dicessimo a Dio: Siete un…! un… ! uno sciagurato, un vendicativo! Voi mi punite per quell’azione, voi siete ingiusto! Dio deve subire la nostra collera, come se fosse la causa della perdita che abbiamo fatto, dell’incidente che ci è toccato. Non fu questo tenero Salvatore che ci ha tratti dal nulla, che ci ha creati a sua immagine, che ci ha riscattati col proprio Sangue prezioso, e che ci conserva così lungamente, mentre meriteremo già da molti anni d’essere inabissati nell’inferno?… Egli ci ama di un amore ineffabile, e noi lo disprezziamo; profaniamo il suo santo Nome, lo spergiuriamo, lo rinneghiamo! Oh orrore! V’ha forse delitto più mostruoso? Non è imitare il linguaggio dei demoni? dei demoni, che null’altro fanno nell’inferno? Ahimè! F. M., se li imitate in questa vita, state ben certi di andare a far loro compagnia nell’inferno. Dio mio! può un Cristiano abbandonarsi a tali orrori! Una persona che s’abbandona a questo peccato deve aspettarsi una vita disgraziata, anche in questo mondo. Si racconta che un uomo, il quale aveva bestemmiato per tutta la sua vita, disse al prete che lo confessava: Ahimè! padre, quanto fu disgraziata la mia vita! Io avevo l’abitudine di giurare, di bestemmiare il Nome di Dio; ho perduto le mie ricchezze, che erano considerevoli; i miei figli, su cui non ho attirato che maledizioni, non sono buoni a nulla; la mia lingua, che ha giurato, bestemmiato il Nome santo di Dio, è ulcerata e va incancrenandosi. Ahimè! dopo essere stato disgraziato in questo mondo, temo di dannarmi in causa delle mie bestemmie. Ricordatevi, F. M., che la lingua non vi è stata data che per benedire il buon Dio; essa gli è stata consacrata col santo Battesimo e colla santa Comunione. Se per disgrazia andate soggetti a questo peccato, dovete confessarvene con grande dolore e farne un’aspra penitenza; altrimenti ne subirete il castigo nell’inferno. Purificate la vostra bocca, pronunciando con rispetto il Nome di Gesù. Domandate spesso a Dio la grazia di morire, piuttosto di ricadere in questo peccato. Non avete mai pensato quanto la bestemmia sia orribile davanti a Dio e davanti agli uomini? Ditemi, vi siete confessati come si deve? Non vi siete accontentato di dire che avete giurato, oppure che avete detto delle parole triviali? Esaminate la vostra coscienza, e non addormentatevi, poiché può darsi che le vostre confessioni non valgano nulla. – Vediamo ora che cosa s’intende per maledizione ed imprecazione. Ecco. Si cade nella maledizione quando, trascinati dall’odio o dalla collera, vogliamo annientare o rendere disgraziato chiunque si opponga alla nostra volontà. Queste maledizioni cadono su di noi, sui nostri simili, sulle creature animate od anche inanimate. Quando facciamo così, non operiamo secondo lo spirito di Dio, che è uno spirito di dolcezza, di bontà e di carità; ma secondo lo spirito del demonio, il cui ufficio è solo quello di maledire. Le maledizioni più cattive sono quelle che i padri e le madri invocano sui loro figli, per i grandi mali che ne seguono. Un figlio maledetto dai suoi genitori è ordinariamente, un figlio maledetto da Dio stesso; perché Dio ha detto che se i genitori benedicono i loro figli, Egli li benedirà: al contrario, se li maledicono, la maledizione cadrà su di loro. (Eccli. III, 11). S. Agostino ne cita un esempio degno d’essere impresso per sempre nel cuore dei padri e delle madri. Una madre, ci dice, incollerita, maledisse i suoi tre figli ed all’istante essi furono invasi dal demonio (De civ. Dei). Un padre disse ad uno dei suoi figli: Non morirai una benedetta volta dunque? Il figlio cadde morto a’ suoi piedi. Ciò che aggrava di più questo peccato, è che se un padre ed una madre hanno l’abitudine di commetterlo, i figli contrarranno la medesima abitudine, ed il vizio diventa ereditario nella famiglia. Se vi sono tante case disgraziate, e che sono veramente la soddisfazione dei demoni e l’immagine dell’inferno, ne troverete la spiegazione nelle bestemmie e nelle maledizione degli antenati, che sono passate da nonno in padre, da padre in figlio, e continuerete così di generazione in generazione. Voi avete sentito un padre incollerito pronunziar giuramenti, imprecazioni e maledizioni; ebbene! ascoltate i suoi figli quando sono in collera: hanno sulle labbra gli stessi giuramenti; le stesse imprecazioni. Così i vizi dei genitori passano nei loro figli, come le loro ricchezze e meglio ancora. Gli antropofagi non uccidono che gli stranieri per mangiarli; ma, fra i Cristiani vi sono dei padri e delle madri che, per soddisfare le loro passioni, augurano la morte a coloro ai quali essi stessi han dato la vita ed abbandonano al demonio tutti coloro che Gesù Cristo ha riscattati col suo Sangue prezioso. Quante volte si sente dire da questi padri e madri senza religione: Ah! maledetto ragazzo, non creperai… una volta? Mi dai fastidio; il buon Dio non ti punirà dunque una buona volta?… vorrei che tu fossi lontano da me quanto mi sei vicino! cane d’un ragazzo! demonio d’un figlio! Carogne di figli!… bestie! O mio Dio! possibile che tutte queste maledizioni escano dalla bocca d’un padre e d’una madre, i quali non dovrebbero augurare e desiderare ai loro poveri figli che le benedizioni del cielo? Se vediamo tanti figli scemi, storpi, stizzosi, senza religione, non cerchiamone la causa, almeno per la maggior parte dei casi, che nelle maledizioni dei genitori. – Qual è poi il peccato di coloro che nei momenti di malumore maledicono se stessi? È un delitto spaventoso, contrario alla natura e alla grazia; poiché la natura e la grazia ci comandano l’amore verso noi stessi. Chi maledice se stesso rassomiglia ad un arrabbiato, che si uccide colle proprie mani; egli è anche peggiore; spesso se la prende colla sua anima, dicendo: Che Dio mi danni! che il diavolo mi porti via! vorrei essere all’inferno piuttosto che in questa condizione! Ah! disgraziato, dice S. Agostino, che Dio non ti esaudisca; perché andresti a vomitare il veleno della tua rabbia nell’inferno! Mio Dio! se un Cristiano pensasse a ciò che dice, avrebbe la forza di pronunciare queste bestemmie, che potrebbero, in qualche modo, obbligare Dio a maledirlo dall’alto del suo trono? Oh! quanto è disgraziato un uomo soggetto alla collera! Egli costringe a punirlo quel Dio, il quale non vorrebbe che il suo bene e la sua felicità! Si riuscirà mai a comprendere questa cosa? – Qual è pure il peccato d’un marito e d’una moglie, d’un fratello e d’una sorella che vomitano l’un contro l’altro ogni sorta di maledizioni? È un peccato di cui non si potrà mai esprimere l’enormità; è un peccato tanto più grande quanto più rigorosamente essi sono obbligati ad amarsi ed a sopportarsi a vicenda. Ahimè! Quante persone maritate non cessano di vomitarsi vicendevolmente ogni sorta di maledizioni! Un marito ed una moglie che non dovrebbero farsi che dei felici augùri, e sollecitare la misericordia di Dio per ottenere l’un per l’altro d’andar in cielo a passare insieme l’eternità, si caricano di maledizioni; si strapperebbero, potendolo, gli occhi, si toglierebbero la vita! Maledetta moglie, o maledetto marito, gridano, non t’avessi, almeno, mai visto o conosciuto! Ah! maledetto mio padre, che m’ha consigliato di sposarti! … Mio Dio! quale orrore per dei Cristiani, i quali non dovrebbero occuparsi che di diventar santi! Essi fanno come i demoni ed i dannati! Quanti fratelli e sorelle vediamo augurarsi la morte, maledirsi, perché uno è più ricco, o per qualche ingiuria ricevuta; e conservare spesso l’odio per tutta la vita, ed a stento perdonarsi anche prima di morire! È altresì un grave peccato maledire il tempo, le bestie, il proprio lavoro. Quante persone, quando il tempo non è come vorrebbero, lo maledicono, dicendo: Maledetto tempaccio, non ti cambierai più dunque? Voi non sapete quello che dite: è come se diceste: Ah! maledetto Dio, che non mi dai il tempo come vorrei. Altri maledicono le loro bestie : Ah! maledetta bestia, non potrò farti andare come voglio?… Che il diavolo ti porti via, che il fulmine ti annienti! che il fuoco del cielo ti abbruci!… Ah! disgraziati, le vostre maledizioni hanno il loro effetto, più spesso che non crediate. Spesso alcune bestie periscono o si storpiano, e ciò in conseguenza dello maledizioni che avete loro date. Quante volte le vostre maledizioni, i vostri impeti di collera, le vostre bestemmie hanno attirato la brina o la grandine sui vostri raccolti! – Ma qual è il peccato di coloro che augurano male al prossimo? Questo peccato è grande in proporzione del male che augurate, e del danno che gli procurerebbe, se ciò si avverasse. Voi dovete accusarvene ogni. qualvolta fate di questi augùri. Quando vi confessate dovete dire quale male avete augurato, e quale danno ne sarebbe avvenuto se il vostro augurio si fosse adempito. Dovete spiegare se si trattava dei genitori, dei fratelli e delle sorelle, dei vostri cugini o cugine, zii o zie. Ahimè! Quanto pochi sono quelli che confessandosi fanno queste distinzioni! Si saran maledetti i fratelli, le sorelle, i cugini, le cugine, e si starà contenti di dire che si ha augurato male al prossimo, senza dire a chi, né quale era l’intenzione. Quanti altri hanno fatto giuramenti orribili, pronunciato bestemmie, imprecazioni, rinnegamenti di Dio da far rizzare i capelli in capo, e si accontentano di dire che hanno detto parole grossolane e nient’altro. Una parola grossolana, lo sapete, è una specie di piccola imprecazione detta senza collera. Ahimè, quante confessioni e comunioni sacrileghe! Ma, mi direte, che cosa bisogna fare per non commettere questi peccati, che sono così orribili e capaci di attirare su di noi ogni sorta di disgrazie? —Bisogna che tutte le pene che ci colpiscono ci facciano ricordare che, essendoci noi ribellati contro Dio, è giusto che le creature si rivoltino contro di noi. Bisogna non dar mai occasione agli altri di maledirci. I figli ed i servi soprattutto devono fare il possibile per non obbligare i genitori ed i padroni a maledirli, poiché è certo, presto o tardi toccherà loro qualche castigo. I padri e madri devono considerare che non hanno nulla di più caro al mondo che i loro figli, e lungi dal maledirli, non devono cessare di benedirli affinché Dio effonda su di loro i beni che essi augurano. Se vi capita qualche cosa di doloroso, invece di coprire di maledizioni chi non fa come voi vorreste, vi sarebbe ben facile dire: Dio vi benedica. Imitate il santo Giobbe che benediceva il Nome del Signore in tutte le grandi sventure che gli toccavano, e riceverete le stesse grazie. Vedendo la sua grande sottomissione alla volontà di Dio, il demonio fuggì, le benedizioni si sparsero abbondantemente sulle sue ricchezze, e tutto gli venne raddoppiato. Se, per disgrazia, vi capita di pronunciare qualcheduna di queste cattive parole, fate subito un atto di contrizione per domandarne perdono, e promettete che non vi ricadrete mai più. S. Teresa ci dice che, quando pronunciamo con rispetto il Nome di Dio, tutto il cielo si rallegra; come fa l’inferno, quando pronunciamo ogni cattiva parola. Un Cristiano non deve perdere di vista che la sua lingua non gli è data che per benedire Dio in questa vita, ringraziarlo dei beni di cui l’ha colmato, per benedirlo durante tutta l’eternità cogli Angeli e coi santi: questa sarà la sorte di quelli che avranno imitato gli Angeli e non il demonio. Io ve la desidero…

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Job I. 1
Vir erat in terra Hus, nómine Job: simplex et rectus ac timens Deum: quem Satan pétiit ut tentáret: et data est ei potéstas a Dómino in facultátes et in carnem ejus: perdidítque omnem substántiam ipsíus et fílios: carnem quoque ejus gravi úlcere vulnerávit.

[Vi era, nella terra di Hus, un uomo chiamato Giobbe, semplice, retto e timorato di Dio. Satana chiese di tentarlo e dal Signore gli fu dato il potere sui suoi beni e sul suo corpo. Egli perse tutti i suoi beni e i suoi figli, e il suo corpo fu colpito da gravi ulcere.]

Secreta

Suscipe, Dómine, propítius hóstias: quibus et te placári voluísti, et nobis salútem poténti pietáte restítui.

[Ricevi, propizio, o Signore, queste offerte con le quali volesti essere placato e con potente misericordia restituire a noi la salvezza.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXVIII: 81; 84; 86
In salutári tuo ánima mea, et in verbum tuum sperávi: quando fácies de persequéntibus me judícium? iníqui persecúti sunt me, ádjuva me, Dómine, Deus meus.

[L’ànima mia ha sperato nella tua salvezza e nella tua parola: quando farai giustizia di coloro che mi perseguitano? Gli iniqui mi hanno perseguitato, aiutami, o Signore, Dio mio.]

Postcommunio

Orémus.
Immortalitátis alimoniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, quod ore percépimus, pura mente sectémur.

[Ricevuto il cibo dell’immortalità, Ti preghiamo, o Signore, affinché di ciò che abbiamo ricevuto con la bocca, conseguiamo l’effetto con animo puro]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “SULLA COLLERA”

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sulla collera.

Tenens suffocabat eum, dicens: Redde quod debes.

(MATTH. XVIII, 28).

Come sono differenti i sentimenti dell’uomo da quelli di Dio! Questo miserabile, cui era stato condonato tutto ciò che doveva al suo padrone, invece di sentirsi mosso a riconoscenza ed esser pronto ad usare la medesima indulgenza verso il suo fratello, non appena lo scorge, monta su tutte le furie, non sa trattenersi, lo prende per la gola e sembra volerlo strozzare. L’altro può ben gettarglisi ai piedi per domandargli grazia, niente lo commuove, niente lo trattiene. Bisogna che sfoghi il suo furore contro quell’infelice, e lo fa gettare in prigione finché abbia pagato il debito. Tale è, Fratelli miei, la condotta della gente del mondo. Dio ci è rappresentato nel padrone. Se Egli ci condona volontariamente quanto dobbiamo alla sua giustizia, se ci tratta con tanta bontà e dolcezza, è perché, dietro il suo-esempio, noi ci abbiamo a comportare allo stesso modo coi nostri fratelli. Ma un uomo, ingrato e violento, dimentica subito ciò che il buon Dio ha fatto per lui. Per un nonnulla lo si vedrà abbandonarsi a tutto il furore d’una passione così indegna di un Cristiano, e così oltraggiosa verso un Dio di dolcezza e di bontà. Temiamo, F. M., una passione così malvagia, così capace di allontanarci da Dio e che fa condurre a noi ed a tutti quelli che ci circondano una vita infelice. Vi mostrerò:

1° quanto la collera oltraggi Dio;

2° quanto sia indegna d’un Cristiano

I. — Non intendo parlarvi di quelle piccole impazienze, di quei borbottamenti che sono così frequenti. Sapete che ogniqualvolta non vi frenate offendete Dio. Sebbene questi non siano ordinariamente peccati mortali, non dovete però mancare di accusarvene. Se voi mi domandate che cos’è la collera, vi risponderò che è un moto violento, impetuoso dell’anima, che rigetta con veemenza ciò che le dispiace. Se apriamo i libri santi dove si contengono le azioni degli uomini che formarono l’ammirazione del cielo e della terra, vediamo dappertutto che essi hanno sempre avuto in orrore questo maledetto peccato, e che l’hanno considerato come segno di riprovazione. Frattanto vi dirò con S. Tommaso che v’ha una santa collera, la quale proviene dallo zelo che abbiamo nel difendere la causa di Dio. Si può, dice egli, qualche volta adirarsi senza offendere Dio, secondo il Re profeta: Adiratevi; ma non peccate„. (Ps. IV, 5) Vi ha dunque una collera giusta e ragionevole, la quale si può piuttosto chiamare zelo che collera. La sacra Scrittura ce ne mostra un gran numero d’esempi. Vi leggiamo che Finees (Num. XXV), uomo che temeva il Signore e sosteneva la sua causa, entrò in una santa collera alla vista dello scandaloso peccato di un Giudeo con una Madianita, e li uccise con un colpo di spada. Non solo egli non offese il Signore colla morte di quei due miserabili, ma al contrario fu lodato del suo zelo nel vendicar le offese che gli si facevano. E tale fu la condotta di Mosè. Indignato perché gli Israeliti avevano adorato un vitello d’oro disprezzando il vero Dio, ne fece uccidere ventitré mila per vendicare il Signore; e ciò per ordine di Dio stesso (Exod. XXXII, 28). Tale ancora fu quella di Davide che, fin dal mattino, dichiarava guerra a tutti quei grandi peccatori che passavano la vita oltraggiando Iddio (Ps C, 8). E tale infine fu quella di Gesù Cristo stesso, quando entrò nel tempio per scacciare quelli che compravano e vendevano, dicendo loro: “La mia casa è casa di preghiera, e voi ne avete fatto una spelonca di ladri (Matt. XXI, 13)„. – Tale deve essere la collera d’un pastore, cui sta a cuore la salute dei suoi parrocchiani e la gloria di Dio. Se un pastore resta muto vedendo Dio oltraggiato e le anime perdersi, guai a lui! Se non vuol dannarsi bisogna che, se vi è qualche disordine in parrocchia, metta sotto i piedi il rispetto umano ed il timore d’essere odiato o disprezzato dai suoi parrocchiani, e quand’anche fosse certo d’esser ucciso appena sceso dal pulpito, ciò non deve trattenerlo. Un pastore che vuol adempiere il suo dovere deve sempre avere la spada in mano per difendere gli innocenti, ed incalzare i peccatori finché non siano ritornati a Dio; questo continuo incalzare deve durare fino alla morte. Se non fa così, è un cattivo sacerdote, che perde le anime, invece di condurle a Dio. Se vedete succedere qualche scandalo nella vostra parrocchia, ed i vostri pastori non dicono nulla; guai a voi, perché Dio mandandovi tali pastori vi punisce. Dico dunque che tutte queste collere non sono che sante collere, lodate ed approvate da Dio stesso. Se tutte le vostre collere fossero così, non si potrebbe che lodarvi. Ma quando riflettiamo un poco su ciò che avviene nel mondo, quando s’odono tanti sussurri, si vedono dissensioni regnare tra vicini e vicine tra fratelli e sorelle; riconosciamo in ciò un passione violenta, ingiusta, viziosa ed irragionevole, di cui occorre mostrarvi gli effetti dannosi, per farvene concepire l’orrore che merita. Ascoltate quello che ci dice lo Spirito Santo: L’uomo quando s’incollerisce, non solo perde la sua anima ed il suo Dio, ma accorcia anche i suoi giorni,« Zelus et iracundia minuunt dies ». (Eccli. XXX, 26). – Ve lo provo con un esempio sorprendente. Leggiamo nella storia della Chiesa che l’imperatore Valentiniano, ricevendo gli ambasciatori dei Quadi, s’infuriò così grandemente, che perdette il respiro e morì sull’istante. Dio mio! che orrore! che, passione detestabile e mostruosa! essa dà la morte a chi se ne lascia soggiogare. So bene che non si va di frequente a tali eccessi; ma quante donne incinte, abbandonandosi alla collera, fanno perire i loro poveri figli prima di aver loro dato la luce ed il battesimo! Questi disgraziati non avranno dunque mai più fortuna di vedere Dio! Nel giorno del giudizio li vedremo perduti: essi non andranno mai in cielo! E la collera d’una madre ne sarà stata la sola causa! Ahimè! questi poveri fanciulli gridano spesso nell’inferno: Ah, maledetto peccato di collera, di quanti beni ci hai privati!… tu ci hai strappato il cielo; tu ci hai condannati ad essere divorati dalle fiamme! Dio mio, quanti beni ci ha strappati questo peccato! Addio, bel cielo, noi non ti vedremo mai: ah! quale disgrazia!… Mio Dio, una donna che si fosse resa colpevole d’un tal delitto, potrebbe vivere senza versare giorno e notte torrenti di lacrime, e non ripetere ad ogni momento: Disgraziata, che hai fatto? dov’è il tuo povero bambino? tu l’hai gettato nell’inferno. Ahimè! quali rimproveri nel giorno del giudizio, quando lo vedrai venire a domandarti il cielo! Questo povero bambino si getterà sulla madre con un furore spaventoso. Ah! madre! le dirà, maledetta madre! rendimi il cielo! tu me l’hai strappato! Questo bel cielo che non vedrò mai, te lo domanderò per tutta l’eternità; questo bel cielo che la collera d’una madre mi ha fatto perdere!… Mio Dio! che disgrazia! Eppure quanto è grande il numero di questi poveri bambini! — Una donna incinta, confessandosi d’un peccato di collera, se vuol salvarsi non deve mancare di far conoscere il suo stato, perché invece d’un peccato mortale può averne commessi due. Se non fate così, cioè se non dite questa circostanza, dovete dubitare delle vostre confessioni. Così un marito che ha fatto incollerire sua moglie deve accusarsi di questa circostanza, e lo stesso devono fare tutti coloro che si sono resi colpevoli del medesimo fallo. Ahimè! come son pochi quelli che si accusano di questo! Mio Dio! quante confessioni cattive! Il profeta Isaia ci dice che l’uomo in collera è simile ad un mare in tempesta. (Isa. LVII,20). Bella similitudine, F. M… Infatti, niente rispecchia meglio il cielo come il mare quand’è calmo; è un grande specchio nel quale gli astri sembrano riprodursi; ma subito, quando l’uragano commove le acque, tutte queste celesti immagini scompaiono. Così, l’uomo che ha la fortuna di conservare la pazienza e la dolcezza è, in questa calma, un’immagine sensibile di Dio. Ma non appena la collera e l’impazienza hanno distrutta questa calma, l’immagine della divinità scompare. Quest’uomo cessa d’essere l’immagine di Dio, e diventa l’immagine del demonio. Ne ripete le bestemmie, ne riproduce il furore. Quali sono i pensieri del demonio? Non sono che pensieri di odio, di vendetta, di divisione, e tali sono quelli di un uomo in collera. Quali sono le espressioni del demonio? Maledizioni e bestemmie orribili. Se ascolto un uomo in collera, dalla sua bocca non si sentono che spergiuri e maledizioni. Mio Dio! che triste compagnia è quella d’una persona che va soggetta alla collera! Vedete una povera donna che ha un tal marito: se essa ha il timor di Dio e vuol evitare a lui delle offese, ed a sé dei cattivi trattamenti, non può dire una sola parola, anche se ne avesse il più gran desiderio. Bisogna che si accontenti di lamentarsi e piangere in segreto, per poter vivere d’accordo e non dare scandalo. — Ma, mi dirà un uomo stizzoso, perché ella mi resiste? sa bene che sono stizzoso. — Voi, amico, siete stizzoso, ma credete che gli altri non lo siano al par di voi? Dite piuttosto che non avete religione, e direte quello che veramente siete. Una persona che ha il timor di Dio non deve forse saper domare le proprie passioni, invece di lasciarsi domare da esse? – Ahimè! se ho detto che vi sono delle mogli disgraziate perché hanno mariti furiosi; vi sono dei mariti che non sono meno disgraziati con donne, che non sapranno mai dire una parola dolce, che per un nonnulla s’infuriano e vanno fuori di sé. Ma quale disgrazia in un matrimonio quando né l’uno né l’altra si vogliono piegare; sono continui alterchi, collere e maledizioni. Gran Dio! Non è questo un vero inferno anticipato? Ahimè! a quale scuola sono quei poveri fanciulli? quali lezioni di bontà e di dolcezza ricevono? S. Basilio ci dice che la collera ronde l’uomo simile al demonio, perché non vi sono che i demoni capaci di abbandonarsi a tale sorta di eccessi. Una persona in questo stato ad un leone furente, il cui ruggito fa di terrore gli altri animali. Vedete Erode, poiché i re Magi l’avevano ingannato, preso da tale collera, o meglio da tale ira che fece sgozzare tutti i piccoli fanciulli di Betlemme e dei dintorni (Matt. II, 16). E non si tentò di questi orrori, ma fece pugnalare che sua moglie ed i suoi figli. Ahimè! poveri fanciulli sono storpiati per loro vita, per i crudeli colpi che hanno avuti dai loro genitori in questi eccessi di collera! Ma aggiungo che la collera quasi mai sola, essa è sempre accompagnata, come vedremo, da molti altri peccati.

II. — La collera trascina con sé spergiuri, bestemmie, rinnegamenti di Dio, maledizioni, imprecazioni. S. Tommaso ci dice che il giurare è un peccato così grave, così orribile agli occhi di Dio, che noi non potremo mai comprendere l’oltraggio che gli fa. Questo peccato non è come gli altri che per la leggerezza della materia sono soltanto peccati veniali. Nei giuramenti, più la materia è leggera, e più il peccato è grave, perché è un maggior disprezzo ed una maggior profanazione del santo Nome di Dio. Lo Spirito Santo ci assicura che la casa dell’uomo solito a giurare sarà piena d’iniquità, e non cesseranno per essa i castighi di Dio fino a che non sarà distrutta (Eccli. XXIII, 12). Si può sentire senza fremere questi disgraziati, che osano portare il loro furore fino a giurare sul santo Nome di Dio, questo Nome adorabile che gli Angeli con tanta gioia ripetono incessantemente: “Santo, santo, santo, è il Dio degli eserciti! sia benedetto per tutti i secoli de’ secoli! „ Se si riflettesse bene prima di usare la lingua, che essa è un organo datoci da Dio per pregarlo, per cantare le sue lodi; che questa lingua è stata bagnata dal Sangue prezioso di Gesù Cristo, che essa tante volte ha servito di altare al Salvatore stesso; si potrebbe servirsene per oltraggiare un Dio così buono, e per profanare un Nome così santo e così rispettabile?… Vedete come i santi abborrivano i giuramenti. S. Luigi, re di Francia, aveva fatta una legge per la quale chi giurasse avrebbe la lingua forata da un ferro rovente. Un cittadino di Parigi, in un alterco, giurò il sanito Nome di Dio. Fu condotto davanti al re, che tosto lo condannò ad avere forata la lingua. Essendo venuti tutti i personaggi insigni della città per domandare grazia, re rispose loro che, se egli avesse avuto sventura di cadere in tale peccato, da stesso se la sarebbe traforata. Ed ordinò che la sentenza fosse eseguita. Quando andò a combattere in Terra santa, venne fatto prigioniero. Gli si domandò un giuramento che, del resto, non sembrava offendere la sua coscienza, tuttavia, preferì esporsi alla morte, tanto temeva di giurare (Ribadeneira, 25 Ag.). Perciò vediamo che chi giura spesso, d’ordinario è una persona abbandonata da Dio, oppressa da mille disgrazie che fa non di rado una fine infelice. Leggiamo nella storia un esempio che può ispirarci il più grande orrore pel giuramento. Quando S. Narciso governava la chiesa di Gerusalemme, tre libertini lo calunniarono orribilmente, appoggiando le loro asserzioni con tre esecrabili giuramenti. Il primo disse che, so quanto affermava non era vero, voleva essere abbruciato vivo; l’altro che voleva morire di male caduco; ed il terzo che  voleva gli fossero strappati gli occhi. Per queste calunnie, S. Narciso fu scacciato dalla città come un infame, cioè come un Vescovo che s’abbandonava ad ogni sorta d’impurità. Ma la vendetta di Dio non tardò a punire quegli infelici. Essendosi appiccato il fuoco alla casa del primo, questi vi restò abbruciato vivo. Il secondo morì di male caduco; il terzo, spaventato da sì orribili castighi, perdette la vista piangendo i suoi peccati. So che questi giuramenti avvengono di rado. I più ordinari sono: In fede mia! — In coscienza! — Mio Dio! sì; — Mio Dio! no; perbacco! — caspita! — cane d’un…! – Quando vi confessate, dovete dire il perché avete giurato; se per affermare cose false o vere: se avete fatto giurare altre persone, perché non volevate credere ad esse. Dovete dire se ne avete l’abitudine, e da quanto tempo. Bisogna poi guardarsi bene di non aggiungere al giuramento l’imprecazione. Vi sono alcuni che dicono: “Se questo non è vero, che non mi muova mai più di qui; che non veda il cielo; che Dio mi danni! che la peste mi soffochi! che il diavolo mi porti via! …„ Ahimè! amico, forse il diavolo non aspetta che la tua morte per portarti via! … Dovete dire nelle vostre confessioni, se ciò che avete detto era o no contro la verità. Alcuni credono che non sia alcun male giurando per assicurare che una cosa è vera. Il male, non è certo così grave come se si fosse giurata una cosa falsa; ma è sempre un peccato e grave. Siete adunque obbligati di accusarvene sempre, senza di che vi dannerete. Eccone un esempio che fa tremare. Si racconta nella vita di S. Edoardo, re d’Inghilterra (Ribadeneira, 13 ott.) che il conte Gondevino, suocero del re era così geloso che non poteva sopportare persona alcuna vicino al re. Il re l’accusò un giorno d’aver cooperato all’uccisione di suo fratello. Il conte rispose che se ciò era vero, voleva che un boccone di pane lo soffocasse. Il re fece il segno di croce su un pezzo di pane; il suocero lo prese e, mentre l’inghiottiva, il pane gli s’infisse nella gola, lo soffocò, morì. Terribile punizione, F. M. Ahimè! dove andò la sua povera anima, poiché morì nell’atto di commettere questo peccato? Non solo non dobbiamo giurare per qualunque pretesto, anche se si trattasse di perdere i beni, l’onore e la vita; perché, giurando, perdiamo il cielo, il nostro Dio e la nostra anima; ma non dobbiamo nemmeno far giurare gli altri. S. Agostino ci dice (Serm. CCCVIII) che, se prevediamo che quelli che facciamo chiamare in giudizio, giureranno il falso, non dobbiamo farli chiamare; noi siamo colpevoli al par loro, ed ancor più colpevoli che se togliessimo loro la vita. Infatti, uccidendoli, non facciamo che dare la morte al loro corpo, se non hanno la fortuna di essere in istato di grazia; il male è tutto nostro: invece facendoli giurare, perdiamo la loro povera anima, e la perdiamo per tutta l’eternità. Si racconta che un cittadino di Ippona, uomo dabbene, ma molto attaccato alla terra, costrinse uno, cui aveva prestato del denaro, a giurare in giudizio; costui giurò il falso. La stessa notte, si trovò in sogno presentato al tribunale di Dio. — Perché hai tu fatto giurare quest’uomo?… Non dovevi perdere ciò che ti doveva piuttosto che rovinare la sua anima? Gesù Cristo gli disse che per questa volta gli perdonava, ma che lo condannava ad essere staffilato; il che fu sull’istante eseguito dagli Angeli. Al domani si trovò tutto coperto di piaghe. — Voi mi direte: Devo perdere quello che mi si deve? — Sì, dovreste perdere quello che vi è dovuto: stimate voi, dunque meno l’anima del vostro fratello che il vostro denaro? – Del resto, siete sicuri che se farete questo per Iddio, Egli non mancherà certo di ricompensarvene. I padri e le madri, i padroni e le padrone devono esaminarsi se non sono mai stati, per i loro figli o dipendenti, causa di qualche giuramento, pel timore d’essere maltrattati o rimproverati. Si giura tanto il vero che il falso. Guardatevi bene, quando sarete chiamati in giudizio, di non giurare mai il falso. Anche se non avete giurato, dovete esaminarvi se avete avuto il pensiero, e quante volte l’avete avuto; se avete consigliato agli altri di giurare il falso col pretesto, che, dicendo la verità, verrebbero condannati. Siete obbligati a dire tutto questo. Accusatevi anche se avete usato qualche astuzia di parole per dire in modo differente da quello che pensavate; perché siete obbligati di dire ciò che pensate, ciò che avete visto e sentito; altrimenti commettete un grave peccato. Dovete altresì accennare distintamente se avete fatto quale cosa per indurre gli altri a mentire: così un padrone, che minacciasse il servo di maltrattarlo o di fargli perdere il posto, deve dir in confessione tutto questo, altrimenti la confessione non sarebbe che un sacrilegio. Lo Spirito Santo ci dice che il falso testimonio sarà punito rigorosamente (Deut. XIX, 18. 21).  – Ho detto che cos’è il giuramento e lo spergiuro; vediamo ora che cos’è la bestemmia. Vi sono molti che non sanno distinguere la bestemmia dal giuramento. Se non sapete distinguere l’uno dall’altra, non potete sperare che le vostre confessioni siano buone, poiché non fate conoscere i vostri peccati come li avete commessi. Ascoltatemi dunque, affinché abbiate a togliere questa ignoranza che certissimamente vi dannerà. Bestemmia è parola greca che vuol dire detestazione, maledizione d’una beltà infinita. S. Agostino ci dice (De morìbus Manichæorum lib. II, lib. XI) che si bestemmia quando si attribuisce a Dio quello che non ha o non gli conviene: quando gli si toglie quello che gli compete, o, infine, quando si attribuisce a sé quello che non è dovuto che a Dio. Spieghiamoci.

1° Noi bestemmiamo quando diciamo che Dio non è giusto, se ciò che facciamo od intraprendiamo non riesce.

2° Dire che Dio non è buono, come fanno alcuni nell’eccesso della loro miseria, è una bestemmia.

3° Bestemmiamo quando diciamo che Dio non sa tutto; che non bada a quello che avviene sulla terra; ch’Egli non sa che noi siamo al mondo; che tutto va a casaccio; che Dio non si cura di sì poca cosa; che venendo al mondo siamo destinati ad essere felici od infelici, o che Dio non vi muta nulla.

4° Quando diciamo: Se Iddio usasse misericordia con quel tale, non sarebbe proprio giusto, perché ne ha fatte troppe, e non merita che l’inferno.

5° Quando ci adiriamo con Dio por qualche perdita, e diciamo: No, Dio non può farmi più di quello che mi ha fatto. Ed è pure una bestemmia mettere a burla e motteggiare la Ss. Vergine od i santi dicendo: È un santo che ha poca potenza, son già più giorni che prego… e non ho nulla ottenuto; certo non ricorro più a lui. È una bestemmia dire che Dio non è potente, e trattarlo indegnamente, come dicendo: A dispetto di Dio! ecc. – I Giudei avevano talmente in orrore questo peccato che, quando sentivano bestemmiare, si stracciavano le vesti in segno di dolore (Per esempio Caifa, durante la passione. Matth. X. vers. 65). Il santo Giobbe temeva questo peccato a tal segno che, nel timore che i suoi figli l’avessero a commettere, offriva a Dio dei sacrifizi in espiazione (Job. I, 5). Il profeta Nathan disse a Davide: Poiché sei stato la causa che si bestemmiasse Dio, tuo figlio morrà, ed i castighi non si allontaneranno dalla tua casa per tutta la tua vita (II Reg. XII, 14). Il Signore dice nella sacra Scrittura (Lev. XXIV, 16.): Chiunque bestemmierà il mio santo Nome, voglio sia messo a morte; quando gli Ebrei erano nel deserto, venne sorpreso un uomo che bestemmiava, ed il Signore ordinò che fosse ucciso a colpi di pietra (Lev. XXIV, 14). Sennacherib, re degli Assiri, che assediava Gerusalemme, aveva bestemmiato il Nome di Dio, dicendo che a dispetto di Dio prenderebbe la città e la metterebbe tutta a ferro e fuoco; il Signore allora mandò un Angelo, che in una sola notte uccise cento ottantacinquemila uomini, e il re stesso fu sgozzato dai suoi propri figli (al suo ritorno a Ninive, nel tempio di Moloch, IV Reg. XIX). Fin dal principio del mondo la bestemmia è sempre stata in orrore: essa è infatti il linguaggio dell’inferno, poiché il demonio ed i dannati non cessano di proferirla. Quando l’imperatore Giustino sapeva che qualcuno dei suoi sudditi aveva bestemmiato, gli faceva tagliare la lingua. Durante il regno del re Roberto, la Francia fu afflitta da una grande guerra. Il buon Dio rivelò ad un’anima santa che tutti questi mali durerebbero sino a che nel regno non si cessasse dal bestemmiare. Non è dunque uno straordinario miracolo, che una casa dove si trova un bestemmiatore non venga schiacciata dalla folgore, ed oppressa da ogni sorta di disgrazie? S. Agostino dice ancora che la bestemmia è un peccato più grave dello spergiuro; perché in questo si prende Dio come testimonio d’una cosa falsa; in quella invece è una cosa falsa che si attribuisce a Dio (S. Aug. Contra mendacium, c. XIX). Riconoscete dunque con me, F. M., l’enormità di questo peccato e la disgrazia di chi vi si abbandona. Quando taluno vi si è abbandonato, non deve temere che la giustizia di Dio lo punisca sull’istante come ha fatto con tanti altri? – Vediamo ora la differenza che passa tra la bestemmia ed il rinnegar Dio. Non voglio parlarvi di quelli, che rinnegano Dio abbandonando la Religione Cattolica per abbracciarne una falsa, come i protestanti, i giansenisti e tanti altri. Noi chiamiamo queste persone rinnegati ed apostati. Parlo ora di quelli che, dopo qualche perdita o qualche disgrazia, hanno la maledetta abitudine di uscire in parole di collera contro Dio. Questo peccato è orribile, perché per la minima cosa che ci accade, ce la prendiamo con Dio stesso, e ci adiriamo con Lui: è come se dicessimo a Dio: Siete un…! un… ! uno sciagurato, un vendicativo! Voi mi punite per quell’azione, voi siete ingiusto! Dio deve subire la nostra collera, come se fosse la causa della perdita che abbiamo fatto, dell’incidente che ci è toccato. Non fu questo tenero Salvatore che ci ha tratti dal nulla, che ci ha creati a sua immagine, che ci ha riscattati col proprio Sangue prezioso, e che ci conserva così lungamente, mentre meriteremo già da molti anni d’essere inabissati nell’inferno?… Egli ci ama di un amore ineffabile, e noi lo disprezziamo; profaniamo il suo santo Nome, lo spergiuriamo, lo rinneghiamo! Oh orrore! V’ha forse delitto più mostruoso? Non è imitare il linguaggio dei demoni? dei demoni, che null’altro fanno nell’inferno? Ahimè! F. M., se li imitate in questa vita, state ben certi di andare a far loro compagnia nell’inferno. Dio mio! può un Cristiano abbandonarsi a tali orrori! Una persona che s’abbandona a questo peccato deve aspettarsi una vita disgraziata, anche in questo mondo. Si racconta che un uomo, il quale aveva bestemmiato per tutta la sua vita, disse al prete che lo confessava: Ahimè! padre, quanto fu disgraziata la mia vita! Io avevo l’abitudine di giurare, di bestemmiare il Nome di Dio; ho perduto le mie ricchezze, che erano considerevoli; i miei figli, su cui non ho attirato che maledizioni, non sono buoni a nulla; la mia lingua, che ha giurato, bestemmiato il Nome santo di Dio, è ulcerata e va incancrenandosi. Ahimè! dopo essere stato disgraziato in questo mondo, temo di dannarmi in causa delle mie bestemmie. Ricordatevi, F. M., che la lingua non vi è stata data che per benedire il buon Dio; essa gli è stata consacrata col santo Battesimo e colla santa Comunione. Se per disgrazia andate soggetti a questo peccato, dovete confessarvene con grande dolore e farne un’aspra penitenza; altrimenti ne subirete il castigo nell’inferno. Purificate la vostra bocca, pronunciando con rispetto il Nome di Gesù. Domandate spesso a Dio la grazia di morire, piuttosto di ricadere in questo peccato. Non avete mai pensato quanto la bestemmia sia orribile davanti a Dio e davanti agli uomini? Ditemi, vi siete confessati come si deve? Non vi siete accontentato di dire che avete giurato, oppure che avete detto delle parole triviali? Esaminate la vostra coscienza, e non addormentatevi, poiché può darsi che le vostre confessioni non valgano nulla. – Vediamo ora che cosa s’intende per maledizione ed imprecazione. Ecco. Si cade nella maledizione quando, trascinati dall’odio o dalla collera, vogliamo annientare o rendere disgraziato chiunque si opponga alla nostra volontà. Queste maledizioni cadono su di noi, sui nostri simili, sulle creature animate od anche inanimate. Quando facciamo così, non operiamo secondo lo spirito di Dio, che è uno spirito di dolcezza, di bontà e di carità; ma secondo lo spirito del demonio, il cui ufficio è solo quello di maledire. Le maledizioni più cattive sono quelle che i padri e le madri invocano sui loro figli, per i grandi mali che ne seguono. Un figlio maledetto dai suoi genitori è ordinariamente, un figlio maledetto da Dio stesso; perché Dio ha detto che se i genitori benedicono i loro figli, Egli li benedirà: al contrario, se li maledicono, la maledizione cadrà su di loro. (Eccli. III, 11). S. Agostino ne cita un esempio degno d’essere impresso per sempre nel cuore dei padri e delle madri. Una madre, ci dice, incollerita, maledisse i suoi tre figli ed all’istante essi furono invasi dal demonio (De civ. Dei). Un padre disse ad uno dei suoi figli: Non morirai una benedetta volta dunque? Il figlio cadde morto a’ suoi piedi. Ciò che aggrava di più questo peccato, è che se un padre ed una madre hanno l’abitudine di commetterlo, i figli contrarranno la medesima abitudine, ed il vizio diventa ereditario nella famiglia. Se vi sono tante case disgraziate, e che sono veramente la soddisfazione dei demoni e l’immagine dell’inferno, ne troverete la spiegazione nelle bestemmie e nelle maledizioni degli antenati, che sono passate da nonno in padre, da padre in figlio, e continuerete così di generazione in generazione. Voi avete sentito un padre incollerito pronunziar giuramenti, imprecazioni e maledizioni; ebbene! ascoltate i suoi figli quando sono in collera: hanno sulle labbra gli stessi giuramenti; le stesse imprecazioni. Così i vizi dei genitori passano nei loro figli, come le loro ricchezze e meglio ancora. Gli antropofagi non uccidono che gli stranieri per mangiarli; ma, fra i Cristiani vi sono dei padri e delle madri che, per soddisfare le loro passioni, augurano la morte a coloro ai quali essi stessi han dato la vita ed abbandonano al demonio tutti coloro che Gesù Cristo ha riscattati col suo Sangue prezioso. Quante volte si sente dire da questi padri e madri senza religione: Ah! maledetto ragazzo, non creperai… una volta? Mi dai fastidio; il buon Dio non ti punirà dunque una buona volta?… vorrei che tu fossi lontano me quanto mi sei vicino! cane d’un ragazzo! demonio d’un figlio! Carogne di figli!… bestie! O mio Dio! possibile che tutte queste maledizioni escano dalla bocca d’un padre e d’una madre, i quali non dovrebbero augurare e desiderare ai loro poveri figli che le benedizioni del cielo? Se vediamo tanti figli scemi, storpi, stizzosi, senza religione, non cerchiamone la causa, almeno per la maggior parte dei casi, che nelle maledizioni dei genitori. – Qual è poi il peccato di coloro che nei momenti di malumore maledicono se stessi? E’ un delitto spaventoso, contrario alla natura e alla grazia; poiché la natura e la grazia ci comandano l’amore verso noi stessi. Chi maledice se stesso rassomiglia ad un arrabbiato che si uccide colle proprie mani; egli è anche peggiore; spesso se la prende colla sua anima, dicendo: Che Dio mi danni! che il diavolo mi porti via! vorrei essere all’inferno piuttosto che in questa condizione! Ah! disgraziato, dice S. Agostino, che Dio non ti esaudisca; perché andresti a vomitare il veleno della tua rabbia nell’inferno! Mio Dio! se un Cristiano pensasse a ciò che dice, avrebbe la forza di pronunciare queste bestemmie, che potrebbero, in qualche modo, obbligare Dio a maledirlo dall’alto del suo trono? Oh! quanto è disgraziato un uomo soggetto alla collera! Egli costringe a punirlo quel Dio, il quale non vorrebbe che il suo bene e la sua felicità! Si riuscirà mai a comprendere questa cosa? – Qual è pure il peccato d’un marito e d’una moglie, d’un fratello e d’una sorella che vomitano l’un contro l’altro ogni sorta di maledizioni? E un peccato di cui non si potrà mai esprimere l’enormità; è un peccato tanto più grande quanto più rigorosamente essi sono obbligati ad amarsi ed a sopportarsi a vicenda. Ahimè! Quante persone maritate non cessano di vomitarsi vicendevolmente ogni sorta di maledizioni! Un marito ed una moglie che non dovrebbero farsi che dei felici augùri, e sollecitare la misericordia di Dio per ottenere l’un per l’altro d’andar in cielo a passare insieme l’eternità, si caricano di maledizioni; si strapperebbero, potendolo, gli occhi, si toglierebbero la vita! Maledetta moglie, o maledetto marito, gridano, non t’avessi, almeno, mai visto o conosciuto! Ah! maledetto mio padre, che m’ha consigliato di sposarti! … Mio Dio! quale orrore per dei Cristiani, i quali non dovrebbero occuparsi che di diventar santi! Essi fanno come i demoni ed i dannati! Quanti fratelli e sorelle vediamo augurarsi la morte, maledirsi, perché uno è più ricco, o per qualche ingiuria ricevuta; e conservare spesso l’odio per tutta la vita, ed a stento perdonarsi anche prima di morire! È altresì un grave peccato maledire il tempo, le bestie, il proprio lavoro. Quante persone, quando il tempo non è come vorrebbero, lo maledicono, dicendo: Maledetto tempaccio, non ti cambierai più dunque? Voi non sapete quello che dite: è come se diceste: Ah! maledetto Dio, che non mi dai il tempo come vorrei. Altri. maledicono le loro bestie : Ah! maledetta bestia, non potrò farti andare come voglio?… Che il diavolo ti porti via, che il fulmine ti annienti! che il fuoco del cielo ti abbruci!… Ah! disgraziati, le vostre maledizioni hanno il loro effetto, più spesso che non crediate. Spesso alcune bestie periscono o si storpiano, e ciò in conseguenza delle maledizioni che avete loro date. Quante volte le vostre maledizioni, i vostri impeti di collera, le vostre bestemmie hanno attirato la brina o la grandine sui vostri raccolti! – Ma qual è il peccato di coloro che augurano male al prossimo? Questo peccato è grande in proporzione del male che augurate, e del danno che gli procurerebbe, se ciò si avverasse. Voi dovete accusarvene ogniqualvolta fate di questi augùri. Quando vi confessate dovete dire quale male avete augurato, e quale danno ne sarebbe avvenuto se il vostro augurio si fosse adempito. Dovete spiegare se si trattava dei genitori, dei fratelli e delle sorelle, dei vostri cugini o cugine, zii o zie. Ahimè! Quanto pochi sono quelli che confessandosi fanno queste distinzioni! Si saran maledetti i fratelli, le sorelle, i cugini, le cugine, e si starà contenti di dire che si ha augurato male al prossimo, senza dire a chi, né quale era l’intenzione. Quanti altri hanno fatto giuramenti orribili, pronunciato bestemmie, imprecazioni, rinnegamenti di Dio da far rizzare i capelli in capo, e si accontentano di dire che hanno detto parole grossolane e nient’altro. Una parola grossolana, lo sapete, è una specie di piccola imprecazione detta senza collera. Ahimè, quante confessioni e comunioni sacrileghe! Ma, mi direte, che cosa bisogna fare per non commettere questi peccati, che sono così orribili e capaci di attirare su di noi ogni sorta di disgrazie? — Bisogna che tutte le pene che ci colpiscono ci facciano ricordare che, essendoci noi ribellati contro Dio, è giusto che le creature si rivoltino contro di noi. Bisogna non dar mai occasione agli altri di maledirci. I figli ed i servi soprattutto devono fare il possibile per non obbligare i genitori ed i padroni a maledirli, poiché è certo, presto o tardi toccherà loro qualche castigo. I padri e madri devono considerare che non hanno nulla di più caro al mondo che i loro figli, e lungi dal maledirli, non devono cessare di benedirli affinché Dio effonda su di loro i beni che essi augurano. Se vi capita qualche cosa di doloroso, invece di coprire di maledizioni chi non fa come voi vorreste, vi sarebbe ben facile dire: Dio vi benedica. Imitate il santo Giobbe che benediceva il Nome del Signore in tutte le grandi sventure che gli toccavano, e riceverete le stesse grazie. Vedendo la sua grande sottomissione alla volontà di Dio, il demonio fuggì, le benedizioni si sparsero abbondantemente sulle sue ricchezze, e tutto gli venne raddoppiato. Se, per disgrazia, vi capita di pronunciare qualcheduna di queste cattive parole, fate subito un atto di contrizione per domandarne perdono, e promettete che non vi ricadrete mai più. S. Teresa ci dice che, quando pronunciamo con rispetto il Nome di Dio, tutto il cielo si rallegra; come fa l’inferno, quando pronunciamo ogni cattiva parola. Un Cristiano non deve perdere di vista che la sua lingua non gli è data che per benedire Dio in questa vita, ringraziarlo dei beni di cui l’ha colmato, per benedirlo durante tutta l’eternità cogli Angeli e coi santi: questa sarà la sorte di quelli che avranno imitato gli Angeli e non il demonio. Io ve la desidero…

LO SCUDO DELLA FEDE (177)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XIII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

I MISTERI

VII. — La Vergine Madre.

D. Non dài tu un posto speciale alla Vergine nell’Incarnazione?

R. Questo posto si delinea da se stesso nel disegno, tal quale lo concepisce la nostra teologia cattolica. L’opera di Dio nell’Incarnazione ha un cominciamento, ed è la Vergine Madre. Maria è l’aurora che precede il giorno; la sua luce è fatta del giorno che Ella annunzia; questa luce non sarà forse della stessa essenza: spirituale, come la luce di Cristo è spirituale, e superiormente umana prima dello splendore sovrumano?

D. Che intendi con ciò?

R. Che Maria, Madre di Cristo, che è Dio, per conseguenza Madre di Dio, benché ciò sia unicamente secondo l’uomo, Maria, associata immediatamente ai più grandi misteri e oggetto della loro preparazione, Maria, che sempre è questo, dacché Cristo è predetto, dacché è preveduto, vale a dire dalla costituzione di questo disegno eterno, non può essere una madre ordinaria. Gli strumenti si preparano secondo l’opera. Maria è lo strumento dell’Incarnazione e della Redenzione; il suo caso dipende dall’Incarnazione e dalla Redenzione; primizia dell’opera e causa della sua Causa, Ella dev’essere il suo capolavoro.

D. Tanti grandi esseri hanno madri qualsisiasi e che la storia non ricorda.

R. I grandi esseri di cui parli possono essere grandi e benefici per rispetto a ciò che li segue; ma nulla possono per quello che li precede. La loro madre, dunque, nulla può ritrarre dalla loro grandezza prima della loro azione. Ma Cristo, che è «ieri, oggi e in tutti i secoli », regola, come Dio, le condizioni della sua propria venuta; è Lui che si dà una madre, come si darà dei discepoli, e se ha ricolmato i Dodici del suo Spirito perché lo continuassero degnamente, come non avrebbe disposto di sua madre in modo che Ella lo precedesse degnamente, precorritrice intima, associata ben diversamente da S. Giovanni Battista, poiché Cristo sarà la carne della sua carne, invitato così a fare di Lei, poiché lo può e in certo modo lo deve, lo spirito del suo Spirito.

D. Chi ti dice che questa convenienza fosse ubbidita?

R. La Chiesa; ma noi ne abbiamo la prova, se non altro il segno ben chiaro in ciò che ci raccontano gli Evangelisti. Noi vediamo che Maria è dichiarata piena di grazia e benedetta fra tutte le donne, perché l’Essere santo che nascerà da Lei sarà chiamato Figliuolo di Dio, ed è tutta la nostra dottrina. Noi non vediamo lì una madre che mette al mondo un bambino che poi formerà la sua gloria; ma la vediamo prevenuta del disegno, invitata ad associarvisi e, per il suo consenso, a provocarlo in una certa maniera. Ella ci dà veramente l’Uomo Dio; si tiene dal lato del Padre e dello Spirito come una libera cooperatrice; è la «porta del cielo »: chi dubiterà che Ella non sia come quelle porte della celeste Gerusalemme, che Giovanni vide risplendere come perle, o come quelle strade d’oro della Città di luce che conducono al Sole vivente?

D. Si riferisce forse a questo il vostro dogma dell’Immacolata Concezione?

R. Senza dubbio! Noi non vogliamo che Dio entri nel mondo per una porta lorda, che il nuovo Paradiso terrestre, « Paradiso animato, in cui dev’essere piantato l’Albero della vita » (San GIOVANNI DAMASCENO), sia un deserto immondo. Anzi noi domandiamo a Dio di preservarlo e di ornarlo; Egli ci dice che lo ha fatto, e noi gliene diamo lode.

D. Tuttavia questo dogma è nuovo.

R. Questo dogma non è nuovo; è nuova soltanto la sua dichiarazione. Sempre latente nella Chiesa, esso se ne è sprigionato, come una bolla nasce da particelle prima disperse in seno a un liquido.

D. Qual è la sua precisa nozione?

R. Figurati un battesimo anticipato. Quella purezza e quella ricchezza spirituale che i meriti di Cristo applicati per il battesimo conferiscono al neonato o all’adulto, Maria l’ottiene sovrabbondantemente e per i medesimi meriti nel momento della sua stessa Concezione. La redenzione la previene prima che Ella vi cooperi per conto suo; Ella è la prima riscattata da Cristo, riscattata prima di nascere e prima che Cristo sia nato; riscattata per nascere intatta e perché il Cristo, alla sua volta, nasca da una Madre intatta. «Infatti, non occorre forse, dice Bossuet, che giovi a Maria l’avere un Figliuolo che sia l’autore della sua nascita? ».

D. Pensi tu che Maria non avesse altro figlio che Gesù?

R. È una questione di rispetto. La porta del Cielo vivo non dà punto passaggio ad altri.

D. Che sono dunque quei «fratelli di Gesù » di cui parla il Vangelo?

R. Sono dei cugini, chiamati fratelli secondo il costume giudaico.

D. E Gesù fu dato a Maria nelle condizioni ordinarie?

R. No affatto. Lo « credevano » figlio di Giuseppe; ma non era se non Figlio di Dio. Il Verbo che ha solo un Padre eterno, non vuole, neanche temporalmente, averne altro; il nuovo Adamo «secondo primo uomo » (P. LAGRANGE), nascerà da Dio solo, come il primo. Una partenogenesi d’onore si è effettuata qui, non a disprezzo del matrimonio; ma perché vi è qualcosa di più alto: il commercio con Dio solo per un’opera in cui la causalità divina deve risplendere.

D. Almeno la nascita di Gesù fu una nascita comune?

R. Neppure. L’integrità della Vergine fu in essa rispettata dalla delicatezza d’un Figliuolo onnipotente. Facendo uso di quelle proprietà del corpo « spirituale » che manifesterà più tardi il suo corpo risuscitato, Egli emana da un astro puro come un puro raggio (Sicut sidus radium profert virgo filium).

D. L’esistenza della Vergine finirà come ha cominciato e proseguito, per un miracolo?

R. Noi crediamo alla sua Assunzione, che pure non è un articolo di fede (Oggi lo è, dal 1954 -ndr.-). Il tempio vivo non deve conoscere la corruzione, benché a somiglianza del suo Figliuolo la Regina dei martiri debba gustare la morte. La corruzione sepolcrale è come una suprema mortificazione della concupiscenza primitiva e della concupiscenza volontaria del peccatore; ora «un essere perfettamente puro, come Cristo o la Vergine, non ha più niente da purificare. Il suo corpo non è più che il ritmo apparente dell’anima sua, la quale non ha più nessuna ragione di separarsene » (MARCELLO SCHWOB).

D. Nella serie dei tempi, quale compito attribuisci alla Vergine Madre?

R. Poiché Ella è stata associata alla nostra salute dandoci per consentimento Colui che la opera; poiché Dio stesso, richiedendo il suo consentimento, ha fatto conoscere il suo costante disegno di unirla all’opera sua redentrice, e poiché finalmente Ella ci è stata data sulla croce nella persona di S. Giovanni, come la intendono tutti i Padri della Chiesa, noi crediamo che Maria, Madre di Dio, è nello stesso tempo Madre degli uomini, Madre tenerissima, che non può rifiutare il suo cuore dopo aver dato il suo Tesoro; Madre potentissima, anzi onnipotente di una onnipotenza di supplicazione (omnipotentia supplex), in ragione dell’autorità effettiva che Ella esercitò sopra il suo Figliuolo e che le continua la filiale tenerezza. Ella è una mediatrice in secondo grado, mediatrice puramente ma squisitamente umana, al di sotto del Mediatore uomo e Dio.

D. Tu vedi così in lei il canale delle grazie?

E. Non è una dottrina definita, ma una piissima credenza. Maria continua in noi la sua maternità. Non siamo noi i membri di Cristo? Ella ha sofferto per noi a piè della croce, acconsentendo al grande Sacrifizio. Il sangue di Gesù e le lacrime di sua Madre non si separano punto, né per conseguenza la mediazione di Gesù e quella di sua Madre, l’umana mediatrice. Vi sono lì due casi essenzialmente differenti, e, checché ne dicano i protestanti, noi non li confondiamo affatto, ma li avviciniamo, perché la natura delle cose li avvicina. Il sole e la luna sono due astri; ma per via del sole, la luna stessa, illumina la nostra notte.

D. Non dici tu che ogni anima è associata così alla redenzione?

R. Ogni anima è associata alla redenzione; ogni anima è come Maria, con Maria, una nuova Eva data da Dio al nuovo Adamo come un aiuto simile a lui. Ma quello che noi siamo, come imitatori, Maria lo è come modello. Onde noi la chiamiamo nostra vita, nostra dolcezza e nostra speranza, come Cristo, benché ciò sia per via di Lui.

IL SEGNO DELLA CROCE (3)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (3)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA SECONDA.

27 novembre.

Esame della questione.— Presunzioni in favore dei primiCristiani. —1a presunzione: i loro lumi. — 2a presunzione: loro santità — 3a presunzione: l’uso dei veri Cristiani in tutti i secoli. — I padri della Chiesa erano dei grandi geni?

Mio Caro Amico

Ne’ giudizi ordinari le circostanze esteriori producono grande effetto. Soventi volte desse contribuiscono alla formazione della opinione de’ giudici, come le testimonianze dirette. Tu il sai, sono così detti gli antecedenti, la posizione, il carattere morale degli interessati nella causa. Perché eliminarle noi dal processo che ci occupa? Innanzi però di apportare le ragioni de’ primi Cristiani dedotte dalla natura istessa del segno della croce, esaminiamo insieme le presunzioni, che militano in favore della loro condotta.  –

Prima presunzione in favore de’ Cristiani è la loro vicinanza agli Apostoli. Gli Apostoli avevano conversato col Verbo incarnato, con la verità istessa, e vistala con ipropri occhi, toccata di loro mani. Eglino erano idepositari e gli organi infallibili della sua dottrina, con ordine d’insegnarla per intiero e senza mutamento alcuno. I Cristiani parimenti avevano visto gli Apostoli e gli uomini apostolici, li avevano intesi ed usato con loro frequentemente ricevendo la fede ed il battesimo dalla bocca e dalla mano di essi. Bevvero la verità alla fonte istessa! – Di questa verità, cui tutto dovevano, si nutrivano, ne facevano la norma del loro operare, conservandola con inviolabile fedeltà, perseverantes in doctrìna apostolorum. E chiaro che nessuno mai trovossi in condizioni migliori per conoscere il pensiero degli Apostoli, e di Nostro Signore istesso. È mestieri però affermare che, se i Cristiani primitivi avessero fatto il segno della croce a ciascun instante, avrebbero ubbidito ciò facendo ad una raccomandazione apostolica; altrimenti gli Apostoli ed i loro primi successori, custodi infallibili del triplice deposito della fede, della morale e della disciplina si sarebbero ben dato la pena d’interdire un uso inutile, superstizioso e tale da esporre i neofiti allo scherno del paganesimo ignorante. Sicché, lo ripelo, i Cristiani della Chiesa primitiva facendo soventemente il segno della croce agivano con piena conoscenza di causa. — Prima presunzione in favore di loro condotta.

Seconda presunzione in favore de’ primi Cristiani; la loro santità. I primi Cristiani erano, non solo peritissimi della dottrina degli Apostoli, ma altresì fedelissimi nella pratica di essa. N’è prova la loro santità, e, che questo fosse il carattere generale de’ primi Cristiani, è facilissima cosa il vedere come sia evidentemente dimostrato.

1° – Eglino amavano piuttosto perdere tutto e la vita istessa nel mezzo di crudeli supplizii, anziché offendere il loro Dio. L’eroismo dell’animo loro durò quanto la persecuzione, tre secoli.

2 ° – Ferventissima n’era la carità. Il cielo e la terra di unita hanno fatto del loro fraterno amore un elogio unico negli annali del mondo. Eglino avevano un sol cuore ed un’anima sola, cor unum et anima una, ha detto di loro Dio stesso. Vedete come si amino, ed in qual maniera sieno solleciti di morire gli uni per gli altri, vide ut invicem ne diligant et ut prò alterutro morì sint parati, esclamavano i pagani.

3° Il cuore nutriva tale un rispetto, e tanta tenerezza per gli Apostoli da esser loro ubbidienti con filiale sommissione. San Paolo, che non era largo di elogi, scrive a’ Cristiani di Roma, che la loro fede è in gran fama nel mondo intiero; e a quelli dell’Asia: che l’amavano siffattamente, che gli occhi istessi gli avrebbero donato. Alla preghiera dell’Apostolo tutte le Chiese gareggiano per correre al soccorso de’ fratelli di Gerusalemme, e Filemone riceve Onesimo.

4° I Padri della Chiesa testimoni oculari continuano siffatta testimonianza in favore della santità de’ primi Cristiani. Tertulliano diceva ai giudici, ai pretori, ai proconsoli dell’impero, sfidandoli: Ne appello alle vostre procedure, o magistrati, cui è commesso il ministero della giustizia. In tutta quella moltitudine di accusati che ciascun giorno è tradotta innanzi ai vostri tribunali, v’ha qualche avvelenatore, un sacrilego, un assassino, che sia Cristiano? De’ vostri rigurgitano le prigioni, i vostri popolano le mine, i vostri ingrassano le belve dell’anfiteatro; de’ vostri è composto l’armento de’ gladiatori. Fra essi non v’ha un solo Cristiano, e se v’ha, vi è pel solo delitto di essere Cristiano (1(1) Apolog. c. 44).

5° – Gl’istorici pagani riconoscono la loro innocenza ed i persecutori istessi rendono omaggio alla loro virtù. Tacito, questo scrittore pur troppo prevenuto ed ingiusto contro i nostri padri, narra gli orrendi massacri di Cristiani de’ tempi di Nerone. Una moltitudine enorme, multitudo ingens, moriva nel mezzo de’ più barbari supplizi. Dessa era innocente di quanto veniva accusata; ma dessa era colpevole dell’odio del genere umano odio generis umani. Così egli. — E chi era mai questo genere umano? Tacito istesso lo dice: Il fango del popolo, la crudeltà vivente. — Perché tant’odio? Perché il male è un nemico irreconciliabile del bene. La santità de’ nostri padri era la condanna severa de’ mostruosi delitti commessi dai pagani; epperò le carneficine di Nerone, e le sue fiaccole viventi. Quaranta anni dopo Nerone, Plinio il giovane governatore della Bitinia riceve ordine da Traiano di procedere contro de’ Cristiani. Cortigiano fedele esegue gli ordini del suo signore per filo ed a segno da dar la caccia dappertutto ai nostri padri e di persona interrogava i torturati. Ma da tutte le sanguinose inchieste qual fu il delitto scoperto? « Tutto il delitto de’ Cristiani, scrive egli a Traiano, è di assembrarsi in alcuni giorni innanzi l’aurora per cantare ad onore di Cristo degli inni, come ad un Dio; obbligarsi con sacramento di non commettere alcun delitto, di guardarsi dal commettere furti, adulterio, spergiuro. Ne ho torturato ben molti, ma non li trovo colpevoli, che di una falsa ed eccessiva superstizione » (Epist. lib. x, ep. 97).  – Discorrendo della santità de’ nostri antenati mi son dilungato alquanto, perché dessa, a mio modo di credere, è la presunzione la più forte in favore del segno della croce. Quando uomini di questa tempra si mostrano al cospetto della morte tenerissimi di qualche uso, è mestieri affermarlo più importante di quello, che i tuoi nuovi compagni lo reputano.

Terza presunzione in favore dei Cristiani primitivi, è  la pratica de veri Cristiani ne’ secoli successivi. — L’Oriente e l’Occidente hanno visto formarsi tosto delle comunità religiose di uomini e di femmine. In questi asili separati dal mondo lo spirito evangelico e le apostoliche tradizioni sono conservate, se non immobilmente, per lo meno con la maggior fedeltà e verità. Fra gli antichi usi conservati con particolare cura è il segno della croce. I nostri padri, scrive uno de’ loro istoriografi, praticavano il segno della croce con grandissima frequenza e religione. Eglino si segnavano levandosi da letto ed avanti di collocarvisi, avanti il lavoro, sortendo di monastero e dalle celle, e quando vi entravano. A mensa segnavano di croce il pane, il vino, ciascuna vivanda (Marlene De antiq. monach. ritib. lib. 1, c. I, n. 35 etc.).  Nel mondo, fuori di questi asili, il segno redentore cammina su di una linea parallela. Tutti quei grandi nomi che nel corso di cinque secoli si sono succeduti in Oriente ed Occidente, quei geni impareggiabili, che sono detti Padri della Chiesa: Tertulliano, Cipriano, Atanasio, Gregorio, Basilio. Agostino, Grisostomo, Girolamo, Ambrogio, e tutti gli altri, il cui catalogo spaventa l’orgoglio, e lo schiaccia col suo peso; tutte queste sublimi intelligenze facevano assiduamente il segno della croce, ed inculcavano a tutti i Cristiani di eseguirlo in ogni occasione. – Ho detto i Padri della Chiesa essere grandi geni, e grandi uomini. Se come tali li presenterai a’ tuoi compagni, attenditi un sorriso di compassione. Non voler loro portarne astio; i poveri giovani conoscono i Padri della Chiesa, come gli antipodi. Invece dimanda loro quello ch’eglino intendano per grande uomo, ed in mancanza di loro risposta ecco la mia, di che potrai al bisogno far uso.

Chiama grandi uomini coloro, che con genio elevato, profondo, esteso abbracciano l’orizzonte del mondo della verità; che conoscono le scienze, gli uomini e le cose, non superficialmente, ma ne’ loro principii, nel loro scopo ed intima natura; non la sola materia, ma e lo spirito; non l’uomo solo, ma pur l’Angelo; non la sola creatura, ma ancora il suo Creatore; non sol quanto è al di quadella tomba, ma eziandio quanto è oltr’essa. Di tutto non solo le singole parti, ma l’insieme, di che sanno far scaturire delle luminose ed inattese applicazioni al perfezionamento della umanità. Ecco il genio, ed ecco il padre della Chiesa! Tu puoi ben sfidare i tuoi compagni di trovare fra gli antichi ed i moderni qualcuno, che abbia meglio, o così bene in sé attuata la definizione del grand’uomo. Per quanto siano salite in fama le specialità attuali in chimica, in fisica, in meccanica, in industria, non sono, né geni, né grandi uomini. L’uomo, il cui sguardo abbraccia una sola legge dell’armonia universale, non merita il nome di genio; come non si chiama gran musico chi non sa far sortire dal suo strumento che un suono solo, ma quello che fa vibrare armonicamente tutte le corde.  Il tempo non mi consente compiere la lettera questa sera, il seguito a domani.

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “Sull’ubriachezza”

I SERMONI DEL CURATO D’ARS:

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

“Sull’ubriachezza”

Nolite inebriari vino, in quo est luxuria.

(EPHES. V, 18).

S. Paolo ci assicura che gli ubbriaconi non entreranno mai nel regno dei cieli (I Cor. VI, 10); bisogna dunque dire che l’ubriachezza sia un peccato molto grave. E ciò si capisce facilmente, poiché, sotto qualunque aspetto lo si consideri, questo peccato è disonorante anche per gli stessi pagani; devono dunque i Cristiani temerlo mille volte più della morte. Lo Spirito Santo ce lo dipinge in un modo pauroso; Egli ci dice: “Guai a voi che vi vantate di bere molto vino, e siete forti nell’inebriarvi… guai a colui che si alza al mattino col pensiero di darsi all’ubriachezza! „ (Prov. VI, 6). Ahimè! Fratelli miei, sono assai pochi quelli che, presi da questo vizio, procurano di correggersi. Alcuni  non trovano alcun male nel bere ad ogni occasione; gli altri pensano che, purché non perdano la ragione, non commettono grave peccato; altri infine, si scusano perché i compagni ve li trascinano. Per disingannarli tutti di questi errori, io mostrerò loro:

1° che tutto condanna l’ubriachezza;

2° che tutti i pretesti che i bevitori tentano di addurre non riescono a giustificarli davanti a Dio.

I. — Per mostrarvi, F. M., l’enormità del peccato dell’ubriachezza, bisognerebbe poter farvi conoscere la grandezza dei mali che porta con sé per il tempo e per l’eternità: ciò che non sarà mai possibile ad un uomo mortale, perché Dio solo può conoscerlo. Quanto vi dirò dunque, sarà un nulla in confronto di ciò che è la realtà. Dapprima converrete con me, che una persona la quale ha ancora un po’ di buon senso e di religione, non può essere indifferente ed insensibile alla perdita della sua riputazione, della sanità e della salvezza dell’anima. Se devo spiegarmi meglio, vi dirò che l’ubbriacone, per il suo peccato, si rovina la salute, attira su di sé l’avversione degli uomini e la maledizione di Dio. Io credo, F. M., che questo solo potrebbe bastarvi per farvene concepire un vero orrore. Quale vergogna per una persona, ma specialmente per un Cristiano, immergersi in questo infame pantano! Lo Spirito Santo ci dice nella sacra Scrittura, che bisogna mandare il fannullone e l’ozioso dalla provvida formica, affinché da essa impari a lavorare (Prov. XX, 22); ma l’ubbriacone, dice che bisogna mandarlo dagli animali immondi, perché da essi impari la temperanza nel bere e nel mangiare. Quando si vuol indurre un peccatore ad uscire dal peccato gli si propongono gli esempi di Gesù Cristo e dei santi; ma per un ubbriacone bisogna cambiar linguaggio: bisogna proporgli l’esempio degli animali, senza temere di scendere ai più immondi. Gran Dio, che orrore! S. Basilio ci dice che non si dovrebbero tollerare gli ubbriaconi tra gli uomini; ma che bisognerebbe scacciarli, e relegarli tra le bestie selvagge in fondo alle foreste. – Questo peccato sembrava odioso anche agli stessi pagani. Si racconta nella storia che i magistrati di Sparta, i cui abitanti erano molto sobrii, per far bene comprendere ai giovani quanto questo vizio fosse indegno d’una creatura ragionevole, in un certo giorno facevano venire sulla pubblica piazza uno schiavo che prima era stato ubbriacato. I giovani vedendo quell’uomo trascinarsi nell’acqua o nel fango si stupivano e gridavano: O cielo, donde può venire un tal mostro? ha sembianze umane, ma è meno ragionevole d’un bruto. Vedete, F. M., che, sebbene pagani, non potevano comprendere come una persona ragionevole potesse abbandonarsi ad una passione che riduce l’uomo in uno stato così disonorante. Leggiamo pure che un giovane signore dabbene, aveva un servo il quale disgraziatamente di quando in quando si dava al vino. Un giorno lo trovò in questo stato mentre andava in chiesa, e gli domandò dove andasse. “Vado in chiesa a pregare Dio, rispose il servo.„ — “Tu vai in chiesa, soggiunse il padrone: come potrai pregare il buon Dio, mentre non saresti capace di dar da mangiare al cavallo? „ Non avviene di questo peccato come di molti altri che, col tempo e colla grazia, si correggono; occorre un miracolo della grazia, e non una grazia ordinaria. — Mi domandate perché gli ubbriaconi si convertono così raramente? Ecco: essi non hanno né fede, né religione, né pietà, né rispetto per le cose sante; nulla può commuoverli e far aprire ad essi gli occhi sul loro stato disgraziato. Se li minacciate colla morte, col giudizio, coll’inferno che li aspetta per abbruciarli; se li intrattenete sulla felicità che Dio riserva a quelli che l’amano; vi risponderanno con un piccolo sorriso sardonico, che significa: “Voi credete forse di farmi paura come si fa ai fanciulli; ma non sono ancora nel numero di coloro che si lasciano… per credere ciò.„ Ecco quanto ne ricaverete. Egli crede che dopo la morte tutto sia finito, Il suo Dio è il vino, e ne ha abbastanza. “Va, disgraziato, gli dice lo Spirito Santo, quel vino che bevi oltre misura è come un serpe che ti dà la morte. „  (Prov. XXIII, 22) Tu ora non credi nulla; ma nell’inferno conoscerai che oltre il tuo ventre vi è un altro Dio. Oltre il male che l’ubbriacone reca a sé stesso col suo peccato, a quali eccessi può giungere quando è immerso nella crapula! S. Agostino ce ne dà un esempio spaventoso. Nella città dove egli era vescovo, un giovane chiamato Cirillo aveva, come tanti altri, ahimè! la disgraziata abitudine di frequentare le bettole. Un giorno ritornando dal luogo de’ suoi stravizi, portò il furore della sua passione così oltre, che assalì la sua stessa madre da mesi incinta. Vedendosi ella nelle mani di questo figlio snaturato, si difese con tanti sforzi che fece morire il povero bambino che portava in seno. Dio mio, quale disgrazia! Un infante pel furore di quello sciagurato libertino non potrà mai vedere il cielo!… Quell’infame, vedendo che non riusciva a nulla con sua madre, andò in cerca d’una delle sorelle, la quale preferì lasciarsi pugnalare, piuttosto che acconsentire al suo infame desiderio. Il padre sentendo un gran rumore, accorse per liberare la figlia. Il disgraziato si getta sul padre, lo copre di coltellate e lo fa cadere ai suoi piedi. Un’altra delle sorelle corre in aiuto del padre che vedeva assassinare, e il disgraziato pugnala anche questa. Cielo! che orrore! Quale passione è simile a questa? S. Agostino, avendo fatto radunare i fedeli in chiesa per metterli a parte di questo avvenimento, ci dice che tutti si scioglievano in lagrime al racconto d’un tale delitto. Vedete, F. M., quale orrore per questo peccato vuole ispirarci lo Spirito Santo, quando ci dice “di non guardare il vino neppure quando brilla nel bicchiere. Se lo bevete senza moderazione, dice ancora, vi morderà come un serpente, vi avvelenerà come un basilisco.„ (Prov. XXIII, 31,32) Volete sapere, ci dice S. Basilio, che cos’è il ventre d’un ubbriaco? ecco: è un serbatoio ripieno di tutte le immondizie della bettola. Ordinariamente, dice egli, vedete che un ubbriacone conduce una vita snervata; non è capace che di rovinare la sua salute, di dar fondo alle sue sostanze, di gettare la famiglia in miseria: ecco ciò di cui è capace. Bisogna che questo vizio sia ben disonorante, poiché il mondo, corrotto com’è, non lascia di avere un sommo disprezzo per gli ubbriaconi, e di considerarli come pubblica peste. Ciò non è difficile a comprendersi: non vi è realmente in questo vizio tutto quanto può rendere un uomo infame ed odioso agli stessi pagani? Il beone non riesce odioso quando, per negligenza dei suoi affari, rovina la famiglia e la mette in miseria? Non è odioso per gli scandali che dà colla turpitudine della sua vita, e le ingiurie che lancia così contro i superiori come contro gli inferiori? giacché un ubbriacone non ha maggior rispetto per gli uni che per gli altri. Converrete con me, F. M., che non occorre tutto questo per rendere spregevole un uomo. Ascoltatemi ancora un momento, e lo comprenderete meglio. Dove troverete un padre che voglia dare sua figlia ad un ubbriacone, se lo conosce per tale? Appena glielo proponete vi risponde: “Se volessi far morire mia figlia di dispiaceri, lo farei; ma siccome amo i miei figli, preferisco tenerla con me per tutta la mia vita. „ Del resto, F. M., qual è quella giovane che acconsentirebbe di sposare un giovane che frequenta troppo le osterie? — “Proferisco, vi direbbe, passar la mia vita in un bosco piuttosto che sposare un abbrutito, che, proso dal vino, potrebbe uccidermi, come spesso si è visto. „ Ditemi, F. M., qual è quel proprietario che vorrebbe affidare la cura della sua sostanza ad un ubbriacone, incaricato di fare i suoi pagamenti, di riscuotere il suo denaro? Sopra cinque mila non ne troverete uno che vi acconsenta; e ben a ragione. Qual giudico vorrebbe accettare la deposizione d’un ubbriacone? Lo farebbe scacciare dall’udienza, ed ordinerebbe di condurlo nella sua scuderia insieme ai cavalli, o meglio co’ suoi porci, se ne avesse. Dove troverete una persona dabbene che voglia entrare in un albergo in compagnia d’un ubbriacone? Se nessuno la conosce, forse tollererà; ma se si crede riconosciuto da una persona onorata, fugge subito; o, se non può, cerca mille pretesti per far capire che s’è trovato in simil compagnia senza saperlo. – Se in una disputa volete inquietarlo, rimproverategli di averlo veduto in così bella compagnia; è lo stesso che dirgli che non vale gran fatto più di quell’ubbriacone: insomma ad un ubbriacone si attribuisce ogni sorta di cattive qualità! – S. Basilio ci dice che se le bestie potessero conoscere cos’è un ubbriacone, non lo tollererebbero in loro compagnia, credendo di disonorarsi. Un ubbriacone non si mette infatti al di sotto dell’animale più bruto? Infatti, una bestia, ha piedi per andare dove vuole, o dove è chiamata; ma l’ubbriacone non ne ha. Quante volte lo trovato steso in mezzo alla strada come un animale a cui siano state tagliate tutte quattro le zampe. Se, per un atto di carità lo rialzate, ricade subito, così che siete costretti o a lasciarlo nel fango od a prendervelo sulle spalle. Non è forse vero? — Sì, senza dubbio, pensate tra voi. — Una bestia ha occhi per vedere, per dirigersi, per andare a casa del suo padrone, e mettersi nella stalla al suo solito posto. Un ubbriacone non ha occhi per andare a casa, non sa se prendere la destra o la sinistra; e se siete un suo vicino non vi conoscerà nemmeno. Domandategli se è giorno o notte: non lo sa. Una bestia ha orecchie per sentire ciò che dice il suo padrone; non può rispondergli, ma lo guarda per mostrare che ha capito e che è pronta a fare tutto ciò ch’ei vuole. Un cane, al segno del padrone che ha perduto il fazzoletto od il bastone, va subito a cercarlo e lo riporta manifestando al padrone la gioia, il piacere che prova nel servirlo. Se trovate invece un ubbriacone sdraiato sulla via, cercate di parlargli per ore intere; non vi risponderà, tanto sono sorde le sue orecchie, tanto i suoi occhi sono annebbiati dal fumo del vino. Se l’ubriachezza gli lascia ancora la forza di aprire la bocca, vi risponderà una cosa per l’altra; e finirete per andarvene deplorando la sua disgraziata abitudine. Se poi, in questo stato, ha ancora un po’ di conoscenza, non v’ha trivialità ed infamia che non vomiti; lo vedrete commettere azioni che farebbero arrossire i pagani se fossero presenti, e tutto questo senza rimorso. Occorre dare un ultimo tratto di pennello per farvi meglio apprezzare il valore e le belle qualità d’un ubbriacone? aggiungo una sola parola: è un demonio d’impurità vestito di corpo, che l’inferno ha vomitato sulla terra; è il più sozzo, il più immondo degli animali. Toglietegli l’anima ed è l’ultima delle bestie che vivono sulla terra. – Credo che ora, F. M., potete farvi un’idea dell’enormità del peccato dell’ubriachezza. Noi lo troviamo stomachevole, eppure non abbiamo che una conoscenza assai limitata della malizia di questo peccato: vi lascio pensare come deve giudicarlo Iddio che perfettamente lo conosce! Se non fosse immortale, potrebbe, senza morir d’orrore, sopportare questo vizio che tanto lo disonora nelle sue creature, le quali sono, come dice S. Paolo, membra di Gesù Cristo? » (I Cor. VI, 15.).Ma, non andiamo più innanzi, F. M., ve n’è abbastanza. Vi dirò solo che un impudico, sebbene molto colpevole, può ancora nel suo peccato fare un atto di contrizione che lo riconcili col buon Dio; ma un ubbriacone è incapace del minimo segno di pentimento. Lungi dal conoscere lo stato della sua anima, non sa nemmeno se è al mondo; così Che morire nell’ubriachezza e morire da riprovato, F. M., è la stessa cosa. – Dico, inoltre, F. M., che un beone è del tutto incapace di lavorare per la sua salute, come vedrete. Per uscire dal suo stato, bisognerebbe che potesse sentirne tutto l’orrore. Ma, ahimè! egli non ha fede: o crede assai debolmente le verità che la Chiesa ci insegna. Dovrebbe ricorrere alla preghiera; ma non ne fa quasi mai, ovvero la fa vestendosi o spogliandosi, od anche si accontenterà di fare, bene o male, il segno della croce mentre si getta sul letto, come una bestia sullo strame. Dovrebbe frequentare i Sacramenti che, malgrado il disprezzo degli empi, sono i soli rimedi che la misericordia di Dio ci presenta per attirarci a sé. Ma ahimè! egli non conosce né le disposizioni necessarie per riceverli degnamente e nemmeno il più necessario di quanto bisogna sapere per salvarsi. Se l’interrogate sul suo stato, non capisce nulla, e vi risponde una cosa por l’altra. Se in tempo di giubileo, o durante le missioni vuol salvare le apparenze; si accontenterà di dire solo la metà dei peccati commessi; o, cogli altri sull’anima, va ad accostarsi alla sacra mensa, cioè va a commettere un sacrilegio; questo gli basta. Dio mio! quale stato è quello di un ubbriacone e quanto è difficile il poterne uscire! F. M., se volete darvi la pena di osservare il contegno d’un ubbriacone in chiesa credereste che egli sia un ateo, che non crede nulla; lo vedete venire per ultimo, oppure uscire per sollevarsi un poco, cercare qualcheduno de’ suoi amiconi che lo accompagni alla bettola, mentre gli altri stanno ad ascoltare la S. Messa. Il profeta Isaia ci dice che gli ubbriaconi sono creature inutili per il bene su questa terra, ma che sono però pericolosissime per il male Per convincervene, F. M., entrate in una bettola, che S. Giovanni Climaco chiama la bottega del demonio, la scuola dove l’inferno vende ed insegna la sua dottrina, il luogo dove si vendono le anime, dove si rovinano i matrimoni, si guasta la salute, cominciano gli alterchi e si commettono gli omicidi. Ahimè! tutte cose che fanno orrore a quelli che non hanno ancora perduta la fede. Che cosa vi si sente? Voi lo sapete meglio di me: bestemmie, spergiuri, imprecazioni, parole triviali. E quante azioni vergognose che non si farebbero altrove!… Vedete, F. M., quel povero ubbriaco! Egli è pieno di vino, mentre la sua borsa è vuota. Si getta bocconi su una panca o su di un tavolo: il domani, si stupisce di trovarsi in una bettola, mentre ei credeva d’essere a casa sua. Egli se ne va dopo avere sprecato tutto il denaro, e spesso è obbligato a lasciare in deposito il cappello o gli abiti con una polizza per poter portar via il suo corpo col vino che ha bevuto. Quando rientra in casa la povera moglie ed i figli, che ha lasciati senza pane, cogli occhi solo per piangere, sono costretti a fuggire por non essere maltrattati, come se essi fossero la causa della perdita del suo denaro, e dei suoi cattivi affari. Mio Dio, quanto è deplorevole lo stato d’un ubbriacone! Il Concilio di Magonza ha ragione di dirci che un ubbriacone trasgredisce i dieci comandamenti della legge di Dio. Se volete convincervene, esaminateli l’un dopo l’altro, e vedrete che un ubbriacone è capace di fare tutto ciò che i comandamenti ci proibiscono. Non voglio entrare in questi particolari che sarebbero troppo lunghi. S. Giovanni Crisostomo, parlando al popolo di Antiochia, dice: “Guardatevi bene, figli miei, di non darvi all’ubriachezza, poiché questo peccato degrada l’uomo in un modo così spaventoso da metterlo al di sotto del bruto privo di ragione. Sì, continua, gli ubbriaconi sono veramente gli amici del demonio: dove sono essi, sono i demoni in grande quantità. „ Ahimè! F. M., bisogna che questo peccato sia ben orribile agli occhi di Dio, se Egli lo punisce in modo così spaventoso anche in questo mondo! Eccone unchiaro esempio. Leggiamo nella S. Scrittura (Dan. V,) , che il re Baldassare, per ricevere i grandi della sua corte, aveva dato uno splendido banchetto, quale non aveva mai offerto durante il suo regno. Aveva fatto cercare per tutto il regno i vini più squisiti. Quando i convitati furono radunati, e, gloriandosi di bere a larghi sorsi, il sangue cominciò a scaldarsi e la lussuria ad infiammarsi (poiché ubriachezza e lussuria non vanno mai disgiunte): mentre ormai si tuffavano nelle voluttà, apparve ad un tratto davanti al re una mano senza corpo, la quale scrisse sul muro alcune parole che erano la condanna del re, senza che egli lo comprendesse. Ahimè! F. M., come l’uomo più fiero, più orgoglioso, più altero si fa piccolo piccolo davanti a simil caso, anzi al più lieve accidente! Baldassare ne fu così spaventato, e fu preso da un tremito così forte, che le giunture delle mani gli si rompevano e le ginocchia si urtavano l’un l’altro. Tutti i convitati furono presi da ugual terrore e sembravano mezzo morti. Il re s’affrettò a far cercare qualcuno che potesse spiegargli il significato di quelle parole; ma nessuno vi capiva nulla. Comandò allora di far venire tutti i suoi indovini, cioè i falsi profeti. Ciascuno voleva comprendere, ma non vi riusciva. Finalmente si disse al re che solo Daniele, il profeta del Signore, poteva darne la spiegazione. Siccome il re vivamente desiderava conoscere il significato di quelle parole misteriose, ordinò di farlo venire all’istante alla sua presenza. Il profeta, accondiscese tosto a comparire dinanzi al re, che lo ricevette con grande rispetto ed. offrendogli molti regali, gli domandò la spiegazione di quelle strane parole. Il profeta rifiutò i doni, poi: “Principe, disse, ascoltami. Ecco ciò che significano quelle tre parole Mane, Thecèl, Phares. La prima significa, che i tuoi giorni sono contati e che sei alla fine della tua vita e del tuo regno; la seconda che sei stato pesato e trovato troppo leggiero; la terza che il tuo regno sarà diviso tra i Medi ed i Persiani. „ Così il re dalla bocca stessa del profeta, udì la sentenza di condanna che gli annunciava la fine di tutti i suoi stravizi. Notatelo bene: ciò avveniva nel momento in cui questo disgraziato beveva coi convitati nei vasi sacri, rubati dal padre suo nel saccheggio del tempio di Gerusalemme; mentre si riempivano di vino e si tuffavano nelle più indegne voluttà. Dio mio! qual colpo di folgore della vostra collera! Ma la paura non lo salvò: tutto accadde come il profeta aveva predetto. Il re fu ucciso, ed il regno venne diviso fra i Medi ed i Persiani. Malgrado questo avvertimento che avrebbe convertito ogni altro peccatore, quel disgraziato vieppiù si ostinò; poiché non sembra che abbia dato segni di pentimento. Così, secondo tutte le apparenze, dalla sua orgia e dal suo spavento, discese nell’inferno. Questo ci mostra quanto sia difficile che un ubbriacone si converta. Vedete ancora Oloferne, il famoso superbo I che si vantava di riempirsi di vino fino a traboccarne, davanti alla bella Giuditta « (Judith XII, 20). Fu precisamente durante l’ubriachezza ch’ella gli tagliò il capo. Ah! F. M., quale funesta passione! chi potrebbe comprenderne la tirannia, ed abbandonarvisi? No, F. M., chi si dà all’ubriachezza non ha più alcun ritegno, nemmeno coi suoi genitori, come ho già detto. Ma, per ben imprimervelo nel cuore, ecco un esempio che non è meno spaventoso. Narra la storia che un padre aveva un figlio il quale, ancora giovanissimo, aveva l’abitudine di frequentare troppo le osterie. Un giorno vedendolo tornare da questo luogo sciagurato, ed accorgendosi che aveva bevuto un po’ troppo, il padre volle ricordargli che era cosa vergognosa per lui, ancora ragazzo, frequentare così le osterie dove non si commette che del male, mai del bene; che avrebbe fatto assai meglio a fuggire quei luoghi dove si perdeva la reputazione e l’onore, e che, se voleva continuare, lo caccerebbe di casa. Il giovane, sentendo queste parole, si accese di una tal collera che si slanciò sul padre, lo coprì di pugnalate e lo stese ucciso ai suoi piedi coperto di sangue. Ditemi, F. M., avreste mai pensato che l’ubriachezza potesse portare un uomo a simili eccessi? – Così l’ubbriacone non commette soltanto peccato di golosità; ma diventa capace per il suo peccato di abbandonarsi a tutti i delitti. Se non temessi di esser troppo lungo, ve lo mostrerei tanto chiaramente, che non potreste più dubitarne. Dopo questo, F. M., non è necessario dirvi quanto dovete temere l’ubriachezza, e fuggire quelli che vi si abbandonano. Ah! come è da temere che quelli che ne sono presi, non se ne correggano più! Pure, F. M., siccome la misericordia di Dio è infinita, ed Egli vuol salvare gli ubbriaconi, come tutti gli altri, quantunque la loro conversione sia molto difficile, se essi volessero corrispondere alla grazia, che è data loro por correggersi, riuscirebbero a trarsi da questo abisso. La prima cosa ch’essi devono fare, è di fuggire gli ubbriaconi e le osterie; questa condizione è ad essi assolutamente necessaria per tornare a Dio. La seconda è di ricorrere alla preghiera, per commuovere il cuore di Dio e riguadagnare la sua amicizia. La terza d’avere un gran rispetto per le cose sante; di non disprezzar nulla di ciò che si riferisce alla religione. La quarta di ricorrere ai Sacramenti, dove ci vengono accordate tante grazie: è questo il mezzo di cui tutti i peccatori si sono serviti per tornare a Dio tanto gli ubbriaconi quanto gli altri. – S. Agostino narra (Conf. lib. IX, cap. VIII, 18) . , conforme al racconto che aveva udito dalle labbra stesse di sua madre. che ella aveva corso pericolo di dannarsi mostrandosi golosetta del vino. Spiava il momento in cui nessuno la vedesse, e tosto cercava di soddisfare la sua gola. Ma una serva che qualche volta l’aveva vista, e colla quale un giorno ebbe a litigare, le disse che era una piccola bevitrice. Questa parola la offese talmente e ne provò tale confusione che, pentita, pianse per molto tempo. Andò subito a confessarsi di questo difetto che non aveva mai osato dire al suo confessore, tanto lo stimava brutto, pur avendo solo dodici anni, infame e vergognoso. E colla grazia di Dio se ne corresse così bene che non vi cadde più per tutta la sua vita, e visse in modo così esemplare che diventò una gran santa. Vediamo (Ibid., cap. IX) che Dio, per farle espiare il suo peccato, permise che ella sposasse un uomo ubbriacone e brutale, che le fece provare innumerevoli maltrattamenti. Il figlio Agostino, fino all’età di trentadue anni non fu meno beone del padre. S. Monica, riconoscendo che il buon Dio permetteva questo per soddisfare la sua giustizia, sopportò così bene questa prova che non fu mai sentita lamentarsi con alcuno. E finalmente ebbe la consolazione di vedere il marito ed il figlio Agostino convertirsi. Vedete, F. M., che Dio stende la mano, e dà la grazia a quelli che gliela domandano con vero desiderio di uscire dal peccato, e vivere solo per Lui. – Ma un altro esempio vi darà piacere, perché vi mostrerà che gli ubbriaconi, sebbene miserabili assai, pure possono salvarsi; e quelli che non cambiano le loro cattive abitudini, dicendo che non riusciranno mai a correggersi, s’ingannano di molto. Non sarebbe facile trovare un fatto che meglio convenga al nostro soggetto. In un villaggio presso Nimes, v’era un contadino chiamato Giovanni. Fin dalla sua gioventù si era talmente dato al vino, che era quasi continuamente ebbro e passava per il maggior ubbriacone del paese. Il curato della parrocchia avendo fatto venire dei missionari per istruire i suoi parrocchiani, pensò che bisognava far loro conoscere questo peccatore, per timore che li ingannasse. La saggia precauzione del pastore parve da principio inutile, poiché non solo il contadino non si presentò ad alcun missionario, ma non assistette neppure ad alcun esercizio della missione. Due giorni prima che la missione finisse, pensò d’andar a sentire il discorso sul Figliuol prodigo, o, meglio sulla misericordia di Dio, che era predicato dal Rev. Castel, sacerdote di Nimes, il missionario più bravo e zelante. Questo discorso scritto con nobile semplicità, ma pronunciato con molta forza ed unzione, fece vivissima impressione sul nuovo uditore. Egli riconobbe il suo ritratto nei disordini del Figliuol prodigo; vide nella bontà del padre un’immagine commovente di Dio, e ripieno, tutto ad un tratto, di pentimento e di confidenza, disse: Come il giovane Figliuol prodigo dell’Evangelo, uscirò finalmente dalla cattiva abitudine in cui marcisco da sì lungo tempo; mi getterò ai piedi di quel Dio di misericordia che mi vien presentato come il più amoroso di tutti i padri. La sua risoluzione non fu meno efficace che pronta. Il domani va a trovare quel medesimo Sac. Castel di cui aveva sentito il discorso, e avvicinandolo gli dice cogli occhi pieni di lagrime: “Vedete qui il più gran peccatore che vi sia sulla terra. Voi avete detto che la misericordia di Dio è ancor più grande dei nostri peccati; per attirarne su di me i salutari effetti, vi prego; fatemi la carità d’ascoltare la mia confessione. Ah! non rifiutatemela, Padre, ve ne scongiuro, questa grazia; mi fareste cadere nella disperazione. Non posso più sopportare il peso dei miei rimorsi, e non sarò tranquillo, se non quando m’avrete riconciliato con Dio che troppo ho offeso. „ Il missionario fu tanto più commosso e sorpreso da questo discorso, perché riconobbe nel suo interlocutore il famoso ubbriacone di cui gli aveva parlato il Curato. S’intenerì con lui, l’abbracciò amorosamente, e gli dimostrò gli stessi sentimenti che il padre del Figliuol prodigo aveva testimoniato al figliuol suo; ma nel medesimo tempo gli mostrò con bontà che era troppo tardi, che era alla vigilia della sua partenza e temeva di non potergli accordare ciò che gli domandava. “Ah! se è così, rispose il contadino singhiozzando, è finita: sono perduto. Quando mi conoscerete meglio, forse avrete pietà di me. Fatemi dunque la grazia di ascoltarmi, e che io abbia, almeno, la consolazione di confessarmi. „ Il missionario si arrese a questo desiderio, ed il contadino si confessò il meglio che gli fu possibile. Accompagnò l’accusa de’ suoi peccati con tante lagrime e con sì vivo pentimento; resisté con tanto coraggio ai prudenti consigli che gli si davano di non interamente rinunciare al vino per la sua salute, e di usarne solo più raramente e più sobriamente; protestò sì fortemente che non avrebbe giammai fatto la pace con questo crudele nemico, che aveva dato la morte alla sua anima, e che l’avrebbe tanto in orrore per tutta la sua vita, che il missionario, trovandolo così ben disposto, gli diede l’assoluzione, raccomandandogli fortemente di perseverare nei buoni sentimenti che Dio gli aveva ispirati. Questo grande peccatore glielo promise, e l’avvenire provò che il suo pentimento era stato sincero. Cinque o sei mesi dopo la missione, una delle sorelle di Giovanni fece un viaggio a Nimes. Incontrò il missionario che volle sapere se il suo famoso ubbriacone Giovanni aveva perseverato. “Voi venite, senza dubbio, dal vostro villaggio, dissele; potete darmi notizie del bravo Giovanni?„ — “Ah! signore, rispose la donna, quanto vi siamo obbligati! voi ne avete fatto un santo. Da quando avete lasciato il nostro paese, non solo i suoi amici non riuscirono a trascinarlo alle osterie: ma non ci è stato possibile largii bere una sola goccia di vino. No,dice quando gliene parliamo; è stato il vino il mio più grande nemico, e non mi riconcilierò mai più con lui; non parlatemene assolutamente.„ Il missionario non poté sentire queste parole senza piangere, tant’era la suagioia nel sapere che questo peccatore convertito aveva avuto la fortuna di perseverare. Tutte le volte che narrava questo fatto, aggiungeva sempre, che dopo una simile conversione, non si dovrebbe mai disperare dei più grandi peccatori, se il peccatore vuol corrispondere alla grazia che Dio dà a tutti perché possano salvarsi.

II. — Vedremo ora, F . M., che i peccatori, cioè gli ubbriaconi, non hanno alcun pretesto che possa giustificare i loro eccessi. S. Agostino ci dice che, quantunque l’ubriachezza sia condannata da tutti, pure ciascuno crede potersene scusare. Se domandate ad un uomo perché s’è lasciato vincere dal vino, vi risponderà senza turbarsi che un amico è venuto a trovarlo; sono andati assieme all’osteria e che, se han troppo bevuto non fu che per compiacenza. — Per compiacenza! ma, o quell’amico è un buon Cristiano, ovvero è un empio. Se è un buon Cristiano, l’avete scandalizzato in citandolo a bere e passando il vostro tempo nell’osteria: forse durante la S. Messa o durante i Vespri!… Ma che! fratel mio, siete entrati nell’osteria ambedue ragionevoli, e ne siete usciti meno ragionevoli che due bruti! Credetemi, amico, se aveste tenuto per un po’ il vostro amico in casa vostra e, non avendo vino, gli aveste offerto dell’acqua, gli avreste fatto molto più piacere che facendogli vendere l’anima al demonio. Se questo amico è un cattivo Cristiano od un empio senza religione, non dovete andare con lui, dovete fuggirlo. — Ma, mi direte, se non lo faccio bere, se non lo conduco all’osteria, mi vorrà male, mi tratterà d’avaro. — Amico, è una gran fortuna l’essere disprezzati dai cattivi. Questa è una prova che non somigliate ad essi. Voi dovete servir loro d’esempio. S. Agostino ci dice: Ah! miserabile, vi siete dato al vino per essere l’amico d’un ubbriacone, d’un empio, d’un libertino; ed intanto diventate il nemico di Dio! Ah! disgraziato! quale indegna preferenza! Vedete dunque, F. M., che non avete nulla che vi possa scusare: vi date al vino perché la vostra golosità vi trascina. Alcuni dicono che hanno l’abitudine d’andare all’osteria per bere in compagnia, ma che per quanto bevano, il vino non toglie loro la ragione. Amico mio, v’ingannate. Sebbene il vino non vi intorbidi la ragione, bevendone più del necessario, siete altrettanto colpevoli come se aveste perduta la ragione; non è che un piccolo scandalo di meno. E del resto, agli occhi del pubblico siete una colonna dell’osteria. Ascoltate ciò che dice il profeta Isaia: “Guai a voi che siete così forti che potete bere eccessivamente, che vi gloriate di ubriacare gli altri: voi ubbriacate voi stessi (Isa. V, 22). Altri dicono pure: E per fare un contratto, per dare o per ricevere denari. — Ahimè! amico, io non voglio dimostrarvi che quelli i quali si danno al vino fanno contratti rovinosi. Però, è un fatto, sì o no, che all’osteria i furbi fanno firmar quietanze, e poi, dato il denaro, cercano di ricuperarlo? Del resto, come volete conoscere ciò che fate? non conoscete nemmeno voi stessi.. – Quale conclusione dobbiamo trarre da tutto questo, F. M.? Eccola. Rientriamo seriamente in noi stessi, come ci dice il Signore per bocca del profeta Gioele: “Svegliatevi, dice, ubbriaconi, poiché v’attendono sciagure d’ogni sorta. Piangete e gridate, alla vista dei castighi che la giusta collera di Dio vi prepara nell’inferno in causa della vostra ubriachezza(Joel. I, 5). Svegliatevi, disgraziati, ai lamenti di quella povera donna che avete maltrattata dopo averle mangiato il pane; svegliatevi, ubbriaconi, alle grida di quei poveri fanciulli che riducete alla miseria o che mettete in pericolo di morir di fame. Ascoltate, infame ubbriacone, quel vicino che vi domanda il denaro che v’ha prestato, e che avete sciupato negli stravizi e nelle osterie. Egli ne ha bisogno per sfamare la moglie ed i figli, i quali piangono la loro miseria causata dalla vostra ubriachezza. Ah! disgraziato peccatore, che cosa avete promesso a Dio quando vi ha ricevuto tra i suoi figli? Gli avete promesso di servirlo, di non ricadere più in questi disordini, Che avete fatto nella vostra ubriachezza? Ahimè! avete rivelati segreti a voi confidati, e che non dovevate mai dire. Avete commesso un numero infinito di turpitudini che fanno orrore a tutti. Che avete fatto dandovi all’ubriachezza? Avete rovinata la vostra riputazione, le vostre sostanze, la vostra salute, ed avete resa la vostra famiglia così miserabile che, forse per vivere, s’abbandonerà ad ogni sorta di disordini. Siete diventato un uomo da nulla, la favola e l’obbrobrio dei vostri vicini che, ora, vi guardano solo con disprezzo ed orrore.Che avete fatto della vostra anima, di quest’anima così bella, che Dio solo la supera in beltà? L’avete resa carnale, l’avete sfigurata coi vostri eccessi. – Che cosa avete perduto colla vostra ubbriachezza? Ahimè, amico, avete perduto il più grande di tutti i beni. avete perduto il cielo, la felicità eterna, beni infiniti; avete perduto la vostra anima redenta dal Sangue adorabile di Gesù Cristo. Ah! diciamo ancor più: Avete perduto il vostro Dio, quel tenero Salvatore, che ha vissuto solo per rendervi felice durante tutta l’eternità. Oh! quale perdita! Ohi potrà comprenderla ed esservi insensibile? Quale disgrazia  si può paragonare a questa? Ma, che cosa avete guadagnato? Ahimè null’altro che l’inferno per esservi bruciato eternamente. Avete meritato, amico mio, d’esser collocato sulla mensa dei demoni, dove alimenterete il furore che essi hanno contro Gesù Cristo. Sarete la vittima sulla quale peserà la giusta collera di Dio per secoli senza fine!… Convenite con me, che forse non avete mai potuto formarvi un’idea dell’enormità del peccato dell’ubriachezza, dello stato a cui riduce chi lo commette, dei mali che attira su di lui durante la sua vita, e dei castighi che gli prepara per l’eternità. Chi non si commoverebbe davanti a tanta sciagura, F. M.? Piangete, o disgraziati ubbriaconi. le vostre sregolatezze e tutti i cattivi esempi che avete dato, invece di riderne come fate. Alzate la voce verso il cielo per domandare misericordia, per vedere se il Signore vuol ancora avere pietà di voi. Preghiamo il buon Dio che ci preservi da questo disgraziato vizio, che sembra metterci quasi nella impossibilità di salvarci. E perciò amiamo Dio solo: è la felicità che vi auguro…

IL SEGNO DELLA CROCE (2)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (2)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA PRIMA.

Parigi, 25 novembre 1863.

Stato della quistione. — Il mondo moderno non fa piò il segno della Croce o lo fa raramente, o male. — I Cristiani primitivi la facevano soventemente e bene. — La ragione è per noi, ed il torto per essi? O questo per noi ed il torto per essi? Quale delle due?

Mio Caro Federico

Quindici giorni soltanto sono scorsi da che i giornali, ci annunziavano il naufragio del capitano Walker. Siffatta nuova, che leggevamo insieme, ci attristò grandemente, che per essa conoscemmo la morte di alquanti viaggiatori nostri amici. La nave avea dato in uno scoglio, ed una larga vena di acqua si era aperta in essa, e tutti gli sforzi dell’equipaggio tornando inutili a chiuderla, la nave s’immergeva oltre la sua linea di flottazione. Si cercò scemarne il peso col getto delle mercanzie al mare; dopo queste, delle provvigioni da guerra, che furono seguite da una parte dei mobili e degli attrezzi, serbando solo due o tre botti di acqua, e qualche sacco di biscotti. Tutto fu inutile. La nave affondava, il naufragio diveniva imminente. Come, estremo mezzo di salute, Walker comandò che le scialuppe si mettessero in mare; ciascuno vi si precipitò. Sventura! La maggior parte dei viaggiatori a vece di trovarvi la vita, vi trovò la morte.

Questo racconto, trattane qualche circostanza, è la storia di tutti i grandi naufragi. Gl’infelici comandanti e la ciurma in questi estremi sono da scusare se gettano al mare tutto quello che si può. — La vita è da salvare innanzi tutto. Il mondo attuale, questo mondo che dicesi ancora cristiano, cui per fermo appartengono i tuoi compagni, presenta più di un tratto di somiglianza con una nave che ha sofferto avarie, ed è sul punto di naufragare. Le furiose tempeste, che da poi lungo tempo battono il legno della Chiesa, vi hanno aperte delle grandi vene di acqua, e per lo mezzo di esse vi si sono introdotti de’ grandi fiotti di dottrine, di costumi, di usi, di tendenze anticristiane. Guai, non per la nave, che non può perire, ma pei viaggiatori! Qual cosa mai è stata fatta? Io non parlo del mondo disvelatamente pagano; il suo naufragio è compiuto: ma di quello che pretende ancora di essere cristiano. Che ha egli fatto, e fa continuamente delle provvigioni da guerra e da bocca, delle mercanzie, dei mobili e degli attrezzi, di che la Chiesa avea provveduta la nave, per assicurare il successo della navigazione fino al porto della eternità a schermo degli scogli e delle bufere? Desso ha tutto, o quasi tutto, gettato al mare!  – Dov’ è la domestica preghiera nelle famiglie ? al mare. Le pie letture? al mare. La benedizione della mensa? al mare. L’assistenza frequente al santo Sacrifizio, lo scapolare, la corona? al mare. La santificazione della domenica, assistendo alle sacre istruzioni ed agli uffìzi divini, con le visite de’ poveri, degli afflitti e de’ malati? al mare. L’uso regolare de’ sacramenti, la osservanza delle leggi del digiuno e dell’astinenza? al mare. Lo spirito di semplicità e di mortificazione ne’ panni, nella mobilia, nel cibo e nell’abitazione? Il crocifisso, le sante immagini, l’acqua benedetta negli appartamenti? al mare, al mare!  La nave frattanto continua ad affondarsi. Lo spirito cristiano si scema, e lo spirito opposto cresce a vista. Si cerca riparare in qualche battello, voglio dire, in certe forme di religione che ciascuno stabilisce a seconda della propria età, condizione, temperamento e gusto, ed in esse si vive.  L’assistenza alla Messa bassa la domenica: e come? Alla messa solenne un tre, quattro fiate nell’anno; a vespro, giammai. Usare frequentemente a spettacoli e balli; la lettura di quanto si presenta; nulla negarsi, eccetto quello che non può aversi: ecco i battelli ne’ quali si cerca la salvezza. — È mestieri meravigliarsi di tanti naufragi? Poveri viaggiatori, separati dalla nave, voi movete a compianto! Ma più ancora è da compiangere la generazione che cresce! Fra le usanze del Cattolicismo, imprudentemente abbandonate dal mondo moderno, ve n’ha una più che altra mai rispettabile, che ad ogni costo vorrei salvare dal naufragare, ed è quella che i compagni tuoi disprezzano, senza sapere quello, che facciano; vo’ dire il segno della croce. — È tempo ormai di provvedere alla conservazione di esso; che altrimenti fra poco esso avrà la sorte di tante altre pratiche tradizionali, che noi dobbiamo alle materne cure della Chiesa, ed alla pietà de’ secoli cristiani trascorsi. Vuoi tu sapere, mio caro Federico, quel che sia divenuto il segno della croce nel mezzo del mondo che si pretende cristiano? Un dì di domenica ti ferma alla porta di una delle grandi chiese, ed osserva la folla che entra nella casa di Dio. Un gran numero si avanza scioperatamente, o con fasto, il che è tutt’uno, nel luogo santo, senza neppure guardare il vaso dell’acqua benedetta, e senza fare il segno della croce. Altri, in numero ad un dipresso uguale, prendono o ricevono, o fanno mostra di prendere o di ricevere l’acqua benedetta e di segnarsi. Tu vedrai cacciar nell’acqua benedetta la punta di un dito ricoperto di guanto, il che non è liturgico, come non l’è confessarsi e comunicarsi con i guanti (Nota A). Della maniera poi con che siffatto segno è eseguito, meglio sarebbe non far parola; poiché è tale, che il più abile geroglifichiere incontrerebbe della pena a spiegarla. Un movimento di mano senza riflessione, in fretta, a metà, macchinale, di che torna impossibile assegnare una forma, o darne un significato; oltre che gli autori di esso credono di nessuna importanza quello, che fanno: ecco il loro segno di croce della domenica.  Nel mezzo di questa folla di battezzati ti sarà difficile trovare qualcuno che faccia seriamente, regolarmente e religiosamente il segno venerabile di nostra salute. Or se in pubblico ed in circostanze solenni, la maggior parte non fa, o fa male il segno della croce, stento a persuadermi che lo facciano bene nelle altre, in cui, secondo l’apparenza, v’hanno minori ragioni da farlo, e ben farlo.  È dunque un fatto: i Cristiani di oggidì non fanno il segno della croce, o lo fanno raramente, o male. Su questo punto, come su molti altri, noi siamo agli antipodi de’ nostri antenati, i Cristiani della Chiesa primitiva. Quelli si segnavano, e si segnavano bene, e soventemente.  Nell’Oriente come nell’Occidente, a Gerusalemme, ad Atene, a Roma, gli uomini e le donne, i vecchi ed i giovani, i ricchi ed i poveri, i preti ed i semplici fedeli, tutte le classi della società osservavano religiosamente siffatto uso tradizionale. — La storia nulla ha di più certo; i padri testimoni oculari ne fanno fede; tutti gli storici Io accertano. Nulla mi sarebbe più facile del ripeterti le loro parole, ma tu le troverai presso il dotto tuo compatriota nella sua opera: De Cruce, Gretzer. Ma in vece di tutti ascolta il solo Tertulliano: A ciascun movimento e ad ogni passo, entrando e sortendo, prendendo gli abiti ed i calzari, al bagno, alla mensa, nel mettersi a Ietto, nei consigli, checché da noi si faccia, noi segniamo la nostra fronte del segno della croce (Ad omnem progressum atque promotum, ad omnem aditum et exitum, ad vestitum et calceatum, ad lavacra, ad mensas, ad lumina, ad cubilia, ad sedilia, quaecumque nos conversatio exercet. frontera crucis signáculo ferimus. (Tertull. De coron. milit. c. III – In frontibus, et in oculis, et in ore, et in pectore, et in ómnibus membris nostris. (S. Ephrem, Serm. In pret. Et vivif. Crucem).  – È chiaro: a ciascun momento i nostri antenati, odi un modo, o di un altro si segnavano, e non solamente sulla fronte, ma sugli occhi, sulla bocca e sul petto. Di che seguita, che se i Cristiani primitivi comparissero sulle nostre piazze, o nelle nostre abitazioni, facendovi quanto eglino eseguivano, or sono diciannove secoli, noi saremmo sul punto da reputarli maniaci; tanto è vero che noi siamo a loro antipodi sul conto del segno della croce. Eglino aveano torto, e noi abbiamo ragione; o eglino ragione, e noi torto? È una delle due; non v’ha mezzo. Quale delle due? Ecco la questione; l’essa è grave, gravissima, più che per fermo il pensino i tuoi compagni, e quelli, che ad essi si assomigliano. Spero rendertene convinto colle mie seguenti lettere.

Nota A.

È costume de’ fedeli in Francia di accostarsi ai sacramenti con le mani nude, come le donne usano del cappello con velo, e non del solo velo nell’accostarsi alla sacra mensa. Questo costume delle mani nude, pare che rimonti a’ primi secoli della Chiesa.  Nell’amministrazione dell’Eucaristia ne’ primi secoli, i fedeli ricevevano dal Vescovo non nella bocca, ma nella mano destra il corpo del Signore. S. Cirillo di Gerusalemme nella catechesi quinta ci descrive come doveasi presentare la mano. Accedens autem ad comunionem, non expansis manibus velis accedere, neque cum disjunctis digitis, sed sinistravi, veluti sedem quamdam subjicias dexteræ, quæ tantum Regem susceptura est: et concava marni suscipe Corpus Christi, dicens: Amen: Parimente S. Giovanni Damasceno, Orlhod. fidei, lib. 4, cap. 14, espone questa postura delle mani. Le donne la ricevevano ancora nelle mani, ma sopra di un pannolino, chiamato Domenicale, ed il concilio Antisidiorense comanda che le donne che avessero dimenticato il domenicale dovrebbero attendere la seguente domenica per ricevere il Signore. Cap. 42. S. Agostino dalla bianchezza del domenicale, espone il candore della coscienza da portare alla santa mensa. Ser. 252. de tempore. Consentaneamente ne’ peristilii delle basiliche si trovavano de’ vasi da acqua benedetta per purificare e santificare le mani e la bocca che doveano ricevere il corpo del Signore, e chiamavansi Canthara (Degli stessi vasi parlaS. Gregorio: De cura pastorali, p. 2, cap. III, chiamandoli Intere.) S. Giovanni Crisostomo ci parla di questi vasi, e di tale purificazione delle mani, e da essa trae argomento per esortare i fedeli ad essere larghi con i poveri alla porta della Chiesa, dove questi si trovano per darci un mezzo da accrescere con la elemosina la nostra purificazione. Semi. 25, inter Hom. de dic. IV. Test. Locis – S. Paolino in diversi luoghi delle sue opere ci parla di queste fonti. Ep. 32, alias 12, ad Severum. Pœmate 25, de S. Fel. Natal. 9, car. 463. Ma nella lettera 13, alias 37 ad Pammach., descrivendoci la basilica de’ santi Apostoli ce ne assegna ancora l’uso. Questi vasi furono in seguito introdotti nelle chiese, e sono i presenti vasi da acqua benedetta. La purificazione che con quest’acqua era fatta da’ primitivi cristiani, è venuta tanto in disuso, che ora vediamo lo spettacolo di che parla l’autore. Un tale disprezzo è prodotto dai protestanti i quali si burlano de’ cattolici, dicendo che hanno preso il costume di prendere 1′ acqua benedetta da’ gentili, che aveano l’acqua lustrale (Virgil. Æneid. lib. II). I nostri fratelli dissidenti riflettano che la Chiesa ha preso dalla Sinagoga una tale instituzione, la quale avea l’acqua di espiazione ordinata da Dio stesso. Num. cap. XIX. IN’on è meraviglia poi trovare presso i pagani una tal cosa, avendone molte altre copiate dagli Ebrei, come Tertulliano afferma: De præscrip. cap. 40. De Corona, cap. 14; e santo Agostino dice esservi vari usi comuni fra il paganesimo ed il Cristianesimo; ma il fine essere diverso. Contra Faustum, lib. XX, c. 23.

IL SEGNO DELLA CROCE (3)

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA PUREZZA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sulla Purezza

Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt

(MATTH. V, 8).

Leggiamo nell’Evangelo che Gesù Cristo, volendo istruire il popolo, che accorreva in folla per imparare da Lui quanto occorreva fare per avere la vita eterna, sedé, ed aperta la bocca disse loro : “Beati quelli che hanno il cuor puro, poiché vedranno Dio. „ Se noi avessimo un gran desiderio di vedere Dio, Fratelli miei, queste sole parole dovrebbero farci comprendere quanto la purità ci renda accetti a Lui, e quanto sia per noi necessaria questa virtù; poiché, secondo la parola di Gesù Cristo, senza di essa non lo vedremo mai. “Beati, ci dice Gesù Cristo, quelli che hanno il cuor puro, poiché vedranno Dio. „ Si può forse sperare una più grande ricompensa di quella che Gesù Cristo dà a questa bella ed amabile virtù, cioè il godimento eterno delle tre Persone della Ss. Trinità?… S. Paolo che ne conosceva bene il valore, scrivendo ai Corinti, dice loro: ” Glorificate Dio, poiché voi lo portate nei vostri corpi, e siate fedeli nel conservarlo con grande purità. Ricordatevi, figli miei, che le vostre membra sono le membra di Gesù Cristo, e che i vostri cuori sono i templi dello Spirito Santo. Guardatevi dal non contaminarli con quel peccato che è l’adulterio, la fornicazione e tutto ciò che può disonorare il vostro corpo ed il vostro cuore davanti a Dio, che è la purezza in persona. „» (I Cor. VI, 15-20). – Oh ! F . M., quanto questa virtù è bella e preziosa non solo agli occhi degli uomini e degli Angeli, ma altresì agli occhi di Dio. Egli la tiene in tal conto che non cessa di lodarla in tutti coloro che sono abbastanza fortunati di conservarla. Inoltre questa virtù inestimabile forma il più bell’ornamento della Chiesa e, per conseguenza, dovrebbe essere la più amata dai Cristiani. Noi, F. M., che nel santo Battesimo siamo stati lavati nel Sangue adorabile di Gesù Cristo, che è purezza per essenza; in questo Sangue adorabile che ha generato tanti vergini dell’uno e dell’altro sesso; (Frumentum electorum, et vinum germinans virgines. Zach. IX, 17) noi che Gesù Cristo ha messo a parte della sua purità facendoci sue membra e suo tempio… Ma, ahimè! F. M., in questo disgraziato secolo in cui viviamo non si conosce più questa virtù, questa celeste virtù che ci rende simili agli Angeli!… Si, F. M., la purezza è una virtù necessaria per tutti, poiché, senza di essa, nessuno vedrà Dio. Io vorrei farvene concepire un’idea degna di Dio e dimostrarvi: 1° come essa ci renda accetti ai suoi occhi, dando un nuovo grado di santità a tutte le nostre azioni, e 2° ciò che dobbiamo fare per conservarla.

I. F. M., per farvi ben comprendere la stima che dobbiamo avere di questa incomparabile virtù, per farvi il panegirico della sua bellezza, e farvene apprezzare il valore davanti a Dio, occorrerebbe non un uomo mortale, ma un Angelo del cielo. Sentendolo voi direste con stupore: Come mai tutti gli uomini non sono pronti a sacrificare ogni cosa piuttosto che perdere una virtù che ci unisce così intimamente a Dio? Cerchiamo tuttavia di concepirne qualche idea considerando che questa virtù viene dal cielo, che essa fa discendere Gesù Cristo sulla terra, che essa eleva l’uomo fino al cielo, per la rassomiglianza che gli dà con gli Angeli, con Gesù Cristo medesimo. Ditemi, F. M., dopo tutto questo, non merita essa di essere chiamata virtù preziosa? Non è essa degna di tutta la nostra stima e di tutti i sacrifici necessari per conservarla? Dico che la purità viene dal cielo, perché non vi era che Gesù Cristo, capace di insegnarcela e di farcene sentire tutto il valore. Egli ci ha lasciati meravigliosi esempi della stima che ebbe per questa virtù. Avendo deciso, nella grandezza della sua misericordia, di redimere il mondo, prese un corpo mortale come abbiamo noi, ma volle scegliere una vergine per Madre. Chi fu, F. M., questa incomparabile creatura? Fu Maria santissima, la più pura di tutte, e che, per una grazia accordata a nessun’altra, fu altresì esente dal peccato originale. Ella, fin dall’età di sette anni consacrò la sua verginità a Dio e, offrendogli il suo corpo e la sua anima, gli fece il sacrificio più santo, più caro, più gradito che Dio abbia mai ricevuto da una creatura sulla terra. E lo mantenne con una fedeltà inviolabile nel custodire la sua purezza ed evitare tutto ciò che potesse anche menomamente offuscarne il candore. Quanto poi la S. Vergine stimasse questa virtù vediamo anche da questo, che ella non volle acconsentire di essere la Madre di Dio prima che l’Angelo non l’ebbe assicurata che la sua purezza non avrebbe sofferto detrimento. Ma avendole detto l’Angelo che diventando Madre di Dio, ben lungi dal perdere o dall’offuscare la sua purità, che tanto Ella stimava, diventerebbe anzi più pura e gradita a Dio, acconsentì volentieri per aggiungere nuovo splendore alla sua verginale purezza. Vediamo ancora che Gesù Cristo scelse a proprio padre putativo un uomo povero sì, ma la cui purità superò quella di ogni altra creatura, esclusa la S. Vergine. Fra i suoi discepoli ne preferì uno, al quale attestò un’amicizia e una confidenza singolare, e che mise a parte de’ suoi più grandi segreti; ma scelse il più puro di tutti, quello che si era consacrato a Dio fin dalla sua giovinezza. S. Ambrogio ci dice che la purità ci eleva fino al cielo e ci fa abbandonare la terra, quanto è possibile ad una creatura abbandonarla. Essa ci eleva al di sopra di ogni creatura corrotta, e per i suoi sentimenti ed i desideri ci fa vivere la vita stessa degli Angeli. Secondo S. Giovanni Crisostomo la castità di un’anima ha più valore dinanzi agli occhi di Dio che quella degli Angeli, poiché i Cristiani non possono acquistare questa virtù se non combattendo; mentre gli Angeli l’hanno per natura. Gli Angeli non hanno nulla da combattere per conservarla, mentre un Cristiano è obbligato di fare a se stesso una guerra continua. S. Cipriano aggiunge, che non solo la castità ci rende simili agli Angeli, ma ci dà anche un carattere di rassomiglianza con Gesù Cristo stesso. Sì, dice questo gran Santo, un’anima pura è un’immagine vivente di Dio sulla terra. – Più un’anima si distacca da se stessa, resiste alle sue passioni, più si attacca a Dio; e per un felice ricambio, più il buon Dio si attacca  a lei; Egli la custodisce e la considera come la sua sposa e la sua diletta; ne fa l’oggetto delle sue più care compiacenze e fissa in lei la sua dimora per sempre. “Beati, ci dice il Salvatore, quelli che hanno il cuor puro, poiché vedranno il buon Dio (Matth. V, 8). Secondo S. Basilio, se noi troviamo la castità in un’anima, noi vi troviamo tutte le altre virtù cristiane; essa le praticherà con una grande facilità, “perché – egli dice – per essere casti bisogna imporsi molti sacrifici e farci una grande violenza. Ma una volta riportate simili vittorie sul demonio, sulla carne, sul sangue, tutto il resto costa ben poco; perché un’anima che comanda con autorità a questo corpo sensuale, supera facilmente tutti gli ostacoli che incontra nel cammino della virtù. „ Perciò vediamo, F. M., che i Cristiani casti sono i più perfetti. Noi li vediamo riservati nelle loro parole, modesti nel loro tratto, sobrii nei pasti, rispettosi nel luogo santo, ed edificanti in tutta la loro condotta. S. Agostino paragona coloro che hanno la grande fortuna di conservare il loro cuore puro, ai gigli che s’innalzano diritti al cielo e spandono intorno un soavissimo profumo; il solo vederli ci fa pensare a questa preziosa virtù. – Così la S. Vergine ispirava purezza a tutti coloro che la guardavano… Virtù beata, F. M., è questa che ci mette nelle file degli Angeli e che sembra persino elevarci al di sopra di essi! Tutti i santi ne hanno avuto la più grande stima, ed hanno preferito perdere ogni loro bene, la loro reputazione e la stessa vita piuttosto che offuscare così bella virtù. Ne abbiamo un bell’esempio nella persona di S. Agnese. La sua beltà e le sue ricchezze l’avevano fatta chiedere in isposa, all’età di dodici anni, dal figlio del prefetto di Roma. Essa gli fece conoscere che si era già consacrata a Dio. Fu subito arrestata, sotto pretesto di essere Cristiana, ma in realtà affinché consentisse ai desideri del giovane… Era talmente unita a Dio che né le promesse, né le minacce, né la vista dei carnefici e degli strumenti disposti davanti a lei per ispaventarla, le fecero cambiare risoluzione. I suoi persecutori non potendo nulla guadagnare su di lei, la caricarono di catene e vollero metterle un giogo al collo e anelli di ferro pesantissimi alle mani: ma fu fatica sprecata; non si piegò quel collo, non cedettero quelle sottili manine innocenti. Ella restò ferma nel suo proposito in mezzo a quei lupi infuriati, ed offrì il suo corpicciuolo ai tormenti con un coraggio che stupì i carnefici. Fu trascinata ai piedi degli idoli: ed ella confessò ad alta voce che riconosceva per suo Dio soltanto Gesù Cristo e che i loro idoli non erano che demoni. Il giudice, barbaro e crudele, vedendo che nulla egli riusciva a guadagnare, pensò che Agnese sentirebbe più vivamente la perdita della purezza da lei tanto stimata, la minacciò di farla esporre in un luogo infame. Ma ella con fermezza gli rispose: “Voi potrete benissimo farmi morire, ma non potrete giammai farmi perdere questo tesoro: Gesù Cristo stesso ne è troppo geloso. „ Il giudice furente di rabbia la fece condurre in un luogo di bruttezze infernali. Ma Gesù Cristo che vegliava su di lei in modo particolare, ispirò per lei sì grande rispetto ai custodi, che questi la guardavano con una specie di terrore, e comandò ad uno dei suoi Angeli di proteggerla. I giovani che s’accostavano a quel luogo accesi di fuoco impuro, vedendo un Angelo accanto a lei, più splendente del sole, ne uscivano infiammati di amore divino. Solo il figlio del prefetto, più malvagio e corrotto degli altri, penetrò nel luogo ove era S. Agnese. Senza badare a tutte queste meraviglie, si avvicina a lei nella speranza di accontentare gli infami suoi desiderii; ma l’Angelo che custodiva la giovane martire, colpì il libertino che cadde morto ai suoi piedi. Subito si sparse per Roma la voce che il figlio del prefetto era stato ucciso da Agnese. Il padre furibondo accorse presso la Santa, e si lasciò andare a tutto ciò che il suo dolore e la sua disperazione potevano ispirargli. La chiamò furia dell’inferno, mostro nato per la desolazione della sua vita, giacché gli aveva fatto morire il figlio. S. Agnese gli rispose tranquillamente: “Perché egli volle farmi violenza, il mio Angelo gli diede la morte. „ Il prefetto un po’ raddolcito le disse: “Ebbene! prega il tuo Dio che lo faccia risuscitare, perché non si dica che l’hai fatto morire tu. „ — “Certamente, risponde la Santa, voi non meritate questa grazia; ma perché sappiate che i Cristiani non si vendicano mai, anzi, al contrario, rendono bene per male, uscite di qui, ed io pregherò il buon Dio per lui. „ Agnese si gettò in ginocchio colla faccia prostrata verso terra. Mentre pregava le apparve l’Angelo e le disse: “Fatti coraggio. „ E nel medesimo istante quel corpo esanime riprese vita. Il giovane risuscitato per le preghiere della Santa, si precipita fuori, corre per le vie di Roma gridando: “No, no, miei amici, non v’ha altro Dio che quello dei Cristiani: tutti gli dèi che adoriamo sono demoni i quali ci ingannano e ci trascinano all’inferno. „ Non ostante un sì grande miracolo, Agnese venne condannata alla morte. Allora il luogotenente del prefetto comandò che si accendesse un gran fuoco, e che vi si gettasse dentro la Santa. Ma le fiamme aprendosi non le fecero alcun male, e bruciarono invece gli idolatri accorsi per essere spettatori del suo combattimento. Vedendo che il fuoco la rispettava e non le faceva male alcuno, il luogotenente ordinò che le fosse tolta la vita con un colpo di spada che le recidesse il capo; fu visto il carnefice, uomo crudele, tremare come una foglia. I genitori di Agnese piansero la morte della loro diletta; ma ella apparve loro, dicendo: “Non piangete la mia morte, ma rallegratevi invece, perché io ho acquistata gloria ineffabile nei cieli. „ (RIBADENEIRA, 21 Gennaio). . – Vedete, F. M., quanto questa vergine ha sofferto piuttosto che perdere la sua verginità. Intendete ora la stima che dovete avere della purezza, e come Dio si compiaccia di far miracoli per mostrarsene il protettore ed il custode. Come quest’esempio confonderà un giorno quei giovani che fanno così poco conto di sì bella virtù. Essi non ne hanno mai conosciuto il pregio. Lo Spirito Santo ha dunque ben ragione di esclamare: “Quanto è bella codesta generazione pura; la sua memoria è eterna, e la sua gloria brilla davanti agli uomini ed agli Angeli. „ (Sap. IV, 1). E certo, F. M., che ciascuno ama i suoi simili; quindi gli Angeli, che sono puri spiriti, amano e proteggono in modo particolare le anime che imitano la loro purità. Leggiamo nella S. Scrittura (Tob. V-VIII) che l’Angelo san Raffaele, il quale accompagnò il giovane Tobia, gli rese mille servigi. Egli impedì che venisse divorato da un grosso pesce e strangolato dal demonio. Se questo giovane non fosse stato casto, certamente l’Angelo non l’avrebbe accompagnato e non gli avrebbe reso tanti servigi. Quanta gioia prova l’Angelo custode che è guida ad un’anima pura! Non vi ha virtù, per la conservazione della quale Dio faccia miracoli così numerosi come quelli che prodiga in favore di chi conosce il pregio della purità e si sforza di conservarla. Vedete ciò che fece per S. Cecilia. Nata a Roma da ricchissimi genitori, era assai istruita nella religione cristiana; docile all’ispirazione di Dio, consacrò a Lui la sua verginità. I genitori che nulla sapevano la promisero in isposa a Valeriano, figlio d’un senatore della città. Era, secondo il mondo, un buonissimo partito. Ella domandò ai genitori il tempo di pensarvi; e passò questo tempo nel digiuno, nella preghiera, nelle lagrime, per ottenere da Dio la grazia di non perdere il fiore di quella virtù che ella stimava più della vita. Dio le rispose di nulla temere, e di obbedire ai suoi genitori; poiché non solo non perderebbe questa virtù, ma convertirebbe colui che ella avrebbe sposato … Acconsentì adunque al matrimonio. Il giorno delle nozze, allorché Valeriano si presentò, gli disse: “Mio caro Valeriano, ho un segreto da comunicarvi. „ Quegli rispose: “Qual è questo segreto?„ — “Ho consacrata la mia verginità a Dio, e giammai uomo alcuno mi toccherà, perché io ho un Angelo che veglia alla custodia della mia purità, e se voi tentaste qualche cosa, egli vi colpirebbe di morte. „ Valeriano fu assai sorpreso di questo linguaggio perché, pagano, nulla comprendeva di tutto ciò. E soggiunse: “Fatemi vedere quest’Angelo, il quale vi custodisce. „ Replicò la santa: “Per ora voi non potete vederlo perché siete pagano. Andate, a mio nome, da Papa Urbano, e domandategli il battesimo; poi vedrete il mio Angelo. ,, Valeriano partì subito. Dopo essere stato battezzato dal Papa ritornò presso la sposa, ed entrando nella camera di lei, scorse l’Angelo che vegliava su S. Cecilia. Lo vide sì bello, sì raggiante di gloria che ne fu abbagliato e commosso. Non solo egli permise alla sua sposa di restare consacrata a Dio, ma egli pure fece voto di verginità… Essi ebbero ben presto, l’una e l’altro, la felicità di morire martiri (RIBADENEIRA, 22 Novembre). Vedete dunque, come Dio prende cura di chi ama questa incomparabile virtù e si adopera di conservarla? Leggiamo nella vita di S. Edmondo (RIBADENEIRA, 16 Nov. S. Edmondo era arcivescovo di Cantorbery), che essendo egli a studiare a Parigi, si trovò una volta con persone le quali tenevano discorsi osceni: egli le abbandonò subito. Questo atto fu così gradito a Dio, che gli apparve sotto la forma di un bel fanciullo e lo salutò con aria graziosissima, dicendogli che con soddisfazione l’aveva visto abbandonare i compagni che tenevano discorsi licenziosi; e per ricompensarnelo gli promise che starebbe sempre con lui. Di più, S. Edmondo ebbe la somma ventura di conservare la sua innocenza sino alla morte. Quando S. Lucia andò sulla tomba di S. Agata per domandare a Dio, per intercessione di lei, la guarigione della madre, santa Agata le apparve e le disse che ella da sola poteva ottenere ciò che domandava, perché colla sua purità aveva preparato nel cuore una dimora graditissima al suo Creatore (RIBADENEIRA, 5 Febbr.). Questo ci mostra che il buon Dio nulla può rifiutare a chi ha la somma ventura di conservare puri il corpo e l’anima… Ascoltate il racconto di ciò che accadde a S. Potamiena, che viveva nel tempo della persecuzione di Massimiano (RIBADENEIRA, 28 Giugno). Questa giovinetta era schiava di un padrone corrotto e libertino che non cessava di sollecitarla al male. Essa preferì soffrire ogni sorta di crudeltà e di supplizi piuttosto che acconsentire alle sollecitazioni dell’infame padrone. Questi vedendo che nulla poteva ottenere, infuriato la consegnò, quale Cristiana, nelle mani del governatore, al quale promise una grande ricompensa se riusciva a guadagnarla. Il giudice fece condurre la vergine davanti al suo tribunale, e vedendo che tutte le minacce non le facevano mutar decisione, le fece patire tutto ciò che la rabbia poté ispirargli. Ma Dio, che giammai abbandona chi a Lui si è consacrato, diede alla martire tanta forza che ella sembrava insensibile a tutti i tormenti. L’iniquo giudice non potendo vincere la sua resistenza, fece mettere su un ardentissimo fuoco una caldaia ripiena di pece e disse alla martire: “Guarda ciò che ti si prepara se non ubbidisci al tuo padrone. „ La santa giovinetta senza turbarsi rispose: “Io preferisco soffrire tutto quanto il vostro furore potrà ispirarvi, piuttosto che obbedire alla infame volontà del mio padrone; del resto io non avrei mai creduto che un giudice fosse così ingiusto da voler farmi obbedire ai capricci di un padrone corrotto. „ Il tiranno irritato da questa risposta, ordinò che fosse gettata nella caldaia. “Almeno comandate, gli disse essa, che io vi sia gettata vestita. Vedrete quale forza il Dio che noi adoriamo dà a chi soffre per Lui. „ Dopo tre ore di supplizio, Potamiena rese la bell’anima al suo Creatore, e così riportò la doppia palma del martirio e della verginità. Ahimè! F. M., quanto poco questa virtù è conosciuta nel mondo, quanto poco noi la stimiamo, quanto poco ci curiamo di conservarla, quanto poca premura abbiamo di domandarla a Dio, giacché non possiamo averla e conservarla da noi stessi. No, noi non conosciamo questa bella ed amabile virtù, che guadagna così facilmente il cuore di Dio, che dà così vivo splendore a tutte le nostre opere buone, che ci eleva al di sopra di noi stessi, che ci fa vivere sulla terra come gli Angeli in cielo!… No, F . M., essa non è conosciuta da quei vecchi infami impudici che si trascinano, si avvoltolano, si tuffano nel fango delle loro turpitudini, il cui cuore rassomiglia a quei… sull’alto delle montagne… arsi e divorati dai loro fuochi impuri. Ahimè! lungi dal cercare di estinguerlo, essi non cessano di alimentarlo e di accenderlo in se stessi coi loro sguardi, coi loro pensieri, coi desideri, colle azioni. In quale stato si troverà quell’anima quando comparirà davanti a un Dio, che è la stessa purità? No, F. M., questa bella virtù non è conosciuta da colui, le cui labbra sono come il canale, lo scolo, di cui l’inferno si serve per vomitare le sue impurità sulla terra; e che se ne nutrisce come di un pane quotidiano. Ahimè! Quella povera anima non è più che un orrore pel cielo e per la terra. No, F. M., non è conosciuta questa amabile virtù da quei giovani i cui occhi sono insozzati di sguardi innominabili, e le cui mani… O Dio, quante anime questo peccato trascina all’inferno… No, F. M., questa bella virtù non è conosciuta da quelle giovani mondane e corrotte che usano tante cure e precauzioni per attirare su di sé gli sguardi del mondo; che, coi loro abbigliamenti ricercati ed indecenti annunciano pubblicamente di essere infami strumenti, di cui l’inferno si serve per perdere le anime, quelle anime che a Gesù Cristo hanno costato tante fatiche, tante lacrime e tanti tormenti!… Guardatele, quelle disgraziate, e vedrete che mille demoni circondano la loro testa ed il loro petto. O mio Dio, come può la terra sopportare queste cooperatrici dell’inferno? E, cosa ancor più strabiliante, come possono le madri tollerarle in uno stato indegno di una Cristiana! So io non temessi di andar troppo lontano, direi a queste madri che esse non valgono di più delle loro figlie. Ahimè! quel cuore disgraziato e quegli occhi impuri non sono che una sorgente avvelenata, che dà la morte a chi le guarda o le ascolta. Come osano simili mostri presentarsi davanti ad un Dio santo e così nemico dell’impurità? Ahimè! la loro povera vita non è altro che un mucchio di untume, che esse accumulano per alimentare il fuoco dell’inferno per tutta l’eternità. Ma, F. M., abbandoniamo una materia così disgustosa e ributtante per un Cristiano, la cui purità deve imitare quella di Gesù Cristo stesso; e ritorniamo alla nostra bella virtù della purezza, che ci eleva fino al cielo, che ci apre il cuore adorabile di Gesù Cristo, ed attira su noi ogni sorta di benedizioni spirituali e temporali.

II. — Ho detto, F. M., che questa virtù ha un grande pregio agli occhi di Dio; aggiungo che essa non manca di nemici, i quali si sforzano di farcela perdere. Possiamo anzi dire che quasi tutto quanto ci circonda lavora a rubarcela. Il demonio è uno dei nostri più accaniti nemici. Siccome egli vive nella laidezza dei vizi impuri, sa che non vi è peccato che tanto oltraggi il buon Dio, e conosce quanto gli è gradita un’anima pura; così ci tende ogni sorta di insidie per toglierci questa virtù. D’altra parte, anche il mondo che cerca solo i suoi comodi ed i suoi piaceri, lavora anch’esso a farcela perdere pur fingendo sovente di mostrarci amicizia. Ma possiamo dire che il nostro più crudele e pericoloso nemico siamo noi stessi, cioè la nostra carne, che essendo già stata guastata e corrotta dal peccato di Adamo, ci porta con una specie di furore alla corruzione. Se noi non ci teniamo continuamente in guardia, essa ben presto ci abbrucerà e divorerà colle sue fiamme impure. — Ma, mi direte voi, giacché è così difficile conservare questa virtù, tanto preziosa agli occhi di Dio, che cosa bisogna dunque fare? — F. M., eccovi i mezzi. Il primo, è quello di vegliare attentamente sui nostri occhi, sui nostri pensieri, sulle parole, sulle azioni; il secondo, di ricorrere alla preghiera; il terzo, di frequentare spesso e degnamente i Sacramenti; il quarto, di fuggire tutto quanto può portarci al male; il quinto, di avere una grande devozione alla Ss. Vergine. Se noi facciamo ciò, malgrado tutti i nostri nemici, o malgrado la fragilità di questa virtù, possiamo essere sicuri di conservarla.

1° Dobbiamo anzitutto vegliare sui nostri sguardi; di ciò non vi ha dubbio, poiché noi vediamo che tanti sono caduti in peccato per un solo sguardo e non si sonoo più rialzati. Non permettetevi mai la menoma libertà senza una vera necessità. Soffrite qualche incomodo piuttosto che esporvi al peccato…

2° S. Giacomo ci dice che questa virtù viene dal cielo e che giammai l’avremo se non la domandiamo al buon Dio. Dobbiamo dunque spesso domandare a Dio di darci la purità degli occhi, delle parole, di tutte le nostre azioni.

3° In terzo luogo se vegliamo conservare questa bella virtù, dobbiamo spesso e degnamente frequentare i Sacramenti, senza di che, non avremo mai tale preziosa fortuna. Gesù Cristo non ha istituito il sacramento della Penitenza per rimettere solo i nostri peccati, ma anche per darci la forza di combattere il demonio; ciò che è facilissimo a comprendersi. Chi è colui che avendo fatto oggi una buona confessione potrà lasciarsi trascinare dalla tentazione? Il peccato, anche con tutte le sue seduzioni gli fa orrore. Chi è colui che essendosi comunicato da poco, potrà acconsentire, non dico ad un’azione impura, ma ad un solo cattivo pensiero? Ah! il divin Gesù, che ha stabilito la dimora nel suo cuore, gli fa troppo ben comprendere quanto questo peccato è infame, quanto gli dispiaccia e come l’allontani da Lui. Sì, F. M., un Cristiano che degnamente frequenta i Sacramenti può ben essere tentato; ma peccare è per lui un’altra cosa. Infatti, quando noi abbiamo la somma ventura di ricevere il Corpo adorabile di Gesù Cristo, non sentiamo dentro di noi estinguersi questo fuoco impuro? Quel Sangue adorabile che scorre nelle nostre vene, può forse fare a meno di purificare il nostro sangue? Quella Carne consacrata che si mescola colla nostra, in certo qual modo non la divinizza? Il nostro corpo non sembra ritornare nel primo stato, in cui era Adamo prima del peccato? Ah! Questo Sangue adorabile, che ha generato tanti vergini.. (Vinum germinans virgines. Zach. IX, 171). Stiamo ben certi, F. M., che, se non frequentiamo i Sacramenti cadremo ad ogni istante nel peccato. Dobbiamo altresì, per difenderci dal demonio, fuggire le persone che ci possono portare al male. Vedete ciò che fece il casto Giuseppe, tentato dalla moglie del suo padrone: le lasciò il mantello nelle mani, e fuggì per salvare la sua anima (Gen. XXXIX, 12) . I fratelli di S. Tommaso d’Aquino non potendo soffrire che egli si consacrasse a Dio, per impedirnelo, lo chiusero in un castello, e vi fecero venire una donna di cattiva vita per tentare di corromperlo. Vedendosi posto ad estremo cimento dalla spudoratezza di quella cattiva creatura, prese un tizzone in mano e la cacciò vergognosamente dalla sua camera. Avendo visto il pericolo al quale era stato esposto, pregò con tante lagrime che il buon Dio gli accordò il prezioso dono della continenza, cioè non fu mai più tentato contro questa bella virtù (RIBADENEIRA, 7 Marzo). – Vedete ciò che fece S. Girolamo per avere la fortuna di conservare la purezza; vedetelo nel suo deserto, abbandonarsi a tutti i rigori della penitenza, alle lagrime ed a macerazioni che fanno fremere (Vita dei Padri del deserto).

2. Questo gran santo ci racconta (S. Hieron, Vita S. Pauli, primi eremitæ.) la vittoria che riportò un giovane in un combattimento, forse unico nella storia, al tempo della persecuzione, che l’imperatore Decio scatenò contro i Cristiani. Il tiranno dopo aver sottoposto questo giovane a tutte le prove, che il demonio poté suggerirgli, pensò che se gli faceva perdere la purezza, allora più facilmente lo indurrebbe a rinunciare alla vera religione. Con questo intendimento comandò che il giovane fosse condotto in un giardino di delizie, in mezzo ai gigli ed alle rose, vicino ad un ruscello che scorreva con lieve mormorio e sotto alberi agitati da un leggero venticello. Là fu messo su di un letto di piume, vi fu legato con funicelle di seta e fu lasciato solo. Si fece poi venire una cortigiana vestita riccamente, ed anche il più indecentemente possibile. Essa cominciò a sollecitarlo con tutta la spudoratezza e tutte le lusinghe che la passione può ispirare. Il povero giovane, che avrebbe dato mille volte la vita piuttosto che macchiare la purezza della sua bell’anima, si vedeva senza difesa, poiché aveva mani e piedi legati. Non sapendo più come resistere agli attacchi del piacere, spinto dallo spirito di Dio, si taglia la lingua coi denti, e la sputa in faccia alla donna. Il che vedendo, questa si confuse talmente che fuggì. Questo fatto ci mostra che mai il buon Dio ci lascerà tentare al di sopra delle nostre forze. – Vedete ancora quanto fece S. Martiniano, che viveva nel IV secolo (Ribadeneira, 13 Febbr.). Dopo aver vissuto venticinque anni nel deserto, fu esposto ad un’occasione assai prossima di peccato. Di già aveva acconsentito col pensiero e colle parole. Ma il buon Dio venne in suo soccorso, e gli toccò il cuore. Concepì egli un così vivo pentimento che, rientrato nella cella, accese un gran fuoco e vi mise dentro i piedi. Il dolore che provava, ed il rimorso del suo peccato, gli facevano mandare grida dolorosissime. Zoe, quella cattiva donna che era venuta per tentarlo, accorse alle sue grida, e ne fu così commossa che, invece di pervertirlo, si convertì. Ella passò tutto il resto di sua vita nelle lacrime e nella penitenza. S. Martiniano restò sette mesi steso a terra e immobile, poiché i suoi piedi erano bruciati. Quando fu guarito si ritirò in un altro deserto, dove non fece che piangere per tutto il resto della sua vita, al ricordo del pericolo che aveva corso di perdere la sua anima. Ecco, F. M., ciò che facevano i Santi; ecco i tormenti che essi hanno patito piuttosto di perdere la purezza della loro anima. Ciò forse vi stupisce; ma dovreste piuttosto stupirvi del poco conto in cui avete questa bella ed incomparabile virtù. Ahimè! Questo deplorevole disprezzo di sì bella virtù dipende da ciò che non ne conosciamo il pregio! Finalmente dobbiamo avere una grande divozione alla Ss. Vergine, se vogliamo conservare sì bella virtù; di ciò non v’ha dubbio alcuno, poiché essa è la Regina, il modello, la protettrice dei vergini… S. Ambrogio chiama la S. Vergine la padrona della castità; S. Epifanio la chiama la principessa della castità, e S. Gregorio la regina della castità… Ecco un esempio che ci mostrerà la grande cura che prende la Ss. Vergine della castità di coloro che hanno confidenza in Lei, al punto che non sa mai nulla rifiutare di quanto essi le domandano. Un gentiluomo che aveva una grande devozione alla Ss. Vergine aveva fatto fare una piccola cappella in suo onore in una camera del castello che egli abitava. Nessuno sapeva dell’esistenza di questa cappella. Ogni notte, dopo alcuni momenti di sonno, e senza avvertire la moglie, si alzava, per andare dinanzi alla Ss. Vergine e restarvi sino al mattino… La sua moglie n’ebbe gran dispiacere perché credeva che uscisse per andar a trovare qualche donna di cattiva vita. Un giorno non potendo più resistere, gli disse che s’era accorta ch’egli le preferiva un’altra donna. Il marito, pensando alla Ss. Vergine, le rispose affermativamente. Ciò l’afflisse in modo tale, che non vedendo alcun cambiamento nella condotta del marito, si uccise. Il marito al ritorno dalla sua cappella, trovò la moglie immersa nel proprio sangue. Estremamente afflitto a quella vista, chiude a chiave la porta della camera, ritorna nella cappella della Ss. Vergine, e tutto piangente si prostra davanti alla sua immagine esclamando : “Voi vedete, Ss. Vergine, che mia moglie si è data la morte, perché io veniva di notte a tenervi compagnia ed a pregarvi. Nulla è per voi impossibile, giacché il vostro Figlio vi ha promesso che non vi negherà mai nulla. Vedete che la mia povera moglie è dannata; la lascerete voi tra le fiamme, giacché a causa della mia devozione per Voi nella sua disperazione ella si uccise? Vergine santa, rifugio degli afflitti, rendetele, per carità, la vita; mostrate che Voi volete far del bene a tutti. Io non uscirò di qui prima che mi abbiate ottenuto questa grazia dal vostro divin Figliuolo. Mentre era assorto nelle lagrime e nelle preghiere, una serva che andava in cerca di lui, lo chiamò, dicendo che la padrona lo desiderava. Le rispose: “Siete ben sicura che ella mi chiama? „ — “Udite la sua voce, „ replica la fantesca. Il giubilo del gentiluomo era sì grande che egli non poteva allontanarsi dalla S. Vergine. Finalmente si alzò piangendo di gioia e di riconoscenza. Ritrovò la moglie in piena salute; e delle ferite non le restavano che le cicatrici, affinché non perdesse mai il ricordo di un tal miracolo operato dalla protezione della Ss. Vergine. Vedendo essa entrare il marito l’abbracciò dicendo: “Ah! amico mio, vi ringrazio di aver avuto la carità di pregare per me. Io era nell’inferno e condannata a bruciare eternamente, perché mi ero data la morte. Ringraziamo dunque insieme la Vergine santa che mi ha strappato da un tale abisso. Ah! quanto si soffre in quel fuoco! chi potrà dirlo e soprattutto comprenderlo?„ Fu così riconoscente di questo prodigioso favore, che passò tutta la vita nelle lagrime, nella penitenza e non poteva raccontare la grazia che la Vergine le aveva ottenuto dal suo divin Figlio senza piangere a calde lagrime. Avrebbe voluto far sapere a tutti quanto la Ss. Vergine è potente per soccorrere coloro che in Lei confidano.  – M. F., se la Ss. Vergine ha il potere dì strappare le anime perfino dall’inferno, potremo dubitare che Ella non ci ottenga le grazie che le domanderemo; noi che siamo sulla terra, dove si esercitano la misericordia del Figlio e la compassione della Madre? Quando abbiamo qualche grazia da domandare al buon Dio, rivolgiamoci adunque con gran confidenza alla Ss. Vergine e saremo sicuri di essere esauditi. Vogliamo toglierci dal peccato, F. M.? andiamo a Maria: essa ci prenderà per mano e ei condurrà al suo Figliuolo per ricevere il perdono. Vogliamo perseverare nel bene? Indirizziamoci alla Madre di Dio; essa ci coprirà col manto della sua protezione, e tutto l’inferno nulla potrà contro di noi. Ne volete la prova? Eccola: leggiamo nella vita di S. Giustina, (RIBADENEIRA 26 SETT.) che avendo un giovane concepito un grande amore per essa, e vedendo che nulla poteva guadagnare colle sue premure, ricorse ad un certo Cipriano, che aveva relazioni con il demonio. Gli promise una somma di danaro se induceva Giustina ad acconsentire a quanto egli desiderava. Subito dopo la giovinetta si sentì fortemente tentata contro la santa virtù della purità; ma quando il demonio la sollecitava, subito ella ricorreva alla Ss. Vergine. Tosto il demonio fuggiva. Avendo il giovane domandato, perché  non poteva guadagnare la giovinetta, Cipriano si rivolse al demonio stesso e gli rimproverò il suo poco potere in quella circostanza, mentre in simili casi aveva sempre potuto coronare i suoi disegni. Il demonio gli rispose: “È vero, ma essa ricorre alla Madre di Dio; e da quando ella prega io perdo le mie forze e non posso più nulla. „ Cipriano stupito che una persona che ricorreva alla Ss. Vergine fosse così terribile a tutto l’inferno, si convertì e morì da santo dando la vita per Gesù Cristo. – Finisco, dicendo che se vogliamo conservare la purità d’animo e di corpo, ci occorre mortificare la nostra fantasia; e non lasciare mai che si aggiri nella nostra mente il pensiero di quegli oggetti che ci conducono al male, o procurare di non essere mai occasione di peccato agli altri, sia colle parole, sia col modo di vestirci, massime se trattasi di persone di altro sesso. Se noi ne vediamo alcuna indecentemente vestita, dobbiamo presto allontanarcene, e non fare come coloro che hanno occhi impudici, e vi si soffermano finché il demonio lo vuole. Bisogna mortificare le nostre orecchie; e non dilettarci mai di sentire parole o canzoni oscene. Ah! mio Dio, come mai avviene che padri e madri, padroni e padrone, che ascoltano nelle serate canzoni le più infami e vedono commettersi azioni che farebbero orrore agli stessi pagani, possano tollerarle senza dir nulla, sotto pretesto che sono fanciullaggini? Ah! disgraziati, il buon Dio vi aspetta al gran giorno delle vendette! Ahimè! Quanti peccati i vostri figli ed i vostri servi avranno commesso per causa vostra! Beati, ci dice Gesù Cristo, quelli che hanno il cuor puro, poiché vedranno Dio. „ Quanto sono felici coloro che hanno la somma ventura di possedere questa virtù! Non sono essi gli amici di Dio, i diletti degli Angeli, i figli prediletti della Ss. Vergine? Domandiamo spesso al buon Dio, F. M.. per l’intercessione di questa Ss. Madre di darci un’anima ed un cuore puro, un corpo casto; ed avremo la fortuna di piacere a Dio durante la nostra vita, e di andarlo a glorificare per tutta l’eternità: ciò che vi auguro…

IL SEGNO DELLA CROCE (1)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX

PER

Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

In hoc signo vinces.

TORINO TIP. DELL’ORAT. DI S. FRANC. DI SALES – 1864.

INTRODUZIONE DEL TRADUTTORE

Mille fiori olezzanti profumo di puro cattolicismo, nascono nel seno della famiglia cristiana, e smaltano qua e là il terreno sociale: nobilissimi esempi d’individuale abnegazione, mostra l’individuo nel combattere le battaglie del Signore; ma fra questi smalti e sacrifizi, un fatto doloroso si attua, di che il solo pensiero dovrebbe far tremare i polsi. Questo fatto comincia ed agogna alla sua attuazione completa, e solo, chi ha interesse a nasconderlo, può dissimularlo: ma, se v’ha intelligenza che milita per la verità, ed un cuore tenero degl’interessi della umana famiglia, non può tenersi dal disvelarlo, e gridare ai contemporanei: La società torna al paganesimo! – I contemporanei a questo grido restano attoniti; ma ripensando poi si domandano: Possibile! A mezzo il secolo XIX tornare al paganesimo? Se lo si affermasse di altri tempi, lo si potrebbe ben credere: ma ai tempi nostri è incredibile. Gl’idoli ingombrano i nostri musei a ricordarci i tempi che furono, e ci eccitano a commiserazione per la umana intelligenza orba per manco di evangelico lume. Noi tornare agli idoli? l’è grossa esagerazione questa!  Ciascuno dissimula a sua posta il male che gli angoscia l’animo, e cerca con gl’impossibili immaginari, ritardare l’arrivo di quanto dispiacevolmente si avanza a furia. Così la società moderna, perché l’idolo di Moloc e di Baal, e le sfingi di Babilonia la muovono a riso per le sproporzionate ed orride forme, credesi sì ferma da non poter tornar con l’animo all’ossequio dell’idea e del principio, che rendeva tali mostri oggetto di profonda venerazione. La società è in inganno! Non è mestieri d’idoli manofatti per paganizzare la coscienza sociale. La società era pagana innanzi la mano dell’uomo formasse idoli per prestare ad essi divini onori. Il paganesimo è la negazione della incarnazione del Verbo e del soprannaturale; è circoscriversi nelle sole cerchia del naturale, è il predominio dell’errore sulla verità, del male sul bene, della carne sullo spirito, è il regno di satana. É paganesimo l’adorazione di tutto ciò che non è il vero Dio; l’adorare tutto sé stesso, o una parte di sé, un principio, una formola, che non è da Dio, e che a Lui non meni, è paganesimo: Omnis forma, vel formula idoium se dici potest. Jdolum tam fieri, quam coli Deus prohibet (Principale crimen generis humani, summus saeculi realus, tota causa iudicii Idololalria. Idolum aliquandiu retro non erat. Priusquam huiusmodi artifices ebullis-sent, sola tempia et vacuae aedes erant…. Taraen ido-lolatria agebalur, non isto nomine, sed in isto opere. Nam et hodie extra templum et sine idolo agi potest. Inde idololalria omnis circa omne idolum famulatus et ser-vilus dici potest. Igitur omnis forma vel formula idolum se dici potest. Idolum tam fieri quam colere Deus pro-liibet. Tertul. De Idol. c. I, II, III).

Se tale è il paganesimo nella sua essenza spogliato delle diverse forme esteriori di che l’uomo l’ha rivestito lungo il corso de’ secoli, come potrà negarsi che la società contemporanea corra al paganesimo, ed agogni pervenirvi? Di fatti, la società civile cristiana si distingue dalla cinese, dalla indiana, da qualunque altra pagana, da che nella coscienza pubblica sociale si è introdotto lo Dio de’ Cristiani come giudice del giusto e dell’ingiusto, introduzione fattavi dal Cristo, e continuata dal suo Vicario, tale essendo l’economia del vero Cristianesimo. Il perché se una società politica toglie a suo diritto pubblico principi che non mettono capo al Cristo redentore, e rivelatore della giustizia divina, tale società rigetta il principio cristiano sociale ed è già pagana. Che se vuole ritenerne soli alcuni pel suo torna a conto, rigettandone altri, fuorvia, s’incammina al rifiuto completo del principio cristiano, e per esso al paganesimo; poiché tutto il criterio della giustizia sociale cristiana dev’essere illuminato e santificato dalla dottrina del Cristo. Ora la società moderna è tutta nel negare il soprannaturale, come si rivela allo sguardo non clericale, ma protestante di chi pose pure la sua mano a farla qual è (Guizot l’Eglise e la Société Chrétienne ch. IV; Le surnaturel.). La negazione soprannaturale è la eresia contemporanea (Gaume Trait du S. Esprit chap. L L’Esprit du bien et l’Esprit du mal). La società ripudia il soprannaturale, adora sé stessa, e questa apostasia l’ha formolata dicendo: La società farà da sè, il soprannaturale è da esserne eliminato; la secolarizzazione assoluta, universale è la sua vita. Valedita la dottrina del Cristo, corre per un lume che la guidi, e lo ritrova nella propria scienza, della quale lasciamo ad altri accennare i caratteri.  – « Oltre la guerra diretta e dichiarata al » soprannaturale, un altro male attacca il cuore stesso della religione cristiana, il  paganesimo » (Guizot. l’Eglise e la société Chret. chap. IV.). Ecco frattanto dove siamo, e dove il vento del secolo vuol condurci. Non si tenta punto di ricondurci a questa o quella forma d’idolatria che hanno eretto in divinità gli eroi del genere umano, o le grandi facoltà dell’uomo, o le forze della natura; ma si vuole, che noi lasciamo il Dio della Bibbia e del Vangelo, il Dio primitivo, indipendente, personale, distinto ed autore dell’uomo e del mondo; ci si dimanda di accettare per completa religione un Dio astratto, ch’è altresì d’invenzione umana, poiché non è che l’uomo ed il mondo confuso e trasformato in Dio da una scienza che si crede profonda, e che vorrebbe non essere empia. In luogo del Cristianesimo vero, della sua storia e de’ suoi dogmi, le sue grandi soluzioni di nostra natura, ci si propone il panteismo, lo scetticismo, gl’imbarazzi della erudizione (Idem: cap. V; Le deux Dieux.) ». Ecco la scienza regolatrice della società: 1’ateismo scientifico! Epperò non è da meravigliare se studiando 1’organismo sociale si trovi il predominio della carne sullo spirito, del bene utile sull’onesto; che la finanza n’è la suprema legge di modo, che il sig. Havet, uno de’ panegiristi di Renan, non ha avuto difficoltà di annunziare alla intelligenza contemporanea, che la economia è già tale da divenire la religione della società contemporanea. La science économique est bien prète d’ètre tante la réligion d’auojurd’ hui. (la scienza economica è prossima ad esserela religione di oggi). – Che se delle singole parti della società volessimo discorrere, noi non le troveremmo meno pagane. Le divine ragioni nelle famiglie sono distrutte. La più sacra delle unioni è divenuta un contratto, che né il Dio del Sinai, né quello del Golgota hanno sancito, ma che un capriccio femmineo può sciogliere; quella vergine che qual candida colomba veniva tratta dalla casa paterna, potrà tornarvi cacciata dalla maritale dimora, per cedere ad altra, il rendere, per qualche tempo, felice un cuore! Si vuole rendere libera la donna alla pagana, sottraendola alle catene dell’amore cristiano di un solo uomo, per darle la libertà di essere di tutti. Bella libertà del matrimonio civile e del divorzio! E l’educazione? Non è questa pagana, non è l’emula della Stòa, dell’Accademia e del Peripato, anziché delle scuole di Clemente, Panteno, Cassiodoro? Queste aspirazioni sociali al paganesimo si rivelano in certe opere che tendono alla riabilitazione di satana, principe del mondo pagano. M. Renan, innanzi negasse la divinità di Cristo, impietositosi della sconfitta riportata da satana, lo chiama sventurato rivoluzionario! Uno de’ suoi maestri, Schelling in Alemagna, è andato più innanzi. Non solo ha fatto di satana una creatura ordinata, ma lo ha elevato alla natura divina, perché Cristo-Dio dovea avere un competitore degno di sè (N. Moëller. De l’état de la Philosophie en Allemagne, pag. 211, Satanalogie de Scelling.). Michelet, or sono trent’ anni, dall’alto della sua cattedra di filosofia della storia di Parigi, previde questa ascensione satanica, e nella Sorcière se n’è reso storiografo, narrandoci i trionfi di satana sul Cristo (Introduction i l’histoire unioerseile, pag. 10 et 40 edit. de Paris). Conformemente a questi principii, Quinet trova in satana il principio da riunire tutti i cuori (De Schamps Le Christ et les Antéchrist, vol. 2, pag. 43); e Prudhon vuole sostituirlo all’inconseguente riformatore, che fu crocifìsso (La Révolution au XIX siècle, pag. 290, 591). Tralasciamo le bestemmie di altri molti, le quali, se fossero fatto segno alla pubblica riprovazione, e, se le opere che le contengono venissero sepolte nella oscurità, accennerebbero solo alla esistenza di matti e blasfemi scrittori; ma il numero de’ lettori e degli encomiatori di esse è tale, da metterci in pensieri, e rivelarci le tendenze della società. Tanto più, che le simpatie per tali principi ricevono puntello e spiegazione da pratiche sì conformi a talune del paganesimo, che ad accennarle è mestieri usare delle voci, con che Tertulliano le nominava, di esse facendo rimprovero a’ pagani de’ tempi suoi. I nostri pretesi mediums, sarebbero designati da lui col nome di genii: Genii deputantur, quod dæmonum nomen est (Tertull. De anima, cap. XI); le nostre tavole parlanti e rotanti, multa miracula circulatoriis praestigiis ludunt et capræ et mensæ divinare consueverunt, il nostro sonnambulismo ed ipnotismo, somnia immittunt; il nostro spiritismo, phantasmata edunt, et iam defunctorum infamant animus (Idem: Apolog. cap. XXIII). Possiamo noi non affermare che la società contemporanea agogni tornare al paganesimo, e che verso di esso cammina? Qual forza umana potrà contrapporre una diga a questo torrente che cerca trasportare l’umanità? E come ostare a questo risuscitarsi del paganesimo? Quando il primitivo paganesimo fu da satana introdotto nel mondo, quanto di più santo era in esso, fu mezzo e simbolo della sua tirannica occupazione, e della sua vittoria. La vergine accolse la tentazione di esser rubelle: il legno venne fatto oggetto de’ suoi desideri, e la morte accorse a coprire di funereo velo l’uomo conquiso alla tirannide satanica. La vergine, il legno, e la morte furono il triplice trofeo del vincitore (S. Gioan. Gris. Homil. de coemeterio et cruce: Per quæ diabolus vicerat, per eadem Christus eumdetn devicit, et acceptis, quibus usus fuerat, armis eum dehellavit. Et quomudo? Audi, virgo, lignum, et mors cladis nostræ fuerunt symbola. Virgo erat Eva. Lignum erat arbor. Mors erat mulcta Adami. Attende vero, rursus virgo, et lignum et mors simbola extiterunt cladis, et victoriæ quidem symbola. Nam loco Evæ est Maria: loco ligni scientiæ boni et mali, lignum Crucis: loco mortis Adami mors Ghristi. Vides eum, per quem vicit, per eadem et victum esse). Ma la vergine, il legno e la morte doveano essere il trofeo della sua sconfitta! Percorriamo la storia della dominazione satanica prolungatosi dall’Eden al Golgota, e quivi di nuovo troveremo la vergine, il legno e la morte. Una nuova Vergine ascende il monte per schiacciare a pie dell’albero il capo all’insidiatore della vergine Eva, e cancellare in sé l’onta, che nella prima vergine avea bruttata la dilicata metà della specie umana. Il legno della scienza del male è abbattuto da quello della croce, per fulgore di luminoso insegnamento, non di fallibile umana ragione, ma di divina, rivelatrice e maestra di verità. La morte fu distrutta; il Cristo spirando sul legno, vivificò a novella vita il vecchio Adamo morto a pie dell’albero. Se la storia de’ trionfi di satana e delle sue sconfitte, e quella de’ mezzi e de’ simboli di esse, dev’essere nostra guida a conoscere la fine delle ovazioni, che satana cerca ottenere nella umanità lungo il corso de’ secoli; noi siamo condotti ad affermare provvidenziale l’opera del Gaume: Il segno della croce al secolo XIX! Questa non solo accenna allo stremarsi della ovazione, a che agogna satana col suscitare novello paganesimo, ma somministra altresì mezzo a portarne trionfo. La vergine difatti, il legno e la morte vedemmo al principio della dominazione satanica, ed allo spirare di essa. Ora in questa passeggiera forma del continuo sforzo di satana a riconquistare il perduto dominio, troviamo di nuovo il legno e la morte riunito alla vergine. La vittoria è nostra! La Vergine al presente si mostra sfolgorante di luce, ed in tutta l’espressione del suo potere a schiacciare l’antico serpente, perché il piede che lo preme è dommaticamente della Vergine Immacolata. Il secolo XIX s’è trasportato nell’Eden ed ha fatto della propria voce eco a quella di Dio, e per la bocca del Sommo Pontefice Pio IX, ha ripetuto L’inimicitias ponam inter te et mulierem; e satana sperimenterà Ypsa conteret caput tuum; e lo stesso agitarsi di lui accenna ad una forza, che lo contrista e combatte, contro cui cerca difendersi con nuovi inganni. Ma questi saranno vinti, che contro ad essi, di unita alla Vergine, si levano di nuovo il legno e la morte. Il chiarissimo scrittore del primo, narra le antiche e sempre nuove glorie, i continui trionfi, spiega il magistero di esso, lo rileva dall’oblio profondo in che l’hanno le menti cristiane, e questo griderà all’individuo, alla famiglia, alla società protestante, pagana che sia:

Figli della polvere, il segno della croce è un segno divino che ci nobilita; vi moriva il Figlio di Dio. Matth.. XXVII, 54.  

Ignoranti, la croce è un libro che c’istruisce; vi moriva la Sapienza di Dio. Ad Cor. I, c. I, 24.

Poveri, la croce è un tesoro che ci arricchisce; vi moriva il costituito Erede dell’universo. Ad Hebr. I, 2.

Soldati, la croce è un’arma che dissipa l’inimico; vi moriva il condottiero del popolo di Dio. Matth.II, 6.

Non ti sembra, lettore, sentire l’eco dell’in hoc signo vinces? E questo eco si rimuterà in grido di vittoria, poiché il legno abbatterà tutti i mezzi di che satana usa a risuscitare il paganesimo. Questo secolo che ha vergogna di avere la religione della croce nelle sue leggi e nelle sue instituzioni, dovrà apprendere che nella croce è la vera gloria. A questo secolo scienziato ed ammaestrato da’ mediums, i quali insegnano che, Mose ha coltivato, il Cristo ha seminato, e lo spiritismo raccoglierà, e che lo spiritismo viene a stabilire fra gli uomini il segno della carità e della solidarietà annunziata da Cristo (Alan Kardéc : Le Spiiiìitme à sa plus simple expression pag. 24); a questo secolo sarà ripetuto. « La croce è l’antico libro! » Questo secolo materialista, che tutto proporziona col lucro materiale, e che al peso dell’oro fa sottostare la forza de’ principii, dovrà sentire. « La povertà della croce è vera ricchezza! » Questo secolo, che con indifferenza ha intese le bestemmie del Renan, dovrà intendere la parola della croce che afferma: « Io sono un segno divino; dunque Cristo è Dio! » Questa parola scenderà nella coscienza sociale; la muoverà ad avere in onore la croce, produrrà in essa il culto d’invocazione, e la croce invocata è sconfitta di satana. E la vergine ed il legno continueranno per l’opera del chiarissimo autore, i loro trionfi! E la morte? La morte dell’Uomo-Dio distrusse i trionfi satanici e li rimutò in schiavitù; le ovazioni di esso devono essere rimutate in sconfitte dalla morte dell’uomo carnale. Queste sono riportate sui figli della diffidenza, che per ignavia e mal volere non seppero conservare la libertà del riscatto, e con le proprie mani raccolsero i lembi del lacerato chirografo e li deposero fra gli artigli di satana, come titoli di volontaria soggezione, amando meglio vivere di senso che di ragione, più di concupiscenza che di grazia. Questa grazia è da suscitare nell’uomo, e la concupiscenza da mortificare. Questa mortificata, satana non avrà più appiglio ed addentellato a continuare le sue passaggiere ovazioni, e, quella suscitata, l’uomo per essa fortificato, combatterà a vittoria l’avversario. L’uomo della carne è da mutare in quello dello spirito! Metamorfosi è questa, che solo l’abnegazione può operare, come quella, che sottomette il corruttibile senso alla immortale ragione, ed il giudizio del fallibile intelletto all’autorità della infallibile fede; ed eleva il cuore umano alla vita soprannaturale del giusto, per la speranza e la carità che ingenera. Lo spirito di abnegazione e di sacrifizio dell’umano individuo non potrà restar straniero alla famiglia, ma come germe nel seno della terra vi mette radici, ed attecchisce e produce l’abnegazione della famiglia. Questa, avendo l’animo usato alla morale fatica del sacrifizio, saprà sostenere tutta la lotta necessaria per immettere nella coscienza dell’individuo sociale l’abnega temetipsum della croce, e questo sorgerà ad opere salutari spogliate di naturalismo e sensismo, ed informate dallo spirito di abnegazione prodotte della convinzione, che la materia è da sottoporre allo spirito, la forza al diritto, l’individuo all’universale, la società a Dio. Satana è vinto da questa sua morte! Questa morte della società al senso, sarà prodotta dall’opera del Gaume. Dessa inspira all’umano individuo la venerazione per la croce, questa produce l’imitazione, e che v’ha da imitare nella croce se non l’abnegazione di se stesso, e la morte al senso? Abnega temetipsum è la parola della croce! L’opera di che discorriamo, ingenerando nella società il culto d’invocazione e d’imitazione della croce, dà dunque mezzo alla società da abbandonare il materialismo in che si avvilisce, e sorgere alla vita dello spirito per unirsi al legno ed alla Vergine, per distruggere le ovazioni che satana vuol riportare col moderno paganesimo! Noi deponiamo la penna. Diremo solo che questo sublime scopo dell’opera ci ha guidati nella traduzione, che raccomandiamo alla umanità del lettore. Delle parti dell’opera non parliamo, che già altrove ne abbiamo detto ( Scienza e Fede vol. XL1X, fasc. 203, pag. 367) . Per chi volesse sapere come Roma vegga l’opera che presentiamo al pubblico, trascriviamo una lettera che S. E. il Cardinale Altieri indirizzava all’autore.

Roma, il 7 agosto 1863.

Monsignor Illustrissimo,

Colla pubblicazione della vostra ammirabile opera sopra il segno della Croce, voi avete reso un nuovo e segnalato servizio a favore della Chiesa di Gesù Cristo. Infatti, voi avete fatto conoscere ai fedeli colla forma la più attraente, tutto ciò che manifestamente contiene, ciò che insegna, ciò che opera di sublime, di santo, di divino, e per conseguenza di grandemente utile alle anime, questa sacra formola tanto antica quanto la Chiesa stessa. L’augusto capo di questa stessa Chiesa il Sommo Pontefice, non poteva non raccogliere con gioia un’opera sì preziosa e si utile al popolo cristiano. Così non solamente egli ha esternato la sua viva soddisfazione allorché io ho deposto nelle sue sacrate mani l’esemplare che voi vi siete fatto premura di offrirgli per mezzo mio; egli ha voluto di più esaudire con bontà il desiderio che avete manifestato di vedere arricchita di un’indulgenza la pratica del segno della croce, affine di eccitare i fedeli a farne uso in difesa delle loro anime, senza rispetto umano, e sovente quanto sia possibile. Nel Breve qui unito vedrete quanto generoso si è mostrato il S. P. nel concedere una simile grazia e com’egli ne fa apprezzare il valore. Importa grandemente che questo favore del supremo dispensatore dei favori celesti accordato in prò della Chiesa militante, sia universalmente conosciuto nello stesso tempo che si estenderà e si apprezzerà di più in più il vostro eccellente libro. Nella traduzione italiana che ne fa molto a proposito, l’incomparabile Angelo d’Aquila, si troverà il Breve del quale si parla, e bisognerà anche inserirlo selle nuove edizioni che sicuramente non mancheranno di succedersi. Così sarà colmato il vuoto che voi avete notato nella Raccolta delle Indulgenze. – Cosi V. E. riceverà la degna ricompensa, e certamente la più stimata dal suo cuore, nel vedere aperto il tesoro «della Redenzione, per il bene delle anime che ancor vivono su questa terra, o che di già son discese nel purgatorio, per effetto dell’opera che voi avete composta collo scopo di attirare l’attenzione universale sul primo segno del culto che tutti devono rendere al principale strumento della Redenzione.

Gradite l’espressione della più sincera e della più alta stima colla quale io sono, Monsignor illustrissimo, vostro affettuosissimo servitore

L. Cardinale Altieri.

Noi facciamo voti che quest’opera sia sparsa nella società, e che questa cooperi solerte a compierne il voluto altissimo scopo di arginare lo spirito pagano, che cerca diffondersi fra i contemporanei. Facciamo altresì voto che le anime pie si studiino lucrare le indulgenze che il regnante S. P. ha annesse al segno della Croce, ed all’uopo ne trascriviamo il Breve.

P1US PP. IX.

AD PERPETUAM REI MEMORIAM.

Quum salutiferæ reparationis mysterium virtutemque divinam in Crucis Domini Nostri Jesu Chmti vacillo contineri perspectum haberent primi Ecclesiæ fideles, frequentissimo illo signo eosdemiisos fuisse vetustissimu et insignia monumenta declarant. Quin ab eodem signo quascumque acliones auspicabantur, et ad отпет progressum atque promolum, ad отпет adilum, et erilhin. ad lumina, ad cubilia, ad sedilia. quacumque nos conversalio exercet, frontem Crucis signáculo terimits, inquiebal Tertullianus. Haec nos perpendentes fidelium pietatem erga illud salutiferum redemptionis nostrae signnm codesta Indulgentiarum thesauros reserando iterum excitandam censuimus; quo pulchra veterum Christianorum exempla imitantes signo Crucis, quae tamquam tessera est Christiame militiæ frequentius et palam etiam ac publice se munire non erubescant. Quare de Omnipotentis Dei misericordia, ac BB. Petri et Pauli App. eins auctoritate confisi, omnibus el singulis uniusque sexus Christi fidelibus quoties saltem corde contrito, adjectaque Sanctissimæ Trinitatis invocatione Crucis forma se signaverint, toties quinquaginta dies de iniunctis eis seu alias quomodolibel delitis pœnìtentiis in forma Ecclesiæ consueta relaxamus; quas pœnitentiarum relaxationes etiam animabus Christi fìdelium, quæ Deo in charitate coniunctæ ab hac luce migraverint, per modum suffragii applicare possint, misericordiler in Domino concedimus.  In contrarium faciendis non obstantibus quibuscumque, praesentibus perpetua futuris temporibus valiturìs. Volumus autem, ut praesentium litterarum travsumptis seu exemplis etiam impressis, manti alicuius Notarii publid subscriptis, et sigillo personœ in ecclesiastica dignitate constitutæ mu-nitis eadem prorsus fide adhibeatur, quæ adhiberetur ipsis praesentibus, si forent exhibitæ vel ostensæ; utque earumdem exemplar ad Secretariam S. Congregationis Indulgentiarum, Sacrisene Reliquiis praepositæ deferatur, secus nidias esse cus volumus, iuxta Decretimi ab eadem S. Congregatione sub die XIX Januarii MDCCLVI latum, et a. s. m. Benedicto PP. XIV Prædecessore Nostro die XXVIII dicli mensis et anni adprobalum. Datum Romae apud S. Petrum sub annulo Piscatoria die XXVUÏ iulii MDCCCLXIII, Pontificatili nostri anno decimo octavo.

Præsentes lilteræ apostolicæ in forma Drevis sub die 28 Julii 1863 exhibilæ fuerunt in secretaria S. Congrégations indulgentiarum die 4 Augusti eiusdem anni ad formam decreti ipsius S. Congregationis die 14 Aprilis 1856.

In quorum fidem datum Romæ ex eadem secretaria die et anno ut supra.

A. Archiepiscoprts Priuzitalli substitutus. Pour copie conforme: J. Gaume – Protonotaire apostolique Vicaire general d’Aquila.

[PIO PAPA IX. A MEMORIA ETERNA.

Perfettamente certi che il salutare mistero della Redenzione e la virtù divina si contengono nel segno della Croce di nostro Signore Gesù Cristo, i fedeli della primitiva Chiesa facevano il più frequente uso di questo segno, come ce lo dimostrano i più antichi e più insigni monumenti. É anche con questo segno ch’eglino incominciavano ogni loro azione. Ad ogni movimento, (diceva Tertulliano) ed a ciascun passo, entrando e sortendo, accendendo i lumi, nel prendere il cibo, nel mettersi a sedere, qualunque cosa noi facciamo, ovunque noi andiamo, noi segniamo la nostra fronte col segno della croce. Considerando queste cose, Noi abbiamo creduto a proposito di risvegliare la pietà dei fedeli verso il segno salutare della nostra redenzione aprendo i tesori celesti delle indulgenze, affinché, imitando i belli esempi dei primi Cristiani, essi non arrossiscano di munirsi più frequentemente, ed apertamente, e pubblicamente del segno della croce, che è come lo stendardo della milizia cristiana. È questo il motivo per cui, confidando nella misericordia di Dio onnipotente e nell’autorità dei suoi santi Apostoli Pietro e Paolo, Noi accordiamo nella solita forma della Chiesa a tutti ed a ciascuno dei fedeli dell’uno e dell’altro sesso, ogni volta che almeno contriti di cuore, ed aggiungendovi l’invocazione della SS. Trinità, eglino faranno il segno della croce, cinquanta giorni d’indulgenza per le penitenze che loro saranno state imposte, o ch’eglino debbono fare per un’altra ragione qualunque; Noi accordiamo di più misericordiosamente nel Signore, che queste indulgenze possano essere applicate, per modo di suffragio, alle anime dei fedeli che hanno lasciata questa terra nella grazia di Dio. Nonostante qualunque cosa contraria le presenti debbono valere in perpetuo. Noi vogliamo inoltre che alle copie manoscritte od esemplari stampati delle presenti lettere, segnate da un pubblico notaio e munite del bollo d’una persona ecclesiastica costituita in dignità si presti assolutamente la stessa fede che si presterebbe a queste stesse presenti se fossero presentate o mostrate; ed anche che una copia di queste medesime lettere sia portata alla Secreteria della Sacra Congregazione delle Indulgenze e delle sante Reliquie, sotto pena di nullità, conforme al decreto della stessa Sacra Congregazione in data del 19 gennaio 1750, ed approvato dal nostro predecessore di santa memoria, il papa Benedetto XIV, il 28 dello stesso mese ed anno.

Dato a Roma, a S. Pietro, sotto l’anello del Pescatore, il 28 luglio 1863, l’anno decimottavo del Pontificato Nostro.

N. Cardinale Parracciani Clarelli.

Le presenti lettere apostoliche in forma di Breve, in data del 28 luglio 1863, sono state presentate alla Sacra Congregazione delle Indulgenze il 4 agosto dello stesso anno, conforme al decreto della stessa sacra Congregazione in data del 14 aprile 1856.

In fede del che, dato a Roma, alla stessa Segreteria, il giorno ed anno come sopra.

A. Arciv. Prinzivalli sostituito. ]

PREFAZIONE DELL’AUTORE

Nel mese di novembre di questo anno (1862) un giovane cattolico di alto legnaggio veniva dalla cattolica Alemagna a Parigi, per compiere i suoi studii nel collegio di Francia. Tenerissimo delle pie tradizioni della patria sua, usava segnarsi del segno della croce prima e dopo il pranzo. Siffatta usanza, sulle prime meravigliò i suoi compagni, ed in seguilo, per essa fu fatto segno alle beffe di loro. In una delle nostre visite ci domandava qual fosse il pender nostro sul conio del segno della croce in generale e della sua pratica di segnarsi prima e dopo il pranzo. Le seguenti lettere rispondono alle due questioni proposteci.

IL SEGNO DELLA CROCE (2)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “QUÆ IN PATRIARCHATU” (2)

Continua la dura reprimenda del Santo Padre nei confronti del Patriarca ribelle …« Come avresti potuto ignorare – proprio tu che ricordi anche troppo spesso di essere stato disciplinatamente educato nella fede cattolica – che nessuno può essere legittimamente creato Vescovo contro il parere della Sede Apostolica? Che non è investito di nessun potere colui che la stessa Sede Apostolica ha dichiarato privo di qualunque giurisdizione? … » Questa ovvia sentenza è quella che viene disattesa allegramente da pseudo finti-vescovi delle sette scismatiche attuali facenti capo ai non-preti lefebvriani, agli ex-lefebvriani tesisti, e a tutti i pittoreschi sedevacantisti che ingannano, eludendo tutte le disposizioni canoniche della Chiesa Cattolica, senza Giurisdizione o missione alcuna, gli scellerati loro adepti che li seguono nei loro sacrileghi atti sacramentali o nel sacrificio della messa, rito invalido ed illecito, foriero di disgrazie spirituali senza numero che si paleseranno nell’altra vita, ove per loro ci sarà pianto e stridor di denti se si ostineranno fino alla fine. Quanti inganni ha escogitato il drago maledetto per trascinare con sé negli inferi illusi pseudo-cattolici che credono di partecipare a riti salvifici solo perché conservano una forma esteriore tradizionale, senza chiedersi se coloro che li officiano siano veri o falsi chierici e prelati regolarmente consacrati … ciechi e sordi guidati da ciechi e sordi, da ladri e da briganti, da lupi con apparenza di agnelli e da sciacalli avidi e crudeli. Piccolo sarà il gregge che il Signore troverà al suo ritorno, gregge che seguirà fino alla morte le disposizioni ed i canoni ecclesiastici fino al più infimo dettaglio, dimostrando una fede indomita e senza compromessi, così come il loro divin Maestro ci ha insegnato.

“Cercando, per quanto è 9possibile alla Nostra debolezza, di imitare la carità di Colui che agisce con pazienza, non volendo condannare a morte alcuno ma portare tutti sulla strada della penitenza, Ci asteniamo dall’attuare nei tuoi confronti le censure che ti sei attirato, finché non ti sia consegnata questa Nostra lettera, che consideriamo ultima, perentoria ammonizione. Noi confidiamo in Dio, Padre delle misericordie, affinché tu voglia ritornare in te, riconoscendo la malvagità dei tuoi atti, la futilità delle motivazioni con le quali hai voluto giustificarli, ed inoltre il gravissimo debito del quale sei tenuto a dar sollecita soddisfazione alla Chiesa di Dio; speriamo che tu non tardi a detestare e ad odiare tutto ciò che hai iniquamente compiuto.

“Conviene dimenticare tutto quello che hai fatto dopo la tua partenza da Roma, prima a Costantinopoli e poi nel tuo Patriarcato, fino alla dichiarazione della tua adesione e sottomissione ai decreti del Concilio Vaticano, resa il 29 luglio 1872. Infatti tu sai bene quel che hai portato a termine erroneamente in quell’arco di tempo e con quale Apostolica sollecitudine Noi siamo venuti in soccorso delle tue necessità spirituali. Noi speravamo che non Ci avresti procurato in futuro una causa di dolore ancora più grave. Dopo questo periodo, tu inviasti alla citata Nostra Congregazione una lettera datata 12 maggio 1873, nella quale chiedevi ti fosse concessa la facoltà di consacrare Vescovi in Malabaria. Poiché Noi non potevamo consentire a tale richiesta, per le ragioni che già molte volte ti avevamo illustrate, non molto dopo tu non hai esitato a superare i confini prestabiliti, avendo ricevuto e disatteso sia la Nostra lettera Apostolica che comincia “Cum ecclesiastica“, nella quale avevamo fissato le regole da seguire nella scelta dei Vescovi, sia le altre lettere con le quali più e più volte ti ordinavamo di non osare alcunché in Malabaria. Ma tu non hai avuto riguardo di dotare del carattere episcopale due sacerdoti e di affidare loro arbitrariamente le Diocesi, e di destinare a Malabar, contro le Nostre disposizioni, il Vescovo Elia Mello, che osa definirsi metropolita di quella regione.

“Non piangeremo mai abbastanza i mali che fecero immediatamente seguito a questi tuoi ardimenti, i danni che essi arrecarono alla stessa Chiesa cattolica sia in Malabaria sia in Mesopotamia, ed il grande disdoro che comportarono per la tua dignità e per la tua fede. Infatti la disciplina ecclesiastica è stata turbata dall’operato del predetto Vescovo Elia, che hai mandato a Malabar violando il Nostro comando, e al quale hai ordinato di restare colà nonostante fosse stato colpito da solenne scomunica da Noi disposta; agli ordini sacri sono stati promossi giovani inidonei e persino indegni; chiese cattoliche sono state strappate con l’inganno e talora con la violenza; con ingiurie e con calunnie sono stati aggrediti non soltanto i missionari Apostolici ma persino lo stesso Venerabile Fratello Leonardo, Arcivescovo di Nicomedia, che in quella regione esercita la Nostra potestà vicaria; ed un luttuoso scisma è stato introdotto ed alimentato. Da qui le discordie e le contese sviluppatesi fra i fedeli Malabarici, gli uni fermamente stretti al loro legittimo Presule, gli altri legati all’intruso Elia, il quale non cessò mai di mettere in campo qualunque subdola ed iniqua manovra per ingannare gli incauti e i semplici. Codesto figlio della perdizione s’azzardò non soltanto ad affermare pubblicamente che la Nostra lettera Apostolica Speculatores, inviata ai Malabarici il 1° agosto dell’anno scorso, era falsa; ma arrivò al punto d’inventarsi di sana pianta un Breve apostolico, al quale mise la data del 20 agosto 1872, e di promulgarlo pubblicamente e solennemente come Nostra lettera. In tale testo, codesto falsario di lettere Apostoliche dice calunniosamente che nel Concilio Ecumenico Vaticano si era trattato del tuo preteso diritto in Malabaria, e che esso era stato riconosciuto dai Padri ed approvato da Noi; non ha avuto paura di chiamare a suffragio di questa sua menzogna tanti testimoni quanti furono i Padri che presero parte al Concilio Ecumenico Vaticano. Così, tramite voi, con inganni di tal fatta vengono diffusi negli animi errore e confusione, e la verità viene corrotta in malizia; oscillano i fedeli, trascinati in diverse direzioni, ed alcuni di loro si trovano ad aderire all’usurpatore scismatico, ritenendo al contrario di essere in consonanza con la Cattedra Apostolica del Beatissimo Pietro.

“Se in verità analizziamo quanto è accaduto in Mesopotamia, riscontriamo con gran dolore che alle Diocesi sono preposti Vescovi che non hanno alcuna comunione con questa Cattedra del Beatissimo Pietro, da te scelti in maniera temeraria ed illegale, contro le disposizioni apostoliche, consacrati in modo sacrilego ed iniquamente insediati. Come avresti potuto ignorare – proprio tu che ricordi anche troppo spesso di essere stato disciplinatamente educato nella fede cattolica – che nessuno può essere legittimamente creato Vescovo contro il parere della Sede Apostolica? Che non è investito di nessun potere colui che la stessa Sede Apostolica ha dichiarato privo di qualunque giurisdizione? E forse ti sembrano poca cosa il sovvertimento dell’ordine ecclesiastico suscitato dalla tua opera, il turbamento dei fedeli, le lotte, lo spirito di emulazione, ed il gravissimo scandalo che è stato recato ai fedeli, e tuttora perdura, per la tua disobbedienza alle disposizioni Apostoliche? A causa di essa esultano gli infedeli e gli eretici; oscillano confusi coloro che sono deboli nella fede; si dolgono e piangono coloro che l’hanno più salda, e non vedono per quale ragione debbano restare sottomessi ad un Patriarca che spregia l’obbedienza dovuta al Pontefice Romano.

“Che tu stesso abbia capito queste cose e le tema è dimostrato con chiarezza dalle lettere con le quali hai voluto sollevare i Venerabili Fratelli Vescovi del tuo Patriarcato contro le Nostre stesse disposizioni e costituzioni, per trarli dalla tua parte. Questo confermano le dicerie calunniose sparse fra la gente contro i missionari apostolici e contro lo stesso Nostro Delegato, il Venerabile Fratello Ludovico, Arcivescovo di Damietta; lo conferma l’impegno che, come abbiamo saputo, tu hai profuso affinché i fedeli, ed il clero in particolare, non avessero rapporti con i Nostri missionari, né potessero far ricorso alle loro parole, al loro parere o al loro ministero, instillando anzi la paura che coloro che avessero avuto frequentazioni avrebbero ricevuto censure da te. Lo conferma infine l’inimicizia contro costoro suscitata nel potere civile, che si dice tu abbia invocato come presidio contro disposizioni e censure della Sede Apostolica, che senti di aver ampiamente meritate. A coronamento di tutto ciò, si aggiunse l’altra nefasta consacrazione dei Vescovi, uno dei quali tu destinasti alla diocesi di Zaku e l’altro a quella delle Indie; maggior scandalo per i fedeli derivò dal fatto che la cerimonia fu compiuta con il massimo apparato e la massima solennità, in spregio a questa Sede Apostolica.

“Questo, Venerabile Fratello, è ciò che è accaduto ed accade in Malabaria ed in Mesopotamia per tua iniziativa, per tacer del resto; di ciò siamo costretti dal Nostro ufficio a chiedere ragione a te, che ben più gravemente renderai conto all’eterno Principe dei pastori. Che tu non abbia avuto ripensamenti, e che anzi tu disprezzi tutto ciò, è espresso temerariamente dalla ricordata tua lettera alla Nostra Congregazione di Propaganda Fide, con la quale ti sforzi di dimostrare la tua innocenza, confermando la tua fiducia nel primato pontificio ma adducendo argomenti a sostegno dei tuoi pretesi diritti sulla scelta dei Vescovi e sulle regioni Malabariche.

“Invano, infatti, tu proclami nella tua lettera di riconoscere e di onorare il primato del Pontefice Romano, se poi non ti adegui in ogni comportamento a quanto sancì il Concilio Ecumenico Fiorentino e che il Concilio Ecumenico Vaticano ha esplicitato con maggior chiarezza e confermato. Non è certo atteggiamento cattolico ammettere un primato di giurisdizione costituito per diritto divino, per poi opporgli quelli che tu chiami diritti patriarcali, istituiti per disposizione ecclesiastica, dai quali il Pontefice Romano non potrebbe derogare per ragioni di causa, di tempo e di luogo; per un Vescovo cattolico è indegno riservarsi qualunque diritto o privilegio mediante il quale intenda sottrarsi al potere ed alla disposizione piena e legittima del Beato Pietro e dei suoi successori.

“In verità Noi abbiamo sempre ritenuto che la fede cattolica fosse in te pienamente integra, e che tu non avessi mai voluto dissentire dalla dottrina e dallo spirito di tutta la Chiesa. Perciò, quando – nella lettera della tua adesione ai decreti del Concilio Vaticano, che stilasti il 29 luglio 1872 – dichiarasti che volevi ti fossero riservati e conservati tutti i diritti ed i privilegi patriarcali, come tu li chiamavi, non potemmo ritenere che tu avessi voluto fissare un limite ovvero porre una condizione alla professione cattolica da te resa: né l’una né l’altra infatti avrebbero potuto conciliarsi con la verità e con l’unità cattolica. Poiché lo spirito del tuo discorso appariva troppo duro e ambiguo, Noi ritenemmo che fosse doverosamente da respingere, rispetto a quella dottrina integra che tu dichiaravi di voler proclamare; avrai potuto rendertene conto dalla lettera che, in occasione della tua citata adesione, ti inviammo il giorno 16 novembre 1872; in quel caso accogliesti la Nostra dichiarazione in essa espressa, e da ciò che Ci rispondesti per iscritto risultò che tu ti uniformavi ad essa integralmente e tranquillamente.

“Dopo questo, tuttavia, non ti trattenesti dal diffondere la tua rivendicazione tra i tuoi Vescovi, per sostenere i tuoi pretesi diritti. Se avessi mandato loro anche una copia della Nostra lettera citata, certamente essi avrebbero capito che Noi non avevamo approvato la tua riserva, e dalla stessa Nostra lettera avrebbero desunto l’autentica dottrina cattolica, da Noi riferita, in materia di privilegi dei Patriarchi; e avrebbero notato con ammirazione la Nostra benignità nei tuoi confronti; benignità che nella stessa lettera esprimemmo con motivazioni assolutamente eccezionali e con la massima dolcezza di linguaggio, proprio quando tu avevi bisogno dell’indulgenza e dell’assoluzione della Sede Apostolica, per tutto ciò che iniquamente avevi compiuto perturbando la Chiesa Orientale.

“Non possiamo inoltre nascondere che ha costituito grande tristezza per Noi e grave scandalo per i fedeli il fatto che – per giustificare la tua disubbidienza alla Nostra Costituzione Apostolica Cum ecclesiastica – tu abbia tentato di contrastarne il valore e l’efficacia asserendo che non era stata da te ricevuta; questo in verità avrebbe potuto accadere senza scapito per la fede, dato che la Costituzione in oggetto è da annoverarsi non fra quelle dogmatiche ma fra quelle meramente disciplinari. Ma in che modo mai può essere accettato, una volta ammesso il fondamento divino della Chiesa, che la forza e l’efficacia delle Costituzioni Apostoliche dipendano dall’accoglimento dei Vescovi o di chiunque altro? Non pensavi certo questo, tu, Venerabile Fratello, quando – chiedendo la conferma della tua elezione – nella tua lettera promettevi che saresti stato obbediente e soggetto a Noi per tutto il tempo futuro della tua vita e dimostravi questa soggezione con il tuo comportamento. Questo certo non pensarono i Patriarchi cattolici della Caldea che ti hanno preceduto. Questo infine non pensò certo il famoso Simone Sulaka, che ti vantavi di aver avuto come predecessore. Egli infatti professò con tanto vigore il primato della giurisdizione del Romano Pontefice da promettere che “egli avrebbe sempre ottemperato, come figlio dell’obbedienza, agli ordini, alle disposizioni, ai divieti e ai comandi del nuovo Papa Giulio III, dei suoi successori assurti canonicamente al ruolo di Pontefici Romani, e della Sede Apostolica“. Riteniamo che questa professione di fede sia conservata nei tuoi archivi, dato che fu inserita integralmente nella lettera Apostolica che lo stesso Giulio, Nostro Predecessore, inviò a Sulaka il 20 febbraio 1553 per confermargli l’elezione a Patriarca.

“Che dire poi del pretesto che accampi: il timore dei mali che dici potrebbero derivare a te ed ai tuoi dal potere civile, nel caso tu obbedissi alla Nostra citata Costituzione, portando l’esempio dei mali che toccarono al Venerabile Fratello Patriarca Armeno ed alle Chiese cattoliche dello stesso Rito? Ecco dove approdano anche i più solidi Presuli della Chiesa quando cominciano ad allontanarsi da questa Sede del Beatissimo Pietro Principe degli Apostoli dalla cui solidità trae linfa vitale ogni forza dei sacerdoti! I Santi Apostoli di Dio insegnarono che si deve obbedire ai Principi terreni e si devono pagar loro i tributi: nella Chiesa cattolica, che ha sempre rispettato e rispetta questa dottrina, è sempre stata disapprovata e condannata la ribellione contro i poteri legittimi. Non sarà però lecito venire meno al rispetto ed all’obbedienza che si debbono alle leggi divine ed ecclesiastiche, se per caso il potere civile abbia qualcosa contro di loro. Infatti Colui che disse di dare a Cesare quel ch’è di Cesare, ordinò anche di dare a Dio quel ch’è di Dio; e quando si trattò di difendere le disposizioni di Cristo nostro Signore, gli Apostoli si esposero intrepidamente davanti al potere civile: è necessario obbedire più a Dio che agli uomini. Se non è vano riportare alla mente e riflettere sui tanti esempi di santissimi uomini e di antichi martiri, che hanno subìto torture terribili dai poteri di questo mondo per non venir meno al rispetto della legge divina od ecclesiastica, guarda anche quel che accade alle Chiese Cattoliche, sia quelle orientali – soprattutto l’Armena – sia quelle occidentali, in particolare quella Tedesca e quella Elvetica. Colà i Vescovi, il clero ed anche i più eminenti fra i laici, pur conservando il pieno rispetto e la dovuto sudditanza ai legittimi poteri, non hanno paura delle loro minacce quando si deve rendere a Dio ciò che è di Dio; né, per paura di punizioni, tradiscono la verità o il loro dovere, o si allontanano dalla Sede Apostolica. Anzi, sopportano con animo sereno la sottrazione dei beni, il carcere, l’esilio, sapendo di avere assicurato la massima grazia e la mercede in cielo.

“Per difendere poi i tuoi pretesi diritti sulla Malabaria, tu sostieni che i fedeli di quella regione ti debbono essere sottoposti perché mantengono il rito caldeo e perché un tempo erano soggetti ai Patriarchi caldei. Non abbiamo intenzione di introdurci in dispute storiche, nelle quali ciascuno la pensa diversamente. Anche se le cose stessero come tu sostieni, non per questo raggiungeresti il tuo obiettivo. Anche se un Vescovo, di qualunque dignità ed ordine, ha ricevuto un tempo la giurisdizione su una regione, non per questo la regione dovrà essere soggetta in perpetuo al Vescovo di quella sede e non c’è alcun motivo per cui, con una decisione legittima e per legittima causa, non possa esser trasferita alla giurisdizione di un altro Vescovo. Molti esempi tratti dagli Annali della Chiesa e dagli Atti dei vecchi Concilii confermano questa tesi. Per la verità, i Nestoriani ed altri Patriarchi scismatici si sono arrogati abitualmente la giurisdizione ecumenica ed universale su tutti i fedeli del loro rito, in qualunque terra abitino; infranti i vincoli che li congiungevano a questa Sede Apostolica, essi non riconoscono alcun superiore. Ciò non è mai stato concesso ai Presuli cattolici, né autorizzato dai canoni legittimi, ne dalle Costituzioni pontificie.

“Inoltre hai sostenuto che la giurisdizione sul territorio di Malabar ti era stata promessa, affermando che a ciò si era formalmente obbligato nei tuoi confronti il Venerabile Fratello Zaccaria, Vescovo di Maronea, recentemente sottratto ai vivi. Egli, che pure Ci ha riferito molte cose di quelle che ha fatto costà, non ha mai scritto nulla alla Nostra Congregazione su una promessa di questo tipo; né Noi gli demmo mai alcuna facoltà di formularla. Comunque non apparirebbe valida alcuna ragione che avesse potuto indurlo a fare una tale promessa. Infatti non possiamo accettare che l’abbia fatta per ottenere la tua adesione alle Costituzioni del Concilio Vaticano, perché l’autorità del Concilio non aveva bisogno della tua adesione ed un simile modo di agire si sarebbe tradotto in onta non solo per la tua coscienza e la tua dignità, ma anche per la sua.

“Per dimostrare le concessioni della Sede Apostolica, tu presentasti una lettera, inviata il 28 aprile 1553 dal Nostro predecessore Giulio III di felice memoria, con la quale venivano concessi il sacro pallio ed alcune facoltà speciali al ricordato Sulaka, Patriarca del rito caldeo. Tu hai ordinato che nelle chiese venisse diffusa la traduzione araba – neppure molto fedele – di quella lettera, per contrapporre alle Nostre disposizioni e alle Nostre Costituzioni i decreti e le lettere dei Nostri Predecessori. I quali, tu dici, avrebbero confermato la giurisdizione dei Patriarchi caldei sulle regioni dell’India ed inoltre avrebbero concesso loro l’arbitrio di scegliere i Vescovi. Giulio III, come tu stesso sai, nella ricordata lettera concesse al Patriarca Sulaka la facoltà di confermare con la sua autorità patriarcale l’elezione di Vescovi ed Arcivescovi suoi sudditi, una volta che essa fosse avvenuta correttamente, secondo il rito e la prassi della Chiesa Romana, e di impartire ai Vescovi ed agli Arcivescovi così eletti, dopo che le loro elezioni fossero state ratificate, il potere della consacrazione, secondo il rito e la prassi predetti, dopo aver ricevuto da essi, nel nome del Pontefice Romano e della predetta Chiesa Romana, il solito giuramento della dovuta fedeltà. Perciò devi capire, come appare chiaro a chiunque legga quella lettera, che egli non vi ha sancito o fissato nulla che riguardi i luoghi in cui debba essere esteso il diritto patriarcale di Sulaka: l’impiego della potestà concessa era anzi espressamente vietato per quei luoghi nei quali i Presuli vengono designati dal Pontefice Romano. Perciò quella lettera non ti aiuta assolutamente ad estendere la tua giurisdizione oltre i confini nei quali è racchiusa attualmente; alle tue aspirazioni sulla Malabaria, dove i Presuli sono istituiti dal Pontefice Romano, contraddicono apertamente quei Cristiani che proprio per questo motivo, rigettata nel Sinodo Diamperitano del 1599 l’eresia Nestoriana, si sono aggregati alla Chiesa Cattolica. In quel Sinodo essi giurarono e promisero formalmente che non avrebbero mai riconosciuto alcun Vescovo, Arcivescovo, Prelato, Pastore o Governatore, se non quello che fosse direttamente nominato dalla Santa Sede Apostolica tramite il Papa Pontefice Romano. Ciò fu sancito e ribadito dall’autorità dei Nostri Predecessori Clemente VIII e Paolo V, ed è stato osservato fino ad oggi.

“In questa lettera monitoria, Venerabile Fratello, riconoscerai il segno della Nostra singolare longanimità e carità nei tuoi confronti; con essa Ci siamo impegnati con sollecitudine a mostrarti la debolezza dei sofismi nei quali ti sei invischiato ed a recuperarti a saggi consigli, nella speranza che, con l’aiuto della grazia di Dio, ascoltando una buona volta la Nostra voce, tu ti ravveda e ritragga dal pericolo di un imminente scisma te e le chiese di rito caldeo a te affidate. Perciò, con la Nostra autorità Apostolica, nel rispetto della santa obbedienza e sotto la minaccia del giudizio divino, ti ordiniamo esplicitamente, Venerabile Fratello, di richiamare al più presto dalla Malabaria il Vescovo Elia Mello e quanti altri vi siano, sacerdoti, monaci ed anche Vescovi del tuo rito; e di lasciare che quella regione, nella quale abbiamo già dichiarato e ripetiamo che non hai nessuna giurisdizione, sia governata dal suo legittimo Presule in pace e cattolica armonia.

“Ordiniamo inoltre che tu richiami dalle Diocesi alle quali li avevi arbitrariamente, sacrilegamente e inefficacemente preposti, i sacerdoti Elia e Matteo e gli altri che, contro la Nostra Costituzione, avevi recentemente elevato alla dignità episcopale. Quanto alle Diocesi del tuo Patriarcato che mancano di un legittimo pastore, affidane il governo e l’amministrazione ad altri sacerdoti del tuo rito che ne siano degni ed idonei, fintanto che alle stesse Diocesi non siano assegnati Vescovi legittimi, correttamente nominati. Se trascurerai di adempiere questa Nostra disposizione, Noi stessi Ci occuperemo di quelle Diocesi, come C’impone doverosamente il ruolo del Nostro Apostolato.

“Inoltre ti ammoniamo di evitare assolutamente l’abuso di punizioni ecclesiastiche, che abbiamo saputo esser state da te comminate e utilizzate spesso con arbitrio e senza giusta causa. Se infatti tu le irrogherai per ragioni non giuste ed adeguatamente gravi, non potremo esimerci dall’assolvere, con la Nostra autorità (come già altre volte Ci hai costretto a fare) quei fedeli che, colpiti da pene ingiuste, fanno ricorso a Noi. Vogliamo in definitiva che tu ti attenga assolutamente a tutto ciò che la Nostra Congregazione ti ha scritto nella lettera del 27 agosto dell’anno scorso.

“Confidiamo che tu eseguirai con scrupolo tutto ciò che ti abbiamo ordinato nel Signore; a questo scopo invochiamo per te la pienezza delle grazie divine. Se – ma speriamo di no! – trascurerai di obbedire a questa Nostra perentoria ammonizione e persisterai nella caparbietà, sappi che Noi seguiremo le orme dei Nostri Predecessori, che non tralasciarono, quando si rese necessario, di colpire con pene e censure ecclesiastiche gli antichi Patriarchi, nonostante in qualche caso fossero protetti dal patrocinio dei potenti; e li castigarono non soltanto con la pena della scomunica, ma anche della deposizione. Se sarà necessario, seppure con grande dolore Noi attueremo nei tuoi confronti questa stessa procedura, per non essere rimproverati dall’eterno Principe dei Pastori di aver tradito il Nostro ministero e di aver trascurato la fede e la salvezza di tante anime, trascinate ad un gravissimo punto nodale.

“Noi ti preghiamo, Venerabile Fratello, e ti scongiuriamo nel nome del Signore Nostro Gesù Cristo, affinché tu riconsideri seriamente di fronte a Dio la tua malvagia condotta, il grado della tua dignità, la tua età ed il gravissimo pericolo per la tua eterna salvezza; implorata con umili preghiere la luce divina, prendi dunque quelle decisioni che dimostrino nei fatti il tuo ossequio verso la Sede Apostolica, tante volte asserito a parole; quelle decisioni che allontanino da te la rovina nella quale, finché presti orecchio agli iniqui consiglieri, deploriamo che trascinerai te stesso ed il popolo che ti è stato affidato dalla Nostra autorità.

“Affinché la misericordia divina si sparga benignamente, a te Venerabile Fratello, insieme con i Vescovi, il clero, i monaci ed i fedeli che rimangono in comunione ed obbedienza con la Sede Apostolica, impartiamo con affetto la Benedizione Apostolica nel Signore.

“Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 settembre 1875, anno trentesimo del Nostro Pontificato”.

19. La risposta a questa Nostra lettera tardò a lungo. Dapprima accettammo che il ritardo fosse dovuto ad una malattia, ma dopo che egli si era ripreso niente più poteva scusarlo. Nel frattempo i suoi comportamenti, che seguivamo con la massima attenzione, Ci fornivano una risposta più eloquente di una lettera. Infatti non furono richiamati dalla regione Malabarica coloro che vi erano stati inviati, e nemmeno dalle Diocesi i sacerdoti sconsideratamente investiti della dignità episcopale. Per di più, l’intruso nella diocesi di Amida ebbe l’ardire di promuovere agli ordini alcuni monaci, che poco dopo il Patriarca in persona non si peritò di avviare al sacerdozio. I sacerdoti che non volevano accettare questo malvagio comportamento furono vessati con minacce e punizioni; in alcuni casi furono fatti passare come perturbatori del popolo e ribelli al Patriarca; in altri puniti con l’aiuto del potere civile. Né possiamo fingere di ignorare la risposta che il Patriarca diede il 7 febbraio di quest’anno alla lettera inviatagli da alcuni Mauxiliesi. In essa dichiarava con estrema franchezza che non aveva mai rinunciato – né mai lo avrebbe fatto – ai suoi pretesi diritti; che questo era dimostrato dai suoi comportamenti, chiari, diceva, come il sole; che egli poteva valersi del ministero patriarcale, così come se n’erano valsi i suoi predecessori Patriarchi cattolici, mantenendosi come loro congiunto in fede e disciplina con il Sommo Pontefice; al qual proposito ordinava loro di non avere nessun dubbio e nessun sospetto. Questa esplicita dichiarazione fu resa ancor più inequivoca dalla lettera che gli stessi Mauxiliesi inviarono al Patriarca il 20 dello stesso mese di febbraio. Costoro, infatti, mentre lo ringraziavano e promettevano di trarre forza e coraggio dalla sua dichiarazione, affermavano di essere, allora ed in futuro, concordi fino alla morte con il Patriarca nel rifiutare la Costituzione Apostolica, nel proteggere i suoi diritti e nel proseguire l’invio di Vescovi in Malabaria.

20. Mentre tutto ciò poco alla volta veniva a galla, i fedeli si meravigliavano che quest’uomo, completamente immemore della propria dignità e così cambiato rispetto a colui che in altri tempi aveva dimostrato la propria fede e la propria obbedienza alla Sede Apostolica, avesse potuto procedere impunemente fino a quel punto; tanto che i Caldei, invasori della Malabaria, da ciò traevano argomento per difendere lo scisma che avevano introdotto colà e per negare impudentemente l’autenticità o la fondatezza della Lettera Apostolica con la quale avevamo comandato d’intervenire contro il Vescovo Mello e contro i suoi seguaci; si seppe che altri erano giunti ad un tal limite d’impudenza da negare che il Patriarca potesse essere da Noi scomunicato.

21. Si era dunque arrivati al punto in cui per Noi non sarebbe più stato lecito evitare di comminare le pene canoniche al Patriarca, che, più volte ammonito, aveva rifiutato di obbedire agli ordini e non si tratteneva dal rendere nota la sua disobbedienza con le azioni e con gli scritti. Frattanto, con data 19 marzo di questo anno, Ci giunse la sua risposta, così a lungo aspettata; da essa ricavammo la certezza, non senza grande dolore del Nostro animo, che la sua ostinazione era più che abbondantemente confermata. Che cosa infatti di più sciocco o di più ingiurioso avrebbe potuto escogitare che mettere in dubbio, come il Patriarca fa all’inizio della sua risposta, l’autenticità della Nostra lettera che gli era stata mandata secondo la prassi per il tramite del Nostro Delegato in Mesopotamia? Tutta la sua risposta consiste nel garantire più e più volte, con gran giro di parole e con adulazione, la propria fede cattolica e la propria obbedienza nei Nostri confronti. A quel punto egli cerca di tutelare e rivendicare i suoi interessi, sia in riferimento all’elezione dei Vescovi, sia per quanto riguarda la Malabaria, ripetendo una volta di più quei concetti che già tante volte Ci aveva scritto a questo proposito; fingendo tuttavia di non conoscere assolutamente le risposte che, per soddisfare compiutamente la giustizia, gli avevamo fatte avere nella Nostra lettera monitoria. Ripetendo sempre le stesse frasi, aggiunge anche molte lamentele contro i Missionari Apostolici, ai quali attribuisce – in modo tanto calunnioso quanto impudente – la causa dello scompiglio dei Caldei. Egli non si perita inoltre di scongiurarci affinché manifestiamo la Nostra approvazione al fatto che egli invii successivamente in Malabaria dei Vescovi di rito caldeo. Alla fine annuncia di avere in animo di convocare dopo l’inverno alcuni suoi Vescovi per renderli partecipi delle Nostre disposizioni, e decidere unanimemente con loro che cosa sia opportuno fare; ciò egli Ci farà sapere al più presto.

22. Voi vedete, Venerabili Fratelli e diletti Figli, quale risposta Noi possiamo dare a quest’ultima sua lettera, tenuto anche contro di quel che abbiamo detto nelle Nostre missive precedenti. La divina Sapienza (Sir 32,6) infatti ammonisce a non spendere parole dove esse non possono essere udite. Lo stesso Patriarca ricorda di aver dovuto molto subire per aver difeso e propagato la fede cattolica; per questo abbiamo usato con lui la massima pazienza. Ma va ricordato anche che colui che abbia osservato tutta la legge, ma si sia reso colpevole di una cosa, sarà considerato colpevole di tutto (Gc 2,10); e non chi avrà cominciato, ma chi sarà arrivato fino in fondo sarà salvato. Che cosa possiamo dire di quel che ha messo insieme contro i Missionari? Noi abbiamo accertato che essi si sono valsi dei loro diritti religiosamente; se risulta che essi abbiano compiuto qualcosa di malvagio, ne venga riferito a Noi, con un’esposizione diligente ed accurata di tutto lo svolgimento della vicenda; né certamente verremo meno all’obbligo di rendere giustizia a ciascuno. Non siamo disposti a prestare orecchio tollerante a vaghe accuse, soprattutto sapendo che i Missionari hanno affrontato le calunnie e l’invidia dei malevoli e per di più furono talora perseguitati con gravissime offese, non solo con la connivenza e la condiscendenza del Patriarca, ma persino per sua iniziativa.

23. Stando così le cose, è evidente che il Venerabile Fratello Patriarca Giuseppe, per quanto più volte ammonito, non soddisfece né volle soddisfare Noi e la Sede Apostolica. A che cosa serve, infatti, proclamare il dogma cattolico del primato del Beato Pietro e dei suoi successori, ed aver diffuso tante dichiarazioni di fede cattolica e di obbedienza verso la Sede Apostolica, quando le azioni in sé smentiscono apertamente le parole? Forse che non diventa persino meno scusabile la caparbietà, quanto più si riconosce il doveroso impegno dell’obbedienza? Forse che l’autorità della Sede Apostolica non si estende oltre ciò che è stato da Noi disposto, o basta avere comunione di fede con essa, senza obbligo d’obbedienza, perché si possa considerare salva la fede cattolica? Fino ad ora nei confronti del Patriarca Noi abbiamo agito con la massima mitezza e nei suoi confronti abbiamo usato una pazienza così grande, quale da Noi non si sarebbe dovuto aspettare. È tuttavia giusto che anche la pazienza e la longanimità abbiano una loro misura: per evitare, come spiega il Nostro Predecessore San Gregorio Magno , che la forza della punizione sia addolcita oltre misura da un eccessivo languore. Lo stesso Cristo Signore ci ha insegnato che colui che sarà stato ammonito inutilmente più e più volte e non avrà dato ascolto nemmeno alla Chiesa, dev’essere considerato come un pagano e un pubblicano. Perciò i Pontefici Romani, per l’autorità ricevuta da Dio sopra tutti, di qualunque ordine e dignità, per conservare l’integrità dell’unità e della Fede Cattolica, e per annullare l’arroganza dei ribelli, spesso hanno dovuto far ricorso alla scomunica degli stessi Patriarchi, deponendoli anche, quando si è reso necessario, come risulta più volte negli annali delle Chiese Orientali, e come voi non potete assolutamente ignorare.

24. È perciò necessario che Noi, sia pur mal volentieri e rattristati, teniamo lo stesso comportamento col predetto venerabile Fratello Giuseppe, affinché egli non si burli ulteriormente di questa Sede Apostolica e del popolo cristiano con le lusinghe delle parole; affinché non si trinceri dietro la comunione con Noi mentre invece è contro di Noi e trasgredisce le disposizioni dei Padri. Perciò abbiamo ritenuto di dover spedire questa lettera enciclica a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutti e a ciascuno dei fedeli del vostro rito, affinché conosciate la realtà autentica delle cose e tutto ciò che fino ad ora il vostro Patriarca ha compiuto e sta compiendo e che è – come abbiamo detto sopra – contrario alle decisioni ed alle Costituzioni Nostre e di questa Sede Apostolica; e sappiate che tutto ciò viene da Noi rigettato e condannato. Perciò Voi non dovete – e nemmeno potete – obbedirgli in quei casi in cui sia accaduto o accada che egli disponga contro gli ordini Nostri e della Sede Apostolica. State attenti a non essere ingannati dalle false narrazioni e dalle dicerie calunniose che vengono messe in giro per invidia, specialmente su questioni rituali o – come dicono – nazionali. Si tratta infatti, Venerabili Fratelli e diletti Figli, dell’obbedienza che si deve prestare o negare alla Sede Apostolica; si tratta di riconoscerne la suprema potestà, anche nelle vostre Chiese, quanto meno per ciò che riguarda la fede, la verità e la disciplina; chi l’avrà negata è un eretico. Chi invece l’avrà riconosciuta, ma orgogliosamente rifiuti di obbedirle, è degno dell’anatema. Se qualcuno, ritenendo di giudicare diversamente lo stato delle cose, si allontanerà dalla retta via, si affretti a pentirsi. In verità, se tutti coloro che debbono averla useranno nei confronti del loro Patriarca sincera carità, essi tenteranno di riportarlo alla buona messe con ammonizioni, esortazioni, frequenti preghiere elevate a Dio, secondo ciò che il Signore avrà concesso a ciascuno. – Perché tutto ciò accada aspetteremo fino a quaranta giorni, pregando anche personalmente Dio fra i gemiti, affinché il cuore di colui non s’indurisca, ma oda alla fine la Nostra voce e ritorni a saggi consigli e con questa decisione procuri a sé ed alla sua gente la vera utilità ed il vero bene. Una volta trascorsi quaranta giorni dacché questa lettera sarà giunta nelle sue mani, se egli persevererà – Dio non voglia! – nella sua ribellione e nella sua disobbedienza, e non darà seguito nei fatti a tutto ciò che Noi gli abbiamo ordinato, saremo costretti a rendere operativa nei suoi confronti, senza ulteriore dilazione, la sentenza in forza della quale egli sarà completamente allontanato dalla comunione con Noi, cioè dalla comunione con la Chiesa cattolica, e, legato dal vincolo della scomunica maggiore, per ciò stesso sarà privato di ogni e qualunque giurisdizione spirituale nei confronti dei fedeli del suo Patriarcato.

25. Non potremmo impiegare verso di lui pazienza e commiserazione tanto grandi senza preoccuparci contemporaneamente con efficacia della salvezza delle anime, individuando fin d’ora che cosa sia necessario per garantire la loro incolumità e per strapparle dai gravissimi pericoli nei quali sono state trascinate, ed ogni giorno vengono spinte vieppiù, per la disobbedienza del Patriarca. Come possiamo infatti tollerare che i fedeli delle Diocesi di Iezira, Amida, Zaku siano stati affidati fino ad ora all’arbitrio di pseudopastori, dei quali è sacrilega la consacrazione, illegittima la missione, nulla la giurisdizione? Che tutti costoro tentino di raggirare i più ingenui, ingannare gl’incauti, spaventare i più dedoli ed allontanare tutti dal centro della comunione cattolica, anche se a parole ripetono espressamente il contrario? E mentre si gloriano di essere baluardo della potestà patriarcale e velame della propria malvagità, facciano di tutto per irretire le coscienze? Forse che non dovremmo privarli completamente di questo presidio e strappare dalla loro tirannia i fedeli delle Diocesi che furono loro affidate?

Perciò, su suggerimento dei Venerabili Fratelli Nostri Cardinali di Santa Romana Chiesa preposti agli affari del rito orientale con la Nostra autorità Apostolica sospendiamo il Venerabile Fratello Giuseppe Audu, Patriarca Babilonese dei Caldei, da ogni e qualsivoglia giurisdizione sulle ricordate Diocesi di Iezira, Amida e Zaku e su tutte le altre del suo rito che attualmente sono prive di un Pastore legittimo o che lo diverranno in futuro. Riserviamo a Noi ed a questa Sede Apostolica il loro governo e la loro amministrazione, fintanto che non siano assegnati loro regolarmente Vescovi legittimi.

26. Vogliamo e disponiamo che i Vescovi intrusi Matteo, Ciriaco ed Elia, che una consacrazione temeraria e sacrilega ha insignito del carattere episcopale, e che non hanno alcuna giurisdizione, si allontanino immediatamente dalle predette Diocesi e adempiano tutto ciò che abbiamo loro ordinato nella lettera della ricordata Nostra Congregazione. Se non avranno attuato tutto ciò nell’arco, come sopra, di quaranta giorni, e soprattutto se non si saranno allontanati dalle citate Diocesi e non ne avranno rimessa completamente e concretamente l’amministrazione malvagiamente usurpata, procederemo anche contro di loro con la sentenza di maggiore scomunica.

27. Quanto al Vescovo Tommaso Rokos, che nella seconda sacrilega consacrazione ha affiancato il Patriarca Giuseppe, svolgendo il ruolo dei Vescovi consacranti, per quanto reiteratamente ammonito, egli si presenta ancora ribelle; perciò puniremo anche lui con analoga pena di scomunica se entro il termine di quaranta giorni, da calcolare come sopra, non avrà riprovato per iscritto il suo delitto e tutto ciò che il Patriarca ha illegittimamente commesso contro le Nostre Costituzioni e disposizioni.

28. Noi stessi Ci occuperemo del governo delle Diocesi che mancano di un legittimo Pastore, affidandone l’amministrazione ad idonei Sacerdoti del medesimo rito Caldeo, con le opportune e necessarie facoltà per dirigerle, indipendentemente non solo dagli pseudovescovi intrusi, che non hanno né possono avere alcuna autorità, ma anche dallo stesso Patriarca, al quale, con questa Nostra lettera, viene sottratta qualunque giurisdizione su quelle diocesi.

29. In verità, poiché non ignoriamo che il Patriarca si era accanito con censure e pene ecclesiastiche contro quei sacerdoti, chierici e fors’anche altri fedeli, che avevano rifiutato di concordare con i suoi malvagi disegni, facciamo presente che Noi avevamo già concesso una speciale facoltà al Venerabile Fratello Ludovico, Arcivescovo di Damietta, Nostro Delegato in Mesopotamia, per esaminare la forza e la fondatezza di queste censure e pene che, in quanto comminate dal legittimo Pastore, nessuno può rigettare; e di sollevarne coloro che avrà giudicato essere stati ingiustamente condannati nel Signore. Noi confermiamo questo potere speciale e straordinario al medesimo Delegato Apostolico, finché lo stesso Patriarca non avrà dato piena e totale soddisfazione a Noi ed a questa Sede Apostolica, o la stessa facoltà non gli sia revocata in altro modo.

30. Mentre adempiamo, con queste scelte necessarie, il gravissimo incarico del Nostro Apostolato, non dubitiamo, Venerabili Fratelli, che Voi ottempererete al vostro dovere, sia verso i fedeli a Voi affidati, sia verso la Sede Apostolica, con diligenza tanto maggiore quanto più difficili sono le circostanze che Ci tormentano. Vi rattristerete probabilmente e sopporterete amaramente che il vostro Patriarca sia stato pesantemente punito e che ancor più pesantemente lo sarà in futuro. Ci rattristiamo anche Noi, che lo abbiamo sempre amato e che, per quanto riluttante e disobbediente, non lo abbiamo mai privato della Nostra carità, e vi chiamiamo a testimoni di quanta carità, pazienza e longanimità abbiamo usato con lui. Al punto però in cui il Patriarca rifiuta pervicacemente di obbedire alle Nostre disposizioni ed ai Nostri comandi, ed offre agli altri un esempio di disobbedienza, non Ci è più lecito continuare ad essere pazienti e trattenerci ancora dal comminargli le pene meritate. Infatti temiamo e tremiamo di fronte alla condanna che il sacerdote Heli meritò di ricevere per aver castigato negligentemente i suoi figli, mentre sarebbe stato necessario espellerli dalla porta del tempio dato che perseveravano nella nequizia, dopo esser stati ammoniti una prima e una seconda volta . Da ciò discese che gli stessi figli furono uccisi in un sol giorno, trentamila popolani vennero ammazzati, l’arca del testamento fu catturata e lo stesso sacerdote, cadendo all’indietro, morì miseramente con la testa spaccata. Intanto Voi agite presso il vostro Patriarca con la stessa Nostra carità, dandovi da fare affinché il periodo che gli abbiamo concesso per pentirsi non abbia a trascorrere invano e senza esito. Stategli vicino, affinché non sporchi con questa macchia la sua età avanzata e la sua elevatissima dignità, cosicché colui che un tempo si adoperò per la tutela e la crescita della Fede cattolica, colui che un tempo fu obbediente e devoto a Noi ed a questa Sede Apostolica, non debba essere riprovato dalla stessa Sede Apostolica e privato a buon diritto di quel potere che da Lei aveva ricevuto.

Conviene che teniate tutto questo come vostro modello, Sacerdoti, Monaci e quanti siete chiamati al servizio di Dio; che educhiate il vostro popolo alla rettitudine contemporaneamente con le parole e con l’esempio, affinché non accada che, ingannato con malvagie dottrine e falsi discorsi, esso sia allontanato, inconsapevole o controvoglia, dalla solidissima pietra sulla quale Cristo Dio ha edificato la Sua Chiesa.

31. Infine esortiamo Voi, genti tutte del Rito Caldeo, ad invocare con fervide preghiere presso Dio e l’eterno Principe dei Pastori Cristo Gesù, con l’intercessione della Beatissima Maria, Madre di Dio, la luce e la potenza della grazia per il vostro Patriarca e per gli altri che hanno miseramente sbagliato; ed in auspicio del sostegno celeste, ed in pegno del Nostro affetto impartiamo amorevolmente la Benedizione Apostolica a Voi, Venerabili Fratelli e Diletti Figli, che rimanete in comunione ed obbedienza con la Sede Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il primo settembre 1876, anno trentunesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA XX DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA XX DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le lezioni dell’Ufficio divino in questo tempo sono spesso ricavate dai libri dei Maccabei. Dopo la cattività di Babilonia, il popolo era ritornato a Gerusalemme e vi aveva ricostruito il Tempio. Ma lo stesso popolo ben presto fu di nuovo punito da Dio perché  gli era stato nuovamente infedele: Antioco Epifane s’impadronì di Gerusalemme e saccheggiò il Tempio, quindi pubblicò un editto che proibiva in ogni luogo la professione della religione giudaica. Furono allora da per tutto eretti altari agli idoli e il numero degli apostati crebbe in guisa che sembrò che la fede di Abramo, Mosè e Israele dovesse scomparire. Dio suscitò allora degli eroi: un sacerdote, chiamato Mathathia raccolse tutti coloro che erano ancora animati da zelo per la legge e per il culto dell’Alleanza e designò suo figlio Giuda Maccabeo come capo della milizia, che suscitò per rivendicare i diritti del vero Dio. E Giuda col suo piccolo esercito combatté con gioia i combattimenti di Israele. Nella battaglia era simile ad un giovane leone, che ruggisce sulla sua preda. Sterminò tutti gli infedeli, mise in fuga il grande esercito di Antioco e ristabilì il culto a Gerusalemme. Animati dallo spirito divino i Maccabei riconquistarono il loro paese e salvarono l’anima del loro popolo. « Le sacrileghe superstizioni della Gentilità, disse S. Agostino, avevano insozzato il tempio stesso; ma questo fu purificato da tutte le profanazioni dell’idolatria dal valoroso capitano, Giuda Maccabeo, vincitore dei generali di Antioco » (2a Domenica di ottobre, 2° Notturno). – « Alcuni, commenta S. Ambrogio, sono accesi dal desiderio della gloria delle armi e mettono sopra ogni cosa il valore guerresco. Quale non fu mai la prodezza di Giosuè, che in una sola battaglia fece prigionieri cinque re! Gedeone con trecento uomini trionfò di un esercito numeroso; Gionata, ancora adolescente, si distinse per fatti d’arme gloriosi. Che dire dei Maccabei? Con tremila Ebrei vinsero quarantottomila Assiri. Apprezzate il valore di capitano quale Giuda Maccabeo da ciò che fece uno dei suoi soldati: Eleazaro aveva osservato un elefante più grande degli altri e coperto della gualdrappa regale, ne dedusse dover essere quello che portava il re. Corse dunque con tutte le forze precipitandosi in mezzo alla legione e sbarazzatosi anche dello scudo, si slanciò avanti combattendo e colpendo a destra e sinistra, finché ebbe raggiunto l’elefante; passando allora sotto a questo, lo trafisse con la sua spada. L’animale cadde dunque sopra Eleazaro che perì sotto il suo peso. Coperto più ancora che schiacciato dalla mole del corpo atterrato, fu seppellito nel suo trionfo » (la Domenica di ottobre, 2° Notturno). – Per stabilire un parallelo fra il Breviario e il Messale di questo giorno, possiamo osservare che, come i Maccabei, che erano guerrieri, si rivolsero a Dio per ottenere che la loro razza non perisse, ma che conservasse la sua religione e la sua fede nel Messia (e furono esauditi), così pure nel Vangelo è un ufficiale del re, che si rivolge a Cristo perché il suo figliuolo non muoia; egli con tutta la sua famiglia credette in Gesù, quando vide il miracolo compiuto in favore di suo figlio. Constatiamo inoltre che i Maccabei opponendosi agli uomini insensati che li circondavano, cercarono presso Dio luce e forza per conoscere la sua volontà in circostanze difficili (5° responsorio, Dom. 1° respons. del Lunedì) ed esauditi nel nome di Cristo che doveva nascere dalla loro stirpe, resero in seguito azioni di grazie nel Tempio, « benedicendo il Signore con inni e con lodi » (2° responsorio del Lunedì). – Cosi pure S. Paolo, nell’Epistola, parla di uomini saggi che, in tempi cattivi, cercano di conoscere la volontà di Dio e che, liberati dalla morte (v. 14 di questa Epistola) per la misericordia dell’Altissimo, gli rendono grazie in nome di Gesù Cristo, cantando inni e cantici. Tutti i canti della Messa esprimono anch’essi sentimenti simili in tutto a quelli dei Maccabei. « Signore, dice il 5° responsorio, i nostri occhi sono rivolti a te, affinché non abbiamo a perire » e il Graduale: « Tutti gli occhi si alzano con fede verso di te, o Signore ». il Salmo aggiunge: « Egli esaudirà le preghiere di coloro che lo temono, li salverà e perderà tutti i peccatori ». – « O Dio, canterò i tuoi gloriosi trionfi », dichiara l’Alleluia, e termina con queste parole: « Con Dio compiremo atti di coraggio ed Egli annienterà i nostri nemici ». L’Offertorio è un cantico di ringraziamento dopo la liberazione dalla cattività di Babilonia e la riedificazione di Gerusalemme e del suo Tempio. (Ciò che si rinnovò sotto i Maccabei). Il Salmo del Communio, che è il medesimo di quello del Versetto dell’Introito, ci mostra come Iddio benedica coloro che lo servono e venga loro in aiuto nelle afflizioni. L’Introito, finalmente, dopo aver riconosciuto che i castighi piombati sul popolo eletto sono dovuti alla sua infedeltà, domanda a Dio di glorificare il suo Nome, mostrando ai suoi la sua grande misericordia. – Facciamo nostri tutti questi pensieri. Riconoscendo che le nostre disgrazie hanno per origine la nostra infedeltà, uniformiamoci alla volontà divina (Intr.) domandiamo a Dio di lasciarsi commuovere, di perdonarci e di guarirci (Vangelo), affinché la sua Chiesa possa servirlo nella pace (Orazione). Poi, pieni di speranza nel soccorso divino e pieni di fede in Gesù Cristo riempiamoci dello Spirito Santo, che deve occupare tutta la nostra attenzione in questo tempo dopo la Pentecoste e nel Nome del Signore Gesù cantiamo tutti insieme nei nostri templi alla gloria di Dio, che ci ha liberati dalla morte e che nei giorni difficili della fine del mondo (Epistola) libererà tutti coloro che hanno fede in Lui (Vangelo).

« Sorgi d’infra i morti, dice S. Paolo, e Cristo ti illuminerà » (v.14). Salvati dalla morte per opera dì Cristo, non prendiamo più parte alcuna alle opere delle tenebre (v. 11), ma viviamo come figli della luce (v. 8). Approfittiamo del tempo che ci è stato dato per fare la volontà di Dio. Non conosciamo altra ebbrezza che quella dello Spirito Santo e, uniti gli uni agli altri nell’amore di Gesù, rendiamo grazie al Padre, che ci ha liberati per mezzo del Figlio suo e che ci libererà nell’ultimo giorno ».

Gesù salvò dalla morte il figlio dell’ufficiale, per dare la vita della fede a lui ed a tutta la sua famiglia. Questo miracolo deve cooperare ad aumentare la nostra fede in Gesù, per opera del quale Dio ci ha liberati dalla febbre del peccato e dalla morte eterna, che ne è la conseguenza. « Quegli che chiedeva la guarigione del figlio, dice S. Gregorio, senza dubbio credeva, poiché era venuto a cercare Gesù, ma la sua fede era difettosa ed egli chiedeva la presenza corporale del Signore, che con la sua presenza spirituale si trova dappertutto. Se la sua fede fosse stata perfetta, avrebbe senza dubbio saputo, che non esiste luogo ove Dio non risieda; egli crede bensì che colui al quale si rivolge abbia il potere di guarire, ma non pensa che sia invisibilmente vicino al figlio che sta per morire. Ma il Signore, che egli supplica di venire, gli prova che è già presente là dove egli gli chiedeva di andare; e Colui che ha creato tutte le cose, rende la salute a questo malato col semplice suo comando. (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Dan III: 31; 31:29; 31:35
Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non obœdívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ.

[In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]


Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non oboedívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ.

[In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]

Oratio

Orémus.
Largíre, quǽsumus, Dómine, fidélibus tuis indulgéntiam placátus et pacem: ut páriter ab ómnibus mundéntur offénsis, et secúra tibi mente desérviant.
[Largisci placato, Te ne preghiamo, o Signore, il perdono e la pace ai tuoi fedeli: affinché siano mondati da tutti i peccati e Ti servano con tranquilla coscienza.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios
Ephes 5: 15-21

 Fratres: Vidéte, quómodo caute ambulétis: non quasi insipiéntes, sed ut sapiéntes, rediméntes tempus, quóniam dies mali sunt. Proptérea nolíte fíeri imprudéntes, sed intellegéntes, quae sit volúntas Dei. Et nolíte inebriári vino, in quo est luxúria: sed implémini Spíritu Sancto, loquéntes vobismetípsis in psalmis et hymnis et cánticis spirituálibus, cantántes et psalléntes in córdibus vestris Dómino: grátias agéntes semper pro ómnibus, in nómine Dómini nostri Jesu Christi, Deo et Patri. Subjecti ínvicem in timóre Christi.

(“Fratelli: Badate di camminare con circospezione, non da stolti, ma da prudenti, utilizzando il tempo, perché i giorni sono tristi. Perciò non siate sconsiderati, ma riflettete bene qual è la volontà di Dio. E non vogliate inebriarvi di vino, sorgente di dissolutezza, ma siate ripieni di Spirito Santo. Trattenetevi insieme con salmi e inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando coi vostri cuori, al Signore, ringraziando sempre d’ogni cosa Dio e Padre nel nome del Signor nostro Gesù Cristo. Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo.).”

IL CONTAGOCCE DELLA VITA.

Se fossi un poeta seicentista o un predicatore, anche solo un predicatore di quel secolo stravagante, definirei il tempo: «il contagocce della vita», perché la vita ci è proprio data così goccia a goccia, minuto per minuto, scorre la vita e si compone di istanti. Potremmo anche dire che il tempo è la misura della vita. Perciò noi con la vita stessa lo identifichiamo. Fare buon uso del tempo è la misura della vita. La saggezza cristiana San Paolo la fa consistere nel buon uso del tempo, come nel rovescio, cioè nello sciupìo del tempo consiste la incoscienza, la leggerezza pagana. Del tempo, ossia della vita, di tutte le sacre energie che la costituiscono ora per ora, noi possiamo fare tre usi: possiamo usarne male, cioè per fare il male. Il mondo non adopera questa parola, la copre, la maschera. Dice: per divertirci, per distrarci. Chiamano anche questo: godere la vita. Il paganesimo pretende sia questo l’uso vero, saggio della vita. Quelli che sfrenatamente, bassamente, non ne godono come egli fa e insegna a fare, li chiama stolti. Per noi Cristiani il tempo speso così nei bagordi, nel trionfo della materia, è tempo perduto… anzi perduto è un aggettivo troppo blando, è tempo sciupato, è vita sciupata, sciupata energia. Sciupare un oggetto prezioso è più che perderlo: è un disfarlo, un farlo a rovescio. Così è il tempo speso nel peccato, nel male morale, comunque mascherato. Ma c’è anche il tempo perduto. Ed è quello che noi passiamo non facendo niente, né bene né male. Nell’ozio, o nella futilità della vita. La neutralità è veramente un sogno, un’utopia. Non si riesce alla neutralità, al far niente. In realtà l’ozio, la frivolezza, il conato di neutralità morale nell’azione, è un’utopia: far niente vuol dire far del male. Il tempo speso così è tempo perduto. E perder tempo è già un male, come il non guadagnare denaro in commercio, come il perdere un bell’oggetto. E quanto tempo si perde, specialmente, in chiacchiere inutili! che poi, viceversa, non sono inutili, sono dannose, dannosissime. Educano l’anima di chi vi si abbandona alla superficialità, alla frivolezza. Spianano la via alla cattiveria vera e propria, quando non sono già cattiveria matricolata, insulti costanti alla carità cristiana, alla purezza con le loro insinuazioni e le loro larvate oscenità. Sottraggono il tempo all’operosità buona. La quale costituisce l’impiego savio e sacro, cristiano del tempo. « Dum tempus habemus operemur bonum.» Questa è la vita per noi, Cristiani; fare il bene. Farlo in tutti i modi: parlando, tacendo (perché spesso il silenzio è d’oro, spesso ci vuole più virtù a tacere che a parlare, e si fa più bene al prossimo con un silenzio dignitoso, paziente, che con mille chiacchiere), operando, lavorando, soffrendo: farlo in tutte le forme, bene a noi stessi, bene agli altri, gloria e cioè bene a Dio. Il tempo che si passa così è tempo bene speso, veramente bene speso. È un tempo impiegato. Speso bene, perché, a parte anche le considerazioni soprannaturali, noi siamo fatti per il bene, e quando mettiamo a servizio della buona causa le nostre energie, a servizio della verità il nostro intelletto, a servizio delle carità la nostra influenza sociale, a servizio dei poveri il nostro denaro; quando facciamo così, stiamo bene. Ma è anche bene impiegato, perché il bene resta. Il piacere passa, finisce inesorabilmente. Goduto una volta non c’è più. Il bene fatto una volta resta sempre. San Paolo parla di riscatto, di redenzione del tempo. E cioè dobbiamo tanto più intensificare la nostra attività nel bene, quanto più scarsa è stata la nostra attività nel bene, quanto più abbondante è stata forse la nostra operosità cattiva. La morte si avanza e incalza: prima che essa giunga a troncare le possibilità del bene e del premio, avaramente, spendiamo per Dio il tempo ch’Egli ci dona.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CXLIV: 15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno.

V. Aperis tu manum tuam: et imples omne ánimal benedictióne.

[Tutti rivolgono gli sguardi a Te, o Signore: dà loro il cibo al momento opportuno.

V. Apri la tua mano e colmi di ogni benedizione ogni vivente.]

Allelúja.

Ps CVII:2
Allelúja, allelúja
Parátum cor meum, Deus, parátum cor meum: cantábo, et psallam tibi, glória mea. Allelúja.

[Il mio cuore è pronto, o Dio, il mio cuore è pronto: canterò e inneggerò a Te, che sei la mia gloria. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia   sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.
Joannes IV: 46-53
In illo témpore: Erat quidam régulus, cujus fílius infirmabátur Caphárnaum. Hic cum audísset, quia Jesus adveníret a Judaea in Galilæam, ábiit ad eum, et rogábat eum, ut descénderet et sanáret fílium ejus: incipiébat enim mori. Dixit ergo Jesus ad eum: Nisi signa et prodígia vidéritis, non créditis. Dicit ad eum régulus: Dómine, descénde, priúsquam moriátur fílius meus. Dicit ei Jesus: Vade, fílius tuus vivit. Crédidit homo sermóni, quem dixit ei Jesus, et ibat. Jam autem eo descendénte, servi occurrérunt ei et nuntiavérunt, dicéntes, quia fílius ejus víveret. Interrogábat ergo horam ab eis, in qua mélius habúerit. Et dixérunt ei: Quia heri hora séptima relíquit eum febris. Cognóvit ergo pater, quia illa hora erat, in qua dixit ei Jesus: Fílius tuus vivit: et crédidit ipse et domus ejus tota.

(“In quel tempo eravi un certo regolo in Cafarnao, il quale aveva un figliuolo ammalato. E avendo questi sentito dire che Gesù era venuto dalla Giudea nella Galilea, andò da lui, e lo pregava che volesse andare a guarire il suo figliuolo, che era moribondo. Dissegli adunque Gesù: Voi se non vedete miracoli e prodigi non credete. Risposegli il regolo: Vieni, Signore, prima che il mio figliuolo si muoia. Gesù gli disse: Va, il tuo figliuolo vive. Quegli prestò fede alle parole dettegli da Gesù, e si partì. E quando era già verso casa, gli corsero incontro i servi, e gli diedero nuova come il suo figliuolo viveva. Domandò pertanto ad essi, in che ora avesse incominciato a star meglio. E quelli risposero: Ieri, all’ora settima, lasciollo la febbre. Riconobbe perciò il padre che quella era la stessa ora, in cui Gesù gli aveva detto: Il tuo figliolo vive: e credette egli, e tutta la sua casa”)

Omelia

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Doveri dei genitori verso i figli.

Credidit ipse, et domus ejus tota.

(JOAN. IV, 53).

Possiamo noi trovare, Fratelli miei, un esempio più adatto per far intendere a tutti i capi di famiglia che essi non possono efficacemente lavorare alla loro salvezza se nel medesimo tempo non lavorano a quella dei loro figli? Invano i padri e le madri passerebbero la loro vita nel far penitenza, nel piangere i loro peccati, nel distribuire le ricchezze ai poveri; se essi hanno la disgrazia di trascurare la salute dei loro figli, tutto è perduto per essi. Ne dubitate, F. M.? Aprite le Scritture, e vi vedrete che se i genitori furono santi, lo furono del pari i loro figli, ed anche i dipendenti. Quando il Signore loda quei padri e quelle madri che si sono distinti per fede e pietà, non dimentica di dirci che i loro figli ed i loro servi hanno camminato sulle loro tracce. Lo Spirito Santo vuol farci l’elogio di Abramo e di Sara? Non tralascia nel medesimo tempo di ricordarci l’innocenza di Isacco e il fervoroso e fedele lor servo Eliezero (Gen XXIV). E se ci mette davanti le rare virtù della madre di Samuele, fa rilevare subito le belle qualità di questo degno figliuolo (I Reg. I e II). Se ci manifesta l’innocenza di Zaccaria e di Elisabetta ci parla subito di Giovanni Battista, il santo precursore del Salvatore (Luc. I). Quando il Signore vuol presentarci la madre dei Maccabei come una madre degna dei suoi figliuoli, ci mostra nel medesimo tempo il coraggio e la generosità di questi, che danno la vita con tanta gioia per il Signore (II Macc. VII). Se S. Pietro ci parla del centurione Cornelio come d’un modello di virtù, ci dice anche che tutta la sua famiglia serviva con lui il Signore (Act. X, 2) . Se il Vangelo ci parla di quell’ufficiale che venne a domandare a Gesù la guarigione di suo figlio, ci dice che dopo averla ottenuta non si diede più pace finché tutta la famiglia non credette con lui nel Signore (Joan. IV, 58). Quali esempi per i padri e le madri! Dio mio! se i padri e le madri dei nostri giorni avessero la fortuna di esser santi, quanti figli di più pel cielo! quanti figli di meno per l’inferno! Ma, forse mi direte, che cosa dobbiamo fare per adempiere i nostri doveri, poiché sono sì grandi e sì terribili? — Ahimè! io non oso dirvelo, tanto sono gravi per un Cristiano che desidera adempirli come vuole il buon Dio. Ma giacché sono obbligato a mostrarveli, eccoli: istruire i vostri figli, cioè insegnar loro a conoscere il buon Dio ed i propri doveri; correggerli cristianamente, dar loro buon esempio, guidarli per la giusta via che conduce al cielo, camminandovi per primi voi stessi. Ahimè ! F. M., io temo che questa istruzione vi sia, come tante altre, nuovo argomento di condanna. Il voler mostrarvi la grandezza dei vostri doveri, è volere discendere in un abisso senza fondo, e volere spiegare una verità che l’uomo non può mettere in tutta la sua luce. – Per questo, F. M. bisognerebbe potervi far comprendere ciò che valgono le anime dei vostri figli, quanto ha sofferto Gesù Cristo per ridonar loro il cielo, il conto spaventoso che un giorno dovrete renderne a Dio, la felicità che fate loro perdere per tutta l’eternità, i tormenti che preparate loro per l’altra vita; converrete con me, F. M., che nessun uomo è capace di tutto questo. Ah! disgraziati genitori, se li stimaste quanto li stima il demonio! Quando pure egli impiegasse tre mila anni per tentarli, se finalmente riuscisse ad averli, conterebbe per nulla tutte le sue fatiche. Piangiamo, F. M., la perdita di tante anime che i genitori stessi ogni giorno gettano nell’inferno. Diamo uno sguardo superficiale ai vostri doveri, e frattanto, se non avete perduta interamente la fede, vedrete che non avete fatto nulla di quanto il buon Dio vuol che facciate per i vostri figli, o piuttosto che avete fatto tutto quanto occorreva per perderli. Ah! quante persone maritate non andranno in cielo! — E perché? mi direte voi. — Ecco. Perché vi sono molti che entrano nello stato del matrimonio senza le necessarie disposizioni, e profanano così da principio questo sacramento. Sì, dove sono quelli che ricevono questo Sacramento con la dovuta preparazione? gli uni vi sono condotti dal pensiero di accontentare i loro impuri desiderii; gli altri sono attirati da viste d’interesse, o dalle seduzioni della beltà; ma quasi nessuno ha per oggetto Dio solo. Ahimè! quanti matrimoni profanati, e come sono poche le unioni dove regnano la pace e la virtù! Dio mio! Quante persone maritate si danneranno. Ma, no, F. M., non entriamo in questi particolari, vi ritorneremo un’altra volta; parliamo solo dei doveri dei genitori verso i figli; sono abbastanza estesi per servirci da soggetto di trattenimento. Per oggi, F. M., non dirò nulla di quei padri e di quelle madri, del cui delitto non potrei dipingere a colori abbastanza vivi e forti la enormità e l’orrore. Essi fissano, prima di Dio stesso, il numero dei loro figli, mettono dei limiti ai disegni della Provvidenza, s’oppongono alle sue adorabili volontà. Copriamo, F. M., tutte queste turpitudini con un velo, che nel grande giorno delle vendette, Colui, che ha tutto visto, contato e ponderato saprà strappare. I tuoi delitti, amico, sono ancora nascosti, ma fra qualche giorno  Dio saprà manifestarli davanti a tutto l’universo. Sì, F. M., nel giorno del giudizio vedremo tutti gli orrori commessi nel matrimonio e che avrebbero fatto fremere gli stessi pagani. Non dico neppur nulla di quelle madri delinquenti, che vedrebbero senza dolore, ahimè! forse anche con piacere, perire i loro poveri figli prima di averli dati alla luce, e di aver loro procurato la grazia del Battesimo; le une, per timore dei fastidi che proverebbero nell’allevarli; le altre per timore del disprezzo e del rifiuto che proverebbero da un marito brutale ed irragionevole; non dico, senza religione, perché i pagani non farebbero di più, Dio mio! e possono tali delitti trovarsi fra i Cristiani? Eppure F. M., quanto ne è grande il numero! Ancora una volta, quante Persone maritate sono dannate! Ecchè, amico mio, il buon Dio vi ha forse dato cognizioni superiori alle bestie, solo perché poteste offenderlo meglio? Gli uccelletti e gli stessi animali più feroci dovranno servirvi d’esempio? Vedetele,  queste povere bestie, quanto si rallegrano al vedersi moltiplicare i loro nati: di giorno si affaticano a cercar loro il nutrimento, e di notte li coprono colle loro ali per difenderli dalle ingiurie del tempo. Se una mano rapace porta via loro i piccoli, le sentirete lamentarsi; sembra che esse non possano più abbandonare i loro nidi, sempre nella speranza di ritrovarli. Quale vergogna, non dico per i pagani, ma per i Cristiani, che gli animali siano più fedeli nell’adempimento dei disegni della Provvidenza, che non gli stessi figli di Dio; cioè i padri e le madri che Dio ha scelto solo per popolare il cielo! No, no, F. M., non continuiamo, abbandoniamo un argomento così ributtante; entriamo nei particolari che riguardano un maggior numero di persone. Io vi parlerò più semplicemente che mi sarà dato, affinché possiate ben comprendere i vostri doveri ed adempirli.

1° Dico anzitutto che quando una madre è incinta deve pregare o fare qualche elemosina; meglio ancora, se può, far celebrare una Messa, per domandare alla santa Vergine di riceverla sotto la sua protezione, affinché ottenga da Dio che il povero infante non muoia senza aver ricevuto il santo Battesimo. Se una madre avesse veramente il sentimento religioso, direbbe a se stessa: “Ah! se avessi la fortuna di veder questo bambino diventare un santo, e contemplarlo per tutta l’eternità al mio fianco, cantando le lodi del buon Dio, quale gioia per me!„ Ma no, no, F. M., non è questo il pensiero che occupa una madre incinta: essa proverà invece un affannoso dispiacere nel vedersi in questo stato, e forse penserà di distruggere il frutto del suo seno. Dio mio, il cuore di una madre cristiana, può concepire un tale delitto? Eppure, quante ne vedremo, in quel giorno, che avranno nutrito in sé tali pensieri d’omicidio!

2° Dico inoltre che una madre incinta che vuol conservare il figliuolo pel cielo, deve evitare due cose: il portare carichi troppo pesanti e l’alzare le braccia troppo con isforzo per prendere qualche cosa, il che potrebbe nuocere al povero figliuolo e farlo perire. La seconda cosa da evitare, è il prendere rimedi che possano far patire il figliuolo, o dare in iscatti di collera, ciò che potrebbe spesso soffocarlo. I mariti devono tollerare molte cose che in un altro tempo non tollererebbero; se non vogliono farlo per riguardo alla madre, lo facciano almeno per riguardo al bambino; poiché potrebbe perdere la grazia del santo Battesimo; il che sarebbe la più grande di tutte le disgrazie!

3° Quando una madre vede avvicinarsi il tempo del parto, deve andarsi a confessare, e per più ragioni. La prima, perché molte durante il parto muoiono e, se per isventura ella avesse la disgrazia d’essere in peccato, si dannerebbe. La seconda, perché essendo in istato di grazia, tutte le pene e dolori che soffrirà saranno ricompensati in cielo. La terza, perché il buon Dio non mancherà di accordarle tutte le grazie che essa augurerà al suo figliuolo. Una madre, durante il parto, deve conservare il pudore e la modestia, per quanto nel suo stato le sia possibile, e non mai dimenticarsi di essere alla presenza di Dio, ed in compagnia del suo buon Angelo custode. Non deve mangiare mai di grasso nei giorni proibiti, senza permesso, perché attirerebbe la maledizione su di sé e sul figlio.

4° Non lasciate mai passare più di ventiquattro ore senza far battezzare i vostri figli; se non lo fate, vi rendete colpevoli, eccetto però che non abbiate serie ragioni. Per padrini e madrine scegliete persone buone per quanto lo potete; eccone la ragione: tutte le preghiere, le buone opere che faranno i padrini e le madrine, in virtù della parentela spirituale coi vostri figli otterranno a questi una quantità di grazie dal cielo. Sì, F. M., stiamo certi che nel giorno del giudizio vedremo molti figli riconoscersi debitori della loro salute alle preghiere, ai buoni consigli ed ai buoni esempi dei padrini e delle madrine. Un’altra ragione vi obbliga: se voi venite a mancare, essi dovranno tenere il vostro posto. Dunque, se aveste la disgrazia di scegliere padrini e madrine senza religione, questi non potrebbero che condurre i vostri figli all’inferno. Padri e madri, non dovete mai lasciar perdere il frutto del Battesimo ai vostri figli: come sareste ciechi e crudeli! La Chiesa vuol salvarli col santo Battesimo, e voi, per negligenza, li rimettete in potere del demonio! Poveri bambini; in quali mani avete la disgrazia di cadere! Ma quanto ai padrini ed alle madrine non bisogna dimenticare che per farsi mallevadori di un fanciullo è necessario essere sufficientemente istruiti, di poter istruire essi il fanciullo, se il padre e la madre avessero a mancargli. Inoltre bisogna che siano buoni Cristiani ed anche perfetti Cristiani; poiché devono servir d’esempio ai loro figli spirituali. Perciò una persona che non fa Pasqua non deve tener a battesimo un bambino, e neppure una persona che ha una cattiva abitudine e non vuole rinunciarvi, o che va ai balli, o che frequenta abitualmente le bettole; perché ad ogni interrogazione del sacerdote, fa un giuramento falso: cosa grave, come ben vedete, in presenza di Gesù Cristo stesso, e ai piedi del sacro fonte battesimale. Quando non avete le necessarie condizioni per essere padrini cristiani, dovete rifiutare; e, se tutto questo vi è già capitato, dovete confessarvene, e non cadere più in simile peccato.

5° Non dovete far dormire i vostri figli con voi prima dell’età di due anni; se lo fate, commettete peccato. La Chiesa ha fatto questa legge non senza ragione: voi siete obbligati ad osservarla. — Ma, mi direte, alle volte fa molto freddo, o si è molto stanchi. — Questo non è una ragione che possa scusarvi davanti a Dio. Del resto, quando vi siete maritati, sapevate che sareste stati obbligati a portare il peso e ad adempiere i doveri inerenti a questo stato. Vi sono anche, F. M., dei padri e delle madri così poco istruiti in materia di religione, o così noncuranti dei loro doveri, che fanno dormire con sé figliuoli dai quindici ai diciotto anni, e spesso anche fratelli e sorelle assieme. Dio mio in quale stato d’ignoranza sono questi padri e queste madri! — Ma, mi direte, non abbiamo letti. — Voi non avete letti: ma è meglio farli dormire su di una seggiola, o in casa del vostro vicino. Dio mio! quanti genitori e figli dannati! Ma ritorno ancora al mio punto, dicendo che tutte le volte che fate dormire con voi i figliuoli prima che abbiano due anni, offendete il buon Dio. Ahimè! quanti poveri bambini alla mattina sono trovati soffocati dalla madre, ed a quante madri, qui presenti, è toccata questa disgrazia! E quand’anche Iddio ve ne avesse preservate, non siete meno colpevoli che se li aveste trovati soffocati ogni qualvolta hanno dormito con voi. Voi non volete convenirne, cioè non ve ne correggete: aspettiamo il giorno del giudizio, ed allora sarete obbligate di ammettere quanto ora non volete riconoscere. — Ma, mi direte, quando sono battezzati non vanno perduti, anzi vanno in cielo. — Senza dubbio, F. M., non andranno perduti, ma siete voi che vi perderete; del resto sapete voi a che cosa destinava Iddio quei figliuoli? Forse quel bambino sarebbe stato un buon sacerdote. Avrebbe condotto una quantità di anime a Dio; ogni giorno, celebrando la S. Messa, avrebbe reso più gloria a Dio che tutti gli angeli ed i santi riuniti insieme in cielo. Avrebbe tratto più anime dal purgatorio che non le lagrime e le penitenze dei solitari offerte al trono di Dio. Comprendete ora, il male di lasciar morire un fanciullo, anche battezzato? Se la madre di S. Francesco Saverio, che fu un gran santo che ha convertito tanti idolatri, l’avesse lasciato perire; ahimè! quante anime nell’inferno, al giorno del giudizio, la rimprovererebbero di essere stata la causa della loro dannazione, perché quel fanciullo era mandato da Dio per convertirli! Voi lasciate perire quella bambina che forse si sarebbe data a Dio; colle sue preghiere e co’ suoi buoni esempi avrebbe condotto un gran numero di anime al cielo. Forse madre di famiglia, avrebbe ben allevato i suoi figli che, a loro volta, ne avrebbero allevati altri, e così la religione si sarebbe mantenuta e conservata per numerose generazioni. Voi contate poco, F. M., la perdita di un fanciullo, col pretesto che è battezzato; ma aspettate il giorno del giudizio, e vedrete e riconoscerete ciò che non comprenderete mai in questo mondo. Ahimè! se i padri e le madri facessero di tanto in tanto questa riflessione, quante anime di più vi sarebbero in cielo.

6° Io dico che i genitori sono colpevoli assai quando accarezzano i loro figli in un modo troppo sconveniente. — Ma, mi direte, non facciamo alcun male, è soltanto per carezzarli; — ed io invece vi dirò che offendete il buon Dio, e che attirate la maledizione su questi poveri bambini. Sapete che cosa ne avviene? Ecco: Vi sono dei fanciulli che hanno presa questa abitudine dai genitori, e l’hanno conservata fino alla loro prima comunione. Ma, mio Dio! si può credere che questo avvenga da parte di genitori cristiani?

7° Vi sono delle madri, che hanno sì poca religione, o se volete, sono così ignoranti, che per mostrare alle vicine la robustezza dei loro figli li scoprono nudi; altre per lavarli, li lasciano per lungo tempo scoperti davanti a tutti. Ebbene non dovreste farlo, neppure se niuno vi fosse presente. Forse non dovete rispettare la presenza dei loro Angeli custodi? Lo stesso dicasi quando li allattate. Deve forse una madre cristiana lasciare il seno scoperto? e quantunque ben coperta, non deve forse voltarsi dove non vi sia alcuno? Altre, sotto pretesto che sono nutrici, non si coprono che per metà; quale abbominazione! Non c’è da far arrossire persino i pagani? Si è obbligati, per non esporsi a sguardi impuri, di fuggire la loro compagnia. Che orrore! — Ma, mi direte, quantunque vi sia presente alcuno, bisogna pur allattare i figli e fasciarli quando piangono. — Ed io vi dirò che quando piangono, dovete fare tutto il possibile per acquietarli; ma è meglio lasciarli piangere un poco che offendere Iddio. Ahimè! quante madri sono causa di sguardi impuri, di cattivi pensieri, di toccamenti disonesti! Ditemi, sono quelle le madri cristiane che dovrebbero essere così riservate? Dio mio! quale giudizio dovranno subire? Altre sono così maleducate che d’estate lasciano correre per tutta la mattina i loro figli mezzo nudi. Ditemi, o miserabili, non stareste forse meglio tra le bestie selvagge? Dove è la vostra religione e il pensiero dei vostri doveri? Ahimè! della religione non ne avete, e quanto ai vostri doveri, non li avete mai conosciuti. Voi stesse ne date la prova ogni giorno. Ah! poveri figli, quanto siete disgraziati d’aver tali genitori!

8° Dico, che dovete ancora sorvegliare i vostri figli quando li mandate nei campi; là, lontani da voi, si abbandonano a tutto ciò che il demonio ispira loro. Se l’osassi, vi direi che essi commettono ogni sorta di disonestà; che passano delle mezze giornate nel far cose abbominevoli. So che la maggior parte non conoscono il male che fanno; ma aspettate quando ne avranno la conoscenza. Il demonio non mancherà di ricordar loro quello che han fatto in questi momenti, per farli peccare. Sapete, F. M., ciò che produce la vostra negligenza o la vostra ignoranza? Eccolo: ricordatevelo bene. Una buona parte dei figliuoli che mandate nei campi, alla loro prima comunione commettono dei sacrilegi; essi hanno contratto delle abitudini vergognose: e non osano manifestarle, ovvero non se ne sono corretti. In seguito, se un sacerdote che non vuol dannarli, non li ammette, lo si rimprovererà, dicendo: Fa così perché è il mio … “Via, miserabili, vegliate un po’ meglio sui vostri figli, e saranno ammessi. Sì, dirò che la maggior parte dei vostri figli hanno cominciato la lor riprovazione da quando cominciarono ad andare nei campi. — Ma, mi direte, noi non possiamo seguirli sempre, avremmo ben da fare. — Per questo, F. M., non vi dico nulla; ma tutto quello che so è che voi risponderete delle anime loro come della vostra. — Ma noi facciamo quello che possiamo. — Io non so se voi fate quello che potete; ma quello che so è questo, che se i vostri figli presso di voi si dannano, vi dannerete voi pure; ecco quello che so, e niente altro. Avrete un bel dir di no, che io vado troppo avanti; se non avete del tutto perduta la fede, ne converrete; ciò solo basterebbe a gettarvi in una disperazione dalla quale non potreste più uscirne. Ma io so che voi non farete un passo di più per meglio osservare i vostri figli; voi non vi inquietate di questo; ed avete quasi ragione, perché avrete il tempo di tormentarvi durante tutta l’eternità. Andiamo avanti.

9. Non dovete far dormire le vostre domestiche o le vostre figlie, in appartamenti, dove alla mattina vanno i servi a cercare le rape o le patate. Bisogna dirlo, a confusione dei padri e delle madri, dei padroni e delle padrone; povere fanciulle e povere domestiche, avranno la confusione di alzarsi, di vestirsi davanti a gente che ha tanta religione quanta ne avrebbe se non avesse mai sentito parlare del vero Dio. Spesso poi i letti di queste povere fanciulle non avranno cortine. — Ma, mi direte, se bisognasse fare tutto ciò che voi dite, quanto lavoro ci sarebbe. — Amico mio, è questo appunto ciò che dovete fare, e se non lo fate ne sarete giudicati e puniti: certamente. Voi non dovete far dormire i vostri figli che hanno già sette od otto anni, nella vostra stessa camera. Ricordatevi, F. M., non conoscerete il male che fate se non al giudizio di Dio. So bene che non farete nulla o quasi nulla di ciò che vi insegno; non importa; io vi dirò sempre tutto ciò che vi devo dire; dopo, tutto il male sarà vostro e non mio, perché vi faccio conoscere ciò che dovete fare per adempire i vostri doveri verso i figli. Quando il buon Dio vi giudicherà, non potrete dire che non sapevate ciò che bisognava fare; io allora vi ricorderò ciò che oggi vi ho detto. – Avete adunque visto, F. M., che i vostri figli, benché piccoli, vi fanno commettere molte mancanze; ora vedrete che quando saranno alti ve ne faranno commettere di più grandi e di più funeste per voi e per essi. Converrete tutti con me, F. M., che più i vostri figli avanzano in età più dovete raddoppiare le preghiere e le cure, perché i pericoli sono maggiori, e le tentazioni più frequenti. Ditemi ora, fate voi tutto questo? No, senza dubbio; quando i vostri figli erano piccoli voi avevate la cura di parlar loro del buon Dio, di far loro recitare le preghiere; vegliavate un po’ sulla loro condotta, domandavate loro se si erano confessati, se avevano assistito alla santa Messa; avevate la precauzione di ricordar loro d’andare alla dottrina. Ma da quando hanno raggiunto i diciotto o i venti anni, non ispirate più loro in cuore l’amore ed il timor di Dio, non ricordate loro la felicità di chi lo serve in questa vita, il rimorso che si ha morendo, di andare perduti: ahimè! quei poveri figli sono pieni di vizi; ed hanno già mille volte trasgredito, senza conoscerli, i comandamenti della legge di Dio: il loro spirito è ripieno delle cose terrene, e vuoto di quelle di Dio. Voi parlate loro del mondo. Una madre comincerà a dire alla figliuola che la tale si è unita col tale, e che è stato un buon partito; bisognerebbe che anch’essa trovasse simile fortuna. Questa madre non avrà in mente che la figlia, cioè, farà tutto ciò che potrà per farla comparire agli occhi del mondo. Essa la coprirà di vanità, fors’anche a costo di far dei debiti; le insegnerà a camminare diritta, dicendole che cammina tutta curva, o non si sa che cosa somigli. Certo vi stupisce che vi siano madri così cieche. Ahimè! come è grande il numero di queste povere cieche che cercano la perdita delle loro figlie! Altra volta, vedendole uscire la mattina, si daranno maggior premura di guardare so hanno la cuffia ben accomodata, il viso e le mani ben pulite, che di chiedere se hanno offerto il loro cuore a Dio, se hanno fatto le loro preghiere e offerta a Dio la loro giornata; di questo non parlano mai. Altre volte diranno alle figliuole che non bisogna essere troppo rustiche, che bisogna far buon viso a tutti; che bisogna farsi delle conoscenze per potersi collocare. Quante madri o poveri padri accecati dicono al figlio: Se ti porterai gentilmente o se farai bene quella cosa, ti lascerò andare alla fiera di Montmerle o alla sagra, cioè, se farai sempre quello che io vorrò, ti trascinerò nell’inferno! Dio mio, è questo il linguaggio di genitori cristiani che dovrebbero pregare giorno e notte per i loro propri figli, affinché il buon Dio ispiri loro un grande orrore per i piaceri, un grande amore per Lui e per la salute della loro anima? Quello che addolora ancor di più, è vedere che vi sono figliuole le quali non sono affatto portate ad uscir di casa; ed i genitori le pregano, le sollecitano dicendo loro: Se stai sempre in casa non troverai da collocarti, fuori non sarai conosciuta. Volete voi, madre mia, che la vostra figlia faccia delle conoscenze? Non inquietatevi troppo, ne farà senza che voi abbiate a tormentarvi tanto; aspettate ancora un po’ e, vedrete, se le avrà fatte. La figlia, che non avrà forse il cuore guasto come quello della madre, soggiungerà: Farei volentieri come voi volete; ma il signor Parroco non vuole; ci dice che tutto ciò non fa che attirare la maledizione del buon Dio nei matrimoni. Io non mi sento voglia di andar a ballare, che ve ne pare, mamma? — Eh! Buon Dio, quanto sei ingenua, figlia mia, ad ascoltare il signor Parroco; bisogna bene che egli dica qualche cosa; è il suo mestiere; noi si prende quello che si vuole e si lascia il resto agli altri. — Ma, allora, non faremo Pasqua? — Ah! povera bambina; se lui non ci assolverà, andremo da un altro; ciò che rifiuta l’uno, un altro l’accetta sempre. Figlia mia, sii prudente, ritorna presto, ma va pure; quando non sarai più giovane avrai finito di divertirti. „ Un’altra volta sarà una vicina che le dirà: “Voi lasciate troppo libera vostra figlia, essa finirà col darvi dei dispiaceri. — Mia figlia! le risponderà; non temo proprio di nulla. E poi le ho raccomandato di essere prudente ed essa me l’ha promesso; sono sicura che frequenta solo persone dabbene.„ — Madre mia, aspettate ancora un po’ e vedrete il frutto della sua assennatezza. Quando la colpa sarà palese, vostra figlia diventerà argomento di scandalo per tutta la parrocchia, coprirà di obbrobrio e di disonore la famiglia; e se nulla se ne scorgerà, cioè se nessuno lo saprà, tuttavia essa porterà sotto il velo del sacramento del matrimonio un cuore ed un’anima guasti da impurità, alle quali s’era data prima del matrimonio, fonte di maledizioni per tutta la sua vita. — Ma, dirà una madre, quando vedrò mia figlia andar troppo oltre, allora saprò ben io fermarla; non la lascerò più uscire, oppure adoprerò il bastone. — Voi, o madre, non le darete più il permesso; non inquietatevi, essa saprà prenderselo senza che voi vi affatichiate a darglielo, e se mostrerete anche solo di volerglielo rifiutare, ella saprà ben minacciarvi, burlarsi di voi, e partire. Siete stata voi ad eccitarla la prima volta, ed ora non potrete più trattenerla. Forse piangerete, ma a che serviranno le vostre lagrime? a nulla, se non a farvi ricordare che vi siete ingannata, che dovevate essere più prudente e guidar meglio i vostri figli. Se ne dubitate, ascoltatemi un momento e, malgrado la durezza del vostro cuore, per l’anima dei vostri poveri figli, vedrete che è solo il primo passo quello che costa; una volta che li avete lasciati uscir di strada non ne siete più padrone, e spesso fanno una fine miserabile. – Si racconta nella storia, che un padre aveva un figlio il quale gli dava ogni sorta di consolazioni; era buono, obbediente, riservato nelle sue parole, ed era nel medesimo tempo l’edificazione di tutta la parrocchia. Un giorno che vi fu un divertimento nel vicinato, il padre gli disse: “Figlio mio, tu non esci mai; va a divertirti un po’ coi tuoi amici, sono giovani dabbene, e non sarai in cattiva compagnia.„ Il figlio gli rispose: “Padre, per me non v’ha piacere più grande, e miglior divertimento che il restare in vostra compagnia.„ Ecco una bella risposta da parte di un figlio, che preferisce la compagnia di suo padre a tutti gli altri piaceri ed a tutte le altre compagnie. “Ah! figlio mio, gli rispose il povero padre accecato, verrò anch’io con te.„ Il padre parte col figlio. La seconda volta, il giovane non ha più bisogno di farsi tanto pregare; la terza va da solo, non ha bisogno di suo padre; al contrario, il padre comincia a dargli fastidio; egli conosce già molto bene la strada. Il suo spirito non è più preoccupato che dal suono degli strumenti che ha sentito, delle persone che ha viste. E finisce coll’abbandonare quelle piccole pratiche di pietà che si era prescritte quand’era tutto di Dio; finalmente si lega con una giovane ben più cattiva di lui. I vicini cominciano già a parlare di lui, come di un nuovo libertino. Quando il padre se n’accorge, vuol opporsi, gli proibisce di andare in qualsiasi luogo senza il suo permesso; ma non trova più nel figlio l’antica sottomissione. Nulla può più fermarlo; si burla del padre, dicendogli che, non potendo ora divertirsi lui, vuol impedirlo anche agli altri. Il padre disperato, non vede più rimedio, si strappa i capelli, vuol castigarlo. La madre che capiva meglio del marito i pericoli di quelle compagnie, gli aveva spesso ripetuto che faceva molto male, che avrebbe avuto dei dispiaceri; ma era troppo tardi. Un giorno il padre, vistolo tornare da quei divertimenti, lo castigò. Il figlio, vedendosi contrariato dai genitori, si arruolò soldato; e qualche tempo dopo il padre ricevette una lettera che gli annunciava che il figliuol suo era rimasto schiacciato sotto i piedi dei cavalli. Ahimè! dove andò questo povero figlio? Dio non voglia che sia andato all’inferno. Intanto se egli si è dannato, come tutto fa credere, il padre fu la vera causa della sua perdizione. Quand’anche il padre facesse penitenza, la sua penitenza e le sue lagrime non riusciranno mai a strappare quel povero figlio dall’inferno. Ah! disgraziati genitori che gettate i vostri figli nelle fiamme eterne! Voi trovate questo alquanto esagerato; ma se esaminiamo davvicino la condotta dei genitori, vediamo che questo è quello appunto che essi fanno tutti i giorni. Se ne dubitate solo un po’ tocchiamo più da vicino questo punto. Non è vero che vi lamentate ogni giorno dei vostri figli? che non potete più comandar loro? purtroppo è vero. Voi forse avete dimenticato quel giorno in cui avete detto a vostro figlio o a vostra figlia: Se vuoi andare alla fiera di Montmerle, o alla Sagra, va pure, non ritornare però troppo tardi. Vostra figlia vi ha risposto che avrebbe fatto ciò che volevate. — Va pure, non esci mai, bisogna che ti pigli un momento di svago. — Non potete dir di no. Ma dopo qualche tempo, non avrete più bisogno di sollecitarla, né di darle il permesso. Allora, vi affliggerete, perché esce di casa senza dirvelo. Guardatevi indietro, o madre, e vi ricorderete che le avete dato il permesso una volta per tutte. Di più: vedete che cosa accadrà quando le avrete permesso di andare ovunque la conduca la sua testa senza cervello. Voi volete ch’essa faccia delle conoscenze per potersi collocare. State certa, che continuando a correre per le strade, ne farà tante, e moltiplicherà le sue colpe. Sarà questo cumulo di peccati che impedirà alla benedizione di Dio di spandersi su questi poveri figli al momento del loro matrimonio. Ahimè! questi poveretti sono già maledetti da Dio! Mentre il sacerdote alza la mano per benedirli, Dio dall’alto de’ cieli lancia le sue maledizioni. E di qui comincerà una spaventosa sorgente di disgrazie per essi. Questo nuovo sacrilegio, aggiunto a tanti altri, fa perder loro la fede per sempre. Allora, nel matrimonio, dove si crede tutto permesso, la vita non è più che un abisso di corruzione che farebbe fremere l’inferno stesso se ne fosse testimonio. Ma tutto questo dura poco. Ben presto cominceranno a non essere rari i dispiaceri, gli odi, gli alterchi ed i cattivi trattamenti dall’una e dall’altra parte. — Dopo cinque o sei mesi di matrimonio il padre vedrà suo figlio infuriato e quasi disperato, maledire i genitori, la moglie e fors’anche quelli che hanno combinato il matrimonio. Suo padre, stupito, gli domanderà che cosa è successo: “Ah! quanto sono disgraziato; ah! se quando son nato mi aveste ucciso, o se prima del mio matrimonio qualcheduno m’avesse avvelenato! — Ma, figlio mio, gli dirà il padre tutto affannato, bisogna aver pazienza. Che cosa vuoi! forse non sarà sempre così. — Non mi dite nulla, se mi sentissi il coraggio, mi tirerei una fucilata, o mi getterei nel fiume: con costei bisogna ad ogni momento altercare e battersi.„ — Non è questo, o buon padre, il frutto di quelle parole: Lasciamo che il Parroco dica, bisogna far delle conoscenze, altrimenti non si troverà da collocarsi. Va pure, figlio mio, sii prudente, torna di buon’ora e sta tranquillo? Sì, senza dubbio, amico mio, se foste stato assennato ed aveste consultato Iddio, non vi sareste collocato come avete fatto; Dio non l’avrebbe permesso; ma avrebbe fatto con voi come col giovane Tobia; vi avrebbe scelto Lui stesso una sposa che, venendo in casa, vi avrebbe apportato la pace, la virtù, ogni sorta di benedizioni. Ecco, amico mio, ciò che avete perduto non volendo ascoltare il vostro pastore ed avendo seguito il consiglio dei vostri ciechi genitori. – Un’altra volta sarà una povera figliuola che verrà, forse tutta ammaccata di battiture, a deporre nel seno della madre le sue lagrime ed i suoi dispiaceri. Esse mescoleranno assieme le loro lagrime: “Ah! madre mia, quanto sono stata disgraziata d’aver preso un marito come quello! così malvagio e brutale! Io credo che un giorno si dirà ch’egli mi ha uccisa.„ — “Ma, le dirà la madre: devi fare tutto ciò che ti comanda.„ — “Io lo faccio sempre; ma nulla lo accontenta, è sempre in collera.„ — “Povera figliuola, le dirà la madre, se avesti sposato un tale che t’ha domandata, saresti stata ben più felice… „ Voi v’ingannate, madre, non è questo che dovete dirle. “Ah! povera figlia, se t’avessi insegnato il timore e l’amor di Dio, non t’avrei mai lasciata correre ai divertimenti: Dio non avrebbe permesso che tu fossi così disgraziata…„ Non ricordate, buona madre, quelle vostre parole: lascia dire il signor Parroco, va pure; sii prudente, ritorna di buon’ora e sta tranquilla. Va benissimo, madre mia, ma ascoltate. Un giorno, passai vicino ad un gran fuoco; presi una manata di paglia e ve la gettai dentro, dicendole di non bruciare. Quelli che furono testimoni del mio atto, mi dissero, burlandosi di me: “Avete un bel dirle di non bruciare; non l’impedirete certo. — E come, risposi, se io le dico di non bruciare?„ Che ne pensate, madre mia? vi riconoscete? Non è questa la vostra condotta, o quella della vostra vicina? Non è vero che avete detto a vostra figlia prima di concederle che partisse, di essere assennata? — Sì, senza dubbio… — Andate, buona madre, voi foste cieca, voi siete stata il carnefice dei vostri figli. Se essi sono disgraziati nel loro matrimonio, voi sola ne siete la causa. Ditemi, buona madre, se aveste avuto un po’ di religione e di amore per i vostri figli, non dovevate fare tutto il possibile per evitar loro il male che avete commesso voi, quando eravate nella medesima condizione? Parlerò più chiaro. Non siete abbastanza contenta di esser disgraziata voi; volete che lo siano anche i vostri figli. E voi, figlia mia, siete sfortunata nella vostra famiglia? Me ne dispiace assai; ma ne sono meno stupito che se mi diceste che siete felice, dopo le disposizioni che avete portato al vostro matrimonio. – Sì, F. M., la corruzione oggi è salita tant’alto tra i giovani, che sarebbe quasi impossibile trovare chi riceva santamente questo Sacramento, come è impossibile vedere un dannato salire al cielo. — Ma, mi direte, ve ne sono ancora alcuni. — Ahimè! amico mio, dove sono?… Ah! sì, un padre od una madre non mettono alcuna difficoltà di lasciare per tre o quattro ore, alla sera od anche durante i vespri, la loro figlia con un giovane. — Ma, mi direte, sono buoni. — Sì, senza dubbio, sono buoni; la carità deve farcelo credere. Ma ditemi, madre mia, eravate voi buona quando eravate nel medesimo caso di vostra figlia? – Finisco, F. M., dicendo che se i figli sono disgraziati in questo mondo e nell’altro, è colpa dei genitori che non hanno usato tutti i mezzi possibili per condurli santamente per la via della salute, dove il buon Dio li avrebbe certo benedetti. Ahimè! al giorno d’oggi, quando un giovane od una giovane vogliono collocarsi, bisogna assolutamente che abbandonino il buon Dio. No, non entriamo in questi particolari; vi tornerò su un’altra volta. Poveri padri e povere madri, quanti tormenti vi aspettano nell’altra vita! Fin che la vostra discendenza durerà, voi parteciperete a tutti i suoi peccati, sarete puniti come se li aveste commessi voi, e per di più renderete conto di tutte le anime della vostra discendenza che si danneranno. Tutte queste povere anime vi accuseranno di averle fatte perdere. Questo è facilissimo da comprendersi. Se aveste ben allevato i vostri figli, essi avrebbero allevato bene i loro: si sarebbero salvati gli uni e gli altri. Ciò non basta ancora; voi sarete responsabili davanti a Dio di tutte le buone opere che la vostra discendenza avrebbe fatte sino alla fine del mondo, e che non avrà fatto per causa vostra. Che ne pensate, padri e madri? Se non avete ancor perduta la fede, non avete motivo di piangere sul male che avete fatto, e sull’impossibilità di rimediarvi? Non avevo io ragione di dirvi, in principio, che è quasi impossibile mostrarvi in tutta la sua luce la grandezza dei vostri doveri? Eppure quello che vi ho detto oggi non è che un piccolo sguardo. Ritornate domenica, padri e madri, lasciate la casa in custodia ai vostri figli, ed io continuerò, senza però potervi far comprenderò tutto. Ahimè! quanti genitori trascinano i loro poveri figli nell’inferno, e insieme vi cadono essi stessi. Dio mio! si può pensare a tanta sciagura senza fremere? Felici quelli che il buon Dio non chiama al matrimonio! Quale conto di meno avranno da rendere! — Ma, mi direte: “Noi facciamo quello che possiamo.„ Voi fate ciò che potete, sì, senza dubbio; ma per perderli, non per salvarli. Finendo vi voglio mostrare che non fate quello che potete. Dove sono le lagrime versate, le penitenze e le elemosine fatte per domandare a Dio la loro conversione? Poveri figli, quanto siete disgraziati d’appartenere a genitori, i quali non lavorano che a rendervi infelici in questo mondo, ed ancor più nell’altro! Come vostro padre spirituale, ecco il consiglio che vi do: Quando vedete i vostri genitori che mancano alle funzioni, lavorano alla domenica, mangiano di grasso nei giorni proibiti, non frequentano più i Sacramenti, non s’istruiscono, fate tutto il contrario; affinché i vostri buoni esempi li salvino, e se otterrete questa felicità, avrete tutto guadagnato. E ciò che vi auguro.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXXVI: 1
Super flúmina Babylónis illic sédimus et flévimus: dum recordarémur tui, Sion.

[Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti e abbiamo pianto: ricordandoci di te, o Sion.]

Secreta

Cœléstem nobis præbeant hæc mystéria, quǽsumus, Dómine, medicínam: et vítia nostri cordis expúrgent.

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che questi misteri ci siano come rimedio celeste e purífichino il nostro cuore dai suoi vizii.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXVIII: 49-50
Meménto verbi tui servo tuo, Dómine, in quo mihi spem dedísti: hæc me consoláta est in humilitáte mea.

[Ricordati della tua parola detta al servo tuo, o Signore, nella quale mi hai dato speranza: essa è stata il mio conforto nella umiliazione.]

Postcommunio

Orémus.
Ut sacris, Dómine, reddámur digni munéribus: fac nos, quǽsumus, tuis semper oboedíre mandátis.

[O Signore, onde siamo degni dei sacri doni, fa’, Te ne preghiamo, che obbediamo sempre ai tuoi precetti].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA