LA SUMMA PER TUTTI (10)

LA SUMMA PER TUTTI (10)

R. P. TOMMASO PÈGUES

LA SOMMA TEOLOGICA DI S. TOMMASO DI AQUINO IN FORMA DI CATECHISMO PER TUTTI I FEDELI

PARTE SECONDA

SEZIONE SECONDA

Idea particolareggiata del ritorno dell’uomo verso Dio.

Capo VIII.

La carità: sua natura; atto principale; formula di questo atto.

816. Che cosa è dunque la carità?

La carità è una virtù che ci innalza alla vita di intimità con Dio in ordine a Lui stesso, in quanto Egli è la sua propria felicità e si è degnato di volerla comunicare anche a noi (XXIII, 1).

817. Che cosa suppone in noi questa vita di intimità con Dio, alla quale ci innalza la virtù della carità?

Questa vita di intimità con Dio suppone in noi due cose: prima una partecipazione della natura divina che divinizza la nostra natura e ci eleva sopra ogni ordine naturale, sia umano che angelico, sino all’ordine proprio di Dio, facendo di noi come altrettanti dei e mettendoci in grado di essere della sua famiglia; poi certi principi di azione proporzionati a questo essere divino, che ci mettono in grado di agire da veri figliuoli di Dio, come Dio stesso agisce, conoscendolo come Egli si conosce, amandolo come Egli si ama e potendo godere di Lui come Egli stesso ne. gode (XXIII, 2).

818. Questi due ordini di beni sono legati indissolubilmente alla presenza della carità nell’anima?

Questi due ordini di beni sono indissolubilmente legati alla presenza della carità nell’anima, e la carità stessa non ne è che il coronamento.

819. Dunque è sempre vero che chiunque ha la carità nell’anima ha pure la grazia sanificante e le virtù ed i doni?

Sì; chiunque ha la carità nell’anima ha sempre necessariamente la grazia santificante e le virtù ed i doni (XXIII, 7).

820. La carità è la regina di tutte le virtù?

Sì; la carità è la regina di tutte le virtù (XXIII, 6).

821. Perché dite che la carità è la regina di tutte le virtù?

Perché essa le domina tutte, e le fa agire in vista del possedimento di Dio che è il suo proprio oggetto (XXIII, 6).

822. Come aderisce la carità e come si unisce a Dio, ossia al possedimento di Dio suo proprio oggetto?

Per mezzo dell’amore la carità aderisce e si unisce a Dio, ossia al possedimento di Dio suo proprio oggetto (XXVII).

823. In che cosa consiste questo atto di amore per il quale la carità aderisce e si unisce a Dio, ossia al possedimento di Dio suo proprio oggetto?

Consiste in questo, che l’uomo per mezzo della carità vuole a Dio quel bene infinito che è Dio stesso; e vuole per sé quel medesimo bene che è Dio, il quale è a Se stesso la propria felicità (XXV, XXVII).

824. Che differenza passa tra questi due amori?

Passa questa differenza, che il primo è amore di compiacenza in Dio, in quanto è felice in Se stesso; il secondo è amore di compiacenza in Dio, in quanto è la nostra propria felicità.

825. Questi due amori sonò inseparabili nella virtù della carità?

Sì; questi due amori sono assolutamente inseparabili nella virtù della carità.

826. Perché dite che questi due amori sono inseparabili nella virtù della carità?

Perché si dominano l’un l’altro e sono reciprocamente causa l’uno dell’altro.

827. Come dimostrate che essi si dominano l’un l’altro e sono reciprocamente l’uno causa dell’altro?

Perché effettivamente, se Dio non fosse il nostro bene, noi non avremmo alcuna ragione di amarlo; e se Egli non avesse in Sé come nella sua sorgente il bene che è per noi, noi non lo ameremmo con l’amore con cui lo amiamo (XXV, 4).

828. Ciascuno di questi due amori è un amore puro e perfetto?

Sì; ciascuno di questi due amori è un amore puro ed un amore perfetto.

829. Ciascuno di essi è un amore della virtù di carità?

Sì ciascuno di essi è un amore della virtù di carità.

830. Vi è tuttavia fra questi due amori un certo ordine; e quale dei due occupa il primo posto?

Sì; fra questi due amori esiste un ordine; e quello che occupa il primo posto è l’amore che ci fa compiacere in Dio per il Bene infinito che Egli è a Se stesso.

831. Perché questo amore deve essere il primo?

Perché il bene che Dio è a Se stesso supera il bene che Dio è per noi: non ché questo bene sia differente, perché è sempre Dio come è in Se stesso; ma perché in Dio è di una maniera infinita e come nella sua sorgente, mentre in noi non è che di una maniera finita e derivata.

832. L’amore della carità si estende ancora ad altri, oltreché a Dio ed a noi?

Sì; l’amore della carità si estende a tutti quelli che già posseggono la felicità di Dio, o sono in grado di possederla un giorno (XXV, 6, 10).

$33. Chi sono coloro che posseggono già la felicità di Dio?

Sono gli Angeli e gli eletti del cielo.

834. Chi sono coloro che sono in grado di possederla un giorno?

Sono le anime dei giusti che sono ancora nel Purgatorio, e tutti gli uomini che vivono sulla terra.

835. Dunque bisogna amare con amore di carità tutti gli uomini che vivono sulla terra?

Sì; bisogna amare con amore di carità tutti gli uomini che vivono sulla terra.

836. Vi sono dei gradi nell’amore di carità che dobbiamo avere per gli altri come per noi?

Sì; vi sono dei gradi in questo amore di carità; perché noi dobbiamo amare anzitutto e soprattutto noi stessi; poi gli altri secondoché sono più vicini a Dio nell’ordine soprannaturale, o più vicini a noi nei diversi ordini di rapporti che possono unirei ad essi, quali ad esempio i legami del sangue, dell’amicizia, della comunità di vita, ecc.

837. Che cosa si vuol significare quando si dice che nell’ordine, ossia nei gradi dell’amore di carità, dopo Dio dobbiamo amare anzitutto e soprattutto noi stessi?

Ciò vuol dire che prima di tutto e soprattutto noi dobbiamo desiderare per noi stessi la felicità di Dio, ad eccezione soltanto di Dio, al quale dobbiamo desiderare tale felicità anteriormente e di preferenza ad ogni altro.

838. Non vi è che la felicità di Dio che dobbiamo desiderare per noi stessi e per gli altri in virtù della carità?

Vi è la felicità di Dio prima di tutto e soprattutto; ma possiamo anche e dobbiamo desiderare a noi e agli altri, in virtù della carità, tutto ciò che è ordinato a tale felicità o ne rimane sotto la dipendenza.

839. Vi è qualche cosa di direttamente ordinato alla felicità di Dio?

Sì; vi sono gli atti delle virtù soprannaturali (XXV, 2).

840. Sono dunque gli atti delle virtù soprannaturali che noi dobbiamo volere per noi e per gli altri, immediatamente dopo la felicità di Dio ed in ragione di questa felicità?

Sì: immediatamente dopo la felicità di Dio ed in ragione di questa felicità, noi Dobbiamo volere per noi e per gli altri gli atti delle virtù soprannaturali.

841. Possiamo desiderare per noi e per gli altri i beni temporali in virtù della carità?

Sì; possiamo e qualche volta dobbiamo desiderare a noi ed agli altri i beni temporali in virtù della carità.

842. Quando si debbono desiderare questi beni?

Quando sono indispensabili alla nostra vita sulla terra ed alla pratica della virtù.

843. Quando possiamo desiderarli?

Quando non sono indispensabili ma possono essere utili.

844. Se fossero nocivi al bene della virtù, non potremmo più desiderarli per noi o desiderarli agli altri, senza andare contro la virtù della carità?

No; se questi beni temporali divengono un ostacolo alla vita della virtù e sono causa di peccato, noi non possiamo più desiderarli né per noi né per gli altri, senza andare contro la virtù della carità.

845. Potreste darmi una formula precisa ed esatta dell’atto di amore che costituisce l’atto principale della virtù della carità?

Sì; eccola sotto forma di omaggio a Dio: Mio Dio, amo con tutto il cuore sopra ogni cosa Voi, Bene infinito e nostra eterna felicità; e per amor vostro amo il prossimo mio come me stesso, e perdono le offese ricevute. — Signore, fate ch’io vi ami sempre più.

Capo IX.

Atti secondari, ossia effetti della carità: la gioia, la pace, la misericordia, la beneficenza, la elemosina, la correzione fraterna.

846. Che cosa segue nell’anima quando possiede la virtù della carità e ne produce veramente l’atto principale?

Ne segue un primo effetto che è la gioia (XXVII, 1).

847. Questa gioia, effetto proprio della carità, è assoluta e senza alcuna mescolanza di tristezza?

È assoluta e senza alcuna mescolanza di tristezza, quando si riferisce al bene infinito che Dio è a Se stesso ed ai suoi eletti nel cielo: ma è mescolata con la tristezza quando si riferisce al bene di Dio non ancora posseduto dalle anime del Purgatorio, o da noi e da tutti quelli che vivono ancora sulla terra. (XXVIII, 2).

848. Perché in questo ultimo caso la gioia della carità è mescolata con la tristezza?

In questo ultimo caso la gioia della carità è mescolata con la tristezza, a causa del male fisico o morale che trovasi o può trovarsi in coloro che sono in questi diversi stati (Ibid.)

849. Anche allora però è la gioia che deve dominare in virtù della carità?

Sì: anche allora è sempre la gioia che deve dominare in virtù della carità; perché questa gioia ha per oggetto principale e per prima causa la infinita felicità del divino Amore che gode eternamente del Bene infinito che non è altri che Lui, e che Egli possiede essenzialmente al sicuro da ogni male (Ibid.).

850. Vi è un altro atto od un altro effetto che tien dietro in noi all’atto principale della carità?

Sì; questo atto o questo effetto è la pace (XXIX, 3).

851. Che cosa è dunque la pace?

La pace è la tranquillità dell’ordine, ossia l’armonia perfetta risultante in noi ed in tutte le cose dall’essere le nostre affezioni e le affezioni di tutte le altre creature orientate verso Dio, oggetto supremo della nostra perfetta felicità (XXIX), 1).

852. Non vi sono che questi due atti interni che siano in noi effetto o conseguenza dell’atto principale della carità?

No; vi è ancora un altro effetto interno, conseguenza di tale atto, ed è la misericordia (XXX).

853. Che cosa intendete per misericordia?

Per misericordia intendo una speciale virtù distinta dalla carità di cui però è frutto, che ci fa impietosire come è di dovere sulla miseria altrui, stante che può ciascuno andar soggetto alla stessa miseria; o almeno ci fa ritenere in certo modo tale miseria altrui come miseria propria, a motivo dell’amicizia che ad altri ci lega (XXX, 1, 3).

854. La virtù della misericordia è una grande virtù?

Sì; essa è anche per eccellenza la virtù che conviene a Dio, non in quanto al sentimento affettivo di dolore o di tristezza che non potrebbe trovarsi in Lui; ma in quanto agli effetti che questo sentimento eccitato dalla carità, produce al di fuori (XXX, 4).

855. Fra gli uomini questa virtù conviene soprattutto ai più perfetti?

Sì; anche fra gli uomini questa virtù conviene ai più perfetti; perché più un essere si avvicina a Dio più bisogna che la misericordia regni in lui, disponendolo a soccorrere dovunque, intorno a sé e secondo la possibilità dei suoi mezzi sia spirituali che temporali, ai miseri che incontra (XXX, 4).

856. La pratica di tale virtù sarebbe un grande aiuto per lo stabilimento ed il consolidamento della pace sociale tra gli uomini?

Sì; la pratica di tale virtù sarebbe il mezzo per eccellenza per istabilire e consolidare la pace sociale tra gli uomini.

857. Possono esservi anche degli atti esterni che siano effetto proprio della virtù della carità, in ragione del suo atto principale?

Sì; ed al primo posto di questi atti sta la beneficenza (XXXI, 1).

858. Che cosa è la beneficenza?

La beneficenza, come lo indica il nome, è un atto che consiste nel fare del bene (Ibid.).

859. Questo atto è sempre l’atto proprio della sola virtù della carità?

Sì; questo atto è sempre l’atto proprio della sola virtù della carità, quando si considera sotto la sua ragione assoluta di beneficenza (Ibid.).

860. Può essere anche atto di altre virtù distinte dalla carità e sotto la sua dipendenza?

Sì; può essere ed è sempre l’atto di altre virtù distinte dalla carità, ma sotto la sua dipendenza, quando alla ragione generale di bene si aggiunge una ragione speciale e particolare, come quella di essere cosa dovuta e necessaria e di cui si ha bisogno (Ibid).

861. Quale virtù interviene nell’atto della beneficenza, quando alla ragione generale di bene si aggiunge quella speciale di cosa dovuta?

Allora interviene la virtù della giustizia (XXXI, 1 ad 3).

862. E quale virtù interviene in questo medesimo atto di beneficenza, quando alla ragione generale di bene si aggiunge la ragione speciale di cosa necessaria e di cui si ha bisogno?

La virtù della misericordia (Ibid.).

863. Come si chiama l’atto di carità che consiste nel fare del bene per intermezzo della misericordia?

Si chiama elemosina (XXXII, 1).

864. Vi sono diverse specie di elemosine?

Sì; vi sono due grandi specie di elemosine: le elemosine spirituali e le elemosine corporali (XXXII, 2).

865. Quali sono le elemosine corporali?

Le elemosine corporali sono le seguenti:  Dar da mangiare agli affamati; dar da bere

agli assetati; vestire gl’ignudi; alloggiare i pellegrini; visitare gl’infermi; visitare i carcerati; seppellire i morti (XXXII, 2).

866. E le elemosine spirituali quali sono?

Consigliare i dubbiosi; insegnare agli ignoranti; ammonire i peccatori; consolare gli afflitti; perdonare le offese; sopportare pazientemente le persone moleste; pregare Dio per i vivi e per i morti (XXXII, 2).

867. Tutte queste elemosine sono di una grande importanza?

Sì: tutte queste elemosine sono di una grande importanza; e noi sappiamo dal Vangelo che nel giorno del giudizio sarà da esse motivata la sentenza di eterna condanna o di eterna ricompensa.

868. Quando vi è obbligo stretto e grave di fare la elemosina?

Vi è obbligo stretto e grave di fare la elemosina ogni volta che il prossimo si trova in urgente bisogno spirituale o corporale, e non ci siamo che noi per soccorrerlo (XXXII, 5).

869. Benché non vi sia immediatamente ed in maniera determinata un bisogno urgente da soccorrere, vi è però obbligo stretto e grave di non lasciare inutili per il bene del prossimo o della società i doni spirituali o temporali ricevuti da Dio in sovrabbondanza?

Sì: benché non vi sia immediatamente ed in maniera determinata un urgente bisogno da soccorrere, vi è però l’obbligo stretto e grave di non lasciare inutili per il bene del prossimo o della società i doni spirituali o temporali ricevuti in sovrabbondanza da Dio (XXXII, 5, 6).

870. Tra le diverse elemosine ve ne è una particolarmente delicata ed importante?

Sì; la correzione fraterna (XXXIII, 1).

871. Che cosa intendete per correzione fraterna?

Intendo quella elemosina spirituale, ordinata propriamente a guarire il male del peccato in colui che pecca (XXXIII, 1).

872. Questa elemosina è un atto della virtù di carità?

Questa elemosina è un atto di carità compiuto per mezzo della misericordia, col concorso della prudenza che deve proporzionare i mezzi ad un fine tanto eccellente, quanto delicato e difficile (XXXIII, 1).

873. La correzione fraterna è cosa di precetto?

Sì; la correzione fraterna è obbligatoria e di precetto; ma non è tale se non in quanto ci è imposta, secondo le circostanze, per ritrarre il nostro fratello da un male che impegna la sua salute (XXXIII, 2).

874. Chi sono coloro che son tenuti alla correzione fraterna?

Ognuno che sia animato dallo spirito di carità e che, per conseguenza, non ha da rimproverare a se stesso ciò che può scoprire di grave nel prossimo, è tenuto ad ammonire il prossimo stesso chiunque sia, anche se superiore; a patto però di usare tutti i riguardi voluti, e purché vi sia una fondata speranza che il prossimo si emenderà; in caso contrario è dispensato dal suo obbligo e deve astenersene (XXXIII, 3-6).

Capo X.

Vizi opposti alla carità ed ai suoi atti: l’odio, il cattivo umore o disgusto spirituale e l’accidia, l’invidia, la discordia, la contenzione, lo scisma, la guerra, la rissa, il duello, la sedizione, lo scandalo.

875. Qual è il sentimento che deve essere bandito innanzi tutto dal cuore dell’uomo nei suoi rapporti col prossimo?

È il sentimento dell’odio (XXXIV).

876. Che cosa è dunque l’odio?

L’odio è il vizio più grave opposto direttamente all’atto principale della carità, che è l’atto di amore di Dio e del prossimo (XXXIV, 2-4).

877. È possibile che Dio sia odiato da alcuna delle sue creature?

Sì; purtroppo è possibile che Dio sia odiato da alcuna delle sue creature (XXXIV, 1).

878. Come spiegate che Dio, Bene infinito da cui emana ogni bene per le sue creature sia nell’ ordine naturale come nell’ordine soprannaturale, possa essere odiato da alcuna delle creature stesse?

Si spiega con la depravazione morale di alcune creature, che non considerano più Dio sotto la ragione di Bene infinito e come sorgente di ogni altro bene, ma sotto la ragione di Legislatore che proibisce un male che si ama, o sotto la ragione di Giudice che condanna e punisce il male che si è commesso, e di cui non si vuole pentirsi e domandare perdono (XXXIV, 1).

879. È dunque una specie di ostinazione diabolica nel male, che fa sì che delle creature ragionevoli portino odio a Dio?

Sì; è una specie di ostinazione diabolica nel male quella per cui delle creature ragionevoli portano odio a Dio.

880. L’odio a Dio è il più grande di tutti i peccati?

Sì; l’odio a Dio è senza paragone il più grande di tutti i peccati (XXXIV, 2).

881. Può essere mai permesso portare odio ad alcuno fra gli uomini?

No; non può essere mai permesso di portare odio ad alcuno fra gli uomini (XXXIV, 3).

882. Ma se si tratta di uomini che fanno il male, non si ha il diritto di odiarli?

No; non si ha mai il diritto di odiare gli uomini che fanno il male; ma si deve detestare il male che fanno, appunto per l’amore che si deve avere per essì (XXXIV, 3).

883. Non si ha mai diritto di voler loro male?

No: non si ha mai diritto di voler loro male per il male; ma in vista del vero bene che si vuole loro o alla società e più ancora a Dio, si può desiderare che essi provino certi mali destinati a ricondurli al bene, o a salvaguardare il bene della società e la gloria di Dio (XXXIV, 8).

884, Si può mai augurare ad un uomo che vive sulla terra, per quanto colpevole possa essere, la dannazione eterna?

No; non si può mai augurare ad un uomo che vive sulla terra, per quanto colpevole possa essere, la dannazione eterna; perché questo sarebbe un andare direttamente contro l’atto della virtù di carità, che ci deve far desiderare a tutti la felicità finale di Dio, eccettuati soltanto i demoni ed i reprobi che già sono all’inferno.

885. Vi è un vizio che si oppone specialmente al secondo effetto della carità che si chiama la gioia?

Si: è il vizio della tristezza, rispetto al bene spirituale e soprannaturale che è l’oggetto proprio della carità, e che noi sappiamo essere Dio in Se stesso, nostra perfetta felicità (XXXV).

886. Come è possibile siffatta tristezza?

Siffatta tristezza è possibile perché l’uomo, a causa del suo gusto spirituale depravato, riguarda il bene divino, oggetto della carità, come cosa non buona, odiosa ed attristante.

887. Tale tristezza è sempre un peccato mortale?

Tale tristezza è sempre un peccato mortale, quando passa dalla parte inferiore del nostro essere, ossia dalla parte sensibile fino alla parte razionale e superiore (XXXV, 1).

888. Perché allora è un peccato mortale?

Perché è direttamente contraria alla carità, che facendoci un dovere di amare Dio sopra ogni cosa, ci fa anche per conseguenza un dovere essenziale di considerare in Lui la nostra requie e la gioia fondamentale ed ultima dell’anima nostra (XXV, 3).

889. Questa tristezza è un peccato capitale?

Sì; questa tristezza è un, peccato capitale, perché fa sì che gli uomini compiano molte cose cattive e commettano numerosi peccati, sia per evitarla e liberarsene, sia perché il suo peso li fa abbandonare a certe cattive azioni (XXXV, 4).

890. Come si chiama la tristezza che è peccato capitale?

Si chiama accidia, o disgusto spirituale.

891. Potreste dirmi quali sono gli effetti della accidia, ossia i peccati che ne derivano?

Sono la disperazione, la pusillanimità, il torpore riguardo ai precetti, il rancore, la malizia, la. divagazione dell’anima verso cose illecite (XXXV, 4 ad 2).

892. L’accidia è il solo vizio opposto alla gioia della carità?

No; ve ne è ancora un altro che si chiama invidia (XXXVI).

893. Che differenza passa tra questi due vizi, opposti ambedue alla gioia della carità?

Vi è questa differenza che l’accidia o disgusto spirituale si oppone alla gioia del bene divino, in quanto ché questo bene è in Dio e deve essere anche in noi; mentre l’invidia si oppone alla gioia del bene divino, in quanto ché tale bene è quello del prossimo (XXXV, XXXVI).

894. Che cosa è dunque l’invidia?

L’invidia è la tristezza del bene altrui, non perché questo bene ci cagiona del male, ma solamente perché tale bene è di altri e non è nostro (XXXVI, 1, 2, 2).

895. La tristezza della invidia è peccato?

Sì; perché è un rattristarsi di ciò che deve essere causa di gioia, cioè del bene del prossimo (XXXVI, 2).

896. L’invidia è sempre un peccato mortale?

Sì: l’invidia è sempre un peccato mortale di sua natura, come essenzialmente contraria alla gioia della carità; può avere però ragione di peccato veniale, quando si tratta di primi moti imperfetti in materia di atti umani volontari.

897. L’invidia è un peccato capitale?

Sì: l’invidia è un peccato capitale, perché la sua malvagia tristezza porta l’uomo a numerosi peccati, sia per evitarla che per conformarvisi (XXXVI, 4).

898. Quali sono gli effetti della invidia, ossia ì peccati che ne derivano?

Sono la insinuazione, la detrazione, il godimento nelle avversità del prossimo, l’afflizione nelle sue prosperità e l’odio (XXXVI.4).

899. Vi sono anche dei vizi opposti alla carità dal lato della pace?

Sì; vi sono numerosi vizi opposti alla carità dal lato della pace.

900. Quali sono i numerosi vizi opposti alla carità dal lato della pace?

Sono la discordia, nel cuore; la contenzione nelle parole; o nell’azione, lo scisma, la rissa, la sedizione, la guerra (XXXVII – XLII).

901. Potreste dirmi in che consiste precisamente la discordia, che è un peccato contro la carità?

Consiste nel non volere intenzionalmente quello che gli altri vogliono, quando è accertato che gli altri vogliono il bene, vale a dire ciò che è per l’onore di Dio ed il bene del prossimo, e nel non volerlo appunto per questa ragione; oppure nel cadere in questo disaccordo senza cattiva intenzione diretta, ma per riguardo a cose di per sé essenziali all’onore di Dio ed al bene del prossimo; oppure, di qualsiasi oggetto si tratti e qualunque sia la rettitudine di intenzione, nel portare in questo disaccordo una ostinazione ed una pertinacia indebita (XXXVII, 1).

902. E che cosa è la contenzione?

La contenzione sta nel combattere con altri a parole (XXXVIII, 1).

908. La contenzione è un peccato?

Sì; se si combatte con altri per il solo fatto di contraddirlo; con più forte ragione sarebbe se si facesse per nuocere al prossimo o alla verità difesa dal prossimo nelle sue parole; sarebbe pure se difendendo la verità, si facesse con un tono e con tali parole da offendere il prossimo (XXXVII, 1).

904. Che cosa intendete per scisma?

Lo scisma è una rottura, ossia una scissione per la quale ci sì separa intenzionalmente dall’unità della Chiesa, sia rifiutando di sottomettersi al Sommo Pontefice come Capo di tutta la Chiesa, sia rifiutando di comunicare con i membri della Chiesa stessa in quanto tali (XXXIX, 1).

905. Perché noverate la guerra fra i peccati opposti alla carità?

Perché la guerra, quando è ingiusta, è uno dei più grandi mali di cui si possa essere responsabili riguardo al prossimo.

906. Può essere mai permesso di fare la guerra?

Sì; può essere permesso fare la guerra quando si fa per una causa giusta, e senza commettere ingiustizie nel corso di essa (XL, 1)

907. Che cosa intendete per causa giusta?

Intendo la dura necessità di far rispettare anche con la forza e con le armi i diritti essenziali alle relazioni degli uomini tra loro quando questi diritti sono stati violati da una nazione straniera che rifiuta di ripararli (XL, 1)

908. Soltanto allora è permesso di fare guerra?

Sì: unicamente allora è permesso di fare la guerra (XL, 1).

909. Quelli che combattono in una guerra giusta, e lo fanno senza commettere ingiustizie nel corso della guerra stessa, compiono un atto di virtù?

Sì; coloro che combattono nel corso di una guerra giusta e non vi commettono alcuna ingiustizia, compiono un grande atto di virtù. poiché si espongono ai più gravi pericoli per il bene degli uomini o per il bene di Dio, che essi difendono contro coloro che vi attentano.

910. Che cosa intendete per il peccato opposto alla pace, che voi chiamate rissa?

Per rissa intendo una specie di guerra privata fatta tra individui senza alcun mandato dell’autorità pubblica; ed a questo titolo è sempre di per sé una colpa grave in colui che ne è autore (XLI, 1).

911. Si può riferire a questo vizio l’atto speciale che si chiama duello?

Sì; con questa differenza che il duello procede più freddamente e meno sotto l’impeto della passione, circostanze che non fanno che accrescere la sua gravità.

912. Il duello, di per sé, è sempre essenzialmente cattivo?

Sì; il duello è sempre di per sé essenzialmente cattivo, perché fa mettere in rischio la propria vita e quella del prossimo, contrariamente alla volontà di Dio che ne è il solo padrone.

913. E la sedizione che cosa è, fra i vizi che si oppongono alla carità in ragione della pace?

La sedizione è un vizio per il quale le parti di uno stesso popolo cospirano o si sollevano in tumulto le une contro le altre, o contro la legittima autorità incaricata di provvedere al bene della collettività (XLII, 1).

914. La sedizione è un grande peccato?

Sì; la sedizione è sempre un grandissimo peccato, perché non essendovi nelle cose umane niente di più grande né di più eccellente dell’ordine pubblico, condizione indispensabile degli altri beni in questo stesso ordine, ne segue che il delitto della sedizione, insieme con quello della guerra ingiusta, ed in un certo senso forse più ancora di esso, è il più grande dei delitti contro il bene degli uomini (XLII, 2).

915. Vi è qualche vizio speciale che si oppone direttamente alla carità, in ragione del suo atto esterno della beneficenza?

Sì; questo vizio è lo scandalo (XLII).

916. Che cosa è dunque lo scandalo?

Lo scandalo sta nel dare ad alcuno, occasione di peccato, con ciò che si fa o si dice; oppure nel prendere occasione di peccare da ciò che è detto o fatto da altri. Nel primo caso si scandalizza; nel secondo si è scandalizzati (XLIII, i).

917. Non vi sono che le anime deboli che si scandalizzano?

Sì; non vi sono che le anime deboli non ancora consolidate nel bene che si scandalizzano, nel senso proprio della parola; benché sia di ogni anima delicata il restare penosamente impressionata, quando vede farsi un atto qualsiasi cattivo (XLIII, 5).

918. I giusti e le anime virtuose sono incapaci di scandalizzare?

Sì; i giusti e le anime virtuose sono incapaci di scandalizzare, perché prima di tutto non fanno niente di male che possa veramente scandalizzare; e poi se altri si scandalizza di ciò che esse fanno, è per causa della sua propria malizia, non operando esse che come devono operare (XLIII, 6).

919. Vi può essere qualche volta, per le anime giuste e virtuose, l’obbligo di omettere certe cose per non scandalizzare i pusillanimi?

Sì; qualche volta può esservi obbligo per le anime giuste e virtuose di omettere certe cose per non scandalizzare i pusillanimi, purché non si tratti affatto di cose necessarie alla salute (XLII, 7).

920. Si è mai tenuti a tralasciare un bene qualunque per evitare lo scandalo dei cattivi?

No; non si è mai tenuti a tralasciare un bene qualunque per evitare lo scandalo dei cattivi (XLIII, 7-8).

Capo XI.

Precetti relativi alla carità.

921. Vi è qualche precetto nella legge di Dio che riguardi la virtù della carità?

Sì: vi è un precetto nella legge di Dio che riguarda la carità (XLIV, 1).

922. Qual è questo precetto?

Questo precetto è il seguente: Tu amerai il tuo Dio con tutto il tuo cuore, e con tutta la tua mente, e con tutta l’anima tua, e con tutte le tue forze (XLIV, 4).

923. Che cosa vogliono dire precisamente queste parole?

Vogliono dire che nelle nostre azioni, ogni nostra intenzione deve rivolgersi a Dio; che tutti i nostri pensieri devono essere a Lui sottomessi; che tutte le nostre affezioni sensibili devono essere regolate secondo Dio; e che tutti i nostri atti esterni devono essere il compimento della sua volontà (XLIV, 4, 5).

924. Questo precetto della carità è un precetto grave?

Questo precetto è il più grave di tutti i precetti, in quanto ché comprende virtualmente tutti gli altri ed a questo tutti gli altri sono ordinati (XLIII, 1-3).

925. Questo precetto è unico e semplice, oppure ne comprende diversi anche come precetto diretto della carità?

Questo precetto è insieme unico e molteplice anche come precetto della carità; e ci vuol dire che bene inteso basterebbe da se stesso nell’ordine della carità, perché non si può amar Dio senza amare il prossimo che noi dobbiamo amare in ordine a Dio stesso; ma perché sia da tutti compreso, al primo precetto è aggiunto il secondo che forma una cosa sola col primo: Tu amerai il tuo prossimo come te stesso (XLI\

926. Questi precetti della carità sono compresi nel numero dei precetti del Decalogo?

No; questi precetti della carità non sono compresi nel numero dei precetti del Decalogo. Li precedono e li dominano, perché i precetti del Decalogo non sono che per assicurare il compimento dei precetti della carità (XLIV, 1 ad 3).

927. Questi precetti sono manifesti di per se stessi nell’ordine soprannaturale, senza bisogno di promulgarli?

Sì; questi precetti sono manifesti per se stessi nell’ordine soprannaturale senza bisogno di promulgarli; perché come è legge di natura innata in tutti i cuori che nell’ordine naturale Dio debba essere amato sopra ogni cosa e tutto il resto in ordine a Uni, così è legge essenziale nell’ordine soprannaturale che Dio, principio di tutto in questo ordine, sia amato di un amore soprannaturale sopra ogni cosa, e tutto il resto sia amato per amor Suo.

928. Dunque è un andare contro ciò che vi è di più essenziale nell’ordine delle affezioni, non amando Dio sopra ogni cosa ed il prossimo nostro come noi stessi?

Sì; è un andare contro ciò che vi è di più essenziale nell’ordine delle affezioni, non amando Dio sopra ogni cosa ed il prossimo nostro come noi stessi.

Capo XII

Del dono della sapienza corrispondente alla carità. – Vizio opposto.

929. La virtù della carità ha un dono dello Spirito Santo che le corrisponde?

Sì; la virtù della carità ha un dono dello Spirito Santo che le corrisponde ed è il più perfetto di tutti, vale a dire il dono della sapienza (XLV).

930. Che cosa intendete per dono della sapienza?

Intendo quel dono dello Spirito Santo per il quale l’uomo, sotto l’azione diretta dello Spirito Santo, giudica di tutte le cose con la propria mente, prendendo come regola e norma dei propri giudizi la più alta e sublime di tutte le cause che è la Sapienza stessa di Dio, quale si è degnata di manifestarsi a noi per mezzo della fede (XLV, 1).

931. Potreste dirmi in che cosa si distingue il dono della sapienza dalla virtù intellettuale dello stesso nome, ed ancora dai doni della intelligenza, della scienza, del consiglio, in quanto essi stessi si distinguono dalle virtù intellettuali che si chiamano intelligenza, scienza e prudenza?

Sì; ecco tutto in poche parole: da parte della mente, nell’ordine delle cose di fede, vi sono diversi atti essenzialmente distinti, ai quali corrispondono delle virtù e dei doni proporzionati ed ugualmente distinti tra loro. La fede tende essenzialmente all’atto di assentire alle affermazioni di Dio. Questo atto di assentimento che è l’atto principale nelle cose di fede, trae dietro a sé come atti secondari e complementari, e che perfezionano la mente nello stesso ordine delle cose di fede, gli atti di percepire e di giudicare. L’atto di percepire è unico come genere, e ad esso corrisponde sia la virtù intellettuale della intelligenza, sia in linea più alta di perfezione il dono della intelligenza. L’atto di giudicare è molteplice e sì divide in tre: in quanto ché giudica in generale in ordine alle ragioni divine od in ordine alle ragioni umane, ed in quanto ché fa applicazioni ai casi particolari. Nel primo caso gli corrisponde la virtù intellettuale che è la sapienza, e più alto il dono della sapienza; nel secondo caso, la virtù intellettuale che è la scienza, e più alto il dono della scienza; nel terzo caso, la virtù intellettuale che è la prudenza, e più alto il dono del consiglio.

932. Si potrebbe dare un nome generico a questa dottrina che avete esposta?

Sì; si potrebbe chiamare in qualche modo l’economia del nostro organismo psicologico soprannaturale nell’ordine delle cose di fede.

933. Questo insegnamento ha qualche cosa di particolarmente perfetto?

Sì; perché lo dobbiamo a S. Tommaso di Aquino; ed egli stesso ci avverte di non averlo appreso in tutta la sua armoniosa bellezza, se non in seguito riflessioni particolarmente attente e mature (VIII, 6).

934. Fra le virtù ed i doni che perfezionano la intelligenza nella cognizione della verità, quale occupa il primo posto in perfezione?

La virtù della fede dalla quale dipendono tutte le altre virtù e gli altri doni, e che ha per missione e per iscopo di assistere e di aiutare le altre virtù e gli altri doni nella cognizione della verità.

935. E dopo la virtù della fede che cosa vi è di più perfetto?

Dopo la virtù della fede vi è di più perfetto il dono della sapienza.

936. In che cosa consiste la perfezione del dono della sapienza, specialmente rispetto al dono della scienza?

Consiste in questo, che il dono della scienza ci fa giudicare divinamente delle cose, giudicandole secondo le loro proprie cause immediate e create; mentre il dono della sapienza ci fa giudicare divinamente di tutte le cose, giudicandole secondo la più alta di tutte le cause, dalla quale tutte le altre dipendono e che non dipende da nessuna.

937. Dunque al più alto grado di conoscenza cui si possa arrivare su questa terra, si arriva per mezzo del dono della sapienza?

Sì; per mezzo del dono della sapienza si arriva al più alto grado di conoscenza cui si possa arrivare su questa terra.

938. Questo dono sì elevato e sì bello ha un vizio che gli si oppone?

Sì; ed è precisamente il difetto di sapienza, che consiste nel portare il giudizio finale sopra una cosa, senza tenere in nessun conto, o disprezzando i sovrani consigli di Dio (XLVI).

939. Come si dovrà chiamare questo vizio?

Questo vizio non ha che un nome che gli convenga: quello di somma stoltezza e di somma follia (XLVI, 1).

940. È molto diffuso tra gli uomini?

Sì; perché praticamente è il vizio di tutti coloro che ordinano la loro vita al di fuori od in opposizione ad ogni considerazione delle cose divine.

941. Può esso convenire anche ad nomini del resto assai intelligenti nell’ordine delle cose umane?

Sì; può convenire ad uomini del resto assai intelligenti nell’ordine delle cose umane.

942. Vi è opposizione irriducibile tra la sapienza del mondo e la sapienza di Dio?

Sì: vi è opposizione irriducibile tra la sapienza del mondo e la sapienza di Dio, perché l’una di esse è follia agli occhi dell’altra.

943. In che cosa consiste tale irriducibile opposizione?

Consiste nel fatto che il mondo reputa sapienti coloro che ordinano la loro vita il meglio possibile per non mancare di nulla su questa terra, riponendo il loro ultimo fine nei beni del mondo con dispregio del Bene di Dio che ci è promesso in un’altra vita; mentre la sapienza dei figliuoli di Dio consiste nel subordinare tutto, nelle cose della vita presente, al futuro possedimento di Dio nel Cielo.

944. Questi due modi di vivere sono necessariamente distinti in tutto e per tutto?

Sì; questi due modi di vivere sono necessariamente distinti in tutto e per tutto, perché l’ultimo fine di ciascuno di essi è assolutamente diverso; e nella vita è l’ultimo fine che domina tutto.

945. Dunque l’uomo tende al suo vero ultimo fine e vi si può orientare come si conviene in tutti gli atti della sua vita, per mezzo della sola pratica e col mettere in opera le virtù teologali della fede, speranza e carità, e dei doni che loro corrispondono?

Sì; con la sola pratica e col mettere in opera le virtù teologali della fede, speranza e carità, e dei doni che loro corrispondono, l’uomo tende al suo vero ultimo fine, e vi si può orientare come si conviene in tutti gli atti della sua vita.

LA SUMMA PER TUTTI (11)

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (XVI)

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (XVI)

INTERPRETAZIONE DELL’APOCALISSE Che comprende LA STORIA DELLE SETTE ETÁ DELLA CHIESA CATTOLICA.

DEL VENERABILE SERVO DI DIO BARTHÉLEMY HOLZHAUSER RESTAURATORE DELLA DISCIPLINA ECCLESIASTICA IN GERMANIA,

OPERA TRADOTTA DAL LATINO E CONTINUATA DAL CANONICO DE WUILLERET,

PARIS, LIBRAIRIE DE LOUIS VIVÈS, ÉDITEUR RUE CASSETTE, 23 – 1856

LIBRO QUINTO

§III.

La terra che è riservata ai gentili e all‘Anticristo, e che non farà mai parte della Chiesa del Cristo.

CAPITOLO XI. VERSETTI 2-3.

Atrium autem, quod est foris templum, ejice foras, et ne metiaris illud: quoniam datum est gentibus, et civitatem sanctam calcabunt mensibus quadraginta duobus: et dabo duobus testibus meis, et prophetabunt diebus mille ducentis sexaginta, amicti saccis.

[Ma l’atrio, che è fuori dal tempio, lascialo da parte, e non misurarlo: poiché è stato dato alle genti, e calpesteranno la città santa per quarantadue mesi: ma darò ai due miei testimoni che per milleduecento sessanta giorni profetino vestiti di sacco.]

I. Vers. 2. — Ma lascia il cortile fuori dal tempio e non misurarlo, perché è stato abbandonato ai Gentili. In queste parole, Gesù Cristo istruisce la sua Chiesa attraverso San Giovanni, del sorprendente segreto e del permesso di Dio riguardo al regno di Maometto e dell’Anticristo, di cui questo era il precursore e il tipo. Perché è dalla mescolanza di queste due razze, gli ebrei e i gentili, che nascerà il figlio della perdizione l’Anticristo, che regnerà su di loro. Così l’impero dei turchi non sarà interamente distrutto, ma rimarrà un regno di una certa estensione, composto da queste razze. Gesù Cristo parla espressamente di questo regno, in San Matteo, XCXIV, 15: « Quando dunque vedrete nel luogo santo l’abominio della desolazione, etc., » e in San Marco, XIII, 14: « Quando vedrete l’abominio della desolazione dove non dovrebbe essere, etc., » È dunque per far sì che tutte le profezie si compiano, che Dio, nei suoi consigli segreti, permetterà a questi Gentili di occupare la Palestina, la Terra Santa e gli altri regni che Giuda e Israele hanno abitato in precedenza, e che possiederanno fino a quando ogni prevaricazione sia compiuta. Abbiamo una prova palpabile di questo mistero della Sua volontà, nel fatto che Egli non permetta che questa generazione di Turchi e di Giudei scompaia completamente e perisca, fino a quando non abbia prodotto il figlio dell’iniquità. – Quanti imperatori, re e principi hanno fatto ogni sforzo per riconquistare la Terra Santa, sempre senza successo, o almeno senza ottenere altro risultato che vittorie premature, i cui frutti hanno presto perso? Che cosa orribile questa discordia permanente tra i principi cristiani su questa grande e interminabile questione! Così l’annientamento del potere e del regno dei Turchi fu sempre ostacolato dal nostro orgoglio e dalla nostra malvagità, finché noi stessi Cristiani riempimmo la misura dei nostri peccati, e il Signore alla fine si disgustò della Sua Chiesa, permettendo al figlio della perdizione di esaltare il suo orgoglio. Troviamo nel Vecchio Testamento un esempio di questo disgusto del Signore per la casa d’Israele, che era la figura del Cristianesimo nel Nuovo (IV, Reg. X, 32): « In quei giorni il Signore cominciò a essere stanco di Israele, etc. »  Perché i turchi sono e saranno per la Chiesa latina quello che Assur era per la sinagoga dei Giudei, ed egli ne era la figura. Quindi, per quanto grande sia l’estensione della Chiesa latina nella sesta epoca, la Palestina, la Terra Santa e gli altri regni orientali non apparterranno mai all’ovile di Gesù Cristo. Perché è in queste terre riservate ai Gentili, che nascerà e sorgerà il regno del figlio della perdizione, che tutti i Giudei riconosceranno come loro re, e si raduneranno dall’Oriente, dall’Occidente, dal Nord, dal Sud e dalle montagne deserte per unirsi a lui. È di questa circostanza che parla Gesù Cristo, quando dice: Jo. V, 43: « Io sono venuto nel Nome del Padre mio e voi non mi ricevete; se un altro viene nel suo proprio nome, lo riceverete ». Gesù Cristo parla anche della Terra Santa, e della desolazione dei Giudei e dei Gentili, in San Matteo, XXIII, 39: « Poiché vi dico che non mi vedrete più, finché non mi direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore. » Gesù Cristo dice ancora espressamente di Gerusalemme, (Luca, XXI, 24): « E Gerusalemme sarà calpestata dai Gentili, finché non sia compiuto il tempo dei Gentili. » Perciò il testo continua: Ma lasciate l’atrio che si trova all’esterno del tempio. Con l’atrio si intende la Palestina o la Terra Santa e Gerusalemme, così come la sinagoga dei Giudei; e con il tempio si intende la Chiesa delle Nazioni di Cristo. Perché: – 1° è sotto l’atrio dei palazzi dei re, che tutti i sudditi devono aspettare, finché non siano ammessi all’udienza del sovrano. – 2. Coloro che si trovano nell’atrio possono vedere solo la costruzione esterna dei palazzi, ma non possono penetrare i loro segreti, né vederne le bellezze dell’interno finché non vi siano stati introdotti. – 3. L’atrio è sempre la parte meno spaziosa e meno ornata del palazzo. – 4. È negli atri che i servi del re aspettano i suoi ordini tremando, per servire il loro padrone secondo la sua volontà, ecc. Ora tale era, tale è e tale sarà la Palestina o la Terra Santa e la sinagoga dei Giudei in relazione alla Chiesa di Gesù Cristo. Perché nell’Antico Testamento tutti i Giudei aspettavano nell’atrio del tempio di Dio, che era il limbo, e nessuno poteva essere ammesso nel palazzo celeste alla presenza del Signore Dio Onnipotente, finché non si fosse compiuto il grande mistero: «… il Verbo si fece carne » e finché Gesù Cristo non fosse risuscitato dai morti per condurli nel suo palazzo reale ed eterno. 2°. Nell’Antico Testamento, i Giudei erano avvolti in una nube e potevano vedere i misteri di Dio solo da lontano, come in uno specchio e sotto immagini oscure, mentre noi Cristiani, essendo stati introdotti da Gesù Cristo stesso nel suo palazzo reale, che è la Chiesa, noi conosciamo, vediamo e ascoltiamo distintamente questi misteri per mezzo della parola di vita, come si vede nella prima Epistola di San Giovanni, (I, 1). Inoltre, per quanto un atrio sia imperfetto, stretto e rozzamente costruito in confronto al palazzo reale di cui forma l’ingresso, tanto più la sinagoga dei Giudei era imperfetta, stretta e grossolanamente costruita, in confronto alla Chiesa di Cristo, nella quale sono state e saranno ammesse tutte le nazioni della terra. 3°. La sinagoga e i suoi figli erano accolti solo a titolo di servi, mentre la Chiesa, nostra madre, ha deposto ogni timore servile e lo ha scambiato con l’amore, e i suoi figli non sono più servi, ma cittadini della città santa e persino figli di Dio (Eph. II:19, Galati IV e I. Jo. III). Così Gerusalemme e il paese che le era sottomesso, così come la sinagoga dei Giudei ebrei, non erano che gli atri del tempio della Chiesa Cattolica. Ecco perché è stato detto a San Giovanni: Ma lascia l’atrio che è fuori dal tempio. Il testo latino dice: (ejice foras) buttalo fuori.  È un modo di dire con cui:  1° i re e i principi sono soliti confermare e sanzionare i decreti che hanno fatto ab irato, o per una cosa di grande importanza, quando vogliono che siano irrevocabili. 2°. Si buttano via le cose inutili, rovinate e di cui non si sa più cosa farsene. Ora, ecco come Gesù Cristo ordina a San Giovanni di rifiutare Gerusalemme, la Terra Santa e tutta la nazione Giudaica che era già stata respinta per un giusto giudizio di Dio. Con questo, Dio conferma la sua sentenza di riprovazione, in virtù della quale la nazione giudaica fu dispersa su tutta la terra, e Gerusalemme e tutta la Palestina furono consegnate al potere delle nazioni, senza mai potere appartenere alla Chiesa di Dio. Benché l’antica Gerusalemme fosse stata distrutta da cima a fondo, essa venne ricostruita nel punto in cui Gesù Cristo fu crocifisso, e la Religione cristiana vi fu piantata; ma essa non poté esservi sostenuta a causa delle frequenti invasioni dei Saraceni. Infine Cosroe, dopo aver massacrato o condotto in cattività tutti i Cristiani che vivevano in questa città, se ne impadronì, e i suoi successori continuarono a governarla fino ad oggi, tranne un intervallo di pochi anni durante il quale Goffredo e suo fratello ne furono re. Tutte le spedizioni che furono fatte allora per riconquistare la Terra Santa, e che sono conosciute come crociate, per quanto grandi e potenti fossero, non ebbero successo e furono rese inutili da guerre, discordie e orgoglio dei Cristiani. Perciò è detto a San Giovanni: Ma lascia il cortile fuori dal tempio e non misurarlo, perché è stato abbandonato ai Gentili. Di nuovo, questo è un modo di parlare di un signore della guerra o di un principe che, disperando di poter mantenere una città sotto il suo dominio, sia a causa della vicinanza e potenza dei suoi nemici, o perché i suoi abitanti gli sono ostili, ordina che questa città non sia annoverata tra quelle del suo regno e che sia abbandonata alla mercé degli stranieri. Ora è così che San Giovanni, nel circoscrivere i limiti della Chiesa di Cristo, limiti che saranno estremamente estesi nella sesta epoca, è incaricato di informare espressamente la cristianità che Gerusalemme e la Giudea non sono da includere entro questi limiti. Egli ne dà immediatamente la seguente ragione: Poiché essi (l’atrio) è stato abbandonato ai gentili, cioè, a parte i pochi anni in cui Gerusalemme è appartenuta ai Cristiani sotto Goffredo e suo fratello, dei quali non uvale la pena farne menzione, questa terra continuerà ad essere abbandonata alle nazioni fino a quando la prevaricazione sarà consumata. E calpesteranno la città santa per quarantadue mesi. Queste parole indicano il tempo in cui queste nazioni possederanno questo paese sotto l’impero e la setta di Maometto e dei Turchi, di cui parleremo in seguito. Tutto il tempo del loro regno sarà dunque di quarantadue mesi, cioè milleduecentosettantasette anni e mezzo. Ma non esisterà sempre con lo stesso potere, perché verso la fine sarà ridotto ad un piccolo regno, come abbiamo detto sopra. Inoltre, per sapere da quanti anni esiste già, bisogna risalire alla sua origine, di cui parleremo altrove. E calpesteranno la città santa, etc. Per città santa intendiamo l’attuale città di Gerusalemme, che è chiamata santa a causa della santità del luogo in cui fu costruita e perché Gesù Cristo vi fu crocifisso. Per la città santa il Profeta intende tutta la Palestina, prendendo la parte per il tutto. Le nazioni la calpesteranno, cioè la domineranno. Perché ciò che viene calpestato è sotto il proprio potere, lo si governa e se ne fa quello che si vuole. Queste parole significano dunque l’impero delle Nazioni sulla città santa. Ora, perché San Giovanni nomina le Nazioni e non il loro capo? È perché nomina il corpo per la testa, poiché queste Nazioni professeranno sempre la setta di Maometto, che fu anche il fondatore del suo impero. Infatti queste Nazioni non sono sempre esistite sotto questo stesso impero di Maometto per successione immediata, poiché questo regno subì dei cambiamenti e passò in altre mani; ma la setta rimase sempre, come vedremo più avanti. Ora, poiché il profeta non descrive il capo di questa setta empia in persona, che era Maometto, tipo e precursore dell’Anticristo, ma descrive il tempo lungo il quale durerà l’impero di cui egli è fondatore, è con ragione che egli nomina le Nazioni che persevereranno costantemente nella sua setta, finché i quarantadue mesi e mezzo della sua durata siano completati. Vediamo quindi, da quanto appena detto, perché le armate dei crociati, a volte così numerosi e così forti, e perché così tante spedizioni belliche intraprese in vari momenti con uno scopo santo contro i Saraceni e i Turchi, ebbero un risultato così infausto. Infatti, a parte alcune delle cause principali che li fecero fallire, come la gelosia dei Greci, i peccati e gli scandali dei crociati, e altri vari ostacoli e calamità, non ci rimane che la volontà divina, che volle che le profezie sui regni, i tempi e le prevaricazioni si compissero. Questo, tuttavia, non impedisce a quei santi guerrieri che, essendo nella pace del Signore, siano caduti sotto il ferro del nemico, e in generale a tutti coloro che presero parte a quelle gloriose spedizioni, di essere ricompensati per i loro generosi sacrifici e le loro pie fatiche. Ed infatti non si può immaginare che queste imprese provengano da un’altra fonte che non sia l’ispirazione dello Spirito Santo con lo scopo di procurare ai soldati cristiani una morte gloriosa e meritoria versando il loro sangue per il nome di Gesù, come anche per spezzare la forza del nemico, per tenerlo nella paura e per impedirgli di andare oltre i suoi limiti nello sterminare i Cristiani.

SEZIONE II

SUL CAPITOLO XI

LA PERSECUZIONE DELL’ANTICRISTO E LA SETTIMA
ED ULTIMA TROMBA
§ 1.
D
el tempo della persecuzione dell’Anticristo.

CAPITOLO XI. VERSETTTI 3-13.

Et dabo duobus testibus meis, et prophetabunt diebus mille ducentis sexaginta, amicti saccis. Hi sunt duæ olivæ et duo candelabra in conspectu Domini terræ stantes. Et si quis voluerit eos nocere, ignis exiet de ore eorum, et devorabit inimicos eorum: et si quis voluerit eos lædere, sic oportet eum occidi. Hi habent potestatem claudendi cælum, ne pluat diebus prophetiæ ipsorum: et potestatem habent super aquas convertendi eas in sanguinem, et percutere terram omni plaga quotiescumque voluerint. Et cum finierint testimonium suum, bestia, quæ ascendit de abysso, faciet adversum eos bellum, et vincet illos, et occidet eos. Et corpora eorum jacebunt in plateis civitatis magnæ, quæ vocatur spiritualiter Sodoma, et Ægyptus, ubi et Dominus eorum crucifixus est. Et videbunt de tribubus, et populis, et linguis, et gentibus corpora eorum per tres dies et dimidium: et corpora eorum non sinent poni in monumentis: et inhabitantes terram gaudebunt super illos, et jucundabuntur: et munera mittent invicem, quoniam hi duo prophetae cruciaverunt eos, qui habitabant super terram. Et post dies tres et dimidium, spiritus vitæ a Deo intravit in eos. Et steterunt super pedes suos, et timor magnus cecidit super eos qui viderunt eos. Et audierunt vocem magnam de cælo, dicentem eis: Ascendite huc. Et ascenderunt in cælum in nube: et viderunt illos inimici eorum. Et in illa hora factus est terræmotus magnus, et decima pars civitatis cecidit: et occisa sunt in terræmotu nomina hominum septem millia: et reliqui in timorem sunt missi, et dederunt gloriam Deo cæli.

[… Ma darò ai due miei testimoni che per mille duecento sessanta giorni profetino vestiti di sacco. Questi sono i due ulivi e i due candelieri posti davanti al Signore della terra. E se alcuno vorrà offenderli, uscirà fuoco dalla loro bocca, e divorerà i loro nemici; e se alcuno vorrà loro far male fa d’uopo che in tal guisa sia ucciso. Questi hanno potestà di chiudere il cielo, sicché non piova nel tempo del loro profetare: e hanno potestà sopra le acque per cangiarle in sangue, e di percuotere la terra con qualunque piaga ogni volta che vorranno. Finito poi che abbiano di rendere testimonianza, la bestia, che viene su dall’abisso, loro muoverà guerra, e li supererà, e li ucciderà. E i loro corpi giaceranno nella piazza della grande città, che spiritualmente si chiama Sodoma ed Egitto, dove anche il lor Signore è stato crocifisso. E gente d’ogni tribù, popolo, lingua, e nazione, vedranno i loro corpi per tre giorni e mezzo: e non permetteranno che i loro corpi siano seppelliti. E gli abitanti della terra godranno, e si rallegreranno sopra di essi: e si manderanno vicendevolmente dei presenti, perché questi due profeti hanno dato tormento agli abitatori della terra. Ma dopo tre giorni e mezzo lo spirito di vita che viene da Dio entrò in essi. E si alzarono in piedi, e un grande timore cadde sopra coloro che li videro. E udirono una gran voce dal cielo che disse loro: Salite quassù. E salirono in una nuvola al cielo: e i loro nemici li videro. E in quel punto avvenne un gran terremoto, e cadde la decima parte della città: e nel terremoto furono uccisi sette mila uomini: e il restante furono spaventati, e diedero gloria al Dio del cielo.]

I. Vers. 3. – E io darò il mio spirito ai miei due testimoni; ed essi, rivestiti di sacco,  profetizzeranno mille duecento sessanta giorni. In questo testo, San Giovanni descrive il regno o piuttosto la tirannia dell’Anticristo e la desolazione finale che viene dall’impero di Maometto e termina con quello dell’Anticristo; cioè, che la figura diventa realtà, e che il regno del precursore diventa il consumatore di tutta l’iniquità. E questo nuovo impero nascerà, si formerà e trarrà il suo potere dal primo. È da questa vicinanza e affinità tra i due imperi che Dio stabilisce anche una vicinanza ed un’affinità di tempo, in modo che il secondo regno durerà tanti giorni quanto il primo sarà durato di anni. Questo è il motivo per cui San Giovanni esprime con verità la durata di entrambi i regni con quarantadue mesi, che, se ridotti a giorni profetici, fanno un periodo di milleduecentosettantasette anni e mezzo, che sarà la durata del regno di Maometto; ma se contiamo questi quarantadue mesi nel loro senso naturale, che è quello vero, e che è canonicamente riconosciuto nel secondo caso, ne segue che il tempo della persecuzione dell’Anticristo sarà di milleduecentosettantasette giorni e mezzo. È in quest’ultimo giorno che l’Anticristo, volendo ascendere al cielo, sarà gettato nell’inferno, come vedremo più avanti. La sua persecuzione sarà la più pericolosa e la più grande che abbia mai avuto luogo, come Gesù Cristo stesso predice chiaramente in San Matteo, (XXIV, 2): « La tribolazione allora sarà grande, come non c’è stata dal principio del mondo fino ad ora, né mai più ci sarà. » – Tuttavia, la bontà divina invierà molti robusti atleti della fede di Cristo, tra i quali si distingueranno soprattutto Enoch ed Elia, che predicheranno e faranno grandi prodigi nel nome di Gesù, contro le imposture ed i falsi miracoli dell’anticristo; e quando avranno compiuto la loro missione e data la loro testimonianza, costui li metterà a morte. Perciò il testo continua: E darò il mio spirito ai miei due testimoni. Questi due testimoni saranno Enoch ed Elia; il primo ha vissuto sotto la legge naturale, il secondo sotto la legge di Mosè. Essi ritorneranno alla fine del mondo e testimonieranno Gesù Cristo di Nazareth con dei miracoli sorprendenti e con la loro potente predicazione contro l’Anticristo e i suoi adepti. Essi persuaderanno le Nazioni e anche i Giudei che Gesù di Nazareth è veramente il Messia, il Figlio del Dio vivente, che è già venuto in questo mondo come Redentore, e che è stato veramente crocifisso in Gerusalemme dai sommi sacerdoti; che Egli è morto per la salvezza del mondo intero, che il terzo giorno è risorto dai morti, è salito al cielo ed è seduto alla destra di Dio, da dove verrà nell’ultimo giorno per giudicare i vivi e i morti. Così vediamo che, come San Giovanni Battista fu il precursore di Cristo al suo primo avvento, così lo saranno Enoch ed Elia alla sua seconda apparizione. E come gli Apostoli gli resero testimonianza fino ai confini della terra che Egli è il Cristo, (Atti I: 8), così lo faranno Enoch ed Elia negli ultimi giorni del mondo. La loro testimonianza, dunque, sarà espressa dalle loro bocche, e sarà confermata dai loro prodigi che Gesù è il Cristo, e questo è ciò che il figlio della perdizione negherà formalmente. (I. Jo., II, 22): « Chi è mendace se non colui che nega che Gesù è il Cristo. È un anticristo colui che nega il Padre e il Figlio. » (Ibidem, IV, 1, 2, 3). E io darò, etc. Questo verbo è usato qui al futuro attivo, mentre nel latino più sopra è usato al passato passivo, per significare che Dio permette solo i mali, e che Egli è il rimuneratore e distributore di beni. E come ha sempre dato alla Chiesa e al suo popolo consolazioni e aiuti in proporzione alle necessità e alle tribolazioni che essi dovevano sopportare, così continuerà a farlo, specialmente nell’ultima e più pericolosa persecuzione. Egli darà dunque a questi due testimoni, scelti per questa occasione, una grande saggezza e una potente virtù contro l’Anticristo e contro i falsi profeti e i falsi Cristiani. E, rivestiti di cilicio, profetizzeranno per milleduecentosessanta giorni. Con queste parole, San Giovanni indica il tempo, l’ufficio e l’abito di questi due testimoni di Cristo Figlio di Dio. Questo tempo della loro predicazione sarà dunque di milleduecentosessanta giorni presi dai quarantadue mesi della tirannia dell’Anticristo e dei suoi adepti. L’ufficio di questi santi sarà la predicazione: essi profetizzeranno, cioè predicheranno alle Nazioni e ai Giudei la fine del mondo, il giudizio finale, la penitenza; e infine predicheranno che Gesù è il Cristo figlio di Dio, che verrà a giudicare i vivi e i morti. Questa è la loro destinazione e lo scopo al quale sono riservati, cioè per la conversione e la penitenza delle Nazioni e dei Giudei. Si parla di Enoch nell’Ecclesiastico, (XLIV, 16): « Enoch è piaciuto a Dio ed è stato trasportato in paradiso, per portare le nazioni alla penitenza. » E di Elia nello stesso Libro, (XLVIII, 9 e 10): « Tu (Elia) che sei stato portato in cielo in un turbine di fuoco e in un carro trainato da cavalli che lanciavano fiamme; tu che eri destinato, nei giorni del giudizio, ad addolcire l’ira del Signore, e scelto per riconciliare i cuori dei padri e dei figli, e per ristabilire le tribù di Giacobbe, etc. »

Vers. 4.Questi sono due ulivi e due candelabri in piedi alla presenza del Signore della terra. – Questi sono due ulivi e due candelabri. Queste parole devono essere prese sia in un passivo che in un senso attivo: passivo perché saranno unti con l’olio della santità, della carità e della sapienza celeste; attivo, perché verseranno l’olio della salvezza sulle ferite delle Nazioni e dei Giudei; ammorbidiranno i loro cuori, li illumineranno nella verità e nella fede in Gesù Cristo, e così metteranno fine alla dispersione di Israele. Perciò Gesù Cristo dice in San Matteo, (XVII, 11): « Verrà davvero Elia e restaurerà tutte le cose ». E in San Marco, (IX, 11): « È vero che prima di questo deve venire Elia e restaurare tutte le cose ». – Perciò il testo aggiunge che questi due ulivi e questi due candelabri sono in piedi alla presenza del Signore, cioè, essi sono riservati in vita, per volontà di Dio, per la penitenza e la conversione delle Nazioni e dei Giudei; per quelli tra le Nazioni ed i Giudei che esisteranno sulla terra negli ultimi giorni, ed aderiranno alla dottrina dell’Anticristo. San Giovanni, rappresentando questi due profeti sotto la figura di due candelabri, prende qui il contenitore per il contenuto. L’abito con cui i due santi saranno vestiti durante la predicazione in tutto il mondo sarà lo stesso di quello indossato da San Giovanni Battista quando uscì dal deserto per predicare la penitenza, vale a dire il sacco e il cilicio, che sono gli unici indumenti adatti al degno svolgimento di questo ufficio. Questo dovrebbe far vergognare i predicatori e i pastori d’anime che, seguendo l’esempio dei mondani, osano adornarsi e mostrarsi nelle corti e nelle società del mondo con abiti lussuosi e con tutte le raffinatezze di una toilette effeminata!

II. Vers. 5. – Se qualcuno farà loro del male, il fuoco uscirà dalla loro bocca, etc. Queste e le seguenti parole esprimono la virtù e la potenza dei grandi miracoli e prodigi che questi due santi saranno incaricati di operare negli ultimi giorni, per confondere l’impostura ed il potere dell’anticristo e dei falsi profeti. Poiché ciò che fu fatto in Egitto, ai tempi di Faraone, per mano di Mosè e Aronne, e ai tempi di Achab e Jezebel, per mano di Elia, sarà rinnovato negli ultimi giorni per la potenza di questi due profeti. La loro prima e speciale virtù sarà quella di distruggere con il fuoco i nemici che l’Anticristo e i suoi seguaci manderanno contro di loro per ucciderli; e questo prodigio sarà ripetuto frequentemente e pubblicamente durante la loro missione. Perciò è detto: Se qualcuno vuole far loro del male, cioè ucciderli e distruggerli, il fuoco uscirà dalla loro bocca, non realmente e in sostanza, ma con la loro voce imperativa. Perché con la parola di Dio comanderanno gli elementi, e i fulmini scenderanno dal cielo e divoreranno i loro nemici. Infatti leggiamo nelle Scritture che questo prodigio si operò realmente alla parola di Elia, (IV. Reg . I. 9): « (Il re) mandò da lui (Elia) un capo di cinquanta soldati e i cinquanta soldati che comandava; salì da Elia, seduto sulla cima di un monte, e gli disse: Il re ti ordina di scendere, uomo di Dio. Ed Elia gli disse: Se io sono un uomo di Dio, scenda del fuoco dal cielo e divori te e i tuoi cinquanta uomini. Così il fuoco dal cielo scese e divorò lui e i cinquanta uomini che erano con lui. E Ocozia mandò un altro capitano di cinquanta uomini, che disse a Elia: O uomo di Dio, questo è ciò che dice il re: affrettati, vai giù. Ed Elia rispose: Se io sono un uomo di Dio, scenda del fuoco dal cielo e divori te e i tuoi cinquanta uomini. E subito scese il fuoco del cielo e divorò quell’uomo e i suoi cinquanta soldati. E Ocoziah mandò con lui un terzo capitano e i suoi cinquanta soldati. etc. » Inoltre, la virtù del potere di questi due profeti sarà generale, vale a dire che faranno ricadere ogni tipo di male sulla testa di coloro che oseranno attaccarli ed i loro nemici cadranno nella loro stessa fossa che avranno scavato per loro per tendere loro trappole di qualsiasi tipo, sia di morte che di altri mali. Infatti il testo aggiunge: E se qualcuno vorrà offenderli perirà allo stesso modo. Così Elia disperse tutti i profeti di Baal al torrente di Cison, quando Jezebel cercava di farlo morire con i suoi (III. Reg. XVIII). La terza virtù del loro potere si manifesterà in cielo, perché:

Vers. 6.- Hanno il potere di chiudere il cielo, per impedire che la pioggia cada mentre profetizzano. Questo accadde ai tempi di Achab, re d’Israele, per mano del profeta Elia, a causa dell’empietà e dell’idolatria in cui indulgevano quel re e il suo popolo, (III. Reg. XVII); poiché per tre anni non ci fu né rugiada né pioggia su quella terra, e il cielo era chiuso. – La quarta virtù del potere di questi santi si manifesterà sulle acque, che essi cambieranno in sangue. Questo è ciò che Mosè e Aronne fecero quando colpirono le acque con il loro bastone. (Esodo, VII, 20). Perciò il testo dice: E hanno il potere di trasformare l’acqua in sangue. – La quinta virtù, la manifesteranno sulla terra colpendo essa e i suoi abitanti con ogni tipo di piaghe, secondo il testo: Hanno il potere ….. etc., di colpire la terra con ogni tipo di piaghe, tutte le volte che vorranno. Questo è ciò che fece Mosè, (Esodo, VIII, IX e X), quando mandò sul paese d’Egitto, rane, moscerini, mosche, locuste, grandine, fulmini, la peste sugli animali, le ulcere sugli uomini, le tenebre, la morte sui primogeniti e la espoliazione dell’oro e dell’argento. Con queste e molte altre piaghe, questi due profeti colpiranno la terra verso la fine dei tempi, in presenza del figlio della perdizione, e in presenza delle Nazioni e del popolo d’Israele, come fecero Mosè e Aronne. E proprio come il faraone riuscì a imitare alcune di queste meraviglie con i suoi malefici, anche se in modo imperfetto, e resistette a questi due uomini di Dio e al suo popolo; così, negli ultimi giorni, l’Anticristo godrà, per permesso di Dio, di un potere molto più grande per imitare Enoch ed Elia, ma non per eguagliarli in potenza nei grandi prodigi che essi opereranno per virtù di Dio, in cielo, sulla terra, sulle acque, sui frutti, sugli animali e sugli empi, che essi colpiranno con piaghe così crudeli che ne moriranno di dolore. Anche il figlio della perdizione, a sua volta, farà di queste cose, ma non potrà farle tutte, né così perfettamente, e le farà in uno spirito di iniquità e di menzogna, la virtù del diavolo, da cui sarà posseduto e che adorerà, etc.

Vers. 7. – E quando avranno finito la loro testimonianza, la bestia che sale dal pozzo senza fondo farà guerra con loro, li vincerà e li ucciderà. In queste parole e in quelle che seguono, San Giovanni descrive la guerra, la morte e la vittoria corporale in cui Dio concederà all’Anticristo di trionfare su questi due profeti, dopo la loro guerra e la loro vittoria spirituale contro di Lui. L’Anticristo è qui chiamato la bestia che sale dall’abisso. – E quando avranno finito la loro testimonianza, cioè quando sarà passato il tempo di milleduecentosessanta giorni, durante il quale predicheranno che Gesù di Nazareth è veramente il Messia, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro. Con la bestia, San Giovanni designa l’Anticristo, o il figlio della perdizione che apparirà nel mondo verso la fine dei tempi. 1°. È chiamato la bestia a causa della sua vita abominevole che trascorrerà nella lussuria e nella concupiscenza delle donne. 2°. A causa della sua crudeltà senza pari, con la quale, come il leopardo feroce, si accanirà contro i Cristiani. 3°. Una bestia feroce divora e fa a pezzi tutto ciò che incontra; e così l’Anticristo divorerà e mutilerà tutte le cose sante e sacre. Abolirà il Sacrificio continuo, calpesterà il Santo dei Santi, non temerà il Dio dei suoi padri, né si preoccuperà di alcun dio. (Dan. XI, 37). 4º Come il destino finale della bestia è di nascere e di vivere per essere uccisa o perire, così l’Anticristo nascerà e sarà designato e scelto per non fare altro che il male, e per correre verso la sua rovina; ecco perché è chiamato il “figlio della perdizione”. La bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, e li vincerà e li ucciderà. 1°. Si dice che la bestia sorgerà dall’abisso, perché l’Anticristo perverrà all’impero con le frodi più ingannevoli e le più occulte e con gli artifici più colpevoli; e con l’aiuto della potenza delle tenebre entrerà nel regno e si eleverà al di sopra di tutto, e poi perché possiederà i tesori d’oro, d’argento e di pietre le più preziose che sono nascoste negli abissi della terra e del mare; e questi tesori gli saranno rivelati e consegnati dal demone Moazim, che egli adorerà. (Dan, XI).  Infine, la parola abisso significa anche un’immensa quantità di acqua, il cui fondo è sconosciuto; e le acque, secondo l’Apocalisse, (XII), « sono i popoli, le nazioni e le lingue ». Ora, la quantità di queste acque che aderiranno alla dottrina dell’Anticristo e lo riconosceranno, sarà quasi infinita. È da questo abisso che il figlio della perdizione sorgerà; ed è sulla sua immensa superficie, che sarà grande quanto il mondo, che si estenderà il suo impero. 2° La bestia che sorge dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. Dobbiamo notare qui che il verbo “sorgere” è al tempo presente, mentre i verbi “fare“, “vincere” e “uccidere” sono al tempo futuro. Questo per insegnarci che non è dal momento della sua ascensione al trono che l’Anticristo sarà autorizzato a colpire i due profeti, ma solo dopo che essi avranno reso e completato la loro testimonianza di Gesù Cristo, secondo l’espressione stessa di San Giovanni: Quando avranno finito la loro testimonianza, la bestia che sorge dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. 3º La guerra che l’Anticristo farà contro questi due santi sarà di due tipi diversi: la guerra nei miracoli e la guerra nei tormenti. Infatti, la bestia cercherà di rivaleggiare con questi santi profeti con prodigi stupefacenti ma falsi, che riuscirà a compiere con espedienti diabolici; e poiché non riuscirà a eguagliare in tutto e per tutto la loro virtù e il loro potere, che hanno da Dio stesso, la bestia vendicherà la sua sconfitta e la compenserà con tormenti ed atti tirannici contro la vita temporale di questi profeti; con il permesso di Dio, li sconfiggerà e li ucciderà. Poi essa getterà il loro corpo e li esporrà sulle pubbliche piazze di Gerusalemme alla vista delle Nazioni e dei Giudei; e avrà cura di rendere pubblica la loro morte, in modo che tutti gli uomini, per quanto possibile, possano vedere e credere che essa ne è al di sopra di ogni virtù e potere. Ne consegue che:

Vers. 8. – E i loro corpi saranno deposti nei luoghi della grande città chiamata spiritualmente Sodoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso. Questa grande città è la Gerusalemme moderna. È chiamata la grande città a causa della sua grande popolazione e dell’immensa fama che avrà soprattutto allora. Sarà grande per le sue ricchezze, per i suoi tesori, per i popoli, le nazioni e le persone di lingue diverse che la abiteranno e vi giungeranno da ogni parte; perché in quel tempo Gerusalemme diventerà molto potente e famosa. Nelle piazze di quella città giacciono realmente i corpi dei due profeti Enoch ed Elia insieme a quelli di molti altri santi martiri che furono costanti, fermi ed incrollabili nella confessione del santo Nome di Gesù, e che resistettero fino alla morte al figlio della perdizione. Tra loro ci saranno soprattutto i sacerdoti e i dottori della Chiesa di cui parla Daniele, (XI, 33): « Ed i saggi del popolo ne istruiranno molti, e cadranno sotto la spada, e nella fiamma, e in cattività, e nella rovina di quei tempi. » Questa persecuzione non avrà luogo solo a Gerusalemme, ma imperverserà in una maniera orribile e spaventosa su tutta la superficie della terra, e supererà di gran lunga tutte quelle precedenti, come annuncia Gesù Cristo in San Matteo, (XXIV, 21): « Grande sarà allora la tribolazione, come non c’è mai stata dal principio del mondo fino ad oggi, né ci sarà mai ». Questa città è chiamata spiritualmente, cioè allegoricamente, Sodoma, a causa della somiglianza che Gerusalemme avrà allora con Sodoma per i vizi consumati di ogni genere che vi saranno commessi, così come per tutta la terra. Perché in quel tempo il timore di Dio sarà sparito, e gli uomini si abbandoneranno al peccato con sicurezza, e come sarà il capo, tale sarà il popolo. Gli empi di questi ultimi tempi riprodurranno il riassunto e il culmine di tutte le scene di empietà che il mondo ha prodotto dalla sua origine. Inoltre, questa città è chiamata Egitto, perché Gerusalemme e il suo re faranno contro Gesù Cristo, ai giorni di Enoch e di Elia, quello che l’Egitto e il suo re Faraone fecero ai giorni di Mosè e di Aronne contro Dio. E come allora si lottava di miracolo in miracolo, di prodigio in prodigio, così accadrà alla fine dei tempi. Proprio come Faraone fece tutto i suoi sforzi per impedire ai figli d’Israele di entrare nella terra promessa, così l’Anticristo userà tutto il suo potere per impedire ai Cristiani di entrare nel soggiorno promesso, che è la vita eterna. Tutte queste parole sono dette da allegoria, perché le scene dell’Antico Testamento erano la figura dei segreti e dei misteri del Nuovo. – Infine, per chiarire che questa città non sarà altro che Gerusalemme, il testo aggiunge: Dove anche il loro Signore fu crocifisso. Queste parole si applicano letteralmente alla morte di Gesù Cristo, che è il Signore di tutte le cose. E proprio come alla morte di Cristo i Giudei e i Gentili si rallegrarono ed il popolo osò bestemmiare, dicendo: (Matth. XXVII, 40): « Tu che distruggi il tempio di Dio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso. Se sei il Figlio di Dio, discendi dalla croce », così, alla morte di Enoch ed Elia, gli empi si rallegreranno e batteranno le mani in segno di applauso sulla loro morte e su quella dei giusti; e glorificheranno il figlio della perdizione, il loro falso messia. Lo esalteranno sopra ogni cosa e lo considereranno come Dio. La sua potenza sembrerà loro superiore ad ogni potere, perché ha vinto ed ucciso quei due profeti che prima erano così potenti in parole e opere. Ecco perché li giudicheranno come dei maghi e dei falsi profeti, li volgeranno in derisione, e copriranno i loro corpi di sputi, e li tratteranno con ignominia.

Vers. 9. – 5°. E le tribù, i popoli, le lingue e le nazioni vedranno i loro corpi distesi per tre giorni e mezzo. Il giorno è preso qui per una settimana, che è il tempo stabilito per i lavori dell’uomo, come se la settimana fosse non formasse che un giorno. Così i corpi dei due profeti rimarranno esposti allo scherno degli empi, che ne faranno un trastullo per tre settimane e mezzo, e l’Anticristo godrà dei frutti della sua vittoria e del suo trionfo in mezzo alle scene le più orribili. Non sarà permesso seppellire questi corpi siccome serviranno da testimoni alle Nazioni riunite della grandezza, della potenza e persino della divinità del falso messia che li avrà sconfitti e uccisi. Ecco perché il testo aggiunge:  E non permetteranno che siano messi nella tomba. Allora il figlio della perdizione si vedrà così glorificato da questa vittoria, e ne sarà così inebriato che, nella foga del suo entusiasmo, andrà a stare sulla cima del Monte degli Ulivi, per esservi adorato in pubblico come se fosse Dio. E per meglio manifestare la gloria della sua divinità, si metterà in condizione di celebrare la sua ascensione al cielo. A questa circostanza si riferiscono le parole del profeta Daniele, (XI, 45): « Egli si accamperà in Apadno, in mezzo ai mari (nazioni e popoli), sul famoso e santo monte; e arriverà alla sua cima, e nessuno lo aiuterà. »

Vers. 10. – E gli abitanti della terra si rallegreranno della loro morte; la festeggeranno e si scambieranno regali gli uni agli altri. Queste parole mostrano l’ebbrezza della gioia fino alla frenesia, che gli empi mostreranno durante questi ventiquattro giorni o tre settimane e mezzo che durerà il loro trionfo. E nella loro cecità esalteranno e glorificheranno l’Anticristo; e come questi avrà avuto cura di rendere pubblica la sua vittoria su questi due così celebri profeti, la massa degli uomini che coprono la faccia della terra si agiterà come le onde del mare; e le tribù, le nazioni e gli uomini di varie lingue accorreranno in quei giorni a Gerusalemme, per vedere questi cadaveri così rinomati, e contemplare il loro re divinizzato in tutta la gloria della sua maestà. Allora gli uomini danzeranno per la gioia sulla morte dei due profeti e di altri uomini giusti che saranno stati martirizzati per il santo Nome di Gesù, come Erodiade danzò e si rallegrò sulla decapitazione di San Giovanni Battista. Essi erigeranno trofei e magnifiche statue all’Anticristo su tutta la terra, e bruceranno incenso sui suoi altari e lo adoreranno come loro dio e loro messia. Tutti gli uomini che crederanno in lui saranno invitati a festini, banchetti, danze, feste nuziali e voluttà di ogni tipo. Essi cercheranno di soddisfare tutti i desideri della carne, perché penseranno di aver raggiunto la pienezza del riposo, poiché la loro pace non sarà più disturbata dai due predicatori di penitenza. Saranno così storditi dalla felicità e dai baccanali di questi ventiquattro giorni di follie mondane, che non sospetteranno affatto gli ultimi e orribili mali che li sorprenderanno come un ladro. E si scambieranno regali gli uni agli altri, di villaggio in villaggio, di città in città, di paese in paese. Infatti, dopo la morte dei due profeti, sarà dato potere alla bestia su tutti gli uomini potenti in opere e parole; e tutti questi saranno messi a morte in tutti le contrade della terra, o saranno costretti a fuggire nelle montagne e in luoghi deserti, per nascondersi negli antri delle rocce e nelle caverne oscure. Poiché nessuno oserà dichiararsi Cristiano in pubblico. – Dal canto loro, gli empi si rallegreranno, saranno nella gioia, nei festini e nei piaceri, ed il loro trionfo sarà completo sulla terra. Il Dio del cielo non darà più segni né in cielo né in terra né nelle acque dopo questi due profeti, che insegnavano in precedenza la vera dottrina a molti, mantenendoli nella fede con i più grandi prodigi. Così che negli ultimi giorni, veramente tutti gli uomini adoreranno la bestia, e anche i Cristiani, tranne gli eletti, vedendo la morte ignominiosa dei loro profeti, la pace dei malvagi, la vittoria dell’Anticristo, il silenzio e l’apparente abbandono di Dio, ne prenderanno scandalo e faranno defezione. Essi bruceranno anche il loro incenso davanti all’altare della bestia, e dopo aver accettato il suo carattere nelle loro mani o alla fronte, come spiegheremo più tardi, adoreranno la sua immagine. San Giovanni ci indica ora la causa di questa folle gioia: perché questi due profeti tormentavano coloro che abitavano la terra, cioè: con i loro prodigi e i grandi miracoli che opereranno in cielo e in terra e nelle acque, per testimoniare a Gesù che egli è il Cristo, e colpendo la terra e i suoi abitanti con ogni sorta di piaga e flagello temporale, per costringerli a ricorrere alla penitenza e a salvare le loro anime. Ora, questi empi, ostinati nei loro peccati, ne saranno sovranamente contrariati, molto infastiditi da questo, e si rallegreranno di essere finalmente liberati dai loro mali fisici, perché questi due profeti tormenteranno  coloro che abitavano la terra.

Vers. 11. – Ma dopo tre giorni e mezzo lo spirito di vita entrò in loro da parte di Dio. Queste parole e le seguenti ci indicano tutto ad un colpo il cambiamento nella mano destra dell’Onnipotente, che non permette agli empi di trionfare a lungo sui giusti. Ma dopo tre giorni e la metà di un giorno, cioè dopo questi ventiquattro giorni e mezzo, lo spirito di vita entrò in loro da Dio, che per la sua infinita potenza farà risuscitare questi due profeti dai morti. Ed essi si alzarono in piedi; e grande paura venne su coloro che li vedero. In effetti, il cambiamento improvviso e inaspettato di questa scena imponente sarà terribile per gli empi! Questa solenne trasformazione dello stato degli uomini sulla terra ci dà un’idea di quello che vedremo nell’altra vita. Agli occhi degli uomini, l’empio trionfa ed il giusto è oppresso; ma davanti a Dio, questi gemiti del giusto saranno trasformati in gloria e consolazione eterna, mentre il trionfo fugace ed effimero dell’empio sarà seguito da tormenti immensi nel loro rigore e interminabili nella loro durata. (Sap. V, 1): « Allora i giusti insorgeranno con grande fermezza contro coloro che li avranno tormentati e avranno portato via i frutti dei loro lavori. I malvagi, a questa vista, saranno colti da confusione e da un terribile terrore; saranno stupiti quando vedranno improvvisamente, contro le loro aspettative, i giusti salvati. Diranno a se stessi, pentendosi e gemendo nei loro cuori: Questi sono quelli di cui ci prendevamo gioco e di cui portavamo come esempio di persone degne di ogni tipo di obbrobrio. Insensati che eravamo, la loro vita ci sembrava una follia e la loro morte una vergogna. Eppure eccoli qui elevati al rango di figli di Dio, e la loro porzione è con i Santi. »

III. Vers. 12. – E udirono una voce forte che diceva loro dal cielo: Salite qui. E salirono al cielo in una nuvola, alla vista dei loro nemici. Tutte le parole contenute in questo testo devono essere prese alla lettera, ed il loro significato è naturale e senza figura. Perché accadrà veramente che Dio, volendo dare pubblica e solenne testimonianza della verità della predicazione di questi due profeti risorti dai morti, li farà salire in cielo in anima e corpo alla presenza di tutti i popoli, tribù e lingue, che saranno venuti da tutte le estremità della terra e si saranno portati, come un flutto di popolazione, verso il re di Gerusalemme. Allora l’Anticristo si sentirà turbato da un terrore glaciale, fremerà di rabbia, e nell’eccesso del suo orgoglio e della sua infernale presunzione, volendo dare un’ultima prova della sua falsa divinità, e volendo anche trattenere il popolo nell’abisso dell’errore, con l’aiuto del potere dei demoni, si alzerà dal Monte degli Ulivi in aria, con grande maestà, e cercherà di raggiungere Enoch ed Elia per precipitarli sulla terra Ma in questo momento solenne, la virtù dell’Onnipotente lo colpisce e lo precipita nella più grande ignominia e confusione! – Un orribile terremoto scuote tutto il paese, gran parte di Gerusalemme cade in rovina, i falsi profeti e la maggior parte dei loro adepti vengono uccisi, e il figlio della perdizione, cadendo nelle voragini della terra aperta, viene gettato vivo nell’inferno. È allora che i resti dei Giudei e delle Nazioni, vedendo con i propri occhi la potenza di Dio e l’inganno del falso messia loro re, si convertiranno al Signore e al suo Cristo, e, presi da una terribile paura, si batteranno il petto e pronunceranno queste parole che Gesù Cristo ha predetto su di loro: Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Ecco perché San Giovanni aggiunge:

Vers. 13. – E in quella stessa ora ci fu un grande terremoto, e la decima parte della città cadde, e settemila uomini morirono nel terremoto; e il resto ebbe paura e diede gloria a Dio.

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (XVII)

LA SUMMA PER TUTTI (9)

LA SUMMA PER TUTTI (9)

R. P. TOMMASO PÈGUES

LA SOMMA TEOLOGICA Di S. TOMMASO DI AQUINO IN FORMA DI CATECHISMO PER TUTTI I FEDELI

PARTE SECONDA

SEZIONE SECONDA

Idea particolareggiata del ritorno dell’uomo verso Dio.

Capo I.

Degli atti buoni o cattivi considerati nei particolari della loro specie, e secondo le condizioni del loro stato ordinario fra gli uomini. – Le virtù teologali.

691. Quali sono le più importanti di tutte le virtù, delle quali interessa sommamente produrre gli atti?

Sono le virtù teologali.

692. Perché dite che queste virtù sono le più importanti, e che interessa sommamente produrne gli atti?

Perché esse fanno sì che l’uomo raggiunga il suo ultimo fine soprannaturale, in quanto può e deve raggiungerlo su questa terra, per rendere meritoria tutta la sua vita e conseguire un giorno nel cielo questo stesso ultimo fine che deve formare la sua eterna felicità.

693. È dunque impossibile che l’uomo faccia alcunché di buono soprannaturalmente senza le virtù teologali?

Sì: è affatto impossibile che l’uomo faccia alcunchè di buono soprannaturalmente senza le virtù teologali.

694. Quali sono le virtù teologali?

Le virtù teologali sono: la fede, la speranza e la carità.

Capo II.

La fede: sua natura; le condizioni del suo atto; il Credo: la formula dell’atto di fede. – I peccati che le sono opposti: l’infedeltà, l’eresia, l’apostasia, la bestemmia.

695. Che cosa è la fede.

La fede è una virtù soprannaturale per la quale il nostro intelletto aderisce fermissimamente e, senza timore di errare, benché non lo comprenda, a ciò che Dio ci ha rivelato specialmente di Se stesso e della sua volontà di darsi un giorno a noi come oggetto della nostra perfetta felicità (I, II, IV).

696. Come può il nostro intelletto aderire fermamente e senza timore di ingannarsi a ciò che Dio ha rivelato e che esso non comprende?

Basandosi sulla autorità di Dio che non può ingannarsi né ingannare (I, 1).

697. E perché Dio non può ingannarsi né ingannare?

Perché Egli è la stessa Verità (I, 1; IV, 8).

698. Ma come sappiamo noi che Dio ci ha rivelato ciò che voi dite?

Lo sappiamo per mezzo di coloro a cui lo ha rivelato, e per mezzo di coloro cui ha confidato il deposito della sua rivelazione (I, art. 6-10).

699. Chi sono coloro a cui Dio lo ha rivelato?

Anzitutto è il primo uomo stesso a cui Dio si è manifestato direttamente; sono poi tutti i Profeti dell’Antico Testamento, e finalmente gli Apostoli al tempo di Gesù Cristo (I, 7).

700. Come sappiamo che Dio si è rivelato al primo uomo, ai Profeti ed agli Apostoli?

Lo sappiamo per mezzo della storia che ce lo narra, dicendoci anche i prodigi ed i miracoli operati da Dio per convincere gli uomini del suo intervento soprannaturale.

701. Il miracolo prova in modo assoluto che Dio è intervenuto?

Sì; perché esso è il contrassegno stesso di Dio, non potendo alcuna creatura compierlo per sua propria virtù.

702. Dove si trova la storia di questi interventi soprannaturali di Dio e della Sua rivelazione?

Questa storia si trova soprattutto nella Santa Scrittura, detta anche Bibbia.

703. Che cosa intendete per Sacra Scrittura o Bibbia?

Intendo un insieme di libri divisi in due collezioni, che si chiamano Antico e Nuovo Testamento.

704. Questi libri rassomigliano a tutti gli altri libri?

No; questi libri non rassomigliano a tutti gli altri libri; perché gli altri libri sono scritti da uomini, mentre questi sono stati scritti da Dio stesso.

705. Che cosa volete dire dicendo che questi libri sono stati scritti da Dio stesso?

Voglio dire che Dio ne è l’autore principale, e per iscriverli si è servito di uomini scelti da Lui come di altrettanti strumenti.

706. Dunque tutto quello che si contiene in tali libri vi è stato messo da Dio?

Sì: tutto ciò che si contiene in tali libri vi è stato messo da Dio, parlando del primo esemplare autografo scritto dagli scrittori sacri; perché gli altri non sono divini se non in quanto sono conformi al primo.

707. Quando dunque noi leggiamo questi libri, è come se intendessimo parlarci Dio stesso?

Sì; quando leggiamo questi libri è come se intendessimo Dio stesso che ci parla.

708. Ma non possiamo ingannarci sul senso della parola di Dio?

Sì; noi possiamo ingannarci sul senso della parola di Dio; perché se vi sono dei tratti di per se stessi chiarissimi, ve ne sono anche degli oscuri.

709. Donde nasce questa oscurità della parola di Dio nella Santa Scrittura, ossia nella Bibbia?

Questa oscurità talvolta deriva dai misteri stessi che la Bibbia contiene; poiché in ciò che essa ha di più essenziale, si tratta di verità che Dio solo conosce per Se stesso e che superano ogni intelligenza creata; deriva inoltre dall’antichità di tali libri, scritti primieramente per dei popoli che non avevano Né la nostra lingua, né le nostre abitudini di vita: deriva finalmente dagli errori che si sono potuti inserire sia nelle copie della lingua originale sia nelle traduzioni che ne sono state fatte, e nelle copie delle traduzioni stesse.

710. Vi è qualcuno che sia garantito di non errare circa il senso della parola di Dio nella Santa Scrittura, e circa il deposito dove essa si trova?

Sì: vi è il Sommo Pontefice e per mezzo di Lui la Chiesa Cattolica nel suo insegnamento universale (I, 10).

711. Perché dite che il Sommo Pontefice e per mezzo di Lui la Chiesa Cattolica nel suo insegnamento universale non possono errare circa il senso della parola di Dio nella Santa Scrittura, e circa il deposito dove essa si è conservata?

Perché Dio stesso ha voluto che fossero infallibili.

712. E perché Dio ha voluto che fossero infallibili?

Perché senza di questo gli uomini non avrebbero avuto i mezzi necessari per raggiungere sicuramente il fine soprannaturale a cui Egli li chiama (I, 10).

713. Si vuole alludere a questo quando si dice che il Papa e la Chiesa sono infallibili nelle questioni riguardanti la fede ed i costumi?

Sì; è proprio questo il senso di tali espressioni; e si intende dire che il Papa e la Chiesa non possono mai ingannarsi né ingannare quando insegnano oppure interpretano agli uomini la parola di Dio, in ciò che si riferisce alle verità essenziali riguardanti le cose che bisogna credere o fare, per conseguire un giorno ciò che deve formare la nostra perfetta felicità.

714. Esiste un ristretto delle verità essenziali riguardanti ciò che bisogna credere, e che sono il fondamento di ciò che bisogna operare per conseguire un giorno la nostra perfetta felicità?

Sì; è il Simbolo degli Apostoli, ossia il «Credo» (I, 6).

715. Potreste dirmi il Simbolo degli Apostoli ossia il «Credo»?

Eccolo quale lo recita ogni giorno la Chiesa Cattolica:

Io credo in Dio Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra; e in Gesù Cristo, suo unico Figliuolo, Nostro Signore; il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morto e seppellito, discese all’inferno, il terzo giorno risuscitò da morte, salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente, di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei Santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna. Così sia.

716. La recita del Simbolo degli Apostoli, ossia del «Credo», è l’atto di fede per eccellenza?

Sì; la recita del Simbolo degli Apostoli ossia del «Credo», è l’atto di fede per eccellenza; e non sapremmo raccomandarlo mai troppo a tutti i fedeli come pratica quotidiana.

717. Potreste darmi ancora una formola del- L’atto di fede, breve e precisa, che sia essa pure eccellentemente l’atto della virtù soprannaturale della fede, la prima delle virtù teologali?

Sì: ed eccola sotto forma di omaggio a Dio: Mio Dio, credo fermamente quanto Voi, infallibile Verità, avete rivelato e la santa Chiesa ci propone a credere. Ed espressamente credo in Voi, unico vero Dio in tre Persone uguali e distinte, Padre, Figliuolo e Spirito Santo; e nel Figliuolo incarnato e morto per noi, Gesù Cristo, il quale darà a ciascuno, secondo i meriti, il premio o la pena eterna. Conforme e questa Fede, voglio sempre vivere. — Signore, accrescete la mia fede.

718. Chi sono coloro che possono fare questo atto di fede?

Soltanto coloro che hanno la virtù soprannaturale della fede (IV, V).

719. Dunque gli infedeli non possono fare questo atto di fede?

Gli infedeli non possono fare questo atto di fede; perché essi non credono a ciò che Dio ha rivelato in ordine alla loro felicità soprannaturale: sia che lo ignorino e non si abbandonino confidenti all’azione di Dio che può e vuole dar loro il bene secondo che a Lui piace: sia che avendolo conosciuto, abbiano poi rifiutato di prestarvi il consentimento del proprio intelletto (X).

720. E gli empi possono fare questo atto di fede?

No; gli empi non possono fare questo atto di fede; perché malgrado ritengano per certo ciò che Dio ha rivelato in forza dell’autorità di Dio stesso che non può ingannarsi né ingannare, l’adesione della loro mente non è effetto di simpatia soprannaturale verso la parola di Dio che al contrario detestano, quantunque non possano non ammetterla (V, 2 ad 2).

721. Si danno degli uomini che possono credere in questo modo, senza fare pertanto l’atto di fede della virtù soprannaturale?

Sì; ed essi non fanno altro che imitare in ciò i demoni (V, 2).

722. Gli eretici possono fare l’atto di fede della virtù soprannaturale?

No; gli eretici non possono fare l’atto di fede della virtù soprannaturale; perché anche se aderiscono con il loro intelletto a questo od a quel punto della dottrina rivelata, non vi aderiscono affatto sulla parola di Dio, ma sul loro proprio giudizio (V, 3).

723. Gli eretici, riguardo all’atto di fede, sono in errore ancora più degli empi e dei demoni?

Sì; perché la parola di Dio e la sua autorità non sono il motivo dell’adesione del loro intelletto.

724. Gli apostati possono fare l’atto di fede?

No; gli apostati non possono fare l’atto di fede; perché il loro intelletto ha completamente rinnegato ciò che prima avevano creduto sulla parola di Dio (XI).

725. I peccatori possono fare l’atto di fede, anche come atto della virtù soprannaturale?

Sì; i peccatori possono fare l’atto di fede anche come atto della virtù soprannaturale, quando hanno di fatto questa virtù; e possono averla, sebbene in uno stato imperfetto, quando non hanno la carità, ossia sono in istato di peccato mortale (IV, 1-4).

726. Dunque non ogni peccato mortale è un peccato contro la fede?

No; ogni peccato mortale non è un peccato contro la fede (X, 1, 4).

727. In che consiste precisamente il peccato contro la fede?

Il peccato contro la fede consiste nel non volere sottomettere il proprio intelletto alla parola di Dio per rispetto e simpatia verso questa parola (X, 1-3).

728. È sempre colpa dell’uomo se questi non sottomette il proprio intelletto alla parola di Dio, per rispetto e simpatia verso questa parola?

Sì: è sempre colpa dell’uomo, ed è perché resiste alla grazia attuale di Dio che lo invita a fare questo atto di sottomissione (VI, 1, 2).

729. Tutti gli uomini che vivono sulla terra hanno sempre questa grazia attuale?

Sì; tutti gli uomini che vivono sulla terra hanno sempre questa grazia attuale, benché in diversi gradi ed in quanto a Dio piace di distribuirla nei disegni della sua Provvidenza.

730. È una grazia grande di Dio di avere la virtù della fede soprannaturale?

Sì; quella di avere la virtù della fede soprannaturale è in certa maniera la più grande grazia di Dio.

731. Perché dite che l’avere la fede soprannaturale è la più grande grazia di Dio?

Perché senza la fede soprannaturale non possiamo assolutamente nulla in ordine alla nostra salvezza, e si è interamente perduti per il cielo, salvo che non la si riceva da Dio prima di morire (II, 5-8; IV, 7).

732. Quando dunque si ha il bene di possederla, sarebbe una colpa grave l’esporsi a perderla con delle pratiche, conversazioni o letture di natura tale da apportarvi danno?

Sì: sarebbe colpa gravissima se si facesse scientemente; ed è sempre cosa deplorevolissima correre un simile pericolo, anche se sulle prime non vi fosse propria colpa.

733. Importa dunque sommamente scegliere bene le proprie pratiche e le proprie letture, per non esporsi, ma al contrario per conservare e sviluppare in sè il gran bene della fede?

Sì; ciò importa sommamente, soprattutto oggigiorno che nel mondo, con la libertà sfrenata della stampa, si possono incontrare tante occasioni che sono un pericolo per la fede.

734. Vi è ancora un altro peccato contro la fede?

Sì: è il peccato della bestemmia (XII).

735. Perché dite che la bestemmia è un peccato contro la fede?

Perché va direttamente contro l’atto esterno della fede che è la confessione della fede stessa con le nostre parole: ogni bestemmia infatti consiste nel profferire qualche parola ingiuriosa contro Dio o contro i suoi Santi (XIII, 1).

736. La bestemmia è un gran peccato?

La bestemmia è sempre di per sé un grandissimo peccato (XIII, 2-3).

737. L’abitudine di profferire bestemmie scusa, o almeno diminuisce, la loro gravità, quando vengono profferite?

Al contrario tale abitudine piuttosto le aggrava, perché invece di impegnarsi a correggersene, si è lasciato che questo male sì grave si radicasse tanto profondamente (XIII, 2 ad 3).

Capo III

Dei doni dello Spirito Santo corrispondenti alla fede: la intelligenza e la scienza. – Vizi opposti: la ignoranza, l’accecamento dello spirito e l’istupidimento del senso.

738. La virtù della fede, in coloro nei quali si trova, basta per far loro apprendere come debbono sulla terra, la verità di Dio?

Sì: essa basta, ma in quanto possiede alcuni doni dello Spirito Santo che le sono di aiuto (VIII, 2),

739. Quali sono i doni dello Spirito Santo destinati ad aiutare la virtù della fede?

Sono l’intelligenza e la scienza (VIII, IX).

740. Come aiuta il dono della intelligenza, la virtù della fede nella conoscenza della verità di Dio?

Il dono della intelligenza aiuta la virtù della fede nella conoscenza della verità di Dio, facendo sì che il nostro intelletto, sotto l’azione diretta dello Spirito Santo, penetri il senso dei termini delle affermazioni divine e di tutte le proposizioni che ad esse si possono riferire, in modo da potere pienamente intendere tali proposizioni e tali affermazioni, se esse non superano la capacità della nostra intelligenza; e se si tratta degli stessi misteri, in modo da conservarli integri, malgrado tutte le difficoltà che questi misteri possano sollevare (VIII, 2).

741. Il dono della intelligenza è dunque per eccellenza il dono della luce?

Sì; il dono della intelligenza è per eccellenza il dono della luce; e tuttociò che noi abbiamo di chiarezza e di gaudio intellettuale nell’ordine della verità soprannaturale, la cui chiara visione formerà in cielo la nostra felicità, lo dobbiamo su questa terra, come a prima origine, e questo dono della intelligenza che fa fruttificare in noi, nel nostro spirito, i germi delle infinite verità che sono le affermazioni divine, oggetto proprio e diretto della virtù della fede (VIII, 2).

742. Il dono della intelligenza aiuta anche in ordine al bene da operare?

Sì: il dono della intelligenza aiuta sommamente in ordine al bene da operare, perché il suo scopo o suo effetto è di illuminare la mente umana sulle ragioni di bontà soprannaturale in ordine al vero fine soprannaturale dell’uomo, che è la visione di Dio (ragioni contenute nella verità rivelata che riceviamo da Dio per mezzo della fede), affinché la volontà dell’uomo divinizzata dalla carità possa dirigervisi come si conviene (VII, 3, 4, 5).

743. Potreste dirmi come ed in che cosa il dono della intelligenza, che è una perfezione soprannaturale della nostra mente, si distingue dalla fede e dagli altri doni che sono pure perfezioni soprannaturali della mente stessa come il dono della sapienza, della scienza e del consiglio?

Sì: ecco tutto in poche parole: La fede pone davanti alla mente dell’uomo, sotto forma di proposizioni enunciate in nome di Dio, delle verità di cui le principali la sorpassano. Queste verità ora riguardano Dio stesso, ora le creature, ora l’azione dell’uomo. Se l’uomo per mezzo della fede può assentire come conviene a tali verità, però non ne può vivere con la intelligenza secondo che conviene al conseguimento del bene che sono per lui queste verità, se non a condizione di penetrarne i termini, in quanto essi sono i principi o gli elementi del triplice giudizio che può dover fare intorno ad essi in questo stesso ordine. Il dono della intelligenza ha per proprio oggetto siffatta penetrazione dei termini delle proposizioni enunciate in nome di Dio. In quanto al triplice giudizio, questo viene emesso in modo perfetto per mezzo della sapienza, in ciò che appartiene alle cose di Dio; per mezzo della scienza in ciò che appartiene alle creature, e per mezzo del consiglio in ciò che appartiene all’azione dell’uomo (VIII, 6).

744. Potreste mostrarmi dopo questo la importanza e l’ufficio del dono della scienza, che è il secondo dono che più specialmente si riferisce alla virtù della fede?

Sì; ed ecco tutto ugualmente in poche parole: In virtù del dono della scienza il fedele in istato di grazia, sotto l’azione diretta dello Spirito Santo, giudica con certezza assoluta ed infallibile verità, non già seguendo il processo naturale del ragionamento ma come per istinto ed in modo intuitivo, il vero carattere delle cose create nel loro rapporto con le cose della fede, in quanto debbono essere credute o debbono regolare la nostra condotta, scorgendo immediatamente ciò che nelle creature è in armonia con la prima Verità, oggetto della fede e fine ultimo dei nostri atti, e quello che non lo è (IX, 1-3).

745. Questo dono è oggigiorno di una importanza tutta speciale per i fedeli?

Sì; perché costituisce il rimedio per eccellenza ad uno dei più grandi mali che hanno funestato la umanità specialmente dopo il Rinascimento.

746. Qual è il male di cui parlate?

È che da allora in poi ha prevalso, anche presso gli uomini che formavano in altri tempi la società cristiana, il regno della falsa scienza, che non ha più compreso il vero rapporto delle creature con Dio, prima Verità e fine ultimo dell’uomo; ma nell’ordine speculativo ha fatto dello studio delle creature un perpetuo ostacolo alla verità della fede, e nell’ordine pratico ha suscitato il rifiorimento della antica corruzione pagana, tanto più pernicioso perché susseguente ad una fioritura più soprannaturale delle virtù praticate dai Santi.

747. È questa una delle principali cause del male che regna nel mondo ed affligge la società moderna?

Sì; questa è una delle principali cause del male che regna nel mondo ed affligge la società moderna.

748. Dunque uno dei più grandi rimedi contro il male della società moderna empia e separata da Dio, consiste nella virtù della fede e nei doni della intelligenza e della scienza che la accompagnano, quando i fedeli posseggono la grazia?

Sì; nella virtù della fede e nei doni della intelligenza e della scienza che l’accompagnano quando i fedeli posseggono la grazia, consiste uno dei più potenti rimedi contro il male della società moderna empia e separata da Dio.

749. Quali sono i vizi opposti ai meravigliosi doni dello Spirito Santo, della intelligenza e della scienza?

Sono la ignoranza che si oppone alla scienza, e la cecità della mente con l’istupidimento del senso, che si oppongono alla intelligenza (XV, 1, 2).

750. Donde provengono questi diversi vizi, specialmente gli ultimi due?

Provengono specialmente. dai peccati carnali che soffocano la vita dello spirito (XV, 3).

Capo IV.

Dei precetti relativi alla fede. – Dell’insegnamento catechistico e della Somma di S. Tommaso d’Aquino.

751. Nella legge di Dio vi sono dei precetti relativi alla fede?

Sì; nella legge di Dio, particolarmente nella legge nuova, vi sono alcuni precetti relativi alla fede (XVI, 1, 2).

752. Perché dite « particolarmente » nella legge nuova?

Perché nella legge antica non esistevano precetti che riguardassero i particolari delle cose da credersi, non essendo state ancora tali cose particolareggiate da Dio, in modo da dover essere imposte alla fede di tutto il popolo (XVI, 1).

753. E perché queste cose da credersi che ora sono date nei particolari almeno dei due principali misteri della Trinità e della Incarnazione, in modo da dover imporsi alla fede a tutti gli uomini, non lo erano nell’Antico Testamento?

Perché nell’Antico Testamento il mistero di Gesù Cristo non esisteva ancora che allo stato di promessa o di figura; e doveva essere riservato a Gesù Cristo stesso, al tempo della Sua comparsa, di rivelare agli uomini in tutta la loro pienezza i due misteri essenziali della Trinità e della Incarnazione.

754. Che cosa dunque erano tenuti a credere gli uomini dell’antica legge?

Circa questi due misteri non vi era niente che fossero tenuti a credere esplicitamente; ma in modo implicito li credevano credendo alla perfezione divina ed alle promesse di salute che Dio aveva loro fatto e non cessava di rinnovare (XVI, 1).

755. Bastava questo perché essi potessero fare l’atto di fede della virtù teologale?

Sì; questo bastava perché essi potessero fare l’atto di fede della virtù teologale.

756. La nostra condizione oggigiorno è preferibile a quella degli nomini dell’antica legge, dal punto di vista della fede?

La nostra condizione oggigiorno è senza paragone preferibile a quella degli uomini dell’antica legge, dal punto di vista della fede.

757. In che cosa consiste questa superiorità?

Consiste in questo, che i misteri, la chiara visione dei quali formerà nel cielo la nostra perfetta felicità, ci sono ora manifestati direttamente ed in se stessi, benché in modo ancora velato ed oscuro; mentre nell’antica legge non si conoscevano che implicitamente ed in modo vago e figurato.

758. Vi è un dovere speciale per noi della legge nuova, di vivere col pensiero di questi grandi misteri, e di applicare per intenderli sempre meglio, col mettere in opera i doni della scienza e della intelligenza?

Sì; questo speciale dovere esiste per tutti i fedeli della legge nuova; ed appunto per aiutarci a comprenderli meglio, la Chiesa si dedica con tanta cura ad istruire i fedeli nelle cose della fede.

759. Quale è la forma alla portata di tutti, usata più specialmente dalla Chiesa per questo insegnamento?

È la forma del catechismo.

760. Esiste dunque per tutti i fedeli un vero dovere di conoscere l’insegnamento catechistico e di applicarvisi per quanto è in loro potere?

Sì; è questo uno stretto dovere per tutti i fedeli.

761. L’insegnamento del catechismo si presenta con un valore ed una autorità speciale?

Sì; tale insegnamento del catechismo è quasi la riduzione alla portata comune di ciò che vi è di più sublime e di più luminoso nell’ordine delle più alte verità, che sono come il pane delle nostre intelligenze.

762. Chi è l’autore di questo insegnamento?

È la Chiesa stessa nella persona dei suoi più grandi geni e dei più grandi Dottori.

763. Si può dire che questo insegnamento derivi da ciò che è il frutto per eccellenza dei doni della scienza e della intelligenza nella Chiesa di Dio?

Sì; questo insegnamento deriva da ciò che è il frutto per eccellenza dei doni della scienza e della intelligenza nella Chiesa di Dio: non essendo che la riproduzione a vari gradi del più meraviglioso di questi frutti, che è la «Somma Teologica» di S. Tommaso d’Aquino.

764. La «Somma Teologica» di S. Tommaso di Aquino gode di una autorità speciale nella Chiesa di Dio?

Sì; e la Chiesa ordina che tutti quelli che insegnano in suo nome, si ispirino ad essa nel loro insegnamento (Codice, can. 589, 1366).

765. Non vi è dunque nulla di più eccellente che vivere di tale insegnamento?

Non vi è nulla di più eccellente che vivere di tale insegnamento, perché si è sicuri

allora di vivere nella piena luce della ragione e della fede.

Capo V.

La speranza: sua natura. – Vizi opposti: la presunzione, la disperazione. – Formula dell’atto di speranza. – Quelli che possono fare tale atto.

766. Quale è la seconda virtù teologale?

La seconda virtù teologale è la virtù della speranza.

167. Che cosa è la virtù della speranza?

La virtù della speranza è quella per la quale la nostra volontà, poggiata sull’azione di Dio stesso che viene in nostro soccorso, si dirige verso Dio quale la fede ce lo rivela, come verso ciò che può e deve essere un giorno la nostra perfetta felicità (XVII, 1, 2).

768. La virtù della speranza è possibile senza la fede?

La virtù della speranza è assolutamente impossibile senza la fede che necessariamente presuppone (XVII, 7).

769. Perché dite che la virtù della speranza è impossibile senza la fede, e che essa la presuppone necessariamente?

Perché è la fede sola che dà alla speranza il suo oggetto ed il motivo sul quale appoggiarsi (XVII, 7).

770. Qual è questo oggetto della speranza?

Primieramente e soprattutto è Dio, in quanto è oggetto a Se stesso della propria felicità, e si degna di volersi un giorno comunicare anche a noi nel cielo, per renderci felici della sua medesima felicità (XVI, 1, 2).

771. Può esservi ancora qualche cosa fuori di Dio così considerato, che possa essere oggetto della virtù della speranza?

Sì; qualunque bene vero può essere oggetto della virtù della speranza; purché però

rimanga subordinato all’oggetto primo e principale che è Dio in Se stesso (XVII, 2 ad 2).

772. Qual è il motivo sul quale si appoggia la speranza?

Il motivo sul quale si appoggia la speranza non è altro che Dio stesso, che viene in nostro soccorso da Sé o per mezzo delle sue creature, per metterci in grado di possederlo un giorno nel cielo a titolo di ricompensa (XVII, 2).

773. La speranza implica dunque necessariamente, nel motivo sul quale si appoggia, le nostre azioni virtuose e meritorie, fatte da noi sotto l’azione di Dio che ci aiuta a guadagnare Lui stesso quale vuol darsi a noi nel cielo?

Sì; la speranza implica necessariamente, nel motivo sul quale si appoggia, le nostre azioni virtuose e meritorie, fatte da noi sotto l’azione di Dio che ci aiuta con la sua grazia a guadagnare Lui stesso quale vuol darsi a noi nel cielo.

774. Sarebbe un peccato contro la speranza il far conto di possedere un giorno Iddio, e tenere a noi possibile il conseguirlo, senza darsi premura di prepararvisi con una vita soprannaturalmente virtuosa?

Sì; sarebbe un peccato contro la speranza.

775. Come si chiama questo peccato?

Si chiama presunzione (XXI).

776. È il solo peccato che si possa commettere contro la speranza?

No; ve ne è ancora un altro che si chiama disperazione (XX).

777. In che cosa consiste il peccato di disperazione?

Consiste in questo, che a cagione del bene sì alto che è Dio che deve essere posseduto quale è in Sé, oppure a cagione delle difficoltà constatate intorno a noi o dentro di noi per la pratica di una vita soprannaturalmente virtuosa, si fa a Dio la ingiuria di pensare che noi non arriveremo mai a praticare questa vita ed a conquistare questa felicità; e vi si rinunzia astenendosi ormai da chiamare Dio in aiuto e di contare su Lui, come se Egli non fosse più per concedere tale soccorso, sebbene d’altra parte potesse farlo (XX, 1, 2).

778. Il peccato di disperazione è un peccato particolarmente grave?

Questo peccato in un certo senso è il più grave di tutti; perché di per sé rende impossibile ogni sforzo verso il bene soprannaturale, e fa sì che il peccatore si danni in qualche modo da se stesso (XX, 3).

779. Dunque l’uomo non ha mai il diritto di disperare, per quanto grandi possano essere le sue miserie e la sua debolezza morale?

No; l’uomo non ha mai il diritto di disperare; perché la misericordia di Dio e la sua potenza superano infinitamente le sue miserie e la sua debolezza, per quanto grandi possano essere.

780. Che cosa, dunque, bisogna che faccia l’uomo quando nota le sue miserie o la sua debolezza, e si sente come aggravato sotto il loro peso?

Deve corrispondere prontamente alla azione della grazia che lo invita a rivolgersi a Dio, con la ferma speranza che Dio avrà pietà di lui, lo aiuterà a rialzarsi e gli darà la forza di vivere una vera vita soprannaturale, per meritare di possederlo un giorno nel cielo.

781. Potreste darmi una formula dell’atto di speranza, come atto della virtù teologale chiamata con questo nome?

Sì; ed eccola sotto forma di omaggio a Dio: Mio Dio, spero dalla bontà vostra, per le vostre promesse e per i meriti di Gesù Cristo nostro Salvatore, la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere, che io debbo e voglio fare. — Signore, che io non resti confuso in eterno.

782. Questa formula dell’atto di speranza può essere anche abbreviata?

Sì, eccola sotto questa forma: Mio Dio, io spero in Voi con una santa ed invincibile speranza.

783. Chi sono coloro che possono fare questo atto di speranza?

Tutti i fedeli che sono ancora sulla terra possono fare questo atto di speranza.

184. I beati del cielo non hanno più la virtù della speranza?

I beati del cielo non hanno più la virtù della speranza; perché essi posseggono ormai

la felicità di Dio che ancora manca a tutti quelli che la sperano (XVIII, 2).

785. Ed i dannati nell’inferno non hanno più niente della virtù della speranza?

No; i dannati nell’inferno non hanno più niente della virtù della speranza; perché la felicità di Dio, oggetto principale di questa, virtù, è eternamente impossibile per loro (XVII, 2).

786. Le anime del purgatorio hanno la virtù della speranza?

Sì; le anime del purgatorio hanno la virtù della Speranza; ma l’atto di questa virtù non è più interamente il medesimo di quello lei fedeli che vivono sulla terra. Se infatti esse attendono ancora la felicità di Dio che non posseggono, non hanno più da contare sull’aiuto di Dio per meritarla, non potendo più ormai meritare; e non dubitano più di perderla, essendo ormai per esse impossibile ogni peccato (XVII, 3).

Capo VI.

Del dono del timore corrispondente alla virtù della speranza. – Timore servile. -Timore filiale,

187. Dunque soltanto per coloro che vivono sulla terra, la virtù della speranza deve avere per effetto di armare la volontà contro ciò che sarebbe un eccesso, nel timore di non giungere un giorno a possedere Dio?

Sì; soltanto per coloro che vivono sulla terra la virtù della Speranza deve avere per effetto di armare la volontà contro ciò che sarebbe un eccesso, nel timore di non giungere un giorno a possedere Dio (XVII, 4).

788. Vi è un timore sempre essenzialmente buono, che si riferisce alla virtù della speranza.?

Sì; vi è un timore sempre essenzialmente buono, che si riferisce alla virtù della speranza.

789. Come si chiama questo timore sempre essenzialmente buono. che si riferisce alla virtù della speranza?

È il timore di Dio chiamato timore filiale (XIX, 1-2),

190. Che cosa intendete per timore di Dio chiamato timore filiale?

È il timore per il quale si ha un santo rispetto della presenza di Dio in ragione della sua perfezione e della sua bontà di maestà infinita; e niente si teme tanto, quanto di dispiacergli o di esporsi a perderlo, con ciò che ci impedirebbe di possederlo eternamente nel cielo (XIX, 2).

791. Vi è un altro timore di Dio distinto dal timore filiale?

Sì; si chiama timore servile (XIX, 2).

792. Che cosa si vuole significare con queste parole: «timore servile»?

Con questo si designa un sentimento di ordine inferiore, proprio dei servi, per cui si teme il padrone a causa delle pene o dei castighi che è in grado di infliggere (XIX, 2).

793. Il timore delle pene o dei castighi che Dio può infliggere, ha sempre natura di timore servile?

Sì; siffatto timore delle pene o dei castighi che Dio può infliggere ha sempre natura di timore servile; ma può non avere sempre il carattere difettoso che implica il peccato(XIX, 4).

794. Quando è che il timore servile ha il carattere difettoso che implica il peccato?

Quando la pena o il castigo o la perdita di un bene creato qualunque, che è oggetto di siffatto timore, si teme come male supremo (XIX, 4).

795. Se dunque si teme questo male, non come male supremo, ma subordinatamente alla perdita del bene di Dio amato sopra ogni cosa, il timore servile non è cosa cattiva?

No; è anzi cosa buona, sebbene di ordine inferiore e molto meno buono del timore filiale (XIX, 4, 6).

196. Perché è molto meno buono del timore filiale?

Perché il timore filiale non si preoccupa affatto della perdita dei beni creati, purché il possedimento del Bene increato che è Dio stesso resti assicurato (XIX, 2, 5).

797. Dunque il timore filiale teme unicamente la perdita del Bene infinito che è Dio stesso, e ciò che potrebbe comprometterne il possedimento perfetto?

Sì; il timore filiale teme unicamente la perdita del Bene infinito che è Dio stesso, e ciò che potrebbe comprometterne il perfetto possedimento (XIX, 2).

798. Questo timore filiale ha qualche relazione col dono dello Spirito Santo, chiamato appunto dono del timore?

Sì; questo timore filiale ha il più stretto rapporto col dono dello Spirito Santo che si chiama dono del timore (XIX, 9).

799. Dunque il dono dello Spirito Santo che si chiama dono del timore, si riferisce. Specialmente alla virtù. teologale della speranza?

Sì; il dono dello Spirito Santo che si chiama dono del timore si riferisce specialmente alla virtù teologale della speranza (XIX).

800. In che cosa consiste propriamente il dono dello Spirito Santo chiamato dono del timore?

Consiste in questo, che per mezzo di esso l’uomo resta soggetto a Dio ed all’azione dello Spirito Santo senza resistergli, ma al contrario venerandolo ed evitando di sottrarsi a Lui (XIX, 9).

801. Dove trovasi precisamente la differenza tra il dono del timore e la virtù della speranza?

Tale differenza si trova in questo, che la virtù della speranza riguarda direttamente il bene infinito di Dio da guadagnarsi col soccorso che ci viene da Lui stesso; mentre il dono del timore riguarda piuttosto il male che sarebbe per noi l’essere separati da Dio ed il perderlo, sottraendosi col peccato al divino aiuto che ci viene da Lui per condurci a Sé (XIX, 9 ad 2).

802. La virtù della speranza è superiore al dono del timore?

Sì; come del resto tutte le virtù teologali sono superiori ai doni; ed anche perché la virtù della speranza riguarda il bene da possedersi, mentre il dono del timore riguarda il male che sarebbe la privazione di un tal bene.

803. Il timore che è la caratteristica del dono dello Spirito Santo, è inseparabile dalla carità ossia dall’amore perfetto di Dio?

Sì; il timore che è la caratteristica del dono dello Spirito Santo è inseparabile dalla carità ossia dall’amore perfetto di Dio, perché ha per motivo questo amore (XIX, 10).

804. Può esso esistere insieme con l’altro timore che è il timore servile, esente tuttavia dal carattere di timore cattivo?

Sì; sul principio può esistere col timore servile, esente tuttavia dal carattere di timore cattivo; e per questo si chiama allora timore «iniziale»; ma a misura che la carità aumenta esso pure si accresce, e finalmente non conserva altro che il proprio nome ed il proprio carattere purissimo di timore filiale e casto, tutto penetrato dell’amore di Dio considerato come il solo vero bene, la perdita del quale sarebbe per noi il male supremo ed in certa maniera il solo vero male (XIX, 8).

805. Questo timore sussisterà nella Patria del cielo?

Sì; questo timore sussisterà nella Patria del cielo; ma nel suo ultimo grado di perfezione, e senza avere in nessun modo il medesimo atto che ha sulla terra (XIX, 11).

806. Quale sarà in cielo l’atto del timore filiale?

Sarà per sempre in qualche maniera un atto di santo tremore al cospetto della grandezza infinita del Bene divino e della sua maestà; ma non più un tremore di paura e come se fosse ancora possibile alla beatitudine di perdere Dio; sarà un tremore di ammirazione per cui si ammirerà Dio come esistente infinitamente al di sopra della possibilità della natura, perché il beato avrà eternamente la coscienza vivissima che la propria infinita felicità non gli viene che da Dio (XIX, 11)-

Capo VII.

Dei precetti relativi alla speranza.

807. Nella legge di Dio vi sono dei precetti che si riferiscono alla virtù della speranza e al dono del timore?

Sì; nella legge di Dio vi sono alcuni precetti che si riferiscono alla virtù della speranza ed al dono del timore; ma tali precetti, come del resto i precetti relativi alla fede, in ciò che hanno di principale rivestono uno speciale carattere distinto dal carattere dei precetti propriamente detti, contenuti nella legge di Dio (XXI, 1, 2).

808. Qual è il carattere speciale dei precetti della fede e della speranza, in ciò che hanno di principale?

È che non sono affatto dati a modo di precetti; ma sotto forma di proposizioni, per la fede, e sotto forma di promesse o di minacce, per la speranza ed il timore (XXII, 1).

809. Perché queste specie di precetti sono date sotto forma speciale?

Perché debbono precedere necessariamente i precetti propriamente detti contenuti nella legge (XXII, 1).

810. E perché questi primi precetti relativi alla fede ed alla speranza od al timore, debbono precedere necessariamente i precetti propriamente detti contenuti nella legge?

Perché l’atto di fede fa sì che la mente dell’uomo si pieghi a riconoscere che l’autore della legge è tale da doversi sottomettere a Lui; e la speranza della ricompensa o il timore del castigo fa che l’uomo sia indotto ad osservare i precetti (XXII, 1).

811. E quali sono i precetti propriamente detti che costituiscono la sostanza della legge?

Sono quelli che sono imposti all’uomo già così sottomesso e ben disposto ad obbedire,

per ordinare e regolare la propria vita soprattutto nell’ordine della virtù della giustizia.

812. Questi ultimi precetti sono quelli che costituiscono il Decalogo?

Sì; questi ultimi precetti sono quelli che costituiscono il Decalogo.

813. I precetti relativi alla fede ed alla speranza non sono dunque propriamente precetti del Decalogo?

No; i precetti relativi alla fede ed alla speranza non sono propriamente precetti del Decalogo; ma anzitutto li precedono ed aprono loro la via rendendoli possibili; poi nei complementi, ossia nelle esplicazioni che i Profeti, Gesù Cristo e gli Apostoli hanno dato alla legge di Dio, si presentano essi stessi sotto nuove forme, rivestendo alla loro volta il carattere di ammonizioni e di precetti formali complementari (XXII, 1 ad 2).

814. Dunque niente è più necessario né più rigorosamente voluto da Dio e da Lui ordinato all’uomo, che la sottomissione assoluta della mente dell’uomo a Dio per mezzo della fede, e l’atto di speranza basato sull’aiuto di Dio, in ordine al raggiungimento di Dio stesso, per mezzo di una vita tutta soprannaturale?

Sì; niente è più necessario né più rigorosamente voluto da Dio ed ordinato da Lui all’nomo, che la sottomissione assoluta della sua mente a Dio per mezzo della fede, e l’atto di speranza basato sull’aiuto di Dio, in ordine al raggiungimento di Dio stesso per mezzo di una vita tutta soprannaturale.

815. Vi è una virtù speciale, avente precisamente per iscopo e per compito di fare che l’uomo viva di una vita soprannaturale, in ordine al conseguimento di Dio?

Sì; e questa virtù si chiama la carità.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “IN SUPREMA PETRI”

Che altro poteva fare che non abbia fatto il Santo Padre S. S. Pio IX per far tornare all’unica vera fede apostolica, i Cristiani d’Oriente, orgogliosi scismatici lontani dalla via della salvezza? Ancora una volta essi, sciocchi presuntuosi, rifiutarono la comunione apostolica, ed immemori del castigo già ricevuto nel 1453, quando Costantinopoli e tutta le Chiesa greca scismatica, furono annientate dalla furia maomettana pagando con il sangue, la deportazione e l’apostasia, il rifiuto dei patti già firmati al Concilio di Firenze. Questo nuovo rifiuto alla proposta paterna e caritatevole del Romano Pontefice, fu ovviamente pagato dalle pseudo-chiese scismatiche, e poi eretiche, con l’invasione della barbarie kazaro-comunista scoppiata in quelle nazioni e che ancora oggi tiene tanti miseri popoli sotto uno scettro di ferro. Questo è il destino che il Signore riserva a coloro che ipocritamente lo abbandonano disertando l’unica vera Chiesa ed il Governo divino del suo Vicario in terra. La stessa sorte si sta delineando oggi per gli apostati e scismatici del novus ordo e delle sette pseudo-tradizionaliste, non solo per i falsi e sacrileghi prelati che disprezzano orgogliosamente i canoni ecclesiastici e le immutabili leggi della Chiesa, ma per tutti i popoli che ciecamente li seguono avviandosi all’eterna perdizione. Ne abbiamo diversi segnali già al presente, ma il peggio deve ancora arrivare. I pochi Cattolici ancora adesi alla vera Chiesa Cattolica ed al “vero” legittimo Vicario di Cristo, restino fortes in fide, resistano agli assalti del “nemico” travestito da candido agnello e siano certi del premio e della gloria eterna promessi agli irremovibili fedeli dalla Santissima Trinità nelle Sacre Scritture.

S. S. PIO IX

«In suprema Petri»

L’unità della chiesa

Posti per volontà del Signore, nonostante i pochi meriti, sulla cattedra eccelsa dell’apostolo Pietro e assunta la cura di tutte le chiese, abbiamo rivolto l’attenzione fin dall’inizio del nostro pontificato alle diverse nazioni cristiane dell’Oriente e delle regioni limitrofe di qualunque rito che sembravano esigere da Noi un impegno particolare per più di un motivo di rilevante importanza. In Oriente infatti si manifestò l’unigenito Figlio di Dio fattosi uomo per noi uomini e attraverso la sua vita, morte e risurrezione si degnò di portare a compimento l’opera della redenzione umana. In Oriente fu diffuso inizialmente dallo stesso divino Redentore e subito dopo dai suoi discepoli l’evangelo della luce e della pace; e risplendettero numerosissime le chiese degli Apostoli che le avevano fondate, insigni per fama. Ma anche nel periodo successivo, e dopo più secoli, fiorirono nelle nazioni orientali i Vescovi, i martiri e altri uomini eccellenti per santità e dottrina, tra i quali sono celebrati con l’encomio univoco di tutto l’oriente Ignazio d’Antiochia, Policarpo di Smirne, Gregorio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo, Atanasio di Alessandria, Basilio di Cesarea. Giovanni Crisostomo, i due Cirillo, di Gerusalemme e di Alessandria, Gregorio Armeno, Efrem Siro, Giovanni Damasceno, nonché gli apostoli degli slavi Cirillo e Metodio; per tacere poi di tutti gli altri pressoché innumerevoli, i quali pure affidarono il loro nome al ricordo perenne dei posteri, avendo anch’essi versato il loro sangue per Cristo o scritto cose sapienti e attuato opere di esimia virtù. Tornano anche a merito dell’Oriente i frequentissimi congressi dei Vescovi, e soprattutto gli antichi Concili ecumenici celebrati proprio in quella regione, i quali sotto la guida del Vescovo di Roma fu tutelata la fede cattolica contro quanti in quel tempo cercavano di introdurvi mutamenti, e fu fortificata con solenne giudizio. Infine anche in età successiva, benché una parte non piccola di cristiani d’Oriente si fosse staccata dalla comunione con questa santa Sede e perfino dall’unione con la Chiesa cattolica, e proprio in Oriente abbiano preso il potere genti lontane dalla religione cristiana, tuttavia non vi mancò mai un nutrito numero di uomini i quali, fidando nell’aiuto della grazia divina, confermarono la loro saldezza nella professione della vera unica fede cattolica fra molteplici calamità e lunghi pericoli propri sopratutto di quei tempi. A questo punto però non possiamo astenerci dal ricordare con un elogio particolare i loro Patriarchi, i Primati, gli Arcivescovi e i Vescovi, che custodirono con diligenza il proprio gregge nella professione della verità cattolica; e certo fu per le loro cure, unite alla benedizione di Dio, che, mitigarono  seguito la crudeltà dei tempi, si trovò ivi un così gran numero di persone rimaste nell’unità cattolica. – Pertanto, Ci rivolgiamo innanzitutto a voi, venerabili fratelli, diletti figli, Vescovi cattolici, e chierici e laici di qualsiasi ordine, che siete rimasti saldi nella fedele comunione con questa Santa Sede, o che successivamente, riconosciuto l’errore, vi siete rivolti ad essa con virtù degna di non minor elogio. Benché infatti abbiamo già scritto a molti di voi, dai quali avevamo ricevuto lettere di congratulazione per la nostra elezione al Sommo Pontificato, e poi dal 9 novembre 1846 ci siamo rivolti per mezzo di una Lettera Enciclica a tutti i Vescovi dell’intero mondo cattolico, tuttavia è nostra intenzione di farvi consapevoli con questo altro specifico discorso dell’ardentissimo amore con cui Ci prendiamo cura di voi e della vostra situazione. Veramente l’opportunità di scrivere di questi argomenti ci è stata fornita dalla missione del venerabile fratello Innocenzo Arcivescovo di Side, il quale è stato inviato da Noi a Costantinopoli presso la Sublime Porta [= nobile corte] ottomana, per incontrarsi in nostro nome col potentissimo imperatore delle popolazioni turche e per ringraziarlo vivamente per Noi, da oratore qual è, per aver inviato lui per primo ambasciatori a salutarci. Ma abbiamo altresì incaricato scrupolosamente il venerabile fratello di raccomandare con le Nostre parole, con molta cura, allo stesso imperatore voi e tutto ciò che riguarda la vostra causa e quella della Chiesa cattolica all’interno del vastissimo Impero ottomano. E non dubitiamo che l’imperatore stesso, già di per sé ben disposto nei vostri confronti, verrà incontro anche con maggior benevolenza ai vostri bisogni e non permetterà che nessuno dei suoi sudditi subisca dei torti a causa della Religione Cattolica. Poi il già ricordato Arcivescovo di Side manifesterà assai eloquentemente l’impegno del nostro amore per voi a quelli tra i sacri presuli e tra i maggiorenti delle vostre nazioni che si troveranno presenti a Costantinopoli; e successivamente, quando vorrà ritornare, si dirigerà, così come lo permetteranno le circostanze del momento, verso alcune altre località dell’Oriente per visitare in nostro nome, con le modalità del mandato avuto da Noi, le chiese dei Cattolici di qualsiasi rito che ivi si trovano e per rivolgersi con le nostre parole in modo affettuosissimo — e per confortarli — ai nostri venerandi fratelli e diletti figli che incontrerà in quei luoghi. – Egli inoltre consegnerà loro personalmente e farà trasmettere agli altri di voi questa lettera, testimone, come abbiamo detto, del nostro sollecito amore per le vostre nazioni cattoliche: con essa rendiamo noto a voi tutti, e lo garantiamo, che nulla ci sarà più caro che acquisire benemerenza ogni giorno di più da voi stessi e dalla situazione della Religione Cattolica presso di voi. Perciò, poiché tra le altre cose ci è stato riferito che nella normativa ecclesiastica delle vostre nazioni alcuni punti restano ancora incerti per la situazione sfavorevole del passato o sono stati fissati in modo non organico, ben volentieri saremo presenti con la nostra Autorità Apostolica affinché tutte le cose vengano ordinatamente composte e fissate secondo la norma dei sacri canoni e osservando le disposizioni dei santi Padri. Salvaguarderemo però integralmente le vostre proprie liturgie cattoliche; le teniamo in massimo conto, benché in alcuni punti si discostino dalla liturgia delle chiese latine. Infatti, le stesse vostre liturgie furono tenute in altrettanta considerazione dai nostri predecessori; furono invero apprezzate per la veneranda antichità della loro origine, per essere state scritte nelle lingue degli Apostoli e dei Padri, e inoltre perché i loro riti si avvalgono di celebrazioni davvero splendide e magnifiche adatte a rinvigorire la devota pietà dei fedeli per i divini misteri. – A questo criterio di comportamento della sede apostolica nei confronti delle liturgie cattoliche degli orientali fanno riferimento parecchi decreti e costituzioni dei Pontefici Romani, promulgati per la loro conservazione; fra questi documenti sarà sufficiente lodare le lettere apostoliche di Benedetto XIV nostr predecessore, in particolare quella scritta il 26 luglio 1755,  il cui inizio è Allatæ sunt. Tende al medesimo scopo il fatto che ai sacerdoti orientali che vengono in Occidente non solo è data libertà di celebrare negli edifici consacrati dei latini, ma sono disponibili chiese edificate proprio per l’utilizzo esclusivo da parte loro. Oltre a ciò non sono mancati monasteri di rito orientale, né altre dimore destinate ad accogliere gli orientali ; e neppure collegi fondati allo scopo di educare i figli degli orientali. sia da soli sia con altri giovinetti, alle Scritture e alle scienze sacre e altresì alla dottrina propria del clero, e di renderli idonei in seguito ad affrontare, ciascuno nella propria nazione, doveri ecclesiastici. E benché alcune di queste istituzioni siano andate perdute per calamità abbastanza recenti, altre tuttavia restano ancora e sono floride; e in esse, venerabili fratelli, diletti figli, avete una prova davvero evidente del particolare affetto con cui la Sede Apostolica segue voi e le vostre necessità. – D’altra parte sapete già, venerabili fratelli, diletti figli, che Noi, nella cura delle vostre attività religiose ci avvaliamo dell’opera di promozione della nostra Congregazione di cui fanno parte  parecchi cardinali della santa chiesa di Roma, detta «di propaganda fide». Ma lo sforzo per ben meritare di voi è comune anche a moltissimi altri, sia romani sia stranieri, che dimorano in questa alma città. Tra questi, alcuni presuli di rito latino e anche dei vostri riti orientali, e altri uomini pii, poco tempo fa hanno progettato di costituire una pia società per sostenere con un impegno comune — sotto l’autorità della già ricordata nostra Congregazione — il culto della religione cattolica presso di voi, e un suo più fecondo sviluppo, con pie preghiere quotidiane, raccogliendo offerte e con ogni loro risorsa e attività. Per parte nostra, quando quel pio progetto ci fu riferito, lo elogiammo e approvammo e consigliammo loro di por mano all’opera senza indugio. – Ed ora indirizziamo le nostre parole in modo particolare a voi,  venerabili fratelli presuli cattolici degli orientali, di qualsiasi grado, affinché, lodando di nuovo il vostro zelo e quello del vostro clero nel compiere i doveri sacri, accresciamo ancora con questa esortazione il vostro coraggioso slancio verso la virtù. Pertanto vi supplichiamo nel Signore Dio nostro, affinché confidando nel suo celeste aiuto attendiate con sempre maggior sollecitudine alla custodia del diletto gregge e non desistiate dal fargli luce con la parola e l’esempio, affinché si muova degnamente in modo gradito a Dio in tutto, fruttificando in ogni opera buona. Si impegnino attivamente nella medesima cura i sacerdoti, che sono sotto di voi, in primo luogo curatori di anime, accogliendo l’invito ad amare il decoro della casa di Dio, a rinvigorire la pietà del popolo, ad amministrare con santità le cose sante e, senza trascurare gli altri aspetti del loro ministero, ad avere particolare diligenza nell’indirizzare i fanciulli ai rudimenti della dottrina cristiana e nel nutrire il restante popolo dei fedeli con eloquio semplice, adatto alla sua capacità di intendere. Dai sacerdoti e da voi stessi deve essere profuso ogni sforzo affinché tutti i fedeli siano solleciti nel conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace, rendendo grazie a Dio, Padre dei lumi e delle misericordie, perché in momenti così pericolosi sono rimasti saldi, in virtù della sua grazia nella comunione cattolica dell’unica Chiesa di Cristo, o sono ritornati in seguito ad essa, mentre altri del loro popolo vagano ancora fuori dall’unico autentico ovile di Cristo, dal quale già da tempo i loro padri erano usciti miseramente. – Non possiamo ora non indirizzare parole di carità e di pace anche a quegli orientali che venerano Cristo, ma non sono nella comunione con questa Sede di Pietro. L’amore di Cristo infatti ci sprona a non lesinare sforzi nel seguire, conformemente ai suoi moniti e al suo esempio, le pecore disperse nei luoghi più impervi e aspri e a soccorrere la loro debolezza, affinché un giorno, finalmente, ritornino nei recinti del gregge del Signore. – Ascoltate perciò la nostra parola, voi tutti che nei territori d’Oriente e in quelli limitrofi vi gloriate, sì, del nome di cristiani, ma non avete comunione con la santa chiesa di Roma; e soprattutto voi, che presso di loro siete addetti ai sacri ministeri o che, insigniti di un grado ecclesiastico anche più elevato esercitate la vostra autorità sugli altri. Riflettete e richiamate alla memoria l’antica condizione delle vostre chiese, quando di comune accordo si tenevano unite tra di loro e con le altre chiese del mondo cattolico nel vincolo dell’unità: pensate, quindi se siano state per voi fonte di qualche vantaggio le divisioni che successivamente sono subentrate e a causa delle quali non siete stati in grado di conservare non solo con le chiese occidentali, ma neppure tra voi stessi l’antica unità sia della dottrina sia del sacro governo. Ricordate il simbolo della fede, nel quale insieme con noi confessate di credere « la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica »; e valutate quindi se davvero possa ritrovarsi questa unità cattolica della Chiesa santa e apostolica nella divisione così profonda delle vostre chiese, mentre proprio voi vi rifiutate di riconoscere l’unità nella comunione della Chiesa romana, sotto la quale altre numerosissime chiese in tutto il mondo sono cresciute sempre insieme in un sol corpo, e ancora crescono insieme. E per comprendere più a fondo la ragione di quella unità, per la quale deve risplendere la Chiesa cattolica, richiamate alla memoria quell’orazione scritta nel Vangelo di Giovanni, nella quale Cristo Figlio unigenito di Dio così pregò per i suoi discepoli: «Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi»; e subito dopo aggiunse: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e Io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv XVII, 20ss). – In verità lo stesso Artefice della salvezza degli uomini, il Cristo Signore, pose il fondamento della sua Chiesa — l’unica contro la quale le porte dell’inferno non prevarranno — in Pietro primo degli Apostoli; a lui consegnò le chiavi del regno dei cieli (Mt XVI, 18-19); per lui pregò, perché non gli venisse mai meno la fede, dandogli anche mandato di confermare in essa i fratelli (Lc XXII,31-32); a lui infine affidò i suoi agnelli e le sue score (Gv. XXI,15ss), e anzi tutta la Chiesa, che è formata dai veri agnelli e dalle vere pecore di Cristo. Queste prerogative sono state conferite anche ai Vescovi romani successori di Pietro; infatti la chiesa, che è destinata a durare fino alla fine dei secoli, non può essere privata, dopo la morte di Pietro, del fondamento sopra il quale fu edificata da Cristo. Perciò sant’Ireneo, discepolo di Policarpo — che aveva ascoltato personalmente l’Apostolo Giovanni — e poi Vescovo di Lione, considerato dagli orientali non meno che dagli occidentali uno fra i più illustri lumi dell’antichità cristiana, volendo riportare contro gli eretici del suo tempo la dottrina tramandata dagli Apostoli, ritenne inutile elencare le successioni di tutte le chiese di origine apostolica, affermando che per lui era sufficiente allegare contro quelli la dottrina della Chiesa romana, perché «è necessario che ogni chiesa, cioè i fedeli di ogni luogo, si volga, in forza della sua origine superiore, a questa Chiesa, nella quale è stata conservata sempre dai fedeli di ogni luogo la dottrina tramandata dagli Apostoli». – Sappiamo che voi tutti desiderate rimanere fedeli alla dottrina custodita dai vostri avi. Seguite dunque gli antichi Vescovi e gli antichi fedeli di Cristo di tutte le regioni orientali, a proposito dei quali moltissimi documenti dimostrano che essi concordarono con gli occidentali nel riconoscere l’autorità dei Pontefici romani. Tra i più significativi esempi di tale comportamento provenienti dall’Oriente stesso (oltre al passo di Ireneo che ho appena lodato) piace qui ricordare ciò che fu fatto nel IV secolo della Chiesa nella causa di Atanasio Vescovo di Alessandria, illustrissimo per santità non meno che per dottrina e zelo pastorale, il quale, condannato senza alcun fondamento da certi presuli orientali nel Concilio che si tenne prevalentemente a Tiro, e cacciato dalla sua chiesa, venne a Roma; qui giunsero anche altri Vescovi provenienti dall’Oriente, allontanati pure essi ingiustamente dalle loro sedi. «Allora il Vescono romano » (che era il nostro predecessore Giulio), «dopo aver conosciuto le cause dei singoli e averli trovati tutti credenti nella dottrina della fede nicena, li accolse nella comunione. E poiché per la dignità della sede spettava solo a lui la cura di tutti, restituì a ciascuno la sua chiesa. Scrisse anche ai Vescovi orientali, rimproverandoli perché nelle cause sopra ricordate , non avevano giudicato rettamente e turbavano lo stato delle chiese». Anche all’inizio del V secolo Giovanni Crisostomo Vescovo di Costantinopoli, di altrettanta chiarissima fama, che ne sinodo di Calcedonia [tenuto nell’agosto del 403 da alcuni Vescovi] in località La Quercia era stato condannato con sommo oltraggio, fece ricorso lui pure per mezzo di lettere e di messaggeri a questa Sede Apostolica e fu dichiarato innocente da nostro predecessore sant’Innocenzo. – Della venerazione che i vostri avi ebbero per l’autorità dei Pontefici romani resta un esempio insigne nel sinodo di Calcedonia del 451. Infatti, i Vescovi, che erano convenuti lì in numero di circa seicento, e provenivano quasi tutti (con poche eccezioni) dall’Oriente, dopo che fu letta ad alta voce nella seconda sessione del concilio la lettera del romano Pontefice s. Leone Magno, esclamarono: «Così ha parlato Pietro per bocca di Leone». Subito dopo, portato a termine quel sinodo sotto la guida dei legati pontifici, gli stessi Padri conciliari nella relazione mandata a Leone sui lavori svolti affermarono che lui tramite i legati già ricordati aveva presieduto l’assemblea dei Vescovi così come il capo presiede le membra». – D’altronde non solo dagli atti del concilio di Calcedonia, ma anche dalla storia degli altri antichi sinodi orientali sarebbe possibile produrre altri numerosi documenti, dai quali risulta che i Pontefici Romani ebbero il primo posto principalmente nei sinodi ecumenici, e che la loro autorità era invocata sia prima della celebrazione dei Concili, sia inoltre al momento della conclusione. E anche al di fuori dell’argomento dei concili, potremmo addurre moltissimi altri scritti e fatti di Padri e di antichi orientali dai quali pure si evince con chiarezza che la suprema autorità dei Romani Pontefici ebbe vigore sempre presso i vostri avi nell’intero Oriente. Ma poiché sarebbe troppo lungo considerare qui tutti quegli esempi, e quello che abbiamo già riferito è sufficiente per dimostrare la verità dell’assunto, ricorderemo soltanto, a questo punto, a guisa di coronide, come si comportarono in età antichissima, proprio al tempo stesso degli Apostoli, i fedeli di Corinto nelle discordie dalle quali la loro chiesa era stata turbata in modo molto grave. I corinzi appunto con lettere portate da Fortunato, venuto qui a questo scopo, presentarono quelle loro discordie a s. Clemente, il quale pochi anni dopo la morte di Pietro era stato fatto Pontefice della chiesa di Roma: Allora Clemente, ponderata con attenzione la cosa, rispose per mezzo dello stesso Fortunato e dei suoi addetti e messaggeri Claudio Efebo e Valerio Vitone: da loro fu portata a Corinto quella celebratissima epistola del santo Pontefice e della Chiesa Romana, che fu tenuta in tanta considerazione sia presso gli stessi corinzi sia presso gli altri orientali da essere letta pubblicamente in parecchie chiese anche in epoca successiva. –  Conformemente a questi esempi, vi esortiamo e vi supplichiamo a ritornare senza ulteriore indugio nella comunione di questa santa sede di Pietro, nella quale è il fondamento della vera Chiesa di Cristo, come dimostrano sia la tradizione dei vostri avi e degli altri antichi Padri, sia le parole di Cristo Signore riportate nei santi Vangeli, che abbiamo ricordato prima: E non potrà mai accadere che siano nella comunione della Chiesa una santa cattolica e apostolica quelli che abbiano voluto restare lontani dalla solidità della pietra, sopra la quale la Chiesa stessa fu edificata per volere di Dio. In più, non c’è davvero nessuna ragione per la quale possiate sottrarvi a questo ritorno alla vera chiesa e alla comunione con questa santa Sede. Sapete infatti, che nei doveri inerenti alla professione della fede in Dio non c’è niente di così gravoso che non debba essere sopportato per la gloria di Cristo e per il premio della vita eterna. In verità, per quanto ci riguarda, attestiamo e garantiamo che nulla Ci sta più a cuore che, lungi dall’affliggervi con qualche imposizione che possa sembrare troppo dura, accogliervi invece, secondo l’uso costante di questa Santa Sede, con molto affetto e con benevolenza davvero paterna. Pertanto, non vi imponiamo altri oneri fuorché questi necessari: che, dopo essere ritornati all’unità, consentiate con noi nella professione della vera fede custodita e insegnata dalla Chiesa Cattolica e conserviate la comunione con la Chiesa stessa e con questa suprema Sede di Pietro. – Conseguentemente, per ciò che attiene ai vostri sacri riti, sarà da respingere solo quanto vi si sia insinuato nei tempi della separazione, in contrasto con la stessa fede e unità cattolica: eccetto questo, conserverete perfettamente integre le vostre liturgie orientali; abbiamo già espresso nella prima parte di questa lettera l’apprezzamento di cui esse godettero presso i nostri predecessori e la grandissima stima che Noi ugualmente nutriamo per la loro venerabile antichità e per le cerimonie adatte ad alimentare la pietà. – Inoltre, siamo risoluti a tenere nei confronti dei sacri ministri, sacerdoti e presuli, che da queste nazioni tornino all’unità cattolica, lo stesso comportamento dei Nostri predecessori, sia quelli più vicini nel tempo, sia quelli vissuti in età più lontane: a mantenere cioè a quelli, inalterati, gradi e cariche e quindi ad avvalerci della loro opera non meno di quella del resto del clero cattolico orientale per conservare e diffondere il culto della Religione Cattolica fra i loro connazionali. – Infine, accoglieremo sia loro sia i laici che torneranno nella nostra comunione con lo stesso affetto riservato agli altri Cattolici d’Oriente; anzi Ci sarà caro adoperarci in ogni modo per renderCi benemeriti ogni giorno di più degli uni così come degli altri. – Voglia Dio clementissimo degnarsi di dare a questo Nostro discorso la voce della virtù; benedire lo zelo dei Nostri fratelli e figli, che insieme con Noi si danno pena della salvezza delle vostre anime; allietare la Nostra umiltà col conforto di vedere ripristinata l’unità cattolica fra i Cristiani d’oriente e di avere nell’unità stessa il sostegno per diffondere sempre di più la vera fede di Cristo tra i popoli che gli sono ancora lontani. Noi certanente non desistiamo dall’implorare ciò in ogni Nostra preghiera e supplica da Dio, Padre dei lumi e delle misericordie, per mezzo del suo Unigenito, il nostro Redentore; e di invocare al medesimo scopo il patrocinio della beatissima Vergine Madre di Dio, e dei santi Apostoli, Martiri, Padri dai quali con la predicazione, il sangue, le virtù e gli scritti fu diffusa ai primordi nell’Oriente, e poi conservata, la vera religione di Cristo. Mentre attendiamo con vivo desiderio di congratularci per il vostro tanto atteso ritorno nel seno della Chiesa Cattolica e di benedirvi come Nostri fratelli e figli, salutiamo frattanto tutti i Cattolici, Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi, chierici, laici che si trovano ora in Oriente e nei luoghi ad esso vicini e impartiamo di vivo cuore a tutti loro l’Apostolica Benedizione.

Roma, presso Santa Maria Maggiore, 6 gennaio 1848, anno del Nostro pontificato.

PIO PP. IX

DOMENICA XI DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA XI DOPO PENTECOSTE (2021)

Semidoppio – Paramenti verdi.

La Chiesa nella liturgia di questo giorno ci insegna come Dio accordi il suo aiuto divino a tutti quelli che lo domandano con confidenza. Ezechia guarì da una malattia mortale, grazie alla sua preghiera, come pure liberò il suo popolo dai nemici; mercè la sua preghiera sulla croce, Gesù cancella i nostri peccati (Ep.) e risuscita il suo popolo a nuova vita mediante il Battesimo di cui è simbolo la guarigione del sordo muto, dovuta pure alla preghiera di Cristo (Vang.). Così, dato che per la virtù dello Spirito Santo, Gesù caccio il demonio dal sordo muto e che i sacerdoti di Cristo cacciano il demonio dall’anima dei battezzati, si comprende come questa XI Domenica dopo Pentecoste si riferisca al mistero pasquale ove, dopo aver celebrata la risurrezione di Gesù si celebra la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa, e si battezzano i catecumeni nello Spirito Santo e nell’acqua affinché, come insegna S. Paolo seppelliti con Cristo, con Lui resuscitino. – Il regno delle dieci tribù (regno d’Israele) durò 200 anni circa (938-726) e contò 19 re. Quasi tutti furono malvagi al cospetto del Signore e Dio, allora, per castigarli, dette il loro paese ai nemici. Salmanassar, re d’Assiria, assediò Samaria e trascinò Israele schiavo in Assiria nell’anno 722. I pagani, che presero il posto nel paese; non si convertirono totalmente al Dio d’Israele e furono detti samaritani dal nome di Samaria. — Il regno di Giuda durò 350 anni circa (938-586) ed ebbe 20 re. Una sola volta questa stirpe regale fu per perire, ma venne salvata dai sacerdoti che nascosero nel tempio Gioas, al tempo di Atalia. Parecchi di questi re furono malvagi, altri finirono come Salomone nel peccato, ma quattro furono, fino alla fine, grandi servi di Dio. Questi sono Giosafat, Gioathan, Ezechia, Giosia. L’ufficio divino parla in questa settimana di Ezechia, tredicesimo re di Giuda. Egli aveva venticinque anni quando diventò re e regnò in Gerusalemme per ventinove anni. Durante il sesto anno del suo regno Israele infedele fu tratto in schiavitù. « Il re Ezechia, dice la Santa Scrittura, pose la sua confidenza in Jahvè, Dio d’Israele e non vi fu alcuno uguale a lui fra i re che lo precedettero o che lo seguirono; così Jahvè fu con lui ed ogni sua impresa riuscì bene ». Allorché Sennarerib, re d’Assiria, voleva impadronirsi di Gerusalemme, Ezechia salì al Tempio e innalzò una preghiera a Dio, pura come quelle di David e Salomone. Allora il profeta Isaia disse a Ezechia di non temere nulla poiché Dio avrebbe protetto il suo regno. E l’Angelo di Jahvè colpì di peste centottantacinque mila uomini nel campo degli Assirii. Sennacherib, spaventato, ritornò a marce forzate a Ninive ove morì di spada. Dio accordò più di cento anni di sopravvivenza al regno di Giuda pentito, mentre aveva annientato il regno d’Israele impenitente. — Ma Ezechia cadde gravemente malato e Isaia gli annunciò che sarebbe morto: « Ricordati, o Signore, disse allora il re a Dio, che io ho proceduto avanti a te nella verità e con cuore perfetto, e che ho fatto ciò che a te è gradito » (Antifona del Magnificat). E Isaia fu mandato da Dio ad Ezechia per dirgli: « Ho intesa la tua preghiera e viste le tue lacrime; ed ecco che ti guarisco e fra tre giorni tu salirai al Tempio del Signore ». Ezechia infatti guarì e regnò ancora quindici anni. Questa guarigione del re che uscì, per cosi dire, dal regno della morte il terzo giorno, è una figura della risurrezione di Gesù. Così la Chiesa ha scelto oggi l‘Epistola di S. Paolo nella quale l’Apostolo ricorda che il Salvatore è « morto per i nostri peccati, è stato seppellito ed è resuscitato « nel terzo giorno » e che per la fede in questa dottrina noi saremo salvi come l’Apostolo stesso. Per questo stesso motivo è preso per l’Introito il Salmo 67, nel quale lo stesso Apostolo ha visto la profezia dell’Ascensione (Ephes., IV, 8).

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXVII: 6-7; 36


Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.

[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]
Ps LXVII: 2
Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus.

[Sorga Iddio, e siano dispersi i suoi nemici: fuggano dal suo cospetto quanti lo odiano.]


Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.

[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui, abundántia pietátis tuæ, et merita súpplicum excédis et vota: effúnde super nos misericórdiam tuam; ut dimíttas quæ consciéntia metuit, et adjícias quod orátio non præsúmit.

[O Dio onnipotente ed eterno che, per l’abbondanza della tua pietà, sopravanzi i meriti e i desideri di coloro che Ti invocano, effondi su di noi la tua misericordia, perdonando ciò che la coscienza teme e concedendo quanto la preghiera non osa sperare.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV: 1-10
“Fratres: Notum vobis fácio Evangélium, quod prædicávi vobis, quod et accepístis, in quo et statis, per quod et salvámini: qua ratione prædicáverim vobis, si tenétis, nisi frustra credidístis. Trádidi enim vobis in primis, quod et accépi: quóniam Christus mortuus est pro peccátis nostris secúndum Scriptúras: et quia sepúltus est, et quia resurréxit tértia die secúndum Scriptúras: et quia visus est Cephæ, et post hoc úndecim. Deinde visus est plus quam quingéntis frátribus simul, ex quibus multi manent usque adhuc, quidam autem dormiérunt. Deinde visus est Jacóbo, deinde Apóstolis ómnibus: novíssime autem ómnium tamquam abortívo, visus est et mihi. Ego enim sum mínimus Apostolórum, qui non sum dignus vocári Apóstolus, quóniam persecútus sum Ecclésiam Dei. Grátia autem Dei sum id quod sum, et grátia ejus in me vácua non fuit.”

[“Fratelli: Vi richiamo il Vangelo che vi ho annunziato, e che voi avete accolto, e nel quale siete perseveranti, e mediante il quale sarete salvi, se lo ritenete tal quale io ve l’ho annunciato, tranne che non abbiate creduto invano. Poiché in primo luogo vi ho insegnato quello che anch’io appresi: che Cristo è morto per i nostri peccati, conforme alle Scritture; che fu seppellito, e che risuscitò il terzo giorno, conforme alle Scritture; che apparve a Cefa, e poi agli undici. Dopo apparve e più di cinquecento fratelli in una sol volta, dei quali molti vivono ancora, e alcuni sono morti. Più tardi appare a Giacomo, e quindi a tutti gli Apostoli. Finalmente, dopo tutti, come a un aborto, appare anche a me. Invero io sono l’ultimo degli Apostoli, indegno di portare il nome d’Apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per la grazia di Dio, però sono quel che sono; e la sua grazia in me non è rimasta infruttuosa.”].

LA SINTESI DEL CREDO IN S. PAOLO.

Una delle cose che ci stupiscono davanti a certi monumenti costrutti dalla mano dell’uomo, monumenti materiali, è la loro antichità. Quando dinanzi all’arco di Tito, ancora così ben conservato nelle sue linee maestose, e anche in certi, in molti particolari secondarî, possiamo dire: ha duemila anni circa… ci pare d’aver fatto un grande elogio. Eppure questo è monumento morto. Noi ci troviamo oggi dinanzi a un monumento vivo, una costruzione ideale, cioè di idee, di concetto, di verità: il Credo, quello che voi sentite cantare ogni domenica. Ebbene il Credo ha duemila anni di vita. E noi ci troviamo oggi davanti al primo Credo, quale lo insegnava Paolo ai suoi convertiti. Non c’è tutto, c’è però la sostanza, il midollo centrale. Alcuni articoli sono sottintesi come presupposto necessario e implicito: altri saranno da lui stesso accennati altrove come corollari, ma il nucleo centrale è il Cristo Gesù, e Gesù è crocifisso e risorto. La sostanza, il centro del Vangelo è lì. Dio, Dio Creatore fa parte del credo religioso; cioè proprio di ogni religione che voglia essere appena appena non indegnissima di tal nome. Anche i Giudei credono in Dio Creatore e Signore del cielo e della terra. San Paolo non ricorda questo articolo, qui dove sintetizza il suo Credo, il Credo dei suoi Cristiani, non perché  essi possano impunemente negare Dio, ma perché è troppo poca cosa per noi l’affermarlo Creatore. Il nostro Credo incomincia dove finisce il Credo della umanità religiosa. Ed eccoci a Gesù Cristo. Uomo-Dio, Dio incarnato, Uomo divinizzato, mistero di unione che non è confusione e non è separazione. Ebbene, questi due aspetti che in Gesù Cristo Signor nostro si sintetizzano, San Paolo li scolpisce, da quel maestro che è, nella Crocifissione e nella Resurrezione di Lui. « Io, dice Paolo ai suoi fedeli — suoi… da lui istruiti, da lui battezzati, da lui organizzati, — io vi ho prima di tutto trasmesso quello che ho ricevuto anch’io, vale a dire: che Cristo è morto per i nostri peccati, come dicono le Scritture, che fu sepolto ». È il poema, grandioso poema, e vero come la più vera delle prose, delle umiliazioni di N. S. Gesù Cristo: l’affermazione perentoria e suprema della sua vera e santa umanità: patire, morire, patir sulla Croce, morire sulla Croce. – San Paolo tutto questo lo ha predicato ai Corinzi, come egli stesso dice altrove, con santa insistenza. A momenti pareva che non lo sapessero: era inebriato della Croce; ossessionato dal Crocefisso. Lo predicava con entusiasmo. E veramente questo Gesù che soffre e muore è così nostro. È così vicino a noi. Non potrebbe esserlo di più. « In labore hominum est: » è anch’egli soggetto al travaglio degli uomini. Travaglio supremo, supremo flagello: la morte. Tanto più ch’Egli è morto non solo come noi, ma per noi, per i nostri peccati e per la nostra salute; per i nostri peccati, causa la nostra salute, scopo e risultato della Redenzione. Ma per le loro cause sono morti anche gli eroi: Gesù Cristo è quello che è, quello che Paolo predica, la Chiesa canta nel Credo: Figlio di Dio unigenito, e la prova, la dimostrazione: la Sua Resurrezione. Uomo muore, Dio vive di una vita che vince la morte, e va oltre di essa immortale. Perciò Paolo continua: «Vi ho trasmesso che Cristo risuscitò il terzo giorno, come dicono le Scritture ». E della Resurrezione cita i testimonî classici, primo fra tutti Cepha, ultimo lui, Paolo, ultimo degli Apostoli, indegno di portarne il nome, ma Apostolo come gli altri. La morte univa Gesù a noi, la vita non lo separa da Noi. Gesù Crocifisso è il nostro amore mesto e forte. Gesù Risorto è la nostra grande speranza, primogenito quale Egli è di molti fratelli. Da venti secoli la Chiesa canta questo inno di fede, di speranza, d’amore.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XXVII: 7 – :1
In Deo sperávit cor meum, et adjútus sum: et reflóruit caro mea, et ex voluntáte mea confitébor illi.

[Il mio cuore confidò in Dio e fui soccorso: e anche il mio corpo lo loda, cosí come ne esulta l’ànima mia.]


V. Ad te, Dómine, clamávi: Deus meus, ne síleas, ne discédas a me. Allelúja, allelúja

[A Te, o Signore, io grido: Dio mio, non rimanere muto: non allontanarti da me.]

Alleluja

Allelúia, allelúia
Ps LXXX:2-3
Exsultáte Deo, adjutóri nostro, jubiláte Deo Jacob: súmite psalmum jucúndum cum cíthara. Allelúja.

[Esultate in Dio, nostro aiuto, innalzate lodi al Dio di Giacobbe: intonate il salmo festoso con la cetra. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Marcum.
Marc VII:31-37
In illo témpore: Exiens Jesus de fínibus Tyri, venti per Sidónem ad mare Galilaeæ, inter médios fines Decapóleos. Et addúcunt ei surdum et mutum, et deprecabántur eum, ut impónat illi manum. Et apprehéndens eum de turba seórsum, misit dígitos suos in aurículas ejus: et éxspuens, tétigit linguam ejus: et suspíciens in coelum, ingémuit, et ait illi: Ephphetha, quod est adaperíre. Et statim apértæ sunt aures ejus, et solútum est vínculum linguæ ejus, et loquebátur recte. Et præcépit illis, ne cui dícerent. Quanto autem eis præcipiébat, tanto magis plus prædicábant: et eo ámplius admirabántur, dicéntes: Bene ómnia fecit: et surdos fecit audíre et mutos loqui.

[“In quel tempo Gesù, tornato dai confini di Tiro, andò por Sidone verso il mare di Galilea, traversando il territorio della Decapoli. E gli fu presentato un uomo sordo e mutolo, e lo supplicarono a imporgli la mano. Ed egli, trattolo in disparte della folla, gli mise le sua dita nelle orecchie, e collo sputo toccò la sua lingua: e alzati gli occhi verso del cielo, sospirò e dissegli: Effeta, che vuol dire: apritevi. E immediatamente se gli aprirono le orecchie, e si sciolse il nodo della sua lingua, e parlava distintamente. Ed egli ordinò loro di non dir ciò a nessuno. Ma per quanto loro lo comandasse, tanto più lo celebravano, e tanto più ne restavano ammirati, e dicevano: Ha fatto bene tutte lo cose: ha fatto che odano i sordi, e i muti favellino!”


Omelia

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

La maldicenza.

Solutum est vinculum linguæ ejus, et loquebatur recte.

(MARC. VII, 35).

Quanto sarebbe desiderabile, F. M., che si potesse dire di ciascuno di noi, quello che l’Evangelo dice di quel muto, che, guarito da Gesù Cristo, parlava speditamente. Ahimè! F. M., non ci si potrebbe invece rimproverare che parliamo quasi sempre male, quando parliamo specialmente del nostro prossimo? Infatti, qual è la condotta della maggior parte dei Cristiani odierni? Eccola: Criticare, censurare, denigrare, e condannare quanto fa e dice il prossimo: ecco il più comune di tutti i vizi, il più universalmente diffuso, e forse il peggiore di tutti. Vizio che non si potrà mai detestare abbastanza; vizio che produce le più funeste conseguenze, che porta dappertutto il disordine e la desolazione. Ah! mi concedesse Iddio uno dei carboni, che servirono all’Angelo per purificare le labbra del profeta Isaia (Is. VI, 6-7), vorrei purificare con esso la lingua degli uomini tutti! Oh! quanti mali verrebbero banditi dalla terra, se si potesse scacciarne la maldicenza! Potessi, F. M., infondervene un tale orrore, che vi procurasse la fortuna di correggervene per sempre! Qual è dunque il mio assunto, F. M.? eccolo: — Vi farò conoscere: 1° Che cos’è la maldicenza; 2° quali ne sono le cause e gli effetti; 3° la necessità e difficoltà di ripararvi.

I. — Non vi mostrerò la enormità e l’odiosità di questo vizio che fa tanto male: che è causa di tante dispute, odii, omicidi, ed inimicizie le quali spesso durano tutta la vita, e che non risparmia né i buoni né i cattivi! mi basta dirvi che è uno dei vizi che trascinano più anime all’inferno. Credo sia più necessario farvi conoscere in quanti modi possiamo rendercene colpevoli; perché conoscendo il male che fate, possiate correggervene, ed evitare i tormenti preparati nell’altra vita. Se mi domandate: che cos’è una maldicenza? vi rispondo: è far conoscere un difetto od una colpa del prossimo in modo da nuocere più o meno alla sua riputazione; e questo avviene in parecchi modi.

1° Si mormora quando si attribuisce al prossimo un male che non ha fatto, od un difetto che non ha; e questa è calunnia, peccato gravissimo, eppure molto comune. Non illudetevi, F. M., dalla maldicenza alla calunnia non v’è che un passo. Se esaminiamo bene le cose, vediamo che quasi sempre si aggiunge o si esagera nel male che si dice del prossimo. Una cosa passata per parecchie bocche non è più la stessa, chi l’ha detta per primo non la riconosce più, tanto è cambiata od ampliata. Ne concludo quindi che un maldicente è quasi sempre un calunniatore, ed ogni calunniatore è un infame. Un santo Padre ci dice che si dovrebbero scacciare dalla società degli uomini i calunniatori, come tante bestie feroci.

2° Si mormora quando si esagera il male fatto dal prossimo. Avete visto qualcuno commettere uno sbaglio: che fate voi? invece di coprirlo col manto della carità, od almeno diminuirlo, voi lo esagerate. Vedrete un domestico che si riposa un istante, ovvero un operaio: se qualcuno ve ne parla, voi dite senza altro che è un ozioso, che ruba il denaro del padrone. Vedrete alcuno passare per una vigna od un orto, prendere qualche grappolo o frutto, cosa che certamente non dovrebbe fare: ebbene voi andate a raccontare a quanti incontrate che egli è un ladro, che bisogna guardarsene, sebbene non abbia mai rubato nulla: e cosi di seguito… E questa è maldicenza per esagerazione. Ascoltate S. Francesco di Sales: “Non dite, così questo santo ammirabile, che il tale è un ladro ed un ubbriacone, avendolo visto rubare od ubbriacarsi una volta. Noè e Lot si ubbriacarono una volta, eppure né l’uno né l’altro erano ubbriaconi. S. Pietro non fu bestemmiatore, perché in una occasione ha bestemmiato.

2 . Una persona non è viziosa perché è caduta una volta nel vizio; e vi cadesse pure parecchie volte, v’è sempre pericolo di mormorare accusandola. Questo precisamente accadde a Simone il lebbroso, quando vide Maddalena ai piedi del Signore, che bagnava colle sue lagrime: “Se costui, disse tra sé, fosse un profeta, com’egli afferma, conoscerebbe certamente che costei è una peccatrice.„ (Luc. VII, 39). Si sbagliava grossolanamente: Maddalena non era più una peccatrice, ma una santa penitente, perché i suoi peccati le erano stati perdonati. Vedete ancora quel fariseo orgoglioso, che in mezzo al tempio sfoggiava tutte le sue pretese opere buone, ringraziando Iddio di non essere del numero degli adulteri, ingiusti, ladri, come il pubblicano. Diceva  che costui era un ladro: mentre nel medesimo tempo era stato giustificato. (Matt. XVIII, 11-14) Ah! figli miei, aggiunge l’amabile S. Francesco di Sales, se la misericordia di Dio è così grande, che le basta un sol momento per perdonarci i maggiori delitti del mondo, come oseremo noi dire che chi era un gran peccatore ieri, lo sia ancor oggi? „ Concludo dicendo che quasi sempre ci inganniamo nel giudicar male del prossimo, qualsiasi apparenza di verità abbia il fatto sul quale basiamo il nostro giudizio.

3° Si mormora quando senza legittima ragione si fa conoscere un difetto nascosto del prossimo, od uno sbaglio non conosciuto. Alcuni s’immaginano che quando sanno qualche male del prossimo, possono dirlo ad altri ed occuparsene. Vi ingannate, amico mio. Quale cosa v’è nella nostra santa religione più raccomandata della carità? La ragione stessa ci ispira di non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi. Esaminiamo la cosa un po’ più davvicino: saremmo proprio contenti se alcuno avendoci visto commettere uno sbaglio andasse a raccontarlo a tutti? no, senza dubbio: anzi se avesse la carità di tenerlo celato, gliene saremmo ben riconoscenti. Vedete quanto vi spiace che si dica qualche cosa sul conto vostro o della vostra famiglia: dov’è adunque la carità e la giustizia? Sinché lo sbaglio del vostro prossimo sarà nascosto, egli conserverà la sua riputazione: ma facendolo conoscere, voi gli togliete la riputazione, e quindi gli fate maggior torto che non togliendogli parte dei suoi beni: perchè lo Spirito Santo ci dice che una buona riputazione vale più delle ricchezze (Prov. XXII, 1).

4° Si mormora quando s’interpreta in mala parte le buone azioni del prossimo. Alcuni assomigliano al ragno, che cambia in veleno anche le cose migliori. Un povero disgraziato, se cade una volta sotto la lingua dei maldicenti, è simile ad un grano di frumento sotto la macina del mulino. Vien stritolato, schiacciato, interamente distrutto. Coloro vi attribuiranno intenzioni da voi mai avute, avveleneranno ogni vostra azione, ogni vostra parola. Se vi date alla pietà, ed adempite fedelmente le vostre pratiche di religione, non siete che un ipocrita, santo in chiesa e demonio in casa. Se fate opere buone, penseranno che è solo per orgoglio, per farvi vedere. Se fuggite il mondo, diranno che volete essere singolare, mentre siete di spirito debole: se avete cura delle cose vostre, non siete che un avaro: insomma, F. M., la lingua del maldicente è come un verme che rode i frutti buoni, cioè le azioni migliori degli altri, e cerca di interpretarle malamente. La lingua del maledico è un bruco che insozza i fiori più belli, lasciandovi la traccia disgustosa della sua bava.

5° Si mormora anche non dicendo nulla; ed ecco come. Si loda alla presenza vostra uno, e tutti sanno che voi lo conoscete: ma voi non dite nulla, o lo lodate solo debolmente: il vostro silenzio e la vostra riserbatezza fanno pensare che sappiate sul suo conto qualche cosa di male, che vi induce a tacere. Altri mormorano quasi compassionando. Conoscete, nevvero, la tale? sapete, avete udito che cosa le è accaduto? che peccato siasi lasciata ingannare! … certo, al par di me, non l’avreste creduto!… S. Francesco ci dice che questa maldicenza è simile ad un dardo velenoso che si intinge nell’olio perché penetri più addentro. Infine, un gesto, un sorriso, un ma, un muover del capo, una piccola aria di disprezzo: tutto fa molto dubitare di colui del quale si parla. – Ma la maldicenza più brutta, e più funesta nelle sue conseguenze, è il riferire ad alcuno quanto si è detto o fatto contro di lui. Queste informazioni producono i mali più terribili, fanno nascere sentimenti di odio, di vendetta, che durano spesso fino alla morte. Per mostrarvi quanta colpevolezza vi sia in questo, ascoltate che cosa ci dice lo Spirito Santo: “Sei cose odia Iddio, ma la settima la detesta, cioè le mormorazioni„ Ecco press’a poco, F. M., in quanti modi si può peccare di maldicenza. Scandagliate il vostro cuore, e vedrete se siete per nulla colpevoli in questa materia. Vi dirò altresì, che non devesi facilmente credere il male che si dice degli altri, e se una quand’è accusata non si difende, non devesi credere per questo, che quanto si dice di lei sia ben certo: eccone un esempio che vi mostrerà come possiamo tutti ingannarci, e che non dobbiamo credere se non difficilmente al male che ci vien detto degli altri. Narrasi nella storia che un vedovo avendo una figlia unica assai giovane, la raccomandò ad un suo parente, e si fece religioso in un monastero di solitari. La sua virtù lo fece amare da tutti i religiosi. Da parte sua era assai contento della sua vocazione: ma, dopo un po’ di tempo, la tenerezza che sentiva pensando alla sua figliuola, lo riempì di dolore e di tristezza per averla così abbandonata. Il padre abate se ne accorse, ed un giorno gli disse: “Che avete, fratel mio, da essere così afflitto? „ — ” Ahimè! padre mio, rispose il solitario, ho lasciato in città una mia creatura giovanissima: ecco la causa della mia pena.„ L’abate non sapendo che era una figliuola, credendo fosse un figlio, dissegli: “Andate a cercarlo, conducetelo qui ed allevatelo con voi.„ Tosto egli parte, considerando ciò come un’ispirazione del cielo, e va a trovare la sua figliuola, chiamata Marina. Le disse di prendere il nome Marino, proibendole di non far mai conoscere di essere una fanciulla, e la condusse nel suo monastero. Il padre si diede tanta cura di mostrarle la necessità della perfezione in chi lasciava il mondo per darsi a Dio, che in poco tempo ella divenne un modello di virtù, benché così giovane, anche pei religiosi più vecchi. Prima di morire, il padre le raccomandò di nuovo caldamente di non mai dire chi ella fosse. Marina non aveva ancora diciassette anni quando le morì il padre: tutti i religiosi non la chiamavano che col nome di fratel Marino. L’umiltà sua così profonda, e la perfezione così poco comune, la fecero amare e rispettare da tutti i religiosi. Ma il demonio geloso di vederla avanzar tanto rapidamente nella virtù, o piuttosto Iddio, volendo provarla, permise che fosse calunniata nel modo più infame. Le sarebbe stato facile mostrare la propria innocenza, ma non lo fece. Vedete come un’anima che ama davvero Iddio, riguarda tutto quello che accade per divina permissione, anche la maldicenza e la calunnia, come ordinato soltanto a nostro bene. I frati usavano andare al mercato in certi giorni della settimana per fare le loro provvigioni: ed il fratello ve li accompagnava. Il padrone dell’albergo aveva una figliuola, che s’era lasciata sedurre da un soldato. Scoperto il disonore, il padre ne volle sapere l’autore: e la giovane, piena di malizia, inventò la più infame maldicenza, e la più infame calunnia, dicendogli che era stato proprio fratel Marino a sedurla, e che con questi era caduta in peccato. Il padre, furibondo, venne a lamentarsi coll’abate, che restò ben sorpreso d’una tal cosa da parte di fratel Marino, che era stimato un gran santo. L’abate fece venire alla sua presenza fratel Marino, domandandogli che cosa avesse fatto, quale enorme errore commesso, disonorando in tal guisa la religione! Il povero fratel Marino, levando il suo cuore a Dio, pensò che cosa dovesse rispondergli, ed anziché diffamare la giovane impudica, si accontentò di dire: “Sono un peccatore, che merita di far penitenza. „ L’abate non esaminò oltre, e credendo Marino colpevole del delitto di cui era accusato, lo fece castigare severamente, e lo scacciò dal monastero. Ma la povera giovane, a somiglianza di Gesù Cristo, ricevette i colpi e gli affronti senza aprir bocca per lamentarsi, né fece riconoscere la sua innocenza, mentre le sarebbe stato così facile. Restò per tre anni alla porta del monastero, riguardata da tutti i religiosi come un’infame: quando passavano, essa si prostrava davanti a loro a domandar il soccorso delle loro preghiere ed un pezzo di pane per non morir di fame. La figlia dell’albergatore partorì e tenne per un po’ di tempo il bambino: ma appena slattato lo mandò a fratel Marino come a chi ne era padre. Senza neppur fare apparire la sua innocenza, essa lo ricevette come fosse suo figlio, e lo nutrì per due anni, dividendo seco lui le poche elemosine che riceveva. I religiosi, commossi da tanta umiltà pregarono l’abate d’aver pietà di fratel Marino, mostrandogli che da cinque anni faceva penitenza alla porta del convento, e che bisognava riceverlo e perdonargli per amor di Gesù Cristo. L’abate, fattolo chiamare lo rimproverò aspramente: “Il padre vostro era un santo, dissegli, e voi aveste la sfacciataggine di disonorar questa casa col delitto più detestabile: tuttavia, vi permetto di rientrare col bambino, del quale siete l’indegno padre, e per espiazione del vostro peccato vi condanno alle opere più vili e più basse, ed a servire tutti gli altri fratelli.„ Il povero fratel Marino, senza un lamento si sottomise a tutto, sempre contento e risoluto di non dir mai nulla che potesse rivelare che egli non era affatto colpevole. Il nuovo lavoro affidatogli che solo un uomo robusto avrebbe potuto sostenere, non lo scoraggiò. Dopo qualche tempo però, oppresso dalla fatica e dalle austerità dei digiuni, dovette soccombere, e poco appresso morì. L’abate caritatevolmente ordinò che gli si rendessero gli estremi onori come ad ogni altro religioso: ma che per ispirar maggior orrore per quel vizio, fosse sepolto lontano dal monastero, sicché se ne perdesse anche la memoria. Dio però volle far conoscere l’innocenza, tenuta nascosta per tanto tempo. Nel disporre la salma avendo scoperto che era una giovane: “O mio Dio, esclamarono i religiosi percuotendosi il petto, come poté questa santa figliuola soffrir con sì grande pazienza tanti obbrobri ed afflizioni, senza lamentarsi, mentre le era così facile giustificarsi?„ Corsero dall’abate, e con alte grida e lagrime in abbondanza: “Venite, padre, gli dissero, venite a vedere il fratel Marino. „ L’abate, meravigliato di quelle grida e di quelle lagrime, accorse e vide la povera giovane innocente. Fu colpito da sì vivo dolore che si gettò in ginocchio, prostrando la fronte a terra e versando torrenti di lagrime. Tutti insieme, egli ed i religiosi, esclamarono piangendo: “O santa ed innocente giovane, vi scongiuriamo per la misericordia di Gesù Cristo, di perdonarci tutte le pene e gli ingiusti rimproveri che vi abbiamo inflitti!,, — Ahimè, esclamava l’abate, io fui nell’ignoranza; voi aveste abbastanza pazienza per tutto soffrire, ed io troppo pochi lumi per riconoscere la santità della vostra vita.„ Fatto deporre il corpo della santa giovane nella cappella del monastero, ne recarono notizia al padre della giovane che aveva accusato fratel Marino. La povera disgraziata che aveva accusato falsamente santa Marina, era dal tempo del suo peccato ossessa dal demonio: venne tutta desolata a confessare il suo delitto ai piedi della santa, domandandole perdono. E all’istante fu liberata per sua intercessione. Vedete, F. M., come la calunnia e la maldicenza fanno soffrire poveri innocenti! quanti poveretti sono, anche nel mondo, accusati falsamente, e che nel dì del giudizio riconosceremo innocenti. Tuttavia, coloro che sono accusati in questo modo debbono riconoscere che è Dio che lo permette, e che il miglior rimedio per loro è di lasciare la propria innocenza nelle mani del Signore, e non tormentarsi di quanto può soffrirne la loro reputazione: quasi tutti i santi fecero così. Vedete anche S. Francesco di Sales, accusato davanti a molti di aver fatto uccidere un uomo per vivere con la moglie di lui. Il santo rimise tutto nelle mani di Dio, non preoccupandosi della sua reputazione. A chi gli consigliava di difenderla, rispondeva che a Colui che aveva permesso che la sua reputazione fosse diffamata lasciava l’incarico di ristabilirla quando gli piacesse. Siccome la calunnia è qualche cosa di ben doloroso, Dio permette che quasi tutti i santi vengano calunniati. Credo che la miglior cosa per noi in tali circostanze sia di non dir nulla, e domandare al buon Dio di tutto soffrire per amor suo, e pregare pei calunniatori. D’altra parte, Dio nol permette che per coloro sui quali ha grandi viste di misericordia. Se una persona è calunniata, è perché Dio ha stabilito di farla pervenire ad un’alta perfezione. Dobbiamo compiangere coloro che denigrano la nostra reputazione, e rallegrarci per nostro conto: perché sono ricchezze che aduniamo pel cielo. – Ritorniamo all’argomento, perché mio scopo principale è di far conoscere il male che il maldicente fa a se stesso. Vi dirò che la maldicenza è un peccato mortale, quando trattasi di cosa grave; perché S. Paolo lo mette nel numero di quelli che ci escludono dal regno dei cieli (I Cor. VI, 10). Lo Spirito Santo ci dice che il maledico è maledetto da Dio, che è abbominato da Dio e dagli uomini (Abominatio hominum detractor. – Prov. XXIV, 9). – La maldicenza è altresì più o meno grave, secondo la qualità e la dignità delle persone che colpisce, o le loro relazioni con noi. Quindi è maggior peccato far conoscere le colpe ed i vizi dei superiori, come del padre e della madre, della moglie, del marito, dei fratelli, delle sorelle, dei parenti, che non quelli degli estranei, perché si deve avere più carità per loro che per gli altri. Il parlar male delle persone consacrate e dei ministri della Chiesa, è ancora maggior peccato per le conseguenze così funeste per la religione che ne derivano e per l’oltraggio che si fa al loro carattere. Ascoltate quanto ci dice lo Spirito Santo per bocca del suo profeta: “Chi parla male dei miei ministri tocca la pupilla dei miei occhi;„ (Zacc. II, 8) cioè niente può oltraggiarlo in modo così sensibile; delitto quindi sì grande è questo, che non lo potrete mai comprendere. Anche Gesù Cristo ci dice: “Chi disprezza voi, disprezza me.„ (Luc. X, 16). Perciò, F. M., quando siete con persone di altra parrocchia, che parlano sempre male del loro pastore, non dovete partecipare ai loro discorsi, ritiratevi, se potete, altrimenti tacete. Dopo ciò, F. M., converrete con me che per fare una buona confessione non basta dire che abbiamo parlato male del prossimo; bisogna anche dire se per leggerezza, per odio, per vendetta tentammo nuocere alla sua reputazione: dire di quali persone abbiamo parlato: se d’un superiore, d’un eguale, del padre, della madre, dei parenti, di persone consacrate a Dio: davanti a quante persone: tutto ciò è necessario per fare una buona confessione. Molti si ingannano su di questo: si accuseranno, è vero, d’aver parlato male del prossimo, ma senza dire di chi, né con quale intenzione; ciò che è causa di molte confessioni sacrileghe. Altri ancora, interrogati, vi risponderanno che queste maldicenze non recarono danno al prossimo. — Amico mio, vi ingannate: ogni volta che avete detto una cosa ignota a chi vi ascoltava, avete portato danno al prossimo, perché avete diminuito la buona riputazione che quegli ne poteva avere. — Ma, mi direte, quando una colpa è pubblica, non v’è nulla di male. — Amico mio, quando la cosa è pubblica, è come se alcuno avesse il corpo tutto coperto di lebbra, tranne una piccola parte, e voi diceste che poiché quel corpo è quasi tutto coperto di lebbra, bisogna ricoprirnelo interamente. È la stessa cosa. Se è un fatto pubblico, dovete anzi aver compassione del povero disgraziato, nascondere e diminuire la sua colpa quanto potete. Ditemi, sarebbe giusto se, vedendo una persona ammalata sull’orlo d’un precipizio, si approfittasse della sua debolezza e dell’esser presso a cadere per spingervela? Ebbene: ecco quanto avviene quando si rammenta ciò che è già pubblico. — Ma, mi direte, e se lo si dice ad un amico, con la promessa di non palesarlo? — Vi ingannate ancora: come volete che gli altri tacciano, se non ne siete stati capaci voi? E come se diceste a qualcheduno: “Ecco, amico mio, voglio dirvi una cosa; vi prego di essere più saggio e discreto di me, di aver più carità di me; non ripetete a nessuno quanto vi dico.„ Credo che il mezzo migliore sia di non dir nulla: qualsiasi cosa si dica o si affermi degli altri non occupatevene, e pensate solo di guadagnarvi il cielo. Niuno si pente mai di aver detto nulla; invece, ci pentiamo quasi sempre d’aver parlato troppo. Lo Spirito Santo ci dice: “Chi parla tanto, spesso falla.„ (In multiloquio non deerit peccatum. Prov. X, 19).

II— Vediamo ora le cause e gli effetti della maldicenza. Parecchi sono i motivi che ci portano a mormorare del prossimo. Alcuni lo fanno per invidia, quando specialmente persone di ugual professione vanno a gara per attirarsi la clientela: diranno male degli altri: che le loro merci non valgono nulla; ovvero che imbrogliano, che non hanno nulla in casa, che è impossibile vendere le merci ad un tal prezzo: che molti se ne lamentano che si vedrà bene che non faranno buona riuscita … ovvero che vi manca il peso o la misura. Un giornaliero dirà che un altro non è un buon operaio: che va in tante case, ma non restano contenti: egli non lavora, si diverte: ovvero, non sa il suo mestiere. “Non bisogna riferire quanto vi dirò, soggiunge, altrimenti ne avrebbe danno. „ Dovete rispondere: “Era ben meglio che non aveste parlato voi: sarebbe stato più presto fatto.„ Un contadino vede che i terreni del vicino prosperano meglio dei suoi; ciò lo affligge, ne parlerà male. Altri sparlano dei loro vicini per vendetta; se avete detto o fatto qualche cosa ad alcuno, sia pur per dovere o per carità, cercheranno di screditarvi, di inventare molte cose contro di voi per vendicarsi. Se si parla bene di colui pel quale hanno avversione, se ne affliggono, e vi diranno: “È come gli altri, egli pure ha i suoi difetti: ha fatto questo, ha detto quest’altro: non lo conoscete? è perché non avete mai avuto relazione con lui. Parecchi mormorano di orgoglio, credono di innalzarsi abbassando gli altri, dicendone male: faranno valere le loro pretese qualità buone: quanto dicono e fanno è tutto bene, e quanto dicono o fanno gli altri è male. Ma la maggior parte mormora per leggerezza, per una certa smania di parlare, senza esaminare se ciò che dicono sia vero o no: bisogna che parlino. Quantunque costoro siano meno colpevoli degli altri, di coloro cioè che parlano male per odio, per invidia o vendetta, non sono però senza peccato: qualsiasi motivo li faccia agire, feriscono sempre la riputazione del prossimo. – Credo che il peccato della maldicenza racchiuda quanto v’ha di più malvagio. Sì, F. M., questo peccato contiene il veleno di tutti i vizi, la piccineria della vanità, il tossico della gelosia, il rancore della collera, il fiele dell’odio, e la leggerezza così indegna di un Cristiano: ciò fa dire a S. Giacomo apostolo: “La lingua del maldicente è piena di veleno mortale, è un male ribelle.„ (Giac. III, 8).  E se vogliam darci la pena di esaminarlo, nulla è più facile a comprendersi. Non è infatti la maldicenza che quasi dappertutto semina la discordia, la disunione tra gli amici, impedisce la riconciliazione tra i nemici, turba la pace delle famiglie, inasprisce il fratello contro il fratello, il marito contro la moglie, la nuora contro la suocera, il genero contro il suocero? Quante famiglie in buona armonia, messe sossopra da una lingua cattiva, e i loro membri non possono più né vedersi né parlarsi. Quale la causa? Solo la lingua cattiva del vicino o della vicina … Sì, F. M., la lingua del maldicente avvelena tutte le buone azioni, e svela tutte le cattive. Essa tante volte, getta sopra una famiglia intera macchie che passano di padre in figlio, da una ad altra generazione, e forse non si cancelleranno mai più! La lingua maledica va a frugare anche nelle tombe dei morti, smuove le ceneri di questi poveri infelici, facendone rivivere, cioè rammentando i loro difetti, sepolti con essi nella tomba. Quale enormità, F. M.! Di quale indignazione non sareste accesi, se vedeste un miserabile accanirsi contro un cadavere, straziarlo, dilaniarlo? Ciò vi farebbe inorridire. Ebbene, è assai più grande il delitto di chi rammenta le colpe d’un povero morto. Quante persone hanno l’abitudine parlando di un morto: “Ah! ne ha fatte ai suoi tempi! era un ubbriacone perfetto, un furbo matricolato, insomma un essere cattivo.„ Ahimè, amico mio, probabilmente vi ingannate; e fosse anche come dite, egli ora è forse in cielo, il buon Dio gli ha perdonato. Ma dove è la vostra carità? Non vedete che dilacerate la reputazione dei suoi figli, se ne ha, o dei parenti? Sareste contento che si parlasse così dei vostri cari, che son morti? Se portassimo in cuore la carità, non avremmo nulla da dire di nessuno; cioè ci affanneremmo ad esaminare soltanto la nostra condotta, e non quella del prossimo. Ma se lasciate da parte la carità, non troverete un uomo sulla terra, nel quale non sia facile scoprire qualche difetto: e la lingua del maldicente trova sempre da criticare. No, F. M., conosceremo solamente nel gran giorno delle vendette il male fatto da una lingua maledica. Vedete: la sola calunnia da Aman fatta contro i Giudei, perché Mardocheo non volle piegare il ginocchio davanti a lui, aveva determinato il re a far morire tutti i Giudei (Esther III, 6). Se la calunnia non fosse stata scoperta, la nazione giudaica sarebbe stata distrutta: era il progetto di Aman. O mio Dio! quanto sangue sparso per una calunnia! Ma Dio, che non abbandona mai l’innocente, permise che quel perfido perisse dello stesso supplizio da lui destinato ai Giudei (Ibid, VII, 10). – Ma senza andare tant’oltre, quanto male non fa chi ad un figlio dirà male di suo padre, della madre sua o dei padroni! Gliene avete dato un cattivo concetto, egli li guarderà con disprezzo: se non temesse di venir punito, li oltraggerebbe. I padri, le madri, i padroni, le padrone li malediranno, li maltratteranno: chi fu la causa di tutto ciò? La vostra cattiva lingua. Avete parlato male dei sacerdoti, e forse del vostro parroco: avete affievolito la fede in chi vi ascoltava, ed essi hanno abbandonato i Sacramenti, vivono senza religione: di chi la colpa? della vostra cattiva  lingua. E per vostra causa che questo negoziante e quell’operaio non hanno più i loro clienti; voi li avete diffamati. Quella donna, cosi in buona armonia col suo marito, l’avete calunniata presso di lui: ora egli non la può più soffrire; sicché dopo le vostre delazioni, v’è solo odio e maledizioni in quella casa.

III. Se gli effetti della maldicenza, F. M., sono così terribili, la difficoltà di ripararvi non è meno grande. Quando la maldicenza è considerevole, F. M., non basta confessarsene: non voglio dire di non confessarsene: no, – F. M., se non confessate le vostre maldicenze sarete dannati nonostante tutte le penitenze, che possiate fare: ma voglio dire che confessandole, bisogna assolutamente, se si può, riparare il danno che la calunnia ha causato al prossimo: e come il ladro che non restituisce la cosa rubata non vedrà mai il cielo, così chi avrà tolto la riputazione al prossimo, non entrerà mai in cielo, se non fa quanto dipende da lui per riparare la riputazione del prossimo offesa. Ma, mi direte, come si deve fare per riparare la riputazione del prossimo offesa ? — Ecco. Se quanto è stato detto contro di lui è falso, bisogna assolutamente andare da tutti quelli coi quali abbiamo parlato male, dicendo che quanto abbiamo detto era falso, era per odio, per vendetta o per leggerezza; anche se dovessimo passare per bugiardi, ingannatori, impostori, dobbiamo farlo. Se quanto abbiamo detto è vero, non possiamo disdirci, perché non è permesso di mentire: ma si deve dire tutto il bene che si conosce di quella persona, affine di riparare al male raccontato. Se questa maldicenza, questa calunnia hanno prodotto qualche danno, si è obbligati di ripararlo più che si può. Giudicate da questo, F. M., quanto è difficile riparare gli effetti della maldicenza. Vedete, F. M., quanto è faticoso il pubblicare che siamo bugiardi, eppure, se quanto dicemmo è falso, bisogna farlo, altrimenti noi non si va in cielo! Ahimè, F. M., questa mancanza di riparazione dannerà il mondo! Il mondo è ripieno di maldicenti e di calunniatori, e quasi nessuno ne fa riparazione: e quindi quasi nessuno si salverà. È come riguardo alle cose rubate; andremo dannati, se, potendolo, non vogliamo restituire. Ebbene, F. M., comprendete voi ora il male che fate colla lingua, e la difficoltà di ripararvi? Bisogna però capire che non tutto è maldicenza, quando si fanno conoscere le colpe d’un figlio ai genitori, d’un domestico al padrone, purché si faccia perché si correggano, e se ne parli a chi può rimediarvi; e sempre guidata da motivi di carità. Finisco dicendo che non solo è male il mormorare e il calunniare, ma anche l’ascoltar con piacere la maldicenza e la calunnia: perché se nessuno ascoltasse, non vi sarebbero i maldicenti. Così facendo ci rendiamo complici di tutto il male che fa il maldicente. S. Bernardo ci dice che è ben difficile sapere chi è più colpevole chi sparla o chi ascolta: l’uno ha il demonio sulla lingua, l’altro nelle orecchie. — Ma, mi direte, che si deve fare quando ci troviamo in una compagnia di maldicenti? — Ecco. Se è un inferiore, cioè una persona al di sotto di voi, dovete imporgli silenzio subito; mostrandogli il male che fa. Se è una persona di ugual condizione, dovete destramente cambiare il discorso parlando di altra cosa, o facendo mostra di non sentire quanto dice. Se è un superiore, cioè una persona al disopra di voi, non bisogna riprenderla: ma tenere un contegno serio e triste, che gli riveli il vostro dispiacere, e, se potete andarvene, dovete farlo. – Che dobbiam concludere da tutto ciò, F . M.? Ecco: non prendiamo l’abitudine di parlare della condotta altrui; pensiamo che molto si potrebbe dire sul nostro conto, se ci conoscessero quali siamo; e fuggiamo le compagnie del mondo quanto possiamo, dicendo spesso come S. Agostino: “Mio Dio, fatemi la grazia di conoscermi quale sono.„ Fortunato! Mille volte fortunato chi adoprerà la lingua solo per domandare a Dio perdono de’ suoi peccati e cantare le lodi del Signore! È quanto io …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXIX:2-3
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me, nec delectásti inimícos meos super me: Dómine, clamávi ad te, et sanásti me.

[O Signore, Ti esalterò perché mi hai accolto e non hai permesso che i miei nemici ridessero di me: Ti ho invocato, o Signore, e Tu mi hai guarito.]

Secreta

Réspice, Dómine, quǽsumus, nostram propítius servitútem: ut, quod offérimus, sit tibi munus accéptum, et sit nostræ fragilitátis subsidium.

[O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno al nostro servizio, affinché ciò che offriamo a Te sia gradito, e a noi sia di aiuto nella nostra fragilità.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Prov III: 9-10
Hónora Dóminum de tua substántia, et de prímitus frugum tuárum: et implebúntur hórrea tua saturitáte, et vino torculária redundábunt.

[Onora il Signore con i tuoi beni e con l’offerta delle primizie dei tuoi frutti, allora i tuoi granai si riempiranno abbondantemente e gli strettoi ridonderanno di vino.]

Postcommunio    

Orémus.
Sentiámus, quǽsumus, Dómine, tui perceptióne sacraménti, subsídium mentis et córporis: ut, in utróque salváti, cæléstis remédii plenitúdine gloriémur.

[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, mediante la partecipazione al tuo sacramento, noi sperimentiamo l’aiuto per l’ànima e per il corpo, affinché, salvi nell’una e nell’altro, ci gloriamo della pienezza del celeste rimedio.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE(168)

D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (IV)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. –

Torino 1944]

IV. — Il Cristianesimo cattolico.

a) La sola vera religione.

D. Tu, partendo dal sentimento religioso in generale, mi hai

trascinato nel campo delle religioni positive, e poc’anzi mi parlavi della vera religione. Perché non vi sarebbe che una vera religione, e perché non tutte?

R. Perché non ogni affermazione è verità; perché ogni particella di verità non è la verità; perché la vita è una e la legge della vita deve dunque altresì essere una, a fine di condurci senza stiracchiamento e senza deviazione alla destinazione una che Dio ci assegna.

D. E naturalmente, la vera religione, per te, è il Cristianesimo.

R. Io sono del parere di Augusto Thierry: «In fatto di religione, non ci è che il Cristianesimo che conti ». E comprendo Littré, che assai prima della sua conversione, diceva: «Se io fossi sicuro che ci fosse un Dio personale, mi farei immediatamente Cristiano ».

D. Se tu fossi Indù, diresti altrettanto del buddismo o del bramanismo.

R. Che cosa potrebbe ciò veramente dimostrare? che la mia mente è debole; che essa soccombe all’eredità; che giudica da argomenti insufficienti e in condizione sfavorevoli alla ricerca: ad ogni modo, la verità non avrebbe nulla a fare con ciò. Non è possibile fondarsi sopra questa ipotesi per uguagliare le religioni l’una all’altra o per mandarle tutte a catafascio.

D. Io ho qualche tentazione di preferire il paganesimo classico, così superiore sotto certi aspetti.

R. Per la sua superiorità e per il suo contrario, tra il paganesimo e il Cristianesimo, vi è il medesimo rapporto che tra Platone e Pascal, tra una portatrice di fiori alle feste Panatenee e una suora di S. Vincenzo de’ Paoli. Io compiango colui che non vede quanto sia superiore l’umile cornetta, e come una qualsiasi frase dei Pensieri dissipi e annulli i sogni sublimi di Platone.

D. Tu almeno ammetti che vi sono verità nelle diverse religioni.

R. Dio è un seminatore generoso; Egli getta a profusione la semente perché un filo d’erba cresca attorno al suo campo.

D. Che cosa intendi con questa metafora?

R. Che il senso del divino, che crea le religioni istintive, è un fatto provvidenziale, essendo un fatto naturale. Ora in un fatto provvidenziale, in un fatto naturale, una parte di verità deve necessariamente introdursi. Inventate dall’uomo, le religioni «false » si studiano di rispondere come possono ai bisogni che le hanno suscitate e che sono bisogni d’uomini. Sopra questo campo dell’uomo, esse si ricongiungono e, perché il loro scopo è lo stesso, si ricongiungono anche alla religione che Dio ci propone.

D. Sarebbe questo il segreto di quelle rassomiglianze che tanti critici rilevano contro di voi?

R. Sicuramente, e molto strani sono coloro che possono vedere lì materia di critica. Una pretesa religione rivelata che, in molte cose, non incontrasse le religioni figlie degli uomini, non sarebbe la religione dell’uomo e non potrebbe esser rivelata.

D. Ma se vi sono verità da per tutto, perché non prendere da tutte le religioni quel che vi è di buono, in vece di rinchiudersi in una sola?

R. Appunto rinchiudendosi in una sola si avrà, quanto all’essenziale quello che è di buono in tutte le altre, e in quanto all’accessorio, nulla impedisce di prenderlo.

D. Non capisco questa risposta.

R. Ricorda il mio paragone. Se il campo del Signore sovrabbonda, ciò che si trova fuori, in fatto di buon grano, tanto più deve trovarsi dentro; ma si potranno trovare fuori, senza che si trovino dentro, dei fiori, delle piante utili, dei minerali preziosi, o qualsiasi cosa che si possa accogliere, Il Cristianesimo se ne valse così largamente; glielo si rimprovera a volte; si tenta di concludere che esso è di mano d’uomo. Ma esso non ha preso di lì il suo germe, il quale viene dalla croce, e per via della croce, dal cielo. Questo germe appunto contiene, oltre a un capitale trascendente, tutto l’essenziale dei valori estranei. E come non lo conterrebbe, essendo germe di vita, germe d’uomo, germe emanato da Colui che crea l’uomo e lo conosce certo tanto quanto l’uomo stesso? Tuttavia, per l’intermedio della natura delle cose, Dio interviene pure in un certo modo nel nascimento delle religioni inferiori e vi lascia la sua traccia, ed è cosa semplicissima che in queste religioni il Cristianesimo vada ad attingere, che Dio lo permetta, che Dio lo consigli, in forza di queste parole evangeliche: « Chi non è contro di voi è per voi», e conforme a quelle dell’Apostolo: «Tutte le cose vi appartengono ».

D. Se così accade del divino nelle religioni istintive, come le chiami tu religioni false?

R. Sono religioni false perché sono imperfette e si pretendono perfette; perché si dicono venute in linea retta da Dio e non vengono che dall’uomo; perché credono così d’impegnare Dio e non impegnano che l’uomo. La religione cristiana è vera per le ragioni contrarie: essa impegna Dio, perché viene da Dio direttamente per rivelazione, e per conseguenza è perfetta.

.D. – Questa perfezione, dici tu, importa che la sola religione cristiana e cattolica contenga in sé è valori di tutte le altre: potresti dimostrarlo con qualche fatto?

R. Ecco in breve le ragioni giustificative. Quello che vi è di buono nel giudaismo è la nozione del vero Dio e il messianismo, è la filosofia corretta di Dio e una storia corretta del suo governo: ora noi abbiamo l’unità di Dio arricchita della Trinità; noi presentiamo degli annali di Dio che conglobano il giudaismo e lo prolungano; perché il Messia è per noi un fatto, invece di una promessa. — Quello che vi è di buono nel paganesimo è l’apparato esteriore, la poesia dei riti, il culto de grandi esseri, il culto del focolare domestico: noi abbiamo, senza il politeismo, una liturgia splendida, una pietà affatto speciale per la famiglia e il culto degli antenati religiosi o dei santi. — Quello che vi di buono nel buddismo, è la misticità, la grandezza delle concezioni cosmiche, il distacco, la carità: noi abbiamo, e ampiamente, tutte queste cose; le abbiamo rinforzate; le abbiamo precisate, purificate, ed evitiamo, col panteismo, il sonno della vita. — Quello che vi è di buono nel maomettismo è un vivo sentimento di Dio unico e del suo governo universale: noi crediamo in un Dio intimo e provvido, senza il fatalismo, al quale Maometto soccombe; senza il sensualismo e il materialismo dell’al di là! — Quello che vi è di buono in Zoroastro o Manete è l’opposizione del bene e del male, ma spinto fino all’eccesso blasfemo, poiché esso divide il Principio supremo: ripudiando quest’eccesso, noi conserviamo il sentimento che vi ci inclinerebbe; proclamiamo il lato tragico dell’esistenza, la lotta di Dio e di satana, il cielo e l’inferno. — Quello che vi è di buono nel protestantesimo è la fede nel Vangelo e il libero esame de’ suoi titoli, è l’interpretazione spirituale dei riti per opposizione a pratiche puramente esteriori: ora anche lì noi non eliminiamo se non l’eccesso, che, per il libero esame assoluto, produce lo sbriciolamento delle credenze, e per eccesso di spiritualità, l’aridità del rito, la dimenticanza del composto umano… – Nello stesso modo si dimostrerebbe che il Cattolicismo ha di tutte le filosofie tutto ciò che esse hanno di buono, non eliminando che i loro vizi, le loro esagerazioni in un senso o nell’altro, le loro insufficienze, i loro errori.

D. Una religione così fatta non rischia di essere una dottrina mediocre, nella quale si trova indebolito tutto ciò che essa vuole conciliare?

R. Il risultato è esattamente contrario, perché la fede cattolica ottiene la conciliazione d’ogni cosa appunto spingendo, in qualche modo, ogni cosa all’estremo. Le cose di questo mondo — e dell’altro — sono fatte per vivere insieme; non si oppongono affatto; non diventano inconciliabili se non in vedute parziali e partigiane. Per esempio, un materialismo integrale è sicuro d’incontrare lo spirito, che si rivela nella materia, e uno spiritualismo integrale incontra la materia, che è condizione dello spirito. — Un panteismo integrale raggiunge il Dio trascendente, il quale solo può essere immanente senza cessare di essere Lui stesso, e un deismo corretto raggiunge l’immanenza, senza la quale Dio non è più Colui nel quale noi viviamo, ci moviamo e siamo. — Un razionalista conseguente deve ammettere la fede, se essa ne fornisce le prove, e un credente conseguente rende alla ragione i suoi diritti, che le tolgono il fideismo o il tradizionalismo. — Il fatalismo crede di dare tutto all’azione divina, e il naturalismo tutto alla natura e all’uomo; ma dando anche di più a Dio, non si è più fatalisti, perché gli si dà modo di fondare la libertà mediante la sua stessa azione, come abbiamo potuto vederlo, e se si spinge il naturalismo a fondo, si riconosce alla base della natura un’idea divina, un’impressione divina, uno slancio divino, e la stessa cosa nell’uomo, fosse pure nella sua libertà. Così è di tutto il resto. Il parziale solo è inconciliabile con questo o con quello, come il solo insociabile è l’egoista. Le anime umane in ciò che hanno di più individuale, se eliminano i loro difetti, ciò che è appunto un ritrovare se stesse, hanno sempre una formula di accordo. Così i fatti; così le cose; così le dottrine; così i sentimenti religiosi.

LO SCUDO DELLA FEDE (169)

IL SACRO CUORE (45)

IL SACRO CUORE (45)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE TERZA.

Sviluppo storico della divozione.

CAPITOLO PRIMO

III

XII E XIII SECOLO

Il culto del sacro Cuore; prime tracce e sviluppo; San Bonaventura e la vigna mistica; Santa Mechtilde, Santa Gertrude. Prospettive d’avvenire.

A partire dal XII secolo, i testi si moltiplicano a mostrarci nel cuore aperto di Gesù il rifugio delle anime, il tesoro delle divine ricchezze dove, come dirà più tardi Margherita Maria, « più si prende e più si trova da prendere », il simbolo espressivo dell’amore che reclama l’amore. Barutell ne ha raccolto un buon numero: di Riccardo, di San Vittore, d’Eelchert, di Schònau (al quale si attribuisce adesso il sermone sulla passione di Cristo che si trova spesso attribuito sia a sant’Anselmo (Medit. IX, P. L. t. CLVIII, col 778), sia a san Bernardo (P. L., t, CLVIII, col. 953.), di Pietro di Blois, che ripete i pensieri e persino le parole di san Bernardo, ecc. (Se ne trovano molti altri in Franciosi benchè vari debbano intendersi piuttosto del costato aperto o del cuore metaforico che del cuore simbolo dell’amore. – Vedi più sotto, c. II, § 6, un testo di Pietro pe Blois.). – Questi testi ci presentano il sacro Cuore, ma non vi vediamo il culto propriamente detto. Qualcuno sembra portar traccia di divozione al sacro Cuore specialmente quelli di Guerrie e di Guglielmo di San Thierry; ma queste tracce sono tenui; sono solo accenni fuggitivi. Nella Vigna mistica e pure con santa Mechtilde e con santa Gertrude la divozione sembra prender corpo, la pietà si nutrisce di quello che sa. Di chi è la Vitis mistica e da quando data? E’ stata spesso attribuita a San Bernardo, ed è sotto il suo nome che la Chiesa ne aveva inserito degli estratti nell’Ufficio del sacro Cuore, nelle lezioni del secondo notturno. Altri la attribuiscono a san Bonaventura. La questione è stata risolta in questo senso, almeno per la parte che ci interessa, e questo appoggiato a buone prove raccolte nella bella edizione del dottore Serafico pubblicata a Quaracchi (S. Bonaventura, Opera omnia, t. VIII, p. LIMI sq. 1898. Tuttavia non oso dire che la mia convinzione sia stabile, poiché tanto il tono quanto il modo sono più quelli di S. Bernardo e della scuola cisterciense, che di S. Bonaventura, tali e quali noi li vediamo nelle sue opere, se non quali ce li figuriamo in quelle che gli si attribuiscono.). Queste prove hanno indotto la congregazione dei riti nella recente riforma del Breviario ad attribuire queste lezioni a San Bonaventura. In pari tempo si trova, in questa edizione, un testo migliore. È questo testo che seguiremo (Loc. cit., p. 159, § 9-e 163-164.). Dovremo, perciò, mettere san Bonaventura in prima linea fra i devoti del sacro Cuore. Egli ha fornito ai promotori della divozione una delle loro pagine più espressive e più pie; e si comprende che la Chiesa l’abbia adottata. Vi s’indica chiaramente la ferita del cuore e la si avvicina alla ferita dell’amore: Foderunt ergo et perfoderunt non solum manus, sed et pedes, latus quoque et sanctissimi cordis intima furoris lancea perforaverunt; quod jamdudum amoris lancea fuerat perforatum, Segue il testo della Cantica, IV, 9: Vulnerasti cor meum, con uno sviluppo che per altro fa perdere un po’ di vista il cuore ferito. Ma l’autore vi ritorna,ed è allora che la divozione ci appare. « Ma poiché siamo venuti al cuore dolcissimo di Gesù, e che è bene per noi il rimanervi, non allontaniamocene con troppa facilità.Noi ci avvieremo dunque a voi, e ci rallegreremo in voi nel ricordo del vostro cuore, Ah! come è buono e dolce l’abitarein questo cuore! Ah! che prezioso tesoro, che perla squisita è il vostro cuore o buon Gesù! Chi non vorrebbe questa perla? Ben più, io darei, tutto al mondo, darei in cambio tutti i miei pensieri, tutti gli affetti dell’animamia, gettando ogni mio pensiero nel cuore del buon Gesù ». – Non son forse questi tutti esercizî di divozione verso il sacro Cuore, per dimorarvi e appropriarselo? E, in questo senso, ciò che segue è ancora più preciso: «Io andrò a pregare in questo tempio, in questo Santo dei Santi, presso l’arca del testamento. David diceva: Ho trovato il mio cuore per pregare il mio Dio. Ed io al pari di lui; ho trovato il cuore del Signore, mio re, mio fratello, e mio amico, il buon Gesù. E non pregherò io? Sì, pregherò. Perché il suo cuore è mio, lo dico arditamente ». Seguono le prove di questa asserzione, e, conclude: « E dunque mio. Ed ecco che io ho un sol cuore con Gesù … Avendo dunque trovato il vostro cuore ed il mio, o Gesù, io vi pregherò come mio Dio. Accogliete le mie preghiere nel santuario dove esaudite; o piuttosto attiratemi tutto intiero nel vostro cuore ». La preghiera prosegue, bella e commovente, implorando che l’anima purificata da Gesù possa avvicinarsi a Lui, rimaner sempre nel suo cuore, conoscere e compiere sempre la sua volontà. –  Bisogna ancor citare testualmente il Seguito, perché non si potrebbe trovare nulla di meglio per esprimere la divozione: « Il vostro costato è stato trafitto; perciò, messi al sicuro da tutte le tempeste del di fuori, possiamo dimorare in questa vigna (in ipsa vite). È perché questa ferita? Perché nella ferita visibile, potessimo vedere la ferita invisibile dell’amore. Come rivelar meglio questo ardente amore, che lasciando ferire non solo il corpo, ma ancora il cuore? La ferita della carne, mostra la ferita spirituale ». – Segue il testo Vulnerasti cor meum, con un magnifico svolgimento sull’amore dello sposo, che termina così: « Io ti amo estremamente, come una fidanzata; di un amor casto come a sorella. Ecco perché il mio cuore è stato ferito per te ». La conclusione è questa che potevamo aspettarci: « Chi non amerebbe questo cuore ferito? Chi non darebbe corrispondenza d’amore a Lui che ama tanto? Chi non abbraccerebbe uno sposo sì casto? Ah dunque, per quanto è possibile, rendiamo amore per amore; abbracciamo il nostro caro ferito…. e preghiamo perché stringa con i lacci dell’amor suo il nostro cuore ancor duro e impenitente e lo trapassi: con un dardo amore » (Vitis mistica, c. III, loc. cit, p. 163-164. Testo un po’ diverso in Migne, P. L.) t: CLXXXIV, col. 141-144). Questo testo ci esprime ben chiaramente la: divozione al sacro Cuore, Vi si trova tutto: il doppio oggetto nell’unità del simbolismo, il fine, lo spirito, l’atto proprio, molti atti della divozione. Ancorché la vigna mistica non fosse di san Bonaventura, troviamo però sempre nelle opere che sono certamente sue delle tracce della divozione al sacro Cuore. Così nel capitolo VI del libro della vita perfetta, egli raccomanda all’anima religiosa, con termini molto penetranti, di fortificare la sua divozione meditando la Passione e attingendo le acque della grazia alle sorgenti di Cristo, vale a dire alle sue piaghe: « Va dunque, le dice, vai dal cuore a Gesù ferito, a Gesù coronato di spine, a Gesù confitto in croce; e col beato Tommaso non guardar solamente le tracce dei chiodi nelle sue mani, non metter solamente la mano tua nel suo costato, ma entra tutta intiera per la porta di quel costato, sino al cuore stesso di Gesù, e trasformati in Gesù Cristo per l’ardente-amore del crocefisso » (De perfectione vitæ ad sorores. Opera t. XII, Parigi 1868, p. 221). – Nella Vigna mistica esiste la divozione, ma gli esercizî sono appena accennati. Nelle opere di santa Gertrude (morta nel 1298) e in quelle di santa Mechtilde (morta nel 1302) troviamo la divozione vivente e, per così dire, in atto in una quantità di esercizî e nei rapporti più famigliari con Gesù. – Mechtilde, dietro invito di Gesù stesso, entra nel sacro Cuore per riposarsi (Libro della grazia speciale, traduzione francese, Parigi 1838, lib. CXVII, 183. Rimando alla traduzione francese, ma traduco io stesso sul testo latino). Gesù le dà il suo Cuore in pegno di una eterna alleanza (Loc. cit. lib. XX, p. 89, 1. I, c. XIX, p. 187), ed ella gli parla come all’amico più tenero. Un giorno le sembrò che il Maestro le prendesse « il cuore dell’anima sua » e lo stringesse col suo per modo da non far più che udì cuore solo (Loc. cit., lib. III, c. XXVII, p. 233.); e un altro giorno le insegnò come si deve chiedere al suo cuore, tutto quello di cui si ha bisogno, « come un figlio che domanda al padre suo tutto quello che ama (Loc. cit., lib. IV, c. XXVIII, p. 339). – Mechtilde gli parla; fa delle conversazioni con Lui; lo saluta la mattina; lo saluta la sera. Un giorno che ella teme essere stata negligente verso la Santa Vergine, Nostro Signore le dice di venir d’ora innanzi ad attingere nel suo cuore tutto quello che vorrebbe offrire a Maria (Loc. cit., lib. I, c. XLVI, p. 159). In questi intimi rapporti, la sua divozione al sacro Cuore. cresceva sempre; e quasi ogni volta che il Signore le si mostrava, ne riceveva qualche grazia (Loc. cit., lib. II, c. IX, p. 187). Si faceva Egli stesso suo maestro. Ammessa un giorno a riposare sul petto del suo diletto, ella sentì sensibilmente nelle profondità del cuore divino come tre battiti accentuati, e Gesù medesimo volle spiegarlene il simbolismo (Loc. cit., lib. I, c. XX, p. 189). – In una parola, ella stessa asseriva «che se si dovessero scrivere tutti i benefizi che ha ricevuto dal cuore amatissimo di Dio, se ne, farebbe un libro più voluminoso di quello del Mattutino » (Loc. cit., lib. II, c. XIX, p. 188). – Con santa Gertrude si entra forse anche più avanti nel mondo delle relazioni più intime fra l’anima e il sacro Cuore con invenzioni reciproche squisite dell’amore più ingegnoso e più delicato (Vedi: Cros, Le coeur de sainte Gertrude, ou: Un coeur selon le Coeur de Jésus, Tolosa, terza edizione, Paris, 1901, p.165 ecc.). Il libro dove son consegnate queste rivelazioni è veramente «l’araldo della tenerezza divina ». « Legatus divinæ pietatis ». Gertrude, come dice il suo editore benedettino, « sembra costituita profetessa dell’amor divino per gli ultimi tempi » (Révélations de sainte Gertrude, Paris, 1878, Prefazione, p. XV. Cf.: G. Ledos, sainte Gertrude, 3. ediz. Paris, 1901, p. 165 e ss.).  E questo amore divino si personifica per lei nel sacro Cuore. Ella ebbe « per missione di rivelare lo scopo e l’azione del divin Cuore nell’economia della gloria divina e della santificazione delle anime ». E, fatte le debite proporzioni, si può ripetere la stessa cosa di santa Mechtilde. Non si può paragonare, a questo riguardo, che alla beata Margherita Maria. Ecco come l’editore benedettino riassume le manifestazioni del sacro Cuore a Gertrude; il riassunto converrebbe quasi testualmente anche a santa Mechtilde. « Ora il cuore divino le appariva come un tesoro, ove sono riunite tutte le ricchezze; ora come una lira tocca dallo Spirito Santo al suono della quale si rallegrano la SS.ma Trinità e tutta la corte celeste. Poi è una sorgente abbondante le cui acque vanno a portar refrigerio alle anime del Purgatorio, grazie fortificanti che militano sulla terra, e quei torrenti di delizie in cui s’inebriano gli eletti della Gerusalemme celeste. Come un incensiere d’oro da cui s’innalzano tanti profumi d’incenso quante sono le razze umane, per le quali il Salvatore ha offerto la morte di croce. Un’altra volta è un altare su cui i fedeli depongono le loro offerte; gli eletti i loro omaggi; gli angioli le loro adorazioni, e su cui l’ eterno Sacerdote s’immola. È una lampada sospesa fra il cielo e la terra; è una coppa a cui si dissetano i santi, ma non gli angioli, che pur ne risentono l’effetto delizioso. È là che la preghiera del Signore, il Pater noster, è stata concepita ed elaborata….  È quel Cuore divino, che supplisce a tutte le negligenze nostre, nel rendere l’omaggio dovuto a Dio, alla S.ta Vergine e ai santi. Per soddisfare a tutti i nostri obblighi questo sacro Cuore si fa nostro servo, nostra cauzione; in lui solo le nostre opere ricevono quella perfezione, quella nobiltà che le rende gradite agli occhi della divina maestà; è da Lui che scorrono e possono discendere sulla terra. Infine è la dimora soave, il santuario sacro che si dischiude alle anime al loro partire dalla terra, affinché possano rimanervi sempre nelle ineffabili delizie della eternità (Loc. cit, p. XVIII. Vedere: L’indice delle persone e delle cose alla parola cuore.). – Mechtilde e Gertrude hanno avuto proprio il pensiero del cuore di carne? Sì, senza dubbio. Ma esso è come nobilitato nel simbolismo dell’amore; esso si perde, per così dire, nell’irradiamento luminoso della Persona di Gesù. Nella Vigna mistica la divozione si attacca alla piaga del costato. Qui va al cuore, per tutte le vie, e lo ritrova sempre glorioso e vivente. È anzi questo irradiamento di gloria e di gioia che mi sembra differenziare in gran parte la divozione che si rivela in Mechtilde e in Gertrude, da quella che ci si presenta in Margherita Maria. Non già che anche in questa non apparisca così gloriosa e raggiante, ma l’idea dell’amore che non è amato, dell’amore, che se non soffre più, ha però tanto sofferto, attrista quasi sempre il cielo della veggente di Paray. A Helfta siamo quasi sempre sotto un cielo luminoso di gioia e di gloria; il sacro Cuore vi si mostra amante e glorioso e lo vediamo deliziosamente amato; il culto del sacro Cuore vi respira, per così dire, da una parte e dall’altra, la gioia dell’amore felice. Si è notato che questo aspetto del Cristo glorioso e trionfante è quello in cui si compiace l’arte del XIII secolo; la croce stessa vi è come un trono. – Non ho ancor detto nulla della celebre visione in cui Gertrude ebbe come l’intuizione del divino disegno sul culto del sacro Cuore. Questa visione merita un’attenzione speciale. Fa epoca nella storia della divozione, al di fuori e accanto allo sviluppo che ha nella vita delle nostre due sante. Ebbe luogo, come più tardi la prima grande visione di Margherita Maria; nella festa di san Giovanni Evangelista, a mattutino. « Mentre ella era immersa, secondo il suo solito, nella divozione, il discepolo che Gesù amava tanto, e che deve essere perciò, amato da tutti, le apparve colmandola di mille testimonianze di amicizia. Essa gli chiese: « Qual grazia potrei io ottenere, io miserabile, nella vostra dolcissima festa? » Egli rispose: « Vieni con me; tu sei l’eletta del mio Signore, riposiamo insieme sul dolce petto del Signore, dove son nascosti i tesori d’ogni beatitudine ». E, prendendola con sé, la condusse presso il nostro tenero Salvatore, la collocò alla destra e si ritrasse per prender posto alla sinistra, E, mentre riposavano ambedue (Nel XIII secolo si poneva ancora la piaga al costato destro ordinariamente), con gran soavità, sul petto del Signore Gesù, il beato Giovanni toccando col dito, con rispettosa tenerezza, il petto del Signore, disse: « Ecco il santo dei santi che attira a sé tutti i beni del cielo e della terra » (L. IV, c. IV, t. II, p. 26, Parigi, 1878). San Giovanni spiega poi a Gertrude perché l’abbia messa alla destra, dalla parte della ferita, mentre prendeva per sé la sinistra. « Divenuto uno stesso Spirito con Dio, io posso penetrare sottilmente dove la carne non lo potrebbe. Ho dunque scelto per me la parte chiusa del costato. Ma tu che vivi ancora, della vita terrestre, tu non potresti, come me, penetrar nell’interno. Ti ho dunque posta all’apertura del Cuore divino, affinché tu possa ritrarne, con maggior facilità, la dolcezza e la consolazione che nella sua effervescenza continua, l’amor divino spande con impetuosità, su tutti quelli che lo desiderano » (Loc, cit.; p. 27). Come era possibile rappresentar meglio e la necessità di un oggetto sensibile per la nostra divozione e la relazione che ha con la divozione al sacro Cuore la vista del costato. aperto? – Ma non è questa che la prima parte della scena. « Siccome ella (la santa) provava un godimento ineffabile, alle pulsazioni santissime che facevano battere il Cuore divino, senza interruzione, disse a san Giovanni: Non sentiste voi forse, o prediletto di Dio, non sentiste l’incanto di questi palpiti soavi che hanno ora per me così gran dolcezza, quando riposavate alla cena, su questo seno benedetto? ,,. Egli rispose: « Confesso che le provai e riprovai, e la soavità ne impregnò l’anima mia come il dolce idromèle impregna, con la sua dolcezza, un boccone di pane fresco; di più l’anima mia ne rimase così infiammata, come lo diviene una caldaia bollente posta su di un fuoco ardente » (loc, cit. p. 27). Ecco la seconda fase della grande manifestazione. Il divin Cuore batte d’amore, e l’anima che sente questi battiti ne è insieme e rapita ed accesa. Di più la divozione è riallacciata al passato, con la divozione stessa dell’Evangelista dell’amore, che, secondo la parola liturgica « bevve alla sacra sorgente del Cuore divino, le acque che scaturiscono dal Vangelo ». – La terza fase della scena, riguarda l’economia provvidenziale. « Ella riprese: Perché dunque avete conservato su tutto questo un silenzio così assoluto, e non avete scritto cosa alcuna che lo potesse far conoscere, ciò che sarebbe pur stato di profitto per le anime nostre? ,,. Egli rispose: « La mia missione era di presentare alla Chiesa primitiva una semplice parola sul Verbo incarnato di Dio Padre, che fosse capace di soddisfare sino alla fine dei secoli l’intelligenza della razza umana tutta intiera, senza che almeno, per altro, pervenisse mai a comprenderla pienamente. Ma è stato riservato ai tempi attuali il dire la soavità di quelle pulsazioni, affinché udendo queste cose, si riscaldi il mondo che invecchia e che si raffredda nell’amore,, (Loc. cit., p. 28) ». Non è forse vero che qui si ritrova tutta la divozione, nella sua sostanza e nella sua storia? Questa sola pagina, basterebbe a metter Gertrude molto vicina a Margherita Maria, e, se non è stata scelta, per essere direttamente l’Apostolo del sacro Cuore, né per propagarne il culto, ne è stata però il poeta squisito e l’amante gioiosa.

FESTA DELLA TRASFIGURAZIONE DI N. S. GESÙ CRISTO (2021)

FESTA DELLA TRASFIGURAZIONE DI N. S. GESÙ CRISTO (2021)

Doppio di 2^ classe – Paramenti bianchi.

La festa della Trasfigurazione di Gesù era da molto tempo celebrata il 6 agosto in diverse chiese d’Oriente e d’Occidente. Per commemorare la vittoria che arrestò, presso Belgrado, nel 1457, la marea invadente dell’Islamismo, e di cui giunse notizia a Roma precisamente il 6 agosto, Callisto III estese questa solennità a tutta la Chiesa. Pio IX l’innalzò al grado di doppio di II classe.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXVI:19
Illuxérunt coruscatiónes tuæ orbi terræ: commóta est et contrémuit terra.
Ps LXXXIII:2-3

[I lampi sfolgoravano sul mondo, e la terra si è scossa ed ha tremato].


Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit, et déficit ánima mea in átria Dómini.

[Quanto amabili sono le tue dimore, o Signore degli eserciti! L’anima mia spasima ed anela verso il tempio del Signore.]


Illuxérunt coruscatiónes tuæ orbi terræ: commóta est et contrémuit terra.

[I lampi sfolgoravano sul mondo, e la terra si è scossa ed ha tremato].

Oratio

Orémus.

Deus, qui fídei sacraménta in Unigéniti tui gloriósa Transfiguratióne patrum testimónio roborásti, et adoptiónem filiórum perféctam, voce delápsa in nube lúcida, mirabíliter præsignásti: concéde propítius; ut ipsíus Regis glóriæ nos coherédes effícias, et ejúsdem glóriæ tríbuas esse consórtes.

[O Dio, che nella gloriosa trasfigurazione del tuo unico Figlio hai confermato i misteri della fede con la testimonianza dei profeti; e hai mirabilmente preannunciato, con la voce uscita dalla nube luminosa, la nostra definitiva adozione a tuoi figli: concedi a noi di diventare coeredi del re della gloria e partecipi del suo trionfo.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli
2 Petri 1:16-19
Caríssimi: Non doctas fábulas secúti notam fecimus vobis Dómini nostri Jesu Christi virtútem et præséntiam: sed speculatores facti illíus magnitudinis. Accipiens enim a Deo Patre honórem et glóriam, voce delapsa ad eum hujuscemodi a magnifica glória: Hic est Fílius meus diléctus, in quo mihi complacui, ipsum audíte. Et hanc vocem nos audivimus de cœlo allatam, cum essemus cum ipso in monte sancto. Et habémus firmiórem propheticum sermónem: cui bene facitis attendentes, quasi lucérnæ lucénti in caliginóso loco, donec dies elucescat et lucifer oriátur in córdibus vestris.

 [Carissimi, noi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non seguendo favole ingegnose, ma dopo aver visto con i nostri occhi la sua grandezza. Egli, infatti, ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando dalla gloria maestosa discese a lui una voce: «Questo è il mio figlio diletto, nel quale ho posto la ·mia compiacenza: ascoltatelo». Questa voce noi l’abbiamo udita venire dal cielo, quando eravamo insieme con lui sul santo monte. Così, manteniamo più ferma la parola dei profeti, alla quale voi fate bene a prestare attenzione, volgendovi come ad una lampada che risplenda in un luogo tenebroso: finché spunti il giorno, e la stella del mattino sorga nei vostri cuori.]

Graduale

Ps XLIV:3;2
Speciosus forma præ fíliis hóminum: diffúsa est grátia in lábiis tuis.
V. Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi. Allelúja, allelúja
[Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, la grazia è riversata sopra le tue labbra.
V. Il mio cuore vibra un piacevole motivo, io recito a un re la mia composizione. Alleluia, alleluia.]

Eccli VII:26
Candor est lucis ætérnæ, spéculum sine mácula, et imago bonitátis illíus. Allelúja.

[Egli è splendore della luce eterna, egli è specchio senza macchia e immagine della divina bontà. Alleluia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Matthǽum
Matt XVII:1-9
In illo témpore: Assúmpsit Jesus Petrum, et Jacóbum, et Joánnem fratrem ejus, et duxit illos in montem excélsum seórsum: et transfigurátus est ante eos. Et resplénduit fácies ejus sicut sol: vestiménta autem ejus facta sunt alba sicut nix. Et ecce, apparuérunt illis Moyses et Elías cum eo loquéntes. Respóndens autem Petrus, dixit ad Jesum: Dómine, bonum est nos hic esse: si vis, faciámus hic tria tabernácula, tibi unum, Móysi unum et Elíæ unum. Adhuc eo loquénte, ecce, nubes lúcida obumbrávit eos. Et ecce vox de nube, dicens: Hic est Fílius meus diléctus, in quo mihi bene complácui: ipsum audíte. Et audiéntes discípuli, cecidérunt in fáciem suam, et timuérunt valde. Et accéssit Jesus, et tétigit eos, dixítque eis: Surgite, et nolíte timére. Levántes autem óculos suos, néminem vidérunt nisi solum Jesum. Et descendéntibus illis de monte, præcépit eis Jesus, dicens: Némini dixéritis visiónem, donec Fílius hóminis a mórtuis resúrgat.

[In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse in disparte, su un alto monte; e, davanti a loro, si trasfigurò. II suo volto si fece splendente come il sole, le sue vesti divennero candide come la neve. Ed ecco, apparvero Mosè ed Ella, in colloquio con lui. Pietro allora, prendendo la parola, disse a Gesù: «Signore, è bene per noi stare qui. Se vuoi, facciamo qui tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia». Mentr’egli ancora parlava, ecco una nube luminosa li avvolse, e una voce dalla nube disse: «Questo è il mio Figlio diletto, nel quale ho riposto la mia compiacenza: ascoltatelo». A questa voce, i discepoli caddero faccia a terra, e furon presi da grande spavento. Ma Gesù si accostò a loro, li toccò e disse: «Alzatevi e non abbiate timore». Ed essi, alzati gli occhi, non videro più alcuno, all’infuori di Gesù. Mentre scendevano dal monte, Gesù diede loro quest’ordine: «Non fate parola ad alcuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo sia risorto dai morti».]

OMELIA

[F. M. Zoppi: Omelie, panegirici e sermoni;; t. III – Milano 1863 ; Imprim. 17 sett. 1841]

SCOPO DELLA TRASFIGURAZIONE DI GESÙ CRISTO E FIDUCIA CH’ELLA DEVE DESTARE IN NOI.

Grandi ed utilissimi misteri oggi ci porge a meditare la Chiesa, festeggiando la trasfigurazione di nostro Signor Gesù Cristo sul monte Tabor, e a ben comprenderli giova; o dilettissimi, che prendiamo la cosa un po’ da lontano. Stabilendo Gesù Cristo quella fede che richiama gli empj alla giustizia e i morti alla vita, dice il pontefice s. Leone, tutto dirigeva e la sua dottrina e i suoi miracoli a far credere a’ suoi discepoli ch’Egli era ad un tempo e l’Unigenito di Dio ed il Figliuolo dell’uomo, perché una cosa senza dell’altra non giovava alla salute. Quindi o volesse confermarli in questa fede salutevolissima, o volesse indagar quale opinione avessero di lui, come se non iscorgesse l’animo loro, già li aveva interrogati così: Chi dicono gli uomini ch’io mi sia? — Gli uni dicono, risposero essi schiettamente, che voi siete Giovanni Battista, altri Geremia, altri uno degli antichi profeti risorto. — Ma e voi, soggiunse Egli, chi dite voi ch’io sia? — E fu allora che l’Apostolo il più zelante della gloria di lui, quegli che avea ad essere il primo e il capo gli Apostoli e di tutti i seguaci di Gesù Cristo e per la bocca e sulla cattedra del quale avea a parlare a tutti lo Spirito Santo, voglio dire s. Pietro, diede la sempre memorabile risposta: Voi siete il Messia, il Figliuolo di Dio vivente. – Qual poteva Gesù Cristo aspettarsi testimonianza più chiara, qual più gloriosa confessione? Ben gli manifestò Egli perciò tosto la sua piena compiacenza, e lo ricompensò ben largamente, dicendogli, Te beato, o Simone, te beato, cui non la carne e il sangue, ma il mio Padre celeste diede questi lumi divini: tu sarai la pietra immobile sulla quale fabbricherò la mia Chiesa, e contro di cui tutti gli sforzi dell’inferno saranno sempre vani; tu ne sarai il capo, tu sarai sulla terra l’arbitro de’ poteri del cielo. Ma non così avevasi a credere glorificata in Cristo l’umana natura, che soggetto fosse a supplicio e morte. Non potendo perciò Gesù Cristo tacergli quanto di triste gli stava per accadere, “sono, gli disse, sono sì il Messia, il Figliuolo di Dio vivente, e Dio io stesso; ma per la salvezza degli uomini, conviene che fra poco io vada a Gerosolima, che vi soffra molto per parte de senatori,  de principi dei sacerdoti e degli scribi, che vi sia messo a  morte, e da morte risorga il terzo dì. Ma ahimè! che a siffatto annunzio pare che non regga la fede ancor bambina di Pietro. Caldo egli della testimonianza resa al Figliuol di Dio, reputa cosa santa il rigettare ogni idea di supplicio, d’ignominia e di morte, liberamente e così fermamente che conviene che Gesù Cristo lo corregga dolcemente, che lo esorti a partecipare della sua passione, che lo incoraggi a dare per Lui anco la vita. Ma come sostenere se stesso ed anche i suoi compagni in questa fede e in questa fortezza d’animo, sicché non abbiano né ad arrossire né a temere della croce del loro Maestro? Qua appunto ‘mira, come vi dimostrerò la prodigiosa di Lui trasformazione, e qua ne sia diretta l’odierna nostra considerazione. – Come avea Gesù sin da prima promesso ai suoi discepoli, che alcuni di loro non sarebbero morti se prima non lo  avessero veduto pieno di maestà e di celeste splendore; così  non passarono che sei giorni, e ne compì la promessa sopra quanto avrebbero essi potuto immaginare. Presi seco i tre suoi discepoli favoriti, Pietro, Giacomo e Giovanni di lui fratello, li condusse in disparte su di un’alta montagna: et post dies sex assumpsit Jesus Petrum et Jacobum et Joannem, fratrem ejus, et duxit illos in montem excelsum seorsum. Si mise colà a pregare, e nel fervore della su: orazione si trasfigurò alla loro presenza, Et trasfiguratus est ante eos, scoprendo così la sua gloria sul monte Tabor a coloro che sul monte degli ulivi dovevano ben presto vedere i suoi languori e le sue ignominie. – Svela Egli pertanto a questi eletti testimoni la sua gloria, e quel suo corpo, che nella forma era affatto comune agli altri, lo veste e circonda di tanta luce, che ne appare visibilmente l’anima sua beata e divina. Compare Egli tutt’ad un tratto non più semplice uomo, ma Uomo-Dio; Tutt’altra da quella di prima è l’aria del suo volto; pare che nulla più in esso si scorga di terreno e di mortale: risplende come il sole e sparge d’ogni intorno vivissimi raggi di luce incantatrice; splendongli pure in dosso le vesti; e candide divengono al pari di neve, e candide sì, come dice s, Marco, che più candide tinger non le saprebbe arte qualunque; e il vago intreccio di sì tersa luce e di sì bel candore rapisce dolcemente, e immobili tiene gli sguardi degli avventurati Apostoli ammiratori: Et resplenduit facies ejus sicut sol, vestimenta autem ejus facta sunt alba sicut nix. Oh la grande, l’ammirabile sapienza del divin Redentore! – Apostoli prediletti, che dite ora del vostro Maestro alla vista di tante maraviglie? potete voi non iscorgere in Lui chiaramente la divinità? Che ne direte un giorno? potrete voi non rammentarvi tanto splendore e tanta gloria, quando il vedrete fra le angosce e gli obbrobri, sotto i colpi de’ nemici, in braccio alla morte? Ecco dunque lo scopo grande, a cui il divin Redentore indirizzò principalmente il mistero che celebriamo. Si trasfigurò Egli principalmente, dice il nostro Sommo Pontefice, per togliere dagli animi de’ suoi discepoli un’occasione di scandalo per la sua croce, e discoprendo loro in adesso l’eccellenza della nascosta sua dignità, impedì che in allora non venisse turbata la loro fede dall’umiliazione della volontaria sua passione: Ut de cordibus discipulorum crucis scandalum tolleretur, nec conturbaret eorum fidem voluntariæ humilitas passionis, quibus revelata esset absconditæ excellentia dignitatis. – Che se per sì saggia maniera Gesù Cristo confermò la fede nei suoi Apostoli, con non minore provvidenza, prosegue a dire il santo Pontefice, stabilì e sostiene la speranza della santa Chiesa. Perocché tutto il Corpo mistico di lei da qui deve conoscere in quale splendido e glorioso stato sarà trasmutato un giorno. Da qui ogni membro di questo Corpo ha a promettersi che un giorno avrà parte a quell’onore, onde già risplendette il suo Capo. E per verità, quando Gesù Cristo parla della maestà onde tornerà a venire, parla pure della gloria a cui saranno elevati i suoi membri fedeli: Risplenderanno in allora i giusti, Egli dice, al pari del sole nel regno di mio Padre: Tunc justi fulgebunt sicut sol in regno Patris mei. Quale argomento, o miei dilettissimi, perché non prendiamo mai scandalo veruno dalla croce di Gesù Cristo? Quale stimolo anzi a sostenere con fermezza d’anima per Lui ogni disprezzo; ogni obbrobrio o pena, a portare noi pure la croce di Lui? Che paragone v’è tra tutto ciò che noi possiamo patire in questo mondo e la gloria futura che si manifesterà in noi? Io credo che non ve ne abbia alcuno, dice il grande Apostolo:. Eristimo quod non sunt condignæ passiones hujus temporis ad futura gloriam quæ revelabitur in nobis. Che cosa ci deve perciò importare se qui viviamo nell’oscurità e nell’abiezione, se siamo contati per nulla? abbiamo anzi a reputarci perciò fortunati. Perocché voi avete a riguardarvi qui come se foste morti, dice lo stesso Apostolo, e la vostra vita dev’essere nascosta in Dio con Gesù Cristo; quando poi Cristo, che è la vera vita, tornerà a comparire, allora voi pure comparirete con Lui nella gloria: Mortui estis, et vita vestra ascondita est cum Christo in Deo: cum Christo  apparuerit, vita vestra, tunc et vos apparebitis cum illo in gloria. – Ma a meglio confermare gli animi degli Apostoli e a levarli ad ogni cognizione più sublime, così continua a flettere sull’odierno mistero il grande s. Leone, s’aggiungono sul monte Tabor le meraviglie alle meraviglie. Non è Gesù solo che colà compaia trasformato e tutto luminoso di gloria; ma con lui compaiono due uomini investiti dello stesso splendore della sua gloria, e stanno seco Lui ragionando: e l’uno è Mosè, il gran legislatore dei Giudei, l’altro è Elia, l’antico padre de profeti: Et ecce apparuerunt illis Moyses et Elias cu meo loquentes. Attoniti gli Apostoli veggono questi venerandi personaggi rendere omaggio al loro Maestro; conoscono ch’essi ravvisano e adorano il Lui il fine della legge e dei Profeti, la verità che succede alle ombre ed alle figure; il compimento d’ogni promessa e predizione; li ascoltano parlare con Lui, e di che mai? Della morte di Lui, dice s. Luca, ch’era per avvenire in Gerusalemme, di quella morte che aveva a compiere i voleri del divin Padre, a recare la salute a tutti gli uomini, ad essere il fine di d’ogni legge e profezia: et dicebant excessum ejiu, quem completurus erat in Jerusalem.  – Che cosa v’ha di più sodo: e di più fermo di questo linguaggio, soggiunge il santo Pontefice, nel quale s’accorda il nuovo col vecchio testamento, l’antica legge col Vangelo? E quello che sotto il velo de’ misteri era promesso in figura, si rende manifesto e chiaro dallo splendore della presente gloria, perché, siccome disse s. Giovanni, la legge è stata data da Mosè, la grazia e la verità venne recata da Gesù. Cristo, ne quale si compie e la promessa delle profetiche figure, e la ragione dei legali precetti; mentre Egli e colla sua presenza dimostra la verità della profezia, e colla sua grazia rende praticabili i precetti: Diem et veram docet prophetiam per sui praesentiam, et possibilia facit mandata per gratiam. Qual prova più grande della divinità di Cristo! quanta forza deve quindi prendere la fede degli Apostoli in ogni cimento! Quanta fermezza il loro coraggio in ogni prova! quanta lena il loro zelo per compiere l’opera del loro Maestro! lo vedranno confuso tra i malfattori, lo vedranno crocifisso tra due ladri sul Calvario; ma si rammenteranno d’averlo veduto tutto risplendente di gloria fra il primo de’ legislatori e il più antico dei profeti sul monte Tabor. È se tanto basta a sostenere la fede, ad animare il coraggio, ad impegnare lo zelo degli Apostoli, noi che siamo nella piena luce della verità, posti. A qualche cimento o a qualche prova, avremo noi rossore di confessare Gesù Cristo ed il suo Vangelo? –  Ma il giocondo e meraviglioso spettacolo che si presenta agli occhi degli Apostoli favoriti sul Tabor, non è soltanto la prova della divinità di Gesù Cristo, che li preserva dallo scandalo della croce; è altresì un raggio di quella gloria che formerà il premio de’ servi fedeli di Lui nel paradiso. E perciò l’apostolo s. Pietro, tutto preso e mosso da queste dolcissime rivelazioni già sprezza il mondo, prosegue a dire il santo Pontefice, già nausea ogni cosa di questa terra, e sentesi tutto rapire da vivissimo desiderio. delle cose eterne, e pieno della celeste visione, ivi brama restarsene con Gesù, ove tutto il rallegra la manifesta gloria di Lui. Seguendo perciò il primo impeto del vivace e fervido suo spirito, « Signore – egli grida, quasi uomo tutto trasportato in estasi di gioja – Signore, oh quanto bene ce ne stiamo qui! dovremmo rimanercene per sempre: consentite che qui innalziamo tre tende: l’una per voi, l’altra per Mosè, la terza per Elia: Domine, bonum est nos hic esse: si vis faciamus hic tria tabernacula: tibi unum, Moysi unun et Eliæ unum. – Ah miei dilettissimi, se un raggio solo della gloria e della maestà del Figliuolo di Dio rapisce d’ammirazione e ricolma d’una gioja sì pura, sì squisita, sì pien coloro che hanno la sorte d’esserne testimonj, che ne deve essere in Paradiso, ove vedesi Dio faccia a faccia, nella pienezza della sua maestà e della sua gloria? Se Pietro è tutto fuori di se stesso  per aver assaporata una piccolissima goccia delle beatifiche dolcezze del cielo sul monte Tabor, che ne sarà di quel torrente di delizie onde saranno. Inondati gli eletti nella sua città? Comprendete da qui, o miei cari, perché la speranza della gloria del Paradiso abbia potuto sostenere i Santi nelle  fatiche più gravi, nelle più severe austerità di questa vita e renderli contenti e felici in mezzo al vilipendio, alle persecuzioni, ad ogni sorta di guai. Eh torna bene a conto soffrir cosa qualunque per conseguire questa gloria, ed essere per sempre con Gesù Cristo su quella beata montagna, ove sparge senza misura sopra i Santi i suoi favori. – Qual proporzione, io torno a dirvi con l’Apostolo, tra tutte le afflizioni ed i mali di questa vita e la gloria e la felicità futura? Che stoltezza adunque il non curare questa gloria e questa felicità piena, la cui minima parte basta ad inebriare ad inebriare lo spirito di celeste soavità, e merita di essere preferita ad ogni vanagloria del mondo, e a quanti piaceri languidi e vuoti si possono qui provare? Qui, dissi, ove i beni turbano lo spirito al pari dei mali, ove non si sa se più tranquillo sia il poverello oppure il ricco, l’onorato o l’abietto; o se più disgustano i piaceri o i dolori, i casi prosperi ovvero gli avversi. No, miei cari, non è che in Paradiso ove non v’abbia né male né turbamento né pena, ove la pace sia pura e piena; non v’ha  che lassù, ove dir si possa con Pietro: Egli è bene per noi lo starcene qui: Bonum est nos hic esse. – Se non che, lasciandosi Pietro trasportare dalla piena delle consolazione, ond’era inondato il suo cuore, non sapeva che cosa sì dicesse, dice s. Marco. non perché fosse cattivo il desiderio di lui, come riflette s. Leone, ma perché era fuori di ordine. Egli bramava la felicità fuori di luogo, non essendo la terra il luogo del godimento; la bramava innanzi tempo, non potendosi salvare il mondo, se non per la morte di Cristo; e dovendo precedere per tutti il merito al premio, tutti dovevano prima dimostrare la loro fede col seguire l’empio del loro Signore. No, non v’ha ragione alcuna di dubitare della promessa dell’eterna beatitudine, continua a dire il santo Pontefice, ma fra le tentazioni di questa vita fa d’uopo dimandar la pazienza prima della gloria, perché la felicità di regnare non può prevenite il tempo di patire: Quia tempora patiendi non potest felicitis prævenire regnandi. – Epperò Gesù Cristo, invece di rispondere all’ardente domanda di Pietro, con altro stupendo miracolo rassoda la fede di lui, de’ suoi compagni e di tutti i Cristiani contro lo scandalo della sua croce; e a tatti insegna il grande, l’unico mezzo onde si consegue la sua gloria. Parlava Pietro ancora, quand’ecco, scesa dal cielo luminosa nube, investe e seco avvolge Mosè, Elia è Gesù, e li nasconde allo sguardo degli attoniti Apostoli spettatori; ed ecco che dalla nube essa sorte una chiara voce e divina che alto grida, Questi è il mio Figliuolo diletto, nel quale mi sono compiaciuto: tutto ciò ch’Io amo, lo amo per Lui: Lui ascoltate: non ascoltate altri in fuori di Lui: ascoltatelo come vostro Maestro; obbeditegli come vostro Re: Adhuc eo loquente, ecce nubés lucida obumbravit eos: Et ecce vox de nube dicens, Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi bene complacui: ipsim audite. All’udire di questa vote; furono talmente percossi gli Apostoli, che caddero col viso contro terra; ed ebbero gran paura, e non temettero solo dalla maestà del Padre, ma quella pur anco del Figlio; come riflette san Leone, avendo essi per alto sentimento compreso, che l’uno e l’altro sono un Dio solo, e perché non vi fu esitanza nel credere, perciò non vi fu distinzione nel temere: Altiori enim sensu unam utriusque intellexerunt deitatem; et quia in fide non erat hæsitatio, non fuit in timore discretio. E da quel punto sparì dal monte ogni splendore, ogni gloria; e restò solo Gesù il quale, dopo aver rialzati e confortati gli Apostoli, scendendo dal monte comandò loro di non dire a chicchessia quanto avevano veduto colà, prima ch’egli fosse risorto da morte. –  Ben ampia e molteplice fu dunque la testimonianza data qui alla divinità di Cristo, così soggiunge il santo Pontefice, di cui vi ho resi sin qui i sentimenti, ma d’ora innanzi vi renderò le parole stesse; tanto sono acconce al nostro proposito e piene di celeste dottrina: ben ampia; io dissi, e molteplice ne fu la testimonianza, e più che dal suono della prodigiosa voce, si comprende dalla virtù delle parole divine! Perocché, dicendo il Padre; Questi è l’amato mio Figliuolo, questi l’oggetto di tutte le mie compiacenze; ascoltatelo; ben si scorge ad evidenza, ch’Egli vuol dire, Questi è l’amato mio Figliuolo, che viene da me e meco si trova senza conoscer tempo, non esistendo il genitore prima del generato, né il generato dopo del genitore: questi è l’amato mio Figliuolo, che non divide da me né la divinità né la podestà né l’eternità; Figliuolo non adottivo; ma proprio; non d’altronde creato, ma generato da me; non d’altra natura reso simile a me, ma nato dalla mia essenza e a me eguale: questo è l’amato mio Figliuolo, da cui sono tutte le cose, e senza di cui non v’ha cosa alcuna, perché tutto ciò ch’Io faccio, lo fa Egli pure, tutto ciò ch’Io opero, Egli pure l’opera meco inseparabilmente e senza differenza alcuna, essendo il Padre nel Figlio, e nel Figlio il Padre, né mai dividendosi la nostra unità: questo è l’amato mio Figliuolo, che non riputò rapina né per usurpazione presunse d’essermi eguale, ma per eseguire il comune disegno di redimere il genere umano, conservandosi nella forma della mia gloria abbassò l’incommutabile divinità sino alla forma di servo. Costui adunque, nel quale Io mi compiaccio per ogni cosa, per la predicazione del quale Io sarò conosciuto, e per le umiliazioni glorificato; Costui ascoltate sempre, perché Egli è la verità e la vita; Egli la mia forza e la mia sapienza: ascoltatelo, ch’Egli è Colui che fu preannunciato dai misteri della legge e predetto dalle bocche dei Profeti: ascoltatelo, ch’Egli è Colui che redime il mondo col suo sangue, incatena il demonio e gli toglie i vasi d’abbominazione, cancella il chirografo del peccato, rompe i patti della prevaricazione: ascoltatelo, ch’Egli è Colui che vi apre la strada al cielo, e col supplizio della sua croce vi prepara la scala onde ascendiate al regno della sua gloria. E che, temete d’essere redenti? Essendo feriti avete paura d’essere sanati? Facciasi ciò che, volendo Io, Cristo vuole: gettate via ogni timore carnale, ed armatevi di fede e di costanza;. Perché ella è cosa indegna che temiate nella passione del Salvatore ciò che per la grazia di Lui non temerete in fine nemmeno in voi stessi: Fiat quod me volente vult Christus: abjicite carnalem formidinem, et fideli armate vos constantia; indignum est enim ut in Salvatoris passione timeatis, quod ipsius munere nec in fine vestro metuetis. – Ma queste cose, o dilettissimi, così chiudeva il gran: pontefice la sua omelia, queste cose non sono state dette solo a vantaggio di quei che le hanno ascoltate colle proprie loro orecchie; ma in que’ tre Apostoli favoriti, tutta la Chiesa imparò quanto essi hanno e veduto co’ loro occhi e udito co’ loro orecchi. Sia dunque ferma la fede: di tutti sopra i santi Vangeli, e nessuno arrossisca della croce di Cristo, per la quale è stato redento il mondo; né per ciò che non si passa al riposo se non per la fatica, né alla vita se non per la morte, nessuno o tema di patire per la giustizia, e diffidi della promessa retribuzione, dacché tutta la nostra debolezza se’ la. prese Colui, nella confessione e nell’amore del quale se noi siamo costanti e vinciamo ciò ch’Egli ha vinto e riceviamo ciò ch’Egli ha promesso. – A Lui dunque prestiamo orecchio e facciamo il sordo alle voci delle, passioni, che vorrebbero o raddolcirci o scemarci i precetti di Lui; a quelle della prudenza del secolo, che vorrebbe sottrarci da ogni prova; a quelle di certi maligni, che osano fingere la voce di Lui. Trattisi o di adempire il santo Vangelo o di soffrire dure prove, per Gesù Cristo, ci risuoni sempre agli orecchi la voce del divin Padre, Hic est Filius dilectus, in quo mihi bene complacui: Ipsum audite. Lui ascoltiamo, non ascoltiamo altri che Lui, e dove Egli parla, vada roba, umana riputazione, vita, ma Lui siu ascolti, si obbedisca a Lui: Ipsum audite.

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Ps CXI:3
Glória et divítiæ in domo ejus: et justítia ejus manet in sǽculum sǽculi, allelúja.


[I beni e l’abbondanza colmano la sua dimora, e la sua giustizia dura in eterno, alleluia.]

Secreta

Obláta, quǽsumus, Dómine, múnera gloriósa Unigéniti tui Transfiguratióne sanctífica: nosque a peccatórum máculis, splendóribus ipsíus illustratiónis emúnda.
[Santifica, Signore, queste offerte: con la gloriosa trasfigurazione del tuo unico Figlio, e con lo splendore della sua luce mondaci dalle macchie del peccato.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt XVII:9
Visiónem, quam vidístis, némini dixéritis, donec a mórtuis resúrgat Fílius hóminis.

[A nessuno farete parola di questa visione fino a quando il Figlio dell’Uomo non sia risorto dai morti]

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut sacrosáncta Fílii tui Transfiguratiónis mystéria, quæ sollemni celebrámus offício, purificáta mentis intellegéntia consequámur

[Concedi, o Dio onnipotente, che con interiore purezza di spirito, possiamo comprendere i sacrosanti misteri della trasfigurazione del tuo Figlio, che con solenne rito celebriamo.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (XV)

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (XV)

INTERPRETAZIONE DELL’APOCALISSE Che comprende LA STORIA DELLE SETTE ETÁ DELLA CHIESA CATTOLICA.

DEL VENERABILE SERVO DI DIO

BARTHÉLEMY HOLZHAUSER

RESTAURATORE DELLA DISCIPLINA ECCLESIASTICA IN GERMANIA,

OPERA TRADOTTA DAL LATINO E CONTINUATA DAL CANONICO DE WUILLERET,

PARIS, LIBRAIRIE DE LOUIS VIVÈS, ÉDITEUR RUE CASSETTE, 23 – 1856

LIBRO QUINTO

SUI CAPITOLI DIECI E UNDICI

Della grande consolazione della Chiesa latina nella sua sesta età, dopo l’estirpazione delle eresie. Della persecuzione dell’Anticristo e della settima e ultima tromba.

SEZIONE I.

SUL CAPITOLO X.

DELLA CONSOLAZIONE DELLA CHIESA LATINA, DELLA SUA FUTURA ESALTAZIONE E LA SUA ESTENSIONE.

§ I.

Della consolazione della Chiesa latina e della sua futura esaltazione nella sesta età.

CAPITOLO X – VERSETTI 1-11

Et vidi alium angelum fortem descendentem de cælo amictum nube, et iris in capite ejus, et facies ejus erat ut sol, et pedes ejus tamquam columnæ ignis: et habebat in manu sua libellum apertum: et posuit pedem suum dextrum super mare, sinistrum autem super terram: et clamavit voce magna, quemadmodum cum leo rugit. Et cum clamasset, locuta sunt septem tonitrua voces suas. Et cum locuta fuissent septem tonitrua voces suas, ego scripturus eram: et audivi vocem de cælo dicentem mihi: Signa quæ locuta sunt septem tonitrua: et noli ea scribere. Et angelus, quem vidi stantem super mare et super terram, levavit manum suam ad cælum: et juravit per viventem in sæcula sæculorum, qui creavit cælum, et ea quæ in eo sunt: et terram, et ea quæ in ea sunt: et mare, et ea quæ in eo sunt: Quia tempus non erit amplius: sed in diebus vocis septimi angeli, cum cæperit tuba canere, consummabitur mysterium Dei sicut evangelizavit per servos suos prophetas. Et audivi vocem de cælo iterum loquentem mecum, et dicentem: Vade, et accipe librum apertum de manu angeli stantis super mare, et super terram. Et abii ad angelum, dicens ei, ut daret mihi librum. Et dixit mihi: Accipe librum, et devora illum: et faciet amaricari ventrem tuum, sed in ore tuo erit dulce tamquam mel. Et accepi librum de manu angeli, et devoravi illum: et erat in ore meo tamquam mel dulce, et cum devorassem eum, amaricatus est venter meus: et dixit mihi: Oportet te iterum prophetare gentibus, et populis, et linguis, et regibus multis.

[E vidi un altro Angelo forte, che scendeva dal cielo, coperto d’una nuvola, ed aveva sul suo capo l’iride, e la sua faccia era come il sole, e i suoi piedi come colonne di fuoco: e aveva in mano un libriccino aperto: e posò il piede destro sul mare, e il sinistro sulla terra: e gridò a voce alta, come rugge un leone. E gridato ch’egli ebbe, i sette tuoni fecero intendere le loro voci. E quando i sette tuoni ebbero fatto intendere le loro voci, io stava per iscrivere: ma udii una voce dal cielo, che mi disse: Sigilla quello che hanno detto i sette tuoni, e non lo scrivere. E l’Angelo, che io vidi posare sul mare e sulla terra alzò al cielo la mano: e giurò per colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato il cielo e quanto vi è in esso: e la terra e quanto vi è in essa: e il mare e quanto vi è in esso, che non vi sarà più tempo: ma che nei giorni del parlare del settimo Angelo, quando comincerà a dar fiato alla tromba, sarà compito il mistero di Dio, conforme evangelizzò pei profeti suoi servi. E udii la voce dal cielo che di nuovo mi parlava, e diceva: Va, e piglia il libro aperto di mano dell’Angelo, che posa sul mare e sulla terra. E andai dall’Angelo dicendogli che mi desse il libro. Ed egli mi disse: Prendilo, e divoralo: e amareggerà il tuo ventre, ma nella tua bocca sarà dolce come il miele. E presi il libro di mano dell’Angelo e lo divorai: ed era nella mia bocca dolce come miele: ma, divorato che l’ebbi, ne fu amareggiato il mio ventre: E disse a me: Fa d’uopo che tu profetizzi di bel nuovo a molte genti, e popoli, e re.]

Vers. 1. – E vidi un altro Angelo pieno di forza che scendeva dal cielo, vestito di una nuvola, con un arcobaleno sulla testa. Nelle necessità e nelle calamità dei tempi, la bontà divina è sempre solita venire in aiuto della sua Chiesa con consolazioni ed aiuti tempestivi, per evitare che essa soccomba agli sforzi dei suoi nemici. Perché Dio ha promesso di essere con essa fino alla consumazione dei tempi, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. Questa promessa si è manifestata in modo meraviglioso nella quinta epoca, nell’epoca della desolazione. Questa promessa l’ha manifestata in modo ammirevole nella quinta epoca, in quest’epoca di desolazione e di mali, concedendo alla sua Chiesa un aiuto potente, specialmente in mezzo ai più grandi pericoli. 1°. Opponendosi a Lutero e alla sua fatale eresia con un potente guerriero, Sant’Ignazio e la sua compagnia. 2°. Convocando, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, il Santo Concilio di Trento, per chiarire i dogmi della fede e ripristinare la disciplina ecclesiastica e soprattutto il celibato, che stavano per scomparire. 3°. Dando alla Chiesa, in mezzo alle sue angosce e defezioni, una grande consolazione, e fornendole tanti fedeli in altre parti del mondo quanti ne perdeva in Europa. Perché fu proprio in questo momento di abbandono, all’inizio della quinta età, che Dio fece fiorire la fede, e rese la sua fiaccola ancora più luminosa e brillante, come per sfidare le potenze delle tenebre, portando innumerevoli conversioni in America, Asia, India, Cina e Giappone, e in molti altri paesi. 4° Inoltre, ha sempre protetto la sua Chiesa fino ad oggi dandole governanti zelanti, tra i quali il più illustre fu l’imperatore Ferdinando II. Ma tutti questi aiuti non furono sufficienti per sterminare l’orribile bestia che abbiamo descritto, come l’esperienza dimostra fin troppo bene. E poiché non siamo ancora giunti alla fine dei nostri problemi, San Giovanni, dopo averne indicato la causa principale e i principali eventi ad essa collegati, arriva in questo capitolo alla descrizione di questo grande Monarca che abbiamo annunciato. (Vedi Libro I, sezione III, capitolo III, paragrafo II). Stiamo ora per assistere alla grande scena della sesta età della Chiesa, dove vedremo che dopo che gli eretici saranno stati abbattuti e convertiti, la Chiesa godrà della più grande consolazione, l’impero dei Turchi sarà profondamente umiliato, la fede cattolica brillerà sulla terra e sul mare, e la disciplina ecclesiastica sarà restaurata e perfezionata.

II. Prima di venire all’esposizione del testo, è da notare che questo Angelo apparso a San Giovanni era un vero Angelo di Dio, della natura più distinta. Era un Angelo tutelare e protettore dell’Impero Romano, o del grande Eufrate. Questo Angelo fece l’ufficio di due persone: il primo rappresentava quello del grande Monarca a venire, che San Giovanni descrive con queste parole: E vidi un altro angelo pieno di forza. (S. S. Pio IX – ndt. -). Il secondo fu quello di questo stesso Angelo che, come ambasciatore celeste, rivelò a San Giovanni i segreti prossimi della Chiesa. Ed è a questo secondo personaggio che si riferiscono le parole che troviamo nel testo: E l’angelo che avevo visto in piedi sul mare e sulla terra, etc. fino alla fine del capitolo.  – È così che vediamo in Esodo (III, 2) che l’angelo che apparve a Mosè in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto faceva anche l’ufficio di due persone. Il primo rappresentava Dio, e il secondo era quello dell’Angelo che, come messaggero celeste, manifestava a Mosè i decreti della volontà divina riguardanti i figli d’Israele. E ho visto. Abbiamo spiegato nel Libro II come i Profeti vedono le persone e le cose nel futuro. E vidi un altro Angelo: 1° Questo angelo è designato dal termine “altro” per mostrare che sarà l’opposto dei precedenti, che erano Lutero e i suoi predecessori. Perché quest’altro Angelo ammetterà una sola dottrina pura, e sarà molto zelante per la fede cattolica, una e ortodossa, soprattutto dopo aver abbattuto e disperso gli eretici sulla terra e sul mare. I suoi costumi saranno santi e ben regolati. Egli contribuirà potentemente alla propagazione della fede e alla restaurazione della disciplina ecclesiastica, che l’angelo suo predecessore, cioè l’eresiarca Lutero, con i suoi empi seguaci, aveva così notevolmente rovinato ed indebolito.

2°. San Giovanni attribuisce a quest’altro Angelo la qualità speciale di essere forte o potente. E vidi un altro angelo pieno di forza, etc. Sarà potente in guerra e distruggerà tutto, come il leone (nello stemma di Pio IX, vi sono rappresentati due leoni!). Diventerà molto grande con le sue vittorie, e sarà ancora più saldamente stabilito sul trono del suo impero. Regnerà per molti anni (… il suo Pontificato sarà il più lungo dopo quello di San Pietro), e durante il suo regno umilierà gli eretici e le repubbliche, e sottometterà tutte le nazioni al suo impero e a quello della Chiesa latina. E per di più, dopo aver consegnato la setta di Maometto all’inferno, egli smantellerà l’impero turco, e lascerà solo un piccolissimo stato senza potere e forza, che tuttavia rimarrà fino alla venuta del figlio della perdizione, che non temerà il Dio dei suoi padri, né si occuperà di alcun dio. (La Turchia diventerà infatti uno Stato laico, cioè indifferente alla religione). (Dan XI, 37): E vidi un altro Angelo pieno di potere che scendeva dal cielo. Il profeta dice che questo angelo scenderà dal cielo, perché nascerà nel seno della Chiesa Cattolica, che qui è indicata come il “cielo”; e sarà specialmente inviato da Dio, secondo i decreti della divina Provvidenza, che lo avrà scelto per la consolazione e l’esaltazione della Chiesa latina in mezzo alla sua grande afflizione e profonda umiliazione. – 4° E vidi un altro angelo, etc. …. avvolto in una nuvola. Il profeta designa questo monarca come vestito da una nuvola, per insegnarci che sarà molto umile e che camminerà fin dall’infanzia nella semplicità del suo cuore. Infatti la nuvola che copre la luminosità dello splendore significa l’umiltà, e l’umiltà attira la protezione di Dio, che è anche significata dalla nuvola che coprirà questo Monarca (il Papa-Re). Infatti, nessuno è così protetto da Dio come colui che cammina nelle vie dell’umiltà, secondo San Luca, I, 32: « Egli ha deposto i potenti dai loro troni, e ha esaltato gli umili. » Perciò nessuno potrà nuocergli o resistergli, perché sarà rivestito della protezione del Dio del cielo. 5° E vidi un altro angelo….. vestito di una nuvola, con un arcobaleno sulla testa. Con l’arcobaleno intendiamo la pace che Dio farà con la terra, secondo Genesi, (IX, 13): « Metterò il mio arcobaleno nella nuvola come segno di alleanza tra me e la terra. » Ora, un’alleanza presuppone la pace, ed è questa pace che questo monarca restituirà all’universo. Infatti, dopo aver estirpato le eresie e le superstizioni dei Gentili e dei Turchi, ci sarà un solo ovile ed un solo pastore. Tutti i principi saranno uniti a lui dai legami più forti, dai legami della fede cattolica e dell’amicizia, perché egli, senza abusare del suo potere e senza offendere nessuno con l’ingiustizia, renderà a ciascuno ciò che gli è dovuto. Ecco perché il Profeta dice che avrà un arcobaleno sulla testa come ornamento.  6°. E la sua faccia era come il sole, a causa dello splendore della sua giustizia e della sua gloria imperiale, e anche per l’alta comprensione e la profonda saggezza che lo distingueranno; anche per l’ardore della sua carità e il suo zelo per la religione; infine, perché sarà come il sole tra le stelle, cioè camminerà nel suo impero tra i suoi principi alleati che eseguiranno la sua volontà e cammineranno sulle sue orme, etc. 7°. E i suoi piedi come colonne di fuoco. I piedi significano l’estensione e il potere di un impero, secondo il Salmista, (Ps. LIX, 8): « Moab è come un vaso che alimenta la mia speranza; avanzerò nell’Idumea e la calpesterò. Gli estranei sono stati sottomessi ». Tuttavia, poiché molti tiranni avevano imperi molto vasti e potenti, il profeta attribuisce a questo monarca proprietà speciali per distinguerlo: 7°. E i suoi piedi come colonne di fuoco. Le colonne sono i sostegni e la spina dorsale di un edificio e il fuoco indica lo zelo della religione e l’ardore della carità verso Dio ed il prossimo; allo stesso modo, il fuoco è un elemento che doma tutto. Ora, questo sarà precisamente il potere di questo monarca; il suo regno sarà il più forte sostegno della Chiesa Cattolica e della sua casa reale, perché il suo perché il suo regno sarà assicurato per la sua posterità, fino a quando l’apostasia sarà venuta e il figlio della perdizione sarà apparso. La potenza di questo monarca brillerà soprattutto per il suo zelo per la religione, e per il fuoco della sua carità verso Dio e verso il prossimo; e come il fuoco doma tutte le cose, così questo sovrano domerà tutte le cose e governerà.

III. Vers. 2.– 8° E aveva in mano un piccolo libro aperto. Questo piccolo libro denota un Concilio generale, che sarà il più grande e famoso di tutti (il Concilio Vaticano del 1869-70! – ndt.- ). Il profeta dice che questo Angelo tiene in mano questo piccolo libro, perché è per opera e potere di questo Monarca che questo Concilio sarà riunito, protetto e giungerà a buon fine; e anche perché egli userà tutto il suo potere per far rispettare le sue sentenze ed i suoi decreti. Il Dio del cielo lo benedirà e metterà ogni cosa nelle sue mani e in suo potere. Si dice che questo piccolo libro sarà aperto per la chiarezza con cui questo Concilio spiegherà il significato della Sacra Scrittura e per la purezza dei dogmi della fede che vi si proclameranno. 9°. E mise il suo piede destro sul mare e il suo piede sinistro sulla terra. Cioè, questo monarca allargherà ed estenderà il suo impero sulla terra e sul mare, perché sottometterà la terra e le isole del mare al suo dominio. La grandezza e l’estensione del suo potere saranno immense, come abbiamo spiegato sopra, a proposito del significato dei piedi.

Vers. 3. -10°. E gridò ad alta voce come un leone che ruggisce; e questa intensità della sua voce, paragonata al ruggito di un leone, ci fa capire il grande terrore che ispirerà a tutti i popoli della terra e agli abitanti delle isole. Perché quando il leone ruggisce, mostra la sua forza, e tutti gli altri animali sono terrorizzati. Perciò è detto in Proverbi, (XX, 2): « Come il ruggito del leone, così è il terrore del re ». Le forti grida della sua voce saranno anche i suoi editti imperiali, con i quali ordinerà che siano eseguiti in tutto rigore, a favore della fede ortodossa cattolica, gli ordini del Concilio; e i suoi editti raggiungeranno tutte le nazioni della terra e delle isole.

IV. E dopo che egli ebbe gridato, sette tuoni emisero le loro voci. Questi tuoni, che si faranno intendere alla voce di questo Angelo, saranno i mormorii, le proteste e le grida di coloro che resisteranno alla volontà di questo Monarca, e che vorranno colpirlo (… i sette governanti nell’Italia dell’epoca! – ndt. -) ; perché in quel momento si scatenerà una grande tempesta; ma poiché essi non potranno resistergli e tanto meno fargli del male, a San Giovanni viene ordinato di non scrivere ciò che ha visto in questa circostanza; perché tutta questa tempesta non avrà alcun effetto. Gesù Cristo vuole solo avvertire San Giovanni nella sua qualità di rappresentante della Chiesa, per farci sapere che l’impero di questo Monarca e la propagazione della vera fede sulla terra non saranno ottenuti senza rumore e tempesta. Perciò è detto: E quando egli ebbe gridato, sette tuoni emisero il loro fragore. Quando il tuono emette solo il suo rumore, è un segno che il fulmine non colpisce, perché la nube è scoppiata nell’aria; ma il temporale produce a volte un effetto così dannoso, a seconda che il fulmine cada su persone, animali, alberi o edifici. Ora la tempesta che fu mostrata a San Giovanni sotto forma di temporale era una tempesta senza altri effetti che la voce del tuono. Sette tuoni fecero sentire la loro voce. Cioè, i principi e i grandi si solleveranno contro questo monarca e mormoreranno. Essi faranno sentire la loro voce in questo Concilio, per resistere e per abbattere i suoi decreti; ma, poiché questo monarca sarà sotto la protezione di Dio, tutti i loro sforzi saranno vani e inutili.

V. Vers. 4. – Ed essendo scoppiate le sette voci dei sette tuoni, stavo per scrivere. Cioè, dopo che mi furono rivelati i segreti dei consigli di questi principi recalcitranti, dice s. Giovanni, stavo per scriverli in virtù dell’ordine che avevo ricevuto, ed ho sentito una voce dal cielo che mi diceva: Sigilla ciò che i sette tuoni hanno detto, e non scriverlo. Ci sono due motivi per cui qualcuno non dovrebbe sapere o scrivere qualcosa. Il primo è quando tale conoscenza potrebbe essere dannosa causando danni o impedendo il bene, sia nel presente che nel futuro. Il secondo è quando l’importanza, l’utilità o la necessità della cosa non richiede che sia conosciuta o scritta. Ecco come la Divina Provvidenza nasconde ai suoi fedeli amici, in questa vita, i pericoli e le tribolazioni del corpo e dell’anima, il cui numero è quasi infinito, perché non servirebbe agli uomini conoscerli in anticipo; e Dio, nella sua bontà, sa come preservarci da essi o difenderci da essi a tempo debito, per quanto grandi ed imminenti possano essere i mali della vita. Per la stessa ragione a San Giovanni non fu permesso di scrivere le voci dei sette tuoni in relazione a questo monarca. Perché Dio lo libererà da ogni pericolo e farà abortire i disegni dei suoi nemici, etc. Sigillate ciò che dicono i sette tuoni e non scrivetelo. Cioè, scrivete che sette tuoni hanno emesso la loro voce, ma non scrivete quello che hanno detto.

Vers. 5. – E l’Angelo che avevo visto in piedi sul mare e sulla terra alzò la mano verso il cielo. Ora viene l’altro personaggio che questo angelo rappresentava, e cioè, non si tratta più del monarca, ma dell’ambasciatore celeste, che rivela i segreti divini sulla fine dei tempi. E l’angelo che avevo visto in piedi sul mare e sulla terra, cioè il presidente supremo, il guardiano ed il protettore di questo impero, che Daniele (XII: 7) vide in piedi sulle acque del fiume, alzò la mano al cielo.

Vers. 6. E giurò per colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato il cielo e ciò che è in cielo, la terra e ciò che è sulla terra, il mare e ciò che è nel mare. Queste parole contengono una testimonianza sostenuta da fede giurata, di ciò che il Signore Dio rivela a tutta l’umanità attraverso il suo ambasciatore celeste per la consolazione dei suoi eletti e per il terrore degli empi. Questo Angelo giura, con queste parole, una verità della massima importanza, cioè che non ci sarebbe stato più tempo. Questo passaggio può essere spiegato letteralmente dagli eretici e dai nemici della croce e di Cristo, perché il loro tempo, i loro giorni e la loro empietà finiranno sotto il dominio del Monarca annunciato. È per il loro terrore e la loro eterna confusione, e allo stesso tempo per la grande consolazione della Chiesa latina e dei fedeli che la compongono, che questo angelo proclama questa sorprendente testimonianza che non ci sarebbe stato più tempo. – 2°. Queste parole significano anche che dopo la voce del settimo angelo, che suonerà la tromba, cioè l’anticristo, non ci sarà più tempo per il lavoro e la tribolazione. E lo annuncia per confortare e rafforzare i fedeli contro gli empi, dei quali è scritto: (II. Pietro III, 3): « Sappiate prima di tutto che negli ultimi giorni verranno degli ingannatori, pieni di astuzia, che cammineranno secondo le loro concupiscenze e diranno: Che ne è della promessa della sua venuta? Perché da quando i nostri padri sono morti, tutte le cose sono come erano all’inizio del mondo. » Ecco perché questo Angelo conferma, con questo solenne giuramento, la seconda venuta di Gesù Cristo, quando cesseranno i tempi di dolore e di persecuzione per il bene, ma anche i tempi della voluttà, dei trionfi, degli onori, delle ricchezze, della gloria e di tutti gli incanti  della vita presente per i malvagi.

VI. Vers. 7. – Ma che nel giorno della voce del settimo angelo (l’anticristo), quando la tromba comincerà a suonare, ecc. La descrizione di questo settimo angelo e il bagliore della sua tromba si trova nel capitolo successivo. Ma quanto al giorno della voce del settimo angelo. Queste parole designano la fine dei tempi, dopo la quale non ci sarà più altro che tutta l’eternità; perché in quel giorno avrà luogo la consumazione del secolo, e subito dopo verrà il giudizio universale. Per questo il testo aggiunge: Ed egli giurò ….. che ….. il mistero di Dio si sarebbe compiuto, come egli ha evangelizzato attraverso i profeti suoi servi. Infatti, 1° il giorno della consumazione dell’età e del giudizio universale è davvero un mistero molto grande riservato a Dio solo, un mistero che non è mai stato e non sarà mai rivelato a nessuno, finché si compia, secondo S. Matteo (XXIV, 36) «Ma nessuno conosce questo giorno e quest’ora, nemmeno gli Angeli del cielo; solo il Padre mio lo conosce. »2° Questo mistero noto a Dio solo è grande, perché tutti i segreti più nascosti dei nostri cuori, sia in generale che in particolare, saranno resi manifesti nel grande giorno di Dio Onnipotente, secondo l’Apostolo, (I. Cor., III, 13): « L’opera di ogni uomo sarà resa manifesta; poiché il giorno del Signore la renderà nota, e sarà rivelata dal fuoco, e il fuoco proverà l’opera di ogni uomo. » E (I. Cor. IV, 5): « Non giudicate dunque prima del tempo, finché il Signore non venga a illuminare ciò che è nascosto nelle tenebre e a svelare i segreti pensieri degli uomini; e allora ogni uomo riceverà da Dio la lode che gli è dovuta. » 3º Questo mistero è la risurrezione dei morti. (I. Cor. XV, 51): « Ecco, io vi porto la parola di un mistero. Tutti risorgeremo, ma non tutti saremo cambiati. In un momento, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba, ecc. » 4º Questo mistero è la remunerazione del bene o del male; e rimarrà impenetrabile ai nostri occhi, finché non verrà il Signore Dio. (Apoc. XXII, 12): « Ecco, io vengo presto e avrò con me la mia ricompensa, per rendere ad ogni uomo secondo le sue opere. » Questo è certamente un grande mistero con il quale il santo re Davide fu commosso, e con il quale tutti i giusti che vivranno in questa epoca saranno commossi in mezzo alle loro tribolazioni. (Ps. LXXII, 1) : «  Quanto è buono Dio con Israele, con gli uomini dal cuore puro! Per poco non inciampavano i miei piedi, per un nulla vacillavano i miei passi, perché ho invidiato i prepotenti, vedendo la prosperità dei malvagi. Non c’è sofferenza per essi, e le piaghe con cui son colpiti non durano. Essi non conoscono l’affanno dei mortali, né i dolori dell’uomo. È questo che li rende superbi, e sono coperti delle loro iniquità e della loro empietà. Esce l’iniquità dal loro grasso, e sono abbandonati a tutti i pensieri del loro cuore … Io mi sono adoperato nel voler penetrare questo segreto, ma un gran lavorio mi si è presentato davanti, finché non sono entrato nel santuario di Dio, e compreso quella che deve essere la loro fine. » – 5°. Infine, è un mistero di Dio solo, il conoscere la scelta degli eletti sulla massa dei figli di Adamo; e questo è ancora un mistero che è nascosto agli occhi degli uomini e che nessuno può penetrare fino al giorno del Signore. (Romani, XI, 25): « Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti … ecc. » Poi finalmente l’apostolo San Paolo conclude: « O profondità dei tesori della sapienza e della scienza di Dio! Come sono incomprensibili i suoi giudizi e come sono imperscrutabili le sue vie! » Da ciò consegue che non dobbiamo affaticarci invano volendo studiare la grande questione della predestinazione. È questo un mistero che è riservato a Dio solo fino al giorno del giudizio, quando Egli renderà a ciascuno secondo le proprie opere e secondo il lavoro di ciascuno. Poiché Dio è giusto e l’iniquità non può raggiungerlo; Egli non vuole che il peccatore muoia, ma soprattutto vuole che si converta e viva. Molti uomini si arrovellano il cervello su questo punto di gran difficoltà e si rendono esausti come il ragno quando tesse la sua tela. Sarebbe molto più utile per essi pregare il Signore loro Dio, cercare di concepire pensieri santi sulla sua bontà, e lavorare alla loro salvezza con timore e tremore. Poiché questo segreto e mistero di Dio è impenetrabile, più lo si scruta, più si sprofonda nelle difficoltà, soprattutto se si pensa di comprenderlo. Cosicché che Egli lo ha evangelizzato attraverso i profeti suoi servi. Questi profeti servi di Dio sono Mosè, Enoch ed Elia, e tutti gli altri profeti dell’Antico Testamento. Questi sono anche gli Apostoli e tutti gli altri dottori e predicatori del Nuovo, che tutti, di comune accordo, ognuno nella sua lingua e nei suoi scritti, hanno annunciato al mondo questo grande mistero del regno di Dio, che essi predicato come è ancora predicato e proclamato ai nostri giorni, e come sarà predicato e proclamato fino alla fine del mondo. Quando questo mistero si compirà, gli uomini non crederanno in quel giorno finché esso non verrà; come al tempo del diluvio, quando Noè lo annunciò al mondo per più di cento anni, e gli uomini del suo tempo rifiutarono di credere alla sua parola. Ecco perché Gesù Cristo ci dice in San Matteo, (XXIV, 37): « Sarà come nei giorni della venuta del Figlio dell’uomo, come nei giorni di Noè; perché come prima del diluvio gli uomini mangiavano e bevevano e prendevano moglie, e sposavano le loro figlie, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non pensarono al diluvio finché esso non venne e li portò via tutti; questo è ciò che sarà alla venuta del Figlio dell’uomo. »

VII. Vers. 8E udii la voce che mi parlava di nuovo dal cielo, dicendo: Va’ e prendi il libro aperto dalla mano dell’Angelo che sta sul mare e sulla terra.

Vers. 9: – E io andai dall’Angelo e gli chiesi di darmi il libro. Ed egli mi disse: Prendi il libro e divoralo; e sarà amaro nelle tue viscere, ma nella tua bocca sarà dolce come il miele.

Vers. 10Presi il libro dalla mano dell’Angelo e lo divorai; ed era nella mia bocca dolce come il miele; ma quando lo ebbi divorato, divenne amaro nelle mie viscere.

Vers. 11. – Ed egli mi disse: Tu devi ancora profetizzare ai Gentili, ai popoli, agli uomini di molte lingue e a molti re. – San Giovanni, che rappresenta qui la persona morale di tutta la Chiesa, ci istruisce con queste parole sulla qualità e sugli effetti di questo libro di cui abbiamo parlato sopra, e ce li dimostra con una metafora che trae dall’azione del mangiare. Infatti, è dal gusto e dalla digestione del cibo che conosciamo e sperimentiamo la sua qualità e i suoi effetti; perché molte cose dolci e piacevoli al gusto, sono invece amare e difficili da digerire, e viceversa. Ora questo vale anche per le cose celesti e spirituali. Per esempio, leggiamo volentieri e parliamo con piacere delle tribolazioni e delle sofferenze dei santi Martiri, lodiamo e ammiriamo le vite dei Santi, le loro virtù eroiche e le loro, la loro condotta irreprensibile, i loro sacrifici, le loro abnegazioni, etc.; ma se dobbiamo ingoiare una sola goccia del loro calice, essa produce immediatamente un’amarezza insopportabile per le nostre viscere, e la digestione, o la pratica e l’imitazione della loro vita, ci sembra troppo dura e pesante. Altre quattro qualità di questo libro si possono discernere dal contesto e dall’inizio del prossimo capitolo: – 1°. Esso contiene una sana, unanime e santa dottrina in materia di fede e di buoni costumi, una qualità significata da queste parole: Era nella mia bocca dolce come il miele. Queste parole contengono una metafora, in quanto, come il miele è dolce nella bocca degli uomini, così la pura dottrina e la santa morale sono dolci nella bocca dei giusti, mentre sono amare come il fiele nella bocca dei malvagi. Da qui questo passaggio del Sal. CXVIII, 103: « Come sono dolci le vostre parole per me! il miele più squisito è meno piacevole alla mia bocca ». Isaia, (VII), dice anche di Gesù Cristo: « Si nutrirà di latte e miele finché non saprà rifiutare il male e scegliere il bene. » Ora, poiché questo libro sarà l’opera dello Spirito Santo, è con buona ragione che San Giovanni dice che sarà dolce come il miele nella bocca di tutta la Chiesa, di cui egli è il rappresentante; cioè, che sarà ricevuto con acclamazione e consenso unanime. 2°. Produrrà una grande agitazione, perché quest’opera di Dio non sarà compiuta senza grandi difficoltà e resistenze; sarà persino cosparsa del sangue dei martiri, perché il mondo, la carne e il diavolo hanno sempre resistito e sempre resisteranno alle opere di Dio. (Prov. XXI, 30): « Non c’è sapienza, non c’è prudenza, non c’è consiglio contro il Signore. » Questa tempesta sarà prima sollevata dalle potenze secolari che resisteranno al grande Monarca con le armi, e perseguiteranno coloro che si impegnano a convertire i popoli alla fede cattolica che il Monarca ordinerà di predicare per terra e per mare, etc. Ecco perché è stato detto sopra che dopo questo Angelo, che stava sulla terra e sul mare, sette tuoni emisero le loro voci. Vedi quello che è stato detto sopra, al versetto 4. – 2°. L’esecuzione di questo Concilio incontrerà anche grandi difficoltà da parte dei sacerdoti malvagi, quando le Veneri dovranno scomparire del tutto, così come gli idoli d’oro e d’argento e la vita oziosa. E tutte queste difficoltà sono espresse in queste parole: Ma dopo averlo divorato, divenne amaro nelle mie viscere. – Come abbiamo detto, San Giovanni rappresenta qui la persona di tutta la Chiesa che dovrà subire amarezze, tribolazioni e molte difficoltà nell’attuazione di questo Concilio; ma questi mali non prevarranno, e i nemici della Chiesa non potranno impedire il compimento della grande opera di Dio. – 3°. Per consolare e rassicurare la Chiesa, l’inviato celeste aggiunge immediatamente il terzo effetto di questo libro, che sarà la predicazione del Vangelo e della fede cattolica a nazioni, popoli, uomini di varie lingue e a molti re, cioè a quei paesi che erano stati separati dal seno della loro Madre, la Chiesa romana, dal maomettanesimo, dallo scisma, dal protestantesimo o da qualsiasi altra setta. Questo è espresso nelle seguenti parole: Ed egli mi disse: Tu devi profetizzare di nuovo ai Gentili, ai popoli, agli uomini di diverse lingue e a molti re. Queste parole sono rivolte alla Chiesa che San Giovanni rappresenta; e la Chiesa predicherà con la voce di coloro che invierà ai popoli che avevano già conosciuto la luce della fede cattolica, ma che fecero defezione. Infatti, questo è ciò che è indicato dalle parole: È necessario che tu profetizzi di nuovo, affinché alla fine dei tempi la fede cattolica sia predicata di nuovo alle nazioni, ai popoli, agli uomini di varie lingue e a molti re, che abbandonarono la Chiesa, etc. Questo è infatti ciò che accadrà nella sesta epoca, che sarà un’epoca di consolazione, e che durerà fino alla settima ed ultima, che sarà l’età della consumazione.

§ II.

L‘estensione e l’esaltazione della Chiesa

CAPITOLO XI. VERSETTI 1-2

Et datus est mihi calamus similis virgæ, et dictum est mihi: Surge, et metire templum Dei, et altare, et adorantes in eo: atrium autem, quod est foris templum, ejice foras, et ne metiaris illud: quoniam datum est gentibus, et civitatem sanctam calcabunt mensibus quadraginta duobus.

[E mi fu data una canna simile ad una verga, e mi fu detto: Sorgi, e misura il tempio di Dio, e l’altare, e quelli che in esso adorano. Ma l’atrio, che è fuori del tempio, lascialo da parte, e non misurarlo: poiché è stato dato alle genti, e calpesteranno la città santa per quarantadue mesi.]

Vers. 1. – E mi fu data una verga simile a un metro e mi fu detto: “Alzati e misura il tempio di Dio, l’altare e coloro che lo adorano“.

I. Queste parole esprimono il quarto effetto del libro annunciato sopra, ed il suo scopo sarà la predicazione del Vangelo con l’aiuto della misericordia divina; vale a dire, la conversione di quasi tutto il mondo all’unica, vera, apostolica e santa fede cattolica; poiché la Chiesa latina si diffonderà in lungo e in largo, per terra e per mare, e sarà confortata e glorificata. Si ordina a San Giovanni di misurarla per significare la sua immensa estensione e la moltitudine di popoli che verranno anche da lontano e accorreranno a lei dalle estremità della terra. Così è scritto in Genesi, XV, 5: « Il Signore fece uscire Abramo dalla sua tenda e gli disse: Guarda in cielo e conta le stelle, se puoi; così sarà la tua discendenza. » Ora, è nello stesso modo che San Giovanni ci dice qui: 1°. E mi fu dato una canna come un bastone di misura. L’asta di misura viene utilizzata per misurare edifici, campi e altre cose in lunghezza, larghezza e profondità, in una parola, per superfici e cubi. È nello stesso senso che i Vescovi usano il bastone del loro pastorale per misurare il pavimento e le pareti dei templi e delle chiese, nella cerimonia sacre. Ed è questo stesso bastone, simile ad un bastone di misura, che fu dato in spirito a San Giovanni, per significare con la metafora che immediatamente prima degli ultimi tempi, la Chiesa sarà immensa, e che sarà nuovamente edificata e consacrata al suo Sposo Gesù-Cristo. 2°. E mi fu detto: Alzati. Queste parole significano anche che il tempio del Signore sarà ampliato immensamente e che la casa di Dio sarà costruita nelle quattro parti del mondo. Alzati, cioè lascia il tuo posto, il tuo paese, e vai in tutti gli angoli del mondo a misurare questo tempio. A San Giovanni è comandato di fare uso di questo modo di parlare e scrivere per la consolazione della Chiesa, come è anche riportato in Genesi, XIII, 14: « Il Signore disse ad Abramo: Alza gli occhi e guarda dal luogo dove sei ora verso l’Aquilone ed il Mezzogiorno, verso l’Oriente e l’Occidente. Tutta la terra che vedi la darò a te e ai tuoi discendenti per sempre. Io moltiplicherò i tuoi discendenti come la polvere della terra; se uno tra gli uomini può contare la polvere della terra, allora potrà contare la tua posterità Alzati e percorri la terra in tutta la sua lunghezza e in tutta la sua larghezza, perché io te la darò ». Sappiamo che questo seme di Abramo doveva essere esteso secondo la fede, e questo seme è davvero innumerevole, poiché contiene tutti i figli della fede dal tempo di Abramo fino all’ultimo giorno del mondo. 3º Misura il tempio di Dio, l’altare e coloro che adorano. Con il tempio, che a San Giovanni è stato comandato di misurare qui, comprendiamo l’immensa estensione della nuova Chiesa che si unirà alla Chiesa latina attraverso la conversione delle nazioni in America, Africa, Asia ed Europa, e di cui abbiamo visto un così felice inizio nella quinta età, in Cina, India, Giappone ed altri paesi. (dal 1846 al 1878, furono erette da Papa Pio IX, 206 nuove diocedi e vicariati apostolici in tutto il mondo, in Africa, Asia, Americhe ed Oceania – ndr. -) L’altare significa metafisicamente l’onore e l’esaltazione del Santo Sacrificio della Messa, che sarà celebrato su tutta la superficie della terra; e il nome di Nostro Signore Gesù Cristo sarà ugualmente glorificato dagli uomini sull’altare con grande fede. E quelli che adorano: queste parole indicano prima di tutto i sacerdoti; il testo latino dice: in eo: all’altare; infatti i sacerdoti saranno sparsi in grande moltitudine su tutta la terra; e con il Sacrificio continuo adoreranno Dio Padre ed il suo Figlio Gesù, in unione con lo Spirito Santo. E quelli che adorano. Queste parole significano anche i Cristiani che avranno uno zelo molto grande per assistere a questo augusto Sacrificio, e per frequentare la sacra mensa. Gesù Cristo parla di questa sesta età della Chiesa in San Matteo XXIV, 14, e la indica come un segno che precederà l’ultima desolazione e il giorno della sua seconda venuta. « Questo vangelo del regno sarà predicato in tutto il mondo come una testimonianza a tutte le nazioni, e poi verrà la fine. » Allo stesso modo in San Giovanni, X, 16: « E ho altre pecore, che non sono di questo ovile; Io devo portare anche loro, ed esse ascolteranno la mia voce, e ci sarà un solo ovile e un solo pastore. » Allo stesso modo ancora in Isaia II, 2: « Ecco, negli ultimi giorni il monte dove abita il Signore sarà innalzato sopra i colli, sulla cima dei monti; e tutte le nazioni verranno ad esso in moltitudine. » Infine, nel Profeta Michea, IV, 12, etc..

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (XVI)

LA SUMMA PER TUTTI (8)

LA SUMMA PER TUTTI (8)

R. P. TOMMASO PÈGUES O. P. :

LA SOMMA TEOLOGICA DI S. TOMMASO DI AQUINO IN FORMA DI CATECHISMO PER TUTTI I FEDELI

PARTE SECONDA

L’UOMO VENUTO DA DIO E DESTINATO A RITORNARE A DIO

SEZIONE PRIMA

Idea generale del ritorno dell’uomo a Dio

Capo XV.

Del principio esterno che dirige l’uomo nelle sue azioni, ossia della legge.

609. Che cosa intendete per legge?

Intendo un ordine della ragione, in vista del bene comune, emanante dall’autorità e manifestato da essa (XC, 1-4).

601. Un ordine che fosse contrario alla ragione non sarebbe dunque una legge?

No; un ordine o un comando contrario alla ragione non è mai una legge; è un atto arbitrario o di tirannia (XC, 1 ad 3).

602. E che cosa intendete col dire che la legge è un ordine della ragione in vista del bene comune?

Intendo dire che la legge provvede anzitutto al bene dell’insieme, ossia del tutto; e non si occupa della parte o dell’individuo se non in quanto deve concorrere esso stesso al bene comune (XC, 2).

603. Qual è questa autorità dalla quale emana la legge?

È quella a cui incombe di vegliare al bene comune come al bene suo proprio (XC,3).

604. È necessario che una legge sia manifestata e conosciuta perché possa obbligare?

Sì; è necessario che una legge sia manifestata in modo da essere conosciuta, perché possa obbligare (XC, 4).

605. E se la si ignorasse per propria colpa si sarebbe scusati di non osservarla?

No; se si ignora per propria colpa non si è scusati di non osservarla.

606. È dunque importantissimo istruirsi sulle leggi che possono riguardarci?

Sì; è sommamente importante istruirsi sulle leggi che possono riguardarci.

Capo XVI.

Delle diverse leggi. – La legge eterna.

607. Vi sono varie specie di leggi che possono riguardarci, e che di fatto ci riguardano?

Sì; vi sono varie specie di leggi che possono riguardarci e che di fatto ci riguardano.

608. Quali sono queste diverse specie di leggi che possono riguardarci e che di fatto ci riguardano?

Sono la legge eterna, la legge naturale, la-legge umana e la legge divina (XCI, 1-5).

609. Che cosa intendete per legge eterna?

Per legge eterna intendo la legge suprema, che regola tutte le cose e dalla quale dipendono tutte le altre leggi, che non sono altro se non derivazioni o manifestazioni particolari di essa (XCII I, 3).

610. Dove si trova la legge eterna?

La legge eterna si trova in Dio (XCIII, 1).

611. Come viene manifestata questa legge nelle cose?

Questa legge viene manifestata nelle cose per l’ordine stesso delle cose, quale si svolge nel mondo (XCIII, 4-6).

Capo XVII.

La legge naturale.

612. La legge eterna si trova anche partecipata nell’uomo?

Sì; la legge eterna è anche partecipata nell’ uomo (XCIII, 6).

613. Come si chiama la manifestazione e partecipazione della legge eterna nell’uomo?

Si chiama legge naturale (XCIV, 1).

614. Che cosa intendete per legge naturale?

Intendo quel lume della ragione pratica innato nell’uomo, per mezzo del quale l’uomo guida se stesso e compie scientemente delle azioni, che per via di azione cosciente saranno la esecuzione della legge eterna; come le azioni naturali prodotte dagli agenti naturali in virtù della loro naturale inclinazione, sono la esecuzione di quella stessa legge per modo di azione incosciente (XCIV, 1).

615. Vi è nell’uomo un primo principio di questa ragione pratica, ossia un primo precetto di questa legge naturale?

Sì; è quello che posa sulla ragione stessa di «bene» nel senso metafisico della parola; come il principio della ragione speculativa posa sulla ragione di «essere» (XCIV, 2).

616. In che cosa consiste questo primo principio della ragione pratica, ossia questo primo precetto della legge naturale nell’uomo?

Consiste nel proclamare che ciò che è buono deve essere eletto dall’uomo, e ciò che è cattivo deve essere da lui rigettato (XCIV, 2).

617. Questo primo principio o primo precetto regge tutti gli altri?

Sì; questo primo principio o precetto regge tutti gli altri; e gli altri non sono che applicazioni più o meno immediate di esso (XCIV, 2).

618. Potreste dirmi quali ne sono le prime applicazioni che avvengono nell’uomo?

Le prime applicazioni che ne avvengono nell’uomo sono la proclamazione, da parte della sua ragione, del triplice bene conveniente alla sua natura (XCIV, 2).

619. Quale è la proclamazione fatta dalla ragione dell’uomo, in virtù del primo principio della legge naturale, del triplice bene conveniente alla sua natura?

È che per lui è buono ciò che conserva la sua vita fisica o la perfeziona; come pure ciò che conserva questa vita nella specie umana; e tutto ciò ancora che conviene alla sua vita di essere ragionevole (XCIV, 2).

620. Che cosa si deduce da questa triplice proclamazione della ragione pratica nell’uomo?

Si deduce che tutto quello che è essenziale alla conservazione di questa triplice vita o che può concorrere al suo perfezionamento, dalla ragione pratica di ogni uomo sarà proclamata cosa buona; in maniera subordinata però, dimodoché per ordine di dignità verrà prima il bene della ragione, poi il bene della specie e quindi il bene dell’individuo (XCIV, 2).

621. Potreste dirmi ciò che proclama di essenziale il primo principio della legge naturale che riguarda il bene dell’individuo?

Tale principio proclama che l’uomo deve cibarsi e non può mai attentare: alla sua vita (XCIV, 2).

622. Che cosa proclama di essenziale il primo principio della legge naturale che riguarda il bene della specie?

Tale principio proclama che vi debbono essere degli uomini che attendano alla conservazione della specie, accettando le cure ed anche le gioie della paternità e della maternità; e che non è mai permesso di far niente che vada direttamente contro il fine della paternità e della maternità (XCIV, 2).

623. Che cosa proclama di essenziale il primo principio della legge naturale che riguarda il bene della ragione?

Tale principio proclama che l’uomo essendo opera di Dio da cui ha ricevuto tutto, e come essere dotato di ragione essendo fatto per vivere in società con gli altri uomini, deve onorare Dio come suo Sovrano Signore e Padrone, e trattare con gli altri uomini come lo richiede la natura dei rapporti che può avere con essi (XCIV, 2).

624. Tutte le altre prescrizioni della ragione pratica nell’uomo, derivano come conseguenza da questi primi tre principi e dalla loro subordinazione?

Sì; da questi primi tre principi e dalla loro subordinazione derivano, come conseguenza più o meno remota, tutte le altre prescrizioni o determinazioni della ragione pratica che afferma tale cosa essere o non essere affatto buona per tale nomo, e facendogli un dovere di eleggerla o di rigettarla (XCIV, 2).

625. Le altre prescrizioni o determinazioni della ragione pratica che derivano come conseguenza più o meno remota dai primi tre principi della legge naturale, sono identiche presso tutti gli uomini?

No; le altre prescrizioni o determinazioni non sono le stesse per tutti; perché a misura che ci si allontana dai primi principi o dalle cose che riguardano per tutti essenzialmente il bene dell’individuo, il bene della specie ed il bene della ragione, si passa nel campo delle determinazioni positive, che possono variare all’infinito secondo la diversità delle condizioni particolari dei diversi uomini (XCIV, 4).

626. Come avvengono le altre determinazioni che possono variare all’infinito secondo la diversità delle condizioni particolari dei diversi uomini?

Esse avvengono per mezzo della ragione particolare di ogni individuo umano, per mezzo della ragione delle autorità competenti in ciascuno dei diversi aggruppamenti umani, viventi una vita di società determinata.

Capo XVIII,

La legge umana.

627. Le altre determinazioni possono divenire materia o soggetto di legge?

Sì; le altre determinazioni possono divenire materia o soggetto di legge.

628. Di quale legge sono esse materia soggetto?

Esse sono materia o soggetto proprio delle leggi umane (XCV-XCVII).

629. Che cosa intendete per leggi umane?

Intendo gli ordini della ragione di questa o quella società tra gli uomini, che emanano in ogni società dalla suprema autorità e sono da essa manifestate in vista del bene comune (XCVI, 1).

630. Questi ordini debbono essere osservati da tutti quelli che fanno parte di tale società?

Sì; questi ordini debbono essere osservati da tutti quelli che fanno parte di tale società (XCVI, 5).

631. È un dovere di coscienza che obbliga davanti a Dio?

Sì: è un dovere di coscienza che obbliga davanti a Dio (XCVI, 4).

632. Possono darsi dei casi in cui non vi sia obbligo di obbedire?

Sì; possono darsi dei casi in cui non vi sia obbligo di obbedire (XCVI, 4).

633. Quali possono essere questi casi in cui non vi è obbligo di obbedire ad una legge?

Vi è il caso di impossibilità e quello di dispensa (XCVI, 4).

634. Chi può dispensare da obbedire ad una legge?

Da obbedire ad una legge può dispensare quegli solo che è autore di questa legge, oppure ha la stessa autorità dell’autore della legge, o da questa autorità ha ricevuto la potestà di dispensare (XCVII, 4).

635. Se una legge fosse ingiusta si sarebbe tenuti ad obbedire?

No; se una/legge fosse ingiusta non si sarebbe tenuti ad obbedire, purché il rifiuto di obbedienza non cagionasse scandalo o fosse causa di più gravi inconvenienti (XCVI, 4).

636. Che cosa intendete per legge ingiusta?

Intendo una legge fatta senza autorità o in opposizione al bene comune, o lesiva dei giusti diritti dei membri della società (XCVI, 4).

637. Se una legge fosse ingiusta perché lesiva dei diritti di Dio o della sua Chiesa, bisognerebbe osservarla?

No; se una legge fosse ingiusta perché lesiva dei diritti di Dio o dei diritti essenziali della Chiesa, non bisognerebbe mai osservarla (XCVI, 4).

638. Che cosa intendete per diritti di Dio e diritti essenziali della Chiesa?

Intendo tutto ciò che riguarda l’onore ed il culto di Dio, Creatore e Sovrano Signore di

tutte le cose; e ciò che tocca la missione della Chiesa Cattolica nella santificazione delle anime, per mezzo della predicazione della verità e l’amministrazione dei sacramenti.

639. Se dunque una legge umana attentasse alla religione, non bisognerebbe rispettarla?

Se una legge umana attentasse alla religione non bisognerebbe a nessun costo rispettarla (XCVI, 4).

640. Questa legge sarebbe una vera legge?

No; questa legge non sarebbe che una odiosa tirannide (XC, 1 ad 3).

Capo XIX.

La legge divina. – Il Decalogo.

641. Che cosa intendete per legge divina?

Per legge divina intendo quella che Dio ha dato agli uomini, manifestandosi loro in modo soprannaturale (XCI, 4, 5).

642. Quando ha dato Dio questa legge agli uomini?

Dio ha data questa legge agli uomini una prima volta in modo semplicissimo prima della loro caduta nel paradiso terrestre; ma l’ha data poi più tardi in modo molto più speciale per mezzo di Mosè e dei profeti; ed in modo ancora molto più perfetto per mezzo di Gesù Cristo e degli Apostoli (XCI, 5).

643. Come si chiama la legge divina data da Dio agli uomini per mezzo di Mosè?

Si chiama la legge antica (XCVIII, 6).

644. E come si chiama la legge divina data da Dio agli uomini per mezzo di Gesù Cristo e degli Apostoli?

Si chiama la legge nuova (CVI, 3-4),

645. La legge antica era per tutti gli uomini?

No; la legge antica era solamente per il popolo ebreo (XCVIII, 4, 5).

646. Perché Dio aveva dato una legge speciale al popolo ebreo?

Perché questo popolo era destinato a preparare nel mondo antico la venuta del Salvatore degli uomini, che doveva uscire di mezzo ad esso (XCVIII, 4).

647. Come si chiamano i precetti che erano propri del popolo ebreo e non riguardavano che quel popolo nella legge antica?

Si chiamano precetti « giudiciali» e precetti « cerimoniali » (XCIX, 3, 4).

648. Non vi erano anche altri precetti nella legge antica, che sono rimasti nella legge nuova?

Sì: nella legge antica vi erano anche altri precetti che sono rimasti nella legge nuova.

649. Come si chiamano i precetti della legge antica rimasti nella legge nuova?

Si chiamano precetti «morali» (XCIX, art. 1, 2).

650. Perché tali precetti morali della legge antica sono rimasti anche nella legge nuova?

Perché essi costituiscono ciò che vi è di essenziale e di assolutamente inalienabile nelle regole della moralità rispetto ad ogni uomo, per il semplice fatto che è uomo (C, 1).

651. Questi precetti morali sono dunque stati sempre e saranno sempre gli stessi per tutti gli uomini?

Sì; questi precetti morali sono stati sempre e saranno sempre gli stessi per tutti gli nomini (C, 8).

652. Sono essi la stessa cosa che la legge naturale?

Sì; questi precetti morali sono la stessa cosa che la legge naturale (C, 1).

653. Dunque perché dite che fanno parte della legge divina?

Perché onde dar loro ancora più forza e per impedire che la ragione umana deviata li dimenticasse o li corrompesse, Dio stesso volle promulgarli solennemente manifestandosi al popolo eletto al tempo di Mosè; ed anche perché Dio li ha promulgati in ordine al fine soprannaturale a cui ogni uomo è da Lui chiamato (C, 3).

654. Come si chiamano questi precetti morali promulgati solennemente da Dio al tempo di Mosè?

Si chiamano il « Decalogo » (C, 3, 4).

655. Che cosa Significa questa parola: « Decalogo »?

È una parola greca che vuol dire «dieci parole », perché Dio dette questi precetti in numero di dieci.

656. Quali sono i dieci precetti del Decalogo?

1 dieci precetti del Decalogo sono i seguenti:

1° Non avrai altro Dio fuori che me;

2° Non nominare il nome di Dio invano;

3° Ricordati di santificare le feste;

4° Onora il padre e la madre;

5° Non ammazzare;

6° Non commettere atti impuri;

7° Non rubare;

8° Non fare falsa testimonianza;

9° Non desiderare la donna d’altri;

10° Non desiderare la roba d’altri (C, 4, 5, 6).

657. Questi dieci precetti bastano a regolare tutta la vita morale dell’uomo nell’ordine della virtù?

Sì; bastano in quanto alle virtù principali che riguardano i doveri essenziali dell’uomo verso Dio e verso il prossimo; ma per la perfezione di tutte le virtù hanno dovuto essere spiegati e completati dall’insegnamento dei profeti nella legge antica, e più ancora dall’insegnamento di Gesù Cristo e dagli Apostoli nella legge nuova (C, 3, 11).

658. Qual è il miglior mezzo per bene intendere questi precetti, e che li Spiega e li completa per la perfezione della vita morale?

È quello di studiarli in confronto di ciascuna delle virtù considerata nei suoi particolari.

659. Questo studio potrà farsi allora in modo facile?

Sì; perché la natura stessa della virtù spiegherà la natura e l’obbligo del precetto.

660. Sarà questo al tempo stesso il mezzo di bene intendere tutta la perfezione della legge nuova?

Sì; perché la perfezione di questa legge consiste precisamente nel suo rapporto con la eccellenza di tutte le virtù (C, 2; CVII).

661. Questa eccellenza di tutte le virtù riveste un carattere particolare nella legge nuova?

Sì; essa vi riveste il carattere dei consigli che si aggiungono ai precetti (CVII, 4).

662. Che cosa intendete per consigli aggiunti ai precetti?

Intendo gli inviti fatti da Gesù Cristo a tutte le anime di buona volontà, di distaccarsi, per amore di Lui e per ottenere da Lui una gioia più perfetta nel cielo, dalle cose che potrebbero volere senza compromettere l’essenziale della virtù, ma che possono essere un ostacolo alla perfezione della virtù stessa (CVIII, art. 4).

663. A quanti si riducono questi consigli?

Si riducono a tre: povertà, castità ed obbedienza (CVIII, 4).

664. Vi è uno stato speciale in cui si possono praticare eccellentemente questi consigli?

Sì; vi è lo stato religioso (CVIII, 4).

Capo XX,

Del principio esteriore che aiuta l’uomo nella pratica degli atti buoni, ossia della grazia.

665. Basta la direzione della legge perché l’uomo viva della vita della virtù e schivi la vita contraria del peccato e del vizio?

No; ci vuole ancora il soccorso della grazia (CIX, CXIV).

666. Che cosa intendete per grazia?

Per grazia intendo un soccorso speciale di Dio, che aiuta l’uomo a fare il bene ed a fuggire il male.

667. Questo soccorso speciale di Dio è sempre necessario all’uomo?

Sì; questo soccorso speciale di Dio è sempre necessario all’uomo.

668. Dunque l’uomo da se stesso non può mai fare alcun bene o evitar alcun male?

Sì; l’uomo può da se stesso, cioè con i principi della natura che Dio gli ha dato e con gli altri soccorsi naturali che trova d’intorno a sé, compiere un certo bene ed evitare un certo male anche nell’ordine morale o della virtù, ma se Dio non interviene con la sua grazia a guarire la natura umana ferita per il peccato; l’uomo non potrà compiere neppure nell’ordine della virtù naturale tutto il bene ed evitare tutto il male; e nell’ordine della virtù soprannaturale o della vita morale in ordine all’acquisto del cielo, l’uomo con la sua sola natura senza la grazia non può assolutamente nulla (CIX, 1-10).

669. Che cosa comprende questa grazia di ordine soprannaturale?

La grazia di ordine soprannaturale comprende due cose: uno stato abituale dell’uomo, e certe mozioni soprannaturali dello Spirito Santo (CIX, 6).

670. Che cosa intendete per istato abituale dell’uomo?

Per istato abituale intendo un insieme di qualità prodotte e conservate nell’anima da Dio stesso, che divinizzano l’uomo nel suo essere e nelle sue facoltà (CX, 1-4).

671. Come si chiama la qualità fondamentale che divinizza l’essere dell’uomo?

Si chiama grazia abituale o santificante (CX, 1,2, 4).

672. E come si chiamano le altre qualità soprannaturali che divinizzano le facoltà dell’uomo?

Esse sono le virtù ed i doni (CX, 3).

673. Le virtù ed i doni sono congiunti con la grazia abituale e santificante?

Sì; le virtù ed i doni sono congiunti con la grazia abituale e santificante; cosicchè essi derivano dalla grazia, e questa non può mai esistere nell’anima senza che essi esistano nelle facoltà.

674. La grazia, le virtù ed i doni che divinizzano l’anima e le sue facoltà, sono qualche cosa di molto prezioso e di molto grande?

Sì; perché sono ciò che rende l’uomo figlio di Dio e lo mettono in grado di agire in quanto tale.

675. Un uomo rivestito ed ornato della grazia con le virtù ed i doni, supera in perfezione tutto il mondo creato, nell’ordine della natura?

Sì; senza eccettuarne neppure gli Angeli, considerati nella loro sola natura (CXIII, 9 ad 2).

676. Dunque non vi è niente da doversi desiderare di più dall’uomo su questa terra, che di possedere la grazia di Dio con le virtù ed i doni?

No; non vi è niente che l’uomo debba desiderare di più su questa terra, che di possedere e conservare, progredendo in essa tutti i giorni, la grazia di Dio con le virtù ed i doni.

677. In che modo l’uomo può possedere e conservare su questa. terra, progredendo in essa tutti i giorni, la grazia di Dio con le virtù ed i doni?

Corrispondendo fedelmente all’azione soprannaturale dello Spirito Santo, che lo stimola a prepararsi a ricevere la grazia se non la possiede ancora, od a progredirvi tutti i giorni se già la possiede (CXII, 3; CXHI, 3, 3).

678. Come si chiama questa azione dello Spirito Santo?

Questa azione dello Spirito Santo si chiama grazia attuale (CIX, 6; CXII, 3).

679. Dunque noi ci disponiamo a ricevere la grazia abituale o santificante se ancora non la possediamo, ed a progredirvi se già l’abbiamo, col soccorso e sotto l’azione della grazia attuale?

Sì; col soccorso e sotto l’azione della grazia attuale noi ci disponiamo a ricevere la grazia abituale o santificante se non l’abbiamo ancora, ed a progredirvi se già la possediamo.

680. Questa grazia attuale può produrre in noi il suo pieno effetto senza di noi e nostro malgrado?

No; la grazia attuale non può produrre in noi il suo pieno effetto senza di noi e nostro malgrado (CXIII, 3).

681. Bisogna dunque che il nostro libero arbitrio cooperi all’azione della grazia attuale?

Sì; bisogna che il nostro libero arbitrio cooperi all’azione della grazia attuale.

682. Come si chiama questa cooperazione del nostro libero arbitrio all’azione della grazia attuale?

Si chiama corrispondenza alla grazia.

683. Quale carattere riveste l’atto del nostro libero arbitrio quando corrisponde all’azione della grazia attuale, e la grazia abituale si trova nell’anima?

Riveste sempre il carattere di atto meritorio (CXIV, 1, 2).

684. Vi sono più specie di meriti riguardo al nostro atto meritorio?

Sì; vi è il merito condegno ed il merito di convenienza (CXIV, 2).

685. Che cosa intendete per merito condegno?

Intendo il merito che dà uno stretto diritto di giustizia a ricevere la ricompensa (CXIV, 2).

686. Che cosa occorre perché l’atto dell’uomo sia meritorio per merito condegno?

Bisogna che questo atto si compia sotto la mozione della grazia attuale; che proceda dalla grazia santificante per virtù di carità; che tenda all’acquisto della vita eterna per sé, od anche all’aumento in sé della grazia e delle virtù (CXIV, 2, 4).

687. Non si può meritare per gli altri la vita eterna, oppure la grazia santificante l’aumento di questa grazia per merito condegno?

No; queste specie di beni non si possono meritare per gli altri che per merito di convenienza, essendo proprio di Gesù Cristo come Capo della Chiesa il merito condegno per gli altri (CXIV, 5, 8).

688. Che cosa intendete per merito di convenienza (de congruo)?

Intendo quel merito per cui Dio, in grazia dell’amicizia che lo unisce ai giusti, stabilisce – a proposito ed in armonia con ciò che a Lui conviene – di corrispondere al piacere che i giusti Gli arrecano con le loro opere buone, facendo loro piacere Egli stesso con la concessione di ciò che gli domandano o desiderano (CXIV, 6).

689. Dunque ogni ragione di merito per l’uomo consiste sempre nella intimità di Dio con i giusti, ossia nella vita della grazia e delle virtù sotto l’azione dello Spirito Santo?

Sì; nella intimità di Dio con i giusti, ossia nella vita della grazia e delle virtù sotto l’azione dello Spirito Santo, consiste sempre ogni ragione di merito per l’uomo; e tutto ciò che esso fa fuori di questo ordine, anche se non è cattivo in sé, è cosa assolutamente vana che non gli servirà niente nel giorno delle supreme retribuzioni (CXIV, 6).

690. Potreste spiegarmi i particolari di questa vita della grazia e delle virtù sotto l’azione dello Spirito Santo, che deve costituire il tutto della vita dell’uomo su questa terra?

Sì; e ciò sarà oggetto di tutto quello che ci resta da dire nello studio del viaggio, ossia del ritorno dell’uomo verso Dio per mezzo dei suoi atti morali.