IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (2)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (2)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO SECONDO

ARGOMENTO 

La venuta del Redentore fu indugiata e perché. Quindi se ne costituì il Paganesimo antico che separò interamente l’uomo privato e pubblico da Dio. La società moderna tende a quella stessa separazione e comincia a coglierne gli stessi frutti.

I. Uno dei divini consigli, a prima vista, men penetrabile dalla nostra inferma pupilla, è la lunga espettazione, in che l’uman genere dovette stancarsi e languire, innanzi di vedere in effetto mandato al mondo il promesso Riparatore. Sarebbe certo paruto convenientissimo, che al veleno fosse venuto appresso, senza indugio, l’antidoto, ed alla ferita fosse stato tosto applicato il balsamo. E nondimeno, voi lo sapete! Per ben quaranta secoli, di quel Riparatore aspettatissimo si ebbero le promesse, i tipi, i vaticinii, le immagini, più o meno espressive e le speranze; ma quanto alla realtà, oh ! questa non si ebbe da forse un centinaio e mezzo di generazioni che, nell’ampiezza dello spazio e nella lunghezza del tempo, si succedettero. E frattanto le tenebre si addensavano sulle tenebre; le nefandezze si aggiungevano alle nefandezze; l’idolatria, senz’alcun rallento, infelloniva; il lume naturale della ragione si offuscava ognora peggio con una proporzionata per versione delle volontà; e, salvo una piccola gente poco conosciuta e meno pregiata, sarebbesi detto che tutta la umana famiglia, abbandonata a cieco e ferreo destino, non avesse per sua eredità che nequizia e dolori al di qua della tomba: al di là condanna e perdizione . Perché dunque indugiare tanti secoli a mandare sulla terra un rimedio, il quale pure Iddio, per sua pietà, avea decretato e promesso, fino dall’ora stessa del gran peccato, pei nostri danni famoso? Io non so, miei riveriti uditori, se questo dubbio siasi affaccialo mai alla vostra mente; ma pare che, fino dai primi secoli della Chiesa, i Gentili lo proponessero ai Cristiani, trovando noi espressamente in Arnobio quel dubbio; come mosso da loro :l Cur tam sero missús est Sospitator? (ARNOB., II, DISCORSO SECONDO 23). Né vi deve far meraviglia, che il grande Apologista rispondesse schiettamente di non lo sapere: Non imus inficias nescire nos; e nessun uomo d’intelletto può vedere in questa ignoranza ona ragione, perché se ne debba scemar punto nulla la dignità o la fermezza della nostra credenza . Che se Iddio avria potuto, senza ombra d’ingiustizia, non mandarlo mái quel Salvatore; chi sarà ardito chiedergli ragione del non averlo mandato più presto? soprattutto che, in quei lunghi secoli, diciamo così, di aspettativa, la Fede in quel Salvatore venturo potea valere e valse di fatto alla giustificazione di non pochi, come al presente vale tra noi la Fede nel Salvatore veņuto. Dall’altra parte, essendo i divini consigli giustificati in loro stessi da quella infinita sapienza, onde sono misurati, il sol vedere che Iddio fe’ apparire il Verbo Umanato in un tempo piuttosto che in un altro, ci dee bastare, senza più, a giudicare, quello propriamente essere stato il tempo più opportuno a quella venuta; e la opportunità in questo caso non dee prendersi altronde, che dalla salute degli eletti. Tuttavolta l’Angelico san Tommaso, con quell’acume d’ingegno e con quella umiltà di Fede, onde interrogò tanti Misteri e ne trovò congruenze o ragioni vere alla stess’ora ed istruttive, l’Angelico, io dico, propose nella sua Somma quel dubbio intorno al perché tardasse tanto il Salvatore a venire al mondo; e ne rese una ragione soprammodo acconcissima a farvi intendere quella radice intima del Paganesimo, la quale io vi promisi di mostrarvi in questo Discorso, essere stata la separazione dell’uomo da Dio. Da quella ragione adunque dell’indugio prendendo le mosse, io vi dichiarerò questa radice del Paganesimo antico, per poscia mostrarlavi, a non dubbii segni ripullulante, per nostro inestimabile danno, nel nuovo. Incomincio.

II. Propostosi dunque san Tommaso quel dubbio, (3. p . q . 2 , a. 5.) risponde chiaro e reciso, avere Iddio lasciata la umana famiglia, i lunghi secoli, colla sola legge naturale impressale nella mente e colla libertà dell’arbitrio, che è facoltà inseparabile dal volere intelligente, affine che gli uomini prendessero un saggio delle proprie forze, e conoscessero quello di che era capace la loro natura di per sè sola, e senz’alcuno aiutorio che le venisse dall’alto. Reliquit Deus prius hominem in libertate arbitrii, ut sic vires naturæ cognosceret. Quasi volesse dire: se dopo il veleno fosse tosto venuto l’antidoto; se dopo la ferita fosse stato tosto applicato il balsamo, l’uomo sconoscente ed orgoglioso avria potuto pensare che alla fin fine, anche senza quei rimedii, avrebbe potuto da sé fare qualche cosa (e perché non anche tutto?) a sua salvezza. Ma supposto che il morbo fosse dichiarato dalla sperienza, non che grave, insanabile, e ciò non per difetto della legge naturale o della scritta, ma propriamente per imbecillità della natura estenuata ed inferma; allora l’aiuto arrivava desiderato, invocato, sospirato, riconosciuto indispensabile; e così veniva condito da quel sentimento di umiltà, il quale Iddio richiede e pregia sopra ogni altra cosa in questa povera e superba nostra argilla. Invaluit morbus non legis, sed naturæ vitio, ut ita (homo), cognita sua infirmitate, clamaret ad medicum et gratiæ quæreret auxilium (Ibid..) E di quei clamori sono piene le Scritture; le quali ad una voce ci dicono, che nel Messia spererebbero le Nazioni: In eum Gentes sperabunt (Rom . XV: 12). Dovea insomma essere tanto desiderato dalle Nazioni quel Salvatore, che per antonomasia ne fosse detto la ESPETTAZIONE: Expectatio Gentium (Gen. XLIX , X. 26). Che se quello sperimento di quaranta secoli, compiuto al prezzo di tanti delitti, di tanta corruzione, di tanti dolori e di tante dannazioni, vi paresse per avventura troppo lungo, io vi dirò in primo luogo, che l’opera d’imprimere altamente nell’uman genere un sentimento, ed un sentimento così ripugnante al natio suo orgoglio, non era faccenda da compiersi in anni ed in lustri, ma a dirittura avea uopo di secoli noverati per lo meno a decine. Appresso vi pregherò di osservare, che se quei quaranta secoli di così doloroso sperimento quasi non sono bastati a fare universalmente intendere e sentire la debolezza della umana natura; se neppure è bastata la giunta degli altri diciotto secoli e mezzo che per noi Cristiani vi si sono accumulati; e noi dopo cinque mila ottocensessant’un anno di sperimento, non siamo ancora fatti capaci di quella debolezza della nostra natura: tanto che a mezzo il secolo decimonono, baldi e pettoruti, andiamo fantasticando non so che progressi umanitarii, non so che perfettibilità indefinite e non so che altre pazze utopie, fondate tutte sul ripudio d’ogni rivelazione divina e sulla presunzione che la natura debba bastare a sé stessa; stando, dico, le cose a questi termini, chi vorrà dire che sia stato troppo lungo quello sperimento? Anzi, a dirvi proprio il mio pensiero, io lo vorrei quasi dire troppo breve; e certo fu più breve di quello che sarebbe potuto essere, parendomi di aver trovato nelle Scritture, che Iddio accorciò quegl’indugi; in riguardo degli accesi prieghi che venivangli dagli umili servi suoi, impazienti di pure vedere partorita al mondo quella tanta salute. Nel resto, se dalla superbia degli uomini carnali si fosse dovuto aspettare quell’ umile riconoscimento del quanto poco valga questa scaduta nostra natura, io vi so dire che né i quaranta, né i quattrocento secoli non sariano bastati; perché l’umano orgoglio è irretrattabile, è incorreggibile, è eterno, come eterno dovrà essere lo svilimento ed il castigo che lo fiacchi finalmente e lo conquida. Ma, escluso questo eccesso di cieca superbia dalle mire pietose della Provvidenza, pel comune dei mortali era richiesto che la umana natura sperimentasse le proprie forze; e le età che corsero da Adamo al diluvio, da questo ad Abramo, da questo a Mosè e da Mosè a Cristo furono appunto deputate a questo grande e salutare sperimento A voi nondimeno potrebbe parere strano che di cosa tanto, ovvia, quanta è la nostra naturale debolezza, fosse uopo convincerci per via così proliss , così umiliante e così dolorosa. Eh! Signori miei! che giova illuderci? Che che sia del concetto più o men favore vole, che ciascun di noi può portare di sé medesimo come di uomo individuo, il certo è che noi mortali abbiamo comunemente una matta presunzione, una inestimabile albagia, un’arroganza intollerabile, quanto alle forze che attribuiamo alla nostra natura. E somigliamo in ciò certi nobili decaduti, i quali, nella loro minore fortuna, tollererebbero rassegnati non poche onte anche gravi; ma guai chi poco poco si attentasse a recarne in dubbio i titoli, che ne attestano la chiarezza del sangue e lo splendore del casato! E tale noi altresì: benché conscii a noi medesimi di non poche debolezze e non lievi, noi ci compiacciamo a pensare che in noi medesimi, nel fondo della propria natura abbiamo quanto basta ad ogni gran cosa, e se non la facciamo, ciò è solamente, perché non la vogliamo fare. – Così nelle cose morali la nostra superbia ci traduce spesso il non posso in non voglio; come per contrario nel sovvenire il prossimo la nostra pigrizia od avarizia ci fa tradurre il vero non voglio in un finto non posso. Ora se vi ha concetto che dirittamente ripugni a tutta la economia della Redenzione, è appunto questo. Quella consiste sostanzialmente e si compendia in un aiuto venutoci dal di fuori, venutoci graziosamente, venutoci per indispensabile supplemento e conforto della inferma e debilitata nostra natura. Anzi, atteso la ragionevole e libera condizione di questa medesima natura, è irremovibile divino decreto, che quell’aiuto non porgasi, e non si applichi quel conforto, se non a chi umile riconosca il suo bisogno e volente lo implori: supposto, s’intende, che abbia abilità di farlo. Di qui voi potete intendere di quanta rilevanza fosse quello sperimento, che Iddio ordinò si prendesse dall’uman genere, quando lo lasciò tanti secoli governarsi in tutto e per tutto da sé, coi soli naturali suoi presidii. Si trattava nientemeno che d’ingenerare nel mondo il primo e più necessario sentimento, che lo apparecchiasse alla venuta del Redentore, e lo disponesse a fruirne i favori celesti. Né era rilevante per quei soli che lo precessero: è eziandio per noi che venimmo appresso; ai quali non è possibile che siano conferiti i suoi doni, applicati i suoi meriti, donati i suoi carismi, senza quel riconoscimento umile del bisogno che ne abbiamo, per la infermità e debolezza della nostra natura. Che se Iddio ordinò quella condizione misera dell’uman genere a fruttare quell’umile riconoscimento; noi, ad ottenere questo, non possiamo far meglio, che affissarci a considerare quella misera condizione; ed a considerarla appunto nella sua radice, la quale dimorò nel trovarsi la umana natura lasciata a sé stessa, acciocché avesse l’agio, siccome udiste, di far prova delle proprie forze.

III. Signori, sì! Lo sperimento di quello che possa e sappia il genere umano coi soli presidii fornitigli dalla natura, e senza intervento speciale di Dio, quello sperimento, dico, è fatto, è strafatto e fu più prolisso, che voi non avreste creduto necessario; ed è riuscito più umiliante e più doloroso, che gli uomini per avventura non avrebbero voluto. Questo sperimento fu appunto l’antico Paganesimo, condizione comune ed universale di tutto il genere umano per quattro migliaia di anni, fattavi solo (come più volte dissi) una piccola eccezione di alquanti pietosi, costituitisi prima in famiglia e poscia cresciuti in popolo, eletto a custodire il deposito della rivelazione primitiva. Che ci state dunque a contare delle mirabilia che potrebbe e saprebbe fare l’umanità, se facesse da sè? quasi non lo avessimo veduto, ed anche troppo per nostra sventura ed ignominia, quello che l’umanità sa e può fare, facendo da sè!! – È lepida la storia del cervello balzano d’un Inglese mezzo ateo, ricco più di quattrini che di giudizio, il quale, raggruppatosi attorno un mezzo migliaio tra di uomini e di donne, tutti spiantati, senza pane e senza fede, se ne andò in America, a sperimentare in un apposita regione, comperata da lui a quest’uopo, quel che sapesse fare l’umanità da sé sola in opera di fondare e felicitare una società civile . Ma che volete? Monna umanità si trovò così male in gambe per quel negozio, che, in capo ad alquanti mesi di babilonia in miniatura, l’Inglese milionario vi andò fallito, e fu il miglior castigo che gli potesse incogliere; della turba umanitaria quelli che non si erano scannati fraternamente tra loro, furono distribuiti nei Depositi di mendicità, nelle prigioni, e contano che i più ingegnosi tra loro fossero allogati nei manicomii. Eh! miei amatissimi! Io già vel dissi: lo sperimento è fatto, ed in forma bene più splendida e solenne, che non sono coteste parodie di apostoli scomunicati, le quali tra ridicole e sacrileghe, non sapreste definire che siano più. – Sarà di altri discorsi il ragionarvi particolarmente i frutti dquello sperimento, che delle forze naturali fece il Gentilesimo: per ora debbo fermarmi alla radice di questo; e la radice ne fu la natura sola, separata e divulsa da Dio. Né già, vedete, che Iddio in quella natura non avesse inserito il lume della ragione: lo avevano quel lume, quanto qualunque altro di noi; e vi è chi giunge a sostenere, che lo avessero più acuto e più svegliato, che non lo abbiamo noi! Neppur mancavano di elementi tradizionali, che se erano meno copiosi e meno precisi, di quello che sieno i nostri, erano tuttavolta, per la prossimità alle origini, almeno naturalmente parlando, più autorevoli e più riveriti. E nondimeno che valse quel lume? quegli elementi che valsero? Il genere umano, salvato frescamente dalle acque sterminatrici del diluvio per mano dell’Onnipotente, lo dimenticò, lo sconobbe, lo rinnegò: le tradizioni più sante, che dai Patriarchi, quasi prezioso retaggio, alle genti novelle che dispergevansi erano state commesse, furono obliate in parte, in parte alterate per forma, da divenirne una tutt’altra cosa da quello, che erano state. Spoglio così l’uomo di soprannaturali presidii, dovette fabbricare la scienza da sé, dovette costituire la giustizia da sè, dovette trovare la felicità in sé medesimo, come se un Dio creatore ed ordinatore dell’universo, addirittura non esistesse. E questo fu propriamente la radice del Paganesimo: val quanto dire la separazione totale della creatura dal Creatore negli ordini speculativi e nei pratici; e quindi il genere umano ridotto a cercare nel proprio fondo, o nel proprio fondo solamente, quanto faceva uopo pel suo sapere, per la sua virtù, per ogni suo bene individuale, domestico e civile. – Ne andrebbe guari lungi dal vero chi pensasse, che quello stato d’isolamento, voluto a vero studio e per orgoglio, fu, come a dire, la riproduzione o piuttosto la continuazione della grande ribellione di Adamo contro Dio; colla sola differenza che in Adamo fu colpa, nel Paganesimo fu pena, fattasi malaugurata radice di nuove colpe. Tant’è! …il protoparente volle una scienza indipendente da Dio, trovata per propria industria, affine di usufruttuarla a suo senno; per diventarne un altro Dio, senza avere più nulla a fare col suo Autore: Eritis scientes …. eritis sicut dii (Gen. III , 5). Per ottenere questa scienza indipendente, non si curò Adamo del divino divieto, e nell’infrangimento di questo credette pazzamente di poter trovare felicità e contentezza. Quasi vorrei dire essere stata quella ribellione una specie di Razionalismo e di Egoismo, i quali cercavano la scienza e la felicità fuori di Dio, estranea a Dio, a dispetto di Dio. Or bene, questo Razionalismo oltracotante, questo superbo Egoismo, che fu il gran peccato del primo uomo, fu giustamente la grande pena di tutti gli uomini, lasciati per sì lungo volgere di secoli a loro medesimi, perché cercassero la scienza nella sola rągione, e la felicità al di dentro di loro. Ora, ditelo voi che siete saggi: quale scienza, quale felicità trovò il Paganesimo per questa via? Lo vedrete altra volta. Per ora basti considerarne la condizione generale, giovandoci del nobilissimo pensiero del Dottor Massimo, il quale riconosce appunto il Paganesimo nel figliuol prodigo di S. Luca, come ravvisa nel fratello di lui maggiore il popolo giudaico; ed aggiunge, che in quella parabola dei due figli è adombrata la vocazione dei due popoli, della quale sono piene le Scritture. Quod autem ait duos filios, omnes paene Scripturæ de duorum vocatione populorum plenæ sunt Sacramentis (Herons YM. Ep. 21 ad Damas. De duobus filiis). Oh! sì! tutte le nazioni erano figlie del gran Padre celeste niente meno, di quel che fosse la posterità di Abramo e di Giacobbe; quantunque a questa si appartenesse la primogenitura, siccome a quella, la cui Religione era nata quasi ad un parto stesso col mondo. Ma che? Le Nazioni si vollero emancipare dalla soggezione paterna, e nel dipartirsi chiesero superbamente al padre la porzione di eredità, che loro spettava: da mihi portionem quæ me contingit (Luc . XV , 12). Né il padre la dinegò, dando loro, siccome udiste, il lume della ragione, la legge naturale, impressa in questa, e gli elementi della tradizione primitiva. Come già quel figlio abiit in regionem longinquam (Ibid. V. 14) , tale altresì le nazioni gentili si allontanarono da Dio, per far da sé, per governarsi a talento, per essere indipendenti da ogni altra norma, che non fosse il proprio intelletto e la propria naturale propensione. Ora che ne seguisse al genere umano non è un mistero, e neppure è un problema: ne avvenne né più né meno di quello, che incontrò al figliuol prodigo, il quale dissipavit substantiam vivendo luxuriose. Sì! sì! il genere umano, dipartitosi dalla casa paterna, gettossi a disfreno dietro a tutte le inclinazioni animalesche, ed in questo modo sperperò malamente il patrimonio, che pure seco aveva portato; e voi vedrete miserabile stremo di abbandono e di abbiettezza a cui divenne. Dissipavit il lume della ragione ed i principii razionali, che ne sono spontaneo rampollo, fabbricando, per tutto che si attiene alla vita ultramondiale, al mondo degli spiriti ed alla divinità, una mole indigesta di mostruosi errori, cui diè nome di scienza, nella quale il meglio che fosse era la negazione ed il dubbio. Dissipavit i principii morali, attestati imperiosamente dalla sinderesi, o ne ritenne solo qualche rimembranza, che cresceva la colpa del conculcarli; e con quei principii mandò a male le più sante idee della giustizia e del diritto, costituendo, praticando e propagando il regno bestiale della violenza e della forza. Dissipavit i casti affetti, le soavi ispirazioni, le pietose virtù, ravvolgendosi, come porco in brago, nelle più schifose lordure, e facendo propria contentezza gli altrui dolori. Dissipavit gli elementi tradizionali, solo faro che poteano essere tra quelle tenebre, contessendo un garbuglio di stupide favole e d’insulsi miti, tra cui il più sagace ingegno stenterebbe a trovare vestigio di quelle tradizioni stesse, che pure n’erano il fondamento. Che più? dissipavit fino la memoria della casa paterna, ond’era uscito; più misero in questo del medesimo figliuol prodigo, il quale pure poté dire alla fine: surgam et ibo ad patrem (Luc, XV, 18), laddove il Paganesimo né sarebbe potuto sorgere né andare al padre, se questi non gli fosse pietosamente venuto incontro, e non gli avesse porta la mano. Talmente che incapace a cercare la luce, appena poté vederla, quando questa gli si fu offerta allo sguardo : Habitantibus in regione umbræ mortis, lux orta est eis (Isa.IX, 2). Avete udito? Non furono essi che cercarono la luce, fu la luce che spontanea si offerse adessi: orta est eis.

IV. La quale miserissima condizione dell’antico Paganesimo io temo forte non sia per divenire altresì, sotto molti rispetti, la condizione dei nostri tempi e dei nostri paesi, quando avessero effetto i voti insensati ed i conati sacrileghi di alcuni pretesi sapienti, i quali purtroppo hanno governata l’opinione di molti Italiani, ed al presente ne governano o piuttosto ne manomettono i popoli. Voi vedeste, radice prima di quella immensa vergogna e sventura dell’uman genere, che fu l’antico Paganesimo, essere stata l’abbandono della casa paterna, l’aver esso cercato scienza e felicità fuori di Dio: in breve, l‘abiit in regionem longinquam del figliuol prodigo. Ora chi crederebbe che quella separazione da Dio, la quale fu la piaga fetida e verminosa, che dovea rivelare all’antico mondo la necessità che esso avea di un Riparatore; chi crederebbe, dico io, che quella separazione stessa dovea diventare pel nostro mondo la cima di ogni perfezione; e che per questo si sarebbe praticamente ripudiato il Riparatore? E non vedete voi, non udite come nel moderno mondo, da oltre a mezzo secolo, ed in Italia segnatamente, dai suoi protettori e rigeneratori non si raccomanda, non si predica altro, che separazione della terra dal Cielo e dell’uomo da Dio? E non sapete come il Principato civile dei Pontefici è stato dai nemici della Chiesa dichiarato impossibile a mantenersi, per questa sola ragione, che, a rispetto di lui, è impossibile quella separazione, che già si è compiuta nel più dei Principati laicali, ed in tutti almeno è possibile? Ma nel Vicario di Cristo! oh! si appongono a meraviglia nel reputare impossibile quella scissione malaugurata del consorzio civile dai principii cristiani, la quale è il voto, il sospiro, direi quasi la rabbia dei nostri naturaleggianti umanitarii. E chi di noi non l’ha ascoltato o letto le cento volte? Separazione dello Stato dalla Chiesa; separazione della letteratura e delle arti dai concetti cristiani; separazione della storia dall’intervento della Provvidenza; separazione della morale e della probità naturale dalle prescrizioni dell’Evangelio; separazione della politica o delle scienze sociali ed economiche dai dettati della rivelazione; separazione della filosofia dalla teologia; separazione della ragione dalla fede, della terra dal cielo, dell’uomo da Dio. E quando tutte coteste separazioni fossero compiute, allora la terra potrebbe addirittura dimenticarsi del cielo, la ragione non saprebbe più che farsi della Fede, e l’uomo potrebbe starsene senza Dio; o, che torna al medesimo  potrebb’essere a sé medesimo il suo Dio, il suo fine, il suo ogni cosa. Or bene! questa espressione laconica dell’umano orgoglio, la quale fu la radice dell’antico Paganesimo, questa espressione proprio si sta da molto tempo mettendo in voga tra noi, per opera di uomini non so dire se scellerati od insensati, ma certo al consorzio civile ed al domestico perniciosissimi. Oh! quante volte sono io venuto meco medesimo considerando e rimpiangendo gli effetti di quel malaugurato principio di separazione, il quale si stà tacitamente infiltrando, eziandio in paesi cattolici ed in famiglie cristiane, in tutte le appartenenze domestiche e civili; e voi medesimi avete potuto notarli nei comuni discorsi e nelle cangiate usanze pubbliche e private! Per tutto voi vedete che la Religione si ritira a poco a poco dalle nostre consuetudini, dalle nostre pratiche, dai nostri divisamenti, dai nostri parlari; e chi sa che a voi eziandio, nel centro medesimo del Cristianesimo, non avvenga di pensare, di sentire, di parlare in parecchie congiunture, e senza quasi avvedervene, poco meno che da Pagani. Quanto è potente, quanto è prosperoso quello Stato! e pure o non si cura della Chiesa, o l’osteggia! quasi che per gli Stati cristiani vi possa essere prosperità sincera e potenza che metta a bene, quando si rompe guerra a Cristo medesimo nella sua Chiesa. Quel tal gentiluomo, quella tal dama, quel tale artigiano son cime di probità e di onoratezza; solo di Religione non hanno briciolo, né si saprebbe se sono atei, maomettani o giudei, e molto probabilmente non sono nulla di tutto questo, in quanto vivono da atei! quasi che possa trovarsi probità vera e vera onoratezza in chi calpesta una Religione, che giurò e pur dice di professare. E colpo meraviglioso fu quello del tale grande statista, per fare ricco e potente sè, più che la sua nazione; che poi si mettesse sotto i piedi l’Evangelio, cotesto non ci entra; perché, si sa, la politica non ha che fare colla sagrestia! quasi che la politica sia altro, che un’applicazione della morale, e la morale sia diventata degna dell’uomo per altra via, che entrando in sagrestia. E quel sistema filosofico, germinato tra le nebbie aquilonari e raffazzonato alla italiana da qualche esorbitante cervello nostrano, che neppure lo avea bene capito, è pure la gran cosa quel sistema! Che poi faccia a calci con tutta la economia della Rivelazione, ciò che rileva? eh! che la filosofia non è più privativa di preti e di frati; e può bene essere verissimo in filosofia tale pronunziato, che in teologia è manifestamente erroneo e forse ancora ereticale. E potrebbero moltiplicarsi senza fine questi esempi, che vi convincono essersi, non che iniziata, ma bene avviata tra noi quella separazione orgogliosa, che fu la radice del vecchio Paganesimo, e che è altresì la radice del nuovo. – Né voi preterire di osservare, come, nella nostra Penisola, sono alcuni improvvidi a ciò confortati da quella segreta inclinazione, pur troppo viva nel cuore di parecchi verso del Protestantesimo, come verso l’affrancamento della ragione. Dite bene: il Protestantesimo affrancò la ragione, separandola affatto da ogni attinenza col Creatore. Il suo principio fondamentale: non credere, non obbedire che alla Bibbia, interpretata dalla tua ragione, si tradusse presto nell’altro: non credere, non obbedire che a te stesso; e questo non suona altro alla fine, che un’autolatria, un’adorazione cieca di sé medesimo, un non riconoscere altro Dio, che il proprio io. – Matto delirio di orgoglio, di cui nell’antico Paganesimo non trovate riscontro, e forse neppure lo trovereste cercandolo nelle bolge infernali tra i demoni e tra i dannati; i quali, anche bestemmiando, credono e tremano: credunt et contremiscunt (JACOB . II, 19). Riposiamo.

V. Comincerò domani a divisarvi quanto fosse doloroso e svilente pel genere umano quello sperpero, che esso fece del retaggio paterno, come prima se ne fu ito in regionem longinquam . Per oggi siate contenti che io, a vostra pratica utilità, faccia notarvi quanto sia lamentabile, per le nazioni cattoliche altresì, la iattura che fecero di vantaggi insigni, anche nel giro della natura, come prima diedero adito al funesto principio di separazione da Dio. Oh! anche le nazioni cattoliche dissipaverunt substantiam, nel miserabile gettito che fecero di tante soavi consuetudini, di tanta scienza, di tanto decoro, di tante salutari istituzioni, di tanti celesti conforti! E che sono divenuti in molti paesi quei tesori, cui la cristiana carità dei nostri antichi avea ammassati da tanti anni, a sovvenimento di tutti i bisogni, a lenimento di tutti i dolori, a presidio di tutte le calamità? Dove pure dallo sperpero generale n’è restata una parte, questa parte è divenuta stipendio, cupidità, pascolo, latrocinio d’una falange burocratica senza viscere, la quale con freddo sprezzo ne getta gli avanzi all’indigenza, non per sovvenirla bisognosa, ma per cavarlasi d’attorno importuna; e faccia Dio che non anche per sedurne la schiva onestà, o per corromperne la cristiana credenza! Che sono ora quei tanti e maestosi edifizii, cui la religione degli avi nostri avea innalzati, per tranquillo ricovero della verginità illibata, degli amạri disinganni, della penitenza consolata, deisalmeggiamenti notturni, della fervente preghiera, delle aspirazioni celesti? Che sono ora? mi chiedete. Girate per la Italia e lo vedrete. Ove pur restano in piedi, sono oggi caserme stivate di baionette, per contenere i popoli che fremono, rugumando in segreto i loro mal dissimulati rancori; sono case di matti, che chiudono in copia cervelli, che dier la volta pel turbinio, in che folleggiarono, di politiche passioni e di corrotto incivilimento; sono prigioni ed ergastoli, pieni zeppi di malfattori, che sotto a volte, già echeggianti dalle caste preci di sante anime, fanno oggi risuonare la sacrilega bestemmia e la imprecazione disperata: intanto che il tempio vicino è quasi lieto di sentirsi scalpitato dall’unghia del cavallo guerriero, perché così risparmia la più grave onta di vedersi fatto ricettacolo infame di compre sgualdrine. E quelle Università, creazione unica della Chiesa Cattolica, le quali tacitamente attestavano al mondo e vi mantenevano vivo lo stupendo connubio della scienza colla Rivelazione, della ragione colla Fede? Consumata la separazione, le Università divennero ostello di tutte le nequizie, fucine di tutti gli errori, focolare di tutte le rivolture; talmente che delle esorbitanze scientifiche che sconvolsero le menti, e delle pubbliche commozioni che scombuiarono i popoli, voi potete porre ogni cosa che le novantanove sopra le cento, se da quelle Università non ebbero gl’inizii, ne trassero certamente i parteggiani per età più ardenti, e più maneggevoli per inesperienza. E non vi basta questo a convincervi, che i popoli, come gl’individui, non si possono separare da Dio, senza sperperare ogni loro più caro tesoro? dissipavit substantiam . Deh! Chi potrebbe noverare, chi deplorare degnamente le inestimabili calamità, che da quella separazione e da questo sperpero, a ruina temporale ed eterna dei miseri popoli, si derivarono? Oh! le due e le tre volte fortunate queste contrade! le quali, poste dalla Provvidenza sotto il reggimento del Capo visibile della Chiesa, sono nella felice impossibilità di vedersi mai civilmente separate da Dio! sono nella necessità ancor più felice di non essere mai governate altrimenti, che da cristiane! Che se questa condizione è il maggior torto che, agli occhi dei Pagani redivivi, ha il vostro Sovrano; questa stessa dev’essere per voi, o Romani, ed è di fatto quella che v’impreziosisce e rende più cara la sorte di essere sudditi di tal Sovrano, dalle cui mani si può bene, per somma empietà, strappare parzialmente o temporaneamente lo scettro; non si potrà ottenere in eterno, che quello sia trattato altrimenti, che come a Principe cristiano si addice.

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