I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (IX)
LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI
dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.
TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN. DON GIOVANNI BOSCO
VICENZA – Società Anonima Tipografica, 1922
Nihil obstat quominus imprimatur.
Vicetiæ, 24 Martii 1922.
Franciscus Snichelotto
IMPRIMATUR
Vicetiæ, 25 Martii 1922.
M, Viviani, Vic. Gen
SECONDO PRINCIPIO FONDAMENTALE: VINCERE SE STESSO (IV)
CAPITOLO XIV.
La superbia
4. L’albero genealogico della superbia è il seguente: il tronco è l’amor proprio, il quale si protende in due rami, la superbia e la sensualità. Dalla superbia germogliano: prima la vanità, creatura mansueta ma un po’ impertinente; seconda l’ambizione, personaggio irrequieto che vuol essere stimato da tutti; terzo, la brama di comando, che ha in uggia qualunque soggezione, e vuol dominare, vero diavoletto in casa, di cui nessuno, nemmeno Dio può fidarsi. Tutte possiedono una caratteristica particolare di famiglia che le distingue, ed è che si sforzano di essere o di apparire disordinatamente e senza limiti più di quel che sono, e desiderano d’assumersi e sostenere incarichi oltre quanto il loro potere e la loro forza consentano. – Venendo al particolare, suol essere indizio di superbia la propria soddisfazione, che loda tutto ciò che le appartiene, attribuendolo a sé stessa. Quindi la troppa sensibilità alterandosi per ogni piccolo disprezzo, per un sospetto e per una supposta umiliazione. Non esiste una sensitiva così delicata come il superbo: crede di avere e possedere unicamente quello che in lui vedono ed ammirano gli altri. Ha la mania altresì di tutto criticare e giudicare: il superbo non la risparmia né ai vivi né ai morti, arriva a mettersi sopra un piedistallo come un semidio; ei sa tutto, nessuno può insegnargli, basta a sé medesimo, tutti gli altri devono essergli inferiori. Semidei di questo genere non sono rari nel mondo; essi sono precisamente coloro che non vogliono udir parlare nè di Chiesa nè di Dio. Se ne incontra dappertutto: tra principi e sudditi, tra nobili e plebei, tra scienziati ed ignoranti. Risulta, infine, esser un’epidemia generale del mondo, dal giorno che il serpente scrisse nel libro de’ nostri progenitori: « Voi sarete come dei », parole che noi loro figli non dimenticheremo mai.
2. L’umiltà è tutto l’opposto. Fondata sulla moderazione e figlia dell’interiore modestia, governa ed invigila tutti i moti disordinati di superbia, tutte le ambizioni d’onore, di stima e d’assoluta indipendenza; l’umile aspira ad un lodevole disprezzo anche davanti gli altri, nutre una bassa opinione di sé stesso e si rallegra che il pubblico la condivida e manifesti, fugge l’onore, che non si prepone, sopporta con pazienza e gioia le umiliazioni, non si scusa, si umilia riconoscendo con semplicità le proprie miserie e debolezze in tempo opportuno, specialmente nella Confessione. L’opera sua magistrale ed eroica è amore alle umiliazioni.
3. Condizione previa al tempo stesso che educatrice, maestra e consigliera dell’umiltà è la propria cognizione, la quale gli insegna che tutto ciò che ha di buono e compie è dono ed opera di Dio: che egli per sé nulla può né possiede se non peccati e miserie. Di qui si chiarisce bene tutto ciò che fa e lascia di fare l’umile, persino l’amore stesso alle umiliazioni… Questo principio retto e ragionevole dell’abnegazione propria è il germe, l’anima ed il movente dell’umiltà.
4. Quanti motivi abbiamo per combattere la superbia con una vera umiltà!
Solo se siamo umili possiamo giudicarci con verità, imperocché l’umiltà è la verità. La conoscenza di noi stessi, che è uno specchio che non inganna, c’insegna che tutto abbiamo ricevuto da Dio e nulla è nostro; per cui la superbia è menzogna, mancanza di probità, un furto che si fa all’onore di Dio, dinanzi al quale è un’abbominazione, come dinanzi agli uomini di buon senso è una ridicolaggine. Il confidare troppo nelle proprie forze è segno che i nostri pensieri sono piccoli, infinitamente piccoli. E che cos’è, finalmente, la gloria mondana? Inoltre, quanto importante è l’umiltà per la vita spirituale! Tutto dipende dalla grazia di Dio. Se siamo superbi non può Dio darci grazie speciali; non per ciò che s’attiene a Lui, poiché soltanto l’umiltà Gli rende l’onore dovuto; e nemmeno in riguardo a noi, perché le grazie senza l’umiltà non farebbero che pregiudicarci e darci motivo da insuperbire di più. – Insomma, se vogliamo vivere vita pura ed esente da colpe, siamo umili, poiché da difetto d’umiltà proviene il maggior numero delle quotidiane nostre imperfezioni. Infatti, d’onde l’abbandono della preghiera, l’invidia, il parlare de’ difetti altrui, la detrazione, l’immodestia, la disobbedienza, l’esagerata delicatezza, le affezioni disordinate, l’impazienza, i lamenti nei travagli e disgusti, la tristezza e la disperazione? Tutte queste mancanze ed innumerevoli altre spariscono coll’umiltà. Suol dirsi che i piccoli non fanno cadute gravi, ma il superbo ed orgoglioso trovasi in pericolo di cadere e, forse, vergognosamente, e questa è l’unica via che possa farlo rientrare in sé. La superbia è la sorgente di tutti i peccati: l’umiltà il fondamento di tutte le virtù, non perché sia in sé la più sublime, ma perché è la condizione, si direbbe, « sine qua non », per ogni opera buona. Come può fare un passo sicuro colui che ignora ciò che è e ciò che può? E davvero che il superbo non lo sa, ma unicamente l’umile mediante il conoscimento di sé stesso. Infine, chi vuol operare qualche cosa di grande per la gloria di Dio, deve amare l’umiliazione, che è il più elevato grado dell’umiltà. Infatti, cercare ed amare l’umiliazione è il sacrificio più gravoso, il passo più difficile della vita spirituale, la linea che separa i perfetti dai non perfetti. La superbia è l’amor proprio portato sino all’odio di Dio; l’umiltà è l’amore di Dio sino all’odio di sé medesimo. Questa conseguentemente è la vera e perfetta vittoria, la vera adorazione e glorificazione di Dio in noi. Allora soltanto Dio può contare su noi incondizionatamente; altrimenti saremo sempre suoi strumenti malsicuri. D’altronde, premio dell’umiltà suole essere una vita felice, esente da colpe e ricca in virtù. Quanto importante finalmente è questa virtù dell’umiltà per abbracciare una vocazione e perseverare in essa, ed in generale, quanto necessaria per la pace e felicità della società umana! Molti ambiscono posti più elevati per dare maggior gloria a Dio e poter lavorare di più; com’essi dicono; ma in fondo è solamente ambizione d’onore quella che li spinge. Non riesce la cosa né ha buon esito? Oh! allora si scoraggiano e non sono più capaci di nulla. Non possono soffrire che il loro talento stia nascosto sotto terra; per essi le cose del servizio di Dio non sono che gradini per salire più in alto. E se loro riesce di avere un posto elevato, allora la superbia li priva di tutto il merito dinanzi a Dio. Non c’è peggiore nemico della superbia e della brama d’onore per far perdere un carattere, spogliare l’uomo della sua dignità, indipendenza, lealtà e sincerità dinanzi a Dio ed agli uomini. Sono gli animalia gloriæ di cui parla Tertulliano. E, se no, da qual causa provengono nella vita sociale l’inquietudine, la disordinata brama di salire, la ripugnanza a tutto ciò che sa d’autorità; da qual causa tutte le rivoluzioni e moti popolari, se non dalla superbia, dall’ambizione di gloria e di comando? Lungi, dunque, da noi l’ambizione, coll’ingannevole suo frutto: l’onore mondano. L’onore e la stima degli uomini non sono che beni apparenti e di nessun valore. Che guadagnerebbe un mendico se venisse lodato da un altro mendico? Cerchiamo mediante la vera umiltà ed abnegazione l’onore che procede da Dio, e verrà il momento che l’avremo; onore che in fin de’ conti è l’unico vero.
CAPITOLO XV.
Antipatia e simpatia.
In questo capitolo si tratta dell’amore, e particolarmente dell’amore al prossimo.
1. La carità è una virtù che ci fa amare Dio per essere Egli chi è, e riposare in Lui perfettamente come nel bene supremo. L’oggetto suo è duplice: Dio e l’uomo; quest’ultimo, in quanto si riferisce a Dio come creatura e figlio adottivo che Gli è. Imperocché Dio non ama solo sé medesimo, ma ama tutte le sue creature; e così, perché l’amor nostro sia divino, deve estendersi a Dio ed al prossimo; ma il motivo di amare è uno solo, Dio: di maniera che tutto il resto deve amarsi per Lui, in Lui e con Lui. L’ordine che dobbiamo tenere è questo: primo, amare Dio sopra ogni cosa; secondo, amare sé stessi; terzo, il prossimo, però non come si vuole, ma come noi medesimi. Tanto in noi come nel nostro prossimo, dobbiamo anteporre il bene spirituale al temporale, così che va data la preferenza al bene spirituale del prossimo in confronto col bene nostro corporale. In quanto al vantaggio nostro temporale, possiamo posporlo a quello del prossimo, sebbene non sia necessario. Il disordine, pertanto, in questa materia consiste, o che non amiamo tutte le cose per amore di Dio, o che amiamo qualche creatura più che non Dio, o, finalmente, che anteponiamo il bene temporale al bene spirituale nostro o del prossimo. – Le ragioni che provano l’eccellenza dell’amore e carità sono le seguenti.
2. L’amore è il primo e principale dei Comandamenti ed il compendio e la sorgente di tutti, in quanto che gli altri non sono che applicazioni di questo. Mediante l’amore Iddio s’impossessa della volontà, la cui principal forza è amare. Per esso Dio si fa suo tutto l’uomo e gli può comandare ciò che vuole. Per esso unisce tutti gli uomini gli uni agli altri ed a Sé medesimo, loro ultimo fine, nella maniera più perfetta. Così l’amore è veramente vincolo di perfezione nel senso più elevato. Per questo il Salvatore presenta il Cristianesimo come religione d’amore, e l’amore come la tessera de’ suoi discepoli. Propriamente parlando abbiamo una sola legge ed un’unica occupazione: amare.
3. L’amore di Dio e del prossimo ha un avversario e nemico che può vivere solo a di lui spese. È questo l’amor proprio disordinato che si stima ed ama sopra tutto, che tutto-giudica: a suo modo, in tutto cerca sé medesimo, persino nell’amore del prossimo, or per simpatia, o per antipatia.
4. Si dice, e giustamente, che l’uguaglianza e la concordia sono condizione e fondamento dell’amore. Per cui le cause dell’avversione o manchevolezza d’amore che proviamo contro il prossimo possono fondarsi sulla diversa condizione naturale o sul vario modo di sentire, di pensare e d’operare, cose tutte che lo rendono, come suol dirsi, antipatico o ripugnante. Un’altra causa da cui nasce l’avversione sono le offese, vere od immaginarie, da parte del prossimo. Dal che, come terza causa d’antipatia, derivano pensieri di disprezzo, di critica, d’avversione e di sospetti, che ben presto si trasformano in parole amare, in osservazioni intempestive o pungenti, ed in recriminazioni che nuocciono molto alla carità e mettono la disunione nei cuori. Corrono gran pericolo di venir meno allo spirito di carità coloro che, essendo d’ingegno acuto, non ne fanno buon uso. Un’arguzia porta sovente più danno che una manifesta offesa. È un pericoloso talento quello del burlone, e serve di frequente a nascondere una mordacità e disamore satanico. Di rado lo spiritoso è inoffensivo; mira quasi sempre a sé stesso, ed in tutto vuol far spiccare le proprie acutezze, nulla badando all’umiltà ed alla carità. Sono cose queste che l’amor vero, bene così alto ed elevato, esige che evitiamo. Non diamo mai adito scientemente nel nostro cuore ad antipatie od avversioni e non mettiamoci di proposito a rivangare torti ricevuti dal prossimo, né a pensare ai difetti del suo carattere o qualità sue antipatiche; ché ciò, a nulla giova, né fa che le cose cambino modo d’esistere: l’unico risultato è d’aumentare la nostra mala disposizione. Il germe dell’antipatia è l’indifferenza. Procuriamo perciò di evitarla, nutrendo in noi idee di carità affettuosa. Un uomo che fomenti questi pensieri, dice il P. Faber, è certamente un santo. Ci sono alcuni che sembrano nati solo per molestarci: sono intempestivi sempre e tutto quel che fanno è disordinato e disgusta. E vi sono altri che realmente ci amareggiano ed offendono colle cattive loro abitudini e colpe. Che si deve fare allora, se non aver pazienza? Dovremmo allontanarci dalla società se nulla volessimo patire e sopportare. Siffatte cose spiacevoli è d’uopo prenderle in cambio dei vantaggi del vivere in società. Nojosissima sarebbe la vita, se tutti fossimo d’ugual tratto. Alla fine il maggior vantaggio della vita socievole è l’esercizio continuo di pazienza e di carità, che è la cosa più sublime. È quasi sempre l’amor proprio, il dolore immaginario, l’ostinazione e attaccamento al nostro parere, oppure la mancanza di abitudine o senso pratico per comprendere gli altri e conformarvici, ciò che ci rende così difficile la loro convivenza. Un buon consiglio è di comportarci coi falli altrui come coi proprî, che da principio non li crediamo, in seguito li attenuiamo col bene che abbiamo o pensiamo d’avere, e finalmente, perché non può farsi altrimenti, li sopportiamo. Né mai parliamo senza un giusto motivo dei falli altrui, poiché ciò non serve che ad inasprirci di più e dare cattivo esempio. Evitare l’incontro di coloro che ci sono contrarî per non adirarci, non è un buon mezzo; è molto più facile e giovevole allo scopo cui si mira, avvicinarli e vincerne la scortesia a forza di buone maniere. Definitivamente in questo caso è di somma importanza essere compresi di tutte queste difficoltà della vita comune, affrontarle a piè fermo, sopportarle con pazienza e uscirne vincitori. Una massima sapientissima è questa, giudicare tutto possibile in questo mondo e non meravigliarsi di nulla.
5. La simpatia in sé e per sé è buona; è l’ago magnetico che mediante l’amore unisce gli uomini in società temporale, come le anime in società spirituale. Essenzialmente è un sentimento involontario ed una tendenza istintiva; perché meriti il nome di carità è necessario che abbia la coscienza di ciò che fa e che sia fondata su motivi ragionevoli. – In questa materia può darsi disordine, prima, quando il motivo non sia Dio, poiché in tal caso l’amore non sarebbe divino, ma puramente naturale. In secondo luogo, l’affezione è disordinata se non osserva il retto ordine determinatole da Dio e dalla ragione. – Dopo Dio e noi stessi, dobbiamo amare coloro che per consanguineità o precetto divino ci sono più prossimi; come per es., i genitori e parenti, i superiori, i benefattori, quelli in cui rifulge più specialmente l’autorità, la santità o i doni di Dio, o che hanno maggior bisogno dell’aiuto nostro. In terzo luogo, è disordinato l’amore che non ha per oggetto i doni spirituali del prossimo, ma le sue qualità corporali e chi sa ancora con danno dell’anima. Questo, che non va più su dell’amor proprio volgare, non solo non è amare il prossimo, ma piuttosto, considerandolo da un punto di vista più elevato, è odiarlo. Finalmente è disordinato l’amore che si lascia trascinare da pura simpatia verso un individuo, pregiudicando così il bene generale; poiché più che ad uno solo siamo obbligati a tutta la società. – In questa specie di amore disordinato s’inchiudono tutte quelle benevolenze sensuali che diconsi amicizie particolari. Soglionsi conoscere queste in quanto che distolgono dall’amor nostro coloro ai quali siamo più obbligati, e ci mettono in pericolo di peccare contro i Comandamenti di Dio. Sono senz’altro un furto fatto all’umanità ed al ristretto numero di persone in mezzo alle quali viviamo. Quanto il vero amor di Dio e del prossimo nobilita l’uomo rendendolo grande e felice, altrettanto l’amore falso e spurio, che è la morte della vera carità, lo umilia e degrada.
6. Dobbiamo abbandonare questo amore teatrale, ed elevarci al vero amore di Dio e degli uomini, unico che ci renda indipendenti e ricchi mettendoci in condizione di operare un bene immenso in questo mondo. Nessuno per discolparsi metterà innanzi la ragione che potrà fare poco o nulla. Amiamo davvero e potremo fare molto a favore del prossimo. Avremo allora pensieri pieni di carità, i quali muovono il cuore e questo la mano. E che ci vuole di più per operare il bene? Non ci mancheranno le parole affettuose, e con una parola d’affetto possiamo dissipare malintesi e fugare ogni diffidenza. Avremo un occhio amorevole, ed uno sguardo di compassione può mettere un argine alla mestizia ed alle tentazioni, e infondere gioia e coraggio; e chi non sa che l’allegrezza cambia la terra in un paradiso? Un uomo amabile e gioviale è una vera provvidenza di Dio nel mondo; è un esorcista che scaccia demonî, un apostolo ed evangelista, un oratore che sa presentare il divin Salvatore con tutta la munificenza ed amor suo. Abbiamo un vero amore e carità verso il prossimo, e non ci mancheranno i mezzi per fare il bene. – La carità non viene meno (1 Cor. XIII, 18), non è povera e senza consiglio. Non potremo far mai bene bastante nel mondo; ma per farlo è necessario essere dotati d’energia ed ilarità. Ogni opera di carità porta con sé consolanti benedizioni, nuova soddisfazione pel bene che si opera e finalmente la nobile passione d’intraprendere sempre qualche cosa di nuovo: questa è la perfetta vittoria del bene, o, per dir meglio, del divino nel cuore dell’uomo.
CAPITOLO XVI.
La passione dominante.
1. Per carattere intendiamo il distintivo, la qualità e nota predominante della condizione naturale di un individuo. Passione dominante nel carattere d’una persona sarà, secondo questo, un disordine, eccesso o difetto nelle qualità dell’anima e nelle reciproche loro relazioni, proprio e caratteristico di tale persona.
2. Più o meno, tutti gli uomini hanno qualche particolare difetto. Dio solo pel suo Essere semplicissimo e infinitamente perfetto esclude da Sé necessariamente e naturalmente ogni disuguaglianza. Non vi è in Lui nessuna proprietà che sia più o meno perfetta d’un’altra. Ben diversamente è nelle creature e quindi nell’uomo, il quale è finito, limitato e disuguale. Esiste inogni uomo una disposizione e qualità anemica che predomina su tutte le altre, che perturba l’armonia e il retto andamento dell’essere generale e rende possibili i traviamenti: è la passione dominante.
3. Può provenire questo squilibrio dalla disposizione d’animo, secondo che predomini l’intelletto o la volontà, la fantasia o il sentimento, e non a vantaggio ma a danno di altre facoltà, lasciando l’impronta sua su tutto l’uomo. Così distinguiamo gli uomini intellettuali, indipendenti, inflessibili, energici, esaltati, sentimentali o appassionati. Questa diversità può provenire anche dal corpo, cioè, dal temperamento, che influisce sull’animo comunicandogli le sue qualità, a motivo dell’intima unione dell’anima col corpo. Perciò diciamo che vi sono dei temperamenti sanguigni, collerici, flemmatici e melanconici. I quali tutti presentano i loro vantaggi ed i loro inconvenienti.
4. Per correggere il difetto particolare di ciascuno, bisogna anzitutto conoscerlo; poiché sebbene, più o meno, tutti ne abbiamo alcuno, non è sempre facile scoprirlo, opponendosi molte volte, sia la mancanza del proprio conoscimento, sia il difetto di riflessione od anche la superbia ed accecamento interiore. Il riconoscersi colpevole sempre umilia; per questo si cercano delle attenuanti. Possono trovarsi anche degli uomini d’un carattere così eguale e temperato, che torni difficile constatare in essi un’azione spiacevole. In questi naturali il difetto suol essere la timidezza, la pusillanimità e indecisione per manifestarsi ed intraprendere qualche cosa. – Diamo qui alcune regole che possono giovare per conoscere la nostra passione dominante. Conviene osservare anzitutto che cosa sia in noi che predomini, se l’intelletto, la volontà o il sentimento, e vedere che sorta di temperamento sia il nostro. Si noterà in secondo luogo quali siano i peccati e le mancanze in cui più di frequente cadiamo, che ci porteranno con certezza a scoprire la comune radice, che è la passione dominante. – In terzo luogo, fermiamo l’attenzione nostra sulle virtù che abbiamo: con esse sotto gli occhi potremo rintracciare la passione dominante, imperocchè ogni pianta ha il suo parassita, così ogni virtù ha del pari l’ombra sua. – In quarto luogo, osserviamo quale sia l’inclinazione che più si distingue nell’anima nostra. Essa c’indicherà sicuramente la tendenza dell’essere e carattere nostro, come l’osservare ciò che ci rallegra ed eccita, in qual modo ci compensiamo in seguito ad un’opera buona mal riuscita, e quali siano i pensieri che più tengono occupata la mente nostra. Tra i mezzi esterni si presentano le divine ispirazioni nella preghiera, il giudizio del direttore nostro spirituale e dei nostri compagni. Ascoltiamone il consiglio, poiché non è facile che cadano in errore.
5. Conosciuta la passione dominante, dobbiamo combatterla con impegno e costanza. Tre sono le ragioni principali che c’inducono. Prima di tutto tale passione è un difetto ed una deformità non esteriore certamente, ma, ciò che più importa considerare, dell’anima, ed offusca in noi la magnifica immagine di Dio. Con quanta attenzione evitiamo le minime macchie sul volto! Ora, perché non faremo altrettanto rispetto a quelle dell’anima? Inoltre, il resistere alla passione dominante è della massima importanza nella vita spirituale, in quanto che è il maggior ostacolo che si oppone al progresso nostro, poichè non è un difetto unico, ma la sorgente e principio di molti altri che gli tengono dietro. Lottare, quindi, contro la passione dominante, è lottare contro tutti i difetti; vincerla è vincerli tutti. Quante volte non sì sente dire dagli uomini: « Solo che mi togliessero questo disgraziato difetto, mi tornerebbe facile superare gli altri! » Secondo questo, dunque, esso è un vero tirannello; e, ciò nonostante, pretende di passare come virtù. Nella vita spirituale; tutto dipende dalla grazia, dalla nostra cooperazione e dal merito. La maggior parte delle grazie Dio le concede là dove sono più necessarie. Orbene: ciò di che più noi abbisogniamo è di guerreggiare e vincere la passione dominante; dunque possiamo star sicuri che in questa lotta Dio è con noi. La passione dominante è il nemico più terribile di Dio e nostro. Essa tenta di privarci della grazia e del merito delle nostre fatiche. Non c’è parassita che danneggi tanto una pianta, quanto tenta di pregiudicar noi questa passione. È un principio generale dei maestri di spirito, che tra i mezzi naturali di cui si serve Iddio per condurre le anime al loro ultimo fine, nessuno è così importante come quello d’un carattere buono e docile. Dobbiamo corrispondere a questa indicazione della divina provvidenza, lottando strenuamente contro la nostra passione dominante. La vittoria suole premiarsi altresì quaggiù colla purità, chiarezza e pace dell’anima. – Chi non vede, in terzo luogo, quanto sia importante questo combattimento contro la passione dominante, per corrispondere alla nostra vocazione? Chi non si sente di guerreggiarla, si ritiri al deserto e rinunzi al po’? di bene che potrebbe fare tra gli uomini. Così almeno non sarà pietra d’inciampo e non recherà danno agli altri. Ma chi desidera convivere cogli uomini ed occuparsi del loro bene, deve procurarsi un perfetto dominio di sé medesimo. La passione dominante o restringe l’attività nostra o la distrugge completamente, Per fare qualche cosa a favore degli uomini è necessaria molta virtù: una sola colpa può tutto rovinare e renderci totalmente inutili. Quante belle speranze furono distrutte dall’ira mal repressa, dalla imprudenza e dalla sensualità. I migliori talenti restano in questo modo inutilizzati. Ne viene per conseguenza, che qui anzitutto deve applicarsi seriamente la mortificazione. Dovremmo combattere anche se non ci si presentasse speranza alcuna di vincere. Ma qui tutto ci fa sperare la vittoria. Dobbiamo in questa lotta pensare a un solo nemico e quindi tutte le nostre forze devono essere dirette a un solo punto. Questo è il giusto modo di combattere. Inoltre, Iddio ci aiuterà perché si tratta d’una sua impresa. Come i Santi seppero domar bene lo spirito cattivo della loro passione dominante! E perché non lo faremo noi? Non si richiede altro che buona volontà e costanza. Nulla resiste ad una volontà retta e risoluta. Facciamo quanto ci è possibile: non potremo cambiare radicalmente il nostro carattere; possiamo però reprimerne gli eccessi e correggere i suoi difetti. Il tempo non ci manca, vogliamo, lottiamo e preghiamo, ché questo basta.
CAPITOLO XVII.
Ricapitolazione e fine
1. Da tutto ciò che abbiamo detto ne consegue, che dobbiamo fare un fermo proposito di dominarci, e questo proposito, unito alla massima di consacrarci sempre alla preghiera, dev’essere una delle basi sopra cui posi la nostra vita spirituale ed uno dei principî fondamentali di essa. Questo, dunque, è quanto dobbiamo tenere sempre presente agli occhi della mente, né mai perdere di vista, malgrado tutte le ricadute in cui avessimo da trovarci. Senza dubbio che molte volte verremo meno, ma non ne riceveremo gran danno finché ci terremo fermi al proposito; le cadute al contrario diverranno più rare, ed esso finalmente arriverà a signoreggiare e dominare gloriosamente su di noi.
2. Ma il giorno in cui dovessimo trascurare questo proposito noi saremmo perduti per la vita solida dello spirito e per la perfezione. Col solo pregare non si raggiunge il fine; contentarsi della preghiera senza l’esercizio dell’abnegazione, è uno dei punti di codesta nauseante ascetica moderna, che pretende di trovare Dio ed arrivare a Lui senz’altro cammino che quello della preghiera. Povere fatiche! Dopo molti anni e andirivieni, trovasi uno dove cominciò. No, la preghiera e l’abnegazione devono trovarsi in pieno accordo, al modo stesso che per volare sono necessarie due ali per lavarsi le mani devono concorrere entrambe. L’una e l’altra, preghiera e mortificazione, devono aiutarsi, sostenersi e completarsi; ambedue devono andare sempre unite. Senza abnegazione è impossibile pregare, e per la preghiera è indispensabile l’abnegazione; diversamente, anche pregando, non si trova Dio. L’uomo immortificato cerca Dio nella preghiera, ma non lo trova; in cambio, a chi è mortificato, Dio medesimo va incontro, perché il suo cuore è puro e disposto ad unirsi a Lui. Iddio desidera venire a comunicarsi a noi molto più di quanto desideriamo noi; l’unica cosa ch’Ei desidera è un cuore mondo e mortificato. – Similmente, noi non ci mortificheremo se non preghiamo; è cosa dura la mortificazione, e solamente la grazia di Dio può rendercela possibile ed anche soave, e la grazia si ottiene solo con la preghiera per la preghiera. Chi, dunque, è prudente e desidera edificare la sua casa sopra solide fondamenta, l’innalzi sulla pietra della preghiera e dell’abnegazione.
3. Certamente che la parola mortificazione è dura ed è più duro ancora percorrerne il cammino; ma siamo noi stessi che col peccato vi ci si siam messi e dobbiamo percorrerlo, a qualunque costo. Però non dimentichiamo che non è più soave, anzi è molto più aspro il sentiero del vizio ed il giogo delle passioni sfrenate. Noi non eviteremo mai i peccati se non mortificandoci ci resta solo: da scegliere tra mortificarci o peccare. Ci si presenta difficile la via della mortificazione, semplicemente perché non ci risolviamo con serietà a percorrerla. Facciamo un proposito generoso, e confidiamo che il sentiero del rinnegamento di noi stessi col tempo ci diverrà non solo facile ma altresì gradito. Dalla morte viene la vita, e dalla forza la dolcezza (Giudici XLIV, 14). Ed è così, che la pianta della mortificazione non produce solo spine, ma rose altresì di gioia e di consolazione spirituale: soltanto che questa consolazione bisogna meritarla lottando, come avviene per tutto ciò che v’ha di grande e di bello quaggiù. Le difficoltà e la stanchezza spariscono di fronte alla gioia prodotta dall’eroismo. Questo è il lato bello di codesta mortificazione che tanto impaurisce.
4. Obiezioni contro la mortificazione non ne mancano. « Ai nostri tempi, dicono, è impossibile; non vi resistono né la salute né le occupazioni». Facciamo una distinzione: la mortificazione interna non potrà mai omettersi, e d’altra parte non nuoce alla salute, né impedisce il lavoro; e della mortificazione esterna può dirsi, che ai nostri tempi si godrebbe assai più salute se si praticasse un no’ di più. Il lavoro, senza dubbio, è una buona mortificazione; però anche per lavorare seriamente con coscienza è necessaria la mortificazione, poiché altrimenti l’uomo perderà il suo tempo in futilità lasciandosi dominare dal capriccio, il che non è lavoro. « Ma questa ascetica ha già fatto il suo tempo ». E se non erriamo; il mondo di oggi è quello medesimo di ieri, senza nulla cambiare. Nemmeno nostro Signore Gesù Cristo si è cambiato; ed il fine e la via che a Lui ci conducono sono sempre lì come prima. Di modo che bisogna rassegnarci alla mortificazione dei secoli passati. « Riguardo alla mortificazione interna transéat, ma l’esterna.:. » C’è qui della verità, ed è che la mortificazione interna è migliore in ogni caso e più necessaria: che non l’esterna; ma da ciò non segue che si debba trascurare del tutto l’esterna, tolta ogni mortificazione esterna, l’interna non può esistere. Disprezzare e non curarsi della mortificazione esterna, oltreché si oppone allo spirito di Gesù Cristo, dimostra completa ignoranza circa lo stato e condizione a cui ci ridusse il peccato originale. Le nostre difficoltà e i peccati provengono per una buona metà dal corpo. Più: secondo la dottrina cattolica, la mortificazione non è solamente per tenere in freno il nostro corpo, istrumento del peccato, ma per soddisfare altresì alle nostre colpe ed a quelle di tutto il mondo, e quale valore e prezzo per conseguire maggiori grazie e maggiori lumi e meriti per la vita eterna! Per questo le anime innocenti sono quelle che più si distinsero nella mortificazione esterna. « Al cominciare una vita di perfezione potrà ben giovare la mortificazione esterna, ma poi non più ». Come non potremo mai staccarci dall’ombra nostra, nemmeno ci tornerà possibile sottrarre l’anima nostra all’influenza del corpo. Il rinnegamento di sé stessi è l’a b c della vita spirituale: non lo si deve mai dimenticare. Il rinnegare sé stessi è senza dubbio cosa penosa per l’uomo decaduto, e si richiede un continuo sacrificio a mantenervici. Ma è precisamente quanto ci vuole per vincere il male ed acquistare forza per il bene. Aspra è la via, ma grande e glorioso è il fine, e per un fine grande l’uomo generoso volentieri si sacrifica. Perciò il Kempis chiude le sue istruzioni sul cammino reale della croce, colle parole: « Lette dunque e ben esaminate tutte le cose, sia questa la final conclusione: che per mezzo di molte tribolazioni ci bisogna entrare nel regno di Dio » (L. II, Cap. 12). Per sopportare come conviene la tribolazione è necessario dominarci, però non come si vuole, ma radicalmente, totalmente e costantemente.