DOMENICA IX DOPO PENTECOSTE (2021)
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B.; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Semidoppio. • Paramenti verdi.
La liturgia di questo giorno insiste sui castighi terribili che la giustizia di Dio infliggerà a quelli che avranno rinnegato Cristo. Morranno tutti e nessuno entrerà nel regno dei cieli. Coloro invece che in mezzo a tutte le avversità di questa vita saranno rimasti fedeli a Gesù, saranno un giorno strappati alle mani dei loro nemici ed entreranno al suo seguito nel cielo, ove Egli entrò nel giorno della sua Ascensione, che la Chiesa ha celebrato nel Tempo Pasquale. Questi pensieri sulla giustizia divina sono conformi, in questa IX Domenica dopo Pentecoste, colla lettura che la liturgia fa della storia del profeta Elia nel Breviario. – Dopo la morte di Salomone, le dodici tribù di Israele si divisero in due grandi regni: quello di Giuda e quello d’Israele. Il primo formatosi con le due tribù di Giuda e di Beniamino, ebbe per capitale Gerusalemme: il secondo si compose di dieci tribù con capitale Sichem, poi Samaria. A questo secondo regno appartenne il profeta Elia, che abitava il deserto di Galaad in Samaria. Uomo virtuoso e austero, vestiva una tunica di peli di cammello con ai fianchi una cintura di cuoio: « pieno di zelo per il Dio degli eserciti », uscì tre volte dal deserto per minacciare Achab, VII re di Israele, e la regina Iezabele, che avevano trascinato il popolo all’idolatria; per mandare a morte i 450 profeti di Baal che confuse sul Monte Carmelo; e per annunciare al re, impossessatosi della vigna di Naboth, che sarebbe stato ucciso, e alla regina, che era stata il cattivo genio di Achab, che il suo sangue sarebbe scorso ove era scorso il sangue di Naboth e i cani avrebbero divorate le sue carni. Per tutti questi motivi, Elia fu perseguitato dagli Israeliti, da Achab e da lezabele e dovette fuggire sul monte Horeb per scampare alla morte. Quando più tardi Ochozia, figlio di Achab, divenne re, Elia gli fece dire di non consultare Belzebù, il dio di Accaron, come aveva intenzione, ma il Dio d’Israele. Ochozia allora gli mandò un capitano con cinquanta soldati per indurlo a scendere dalla montagna e rendergli conto delle sue parole. Elia rispose al capitano: « Se io sono un uomo di Dio, scenda dal cielo un fuoco che divori te e i tuoi cinquanta », E scese il fuoco e divorò lui e i suoi cinquanta uomini » (Breviario). Più tardi, Elia andò verso il Giordano con Eliseo e allorché ebbero attraversato il fiume, un carro di fuoco con cavalli di fuoco separò l’uno dall’altro ed Elia sali al cielo in un turbine. Eliseo allora si rivestì del mantello che Elia aveva lasciato cadere e ricevette doppiamente il suo spirito. E tutti i discepoli di Elia dissero: «lo spirito di Elia si è posato su Eliseo ». E mentre Eliseo andava verso Bethel, alcuni ragazzi lo schernirono dicendo: « Sali, sali, calvo! ». Ed Eliseo li maledisse nel nome di Dio che essi offendevano: due orsi uscirono dalla foresta e sbranarono 42 di quei fanciulli. — Per tutta la sua vita Elia, con la sua parola di fuoco, difese i diritti di Dio. Più tardi Giovanni Battista, « pieno dello Spirito e della virtù di Elia », si presentò vestito come lui ed abitante come lui nel deserto, e difese allo stesso modo gli stessi diritti di Dio, annunziando la separazione che farà Cristo venturo della paglia dal buon grano »: raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia in un fuoco che non si estinguerà. – « Elia, dice S. Agostino, rappresenta il Salvatore e Signore nostro. Come infatti Elia soffrì persecuzioni da parte dei Giudei; nostro Signore, il vero Elia, fu rigettato e disprezzato dal medesimo popolo. Elia lasciò il paese suo; Cristo abbandonò la sinagoga e accolse i Gentili (2° Nott.). « Dio liberò Elia dai suoi nemici elevandolo al cielo, Dio innalzò Cristo in mezzo ai suoi nemici e lo fece salire il giorno dell’Ascensione in cielo ». « Liberami, o Signore dai miei nemici, dice l’Alleluia, e allontanami da quelli che insorgono contro di me ». Elia, trasportato in un carro di fuoco è, secondo i Padri, la figura di Cristo, che sale al Cielo. Il Graduale è il versetto del Salmo VIII, che la liturgia usa nel giorno dell’Ascensione: «Signore, Dio nostro, come è ammirevole il tuo nome su tutta la terra: poiché la tua magnificenza si solleva al di sopra dei cieli. » E l’Introito aggiunge:« Ecco che Dio viene in mio aiuto e che il Signore accoglie la mia anima. Oh, Dio! salvami nel tuo nome e liberami nella tua potenza ». Questo trionfo di Gesù su quelli che lo odiano, figurato da quello di Elia su coloro che lo disprezzano, sarà anche il nostro se «non tenteremo Cristo», cioè se eviteremo l’idolatria, l’impurità, la mormorazione» (Ep.) rimanendo fedeli alla grazia. Poiché « se Gesù continua a immolarsi sui nostri altari per applicarci i frutti della sua redenzione » (Secr.), e se « mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue, noi dimoriamo in Lui e Lui in noi » (Com.), si è perché, « uniti a Lui », (Postcom.), osserviamo fedelmente i suoi comandamenti, che sono più dolci del miele » (Off.). S. Paolo ci dice infatti che « Dio, il quale è fedele, non permetterà che noi siamo tentati al di sopra delle nostre forze, ma con la tentazione ci darà anche il mezzo di uscirne affinché possiamo perseverare » (Ep.). Supplichiamo dunque il Signore d’accogliere benignamente le preghiere che noi gli indirizziamo e di fare in modo che gli chiediamo solo quanto gli sia gradito, affinché ci possa sempre esaudire (Oraz.). – Ma la Giustizia divina non si accontenta di proteggere il giusto contro i suoi nemici e di ricompensarlo per la sua fedeltà; essa punisce anche quelli che fanno il male. Elia minacciò il regno di Israele infedele e fece cadere il fuoco dal cielo sui suoi nemici (Brev.); « Gli Israeliti, che tentarono Iddio con le loro mormorazioni, perirono per mezzo dei serpenti di fuoco » (Ep.), e Gerusalemme sulla quale Gesù pianse, minacciandole castighi perché lo respingeva, fu distrutta dalla guerra e dall’incendio (Vang.). « Ventitremila Ebrei perirono in un sol giorno per la loro idolatria, e molti furono colpiti a morte dall’Angelo sterminatore per le loro mormorazioni ». Ma tutti questi avvenimenti, spiega S. Paolo, furono permessi da Dio, e narrati per servire di nostro ammaestramento » (Ep.). Più di un milione di Giudei perirono nella distruzione di Gerusalemme, perché avevano rifiutato il Messia e il Vangelo (Vedi I Domenica dell’Avvento e XXIV dopo Pentecoste). Gesù ha sempre paragonata questa fine tragica alle catastrofi che segneranno la fine del mondo, quando Dio verrà a giudicare il mondo col fuoco. Allora il Giudice divino opererà la separazioni dei buoni dai cattivi e mentre ricompenserà i primi, allontanerà dal regno di Dio tutti quelli che lo avranno rinnegato per la loro incredulità e i loro peccati, come cacciò dal Tempio, che è la figura della Chiesa terrestre e celeste, tutti i venditori che avevano trasformato la casa di Dio in una spelonca di ladri (Vang.). « Il male ricada sui miei avversari, chiede il Salmista e, fedele alle tue promesse, distruggili, o Dio, mio protettore! » (Intr.). Allora, infatti il tempo della misericordia sarà passato e non vi sarà più che quello della giustizia ». « Frattanto colui che crede di essere in alto guardi di non cadere!», dice l’Apostolo (Ep.).
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps LIII: 6-7.
Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.
[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’anima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]
Ps LIII: 3
Deus, in nómine tuo salvum me fac: et in virtúte tua libera me.
[O Dio, salvami nel tuo nome: e liberami per la tua potenza.]
Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.
[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’ànima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]
Oratio
Orémus.
Páteant aures misericórdiæ tuæ, Dómine, précibus supplicántium: et, ut peténtibus desideráta concédas; fac eos quæ tibi sunt plácita, postuláre.
[Porgi pietoso orecchio, o Signore, alle preghiere di chi Ti supplica, e, al fine di poter concedere loro quanto desiderano, fa che Ti chiedano quanto Ti piace.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.
1 Cor X: 6-13
Fatres: Non simus concupiscéntes malórum, sicut et illi concupiérunt. Neque idolólatræ efficiámini, sicut quidam ex ipsis: quemádmodum scriptum est: Sedit pópulus manducáre et bíbere, et surrexérunt lúdere. Neque fornicémur, sicut quidam ex ipsis fornicáti sunt, et cecidérunt una die vigínti tria mília. Neque tentémus Christum, sicut quidam eórum tentavérunt, et a serpéntibus periérunt. Neque murmuravéritis, sicut quidam eórum murmuravérunt, et periérunt ab exterminatóre. Hæc autem ómnia in figúra contingébant illis: scripta sunt autem ad correptiónem nostram, in quos fines sæculórum devenérunt. Itaque qui se exístimat stare, vídeat ne cadat. Tentátio vos non apprehéndat, nisi humána: fidélis autem Deus est, qui non patiétur vos tentári supra id, quod potéstis, sed fáciet étiam cum tentatióne provéntum, ut póssitis sustinére.
[“Fratelli: Non desideriamo cose cattive, come le desiderarono quelli. Non diventate idolatri, come furono alcuni di loro, secondo sta scritto: «Il popolo si sedette a mangiare e bere; poi si alzarono a tripudiare. Né fornichiamo, come fornicarono alcuni di loro, e caddero in un giorno 23 mila. Né tentiamo Cristo come lo tentarono alcuni di loro, e furono uccisi dai serpenti. Né mormorate come mormorarono alcuni di loro, ed ebbero morte dallo sterminatore. Or tutte queste cose accadevano loro in figura, e sono state scritte per ammaestramento di noi, che viviamo alla fine dei tempi. Colui, pertanto che si crede di stare in piedi, badi di non cadere. Nessuna tentazione vi ha sorpreso se non umana. Dio, poi, che è fedele, non permetterà che siate tentati sopra le vostre forze: ma con la tentazione preparerà anche lo scampo, dandovi il potere di sostenerla”.]
IL TIMOR DI DIO
Essere Cristiani non vuol dire essere esenti dalla vigilanza, e da una attenta vigilanza. Nell’Epistola della Domenica di Settuagesima abbiam visto come l’Apostolo per incoraggiare i Corinti alla perseveranza, oltre il proprio esempio, portò l’esempio dei Giudei, i quali, quantunque usciti in gran numero dall’Egitto, dopo aver ricevuto grandi benefici dal Signore, solamente in numero di due poterono entrare nella terra promessa. L’Epistola di quest’oggi continua quel brano. Vi sono enumerate alcune prevaricazioni dei Giudei ed i castighi, che ne seguirono, e si esortano i Corinti a non imitarne l’esempio; poiché quanto avvenne agli Israeliti sarà figura di quanto avverrà a noi Cristiani, se abuseremo delle grazie del Signore. – E noi non abuseremo certamente delle grazie del Signore, se avremo il timor di Dio, il quale:
1 Ci fa evitare il peccato,
2 Ci rende diffidenti di noi,
3 Ci lascia calmi e fiduciosi in Dio, durante le prove.
Graduale
Ps VIII: 2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in universa terra!
[Signore, Signore nostro, quanto ammirabile è il tuo nome su tutta la terra!]
V. Quóniam eleváta est magnificéntia tua super cœlos. Allelúja, allelúja
[Poiché la tua magnificenza sorpassa i cieli. Allelúia, allelúia]
Alleluja
Ps LVIII: 2
Alleluja, Alleluja
Eripe me de inimícis meis, Deus meus: et ab insurgéntibus in me líbera me. Allelúja.
[Allontànami dai miei nemici, o mio Dio: e liberami da coloro che insorgono contro di me. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIX: 41-47
“In illo témpore: Cum appropinquáret Jesus Jerúsalem, videns civitátem, flevit super illam, dicens: Quia si cognovísses et tu, et quidem in hac die tua, quæ ad pacem tibi, nunc autem abscóndita sunt ab óculis tuis. Quia vénient dies in te: et circúmdabunt te inimíci tui vallo, et circúmdabunt te: et coangustábunt te úndique: et ad terram prostérnent te, et fílios tuos, qui in te sunt, et non relínquent in te lápidem super lápidem: eo quod non cognóveris tempus visitatiónis tuæ. Et ingréssus in templum, coepit ejícere vendéntes in illo et eméntes, dicens illis: Scriptum est: Quia domus mea domus oratiónis est. Vos autem fecístis illam speluncam latrónum. Et erat docens cotídie in templo”.
[“In quel tempo avvicinandosi Gesù a Gerusalemme, rimirandola, pianse sopra di lei, e disse: Oh? se conoscessi anche tu, e in questo tuo giorno, quello che importa al tuo bene! ma ora questo è a’ tuoi occhi celato. Conciossiachè verrà per te il tempo, quando i tuoi nemici ti circonderanno di trincea, e ti serreranno all’intorno, e ti stringeranno per ogni parte. E ti cacceranno per terra te e i tuoi figliuoli con te, e non lasceranno in te pietra sopra pietra; perché non hai conosciuto il tempo della visita a te fatta. Ed entrato nel tempio, cominciò a scacciare coloro che in esso vendevano e comperavano, dicendo loro: Sta scritto: La casa mia è casa di orazione; e voi l’avete cangiata in spelonca di ladri. E insegnava ogni giorno nel tempio”.
Omelia
(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)
Le lagrime di Gesù Cristo.
Videns Jesus oivitatem, flevit super illam.
(Luc. XIX, 41).
Gesù Cristo, entrando nella città di Gerusalemme pianse su di essa, dicendo: “Se almeno conoscessi le grazie che ti ho portato, e ne volessi approfittare, potresti ricevere ancora il tuo perdono: ma la tua cecità è giunta a tale eccesso, che tutte queste grazie non serviranno che a renderti ostinata e a perderti: tu hai ucciso i profeti, e fatto morire i servi di Dio; ed ora stai per mettere il colmo ai tuoi delitti facendo morire il Figlio stesso di Dio. „ Ecco, F. M., ciò che strappava lagrime a Gesù Cristo in grande abbondanza, mentre si avvicinava a quella città. Ahimè! Egli considerava in tutte queste sventure, la perdita di tante anime, ben più colpevoli dei Giudei, perché più di questi favoriti di tante grazie. Davvero, F. M., ciò che lo commosse così vivamente fu il pensiero che, non ostante i meriti della sua passione e morte sufficienti per redimere mille mondi più grandi del nostro, il maggior numero degli uomini andrebbe perduto. – Sì, F. M., Egli prevedeva coloro che disprezzerebbero le sue grazie, non servendosene che in proprio danno. E chi di noi, F. M., non trepiderà pensando sinceramente a condurre l’anima propria al cielo? Non siamo noi di quel numero? Non è per noi che Gesù Cristo disse piangendo: “Ah! purtroppo, se il mio sangue e la mia morte non servono alla vostra salvezza, accenderanno la collera del Padre mio su di voi per tutta l’eternità? „ Un Dio tradito!… un’anima dannata!… un cielo rifiutato! … Possibile che a tante sciagure rimaniamo insensibili? … È possibile, F. M., che, malgrado quanto ha fatto Gesù Cristo per salvare le anime nostre, siamo così insensibili alla loro perdita? … Ma per togliervi, F. M., da tale insensibilità, vi mostrerò:
1° che cos’è un’anima;
2° quanto ha costato a Gesù Cristo;
3° quanto fa il demonio per condurla a perdizione.
I. — Ah! F. M., se avessimo la fortuna di conoscere il valore dell’anima nostra, con qual cura la custodiremmo? Ahimè! non lo comprenderemo mai abbastanza! Voler mostrarvi, F. M., la grandezza del valore di un’anima è impossibile per un mortale: Dio solo conosco tutte le bellezze, le perfezioni delle quali l’ha ornata. Vi dirò solamente che tutto quanto Dio ha creato, il cielo, la terra e tutto ciò che vi a contenuto, tutto queste meraviglie furon create in suo favore. Il nostro catechismo ci dà la più bella prova possibile della grandezza dell’anima. Quando si domanda ad un fanciullo: che cosa intendi quando dici che l’anima dell’uomo è uno spirito creato ad immagine di Dio? Quest’anima, ci risponde il fanciullo, al pari di Dio ha la potenza di conoscere, di amare e di determinarsi liberamente in tutte le sue azioni. Ecco, F. M., il più bell’elogio che possiamo fare delle doti, colle quali Dio abbellì l’anima nostra, creata dalle tre Persone della Ss. Trinità, ed a loro somiglianza. Uno spirito, al par di Dio, immortale, capace di conoscere le bellezze e le perfezioni tutte di Dio, quanto è possibile ad una creatura: uno spirito, che è l’oggetto delle compiacenze delle tre divine Persone; uno spirito, che può glorificar Dio in tutte le sue azioni; uno spirito, la cui occupazione sarà di cantar le lodi di Dio per tutti i secoli; uno spirito, che risplenderà della felicità di Dio medesimo; uno spirito, che ha una tal libertà nelle sue azioni da poter donare la sua amicizia, l’amor suo a chi meglio gli pare; che può non amare Dio, od amarlo: ma che, se è tanto fortunato di volgere il suo amore a Dio, non obbedisce più esso a Dio, sebbene Dio stesso fa quanto vuole questo spirito (Voluntatem timentium se faciet – Ps. CXLIV. 19) e sembra compiacersi di farlo. Potrei anche dire che dal principio del mondo non trovate un’anima che, essendosi data a Dio senza restrizioni, Dio le abbia rifiutato alcuna cosa da lei desiderata. Vediamo che Dio ci ha creato con tali desideri, che nulla è capace di soddisfarli. Presentate ad un’anima tutte le ricchezze ed i tesori del mondo, niente di ciò potrà accontentarla; avendola Iddio creata per sé, non vi è che Lui solo capace di riempire tutti i vasti suoi desideri. Sì, F. M., l’anima nostra può amar Dio; ed è questa la più grande di tutte le felicità! Amandolo abbiamo tutti i beni ed i piaceri che possiamo desiderare sulla terra ed in cielo (Ps. LXXII, 25). Possiamo anche servirlo; cioè glorificarlo in ogni azione della nostra vita. Anche dalle minime cose che facciamo Dio viene glorificato, se le facciamo coll’intenzione di piacergli. La nostra occupazione, mentre siamo sulla terra, nulla ha di differente da quella degli Angeli in cielo; l’unica differenza è che noi vediamo questi beni solo cogli occhi della fede. L’anima nostra è così nobile, ornata di tante belle qualità che il buon Dio non volle affidarla che ad un principe della corte celeste. L’anima nostra è così preziosa agli occhi di Dio stesso, che in tutta la sua sapienza, non trovò altro cibo degno di lei che il suo Corpo adorabile, di cui vuole che essa faccia il suo nutrimento quotidiano: e altra bevanda che il Sangue suo prezioso. ” Sì, F. M., abbiamo un’anima che Dio stima tanto, ci dice S. Ambrogio, che, fosse stata pur sola nel mondo, Egli non avrebbe creduto di far troppo morendo per essa; e se, creandola, non avesse creato il cielo, il buon Dio lo avrebbe creato apposta per essa, anche se fosse sola nel mondo.„ Come disse Egli un giorno a S. Teresa: “Mi sei tanto cara, così Gesù Cristo, che se non vi fosse il cielo, ne creerei uno apposta per te. „ —“O corpo mio, esclama S. Bernardo, quanto sei fortunato di albergare un’anima adorna di tante belle qualità! Un Dio, sebbene infinito, la fa oggetto di sue compiacenze!„ Sì, F. M., l’anima nostra è destinata a passar tutta l’eternità in grembo a Dio stesso. Dico tutto in una parola: l’anima nostra è alcunché di così grande, di così prezioso, che Dio solo la supera. Un giorno il buon Dio fece vedere un’anima a S. Caterina. La trovò così bella, che esclamò: “O mio Dio, se la fede non mi insegnasse che v’è un Dio solo, crederei che questa sia una divinità; no, mio Dio, non mi meraviglio più che Voi siate morto per l’anima che è sì bella!„ Sì, F. M., l’anima nostra nella vita futura sarà eterna quanto Dio stesso. No, no, non andiamo oltre: ci perdiamo in questo abisso di grandezza. Dopo questo, F. M., vi lascio pensare se dobbiamo meravigliarci che Dio, il quale ne conosce così bene il valore, pianga tanto amaramente la perdita di un’anima. Ahimè! F. M., il buon Dio è così sensibile alla perdita di un’anima che l’ha pianta prima di aver gli occhi per piangere: adoperò gli occhi dei suoi profeti per piangere la perdita delle anime nostre. Lo vediamo in modo evidente nel profeta Amos: “Essendomi ritirato nell’oscurità, dice il profeta, considerando lo spaventoso numero di delitti che il popolo di Dio commette ogni giorno, vedendo che la collera di Dio era pronta a piombargli addosso, e che l’inferno apriva le sue fauci per inghiottirlo, adunatili insieme, ed io stesso tutto tremante, dissi loro piangendo amaramente: “Figli miei, sapete qual è la mia occupazione, notte e giorno? Ahimè! mi rappresento vivamente tutti i vostri peccati, nell’amarezza del mio cuore. Se dopo… oppresso dalla fatica, mi assopisco, subito mi sveglio di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime ed il cuore spezzato dal dolore gridando: Mio Dio, mio Dio, non vi saranno anime in Israele che non vi offendono? Quando mi riempio la mente di questa triste e lagrimevole idea, ne parlo al Signore, ne gemo amaramente alla sua santa presenza, dicendogli: Mio Dio, qual mezzo debbo usare per ottener loro grazia? Ecco che cosa mi rispose il Signore: Profeta, se vuoi ottenere il perdono di questo popolo ingrato, va, corri per le vie e per le pubbliche piazze: falle risuonare dei gemiti più amari: entra nelle botteghe dei mercanti e degli artigiani; va nei luoghi dove si amministra la giustizia: ascendi nelle magioni dei grandi e nei gabinetti dei giudici: di’ a tutti quanti troverai dentro e fuori della città: “Guai a voi! ah! guai a voi, che avete peccato contro il Signore!„ Non basta; chiama in tuo soccorso quanti sono capaci di piangere, affinché aggiungano le loro lagrime alle tue, ed i vostri gemiti e le vostre grida siano così spaventose da gettare la costernazione in tutti i cuori: affinché abbandonino i loro peccati e li piangano sino alla tomba: affinché comprendano quanto mi è dolorosa la perdita delle anime loro. „ – Il Profeta Geremia, F. M., va ancor più oltre. Per farci intendere quanto la perdita di un’anima è dolorosa per Iddio, ascoltatelo in un momento in cui è dominato dallo spirito del Signore: “Ah! mio Dio, ah! mio Dio, che diverrò? m’avete dato la cura d’un popolo ribelle, d’una nazione ingrata, che non vuole ascoltarvi, né sottomettersi ai vostri ordini; ahimè! che farò io? qual partito prenderò? Ecco ciò che il Signore mi rispose: “Per mostrar loro quanto Io soffra per la perdita dell’anima loro, afferra i tuoi capelli, strappali dalla testa, gettali lontano, perché il peccato di questo popolo m’ha costretto ad abbandonarlo, ed il mio furore è piombato su di esso.„ Quando la collera del Signore è accesa pel peccato nel cuore, è la più terribile malattia: “Ma, Signore, gli disse il Profeta, che farò io per impegnarvi a distogliere il vostro sguardo di collera dal popolo vostro? — Vestiti di un sacco, mi disse il Signore, mettiti la cenere sulla testa e piangi senza tregua e con tanta abbondanza che le lagrime coprano il tuo volto; e piangi tanto amaramente che i tuoi peccati vengano soffocati nelle tue lagrime.„ (Ger. VII, 29). Comprendete, F. M., quanto affligga il buon Dio la perdita delle nostre anime? Vedete quanto siamo sventurati, perdendo un’anima, che Dio ama tanto che non avendo ancora gli occhi per piangere, adopera quelli dei Profeti per versar lagrime amare sulla sua rovina! Il Signore ci dice per bocca del Profeta Gioele: “Piangete la perdita delle anime come uno sposo novello, il quale ha perduto la sposa che doveva essere tutta la sua consolazione, ed è ridotto ad ogni sorta di sventure!„ (Gioel. I, 8) S. Bernardo ci dice che tre cose sono capaci di farci piangere: ma ve n’è una sola che possa render meritorie le lagrime nostre, cioè quando piangiamo i peccati nostri o dei nostri fratelli: tutte le altre non sono che lagrime profane o colpevoli, o almeno infruttuose. Piangere la perdita d’una lite ingiusta, la morte d’un figlio; lagrime inutili. Piangere la privazione d’un piacere carnale; lagrime peccaminose. Piangere una lunga malattia; lagrime infruttuose ed inutili. Ma, piangere la morte spirituale dell’anima propria, la lontananza di Dio, la perdita del cielo: “O lagrime preziose, ci dice questo gran Santo; ma quanto siete rare!„ E perché, F. M., se non perché non sentite la grandezza della disgrazia vostra nel tempo e nella eternità? Ahimè, F. M.! è il timore di questa perdita che ha spopolato il mondo, per riempire di tanti Cristiani i deserti ed i monasteri: costoro comprendevano assai meglio di noi che se perdiamo l’anima nostra tutto è perduto; e che essa doveva essere di gran valore, se Dio stesso ne faceva tanto conto. Sì, F. M., i Santi hanno sofferto tanto per conservare l’anima loro pel cielo! La storia ce ne fornisce esempi senza numero: eccone uno, F. M.: se non abbiamo il coraggio di imitarlo, potremo almeno ammirarlo per benedirne il buon Dio. Leggiamo nella vita di S. Giovanni Calibita (Vita dei Padri del deserto, t. IX, P. 279), nato a Costantinopoli, che incominciò dalla sua infanzia a comprendere il nulla delle cose umane, ed a sentire un gusto grande per la solitudine. Un religioso d’un vicino monastero passando da Costantinopoli per andar in pellegrinaggio a Gerusalemme, alloggiò in casa de’ parenti di lui, che ricevevano i pellegrini con molto piacere. Il fanciullo domandò qual era la vita che si conduceva nel monastero. Sentito il racconto della vita santa e penitente dei religiosi, il piacere che si provava separati dal mondo per non aver altro commercio che con Dio solo, egli ne fu così commosso, e concepì un tal desiderio di abbandonare il mondo per partecipare a tale felicità, che non poteva più vedersi nel mondo. Disse a’ suoi parenti di non pensar più a fargli una posizione, perché Dio lo chiamava a finire i suoi giorni nel ritiro. I parenti tentarono, se era possibile, di fargli cambiar proposito: tutto inutile; domandò loro per sola eredità il libro dei santi Vangeli, che fu il suo unico tesoro. Ma per liberarsi dalle insistenze continue dei genitori, e per darsi tutto al buon Dio, abbandonò la casa, ed andò a presentarsi alla porta d’un monastero, chiedendo d’esservi ricevuto. I parenti mandarono a cercarlo da ogni parte. Non potendo trovarlo, si abbandonarono alle lagrime più amare. Il santo giovane passò sei anni in quel ritiro praticando tutte le virtù e penitenze che il suo amore per il buon Dio poté ispirargli. Dopo questo tempo gli venne il pensiero d’andar a visitare i parenti suoi, sperando che il buon Dio gli accorderebbe la stessa grazia che ebbe S. Alessio, il quale passò venti anni presso i suoi senza che alcuno lo conoscesse. Appena uscito dal monastero, trovato un povero cambiò l’abito con lui per rendersi ancor più irriconoscibile: d’altra parte le sue austerità così grandi ed una grave malattia l’avevano estremamente sfigurato. Vista da lontano la casa dei suoi genitori, si inginocchiò per domandare a Dio di guidarlo nella sua impresa. Essendo la porta già chiusa perché era notte, rimase fino a giorno là presso. Al mattino i domestici, vedutolo, ne ebbero compassione e gli permisero d’entrare in una piccola stanza per ritirarvisi. Dio solo conobbe quanto ebbe a soffrire, vedendo i suoi genitori ad ogni istante che passavano davanti a lui, e piangevano amaramente la perdita del figlio che era tutta la loro consolazione. Il padre suo, assai caritatevole, di tratto in tratto mandavagli di che nutrirsi: ma la madre non poteva avvicinarglisi senza sentirsi il cuore ribellarsi, tanto trovava ributtante quel povero. Se la sua carità non le avesse fatto vincere tal ripugnanza, l’avrebbe scacciato di casa. Sempre immersa nella tristezza, sempre piangente: e ciò davanti a colui che non poteva essere insensibile a quanto formava il più grande dei tormenti di sua madre… Il buon Santo passò tre anni in quella triste condizione, solo occupato nella preghiera e nel digiuno, spinto fino all’eccesso: piangeva continuamente. Quando il buon Dio gli fece conoscere essere vicina la sua fine, pregò il maggiordomo di suggerire alla padrona la carità di venire a vederlo, perché desiderava ardentemente di parlarle. Ricevuta tale ambasciata, ella ne parve seccata, sebbene solita a visitare spesso gli ammalati: provava tal ripugnanza di visitare costui, che dovette farsi grande violenza per andare sino all’entrata del luogo dove egli trovavasi. Il morente la ringraziò di tutte le cure che aveva avuto per un miserabile sconosciuto, e l’assicurò che pregherebbe sempre il Signore per lei, affinché la ricompensasse di quanto aveva fatto a suo favore. Le domandò ancora la grazia di incaricarsi della sua sepoltura. Dopo che glielo ebbe promesso, le donò il libro dei santi Evangeli, assai ben rilegato. Ella fu sorpresa di vedere che un povero possedeva un libro così ben rilegato: allora si risovvenne di quello già dato al figlio perduto. Rinnovandosi il suo dolore, si mise a versar lagrime copiose. Accorso il padre a quel pianto rumoroso, ed esaminato il libro, riconobbe che era quello del loro figlio. Egli domandò cosa fosse avvenuto di lui. Il Santo che non aveva più che un soffio di vita, disse loro sospirando e piangendo: “Questo è il libro che mi avete dato dieci anni fa: io sono quel figlio che tanto cercaste e pel quale tanto avete pianto. „ A queste parole, quasi svennero, vedendo il loro caro figlio cercato tanto lontano, e che era così vicino: sembrava loro di non poter più vivere. Ma nell’istante che lo stringevano tra le braccia, egli alzò le mani e gli occhi al cielo e rese a Dio la sua anima bella, che per conservarsi nell’innocenza aveva fatto tanti sacrifici, penitenze e sparso tante lagrime. Ecco, F. M., ciò che possiamo dire: questo Cristiano aveva la fortuna di conoscere la grandezza dell’anima sua, e la cura che doveva averne. Ecco, F. M., un Cristiano che ha glorificato Iddio in tutti gli atti della sua vita: ecco un’anima che ora brilla di gloria in cielo, e benedice il buon Dio d’averle dato la grazia di vincere il mondo, la carne, il sangue. Ah! sono pur fortunate queste morti anche agli occhi del mondo!
II. — In secondo luogo, ho detto che per conoscere il valore dell’anima nostra ci basta considerare quanto Gesù Cristo ha fatto per essa. Chi di noi, F. M., potrà comprendere quanta stima fa il buon Dio dell’anima nostra, giacché Egli ha fatto quanto era possibile ad un Dio per rendere felice una creatura? Per sentirsi più spinto ad amarla, la volle creare a sua immagine e somiglianza: perché contemplandola vedesse se stesso. Perciò vediamo che Egli dà all’anima i nomi più teneri e più capaci di manifestare un amore spinto sino all’eccesso. La chiama sua figlia, sorella, diletta, sposa, amica, colomba. (Cant. II, 10; IV, 9; etc., etc.). Ma non basta: l’amore si mostra assai meglio coi fatti che colle parole. Vedete la sua premura di abbandonare il cielo per prendere un corpo simile al nostro; sposando la nostra natura, Egli ha assunto tutte le nostre infermità, tranne il peccato; o piuttosto ha voluto caricarsi della giustizia che il Padre suo domandava da noi. Vedete il suo annientamento nel mistero dell’Incarnazione: vedete la sua povertà: per noi nasce in una stalla: vedete le lagrime che spargeva su quella paglia, dove pianse in anticipazione i nostri peccati: vedete quel sangue che scorre sotto il coltello della circoncisione: vedetelo fuggire in Egitto come un colpevole: vedete quell’umiltà e quella sottomissione a’ suoi genitori: vedetelo nel giardino dogli Ulivi, che geme, prega e sparge lagrime di sangue: vedetelo, preso, legato, incatenato, gettato a terra, percosso con calci e bastoni dalle sue creature: osservatelo attaccato alla colonna, tutto insanguinato: il suo corpo ha ricevuto troppe percosse, il sangue scorre per modo che anche i carnefici ne sono coperti: vedete la corona di spine che trapassa quel capo sacrosanto; vedetelo portare la croce al Calvario: quanti sono i passi che muove altrettante le cadute: vedetelo inchiodato sulla croce, ove Egli stesso vi si stende senza lasciar uscire dalla bocca una sola parola di lamento. Vedete le lacrime d’amore sparse morendo, e mescolantisi col suo Sangue adorabile! Questo è veramente un amore degno d’un Dio, che è amore! Così davvero, F. M., Egli mostra la stima che fa di un’anima! Non basta questo per farci comprendere quanto essa valga e la cura che dobbiamo averne? Ah! F. M., se avessimo la ventura, una volta sola nella vita, di comprendere la bellezza ed il valore dell’anima nostra, non saremmo pronti come Gesù Cristo, a far tutti i sacrifici per conservarla? Oh! quanto un’anima è bella, è preziosa agli occhi stessi di Dio! Come mai può darsi che ne facciamo così poco conto, e la trattiamo più duramente del più vile animale? Che deve pensare quest’anima, la quale conosce la propria bellezza e tutte le sue splendide doti, vedendosi trascinata nelle brutture del peccato? Ah! F. M., quando la avvoltoliamo nelle acque di quelle infami voluttà, sentiamo noi quale orrore deve essa provare di sé medesima l’anima, a cui Dio solo è superiore? Mio Dio, è possibile che sì poca cura ci prendiamo di tale bellezza? Vedete, F. M., cosa diviene un’anima che ha la disgrazia di cadere nel peccato. In grazia di Dio la si prenderebbe per una divinità: ma nel peccato!… Il Signore un giorno mostrò ad un Profeta un’anima in peccato: ed egli ci dice che era simile ad una carogna, trascinata otto giorni per una strada sotto la sferza del sole. Ah! possiamo ben dire, F. M., col profeta Geremia: “È caduta la grande Babilonia, è divenuta il nido dei demoni. „ (Apoc. XVIII, 2; Jer. LI, 8) Oh! come è bella un’anima, quando ha la fortuna di possedere la grazia del suo Dio! No, no, Dio solo può conoscerne tutto il pregio e tutto il valore! Quindi, vedete come Dio ha istituito una Religione per renderla felice quaggiù, aspettando di farla un giorno godere d’una più grande felicità nell’altra vita. Perché, F. M., ha istituito tutti i Sacramenti? Non è per guarirla, quando ha la sventura di essere ferita dal peccato, e per fortificarla nelle sue battaglie? Vedete a quanti oltraggi s’è esposto Gesù Cristo per essa! Quanto spesso si violano i suoi Comandamenti! quante volte vengono profanati i suoi Sacramenti, quanti sacrilegi nel riceverli! Eppur, no, F. M., sebbene Gesù Cristo sappia tutti gli insulti che vi riceverà, l’amore per le anime nostre non ha potuto arrestarlo dirò meglio, F. M.: Gesù Cristo ha tanto amato, o piuttosto ama tanto l’anima nostra, che, se occorresse, morirebbe una seconda volta. Vedete la sua sollecitudine in soccorrerci nelle nostre pene e nei nostri dolori: vedete le sue cure per coloro che vogliono amarlo: vedete tutte quelle schiere di Santi che ha nutrito in modo miracoloso. Ah! F. M., se avessimo una volta la fortuna di ben comprendere che cos’è un’anima e come Dio… come Egli l’ama, e vuol ricompensarla per tutta l’eternità, noi faremmo come i Santi: né i beni, né i piaceri, né la morte sarebbero capaci di farcela vendere al demonio. Vedete tutte quelle schiere di martiri e i tormenti sopportati per non perderla: vedeteli montar sui patiboli, e darsi in mano ai carnefici con gioia incredibile … Ne abbiamo un bell’esempio in S. Cristina, vergine e martire. Questa martire illustre era toscana. Il padre suo, governatore, ne divenne egli stesso il carnefice. Causa della sua collera, fu l’aver la figliuola tolti via tutti gli idoli che egli adorava in casa; riducendoli in pezzi per farne elemosina ai poveri Cristiani. Per questo atto il padre ebbe un tale accesso di furore che la diede sull’istante in mano ai carnefici, i quali per suo ordine la flagellarono crudelmente e la tormentarono con ferocia inaudita. Il suo povero corpo era ormai tutto sanguinante e il padre ordinò si prendessero uncini di ferro per straziarglielo maggiormente. Giunsero tant’oltre, che le si vedeva gran parte delle ossa in quasi tutte le membra del corpo: ma, un dolore sì cocente non abbatté il suo coraggio né turbò la calma dell’anima sua; ella raccolse, senza tremare, la propria carne dilaniata e la presentò al padre. Un atto così sorprendente, invece di toccare il cuore di quel barbaro padre, non servì che ad irritarlo ancor più: la fece gettare in una prigione orribile, carica di catene: la ricoperse di maledizioni, dicendole che ben altri tormenti le erano preparati: ma la santa figliuola, che aveva appena dieci anni, non ne fu spaventata. Infatti, pochi giorni dopo, il padre la fece uscire di prigione, ed attaccare ad una ruota uncinata alquanto sollevata da terra e tutta cosparsa d’olio, con sotto accesovi gran fuoco, affinché, girando la ruota, il corpo della piccola innocente soffrisse un doppio supplizio. Ma un grande miracolo ne impedì l’effetto: il fuoco rispettò la purezza della vergine Cristina, e non fece alcun danno al suo corpo; mentre invece si voltò contro gli idolatri, e ne abbruciò un numero grandissimo. Il padre, vedendo tali prodigi, scoppiava di dispetto. Non potendo soffrire tale sconfitta, senza vendicarsene come l’odio gli ispirava, ricondusse la figlia in prigione: ma non vi restò senza chi la soccorresse: un Angelo discese nella sua cella per consolarla, e ad un tempo guarì tutte le sue piaghe, ridandole nuove forze. Il padre snaturato, saputo il miracolo, stabilì di ordinare un ultimo sforzo. Comandò al carnefice di attaccarle una pietra al collo, e precipitarla nel lago. Ma il buon Dio che aveva saputo preservarla dalle fiamme, seppe anche salvarla dalle acque: il medesimo Angelo che l’aveva soccorsa in prigione, la soccorse sulle acque e la fece tranquillamente tornare alla riva, dove fu trovata più sana di prima. Il padre, vedendo che tutto quanto ordinava per farla soffrire non riusciva a nulla, ne ebbe tale rammarico che morì di rabbia. Dione, suo successore nel governo, gli succedette anche nella ferocia: credette fosse dover suo vendicare la morte del padre, di cui credeva fosse causa la figlia. Inventò mille sorta di tormenti contro quella vergine innocente: ma il più crudele fu l’immergerla in una vasca piena di olio bollente misto a pece. La santa giovane, che Dio compiacevasi proteggere in faccia ed a confusione dei suoi tiranni, con un sol segno di croce fece perder la forza a tutta quella materia, e usando una santa facezia, disse loro che l’avevano messa in una culla, come un bambino appena battezzato. Quei detestabili ministri di satana furono indignati di vedere che una fanciulla di dieci anni trionfava di tutti i loro sforzi, e dimenticando il rispetto dovuto al pudore ed alla modestia di quella vergine, le tagliarono i capelli, la spogliarono degli abiti, ed in tale stato la trascinarono in un tempio di idoli per forzarla a presentare incenso al demonio: ma alla sua entrata nel tempio, l’idolo cadde in pezzi, ed il tiranno morì sull’istante. Gli idolatri, testimoni del fatto, si convertirono quasi tutti, in numero di tremila. La santa giovane passò in mano d’un altro carnefice, chiamato Giustino. Il tiranno, stimando suo dovere vendicar la vergogna e la morte del suo predecessore, provò ancora su di essa quanto il furore poté ispirargli: cominciò a gettarla in una fornace ardente, perché vi rimanesse incenerita: ma il buon Dio, con un nuovo miracolo, permise che le fiamme non le facessero alcun male; e la vergine vi stette cinque giorni senza nulla soffrirne. Allora gli uomini, trovandosi esauriti nella loro malizia, ricorsero al demonio, e si rivolsero ad un mago che gettò gran numero di orribili serpenti nella sua prigione, pensando che sarebbe morta di veleno: ma tale consiglio diabolico non servì che a far risplendere maggiormente la gloria della vergine, facendola trionfare degli animali, dopo aver trionfato della rabbia degli uomini. Le si tagliò la lingua: ma si faceva udire anche meglio, e cantava con più forza le lodi del Dio che adorava. Da ultimo, non sapendo più che fare, il carnefice la fece attaccare ad un palo, dove il suo corpo fu trafitto da frecce, finché l’anima sua se ne separò per andar a godere la presenza di Dio che aveva così ben meritata. Ditemi, F. M., questa giovinetta non comprendeva la grandezza ed il valore dell’anima? Non era penetrata di quanto doveva fare per conservarla, a costo dei beni, dei piaceri, della sua vita stessa? Ah! F. M., se avessimo una buona volta compreso che 1’anima nostra vale la stima che Dio stesso ne fa, potremmo lasciarla perire come facciamo? No, no, F. M., non meravigliamoci più di tante lagrime versate da Gesù Cristo sulla perdita dell’anima nostra. Ma, penserete voi, su che cosa adunque ha tanto pianto Gesù Cristo? — Ahimè! ha pianto sul nostro orgoglio, vedendo che non cerchiamo che gli onori e la stima del mondo, invece di pensar solo ad umiliarci alla vista di ciò che un Dio ha subito per innalzarci: ha pianto sui nostri odii e sulle nostre vendette, mentre egli muore pe’ suoi nemici: ha pianto sui nostri vizi vergognosi di impurità, vedendo come questo peccato disonora l’anima nostra e la immerge in un fango immondo e putrido. Ahimè, F. M.! Egli ha pianto sui nostri peccati. Voleva salvarci tutti e renderci felici; non voleva che anime sì belle, sue creature, andassero perdute, disonorate, schiave del demonio, mentre sono dotate di tante belle doti, e destinate a sì grande felicità.
III. — S. Agostino ci dice: “Volete sapere che cosa vale l’anima vostra? Andate, domandatelo al demonio; egli ve lo dirà. Il demonio stima tanto un’anima che quando pur vivessimo quattro mila anni, se dopo quattro mila anni di tentazioni riuscisse di guadagnarci, non gli rincrescerebbe affatto.„ Questo Santo che aveva provato le tentazioni del demonio in un modo particolare, ci dice che la nostra vita è una tentazione continua. Il demonio stesso disse un giorno per bocca di un ossesso, che finché fossevi un uomo sulla terra lo avrebbe tentato. Perché, disse, non posso soffrire che i Cristiani dopo tanti peccati possano sperar ancora il cielo che io ho perduto in un solo momento senza poterlo più riguadagnare. Ma, ahimè! non sentiamo noi stessi che in quasi tutte le nostre azioni siamo tentati, ora dall’orgoglio, dalla vanità, dalla buona opinione che pensiamo si avrà di noi, ora dalla gelosia, dall’odio, dalla vendetta! Altre volte il demonio non viene a presentarci le immagini più vergognose ed impure? Vedete nelle nostre preghiere: egli distrae il nostro spirito da una parte e dall’altra: non ci sembra quasi d’essere in uno stato quando ci troviamo alla santa presenza di Dio? E, assai più, non troverete un santo che non sia stato tentato dopo Adamo, chi in un modo, chi in un altro; ed i più gran Santi lo furono di più. Se nostro Signore è stato tentato, è per mostrarci che dobbiamo esserlo ancor noi: bisogna adunque assolutamente aspettarcelo. Se mi domandate la causa delle nostre tentazioni, vi dirò che è la bellezza ed il valore dell’anima nostra, che il demonio stima ed ama tanto che acconsentirebbe a soffrire due inferni, occorrendo, se con ciò potesse trascinare l’anima nostra all’inferno. Non dobbiamo cessar mai di vegliare su di noi stessi, per timore che il demonio ci inganni quando meno ce l’aspettiamo. S. Francesco ci dice che un giorno il buon Dio gli fece vedere il modo col quale il demonio tentava i suoi religiosi, soprattutto contro la purità. Gli mise innanzi una schiera innumerevole di demoni i quali non facevan altro che tirar frecce contro i religiosi: le une ritornavano con violenza contro i demoni stessi che le avevano scagliate; ed allora questi fuggivano gettando urla spaventevoli: le altre rimbalzavano su quelli contro i quali erano state gettate, cadendo ai loro piedi senza fare alcun male; altre entravano sino a tutta l’asta, ed infine li trapassavano da parte a parte. Bisogna servirci per scacciarli, come ci dice sant’Antonio, delle medesime armi; quando ci tenta di orgoglio, dobbiamo subito umiliarci ed abbassarci davanti a Dio: se vuol tentarci contro la santa virtù della purità, dobbiam cercare di mortificare il nostro corpo e tutti i nostri sensi, ed essere ancor più vigilanti su di noi stessi. Se vuol tentarci col disgusto nella preghiera, bisogna pregare di più e con maggior attenzione: e più il demonio ci dirà di lasciarla, più dobbiamo aumentare il numero delle nostre orazioni. Le tentazioni più da temere sono quelle che non conosciamo. S. Gregorio ci dice che era vi un religioso, che per un po’ era stato buono: gli venne poi un gran desiderio di uscire dal monastero e ritornare nel mondo perché, diceva egli, il buon Dio non lo voleva più nel monastero. Il suo superiore gli disse: “Amico mio, è il demonio che così vi tenta, indispettito che possiate salvar l’anima vostra; combattetelo.„ Ma no, l’altro credé sempre che la cosa fosse com’egli pensava. Il santo gli permise di andarsene: ma mentre questi usciva, egli si pose in ginocchio per domandare al buon Dio di far conoscere a quel povero religioso che era precisamente il demonio che voleva perderlo. Appena messo il piede sulla soglia della porta per uscire, vide un grosso dragone che gli si gettò addosso. “Ah! esclamò, Fratelli miei, soccorso! ecco un dragone che mi vuol divorare.„ Infatti i religiosi accorsi al rumore, lo trovarono steso in terra, svenuto: lo portarono nel monastero, ed egli riconobbe che era il demonio che lo tentava, e che si struggeva di rabbia perché il suo superiore aveva pregato per lui, impedendogli di farlo suo. Ahimè! F. M., dobbiamo temere di non conoscere le nostre tentazioni! E non le conosceremo mai se non lo domandiamo a Dio. Che cosa dobbiamo, M. F., concludere, da ciò? che l’anima nostra è qualche cosa di ben grande agli occhi dei demoni, poiché sono tanto solleciti di non lasciarsi sfuggire una sola occasione di tentarci, per perderci e trascinarci nella loro rovina. Ma ora che abbiamo visto, F. M., che l’anima nostra è alcunché di grande, che Dio l’ama, che ha sofferto tanto per salvarla, e quali beni le prepara nell’altra vita: ora che abbiamo visto tutte le insidie ed astuzie del demonio per rovinarla, che cosa, F. M., ne pensiamo? quale stima ne facciamo? quale cura ne abbiamo? Abbiamo mai, F. M., meditato sulla grandezza dell’anima nostra, e sulla sollecitudine che ne dobbiamo avere? Che cosa facciamo, F. M., di quest’anima che ha tanto costato a Gesù Cristo? Ahimè! se dovessimo confessare che l’abbiamo soltanto per renderla infelice e farla soffrire! La stimiamo meno delle nostre bestie più vili: se queste sono in stalla, diamo loro da mangiare: abbiamo cura di aprire e chiudere le porte, temendo che i ladri ce le rubino: se ammalate, cerchiamo il veterinario che le guarisca: siamo afflitti, assai spesso, vedendole soffrire. Facciamo altrettanto per l’anima nostra, F. M.? Abbiamo cura di nutrirla colla grazia, colla frequenza ai Sacramenti? Abbiamo cura di ben chiudere le porte, per timore che i ladri ce la rubino? Ahimè! F. M., diciamolo a nostra vergogna: la lasciamo perire di miseria: la lasciamo assalire dai nemici, le nostre passioni: lasciamo tutte le porte aperte: viene il demonio dell’orgoglio, lo lasciamo entrare, ferire, straziare l’anima nostra: viene quello dell’impurità, entra, insozza, corrompe la povera anima nostra. “Ah! povera anima, ci dice S. Agostino, come sei stimata cosa da poco. Un orgoglioso ti vende per un pensiero di orgoglio, un avaro per un po’ di terra, un ubbriacone per un bicchier di vino, un vendicativo per un pensiero di vendetta!„ E davvero, F. M., dove sono le nostre buone orazioni, le Comunioni, le preghiere ben fatte, le Messe ben ascoltate, la rassegnazione alla volontà di Dio nelle afflizioni, la carità pei nemici? È possibile, F. M., che facciamo sì poco caso di un’anima tanto bella, che Dio ha amato più di se stesso, poiché è morto per salvarla? Ahimè, amiamo il mondo ed i piaceri del mondo: e quanto si riferisce alla gloria di Dio od alla salvezza dell’anima nostra ci annoia, ci disgusta: mormoriamo, quando bisogna occuparsene. Ahimè! qual rimorso avremo un giorno!… Il mondo sembra darci qualche piacere: ma non inganniamoci. Ascoltate che cosa ci dice S. Giovanni Crisostomo: vedrete come è più fortunato chi cerca conservare l’anima sua di chi cerca solo i piaceri e lascia da parte l’anima. “Mentre dormivo, racconta questo gran Santo, ebbi un sogno straordinario, che, svegliatomi, mi presentò tanti soggetti di riflessioni davanti a Dio. Vidi un luogo delizioso, una valle incantevole, dove la natura aveva raccolto tutte le sue bellezze, tutte le ricchezze e tutti i piaceri capaci di rallegrare un mortale. Mi meravigliò, in mezzo a quella valle di delizie, un uomo dall’aspetto triste, dal viso alterato, dallo spirito preoccupato: il suo atteggiamento tradiva l’agitazione dell’animo: ora stava immobile, con lo sguardo fisso a terra; ora camminava a lunghi passi con aria smarrita: poi, arrestatosi improvvisamente, mandava profondi sospiri, e s’immergeva in tetra melanconia, come se fosse vicino alla disperazione. Osservando attentamente, scopersi che quella valle di delizie terminava ad un precipizio pauroso, ad una voragine immensa, dove una forza arcana sembrava trascinarlo. Quell’uomo era agitato, malgrado tante delizie, perché con tale vista non poteva gustare un sol momento di gioia e di pace. Ma spingendo più lontano i miei sguardi, vidi un altro luogo tutto differente, un vallone oscuro e triste, montagne scoscese, deserti sterili: solo la desolazione sembrava abitar quel luogo, e nessun fogliame, nessuna verzura; rovi e spine: tutto ispirava tristezza, e una specie di orrore. La mia sorpresa giunse al colmo quando scorsi in questa valle un uomo pallido, macilento, estenuato, eppure con un viso sereno, un portamento tranquillo ed un’aria contenta: nonostante le apparenze desolanti, tutto annunciava un uomo che ha la pace dell’anima: ma spingendo i miei sguardi ancor più lontano, distinsi al termine di quella valle di miserie e di quel pauroso deserto, un luogo delizioso, un sito incantevole, dove scoprivasi ogni sorta di bellezze. L’uomo teneva fisso sempre l’occhio a quel termine, non lo perdeva mai di vista: camminava con coraggio, passando attraverso i rovi, dove spesso si pungeva: ma le sue ferite sembravano rinnovargli le forze. Meravigliato di ciò, domandai perché l’uno era così triste in quel luogo di piaceri, e l’altro così contento in un luogo di miserie. Allora sentii una voce che mi disse: Questi due uomini che vedi sono l’immagine di coloro che sono o interamente attaccati al mondo, o sinceramente consacrati al servizio di Dio. Il mondo, mi disse quella voce, presenta ai suoi seguaci prima i beni, i piaceri, almeno in apparenza; essi vi si abbandonano come insensati: ma bentosto riconoscono che non trovarono quanto credevano. La cosa più triste e desolante è che a capo di questa valle vi è una voragine, dove vanno a precipitare tutti coloro che camminano per questa via che sembra tanto dilettevole. L’altro uomo al contrario, mi disse la voce, dimostra l’opposto: nel servizio di Dio, prima vi sono prove e dolori, si abita in una valle di lagrime: bisogna mortificarsi, farsi violenza, privarsi delle dolcezze della vita, passare i giorni nelle angustie. Ma si resta animati dalla vista e dalla speranza d’un avvenire per sempre felice: è la sorte riservata all’uomo che trovavasi nella valle triste: ed il pensiero della felicità che gli spetta lo conforta e lo sostiene nelle sue lotte. Tutto diviene consolante per lui, l’anima sua gusta già i beni promessi, che l’attendono, e dei quali godrà presto. „ Si può trovare, F. M., un’immagine più naturale di questa, per farci comprendere la differenza tra chi nella sua vita cerca solo di piacere a Dio, salvare l’anima propria, e chi mette da parte Dio e l’anima per correre dietro ad alcuni piaceri, che, senza offrire nulla di consolante né di perfetto, ci conducono in un precipizio, cioè nella voragine infernale (Est via qua videtur humìni justa: novìssima autem ejus deducunt ad mortem. Risus dolore miscebitur, et extrema gaudii luctus occupat (Prov.XIV, 12, 13). Fortunato, carissimi, chi seguirà questa strada, dove vi sono pene, ma di breve durata, e che al suo termine conduce ad un luogo felice, al possesso di Dio! È la fortuna che vi auguro ….
Offertorium
Orémus
Ps XVIII: 9-12
Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulcióra super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.
[La legge del Signore è retta e rallegra i cuori, i suoi giudizii sono piú dolci del miele e del favo: e il servo li custodisce.]
Secreta
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine, hæc digne frequentáre mystéria: quia, quóties hujus hóstiæ commemorátio celebrátur, opus nostræ redemptiónis exercétur.
[Concedici, o Signore, Te ne preghiamo, di frequentare degnamente questi misteri, perché quante volte si celebra la commemorazione di questo sacrificio, altrettante si compie l’opera della nostra redenzione.]
Communio
Joann VI: 57
Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo, dicit Dóminus.
[Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me, ed io in lui, dice il Signore.]
Postcommunio
Orémus.
Tui nobis, quǽsumus, Dómine, commúnio sacraménti, et purificatiónem cónferat, et tríbuat unitátem.
[O Signore, Te ne preghiamo, la partecipazione del tuo sacramento serva a purificarci e a creare in noi un’unione perfetta.]
PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)