DEVOZIONE DELLE MANI DIVINE DEL NOSTRO SALVATORE

Devozione de:

LE MANI DIVINE DEL NOSTRO SALVATORE

Opera di Zelo e di Riparazione

Come devozione privata.

(Estratto dal libro omonimo pubblicato nel 1894, con Nihil Obstat, ed Imprimatur, di prossima pubblicazione sul blog tradotto in italiano.)

Aiutiamo il nostro Santo Padre il Papa (il regnante Gregorio XVIII-ndt. -) e tutte le Nazioni della Terra per mezzo delle Mani Divine del nostro Salvatore.

Litanie in onore delle Mani Divine di nostro Signore.

(Approvate dal cardinale Donnet, arcivescovo di Bordeaux, nel 1865, e dal cardinale Deschamps, arcivescovo di Malines).

Recitare queste Litanie con cuore contrito, profondamente addolorati per i dolori di nostra Madre Chiesa.

Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, abbiate pietà di noi e perdonate i nostri numerosi peccati. (3 volte).

Mani Divine, degnatevi di umiliare i nemici della Chiesa, e del nostro Santo Padre Papa. (n. b.).

Sacro Cuore di Maria Immacolata e Madre della Grazia, implorate le Mani Divine di nostro Signore perché siano umiliati i nemici della Chiesa e del nostro Santo Padre il Papa.

San Giuseppe, Sposo della Madonna, chiedete alle Mani Divine del Nostro Salvatore ché siano umiliati i nemici usurpanti del nostro Santo Padre il Papa. (3).

Rp.: Pregate ché le Mani Divine del nostro Salvatore umilino i nemici usurpanti(*) del Santo Padre.

(*) [precisazione del trad. riferita alla situazione odierna che vede “gli” antipapi usurpare la cattedra di s. Pietro nel silenzio e con la complicità di chi sa e finge di dormire.]


San Gioacchino, Padre della Beata Vergine,  pregate …..
Sant’Anna, Madre della Beata Vergine, pregate ….
San Michele Arcangelo ….
San Gabriele ….
San Raffaele ….
O quattro Arcangeli, che in unione con San Michele, San Gabriele e San Raffaele, circondate il trono dell’Altissimo, ….
Santi Serafini, ….
Santi Cherubini, ….
Sacri Troni, ….
Sante Dominazioni, ….
Sante Virtù, ….
Sante Potestà, ….
Santi Principati, ….
Santi Arcangeli, ….
Santi Angeli, ….
San Giovanni Battista,
San Pietro, (3 volte con la risposta)
San Paolo, …
San Giovanni, l’amato Discepolo, …
Santi Apostoli, …
Sant’Ireneo, …
Sant’Agostino, …
San Francesco di Sales, …
San Domenico,…
San Francesco d’Assisi, …
Sant’Antonio da Padova, …
San Pietro d’Alcantara, …
Sant’Ignazio di Loyola, …
San Francesco Saverio, …
San J. Francesco Regis, …
San Vincenzo de’ Paoli,
S. Teresa, (3 volte con la risposta)

Tutti voi Santi di Dio, chiedete alle Mani Sante di umiliare i nemici del Santo Padre.

℣. Che la tua mano sia sull’uomo della tua mano destra:
℟. E sul figlio dell’uomo che Tu stesso hai confermato.

Oremus:

O Dio Onnipotente! Con grande umiltà ti supplichiamo di liberarci dagli usurpanti operatorii d’iniquità, mentre poniamo tutta la nostra fiducia nelle Mani Divine di nostro Signore Gesù Cristo, tuo amato Figlio, che vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo, unico Dio, nei secoli dei secoli. Amen.

[N.B. — Le Litanie di cui sopra possono essere recitate per qualsiasi altra intenzione. È sufficiente modificare l’intenzione per la quale vengono offerte.]

Promesse per coloro che sono devoti alle Mani Divine del nostro Salvatore.

Gesù Cristo disse a questo santo uomo: “Pubblica e lascia che altri proclamino ciò che Io farò

– 1. “Verserò grazie eterne sulle anime di coloro che pregheranno le Mie Mani Divine.

– 2. “Verrò a soccorrere i moribondi che avranno pregato le Mie Mani Divine.

– 3. “Io convertirò il peccatore dal quale sono state invocate le Mie Mani Divine.

4. “Darò beni temporali alle famiglie povere che pregheranno le Mie Mani Divine.

5. “Fortificherò e rafforzerò coloro che invocano le Mie Mani Divine.

– 6. “Curerò i malati che invocano le Mie Mani Divine.

– 7. “Libererò rapidamente dal Purgatorio le anime che, quando erano sulla terra, hanno invocato le Mie Mani Divine.

8. “Libererò da tutti i pericoli coloro che invocano le Mie Mani Divine”.

(“Le Mani Divine del nostro Salvatore, Opera di Zelo e Riparazione, Come devozione privata”, 1894 d.C., Nihil Obstat, Imprimatur.)

LA PARUSIA (9)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (9)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE – Rue de Rennes, 117 – 1920

ARTICOLO NONO

LA PARUSIA NELL’APOCALYPSE. IL VERO SOGGETTO DELLA GRANDE PROFEZIA DEL NUOVO TESTAMENTO

“Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi servi le cose che devono presto accadere, e che egli manifestò inviando il suo angelo al suo servo Giovanni. Questi attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto. Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e mettono in pratica le cose che vi sono scritte. Perché il tempo è vicino”. È così che inizia l’Apocalisse. (I; 1-3). Ed ecco come termina (XXII, 5-20): « Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo Angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve. Ecco, io verrò presto e la mia retribuzione è con me per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io, Gesù, ho mandato il mio Angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese … Si, Io verrò presto, Amen: Venite Signore Gesù. » Come possiamo vedere, la dichiarazione della fine è solo una ripetizione di quella fatta all’inizio. E questa dichiarazione, che apre e chiude l’Apocalisse, che la inquadra nella sua totalità e abbraccia tutto il suo contenuto, che è la prima e l’ultima parola, l’alfa e l’omega, si presenta così come qualcosa di primaria importanza nell’economia del libro. Questa non è una caratteristica accidentale che può essere trascurata e messa da parte, un dettaglio aggiunto incidentalmente, un accessorio infine, senza connessione con l’argomento principale. Al contrario, essa è un punto essenziale tra tutti gli altri, che si riferisce a tutta la rivelazione che San Giovanni, attraverso il ministero dell’Angelo, ha ricevuto da Gesù Cristo: in cui, di conseguenza, siamo costretti a vedere un’indicazione data sul significato generale della profezia, una luce gettata sulle sue oscurità, e una chiave che dovrebbe servire ad aprirne gli arcani. D’altra parte, sono da rilevare due affermazioni molto chiare e categoriche: la prima è che gli eventi oggetto delle predizioni apocalittiche dovevano accadere presto, quæ oportet fieri cito; la seconda è che anche Gesù sarebbe venuto presto, portando con sé la sua ricompensa, per rendere a ciascuno secondo le sue azioni, (ecce venio cito, et merces mecum est reddere uninique secundum opéra sua). E queste due affermazioni, considerate soprattutto come completantesi ed illuminantesi l’un l’altra, sembreranno senza dubbio a molti giustificare le idee moderniste sull’annuncio, negli scritti del Nuovo Testamento, di una parusia molto prossima. Infatti, non dobbiamo pensare di discutere qui il significato della parola “presto” (ταχύ, ἐν τάχει – taku, en takei), che deve ovviamente essere presa nel suo senso ovvio e naturale, senza che ci sia motivo di appellarsi, per uscire dalla difficoltà, alle parole di San Pietro, che dice che “per il Signore, un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno”. Perché una cosa è stimare il tempo in relazione all’eternità di Dio, un’altra è valutarlo in relazione a noi altri che siamo soggetti ad esso. È abbastanza comprensibile che quando si parla di Dio, si dica che davanti a Lui, e in relazione all’eternità che gli è sempre presente, tutto è breve. Ma quello che certamente non capiremmo più è che Dio, parlando con noi, usasse la stessa misura, una misura che, riassumendo tutti i tempi allo stesso modo, eliminerebbe anche tutte le differenze; e se, per indicarci gli eventi che devono avvenire, per esempio, tra mille, diecimila, centomila anni da ora, ci assicurasse di arrivare presto, e che il tempo sia vicino. Molto meno capiremmo se insistesse sulla prossima data degli eventi annunciati, con quel lusso di espressioni che si notano negli ultimi versi dell’ultimo capitolo, dove la vicinanza è confermata, assicurata, inculcata una dopo l’altra, in tutti i modi possibili, fino a cinque volte consecutive: quæ oportet fieri cito (versetto, 6) ed ecce venio velociter (versetto 7); tempus prope est (versetto 10); ecce venio cito (versetto 12); etiam, venio cito (versetto 20). Abbiamo bisogno di altro? Bene, qui c’è ancora di più. Infatti, mentre a Daniele fu detto, quando ricevette l’annuncio profetico della persecuzione di Antioco, che era essa stessa il tipo e come l’abbozzo della suprema persecuzione dell’anticristo: Sigillate la profezia, perché il tempo è lontano (Dan., VIII, 26, confrontare con XII, 4, 9);  ora, al contrario, è detto a San Giovanni (Apoc, XII, 10): Non sigillate le parole della profezia di questo libro, come se questo libro dovesse rimanere chiuso per molto tempo. E la ragione di ciò gli viene subito data: perché il tempo in cui deve venire l’adempimento delle predizioni in esso contenute, è vicino … tempus enim prope est. Questo implicava, nel modo più formale e ovvio, che se le cose rivelate a Daniele gli erano state annunciate in un futuro lontano, non era così per quelle rivelate a San Giovanni, che avrebbero cominciato a svolgersi immediatamente dopo di lui. Ecco, dunque i due punti su cui si basa tutta la difficoltà dell’Apocalisse, e che dobbiamo ancora chiarire in questi ultimi articoli: primo, l’annuncio del prossimo compimento delle predizioni apocalittiche; secondo, l’annuncio della venuta di Gesù per rendere a ciascuno secondo le sue opere. E poiché entrambi questi punti richiedono una spiegazione separata, li esamineremo separatamente, uno dopo l’altro, cominciando dal primo, che è anche il principale, mentre il secondo ha bisogno solo dei principi precedentemente enunciati per essere illuminato, i quali, come vedremo, troveranno, nell’Apocalisse stessa. una nuova, formale e definitiva consacrazione.

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Tra i pregiudizi sui libri della Sacra Scrittura, non ce n’è uno più diffuso di quello che ritiene che l’Apocalisse sia, o esclusivamente, o almeno nella sua parte principale, la profezia della fine dei tempi, dei suoi precursori, degli eventi che la precederanno, delle catastrofi che la annunceranno. Infatti, chiedete alla maggior parte di coloro che si interessano di questioni religiose, e che ne hanno qualche conoscenza, e con pochissime eccezioni, vi diranno che, prima di tutto, l’Apocalisse è un libro sibillino che non si dovrebbe nemmeno tentare di decifrare, poiché tutti coloro che hanno tentato di farlo hanno fallito miseramente; che, inoltre, se la comprensione di esso è forse riservata al futuro, per il momento almeno, solo una cosa si sa vagamente di esso: Che sono predizioni riguardanti l’Anticristo, le ultime lotte della Chiesa, la persecuzione suprema, la venuta di Enoch ed Elia, l’apparizione del Giudice dei vivi e dei morti, le assise generali dell’umanità, con le pene e le ricompense eterne che seguiranno. Ma quanto strana, quanto incredibile, quanto soprattutto paradossale, apparirebbe loro l’opinione di chi, sostenuto anche dalla grande autorità di Bossuet, tenterebbe timidamente di sostenere che la parte dell’Apocalisse direttamente e immediatamente rivolta agli ultimi giorni, occupa nel libro il posto di soli dieci versetti, esattamente gli ultimi nove del capitolo XX! Sicuramente, come a San Paolo che pronunciava nell’Areopago la parola della resurrezione dei morti, gli sarebbe stato detto di tornare per farsi sentire un’altra volta, tanto grande e considerevole è il potere del pregiudizio comunemente ricevuto. Ora, la scuola modernista non poteva non sottolineare questo pregiudizio nella questione della parusia, e cercare in esso una base di argomentazione molto sicura. E infatti, è così se fosse vero che la fine del mondo è l’oggetto, o l’unico o almeno il principale, delle predizioni dell’Apocalisse; se invece, come abbiamo chiaramente dimostrato sopra, queste stesse predizioni vi sono state indiscutibilmente date come prossime a realizzarsi, ne consegue strettamente che, secondo le nostre Scritture, il mondo, al tempo di mondo, al tempo delle visioni di Patmos, era alla vigilia della sua fine e la grande rivelazione di Cristo stava per avere luogo. Così tutta la questione attuale si riduce ad un punto un punto: qual è il vero oggetto delle previsioni apocalittiche? È la fine del mondo? Allora non ci resta che chinare il capo e pronunciare la sentenza. È, al contrario, qualcos’altro? Allora la difficoltà crolla, come crolla un edificio quando crolla la sua base. La questione merita quindi di essere esaminata da vicino, e per circoscrivere meglio il campo su cui la discussione deve concentrarsi, cominciamo con un rapido sguardo sul piano e alla divisione della grande profezia del Nuovo Testamento.  – Come osserva Bossuet all’inizio del suo ammirevole commento, le funzioni del ministero profetico si riducono a tre principali, la prima delle quali era di rimproverare, ammonire ed esortare; la seconda, di predire e annunciare il futuro; la terza, di confortare e incoraggiare con la promessa delle ricompense. Quindi non cerchiamo altrove il piano e l’ordine dell’Apocalisse, questa incomparabile profezia, il culmine e il coronamento di tutta l’opera degli antichi profeti. E infatti, dopo il capitolo I, che occupa il posto di un prologo o di una prefazione, troviamo gli avvertimenti e le esortazioni. Questi riempiono i capitoli II e III, dove San Giovanni è incaricato di inviare ai sette Vescovi dell’Asia i rimproveri o gli elogi che le loro chiese meritavano, con le raccomandazioni appropriate alle condizioni di ciascuna di esse. Poi vengono in secondo luogo le predizioni, che sono di gran lunga la parte più considerevole dell’opera, e vanno dal capitolo IV al capitolo XX compreso. Tutti questi sono tratti da quel libro del futuro, chiuso e sigillato, che nessuno poteva aprire o guardare, ma che, quando fu dato nelle mani dell’Agnello per rompere i suoi sigilli (V, vv. 1-1.0), lasciò fuoriuscire i suoi misteriosi segreti. Infine, ecco, in terzo luogo, le promesse della felicità futura, di cui ci viene data un’immagine deliziosa negli ultimi due capitoli XXI e XXII, dove la Gerusalemme celeste appare « tutta bella e perfetta nella riunione di tutti i Santi, e la perfetta assemblea di tutto il Corpo mistico di Gesù Cristo ». Tale, dico, è la divisione molto naturale dell’Apocalisse, e si vedrà subito, da questa rapida esposizione, che non è né la prima né la terza parte, ma solo la seconda, quella delle predizioni, che è ora in questione. Bisognerà eliminare i capitoli iv e v, che non sono che un preludio dedicato a rappresentare la scena della visione, e a descrivere l’apparato della scena in cui l’Agnello, il protagonista divino, riceve dalle mani di colui che era seduto sul trono il libro misterioso, i cui sigilli stava per sciogliere. Così, alla fine, la serie di oracoli riguardanti gli eventi a venire inizia esattamente con il sesto capitolo, e termina definitivamente con il ventesimo. È dunque sui quindici capitoli inclusi e compresi in questi due termini estremi, che riguarda la questione posta sopra; voglio dire la questione di sapere se è vero, sì o no, che, secondo il pregiudizio volgare, le predizioni apocalittiche sono direttamente rivolte, o nella loro totalità, o nella loro parte maggiore e principale, alla catastrofe suprema e agli eventi precedenti. A questo rispondiamo senza esitazione con una negazione assoluta, che sarà giustificata, se non ci sbagliamo, dalle molte ragioni che saranno proposte alla considerazione e alla riflessione del lettore.

***

E prima di tutto un’osservazione preliminare. Se mai c’è stata una profezia che, secondo i principi spiegati all’inizio di questo studio, possa essere ben compresa solo a posteriori, cioè alla luce dei fatti compiuti (almeno nella sua totalità e nella connessione delle sue varie parti), questa deve essere, prima di tutte le altre, quella dell’Apocalisse. Questo è evidente dal modo in cui è scritta, dallo stile enigmatico con cui essa è scritta, dai simboli, dalle immagini e dalle metafore che sono interamente sui generis, e con cui è avvolta e velata dal principio alla fine: in breve, da tutto ciò che fece dire a San Girolamo … che essa conteneva tanti misteri quante erano parole, tot sacramenta quot verba. E non ci sarebbe già qualcosa per escludere a priori l’ipotesi di un’Apocalisse che abbia per unico, o almeno principale oggetto, ciò che doveva accadere solo quando il mondo fosse giunto al punto stesso di finire? Perché, ci si chiede subito, quale utilità avrebbe potuto avere allora … ugualmente nessuna, come sembrerebbe, sia che ci collochiamo prima o dopo l’evento: se ci si colloca dopo, infatti, in tale ipotesi, il tempo successivo sarebbe solo quello della vita futura, per la quale non sono fatte, ovviamente, le profezie; ed ugualmente se ci mettiamo innanzi, poiché non sembra che, senza il filo conduttore dei fatti compiuti, arriveremo mai ad un’interpretazione, non dico congetturale e fantasiosa, di cui non sappiamo cosa farcene, ma certa e autentica, di tante figure misteriose che formano un labirinto ancora più complicato, e più oscuro di quello da cui Arianna tempo addietro, diede a Teseo il mezzo per uscire. – Inoltre, non è questa l’unica ragione dell’idea così generalmente diffusa, alla quale abbiamo accennato sopra? Dico di questa idea che ritiene l’Apocalisse una logografia incomprensibile e indecifrabile, per non dire altro, una specie di rebus che può servire tutt’al più ad esercitare l’immaginazione degli oziosi, i quali, non avendo nulla da fare nel mondo finché dura, pretendono almeno di insegnargli quando e come finirà: creatori chimerici di interpretazioni ancora più chimeriche. Ma ora chiedo a tutti coloro che credono nell’ispirazione delle nostre sacre Scritture: è possibile che questa fosse la vera e reale condizione di un libro di cui Dio stesso era l’autore, e che ha dato, come tutti gli altri, alla sua Chiesa come mezzo per insegnare, convincere, correggere e istruire, secondo le parole di San Paolo a Timoteo: Omnis scriptura utilis ad docendum, ad arguendum, ad erudiendum in justitia? Certamente, porre la questione in questi termini è già risolverla, e immagino che coloro che parlano dell’incomprensibilità senza speranza dell’Apocalisse, difficilmente potranno fare a meno di vedere qui tutto ciò che l’ipotesi conterrebbe di non plausibile, o meglio, inammissibile. Che questa sia la prima indicazione che essi possono sbagliarsi sul vero oggetto della profezia di San Giovanni, e che la collocano molto male in un futuro dove i fatti della storia non dovrebbero mai servire a trovare il filo di tanti oracoli, la maggior parte dei quali sono così disparati e oscuri, e dove non ci sarebbe spazio per nient’altro che interpretazioni oziose, appoggiate su nessun fondamento oggettivo fermo e sicuro. Ma, ripeto, questa è solo un’osservazione preliminare, e sarà valida solo, se si vuole, contro gli avversari, come pura e semplice presunzione. Veniamo ora ad argomenti più attuali, e cominciamo a stabilirne la base, quella base solida che, come è stato appena detto, mancherà sempre a chiunque si lanci nell’esegesi apocalittica sulla base del solo testo, indipendentemente da qualsiasi direzione o informazione tratta dalle fonti della storia.

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Se ripercorriamo i grandi eventi della storia dai tempi di San Giovanni a Patmos fino ai nostri tempi moderni, non ne troveremo certamente nessuno che eguagli in importanza e portata il crollo dell’Impero Romano, sotto i colpi duplici dei Barbari all’inizio del quinto secolo, e della decomposizione che, seguitane, portò infine, contro ogni aspettativa, alla formazione dei vari regni della cristianità, emersi uno dopo l’altro da questo immenso caos. Sia che si prenda il punto di vista dello storico, sia che si risalga con il teologo alle ragioni ultime delle cose, da entrambe le parti si arriva alla stessa conclusione, quella di un evento assolutamente ineguagliabile. Per lo storico, sarà la scomparsa definitiva della civiltà antica, che lascia il posto ad una civiltà completamente nuova, cioè ad uno stato sociale regolato d’ora in poi secondo i principi e le leggi del Vangelo. Per il teologo, sarà la sorprendente realizzazione delle linee principali del del piano divino, così a lungo segnato nelle antiche profezie, e specialmente in quella di Daniele, sulla successione degli imperi, quando il colosso che era apparso in sogno a Nabucodonosor, “fu ridotto alla polvere sottile che il vento estivo porta via“, e « la pietra che aveva colpito la statua divenne una grande montagna, e riempì tutta la terra. » Ebbene, è questo fatto, immenso, il più vasto, il più fecondo della storia, che, alla luce della storia stessa, la troveremo predetta nell’Apocalisse, e con tale chiarezza, tale abbondanza di prove, tale precisione di dettagli, che sarà impossibile per il più cieco non riconoscerla. È l’evento “maestro” che occupa il posto principale nella profezia di San Giovanni, che ne dà anche la chiave, ne indica il significato, e dal punto centrale in cui è collocato, getta luce su tutto il seguito, in modo sufficiente, almeno, che nessun dubbio possa rimanere sul vero e proprio oggetto delle predizioni apocalittiche. – Apriamo dunque questa misteriosa Apocalisse nei capitoli XVII e XVIII, che sono precisamente il punto centrale da cui abbiamo detto che la luce deve venire, e vediamo lì, in primissimo luogo, presentata sotto il nome mistico di Babilonia, Roma imperiale, la Roma dea della terra e delle nazioni, la madre dell’idolatria e la persecutrice dei santi. Siamo nel punto della visione in cui sette angeli hanno appena ricevuto sette coppe piene dell’ira di Dio, con l’ordine di versarle sulla terra (XVI, 1). Dio si è ricordato della grande Babilonia, che ha fatto bere a tutti i popoli il vino del furore della sua prostituzione (XVI, 8), e ora le darà da bere il vino dello sdegno della sua ira (XVI, 19). È allora che uno dei sette Angeli si avvicina a San Giovanni e gli dice (XVII, 1 sqq.): Vieni, ti mostrerò la condanna della grande prostituta che siede sulle grandi acque, con la quale si sono corrotti i re della terra… E vidi – continua San Giovanni – una donna seduta su una bestia di colore scarlatto, piena di nomi blasfemi, che aveva sette teste e dieci corna. E la donna era vestita di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle, e aveva in mano un vaso d’oro pieno dell’abominio e dell’impurità della sua fornicazione. E questo nome era scritto sulla sua fronte: Mistero: la grande Babilonia, la madre della fornicazione e delle abominazioni della terra. E vidi la donna inebriata del sangue dei Santi e del sangue dei martiri di Gesù… Allora l’Angelo mi disse: Ti svelerò il mistero della donna e della bestia che la porta, che ha sette teste e dieci corna… Le sette teste sono sette montagne (o colline) su cui la donna siede… E la donna che hai visto è la grande città che regna sui re della terra. Certamente, ecco ciò che sembrerebbe non dare adito ad equivoci, poiché in caratteristiche così marcate, chi non riconoscerebbe nella mistica Babilonia, la cui immagine ci viene qui presentata, la Roma del paganesimo? San Giovanni, osserva Bossuet nella sua prefazione, le dà due caratteri che non permettono di disconoscerla. Perché in primo luogo (XVII, versetto 9), è la città dei sette colli (una caratteristica topografica universalmente accettata come caratteristica di Roma); e in secondo luogo (versetto 18), è la grande città che comanda tutti i re della terra (un altro carattere, di natura politica, che al tempo di San Giovanni era ancora più evidente, e più certo). Se essa è rappresentata anche sotto la figura di una prostituta (verso 1), riconosciamo lo stile ordinario della Scrittura, che contrassegna l’idolatria con la prostituzione. Se si dice di questa superba città fosse la madre delle impurità e delle abominazioni della terra (verso 5), è il culto dei suoi falsi dei, che ha cercato di stabilire con tutta la potenza del suo impero, ad esserne la causa. La porpora di cui appare vestita (versetto) era il distintivo dei suoi imperatori e magistrati; l’oro e i gioielli di cui è ricoperta (ibid.) mostrano la sua immensa ricchezza. La parola Mistero che porta scritta sulla sua fronte (versetto 5), non ci indica nulla di più che gli empi misteri del paganesimo, di cui si era fatta la protettrice. Gli altri segni della bestia e della prostituta che essa porta sono visibilmente della stessa natura, e San Giovanni ci mostra molto chiaramente le persecuzioni che ha fatto subire alla Chiesa, quando dice che era ubriaca del sangue dei martiri di Gesù (versetto 6). » È quindi un enigma molto facile da decifrare, Roma sotto la figura di Babilonia (versetto 5). E sarà molto più facile ancora, quando si considererà che già da tempo si era stabilito nella Chiesa l’uso di riferirsi all’una con il nome dell’altra, come è perentoriamente provato dal noto passaggio di San Pietro nella sua prima Epistola: La Chiesa che è in Babilonia, cioè a Roma, ti saluta (l Petr., V, 13). Così vediamo i medesimi interpreti razionalisti, ed i più inflessibili, arrendersi a tanti segni così convergenti e così precisi; li vediamo, dico, presi in questo ambito, come per la gola, e costretti a pronunciare questo nome di Roma, che, se posso dirlo, dovrebbe strangolarli, perché equivale al riconoscimento di una delle profezie più splendide e sorprendenti dei nostri libri sacri. Infatti, qui, prima di tutto, la descrizione della grande Babilonia è seguita in San Giovanni dalla predizione del suo castigo e della sua caduta, che si è poi verificata di fronte all’universo. Questo è il soggetto del capitolo XVIII, dove troviamo i primi grandi tratti della profezia in questione e questo quando l’impero era nella sua piena fioritura, e non mostrava ancora alcun segno di decadenza, ma al contrario, la credenza nella sua perennità era così saldamente radicata nella mente degli uomini, che sia i Cristiani che i pagani, come vedremo in seguito, non le assegnavano meno che la durata del mondo: proprio allora, più di tre secoli prima dell’evento, fu rivelato a San Giovanni, e tramite lui alla Chiesa, che il colosso sarebbe caduto. – Poi, a Patmos, fu dipinto il quadro di ciò che realmente accadde sotto Alarico, quando, assediata, presa, saccheggiata, devastata dal ferro e dal fuoco, l’antica Roma ricevette il colpo fatale dal quale non si sarebbe più rialzata, e, come leggiamo in tutti gli autori contemporanei, San Girolamo, Sant’Agostino, Paolo Orose e tanti altri, il mondo intero fu terrorizzato alla vista della sua desolazione. Dopo questo – continua San Giovanni – vidi un altro Angelo che scendeva dal cielo con grande potenza. E gridò con tutta la sua forza, dicendo: La grande Babilonia è caduta, è caduta ed è diventata una dimora di demoni, una dimora di ogni spirito immondo, una dimora di ogni uccello immondo e ripugnante… E udii un’altra voce dal cielo, che diceva: “Uscite da Babilonia, popolo mio, cosicché non siate partecipi dei suoi peccati e non siate avvolti dalla sua calamità… E i re della terra, che si sono corrotti con essa, piangeranno su di lei e si batteranno il petto quando vedranno il fumo del suo incendio. Ed essi le staranno lontani, dicendo: Guai! Guai! Babilonia, grande città, potente città, la tua condanna è giunta in questo momento. E i mercanti della terra piangeranno e si lamenteranno per lei, perché nessuno comprerà più la loro merce, queste mercanzie d’oro e d’argento, di gioielli e di perle, di lino fine, di porpora, di seta, di scarlatto ed ogni sorta di legno profumato, e mobili d’avorio, di ottone, di ferro, di marmo, di cannella, di profumi, d’incenso, di vino, d’olio, di fior di farina, di frumento, di bestie da soma, di cavalli e di carri, schiavi, e di anime di uomini… Allora un Angelo forte alzò una pietra come una grande macina e la gettò nel mare, dicendo: “Babilonia, la grande città, sarà precipitata … E in quella città fu trovato il sangue dei profeti e dei Santi e di tutti quelli che furono uccisi sulla terra. Questo è l’annuncio profetico che fu ripreso trecento anni dopo dalle parole di San Girolamo, il quale, ricevendo a Betlemme la fulminante notizia dell’immenso disastro, scrisse che « la lucedell’universo si era spenta, la testa dell’impero romano tagliata, o, per parlare più precisamente, l’intero universo rovesciato in una sola città (Lib. 1 in Ezech., Proœm. 1) ».

***

Ma questo non è ancora il punto forte della profezia; né, si noti, è il punto forte della nostra dimostrazione. Inoltre, non ignoriamo che, per quanto precisi siano i caratteri che ci sono appena serviti ad identificare la Babilonia apocalittica, e di conseguenza a riconoscere, nell’annuncio della sua rovina, l’annuncio del grande evento che ha segnato nella storia gli inizi del Medioevo, non mancano menti più esigenti, alle quali non possono ancora bastare i nostri precedenti argomenti, e che vogliono vedere nella detta Babilonia, piuttosto che la Roma dei Cesari, un’entità collettiva e morale senza alcuna particolare determinazione, come sarebbe la società anticristiana in generale, altrimenti detta « la città degli uomini contrapposta alla città di Dio », il cui definitivo rovesciamento non è che da attendersi se non solo alla fine dei tempi. Ecco perché ora dobbiamo andare oltre, e portare alla luce il luogo della profezia fatto per forzare la convinzione dei più ostinati, e allontanare i rimasugli delle loro esitazioni: il luogo, dico, dove le cose sono così determinate, talmente particolarizzate, talmente circostanziate, più che il nome stesso dell’antica Roma, e ove in tutte le sue lettere vi si vedrebbe scritto che non vi potrebbe essere un’indicazione più chiara, né un’informazione più sicura. Questo luogo è quello che si interpone tra i due passaggi riportati sopra, e che, seguendo la descrizione della grande prostituta, o Babilonia mistica, precede e prepara il quadro già presentato del suo rovesciamento e della sua caduta. – Un Angelo spiega a San Giovanni (XVII, 7) il mistero della prostituta e della bestia con sette teste e dieci corna su cui essa siede: simboli entrambi – come il contesto chiarisce – di una stessa cosa, che diciamo essere la Roma idolatra ed il suo impero (« … la bestia e la donna – osserva Bossuet nel commento al capitolo XVII – sono fondamentalmente una stessa cosa… Ecco perché la bestia è rappresentata come colei che ha sette colli (versetto 9), e la donna è la grande città che domina sui re della terra (versetto 18). L’una e l’altra è dunque Roma, ma la donna è più adatta a marcare la prostituzione, che è nelle Scritture il carattere dell’idolatria. » A questo possiamo aggiungere che ogni volta che appare nell’Apocalisse una figura cavalcante, il cavalcato e la figura insieme rappresentano la stessa cosa; come per esempio nel capitolo VI, il cavallo rosso, il cavallo nero ed il cavallo pallido, ciascuno con colui che lo cavalca, rappresentano rispettivamente la guerra, la carestia e la pestilenza. E nello stesso capitolo VI, come più avanti nel capitolo XIX, il cavallo bianco con il suo cavaliere rappresenta un oggetto unico, che è Gesù Cristo vittorioso. Unico quindi sarà anche l’oggetto del mistero della donna e della bestia su cui è seduta). Nella spiegazione che dà, l’Angelo istruttore  passa in rassegna successivamente le varie parti della misteriosa figura, e finalmente fermandosi sulle dieci corna della bestia, continua: « Le dieci corna che hai visto sono dieci re che non hanno ancora ricevuto il loro regno, ma che riceveranno come re, il potere nella stessa ora appresso alla bestia. Questi hanno uno stesso disegno, e daranno la loro forza e il loro potere alla bestia. Essi combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà, perché Egli è il Signore dei signori, e quelli che sono con Lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli. Ed egli (l’Angelo) mi disse ancora: “Le dieci corna che hai visto nella bestia, queste sono quelle che odieranno la prostituta; e la ridurranno all’estrema desolazione, la spoglieranno, ne divoreranno la carne, e la faranno bruciare al fuoco. Perché Dio ha messo nei loro cuori di fare ciò che a Lui piace, di dare la loro regalità alla bestia finché le parole di Dio non siano compiute. E la donna che hai visto è la grande città che domina sui re della terra” (XVII, 12-18) ». Ecco, ancora una volta, il passaggio essenziale in cui crediamo sia contenuto il chiaro epilogo della profezia, e sul quale dobbiamo quindi richiamare l’attenzione del lettore. E prima di tutto, ciò che appare a prima vista, è che i re in questione sono gli esecutori della vendetta divina contro la grande Babilonia rappresentata dalla prostituta e dalla bestia che la porta: esecutori che sono stati incaricati di distruggerla, e che la distruggeranno davvero, secondo quanto è scritto nella seconda metà del brano citato, ai versetti 16 e 17: odieranno la prostituta, la ridurranno all’ultima desolazione, divoreranno la sua carne, perché Dio ha messo nei loro cuori di eseguire ciò che gli piace. Certamente, non si può immaginare nulla di più esplicito, e qui certamente ogni commento sarebbe superfluo. – Ma notiamo ora le peculiarità di questi re distruttivi e i caratteri con cui ci vengono presentati. Quattro cose sono da notare. In primo luogo, la profezia li conta come dieci, decem reges sunt (versetto 12), e se questo deve essere inteso come un numero preciso, o piuttosto come un numero tondo e approssimativo, sarà sempre un numero considerevole per i re, specialmente per dei re che, sebbene indipendenti l’uno dall’altro, agiscono come se fossero in concerto, contro lo stesso nemico e nell’unità dello stesso scopo. In secondo luogo, una circostanza ancor più singolare e notevole: tutti e dieci sono dei re senza regno, qui regnum nondum acceperunt, e dovono entrare contemporaneamente, e solo dopo che la bestia sia abbattura, nel pieno possesso del potere reale, sed potestatem tamquam reges una hora accipient post bestiam (versetto 12). – In terzo luogo, e questo diventa un vero enigma di cui non si sa come accordare i dati, tanto sembrerebbero essere contraddittori; questi stessi re che ridurranno la bestia all’ultima desolazione, che divoreranno la sua carne, e sono quindi i suoi nemici implacabili, sono tuttavia presentati come essere le corna, e di conseguenza, le difese della bestia stessa; inoltre, secondo quanto è espressamente segnato, come dando ad essa, la bestia, la loro forza e la loro potenza, et virtutem et potestatem suam bestiæ tradent (versetto. 13). – In quarto ed ultimo luogo, come se tutto ciò non bastasse, questi re, ministri delle alte opere di Dio « che ha messo nei loro cuori di fare ciò che a Lui piace », si dice tuttavia che dovranno combattere contro Dio stesso, o, che è la stessa cosa, contro l’Agnello, che tuttavia li vincerà, perché Egli è il Re dei re ed il Signore dei signori, e quelli che sono con Lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli; cum Agno pugnabunt, et Agnus vincet illos, quoniam dominas dominorum est, el qui cum Me sunt, vocati, fidèles et electi (versetto. 14). Chi non vede che si cercherebbe invano di penetrare, con le sole risorse del testo, il mistero di una complicazione così straordinaria? Ma chi può non vedere che se la storia del passato ci presentasse da qualche parte un gruppo di eventi e di cose a cui il quadro che abbiamo appena visto è applicabile punto per punto, e in tutta l’ampiezza del quadro, non meno che nel dettaglio dei particolari più caratteristici, ci sarebbe in questo solo fatto, insieme alla prova dell’origine divina della profezia, l’indizio certo e indubitabile di quale sia il suo vero oggetto? Ebbene allora! Ecco ora, con la storia alla mano, la prova della piena realizzazione dell’ipotesi: ecco, io dico, il quadro che abbiamo appena visto, che si applica efficacemente, punto per punto, in tutta la sua estensione, fino al dettaglio delle particolarità più singolari, e con la precisione più sorprendente, a tutto quell’insieme di eventi e di cose che riempirono l’epoca notevole tra tutte le altre, della distruzione di Roma antica, dello smembramento del suo impero, e della posa delle prime fondamenta di quello che fu poi chiamato l’edificio politico della cristianità. Per giustificare questa affermazione, basterà presentare un riassunto della glossa di Bossuet sul passo che ci occupa, che unita a tutto ciò che ha già preceduto, costituirà, se non ci sbagliamo, la più convincente delle dimostrazioni (Bossuet, l’Apocalypse con una spiegazione, cap. XVII, spiegazione della seconda parte, 1).

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Si tratta dunque di dieci re, esecutori, ripetiamolo, delle alte opere di Dio contro la grande città, madre degli abomini della terra. Decem reges sunt. Dieci re! Questo è già molto suggestivo, perché a questo numero considerevole di capi di popoli venuti da vari punti per abbattere un grande impero e stabilirsi nelle sue terre, il pensiero si riferisce al tempo dell’invasione dei barbari, e che ci piaccia o no, pensiamo subito a coloro che hanno rovinato Roma e rovesciato il suo potere, soprattutto in Occidente. Allora, infatti, si sono visti apparire, quasi contemporaneamente, i Vandali, gli Unni, i Franchi, i Burgundi, i Suebi, gli Alani, gli Eruli, i Longobardi, i Germani, i Sassoni, e più di tutti questi, i Goti, che furono i principali distruttori dell’impero. Inoltre, non c’è nulla che forzi a tormentarci nel ridurli precisamente al numero di dieci, anche se potrebbero essere ridotti a quel numero in relazione ai regni fissi che essi vi stabilirono. Ma uno dei segreti dell’interpretazione dei profeti è di non cercare finezze dove non ce ne sono, e di non perdersi in minuzie quando si trovano grandi personaggi che colpiscono l’occhio fin dall’inizio. Qui, senza bisogno di ulteriori dettagli, c’è un carattere piuttosto notevole, che da un solo impero si formino tanti grandi regni, in varie province della Spagna, in Africa, nella Gallia celtica, nell’Aquitania, nella Sequania, nella Gran Britannia, nell’Italia e altrove, e che l’impero romano sia abbattuto alla sua fonte, cioè nell’Occidente dove è nato, non da un solo principe che comanda in capo, come accade di solito, ma dall’inondazione di tanti nemici che agiscono tutti indipendentemente gli uni dagli altri. Ma andiamo sempre avanti. Questi re, che smembrarono l’Impero romano, hanno nella storia caratteri ben marcati e ben determinati. Passiamo dunque in rassegna quelli che, da parte sua, la profezia di San Giovanni attribuisce ai dieci re distruttori della grande Babilonia, confrontiamoli e vediamo se corrispondono. In primo luogo, c’è un carattere per i dieci re di San Giovanni, che consiste, come abbiamo detto, nel fatto che al momento della loro prima apparizione non avevano ancora ricevuto il loro regno, qui regnum nondum acceperunt. Ora, apro la storia, e mi chiedo se sarebbe stato possibile caratterizzare meglio la condizione di questi avventurieri, di questi capi barbari, che vediamo arrivare nei secoli IV e V sulle terre dell’Impero. Certamente, quando sono arrivati lì, non avevano ancora alcun possesso. Così, il regno che dovevano stabilire lì, non era ancora dato loro, e doveva essere effettivamente dato solo dopo la sconfitta della bestia, secondo ciò che è segnato dalle parole che seguono in San Giovanni: sed potestatem tanquam reges accipient post besitam. Ma c’è di più, perché non solo non avevano ancora alcun possesso nell’Impero, ma né nell’Impero né altrove avevano un dominio fisso. Le regioni dove intendevano stabilirsi con il loro popolo dovevano essere conquistate, ed è con grande precisione che Bossuet osserva: « I re in questione non sono re come gli altri, che cercano di fare conquiste per allargare il loro regno. Sono tutti re senza regno, o almeno senza una sede determinata del loro dominio, che cercano di stabilirsi in un paese più conveniente di quello che hanno lasciato. Non ci sono mai stati tanti re di questo carattere come durante la decadenza dell’Impero Romano, e questo è già un carattere molto particolare di quell’epoca, ma gli altri sono molto più sorprendenti. » Molto più sorprendente, infatti, è quello che San Giovanni assegna al secondo posto, e che abbiamo detto prima essere completamente intellegibile: … ed essi metteranno la loro forza e la loro potenza al servizio della bestia: et virtutem et potentiam suam bestiæ tradent. Ma come? Al servizio della bestia, proprio coloro che la profezia ci dà come suscitati da Dio per farla a pezzi e divorarla? Cos’è dunque questo mistero, e chi potrebbe conciliare cose così contrastanti? Ebbene, anche qui non dobbiamo preoccuparci di cercare, perché la storia ci libera da questa preoccupazione e ci dà la chiave dell’enigma mostrandoci gli eserciti di questi re, ricevuti all’inizio al soldo di Roma e nell’alleanza dei suoi imperatori. … « È il secondo carattere di questi re distruttivi di Roma – continua Bossuet – ed il segno dell’avvicinarsi della decadenza di quella città, una volta così trionfante, per trovarsi infine ridotta a un tale punto di debolezza, che non essa non poteva più comporre eserciti se non da queste truppe di barbari, né sostenere il suo Impero se non arruolando coloro che venivano ad invaderlo. » Questo periodo di debolezza è molto ben descritto in queste parole di Procopio: Allora la maestà dei principi romani era così indebolita, che dopo aver sofferto molto dai barbari, non trovò modo migliore per coprire la sua vergogna, che allearsi con i suoi nemici, ed abbandonare a loro anche l’Italia, sotto il titolo specioso di confederazione e alleanza … Oltre agli Alani e ai Goti, Procopio elenca anche gli Eruli e i Longobardi, i futuri padroni di Roma e dell’Italia, tra gli alleati dei Romani. Sotto Teodosio il Grande e i suoi figli, vediamo i Franchi nostri antenati avere un rango considerevole nell’armata romana sotto Arbogasto il loro capo, che poteva fare tutto nell’Impero. Gli alani e gli unni servirono contro Radagasio nell’esercito di Onorio, sotto la guida di Stilicone… I Franchi, i Burgundi, i Sassoni, i Goti sono nell’esercito di Ezio, generale romano, al rango di truppe ausiliarie contro Attila. E per attaccarci ai Goti ai quali appartiene principalmente o la gloria o il disonore di aver sconfitto Roma, li vediamo negli eserciti di Costantino, di Giuliano l’Apostata, di Teodosio il Grande, di suo figlio Arcadio… – Era dunque verissimo che Roma, in un certo tempo segnato da Dio, doveva essere sostenuta da coloro che alla fine l’avrebbero distrutta. E tutto questo è l’adempimento della profezia di San Giovanni sui dieci re: Et virtutem et potentiam suam bestiæ tradent. – Ma ecco un ultimo carattere che, chiaramente marcato in San Giovanni, è anche il più evidente nella storia, e sempre nella persona di questi stessi barbari, nemici giurati di Roma, che venivano a saccheggiare, depredare e devastare, e che finivano per stabilirsi nelle terre dell’Impero distrutto. Combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà: cum Agno pugnabunt, et Agnus vincet eos. E come combatteranno contro l’Agnello? In quanto tutti loro saranno dapprima idolatri; poi, in parte, infettati dall’arianesimo; spesso anche crudeli persecutori. Come, al contrario, saranno superati da Lui? In quanto alla fine diventeranno tutti Cristiani, tutti Cattolici, come i Goti in Spagna, i Franchi e i Burgundi in Gallia e Germania, i Longobardi in Italia, i Sassoni in Inghilterra, gli Unni in Ungheria. Perché tale fu la bella, magnifica, splendida vittoria che era opportuno che l’Agnello riportasse su di loro: ben diversa da quella descritta più avanti (XIX, 11-21), dove vediamo il Fedele e Verace che cavalca sul cavallo bianco, con occhi come una fiamma di fuoco, vestito di una veste macchiata di sangue, avendo in bocca una spada a due tagli, armata per il giudizio, la sconfitta e lo sterminio degli empi. Qui, al contrario, è l’Agnello mite, che senza dubbio ha nella sua faretra frecce affilate per trafiggere i suoi nemici e far cadere i popoli ai suoi piedi (Sal. XLIV, 6), ma frecce d’amore che cambiano i nemici in amici, e ne fanno, come dice espressamente San Giovanni qui (versetto 14), i chiamati, gli eletti e i fedeli: et qui cum eo sunt, vocati, fidèles, et electi (Si veda, specialmente questo passo, la spiegazione di un Commento all’Apocalisse attribuito a Sant’Ambrogio. Migne P. L., t. XVII, col. 914 e 915). –  Concludiamo, dunque, che non c’è dubbio che l’oracolo di San Giovanni sulla grande Babilonia avesse davvero per oggetto la caduta dell’antica Roma, pagana e idolatra: dell’antica Roma, dico, che anche dopo che Costantino vi aveva eretto il vessillo della croce, nonostante la grande e gloriosa Chiesa cristiana che aveva in seno, nonostante l’esempio e le difese dei suoi ultimi imperatori, era tuttavia rimasta la prostituta che la profezia ci presenta: sempre attaccata ai suoi vecchi dei, sempre sospirando “dietro a questi amanti impuri“, sempre pronta a darsi a loro alla prima occasione, come apparve sotto Giuliano l’Apostata, sempre protestando contro l’interdetto lanciato sui templi dei suoi idoli, come si vide sotto Teodosio, per esempio, nelle sollecitazioni del Senato per il ripristino dell’altare della Vittoria. (Si vedi su questo argomento la lettera di Sant’Ambrogio all’imperatore Valentiniano. Migne, P, L., t. XVI, col. 961 sqq., e la risposta dello stesso al rapporto di Symmaco, prefetto di Roma, Ibid. 9 col. 971 sqq.), e fino al tempo stesso di Alarico, nelle violente recriminazioni di tutti diffuse e vigorosamente confutate da Sant’Agostino nella sua Città di Dio, che attribuivano all’abbandono dell’antico culto tutte le sventure dell’impero (Orosio, Hist., 1. VII, c. 37. Migne, P. L. xxxi, col. 1159).1). Concludiamo che questa caduta definitiva di Roma pagana, preludio necessario all’instaurazione del regno sociale di Gesù Cristo e della sua Chiesa nel mondo, è il grande e memorabile evento che San Giovanni aveva principalmente in vista: dal che segue, per naturale conseguenza, che è anche ciò che deve servire da chiave a tutto il resto della profezia, sia in ciò che precede che in ciò che segue.

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E prima di tutto in ciò che precede. Perché tutto ciò che precede, dal luogo in cui iniziano le predizioni apocalittiche, ha una stretta connessione con ciò che abbiamo appena visto riguardo alla condanna e all’esecuzione della grande Babilonia, ed è per questo grande fatto, secondo la felice comparazione di Bossuet, ciò che il corpo di un poema è per la catastrofe che lo finisce e lo dispiega. Di questo non vedrei altra prova, se ce ne fosse bisogno, che la visione che apre il capitolo VI, e che ritorna di nuovo alla fine del capitolo XIX, come per racchiudere nel contesto dello stesso quadro e nell’unità dello stesso dramma, tutta la serie di visioni interposte. All’inizio del capitolo VI, in capo a tutte le visioni del futuro, subito dopo l’apertura del primo sigillo, subito dopo l’apertura del primo sigillo, appare un misterioso cavaliere montato su un cavallo bianco, come quello che avevano i vincitori nel giorno del loro ingresso e trionfo: Guardai, dice San Giovanni (VI, 2), e vidi un cavallo bianco; e Colui che vi sedeva sopra aveva un arco, e gli fu data una corona, e se ne partì come un conquistatore che va a riportare vittorie su vittorie. Et exivit vincens ut, vinceret. Questo misterioso cavaliere è evidentemente Gesù Cristo stesso, che ha già vinto la morte nella sua gloriosa risurrezione, e che è qui rappresentato nell’atto di partire per nuove vittorie, che, naturalmente, non possono essere che vittorie sull’inferno ed i suoi sostenitori, che cospirano per impedire con tutti i mezzi in loro potere l’instaurazione definitiva ed universale del regno di Dio, cioè della Chiesa, nel mondo. Quali saranno allora le visioni che seguiranno, se non tante immagini profetiche dei mezzi provvidenziali da usare per questo stabilimento e trionfo del Cristianesimo, delle sanguinose persecuzioni da subire, dei formidabili ostacoli da superare prima che questo possa essere realizzato, dei vari tipi di avversari da ridurre, e anche dei terribili giudizi che Dio eserciterà sui suoi nemici per l’esecuzione del suo piano? Ecco, dunque, gli oracoli successivi dei sette sigilli, delle sette trombe, delle sette coppe, dei tre “vae” o guai. Ecco la bestia che appare dal capitolo XIII, e prima con le sue sette teste e dieci corna, più tardi (capitoli XIV, XVI) sotto il nome mistico di grande Babilonia; più tardi ancora (capitolo XVII) come un tutt’uno con la prostituta opulenta e crudele, madre degli abomini della terra. Ecco il suo giudizio, la sua condanna, il suo castigo, il suo rovesciamento, che getta il mondo intero, come è stato detto, nella costernazione. Ecco ora, a titolo di epilogo (XIX, 1-8), l’inno di lode che i Santi del cielo cantano a Dio per questa grande opera della sua giustizia, della sua potenza e della sua mirabile provvidenza sulla Chiesa. E infine, per chiudere l’insieme di queste grandiose e terribili scene, la riapparizione del cavaliere che era apparso per la prima volta al levarsi del sipario: “Poi vidi – aggiunge San Giovanni (XIX, 11-16) – il cielo aperto, e apparve un cavallo bianco; e colui che vi sedeva sopra era chiamato il Fedele e Verace che giudica e combatte con giustizia. I suoi occhi erano come una fiamma di fuoco… Era vestito con una veste tinta di sangue, ed è chiamato il Verbo di Dio. E gli eserciti che sono nei cieli lo seguivano su cavalli bianchi, vestiti di puro lino bianco. E dalla sua bocca uscì una spada a doppio taglio per colpire le nazioniE vidi la bestia e i re della terra e i loro eserciti riuniti per fare guerra contro Colui che sedeva sul cavallo e contro il suo esercito. Ma la bestia fu presa… e gettata nello stagno di fuoco e zolfo. Naturalmente, sarebbe superfluo preoccuparsi di dimostrare più a lungo l’identità del cavaliere presentato qui con quello di prima, poiché è ovvio che, in entrambi i casi, si tratta di uno stesso personaggio, e che questo personaggio è Gesù Cristo. Con questa differenza, però, che all’inizio fu mostrato nell’atto di intraprendere la spedizione, e come nell’abito del guerriero che va alla battaglia, invece ora riappare di nuovo, essendo ancora, se posso esprimermi così, in tutta la foga della lotta, e con i segni sanguinosi della carneficina, ma una volta finiti lotta e carneficina, e nell’atto di consumare la vittoria. In questo modo, tutta la parte dell’Apocalisse che si estende dal capitolo VI al capitolo XIX compreso, ci presenta una raccolta compatta di fatti, eventi e cose, che culmina infine nell’esecuzione della bestia, cioè nel rovesciamento dell’antica Roma, come il termine in cui si compie ciò che San Giovanni aveva in vista, cioè: Gesù Cristo vittorioso, la sua Religione trionfante sugli ostacoli umanamente insormontabili che si opponevano al suo solido e definitivo stabilimento, ormai in grado di prendere nel mondo l’alta direzione degli affari; in una parola, satana espropriato, gettato fuori, e l’idolatria abbattuta con l’impero che la sosteneva. Questo – conclude Bossuet – è ciò che San Giovanni celebra nell’Apocalisse; è qui che ci conduce attraverso una serie di eventi che durano più di trecento anni, ed è qui che finisce finalmente la parte principale della sua predizione – (Così, la prima e principale parte delle predizioni apocalittiche avrebbe già ricevuto, e per molto tempo, almeno per quanto riguarda il suo primo e immediato significato, un pieno e completo compimento. Questo assicurerebbe all’esegeta, nei dati della storia del secondo, terzo e quarto secolo, la più sicura regola di interpretazione. Per segnalare qui, a grandi linee, solo le cose più sorprendenti: in questa luce della storia possiamo vedere in primo luogo, nei capitoli VII e VIII, la vendetta divina, che cade prima sui Giudei, così come poi sui primi autori o istigatori delle persecuzioni contro la Chiesa; Questa vendetta fu sospesa per un momento a favore dei dodicimila segnati di ciascuna delle dodici tribù, che dovevano essere separati dal resto della nazione, ma fu presto nuovamente scatenata, terribile e inesorabile, sotto Traiano e soprattutto sotto Adriano, su quegli sfortunati resti di Israele che la rovina di Gerusalemme sotto Tito aveva risparmiato. Poi nel capitolo IX vediamo, nelle locuste mistiche che escono dal pozzo dell’abisso, un altro tipo di nemico infinitamente più pericoloso, dal quale anche la Chiesa ai suoi inizi doveva trionfare: cioè le prime eresie, la maggior parte delle quali nascevano da opinioni giudaiche, e per questo sono legate nella profezia alle persecuzioni esercitate dagli stessi Giudei. Poi, con il capitolo XI, arriviamo alle persecuzioni romane, che San Giovanni riassume in quella di Diocleziano, la più lunga, la più violenta, la più crudele, la più universale di tutte, e che descrive con caratteri così precisi e particolari che, una volta conosciuta la chiave, ci sembra di vedere svolgersi dei quadri tratti dalla vita degli eventi. Ma più si va avanti, più i soggetti di sorpresa si moltiplicano. Il capitolo XIII ci mostra la bestia, cioè l’idolatria romana, ferita a morte dalla vittoria di Costantino, poi riportata in vita sotto Giuliano e, in questa sorta di resurrezione, ammirata come miracolosa, ricevente i servizi di un’altra bestia, nella quale riconosciamo la filosofia pitagorica, « … che sostenuta dalla magia, faceva concorrere i suoi ragionamenti più speciosi e i suoi prodigi più sorprendenti alla difesa dell’idolatria. » Il resto (XIV-XIX) è finalizzato direttamente al rovesciamento dell’Impero Romano come detto e spiegato sopra).  

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Ed ora, essendo il significato di questa prima e principale parte ben determinato e ben stabilito, il resto non può più fare alcuna difficoltà, perché il resto non è che la continuazione ed il completamento di ciò che precede. Il resto è il capitolo XX, dove San Giovanni, riprendendo la continuazione della sua profezia dalla caduta dell’Impero Romano, srotola la trama fino alla fine dei secoli. E infatti era naturale che, dopo aver descritto profeticamente il primo periodo della Chiesa, le sue prime lotte, le sue prime prove e quella che si potrebbe chiamare la sua prima presa di possesso del mondo, egli descrivesse anche il suo destino  nel corso successivo delle epoche. Eppure egli lo fa solo in modo estremamente sommario e, per così dire, in due o tre pennellate. È come un pittore che, dopo aver dipinto con colori vivaci quello che è il soggetto principale del suo quadro, traccia ancora in modo distante e confuso altre cose più lontane da questo oggetto. Tuttavia, qualunque sia l’indeterminatezza con cui lo Spirito di Dio si è compiaciuto di lasciare quest’ultimo schizzo del futuro, noi vediamo molto chiaramente e distintamente segnati in esso altri due tempi della Chiesa che vengono dopo il tempo dei suoi primi inizi: prima, il tempo del suo regno sulla terra (versetti 1-6), e poi il tempo della sua prova suprema e più terribile (versetti 7-10), immediatamente seguito dal giudizio universale di cui San Giovanni, in conclusione, ci dà (versetti 11-15), un’immagine in riduzione. Del regno della Chiesa sulla terra (che sarà anche, come è detto al versetto 4, il regno dei santi martiri, a causa della gloria da cui saranno circondati, dei grandi onori che saranno resi loro, e dei miracoli abbaglianti con cui Dio autorizzerà il loro potere presso di lui), solo una cosa ci è rivelata qui, che sarà relativamente lungo e tranquillo. Relativamente lungo, come si vede dai mille anni attribuitigli dalla profezia, poiché questo numero, per quanto figurativo, non può ovviamente che rappresentare un periodo di durata considerevole. È anche relativamente tranquillo, come appare dall’incatenamento del drago, cioè di satana « … rinchiuso nell’abisso senza fondo, affinché non inganni più le nazioni, finché i mille anni siano compiuti. » Questo, però, deve essere inteso secondo l’ordine attuale della provvidenza, che non implica una totale esclusione dell’azione diabolica nel mondo, e tenendo conto di quel modo di parlare, frequente nella Scrittura, che consiste nel rappresentare una cosa, non tanto secondo ciò che è in sé, quanto secondo ciò che sembra essere in confronto ad un’altra. – Così ora dobbiamo vedere in questo incatenamento di satana un incatenamento relativo, cioè meritevole di questo nome solo in confronto alla libertà che gli era stata lasciata nei tempi antichi, e che gli aveva permesso di stabilire un’idolatria universalmente dominante, corrompendo tutta la terra, ovunque opprimendo e perseguitando i Cristiani. – Per quanto riguarda il tempo dell’ultima prova, che è il tempo dello scatenamento di satana e della persecuzione dell’anticristo, esso è descritto in meno di quattro versetti, ed in termini il cui significato sarebbe forse avventato, soprattutto riguardo a Gog e Magog, cercare di specificare ora. Lasciamo dunque al futuro il compito di sollevare qui il velo, e accontentiamoci di ciò che San Giovanni ha esplicitamente indicato, cioè che questa persecuzione suprema sarà breve (versetto 3), che sarà una persecuzione ancora più di seduzione che di violenza (versetto 7), e che sarà prontamente seguita dalla venuta del Giudice dei vivi e dei morti (versetto 11 e seguenti). Da tutto ciò che si è detto finora, dunque, risulta tutta la verità di ciò che dice Sant’Agostino nel libro XX della Città di Dio, cap. VIII, n. 1: che il tempo abbracciato dal libro dell’Apocalisse va dal primo avvento di Gesù Cristo alla fine del mondo, quando avrà luogo il secondo avvento. « Totum hoc tempus quod liber iste complectitur, a primo scilicet adventu Christi usque in sæculi finem quo erit secundus ejus adventus. » E da questo segue anche, per una necessaria conseguenza, la piena soluzione della prima delle due difficoltà proposte all’inizio di questo articolo, di quella che era presa da quæ oportet fieri cito: poiché si trattava di una lunga serie di eventi che si sarebbero susseguiti nel corso delle epoche, il significato di fieri cito non poteva essere che l’insieme delle predizioni si sarebbe presto realizzato, ma solo, come la natura delle cose indica abbondantemente, che l’inizio e il principio sarebbero presto arrivati. E infatti le predizioni apocalittiche riguardavano eventi che si sarebbero verificati dalla fine del regno di Domiziano – la data della rivelazione a San Giovanni – alla prima metà del quinto secolo, il tempo del crollo dell’Impero Romano, e più tardi, come è stato spiegato, alla fine dei tempi. Anche qui, dunque, l’esegesi modernista è sconfitta in tutte le sue pretese.

LA PARUSIA (10)

L’INFALLIBILITA’ DEL PAPA (I)

UNA LEZIONE DI CATECHISMO: L’INFALLIBILITÀ DEL PAPA (I)

H. MONTROUZIER. S. J.

[Lettera sul futuro Concilio ecumenico. In Rév. Des  Sc. Eccl. 3a SERIE, T. I.  — APRILE – 1870.]

I.

D- Che cos’è l’infallibilità del Papa?

R. È il privilegio per il quale, in virtù della perpetua assistenza divina, il Papa è assolutamente preservato da ogni errore, quando, nell’esercizio del suo ufficio di supremo pastore e dottore della Chiesa universale, insegna ai fedeli ciò che devono credere o praticare.

D. Come si dimostra l’esistenza di questo privilegio?

R. Lo dimostra l’idea stessa del primato che appartiene al Papa. È di fede, infatti, che il Romano Pontefice esercita il primato, cioè la suprema autorità dottrinale e disciplinare sulla Chiesa universale e su ogni Chiesa in particolare. Ora, come ha detto Mons. Dupanloup, un’autorità non può essere sovrana in materia di fede senza essere infallibile (Lettera sul futuro Concilio Ecumenico.). Così, in virtù del suo primato, il Papa è infallibile.  – Inoltre, la fede insegna che « Nostro Signore Gesù Cristo ha lasciato sulla terra un uomo che fosse il suo Vicario visibile e governasse la Chiesa come Capo Supremo, in modo che tutti i fedeli potessero ricorrere a Lui nelle loro rimostranze, e potessero ottenere una decisione definitiva riguardo alla vera dottrina, in modo da conservare una sola e medesima fede in tutta la Chiesa. Questo risultato non avrebbe potuto essere ottenuto se Dio non avesse stabilito un unico Capo e Giudice che decidesse tutte le controversie in modo infallibile, e al quale tutti devono sottomettersi… E San Cipriano ha espresso questo pensiero profondamente vero: che tutte le eresie e gli scismi sono sorti dal non obbedire al Sacerdote di Dio, e dal non considerare che quaggiù non c’è che uno solo che nella Chiesa sia Sacerdote e Giudice al posto di Gesù Cristo. (Epistol. 55 ad Cornel.) »  – Così pure parla S. Alfonso Liguori, che in diverse sue dotte opere ha solidamente stabilito la verità dell’infallibilità del Papa (Del Papa e del Concilio, etc, del R. P. Jules Jacques, p. 6. Per le citazioni di S. Liguori, mi riferirò d’ora in poi a questa preziosa raccolta che valse al suo autore un Breve molto espressivo).

D. Ma è davvero certo che il Salvatore abbia conferito a San Pietro l’infallibilità della fede?

R. Niente potrebbe essere più sicuro. Il Vangelo lo attesta in tre testi precisi: quando riporta il Tu es Petrus et super hanc petrametc. (Matth. XVI, 18); quando menziona la preghiera fatta da Nostro Signore Gesù Cristo per la stabilità della fede del suo Vicario, e allo stesso tempo l’ordine dato dal Salvatore a San Pietro di confermare i suoi fratelli nella fede: Et tu aliquando conversus confirma fratres tuos (Luc., XXII, 26) (È abbastanza usuale tradurre le parole di Nostro Signore et tu aliquando conversus con queste: e tu, quando ti sarai convertito, cioè, quando avrai ottenuto il perdono per la tua caduta. È molto più naturale invece tradurre: e tu, rivolgendoti ai tuoi fratelli, li confermerai nella fede. Questa interpretazione è più conforme al disegno del Salvatore e all’uso biblico, come un teologo moderno ha perfettamente dimostrato. Chi, per esempio, vorrebbe intendere da una conversione del cuore questo passo del salmo: Deus, tu CONVERSUS vivificabis nos? dobbiamo quindi concludere con questo teologo: “Cura itaque Christum audîmus ita Petrum compellantem: Ego rogavi pro te ut non deficeret fides tua, et tu aliquando conversus confirma fraires tuos: idem nobis esse débet ac si eum audiremus dicentem: Si cuti ego ad te conversus pro te rogavi, ne deficeret fides tua, ita et tu aliquando ad tuos fraires conversus (conversione non pœnitentiæ et luctus, sed tutelæ et protectionis), confirma illos,” (Caroli Passaglia commentarius de prœrogativis B. Petri, 1. 1, c. 13). Vedi anche il bel lavoro di P. Clement Schrader, de Unitate romana, p. 179 e seguenti, dove la stessa interpretazione è fermamente stabilita. L’erudito fr. Maldonat accetta questa interpretazione, e Cornelius a Lapide cita diversi SS. Padri che lo condividono); infine, quando parla dell’investitura data da Nostro Signore al suo Apostolo dell’ufficio di Pastore supremo: Pasce agnos, pasce oves (Joan. XXI, 16).

D. Come si dimostra che l’infallibilità del Papa è evidente da questo triplice testo del Vangelo?

R. Per l’impossibilità di capire 1°. che Pietro, essendo per la sua fede il fondamento della Chiesa, non possiede la fermezza che egli comunica a tutto l’edificio; 2°. che la preghiera del Salvatore è rimasta senza effetto; che Pietro possa ingannarsi, mentre è obbligato dal suo ufficio a confermare tutti quelli che vacillano o dubitano; 4°. e che non sappia discernere con perfetta certezza i pascoli sani da quelli avvelenati, a rischio di presentare alle sue pecore un cibo che dà loro la morte. – Ascoltate la spiegazione di San Francesco di Sales, che è qui in tutto e per tutto conforme alla Tradizione cattolica:

« Tutti sono tentati e non si prega solo per lui… Egli prega, dunque, per San Pietro, come per conferma e sostenitore degli altri… La verità è che questo comando a San Pietro di confermare i suoi fratelli (che senza dubbio rappresentavano tutta la Chiesa) non poteva essere dato se non fosse egli incaricato di prendersi cura della loro fede: perché come potrebbe essere messo in atto questo comando senza che gli sia dato il potere di prendersi cura della debolezza o della fermezza degli altri, per rafforzarli e rassicurarli? Non è forse il dirlo e ridirlo ancora, il fondamento della Chiesa? Se egli sostiene, se rassicura, se rafforza e se conferma anche le pietre fondamentali, come può non rafforzare tutto il resto? Se ha l’incarico di sostenere le colonne della Chiesa, come non sosterrà tutto il resto dell’edificio? Se ha l’incarico di pascere i pastori, non sarà egli stesso il pastore sovrano? Il giardiniere che vede i continui ardori del sole su una giovane pianta, per preservarla dalla siccità che la minaccia, non porta acqua ad ogni ramo? si accontenta di innaffiare e bagnare bene la radice e crede che tutto il resto sia sicuro, perché la radice disperde l’umidità al resto della pianta? Così Nostro Signore, avendo piantato questa santa assemblea dei suoi discepoli, pregò per il Capo, e innaffiò questa radice, affinché l’acqua della Fede viva non mancasse in colui che doveva dissetare tutto il resto, e perché attraverso il Capo la Fede fosse sempre conservata nella Chiesa, prega dunque per San Pietro in particolare, ma per il beneficio e l’utilità generale di tutta la Chiesa (Controversie, discorso 34) ». San Crisostomo chiama San Pietro Os Christi, perché parla per tutta la Chiesa e a tutta la Chiesa in qualità di capo e di pastore, e ciò che dice non è tanto una parola umana, quanto quella di Nostro Signore stesso. – Così ciò che San Pietro diceva e determinava non poteva essere falso; e in verità se il confermatore fosse caduto, non sarebbe crollato tutto il resto? Se il confermatore vacilla e barcolla, chi lo confermerà? Se il confermatore non è fermo e costante in se stesso, quando gli altri verranno meno, chi li rafforzerà? Sta scritto: Se il cieco guida il cieco, entrambi cadranno nella fossa; se l’instabile ed il debole vogliono sostenere e assicurare il debole, entrambi cadranno a terra, da cui segue che Nostro Signore, nel dare l’autorità e il comando a San Pietro di confermare gli altri, glene diede anche il potere ed i mezzi per farlo, altrimenti per nulla avrebbe ordinato una cosa impossibile. I mezzi necessari per confermare gli altri e rassicurare i deboli, è quello di non essere soggetti alla debolezza né al terrore, ma di essere solidi e fermi in se stessi come una vera pietra e come un re: e tale era questo santo Apostolo, come Pastore generale e governatore della Chiesa universale. « Così, quando San Pietro fu posto a fondamento della Chiesa cristiana, e alla Chiesa  fu assicurato che … le porte dell’inferno non avrebbero prevalso contro di essa, non era come dirci che San Pietro, come pietra fondamentale del governo e dell’amministrazione ecclesiastica, non avrebbe mai potuto essere sgretolato o rovesciato dall’infedeltà, che è la principale porta dell’inferno? Perché chi non sa che se le fondamenta sono rovesciate e minate, l’intero edificio cadrà? « Dopo tutto, se fosse possibile che il supremo Pastore ministeriale conduca le sue pecore in pascoli velenosi, è certo che l’intero parco sarebbe presto perso. Se il supremo Pastore ministeriale ci conducesse al male, chi rialzerebbe il gregge? Se si smarrisse, chi lo riporterebbe alla verità? Dobbiamo solo seguirlo, non lasciarlo, altrimenti le pecore sarebbero pastore (Controversie, discorso 48. L’espressione Pastore ministeriale usata da San Francesco di Sales non ha ovviamente nulla in comune con il caput ministeriale di Richer. Quest’ultimo considerava il Papa come deputato dalla Chiesa stessa ad essere il suo ministro; il santo Vescovo chiamava il Papa Pastore ministeriale solo per distinguerlo da Gesù Cristo, che è il Pastore invisibile che conferisce la loro missione a tutti gli altri Pontefici). »

D. L’infallibilità di San Pietro è stata ereditata da tutti i Pontefici Romani che gli sono succeduti?

R. Senza dubbio. Ascoltiamo di nuovo San Francesco di Sales: « Tutto questo non ha avuto luogo solo in San Pietro, ma nei suoi successori; poiché come rimane la causa, così rimane l’effetto. La Chiesa ha sempre bisogno di un confermatore permanente, al quale possiamo rivolgerci per trovare un fondamento solido, che le porte dell’inferno, e specialmente l’errore, non possano rovesciare: il suo Pastore non deve portare all’errore, né condurci al male. Solo i successori di San Pietro hanno questi privilegi, che non seguono la persona ma la dignità pubblica della persona. (Mgr. Mermillod ha constatato che la maggior parte delle edizioni francesi hanno indebolito il pensiero di San Francesco di Sales relativamente all’infallibilità pontificia).

II.

D. L’infallibilità del Papa può essere provata dalla Tradizione?

R. Certamente. I teologi, tra cui il famoso Thomassin, sottolineano che i primi otto Concili generali sono un riconoscimento impressionante dell’infallibilità del Papa. Bossuet stesso ha dimostrato solidamente contro Ellies Dupin che nei concili di Efeso e Calcedonia, il Papa ha dettato ed imposto la sua sentenza. Mi limiterò a citare il decreto del Secondo Concilio Generale di Lione (1274), sottoscritto anche dai Greci, secondo il quale – come è detto ivi – la Chiesa Romana è tenuta più di ogni altra a difendere la verità della fede, e pure le questioni sollevate su questa stessa fede devono essere definite dal suo giudizio. » – Non c’è bisogno di ricordare la famosa definizione del Concilio di Firenze, che il dotto Muzzarelli sostiene sia stata data con una forte intenzione di stabilire l’infallibilità. L’affermazione di Muzzarelli è confermata dagli atti del Concilio, e anche dal poco affetto che i gallicani hanno sempre mostrato verso il Concilio di Firenze -.

D. I Padri e i Dottori credevano nell’infallibilità?

R. Sì, senza dubbio alcuno. San A. de’ Liguori, nella sua confutazione di Febronio, ha un capitolo intitolato: Il potere supremo, e di conseguenza, l’infallibilità del Romano Pontefice provata dalla comune testimonianza dei santi Padri (P. Jaques, il Papa e il Concilio, ecc, p. 283 e seguenti) – Vi si leggono i nomi dei principali dottori che hanno illustrato la Chiesa durante i primi dodici secoli, Sant’Ignazio di Antiochia, Sant’Ireneo, San Cipriano, San Girolamo, Sant’Atanasio, Sant’Agostino, San Gregorio di Nazianzo, San Cirillo d’Alessandria, Sant’Ilario, San Pietro Crisologo, San Fulgenzio, San Gregorio Magno, il venerabile Beda, Sant’Anselmo, San Bernardo, San Bonaventura, San Tommaso d’Aquino. – Dopo questa enumerazione, che sarebbe stato facile prolungare (Il lettore troverà una splendida esposizione di ciò che i Padri credevano a proposito dell’infallibilità nella bella opera de Papa di M. Bouix, e ancora nel libro di P. Schräder de Unitate romana. Ai santi dottori citati da San A. de’ Liguori ne aggiungerò due, Sant’Ambrogio e San Leone IX. Sant’Ambrogio ha detto: lpse est Petrus, cui dixit: Ta es Petrus et super hanc petram ædifîcabo Ecclesiam meam: UBI ERGO PETRUS, IBI ECCLESIA. La parola ergo dà al testo già forte una nuova energia. – San Leone IX, ricordando a Michele Cerulario l’infallibilità del Romano Pontefice basata sulla preghiera del Salvatore: Ego rogavi pro te, aggiungeva: « Qualcuno sarà così temerario dal supporre che la preghiera di Colui la cui volontà è potenza, sia stata vana in qualche cosa? » Ebbene si! Diversi gallicani, seguendo Bailly, hanno sollevato questo empio dubbio), San A. de’ Liguori conclude: « Tutte le testimonianze dei santi Padri che abbiamo appena citato mostrano chiaramente che il Sommo Pontefice è infallibile. » – E Suarez, nel quale, secondo Bossuet, si sente tutta la Scuola … Suarez non esita a dire di coloro che attaccano l’infallibilità del Papa, « che la loro opinione non è solo avventata all’eccesso, ma anche erronea, per il fatto che il sentimento degli scrittori cattolici è così unanime riguardo a questa verità, che non è affatto permesso revocarla in dubbio. » (De Fide, disp. 20, sez. 3).

D. Ma tra le presunte testimonianze, non ce ne sono forse molte che possano essere ricusate: per esempio, quelle dei Papi, che sono troppo sospette poiché possano testimoniare per la loro stessa causa?

R. Si noti che la verità dell’infallibilità si basa: . sugli stessi Concili Ecumenici; e . su un immenso numero di Padri, Dottori e Teologi che non erano Sommi Pontefici. Così, ridotta a queste sole testimonianze, sarebbe sufficientemente stabilita. – Ma, anche se i soli Papi testimoniassero a suo favore, dovremmo comunque accettare le loro deposizioni: è Bossuet che lo dichiara. « Già sento – dice – quello che mormorano i nostri avversari, che non dobbiamo fidarci di quello che dicono i Papi in favore delle prerogative della loro Sede, perché sono parti interessate. – Né, per la stessa ragione, dovremmo fidarci dei Vescovi e dei Sacerdoti quando parlano della loro dignità. Noi dobbiamo dire proprio il contrario; perché Dio ispira a coloro che pone nei ranghi più sublimi della sua Chiesa sentimenti del loro potere che sono in accordo con la verità, di modo che, usandoli nel Signore con piena fiducia, quando l’occasione lo richieda, possano verificare questa parola dell’Apostolo: Abbiamo ricevuto lo Spirito da Dio, per mezzo del quale conosciamo i doni che ci ha elargito. (I Cor. II, 12). – Io ho ritenuto necessario fare almeno una volta questa osservazione, per confondere la risposta temeraria e detestabile che ci si oppone; e io dichiaro che, per quanto riguarda la dignità della Santa Sede, mi attengo alla tradizione e alla dottrina dei Romani Pontefici. (Defensio Declarat, p. III., 1. x., c. 6. Fénelon tiene assolutamente lo stesso linguaggio, Dissertat, de S. Pontif. auctor., c. 15). » Notiamo di passaggio che Bossuet non poteva sopportare che le lodi ed i titoli d’onore conferiti dai santi Padri alla Cattedra Apostolica fossero presi per semplici complimenti. « È entrare – diceva – nello spirito dei greci scismatici che, nel Concilio di Firenze, volevano prendere per attestato di onestà e per complimenti tutto ciò che i Padri scrivevano ai Papi per sottomettersi alla loro autorità (Osservazioni su l’Hist. Des Conciles, ecc., t. xxx, p. 521 (ed. Lebel).  » 

D. Almeno, è incontestabile che esaltando la Chiesa Romana e la Sede Apostolica, i Concili, i Padri e i Dottori abbiano voluto celebrare le prerogative inerenti alla persona dei Romani Pontefici?

R. Sì. « Launoy – dice San Alf. de’ Liguori – … Launoy e tutti coloro che, come lui, combattono l’infallibilità del Papa, fanno una distinzione tra la Sede Apostolica e romana, con cui intendono la Chiesa universale, e colui che occupa quella Sede, cioè il sovrano Pontefice. Ora affermano che la prima sia infallibile, ma che il secondo non lo sia.  « La distinzione è ingegnosa, ma è falsa e contraria al comune sentire dei Concili, dei Sommi Pontefici e dei Santi Padri, che per Sede Apostolica o Romana intendono generalmente il Pontefice di Roma. Pertanto, sotto la denominazione di Sede, si intende colui che vi è seduto (P. Jacques, op. cit., p. 157). Fénelon confuta molto bene questa distinzione tra la sede e l’occupante. Vedi la sua dissertazione già citata, cap. VII e segg.) ». – Il corifeo del giansenismo, Àrnauld, non era contento di questa distinzione che, nonostante il suo odio settario, non poteva conciliare con le testimonianze della tradizione (Lettera a M. Du Vaucel, 9 ottobre 1686 (n.° 591).  – Infine, Tournély, un teologo che i gallicani hanno ascoltato abbastanza volentieri, è d’accordo sul fatto che la distinzione tra la sede e l’occupante non è né vera e nemmeno intelligibile. Né lo trova suscettibile di accomodamento sulla testimonianza della tradizione. Essa non ha altro valore che quello che gli viene dall’autorità secolare: Allonge difficilius est ea conciliare cum declaratione Cleri gallicani, a qua recedere nobis non permittitur (De Ecclesia, t. II, p. 134).

D. Perché affermate l’esistenza di una tradizione a favore dell’infallibilità, mentre la Chiesa gallicana si è sempre pronunciata contro di essa?

B. Niente è più falso di questa presunta opposizione della Chiesa di Francia. Non è solo all’estero che i teologi hanno vendicato la Francia di una tale calunnia. D’Àguirre, Sfondrate, Zaccaria, Boccaberti, Orsi e San A. de’ Liguori hanno saggiamente stabilito che la Francia era sempre stata devota al sentimento dell’infallibilità. – Ma la stessa tesi è stata portata alla luce in Francia da Charlas, Fénelon e dal cardinale Villecour. – È vero che nel 1682 l’assemblea del clero di Francia emise una dichiarazione ostile all’infallibilità. Ma tutti sanno oggi a cosa attenersi riguardo ai motivi vergognosi che hanno causato la convocazione di questa triste assemblea e la redazione della Dichiarazione. Dopo il bel libro del signor Ch. Gérin, dobbiamo esclamare con il signor l’abate Maynard: « La culla del gallicanesimo è così macchiata di dispotismo e viltà che respingere i quattro articoli non è più solo una questione di ortodossia, ma una questione d’onore. (Bibliografia cattolica, aprile 1869).

L’INFALLIBILITA’ DEL PAPA (II)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. GREGORIO XVI – “QUAS VESTRO”

Oggi, una lettera Enciclica, come il breve Quas vestro, sarebbe considerata antiquata ed inaccettabile per tutti coloro che sono assuefatti all’oppio dell’ecumenismo di stampo massonico, per mezzo del quale si occulta la bestiale eresia dell’indifferentismo religioso, da sempre condannata e stroncata dalla Chiesa Cattolica e dalla sua dottrina apostolica, della Tradizione e da tutti i teologi unanimi della Scuola, che non ammettono tentennamenti o il tergiversare: o si è Cattolici totali sotto lo stendardo di Cristo, o si appartiene a Beliaal, alle sue armate sotto il labaro del demonio seppur mascherato da angelo di luce. Una terza via non è possibile … chi crede si salverà, chi non crede – magari fingendo il dialogo che nasconde l’incredulità – non si salverà. È sentenza evangelica indiscussa, de fide e di diritto divino inalienabile, perenne, immodificabile. Il Santo Padre Gregorio XVI, ce lo ricorda a proposito dei matrimoni di mista religione – problema oggi totalmente ignoto alle nuove generazioni, che anzi credono di essere cattolici, senza sapere che anche una mezza eresia, accettata, condivisa o favorita, mette fuori dalla Chiesa Cattolica, quindi dalla grazia santificante e dai meriti delle buone opere, rendendo organi staccati dal corpo mistico di Cristo, dalla cui linfa si irradia unicamente la salvezza eterna e proviene la gloria dei cieli. Questa è semplice e pura dottrina cattolica che misconosciuta o rifiutata, condanna alla eterna dannazione. D’altra parte, è arcinota la sentenza di S. Giacomo nella lettera ai suoi fedeli … quicumque autem totam legem servaverit, offendat autem in uno, factus est omnium reusPoiché chiunque osservi tutta la legge, ma la trasgredisca anche in un punto solo, diventa colpevole di tutto (II, 10). Oggi il problema, per il piccolo gregge cattolico, è veramente pressoché insormontabile, perché trovare un coniuge che non sia ateo, deista, vatican-modernista, tradizionalista falso cattolico o protestante, è impresa oltremodo titanica. E certamente, visti i rischi per l’anima propria e per quelle di un’eventuale prole infetta di eresia, ai quali si va temerariamente incontro, è meglio seguire i consigli di S. Paolo che al proposito consigliava già ai suoi tempi – per certi aspetti molto meno pericolosi degli attuali – ai fedeli di Corinto: … bonum est illis si sic permaneant, sicut et ego… (I Cor. VII, 8), e qualche rigo sotto: qui non junget, melius facit… (vv. 38). Mettiamoci comodi, quindi, restando sobri ed attenti, e meditiamo profondamente le parole del Sommo Pontefice.

BREVE
DEL SOMMO PONTEFICE
GREGORIO XVI

QUAS VESTRO

  Ai Venerabili Fratelli Presuli dell’Ungheria. Il Papa Gregorio XVI. 
Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.
Le devotissime lettere che, a nome vostro e dei Vescovi di codesto Regno, Ci avete fatto pervenire tramite il Venerabile Fratello Vescovo canadese Giuseppe, pervase di sentimenti di sincera devozione, sono state per Noi motivo di gioia e di tristezza ad un tempo. A buon diritto perché, dovendo salvaguardare con ogni cura, in forza del Nostro dovere apostolico, l’integrità della sacra dottrina e del diritto, non possiamo tollerare il sopraggiungere di qualsiasi cosa che possa metterla in pericolo. È perfettamente noto il pensiero della Chiesa circa i matrimoni fra a cattolici ed acattolici. Essa considerò sempre illecite e deleterie tali nozze, sia per la degradante comunione nelle cose divine, sia per l’incombente pericolo di perversione del coniuge cattolico e la scorretta educazione della prole. Trattano proprio di questo problema le più antiche disposizioni canoniche che le riprovano con tutta severità, nonché le più recenti norme adottate dai Sommi Pontefici, di cui non sembra necessaria una lunga e particolareggiata elencazione, essendo più che sufficiente ciò che precisò al riguardo il Nostro predecessore Benedetto XIV, di felice memoria, nella lettera enciclica indirizzata ai Vescovi di Polonia e ciò che si trova nel famosissimo scritto noto con il titolo De Synodo Dioecesana. Se in qualche luogo, per le gravi difficoltà del momento e per la pesante situazione sociale, siffatti matrimoni vengono tollerati, ciò deve essere ricondotto ad una prassi di profonda ed accorta valutazione che non può in alcun modo essere presa come indizio di approvazione e di consenso, ma di semplice tolleranza, che scaturisce non da un atto di volontà ma dalla necessità di evitare mali maggiori, come sapientemente annotò Pio VII, di venerata memoria, nella lettera inviata il 9 ottobre 1803 all’Arcivescovo di Magonza, riproponendo le risposte del proprio predecessore indirizzate ai Vescovi di Bratislava, di Roznava e di Spisskà Belà. Se, allentando in qualche modo la severità delle disposizioni canoniche, questa Sede Apostolica permise qualche volta siffatti matrimoni misti, lo fece assai a malincuore, in forza delle summenzionate considerazioni e per gravi e seri motivi, ma sempre con l’espressa ingiunzione di definire le debite precauzioni, non solo per evitare che il coniuge cattolico potesse essere fuorviato da quello i, ma anche perché tenesse sempre presente l’obbligo, nei limiti del possibile, di far recedere la comparte dall’errore e si provvedesse inoltre ad educare nella santa Religione cattolica i figli di entrambi i sessi eventualmente procreati. Si tratta di precauzioni che fondano la loro ragion d’essere nella stessa legge divina e naturale: certamente pecca contro di essa chiunque espone temerariamente se stesso e i futuri figli al pericolo della perversione. Dalle vostre predette lettere abbiamo avuto la certezza di un abuso assai diffuso nelle diocesi di codesto Regno: matrimoni fra cattolici e acattolici senza la dovuta dispensa della Chiesa e senza le necessarie precauzioni vengono legittimati con la benedizione e con i riti sacri dai parroci cattolici. Potete ben comprendere, Venerabili Fratelli, come non potessimo non essere gravemente colpiti da tutto questo, soprattutto perché ci siamo resi conto di quanto ampiamente abbia preso piede la pratica di tali matrimoni misti, e come si sia inoltre profondamente radicata l’indifferenza verso i contenuti della Religione in vastissime regioni di un Regno che era per l’addietro un vero vanto della Fede cattolica. Non è Nostra intenzione sorvolare sul fatto che, in forza del Nostro santissimo compito, non avremmo tralasciato di prendere le opportune misure se fossimo stati da tempo a conoscenza della situazione. Potete facilmente intuire il motivo del Nostro silenzio: negli ultimi tempi non è stata concessa alcuna dispensa apostolica per matrimoni misti da celebrare presso di voi se non con l’ingiunzione delle prescritte precauzioni e l’aggiunta delle norme che, per disposizione di questa Santa Sede, si debbono osservare. Tuttavia, tra le notizie riportate, Ci è stato di non poca consolazione il fatto che, mentre venivamo edotti del male incombente, apprendevamo anche che da parte vostra e dei vostri colleghi venivano messe in atto le strategie per porvi rimedio. Ancor più sovrabbondò di gioia il Nostro cuore constatando con quanto zelo operate in comune per salvaguardare l’integrità della fede, con quale unanime, deferente ossequio vi rivolgete a questa Sede Apostolica, maestra autorevole di verità, sempre attenti al suo cenno per orientare il vostro impegno pastorale. Dopo aver conosciuto le Nostre disposizioni emanate in materia per altri paesi, non appena avete appurato che la prassi invalsa nei vostri territori era in aperto contrasto con i principi e le indicazioni della Chiesa, e pertanto non poteva più a lungo essere tollerata senza gravi conseguenze, non avete minimamente dubitato, in unità di intenti e di azione, che si dovesse eliminarla e, come era logico, a non demordere, pronti anche ad affrontare con fermezza eventuali gravi pericoli per garantire la salvezza eterna vostra e del gregge a voi affidato. A rendere piena la Nostra gioia sopravvennero i copiosi frutti che scaturirono dalle vostre solerti iniziative. Sappiamo bene infatti come i parroci, e l’altro clero, abbiano obbedito alle vostre ammonizioni e alle vostre istruzioni in proposito, tanto che – rimossa in lungo e in largo l’illegittima consuetudine – è stata ripristinata l’antica disciplina dei sacri canoni. Esprimiamo dunque a voi, Venerabili Fratelli, la Nostra viva soddisfazione, e mentre ringraziamo Dio che vi ha rafforzato dall’alto per la tutela della fede e della dottrina, non smettiamo di esortarvi e di stimolarvi vigorosamente perché con pari decisione e costanza vi sforziate di difendere la causa della Chiesa cattolica affinché non abbia più a risorgere la malvagia consuetudine: se ancora ne persistesse qualche vestigia, ne possa essere totalmente sradicato il germe. Nel frattempo non abbiamo potuto non soppesare con oculata attenzione tutte le cose che vi premuravate di riferirci nelle vostre lettere documentando le gravissime difficoltà contingenti che vi hanno indotti, e quasi costretti, a optare per la tolleranza qualora un cattolico o una cattolica, nonostante gli ammonimenti e le debite esortazioni dei sacri pastori, persistesse nel proposito di contrarre nozze miste in assenza delle necessarie precauzioni. In questa situazione, non potendo altrimenti ovviare a un male maggiore per la Religione cattolica, avete deciso che i parroci potessero assistere alle nozze passivamente, senza intervenire in alcun modo nel rito religioso e senza assumere atteggiamenti che potessero essere intesi come approvazione. Mentre rendevate operativi questi provvedimenti, con l’intento di far fronte con assennatezza al problema del momento, avevate già deciso di sottoporre al più presto a Noi un simile arduo dilemma, per ottenere in proposito il Nostro assenso, che presumevate di potere in qualche modo avere in presenza delle pressanti necessità. Per la verità Noi, pur operando con estrema decisione al fine di mantenere integri i sacrosanti principii della Chiesa cattolica, non abbiamo mai smesso, in forza del potere a Noi conferito, di portare rimedio alle funeste situazioni di codeste regioni e alle angustie a voi sopravvenute. Pertanto, non disapproviamo le ragioni della vostra decisione, e riteniamo che si debba accondiscendere alla vostra richiesta. Decidiamo ciò in piena sintonia con quanto Noi stessi, sull’esempio dei Nostri predecessori, abbiamo per l’addietro permesso a fatica a favore di altre regioni. Allo stesso modo si era espresso a più riprese Pio VI, di venerata memoria, nei confronti di qualche diocesi dello stesso Regno di Ungheria. Infatti nella risposta che già nel 1782, mentre dimorava a Vienna, e poi nell’anno successivo, dopo il suo ritorno a Roma, inoltrò al vescovo di Spisskà Belà (e la stessa risposta ordinò fosse inviata al successore di questi nel 1795), così palesò il proprio pensiero a proposito dei matrimoni misti in quelle particolari circostanze: «Pur in presenza di precise disposizioni al riguardo, è necessario che il vescovo e i parroci si adoperino con prudente sollecitudine perché simili matrimoni non abbiano luogo e, nel caso vengano celebrati, pretendano che tutti i figli siano educati nella Religione cattolica. Tuttavia ogni qualvolta si verifichi, contro la loro volontà, ciò che non può essere approvato, si astengano sempre dalla benedizione nuziale e la loro presenza, se lo richiedono le circostanze, sia puramente fisica e non si permettano atti o dichiarazioni che autorizzino o approvino che la prole possa essere educata in un’altra religione che non sia quella cattolica». Se dunque, Venerabili Fratelli, per particolari circostanze locali e situazioni personali si verifichi nelle diocesi di codesto Regno l’eventualità di un matrimonio fra un acattolico e una donna cattolica, o viceversa, anche in assenza delle prescritte precauzioni della Chiesa e non sia possibile in alcun modo evitare altrimenti il danno per la Religione senza il pericolo di un danno maggiore e di uno scandalo e nello stesso tempo (per usare le parole del Nostro predecessore Pio VII di venerata memoria nella succitata lettera al vescovo di Magonza) si arguisca di poter contribuire al bene della Chiesa, simili nozze, pur vietate ed illecite, siano celebrate in presenza di un parroco cattolico piuttosto che di un ministro eretico a cui facilmente potrebbero rivolgersi. In questo caso il parroco cattolico, o un altro sacerdote da lui delegato, potrà assistere al matrimonio con una presenza assolutamente passiva, con l’esclusione di qualsivoglia rito religioso, come se assolvesse al compito di semplice testimone, per così dire, qualificato o autorizzato che, dopo aver raccolto il consenso di ambedue i coniugi, avrà la possibilità, in forza del suo ufficio, di riportare nel libro dei matrimoni la validità dell’atto compiuto. In queste circostanze, come specificamente raccomandava lo stesso Nostro predecessore, i vescovi e i parroci devono, con ancora maggiori cura e preoccupazione, provvedere che sia rimosso il pericolo di perversione per il coniuge cattolico; che si provveda nel migliore dei modi all’educazione dei figli di entrambi i sessi nella Religione cattolica e che il coniuge di fede cattolica, secondo l’obbligo che gli incombe, s’impegni con le proprie forze alla conversione del coniuge acattolico: ciò gli sarà assai utile per ottenere più facilmente da Dio il perdono dei peccati commessi. Intimamente addolorati che si debbano introdurre simili criteri di tolleranza in un Regno che si segnalava per la professione della Religione cattolica, confessiamo con tutta sincerità di fronte a Dio di esservi stati indotti, o meglio trascinati, unicamente per evitare il sopraggiungere di più gravi danni per la Chiesa cattolica. Con tutto il cuore esortiamo dunque voi, Venerabili Fratelli, e tutti i vostri colleghi, per l’immenso amore di Gesù Cristo che immeritatamente rappresentiamo sulla terra, a mettere in atto, dopo aver implorato la luce dello Spirito Santo, ciò che in un affare di così grande rilievo può validamente rispondere allo scopo. Cercate anche di perseguire unanimemente l’obiettivo prefisso, perché a tale tolleranza nei confronti delle persone che si accingono a contrarre illecitamente matrimoni misti non tenga dietro, nel popolo cattolico, l’affievolimento del rispetto dei canoni che condannano tali nozze e della incessante cura con la quale la Santa Madre Chiesa si preoccupa di dissuadere i suoi figli dal contrarre tali matrimoni che recano danno alle loro anime. Sarà dunque compito vostro, degli altri Vescovi solidali con voi e dei parroci, di ammaestrare i fedeli sia privatamente, sia in pubblico, e ricordare l’insegnamento e le disposizioni che riguardano questi matrimoni e pretenderne la scrupolosa osservanza. Non mancherete certo di provvedere a tutto ciò in forza della vostra provata devozione, della fede e del rispettoso ossequio verso questa Cattedra del Beato Pietro, e Noi, con grande affetto impartiamo a voi e a tutti i vostri colleghi l’Apostolica Benedizione, propiziatrice dell’aiuto celeste e testimonianza del Nostro amore: Benedizione che ciascuno estenderà al proprio gregge. Dato a Roma, presso San Pietro, sotto l’anello del Pescatore, il 30 aprile 1841, undicesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA DELL’OTTAVA DEL CORPUS DOMINI – II DOPO PENTECOSTE.

DOMENICA NELL’OTTAVA DEL CORPUS DOMINI II DOPO PENTECOSTE

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La Chiesa ha scelto, per celebrare la festa del Corpus Domiti, il giovedì che è fra la domenica, nella quale il Vangelo parla della misericordia di Dio verso gli uomini e del dovere che ne deriva per i Cristiani di un amore reciproco (l dopo Pentecoste) e quella (II dopo Pentecoste) nella quale si ripetono le stesse idee (Epist.) e si presenta il regno dei cieli sotto il simbolo della parabola del convito di nozze (Vang.)  [Questa Messa esisteva coi suoi elementi attuali molto prima che fosse istituita la festa del Corpus Domini. Niente infatti poteva essere più adatta all’Eucaristia, che è il banchetto ove tutte le anime sono unite nell’amore a Gesù, loro sposo, e a tutte le membra mistiche.) Niente poi di più dolce che il tratto nel quale si legge nell’Ufficio la storia di Samuele che fu consacrato a Dio fin dalla sua più tenera infanzia per abitare presso l’Arca del Signore e diventare il sacerdote dell’Altissimo nel suo santuario. La liturgia ci mostra come questo fanciullo offerto da sua madre a Dio, serviva con cuore purissimo il Signore nutrendosi della verità divina. In quel tempo, dice il Breviario, « la parola del Signore risuonava raramente e non avvenivano visioni manifeste », poiché Eli era orgoglioso e debole, e i suoi due figli Ofni e Finees infedeli a Dio e incuranti del loro dovere. Allora il Signore si manifestò al piccolo Samuele poiché « Egli si rivela ai piccoli, dice Gesù, e si nasconde ai superbi », e S. Gregorio osserva che « agli umili sono rivelati i misteri del pensiero divino ed è per questo che Samuele è chiamato un fanciullo ». E Dio rivelò a Samuele il castigo che avrebbe colpito Eli e la sua casa. Ben presto, infatti l’Arca fu presa dai Filistei, i due figli di Eli furono uccisi ed Eli stesso mori. Dio aveva così rifiutato le sue rivelazioni al Gran Sacerdote perché tanto questi come i suoi figli non apprezzavano abbastanza le gioie divine figurate nel « gran convito » di cui parla in questo giorno il Vangelo, e si attaccavano più alle delizie del corpo che a quelle dell’anima. Così applicando loro il testo di S. Gregorio nell’Omelia di questo giorno, possiamo dire che « essi erano arrivati a perdere ogni appetito per queste delizie interiori, perché se n’erano tenuti lontani e da parecchio tempo avevano perduta l’abitudine di gustarne. E perché non volevano gustare la dolcezza interiore che loro era offerta, amavano la fame che fuori li consumava». I figli d’Eli, Infatti prendevano le vivande che erano offerte a Dio e le mangiavano; ed Eli, loro padre, li lasciava fare. Samuele invece, che era vissuto sempre insieme con Eli aveva fatto sue delizie le consolazioni divine. Il cibo che mangiava era quello che Dio stesso gli elargiva, quando, nella contemplazione e nella preghiera gli manifestava i suoi segreti. « Il fanciullo dormiva» il che vuol dire, spiega S. Gregorio, «che la sua anima riposava senza preoccupazione delle cose terrestri ». « Le gioie corporali, che accendono in noi un ardente desiderio del loro possesso, spiega questo santo nel suo commento al Vangelo di questo giorno, conducono ben presto al disgusto colui che le assapora per la sazietà medesima; mentre le gioie spirituali provocano il disprezzo prima del loro possesso, ma eccitano il desiderio quando si posseggono; e colui che le possiede è tanto più affamato quanto più si nutre ». Ed è quello che spiega come le anime che mettono tutta la loro compiacenza nei piaceri di questo mondo, rifiutano di prender parte al banchetto della fede cristiana, ove la Chiesa le nutre della dottrina evangelica per mezzo dei suoi predicatori. « Gustate e vedete, continua S. Gregorio, come il Signore è dolce ». Con queste parole il Salmista ci dice formalmente: «Voi non conoscerete la sua dolcezza se voi non lo gusterete, ma toccate col palato del vostro cuore l’alimento di vita e sarete capaci di amarlo avendo fatto esperienza della sua dolcezza. L’uomo ha perduto queste delizie quando peccò nel paradiso: ma le ha riavute quando posò la sua bocca sull’alimento d’eterna dolcezza. Da ciò viene pure che essendo nati nelle pene di questo esilio noi arriviamo quaggiù ad un tale disgusto che non sappiamo più che cosa dobbiamo desiderare. » (Mattutino). « Ma per la grazia dello Spirito Santo siamo passati dalla morte alla vita » (Ep.) e allora è necessario come il piccolo e umile Samuele che noi, che siamo i deboli, i poveri, gli storpi del Vangelo, non ricerchiamo le nostre delizie se non presso il Tabernacolo del Signore e nelle sue intime unioni. Evitiamo l’orgoglio e l’amore delle cose terrestri affinché « stabiliti saldamente nell’amore del santo Nome di Dio » – (Or.), continuamente « diretti da lui ci eleviamo di giorno in giorno alla pratica di una vita tutta celeste » (Secr.) e « che grazie alla partecipazione al banchetto divino, i frutti di salute crescano continuamente in noi » (Postcom.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XVII: 19-20.

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.

[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene] Ps XVII: 2-3

Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus.

[Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.]

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.

[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]

Oratio

Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis.

[Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III: 13-18

“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”

[“Carissimi: Non vi meravigliate se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida; e sapete che nessun omicida ha la vita eterna abitante in sé. Abbiam conosciuto l’amor di Dio da questo: che egli ha dato la sua vita per noi; e anche noi dobbiam dare la vita per i fratelli. Se uno possiede dei beni di questo mondo e, vedendo il proprio fratello nel bisogno, gli chiude le sue viscere, come mai l’amor di Dio dimora in lui? Figliuoli miei, non amiamo a parole e con la lingua, ma con fatti e con sincerità”].

VERA E FALSA CARITÀ.

Noi andiamo o fratelli, coll’Apostolo della carità e con il suo veramente divino apostolato, di meraviglia in meraviglia. Domenica scorsa l’Apostolo San Giovanni ha messo la carità in cielo. Dio è Carità — ha pronunziato una parola di sublimità incomparabile. Questa domenica, dal cielo più alto discende sul terreno più umile; scrive parole di una incomparabile praticità: «Miei figliuoli, non amiamo a chiacchiere… o più letteralmente ancora, non amiamo colla bocca, colle parole, amiamo coll’opera, se vogliamo amare per davvero ». Dove è chiaro che si tratta di quell’amore che merita nome di carità e della carità che corre le vie della terra, tra uomo e uomo. L’Apostolo ha l’orrore della carità falsa, apparente — che sembra carità e non è carità, come un banchiere (i banchieri sono i devoti, gli apostoli, i mistici della moneta, della vera, s’intende) detesta, abborre, abbomina la moneta falsa — che pare e non è, che par oro ed è orpello. E qual è questa carità falsa? È proprio la carità che non fa e parla. Il non fare ne costituisce il non essere, e il parlare le dà l’apparenza. La parola buona, caritatevole, vuota di opere; non è più abito, è maschera, è commedia. Come frequente allora e adesso la commedia della carità! Come facile e frequente (appunto perché tanto facile) l’impietosirsi gemebondo sulla miseria del prossimo. Poverino qua! Poverino là! E come frequente la esaltazione verbale della carità: facile e frequente il panegirico della filantropia! E quanti, sfogato così il loro istinto retorico e sentimentale, si credono, si sentono in pace con la loro coscienza! Credono di aver fatto tutto, perché hanno parlato molto! L’Apostolo della carità è terribilmente e semplicemente realista. Che cosa serve tutta questa logorrea? A che cosa serve per chi soffre la fame, il freddo, lo sconforto della vita? Nulla. Le parole lasciano il tempo che trovano. E che sincerità in queste parole infeconde, sistematicamente, regolarmente infeconde di opere! Che razza di cuore, di carità ha colui che vede il suo prossimo in bisogno, e non fa nulla per sollevarlo? Vede aver fame e non gli dà da mangiare? aver sete e non gli amministra da bere? – Fare bisogna, se si vuole che la carità sfugga all’accusa, al sospetto di simulazione, di ipocrisia. L’opera è la figlia dell’amore, ne è la prova sicura e perentoria. Fare, notate, dice l’Apostolo, anziché semplicemente dare, perché il dare è una forma particolare del fare. Fare quello che si può con le persone che si amano fraternamente davvero. – Fare per gli altri quello che, a parità di condizione, faremmo e vorremmo che gli altri facessero per noi. Fare e molto, e bene, e sempre. Fare non per farsi vedere, ma per renderci benefici. Fare del bene, non fare del rumore. C’è più carità in una goccia di operosità, che in un mare di chiacchiere. E allora il grande quesito che noi dobbiamo proporci se vogliamo esaminarci bene sul capitolo della carità, la virtù che ci assomiglia a Dio, il grande quesito è questo: che cosa, che cosa abbiamo fatto, che cosa facciamo? cosa, cosa, non parole!

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch. : 1 -3-1938]

Graduale

Ps CXIX: 1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me.

[Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]

Alleluja

Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja

[O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]

Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja.

[Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.

Luc. XIV: 16-24

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit cœnam meam”.

(“In quel tempo disse Gesù ad uno di quelli che sederono con lui a mensa in casa di uno dei principali Farisei: Un uomo fece una gran cena, e invitò molta gente. E all’ora della cena mandò un suo servo a dire ai convitati, che andassero, perché tutto era pronto. E principiarono tutti d’accordo a scusarsi. Il primo dissegli: Ho comprato un podere, e bisogna che vada a vederlo; di grazia compatiscimi. E un altro disse: Ho comprato cinque gioghi di buoi, o vo a provarli; di grazia compatiscimi. E l’altro disse: Ho preso moglie, e perciò non posso venire. E tornato il servo, riferì queste cose al suo padrone. Allora sdegnato il padre di famiglia, disse al servo: Va tosto per le piazze, e per le contrade della città, e mena qua dentro i mendici, gli stroppiati, i ciechi, e gli zoppi. E disse il servo: Signore, si è fatto come hai comandato, ed evvi ancora luogo. E disse il padrone al servo: Va per le strade e lungo le siepi, e sforzali a venire, affinché si riempia la mia casa. Imperocché vi dico, che nessuno di coloro che erano stati invitati assaggerà la mia cena”).

Omelia

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla santa Messa.

In omni loco sacrificatur et offertur nomini meo oblatio munda.

(MALACH. I, 11).

È certo, Fratelli miei, che l’uomo, come creatura, deve a Dio l’omaggio di tutto il suo essere, e come peccatore gli deve una vittima di espiazione: per ciò nella Legge antica si offriva a Dio nel tempio una moltitudine di vittime. Ma quelle vittime non potevano soddisfare a Dio interamente, pei nostri peccati: ne occorreva una più santa e più pura che dovesse durare sino alla fine del mondo e fosse capace di pagare quanto dobbiamo a Dio. Questa vittima santa è Gesù Cristo istesso, Dio come il Padre suo, e Uomo come noi. Egli si offre tutti i giorni sui nostri altari, come già sul Calvario, e con questa oblazione pura e senza macchia rende a Dio tutti gli onori che gli sono dovuti, e si sdebita a nome dell’uomo, di tutto ciò che questo deve al suo Creatore: si immola ogni giorno, per riconoscere il sovrano dominio che ha Dio sulle sue creature, e vien pienamente riparato l’oltraggio fatto a Dio dal peccato. Gesù Cristo, quale. mediatore tra Dio e gli uomini, ci ottiene col suo sacrificio tutte le grazie che ci sono necessarie: essendosi contemporaneamente reso vittima di ringraziamento, rende a Dio gli uomini tutta la riconoscenza che gli devono.Ma per aver la fortuna, F. M., di ricevere tutti questi beni, bisogna che facciamo anche noi qualche cosa da parte nostra. Per meglio farvelo sentire, vi farò comprendere, almeno quanto mi sarà possibile:

1° la grandezza della fortuna che abbiamo di assistere alla santa Messa;

2° le disposizioni con le quali dobbiamo assistervi;

3° come vi assiste la maggior parte dei Cristiani.

Non voglio, F., M., entrare nella spiegazione di quanto significano i paramenti indossati dal sacerdote: penso che lo sappiate, almeno molti. Quando il sacerdote va in sagrestia per pararsi, rappresenta Gesù Cristo che discende dal cielo per incarnarsi nel seno della Vergine santissima, prendendo un corpo come il nostro per sacrificarlo al Padre suo pei nostri peccati. Quando il sacerdote prende l’amitto, che è quel lino bianco che si mette sulle spalle, lo fa per rappresentarci il momento in cui i Giudei bendarono gli occhi a Gesù Cristo, percuotendolo e dicendogli: « Indovina chi è che ti ha percosso? » Il camice rappresenta la veste bianca della quale lo fece rivestire Erode per ischerno quando lo rimandò a Pilato. Il cingolo raffigura le corde con le quali fu legato, quando fu preso nel giardino degli Olivi, i flagelli coi quali fu tormentato. Il manipolo, che il sacerdote si mette al braccio sinistro, ci rappresenta le funi con cui Gesù Cristo fu attaccato alla colonna per essere flagellato: esso si mette al braccio sinistro perché più vicino al cuore, il che ci mostra che l’eccesso dell’amor suo gli fece soffrire questa crudele flagellazione pei nostri peccati. La stola ci raffigura la corda gettatagli al collo quando portava la croce. La pianeta ci ricorda lo straccio di porpora, ed il suo vestito senza cuciture giuocato a sorte. – L’Introito ci rammenta il desiderio ardente che avevano i Patriarchi della venuta del Messia: perciò lo si ripete due volte. Quando il sacerdote dice il Confiteor, ci rappresenta Gesù Cristo che si carica dei nostri peccati, per soddisfare alla giustizia di Dio suo Padre. Il Kyrie eleison, che vuol dire: « Signore, abbi pietà di noi, » rappresenta lo stato sventurato in cui eravamo prima della venuta di Gesù Cristo. Non voglio proseguir oltre. L‘Epistola significa la dottrina dell’Antico Testamento; il Graduale significa la penitenza che fecero i Giudei dopo la predicazione di san Giovanni Battista: l‘Alleluja, ci rappresenta la gioia d’un’anima che ha ottenuto la grazia: il Vangelo ci ricorda la dottrina di Gesù Cristo.I differenti segni di croce che si fanno sull’ostia e sul calice ci richiamano tutti i patimenti che Gesù Cristo ha sofferto nel corso di sua Passione. Ritornerò un’altra volta su questo argomento.

I. — Prima di esporvi il modo di udire la santa Messa, occorre vi dica qualche cosa sul significato della parola: santo Sacrificio della Messa. [Il Beato ha tolto queste spiegazioni dal Rodriguez Tratt. VI, cap. XV. — La maggior parte di questo discorso, come anche i tratti storici riportati più avanti, vengono dalla medesima fonte. Noi lo ricordiamo una volta per tutte.]. Sapete che il santo sacrificio della Messa è lo stesso che quello della croce, offerto una volta sul Calvario, il Venerdì Santo. Tutta la differenza è, che quando Gesù Cristo si offrì sul Calvario, il sacrificio suo era visibile, cioè lo si vedeva cogli occhi del corpo; Gesù Cristo fu offerto a Dio suo Padre per mano dei suoi carnefici, e sparse il suo sangue: per questo si chiama sacrificio cruento; cioè il sangue usciva dalle vene, e lo si vide scorrere sino a terra. Ma nella santa Messa Gesù Cristo si offre al Padre suo in modo invisibile: cioè lo vediamo solo cogli occhi dell’anima, non con quelli del corpo. Ecco, M. F., in breve, che cos’è il santo sacrificio della Messa. Ma per darvi un’idea della grandezza del valore della santa Messa, mi basta dirvi con S. Giovanni Crisostomo, che la S. Messa rallegra tutta la corte celeste, solleva tutte le povere anime del purgatorio, attira sulla terra ogni sorta di benedizioni, e rende più gloria a Dio che non tutti i tormenti dei martiri, le penitenze dei solitari, tutte le lagrime che i santi sparsero fin dal principio del mondo; e tutto ciò che faranno sino alla fine dei secoli. Se me ne domandate la ragione, è chiarissima: tutte queste azioni sono fatte da peccatori più o meno colpevoli: mentre nel santo sacrificio della Messa è un Uomo-Dio eguale al Padre suo che gli offre i meriti della sua Passione e Morte. Vedete quindi, F. M., che la santa Messa è d’un valore infinito. Perciò, vediamo nel Vangelo, che alla morte di Gesù Cristo si operarono molte conversioni: il buon ladrone vi ricevé la promessa del paradiso, molti Giudei si convertirono, ed i Gentili si percuotevano il petto, dicendo che Egli era veramente Figlio di Dio. I morti risuscitarono, le rupi si spezzarono, e la terra tremò. F. M.. se avessimo la fortuna di assistervi con buone disposizioni, quand’anche disgraziatamente fossimo ostinati come i Giudei, più ciechi dei Gentili, più duri delle rocce che si spezzarono, otterremmo certissimamente la conversione. Infatti, S. Giovanni Crisostomo, ci dice che non v’è tempo più prezioso per trattare con Dio della nostra salvezza di quello della santa Messa, in cui Gesù Cristo si offre Egli stesso in sacrificio a Dio suo Padre, per ottenerci ogni sorta di benedizioni e di grazie. « Siamo afflitti? ci dice questo gran santo; vi troviamo ogni sorta di consolazioni. Siamo tentati? andiamo ad ascoltare la S. Messa, e vi troveremo il modo di vincere il demonio. » E, a questo proposito, voglio citarvi un bell’esempio. Si racconta da Papa Pio II che un gentiluomo della provincia d’Ostia, era continuamente combattuto da una tentazione di disperazione, che lo trascinava ad appiccarsi, e già parecchie volte si era ridotto al procinto. Andato a trovare un santo religioso per scoprirgli lo stato dell’anima sua e domandargli consiglio, il servo di Dio, dopo averlo consolato e fortificato il meglio che poté, lo consigliò di tenere in casa un sacerdote che gli dicesse ogni giorno la santa Messa. Il gentiluomo diss’egli che lo farebbe volentieri. Si ritirò in un suo castello: ed ogni giorno un pio sacerdote gli celebrava la santa Messa, alla quale assisteva il più devotamente che poteva. Mentre quel gentiluomo godeva, così regolandosi, grande tranquillità di spirito, avvenne che il sacerdote lo pregò di permettergli d’andare a celebrare la santa Messa in un paese vicino, in occasione d’una particolare festività: cosa che gli accordò facilmente, intendendo di andarvi egli pure ad ascoltarla. Ma un affare sopravvenuto lo trattenne in casa fin presso mezzogiorno. Allora, tutto sbigottito per aver perduto la santa Messa, e sentendosi assalito dall’antica tentazione, esce di casa. Incontra un contadino, che gli domanda dove andasse. « Vado, risponde il gentiluomo, ad ascoltare la santa Messa. » — « Ma, è troppo tardi, gli dice il contadino, son già tutte celebrate. » Fu una notizia sì dolorosa per lui, che si mise a gridare: « Ahimè! Non ho sentito Messa, e sono perduto! » Il contadino, che amava il denaro, vedendolo in tale stato, diss’egli: « Se volete, vi cedo la Messa che ho ascoltato, e tutto il frutto ricavatone. » L’altro, senza riflettere a nulla, ed addolorato d’aver perduto la Messa: « Grazie, caro; eccovi il mio mantello. „ Quell’uomo non poteva certamente cedere il frutto della Messa a cui aveva assistito senza farsi reo di grave peccato. Separatisi, il gentiluomo non tralasciò di continuare la sua strada per fare in chiesa le sue preghiere: e, tornando dopo averle recitate, trovò quel povero contadino avaro, appeso ad un albero nel medesimo luogo dove aveva ricevuto il mantello. Il buon Dio, in punizione della sua avarizia, aveva permesso che la tentazione del gentiluomo passasse in quell’avaro. Colpito da tale spettacolo, il gentiluomo ringraziò Dio d’averlo liberato da sì grande castigo, e non tralasciò mai d’assistere alla santa Messa per renderne grazie al Signore. E all’ora di morte, confessò che dacché aveva avuto la fortuna d’assistere tutti i giorni alla santa Messa, il demonio non l’aveva più tentato di disperazione. [Questo fatto storico è anche riportato dal P. Rossignoli, Le meraviglie divine nella Ss. Eucaristia, LXIII meraviglia]. Ebbene! F. M., non aveva ragione S. Giovanni Crisostomo, di dirci che se siamo tentati dobbiamo ascoltare devotamente la santa Messa, e possiamo stare sicuri che il buon Dio ci libererà? Sì, F. M., se avessimo abbastanza fede, la santa Messa sarebbe un rimedio per tutti i mali che potremmo subire nel corso della vita: infatti, Gesù Cristo non è nostro medico e dell’anima e del corpo?…

II. Ho detto che la santa Messa è il sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, sacrificio che è offerto a Dio solo, non agli angeli ed ai santi. Sapete che il sacrificio della santa Messa fu istituito il Giovedì Santo, quando Gesù Cristo prese il pane, lo mutò nel suo Corpo, prese il vino e lo cangiò nel suo Sangue. Nello stesso momento, diede ai suoi Apostoli ed a tutti i loro successori quel potere che noi chiamiamo Sacramento dell’Ordine. La santa Messa consiste nelle parole della consacrazione: e voi sapete che i ministri della santa Messa sono i sacerdoti ed il popolo che ha la fortuna di assistervi, se si unisce ad essi: d’onde concludo, che il modo migliore di ascoltare la santa Messa è d’unirsi al sacerdote in tutto quanto egli dice; seguirlo in tutte le sue azioni, quanto è possibile. [1° Nel santo Sacrificio della Messa, Gesù Cristo è il sommo Sacerdote ed il ministro principale. Egli offre il sacrificio in suo nome e per propria potestà: senza dubbio, si serve di mani estranee per offrirlo, ma Egli solo comunica tutta l’efficacia al sacrificio).

2° Il Sacerdote che celebra è veramente sacerdote e ministro del sacrificio. E stato chiamato ed ordinato per questo fine; ha ricevuto questo potere da Gesù Cristo. È ministro di Gesù Cristo, e tiene il posto del Salvatore. Egli offre adunque, immediatamente il sacrificio per l’azione ed il ministero che gli sono personali. L’offre da solo, senza bisogno di concorso degli assistenti.

3° I fedeli, in fatto, non sono veramente, strettamente i ministri del sacrificio. Se alcune volte sono detti ministri coerenti il santo sacrificio, è in senso largo; non l’offrono da se stessi, ma pel ministero del sacerdote. Ed ecco come vi concorrono: 1° In modo generale, come membri della Chiesa che deputa il sacerdote ad offrire il sacrificio in suo nome; 2° in modo speciale, quando i fedeli assistendo alla Messa, si uniscono coll’intenzione, al sacerdote, per offrire a Dio questo sacrificio; 3° in modo specialissimo, quando concorrono in modo più prossimo al sacrificio, sia servendo il sacerdote all’altare, sia dando elemosine per la celebrazione delle Messe.]; e procurar di penetrarsi dei più vivi sentimenti d’amore e di riconoscenza: bisogna tenere questo metodo.Possiamo distinguere tre parti nel santo sacrificio della santa Messa: la prima parte, dal principio sino all’Offertorio; la seconda dall’Offertorio alla Consacrazione; la terza dalla Consacrazione alla fine. È necessario farvi notare che se noi fossimo volontariamente distratti durante una di queste parti commetteremmo un peccato mortale il che ci deve indurre a guardar bene di non lasciar divagare il nostro spirito a cose estranee, cioè che non hanno rapporto al santo sacrificio della Messa.

[“Se fossimo distratti volontariamente durante una di queste parti, commetteremmo peccato mortale. „ Questa asserzione del B. Curato d’Ars è severa. I fedeli non debbono esser trattati più rigorosamente dei sacerdoti. Ora, i sacerdoti sono aggravati di peccato mortale soltanto se si rendono colpevoli d’una distrazione volontaria durante la consacrazione]. Dal principio all’Offertorio, dobbiamo comportarci come penitenti che sono penetrati del più vivo dolore dei loro peccati. Dall’Offertorio alla Consacrazione dobbiam condurci come ministri che debbono offrire Gesù Cristo a Dio suo Padre, e fargli il sacrificio di quanto siamo: cioè offrirgli i nostri corpi, le anime, i beni, la vita, ed anche la nostra eternità.Dopo la consacrazione, dobbiam considerarci come persone che debbono partecipare al Corpo adorabile ed al Sangue prezioso di Gesù Cristo: ed occorre per conseguenza fare ogni nostro sforzo per renderci degni di tal felicità. A meglio farvelo comprendere, F. M., vi proporrò tre esempi tolti dalla S. Scrittura, che vi mostreranno il modo con cui dovete ascoltare la santa Messa: cioè, di che cosa dovete occuparvi durante questo momento, fortunato per chi ha la ventura di ben comprenderlo. Il primo, è quello del pubblicano, che vi insegnerà che cosa dovete fare al principio della Messa. Il secondo è quello dei buon ladrone, che vi apprenderà come dovete diportarvi durante la Consacrazione. Il terzo, è il centurione che vi guiderà durante la santa comunione. – Anzitutto il pubblicano ci insegnerà come dobbiamo comportarci al principio della santa Messa, che è un’azione così gradita a Dio e così efficace per ottenerci ogni sorta di grazie. Non dobbiam quindi aspettare d’essere in chiesa per prepararvici. No, F. M., no; un buon Cristiano comincia a prepararsi quando si sveglia, non lasciandosi occupare lo spirito da niente che non abbia relazione col santo Sacrificio. Dobbiamo rappresentarci Gesù Cristo nel giardino degli Ulivi, che prostrato la faccia a terra si prepara al sacrificio sanguinoso che offrirà sul Calvario; a considerare la grandezza della carità che gli fa subire il castigo che dovremmo subir noi per tutta l’eternità. Bisogna venirvi digiuni, per quanto è possibile: ciò è molto gradito al buon Dio. Nei primi tempi della Chiesa, tutti intervenivano digiuni [Perché essi si comunicavano nella Messa]. Occorre, al mattino, non lasciarsi mai occupare lo spirito da affari materiali, ricordando che dopo aver lavorato tutta la settimana pel vostro corpo, è ben giusto che occupiate questo giorno nei bisogni dell’anima vostra e nel domandare al buon Dio perdono dei vostri peccati. Quando venite in chiesa, non fate conversazione: pensate che seguite Gesù Cristo il quale porta la croce al Calvario e va a morire per salvarvi. Bisogna trovar sempre un momento, prima della santa Messa, per raccogliersi alquanto, gemere sui propri peccati e domandarne perdono al buon Dio, esaminare le grazie più necessarie da domandargli durante la Messa, e guardarsi dal non mancar mai né all’Aspersione dell’acqua benedetta, né alla lettura della Passione, né alla Processione. [In gran numero di parrocchie, dall’Invenzione della S. Croce (3 Maggio) sino all’Esaltazione (14 Settembre) il parroco legge ogni giorno ai piedi dell’altare, prima di celebrare la santa Messa, la Passione per i prodotti della terra – Il Beato parlò di già nel discorso sulle Rogazioni, delle processioni domenicali che si fanno in molte parrocchie, secondo un’antica consuetudine, ogni domenica, prima della Messa solenne, dall’Invenzione sino all’Esaltazione della S. Croce, o come si dice a Cruce ad Crucem], perché sono azioni sante che vi preparano a fare ascoltare la Messa. Quando entrate in chiesa compenetratevi della grandezza della vostra felicità, con un atto di fede vivissima ed un atto di contrizione dei vostri peccati, che vi rendono indegni d’avvicinarvi ad un Dio così santo e così grande. Pensate, in questo momento, alle disposizioni del pubblicano quando entrò nel tempio ad offrire a Dio il sacrificio della sua preghiera. Ascoltate S. Luca: « Il pubblicano, egli dice, stavasi in fondo al tempio, gli occhi inclinati a terra, non osando guardar l’altare, e battevasi il petto dicendo a Dio: Abbiate pietà di me, o Signore, perché sono un peccatore » (Luc. XVIII). Vedete quindi, F. M, che egli non faceva come quei Cristiani che entrano in chiesa con aria altera ed arrogante, « che sembrano volersi accostare a Dio – ci dice il profeta Isaia – come persone che nulla hanno sulla coscienza che possa umiliarli davanti al loro Creatore. » (Is. LXVIII). Infatti, se volete ben osservare, quando entrano in chiesa questi Cristiani che hanno forse sulla coscienza più peccati che non capelli in testa, voi li vedete, dico, entrare con aria di noncuranza, o meglio con una specie di sprezzo per la presenza di Dio. Toccano l’acqua santa press’a poco come se immergessero le mani in un catino d’acqua per lavarsi dopo il lavoro; la maggior parte fanno questo senza divozione e senza pensare che l’acqua benedetta presa con grande rispetto cancella i peccati veniali e ci dispone a ben ascoltare la santa Messa. Vedete il nostro pubblicano, che credendosi indegno d’entrare nel tempio va a mettersi nel posto meno apparente che può trovare: è talmente confuso alla vista dei propri peccati, che nemmeno osa alzar gli occhi al cielo. E dunque ben lontano da quei Cristiani di nome che non sono mai abbastanza comodi, che si inginocchiano soltanto sulla sedia, che abbassano appena la testa durante l’Elevazione, che si sdraiano sulla sedia, od incrociano le gambe. Non diciamo nulla di coloro che non dovrebbero venire in chiesa se non per piangervi i loro peccati, ed invece lo fanno solo, per insultare un Dio umiliato e disprezzato, col loro sfoggio di vanità, nell’intenzione d’attirarsi gli sguardi altrui: ed altri solo per alimentare il fuoco delle loro passioni colpevoli. O mio Dio! con tali disposizioni si può aver l’ardire di venire ad assistere alla santa Messa? « Ma il nostro pubblicano – ci dice S. Agostino – , si batte il petto per mostrare a Dio il rimorso d’averlo offeso. » Ahimè! F. M., se noi Cristiani avessimo la sorte felice d’assistere alla santa Messa con le medesime disposizioni del pubblicano, quante grazie, quanti benefizi otterremo! Usciremmo ricolmi di beni celesti come le api dopo aver trovato più fiori che non volevano! Oh! se il buon Dio ci facesse la grazia di essere in principio della santa Messa ben penetrati della grandezza di Gesù Cristo, davanti al quale ci presentiamo, e della gravità dei nostri peccati, ben presto avremmo ottenuto il perdono delle nostre colpe e la grazia della perseveranza! Dobbiamo soprattutto tenerci in grandi sentimenti di umiltà durante la santa Messa: questo deve ispirarci il sacerdote quando discende dall’altare per dire il Confiteor inchinandosi profondamente, egli, che, tenendo il posto di Gesù Cristo stesso, sembra caricarsi di tutti i peccati dei suoi parrocchiani. Davvero! se il buon Dio ci facesse una volta comprendere che cos’è la santa Messa, quante grazie, quanti beni avremmo, che or non abbiamo! Da quanti pericoli saremmo preservati se avessimo una gran divozione alla santa Messa! Per provarvelo, F. M., vi citerò un bell’esempio che vi mostrerà che il buon Dio protegge in modo visibile quelli che hanno la fortuna di assistervi con divozione. Leggiamo nella storia, che S. Elisabetta, regina di Portogallo e nipote di S. Elisabetta regina d’Ungheria, era tanto caritatevole verso i poveri che, sebbene avesse ordinato al suo elemosiniere di non rifiutar loro nulla, faceva altresì continue elemosine di sua propria mano o per mezzo dei domestici. Ordinariamente si serviva di un paggio, del quale aveva riconosciuta la grande pietà: il che vedendo un altro paggio, ne fu geloso. Andò costui un giorno dal re, e dissegli che quel paggio aveva relazione peccaminosa con la regina. Il re, senza nulla esaminare, stabilì subito di disfarsi del paggio il più segretamente possibile; e passando il dì stesso in un luogo dove si faceva cuocere la calce, chiamò quelli che avevano cura di mantenere acceso il fuoco, e disse loro che il domani mattina manderebbe un paggio, del quale era malcontento, che loro domanderebbe se avessero eseguito gli ordini del re: dovevano prenderlo e gettarlo subito nel fuoco. Tornato a casa, comandò al paggio della regina d’andare il mattino seguente di buon’ora a fare questa commissione. Ma vedrete che il buon Dio non abbandona mai chi l’ama. Il buon Dio permise che, per fare la propria commissione, dovesse passare vicino ad una chiesa; ed in quel momento appunto udisse suonare l’Elevazione. Entra per adorare Gesù Cristo ed ascolta il resto della Messa. Ne incomincia un’altra; l’ascolta; una terza dopo finita la seconda; l’ascolta ancora. Frattanto il re, impaziente di sapere se erano stati eseguiti i suoi ordini, manda il paggio suo a domandare se avessero fatto quanto aveva lor comandato. Credendo fosse questi il primo, lo prendono e lo gettano nel fuoco. L’altro, che intanto aveva terminato le sue divozioni, va a far la commissione, domandando se avessero eseguito il comando del re. Gli risposero che sì. Ritornò costui a portar la risposta al re, che fu assai sorpreso di vederlo ritornare. Furibondo che fosse avvenuto il contrario di quanto sperava, gli domandò dove fosse stato per sì lungo tempo… Il paggio dissegli che, passando vicino ad una chiesa per andare dove avevagli ordinato, aveva udito il campanello dell’Elevazione, che ciò lo aveva stimolato ad entrare e restarvi sino alla fine della Messa: e che un’altra Messa avendo subito incominciato, prima che fosse finita quella, e poi una terza, le aveva ascoltate tutte: perché il padre suo prima di morire, dopo avergli dato la sua benedizione, gli aveva assai raccomandato di non lasciare una Messa cominciata senza aspettare che fosse finita, perché questo atto di pietà attirava molte grazie, e preservava da molte sventure. Allora il re, rientrato in sé, comprese che questo era avvenuto per giusto indizio di Dio: che la regina era innocente, ed il paggio un santo: che l’altro aveva operato solo per invidia. – Vedete, F. M., che senza la sua divozione, quel povero giovane sarebbe stato arso, e che Dio gli ispirò di entrare in chiesa per salvarlo da morte: mentre l’altro, che non aveva divozione per Gesù Cristo nel sacramento adorabile dell’Eucaristia, fu gettato nel fuoco. S. Tommaso ci dice che un giorno durante la santa Messa vide Gesù Cristo colle mani piene di tesori, che cercava di distribuire; e aggiunge che se avessimo la ventura di assistere devotamente e spesso alla santa Messa, avremmo ben più grazie di quelle che abbiamo per salvar le anime nostre, ed anche per i bisogni temporali.

2° In secondo luogo ho detto che il buon ladrone ci istruirà sul modo di diportarci nel tempo della Consacrazione e dell’Elevazione della santa Messa, quando dobbiamo offrirci a Dio con Gesù Cristo, siccome chiamati a partecipare a questo augusto mistero. Vedete, F. M., come questo penitente fortunato si diporta nel momento medesimo del suo supplizio? vedete come apre gli occhi dell’anima per riconoscere il suo liberatore? Ed insieme, qual progresso fa mai nelle tre ore che si trova in compagnia del suo Salvatore morente? E attaccato alla croce, non ha più liberi che il suo cuore e la lingua; vedete con qual premura offre a Gesù Cristo l’uno e l’altra: gli dà tutto quanto può donargli, gli consacra il cuore con la fede e la speranza, e gli domanda umilmente un posto in paradiso, cioè nel suo regno eterno. Gli consacra la lingua pubblicando la sua innocenza e santità. Dice al suo compagno di supplizio: « È giusto che noi soffriamo: ma Egli è innocente . „ Mentre gli altri sono intenti solo ad oltraggiare Gesù Cristo colle bestemmie più orribili, egli ne diventa il panegirista: mentre i suoi discepoli stessi l’abbandonano, prende le sue difese: e la sua carità è sì grande che fa ogni sforzo per indurre l’altro a convertirsi. No, F. M., non meravigliamoci per nulla se scopriamo tante virtù in questo Buon Ladrone, perché niente è tanto capace di commuovere quanto la vista di Gesù Cristo morente: non v’è altro momento in cui la grazia venga data con tanta abbondanza. Ahimè! F. M., se nel fortunato momento della Consacrazione avessimo la ventura d’essere animati da una viva fede, una Messa basterebbe per strapparci da qualsiasi vizio in cui fossimo, e per farci divenire veri penitenti, cioè perfetti Cristiani. Perché dunque, mi direte voi, assistiamo a tante. Messe e siamo sempre gli stessi? F. M., perché vi siamo presenti col corpo, ma lo spirito non vi è punto; e vi veniamo piuttosto a ricevere la nostra riprovazione colle cattive disposizioni con cui vi assistiamo. Ahimè! quante Messe ascoltate male, che invece d’assicurare la nostra salvezza ci peggiorano vieppiù! Apparso Gesù Cristo a S. Metilde, le disse: « Sappi, figlia mia, che i Santi assisteranno alla morte di tutti coloro che avranno ascoltato devotamente la santa Messa, per aiutarli a ben morire, per difenderli dalle tentazioni del demonio e presentare le loro anime al Padre mio. » Qual fortuna per noi, F. M., esser assistiti in questo momento terribile da tanti Santi quante Messe avremo ascoltate!… No, F. M., non temiamo mai che la santa Messa ci causi ritardo negli affari temporali: anzi al contrario: stiamo sicuri che tutto andrà bene, e che anche i nostri affari ci riusciranno assai meglio che se avessimo la mala sorte di non assistervi. Eccone un esempio mirabile. Raccontasi di due artigiani, del medesimo mestiere e dimoranti nello stesso borgo, che uno di essi, carico di numerosa prole, non tralasciava mai ogni giorno di ascoltare la santa Messa, e viveva comodamente del suo mestiere: l’altro, invece, che non aveva figli…, lavorava parte della notte e tutto il giorno, e spesso il giorno dì domenica, eppure stentava assai per vivere. Questi che vedeva prosperare tanto gli affari dell’altro, incontratolo un giorno gli domandò donde poteva ricavar tanto da mantenere sì bene una famiglia numerosa come la sua: mentre egli, solo con la moglie, lavorando senza tregua, era spesso sprovvisto di tutto. Risposegli l’altro che, se volesse, gli mostrerebbe il dì appresso donde veniva tutto il suo guadagno. Contentissimo di sì buona notizia, aspettò con impazienza il domani, che gli avrebbe insegnato a far anch’egli fortuna. Infatti l’altro non mancò d’andare a prenderlo. Eccolo che parte di buona voglia e lo segue con fedeltà. L’altro lo condusse alla chiesa, dove ascoltarono la santa Messa. Dopo che furono ritornati: “Amico mio, disse quegli che si trovava in prospere condizioni, ritornate al vostro lavoro. „ Altrettanto fece il giorno appresso: ma andato a prenderlo una terza volta pel medesimo scopo: “Come? dissegli l’altro: se voglio andare a Messa, ne so la strada, senza che vi disturbiate a venirmi a prendere: non voleva sapere questo, io; ma dove trovate tutto quel benessere che vi fa vivere comodamente; volevo vedere se facendo come voi, vi avrei trovato il mio interesse. „ — “Amico mio, rispose quegli, non conosco altro luogo che quello della chiesa, ed altro mezzo che l’ascoltare ogni giorno la santa Messa: e da parte mia vi assicuro di non aver mai usato altri mezzi per aver tutto il bene che vi stupisce. Ma, noi! avete visto che Gesù Cristo nel Vangelo ci dice “di cercare anzitutto il regno dei cieli, e tutto il resto ci verrà dato? „ A queste parole l’altro intese a che mirasse il primo conducendolo alla santa Messa: e gli soggiunse: “Avete ragione; chi non calcola che sul proprio lavoro è un cieco, ed io vedo che la santa Messa giammai impoverirà alcuno. Voi ne siete una prova ben grande. Voglio far come voi, e spero che il buon Dio mi benedirà. „ Infatti cominciò il giorno dopo e continuò per tutta la sua vita: ed in poco tempo divenne agiato. Quando gli si domandava donde proveniva che ora non lavorava più in domenica né di notte come prima, e diveniva più ricco, egli rispondeva: “Ho seguito il consiglio del mio vicino: andate a trovarlo, e vi insegnerà a star bene senza lavorar troppo; ascoltando cioè la Messa ogni giorno. „ Ciò forse vi fa meraviglia, F. M.? A me no. È quanto vediamo ogni giorno nelle case dove si coltiva la pietà: coloro che vengono spesso alla santa Messa, fanno assai meglio i loro affari di coloro ai quali la loro poca fede fa credere di non avere mai tempo per questo. Ahimè! se avessimo posto ogni nostra confidenza in Dio, e non contassimo sul nostro lavoro, quanto saremmo più felici! — Ma, mi direte, se non abbiamo nulla, nessuno ci dà niente. — Che cosa volete che il buon Dio vi aiuti quando non contate che sul vostro lavoro, e niente su di Lui? Voi non trovate neppure il tempo di recitare le vostre orazioni mattina e sera, e vi accontentate di venire alla Messa una volta alla settimana. Ahimè! non conoscete le risorse della Provvidenza di Dio per chi si confida in Lui. Ne volete una prova evidente? essa è davanti ai vostri occhi: Osservate il vostro pastore, ed esaminate la cosa davanti a Dio. — Oh! mi direte, c’è chi ve ne dà. — Ma chi me ne dà, se non la Provvidenza di Dio? ecco dove sono i miei tesori, e non altrove. Davvero! che l’uomo è cieco di tormentarsi tanto per andar dannato, ed essere anche infelice in questo mondo! Se aveste la fortuna di pensare bene alla vostra salvezza e d’assistere alla santa Messa, più spesso che potete, vedreste bentosto la prova di quanto vi dico. No, F. M., nessun momento è più prezioso, per domandar a Dio la nostra conversione, di quello della santa Messa: vedetelo. Un santo eremita, chiamato Paolo, vide un giovine assai ben vestito, che entrava in una chiesa accompagnato da gran quantità di demoni: ma dopo la santa Messa, vide uscire il giovine accompagnato d’una schiera di angeli che camminavano ai suoi fianchi. “O mio Dio, esclamò il santo, bisogna che la santa Messa Vi sia ben gradita!„ Il santo Concilio di Trento ci dice che la santa Messa placa la collera di Dio, converte il peccatore, rallegra il cielo, solleva le anime del purgatorio, rende gloria a Dio, ed attira ogni sorta di benedizioni sulla terra!. « Sess. XIII e XXII. Oh! F. M., se potessimo ben comprendere che cosa è il Sacrifizio della santa Messa, con qual rispetto vi assisteremmo?… Il santo abate Nilo ci racconta che il suo maestro S. Giovanni Crisostomo gli aveva detto un giorno, in confidenza, che durante la santa Messa vedeva una schiera d’Angeli che discendevano dal cielo per adorare Gesù Cristo sull’altare, e che molti s’aggiravano in chiesa per ispirare ai fedeli il rispetto e l’amore che debbono avere per Gesù Cristo presente sull’altare. Momento prezioso, momento felice per noi, F. M., questo nel quale Gesù Cristo è presente sui nostri altari! Davvero! se i padri e le madri lo comprendessero e sapessero approfittarne, i loro figli non sarebbero così sventurati, così lontani dalla via del cielo. Mio Dio, quanti poveri vicino a sì grande tesoro!

3° Ho detto che il Centurione ci serve d’esempio quando abbiam la bella sorte di comunicarci, o spiritualmente o corporalmente. L’esempio di questo Centurione è così ammirabile, che la Chiesa sembra compiacersi di rimettercelo davanti agli occhi ogni giorno nella S. Messa. ” Signore, dissegli quest’umile servo, non son degno che veniate nella casa mia, ma dite una sola parola, ed il mio servo sarà guarito„ Ah! se il buon Dio vedesse in noi la medesima umiltà, la medesima cognizione del nostro nulla, con qual piacere ed abbondanza di grazie non verrebbe nel nostro cuore? Quanta forza e coraggio avremmo per vincere il nemico della nostra salvezza! Vogliamo, F . M., ottenere di mutar vita, cioè abbandonare il peccato e tornare a Dio? Ascoltiamo alcune Messe con questa intenzione, e stiamo sicuri, se le ascoltiamo devotamente, che Dio ci aiuterà ad uscire dal peccato: eccone un esempio. – Narrasi nella storia che una giovanetta per più anni aveva condotto una vita miserabile con un giovane. Un giorno si sentì presa da paura, e riflettendo allo stato cui poteva ridursi la povera anima sua, se continuava quella vita. Subito, dopo la santa Messa, andò da un sacerdote a pregarlo d’aiutarla a uscire dal peccato. Il sacerdote, che ne conosceva la condotta, le domandò che cosa l’avesse decisa a questo cambiamento. “Padre mio, gli disse, durante la santa Messa, che la madre mia prima di morire mi fece promettere d’ascoltare ogni sabato, ho concepito un sì grande orrore del mio stato, che non posso più reggervi. „ — “O mio Dio! esclamò il santo sacerdote, ecco un’anima salvata dal valore della santa Messa!„ Ah! F. M., quante anime uscirebbero dal peccato, se avessero la fortuna di ascoltare la santa Messa con buone disposizioni! Non meravigliamoci dunque se il demonio ci mette tanti pensieri estranei. Ah! egli prevede, assai meglio di voi, la perdita che fate assistendovi con sì poco rispetto e divozione. F. M., da quanti pericoli e morti improvvise ci preserva la santa Messa! Quante persone, per una santa Messa ascoltata, salverà Iddio dalla sventura! S. Antonino ce ne racconta un bell’esempio. Ci dice che un giorno di festa due giovani andarono per una partita di caccia: l’uno aveva ascoltato la santa Messa, l’altro no. Mentre erano per via, il cielo si rannuvolò: udivansi tuoni spaventosi, e vedevansi lampi sì frequenti che il cielo sembrava in fiamme. Ma ciò che li atterriva ancor di più, era l’udire tra le folgori, di tratto in tratto, una voce che gridava: “Colpite quei disgraziati, colpiteli!„ Quietatasi un po’ la burrasca, incominciarono a rassicurarsi. Proseguendo il loro cammino, ad un tratto scoppiò un fulmine che incenerì quegli che non aveva ascoltato la. santa Messa. L’altro fu preso da sì gran spavento che non sapeva se dovesse proseguir oltre. In questa paura, udì ancora la voce gridare: “Colpite, colpite l’infelice!„ il che raddoppiava il suo spavento, avendo visto ai suoi piedi il compagno fulminato. Mentre credevasi perduto, udì un’altra voce che disse: ” No, non colpitelo; egli ha ascoltato stamattina la Messa.„ La santa Messa ascoltata la mattina prima di partire lo preservò da una morte sì spaventosa. Vedete, F. M., come Dio ci concede grazie e ci preserva dalle sventure, quando abbiam la fortuna d’ascoltare la Messa come si deve? Ahimè! quali castighi debbono aspettarsi coloro che non hanno difficoltà di perderla in domenica. Anzitutto, il castigo visibile, è che essi periscono quasi tutti malamente: i loro beni vanno in deperimento, la fede abbandona i loro cuori, e sono doppiamente disgraziati. Mio Dio! quanto l’uomo è cieco sotto tutti i rapporti, per l’anima e pel corpo!

III. — La maggior parte delle persone del mondo ascoltano la santa Messa alla maniera dei farisei, del cattivo ladrone e di Giuda. Ho detto che la santa Messa è il ricordo della morte di Gesù Cristo sul Calvario: perciò Gesù Cristo vuole che, ogni volta che celebriamo il santo sacrificio della Messa, lo facciamo in sua memoria. Tuttavia dobbiamo dire gemendo che, mentre rinnoviamo il ricordo dei patimenti di Gesù Cristo, molti che v’assistono rinnovano il delitto dei Giudei e dei carnefici che l’attaccarono alla croce. Ma per meglio farvi conoscere se avete la sventura d’esser nel numero di coloro che così insultano i nostri santi misteri, vi farò notare, F. M., che fra coloro che furon testimoni della morte di Gesù Cristo sulla croce, ve ne erano di tre sorta: gli uni non facevano che passare davanti alla croce, senza fermarsi e senza sentire un vero dolore, più insensibili delle creature inanimate. Gli altri si avvicinavano al luogo del supplizio, consideravano tutte le circostanze della morte di Gesù Cristo; ma non era che per beffarsene, farne oggetto di risa ed oltraggiarlo con le bestemmie più orribili. Infine, un piccolo numero versava lagrime amare vedendo spiegare tante crudeltà sul corpo del loro Dio e loro Salvatore. Vedete ora a qual numero appartenete. Non parlerò di coloro che corrono ad udire una Messa in furia in una parrocchia dove hanno qualche affare, né di coloro che vi vengono a metà; che, in tal tempo, vanno a trovare un amico per bere un bicchierino in compagnia: lasciamoli da parte, perché costoro vivono come se fossero sicuri di non avere un’anima da salvare: essi hanno perduto la fede, e con ciò tutto è perduto. Ma parliamo solo di quelli che vi vengono ordinariamente. Ebbene, molti non vi vengono che per vedere ed essere veduti, con un contegno dissipato, come andrebbero ad un mercato, o in piazza, e, permettete la frase, ad un ballo. Vi stanno senza modestia: a mala pena mettono le ginocchia a terra durante l’Elevazione o la Comunione. Pregate voi, F. M., in tempo di Messa?…. No?! Ma, allora vi manca la fede! Ditemi, quando vi recate dai vostri superiori per domandare una grazia, non è vero che ne siete preoccupati durante tutta la strada; entrate con modestia, fate ad essi un profondo saluto, state scoperti davanti a loro, non pensate neppure a sedervi; tenete gli occhi bassi, e riflettete soltanto al modo di esprimervi bene e colle parole più adatte? Se sbagliate in qualche cosa, vi scusate subito della vostra poca educazione. Se essi vi ricevono con bontà, sentite la gioia nascere nel vostro cuore. Ebbene! ditemi, F. M., non deve ciò confondervi, vedendo che usate tante precauzioni per un bene temporale? mentre venite alla chiesa con noncuranza, quasi con disprezzo, davanti ad un Dio morto per salvarci, e che ogni giorno versa il suo sangue per ottenervi grazia presso il Padre suo. Quale affronto, F. M., non è per Gesù Cristo vedersi insultato da vili creature? Ahimè! quanti durante la santa Messa commettono più peccati che non in tutta la settimana. Alcuni non pensano neppure al buon Dio, altri parlano, mentre il loro cuore ed il loro spirito si perdono, o nell’orgoglio, o nel desiderio di piacere, o nell’impurità. Quanti altri lasciano entrare ed uscire tutti i pensieri e desideri che il demonio loro manda. Quanti non hanno difficoltà di guardare, di volger la testa, di ridere e chiacchierare, di dormire come se fossero in letto, e forse ancor meglio. Ahimè! quanti Cristiani escono di chiesa forse con trenta o cinquanta peccati mortali di più che quando vi entrarono! Ma, mi direte, è meglio allora non assistervi. — Sapete che dovete fare ?… Assistervi, ed assistervi come si conviene, facendo tre sacrifici a Dio, cioè: quello del vostro corpo, del vostro spirito e del vostro cuore. Dico : del vostro corpo; che deve onorare Gesù Cristo con religiosa modestia; quello del vostro spirito,che ascoltando la santa Messa, deve penetrarsi del vostro nulla e della vostra indegnità, evitando ogni sorta di dissipazioni, allontanando da sé le distrazioni; quello del vostro cuore, che è l’offerta a Lui più accetta, poiché è il vostro cuore che vi domanda con tanta insistenza: “Figlio mio, vi dice, dammi il tuo cuore. Concludo, F. M., dicendo quanto siamo sfortunati quando ascoltiamo male la santa Messa, poiché troviamo la nostra riprovazione là dove gli altri trovano la loro salvezza. Voglia il cielo che assistiamo alla S. Messa ogni qualvolta potremo, poiché le grazie vi si attingono cosi abbondanti; e che vi portiamo sempre le migliori disposizioni. Così attireremo sopra di noi ogni sorta di benedizioni per questo mondo e per l’altro!… Ecco quanto vi auguro.

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps VI: 5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam.

[O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]

Secreta

Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem.

[Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XII: 6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi.

[Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]

Postcommunio

Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus.

[Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA SANTA MESSA

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla santa Messa.

In omni loco sacrificatur et offertur nomini meo oblatio munda.

(MALACH. I, 11).

E’ certo, Fratelli miei, che l’uomo, come creatura, deve a Dio l’omaggio di tutto il suo essere, e come peccatore gli deve una vittima di espiazione: per ciò nella Legge antica si offriva a Dio nel tempio una moltitudine di vittime. Ma quelle vittime non potevano soddisfare a Dio interamente, pei nostri peccati: ne occorreva una più santa e più pura che dovesse durare sino alla fine del mondo e fosse capace di pagare quanto dobbiamo a Dio. Questa vittima santa è Gesù Cristo istesso, Dio come il Padre suo, e Uomo come noi. Egli si offre tutti i giorni sui nostri altari, come già sul Calvario, e con questa oblazione pura e senza macchia rende a Dio tutti gli onori che gli sono dovuti, e si sdebita a nome dell’uomo, di tutto ciò che questo deve al suoi Creatore: si immola ogni giorno, per riconoscere il sovrano dominio che ha Dio sulle sue creature, e vien pienamente riparato l’oltraggio fatto a Dio dal peccato. Gesù Cristo, quale mediatore tra Dio e gli uomini, ci ottiene col suo sacrificio tutte le grazie che ci sono necessarie: essendosi contemporaneamente reso vittima di ringraziamento, rende a Dio per gli uomini tutta la riconoscenza che gli devono.Ma per aver la fortuna, F. M., di ricevere tutti questi beni, bisogna che facciamo anche noi qualche cosa da parte nostra. Per meglio farvelo sentire, vi farò comprendere, almeno quanto mi sarà possibile:

1° la grandezza della fortuna che abbiamo di assistere alla santa Messa;

2° le disposizioni con le quali dobbiamo assistervi;

3° come vi assiste la maggior parte dei Cristiani.

Non voglio, F.. M., entrare nella spiegazione di quanto significano i paramenti indossati dal sacerdote: penso che lo sappiate, almeno molti. Quando il sacerdote va in sagrestia per pararsi, rappresenta Gesù Cristo che discende dal cielo per incarnarsi nel seno della Vergine santissima, prendendo un corpo come il nostro per sacrificarlo al Padre suo pei nostri peccati. Quando il sacerdote prende l’amitto, che è quel lino bianco che si mette sulle spalle, lo fa per rappresentarci il momento in cui i Giudei bendarono gli occhi a Gesù Cristo, percuotendolo e dicendogli: « Indovina chi è che ti ha percosso? » Il camice rappresenta la veste bianca della quale lo fece rivestire Erode per ischerno quando lo rimandò a Pilato. Il cingolo raffigura le corde con le quali fu legato, quando fu preso nel giardino degli Olivi, i flagelli coi quali fu tormentato. Il manipolo, che il sacerdote si mette al braccio sinistro, ci rappresenta le funi con cui Gesù Cristo fu attaccato alla colonna per essere flagellato: esso si mette al braccio sinistro perché più vicino al cuore, il che ci mostra che l’eccesso dell’amor suo gli fece soffrire questa crudele flagellazione pei nostri peccati. La stola ci raffigura la corda gettatagli al collo quando portava la croce. La pianeta ci ricorda lo straccio di porpora, ed il suo vestito senza cuciture giuocato a sorte. – L’Introito ci rammenta il desiderio ardente che avevano i patriarchi della venuta del Messia: perciò lo si ripete due volte. Quando il sacerdote dice il Confiteor, ci rappresenta Gesù Cristo che si carica dei nostri peccati, per soddisfare alla giustizia di Dio suo Padre 1. Il Kyrie eleison, che vuol dire: « Signore, abbi pietà di noi, » rappresenta lo stato sventurato in cui eravamo prima della venuta di Gesù Cristo. Non voglio proseguir oltre. L‘Epistola significa la dottrina dell’Antico Testamento; il Graduale significa la penitenza che fecero i Giudei dopo la predicazione di san Giovanni Battista: l‘Alleluja, ci rappresenta la gioia d’un’anima che ha ottenuto la grazia: il Vangelo ci ricorda la dottrina di Gesù Cristo.I differenti segni di croce che si fanno sull’ostia e sul calice ci richiamano tutti i patimenti che Gesù Cristo ha sofferto nel corso di sua Passione. Ritornerò un’altra volta su questo argomento.

I. — Prima di esporvi il modo di udire la santa Messa, occorre vi dica qualche cosa sul significato della parola: santo Sacrificio della Messa. [Il Beato ha tolto queste spiegazioni dal Rodriguez Tratt. VI, cap. XV. — La maggior parte di questo discorso, come anche i tratti storici riportati più avanti, vengono dalla medesima fonte. Noi lo ricordiamo una volta per tutte.] Sapete che il santo sacrificio della Messa è lo stesso che quello della croce, offerto una volta sul Calvario, il Venerdì Santo. Tutta la differenza è, che quando Gesù Cristo si offrì sul Calvario, il sacrificio suo era visibile, cioè lo si vedeva cogli occhi del corpo; Gesù Cristo fu offerto a Dio suo Padre per mano dei suoi carnefici, e sparse il suo sangue: per questo si chiama sacrificio cruento; cioè il sangue usciva dalle vene, e lo si vide scorrere sino a terra. Ma nella santa Messa Gesù Cristo si offre al Padre suo in modo invisibile: cioè lo vediamo solo cogli occhi dell’anima, non con quelli del corpo. Ecco, M. F., in breve, che cos’è il santo sacrificio della Messa. Ma per darvi un’idea della grandezza del valore della santa Messa, mi basta dirvi con S. Giovanni Crisostomo, che la S. Messa rallegra tutta la corte celeste, solleva tutte le povereanime del purgatorio, attira sulla terra ogni sorta di benedizioni, e rende più gloria a Dio che non tutti i tormenti dei martiri, le penitenze dei solitari, tutte le lagrime che i santi sparsero fin dal principio del mondo; e tutto ciò che faranno sino alla fine dei secoli. Se me ne domandate la ragione, è chiarissima: tutte queste azioni sono fatte da peccatori più o meno colpevoli: mentre nel santo sacrificio della Messa è un Uomo-Dio eguale al Padre suo che gli offre i meriti della sua Passione e Morte. Vedete quindi, F. M., che la santa Messa è d’un valore infinito. Perciò, vediamo nel Vangelo, che alla morte di Gesù Cristo si operarono molte conversioni: il buon ladrone vi ricevé la promessa del paradiso, molti Giudei si convertirono, ed i Gentili si percuotevano il petto, dicendo che Egli era veramente Figlio di Dio. I morti risuscitarono, le rupi si spezzarono, e la terra tremò. F. M.. se avessimo la fortuna di assistervi con buone disposizioni, quand’anche disgraziatamente fossimo ostinati come i Giudei, più ciechi dei Gentili, più duri delle rocce che si spezzarono, otterremmo certissimamente la conversione. Infatti, S. Giovanni Crisostomo, ci dice che non v’è tempo più prezioso per trattare con Dio della nostra salvezza di quello della santa Messa, in cui Gesù Cristo si offre Egli stesso in sacrificio a Dio suo Padre, per ottenerci ogni sorta di benedizioni e di grazie. « Siamo afflitti? ci dice questo gran santo; vi troviamo ogni sorta di consolazioni. Siamo tentati? andiamo ad ascoltare la S. Messa, e vi troveremo il modo di vincere il demonio. » E, a questo proposito, voglio citarvi un bell’esempio. Si racconta da Papa Pio II che un gentiluomo della provincia d’Ostia, era continuamente combattuto da una tentazione di disperazione, che lo trascinava ad appiccarsi, e già parecchie volte si era ridotto al procinto. Andato a trovare un santo religioso per scoprirgli lo stato dell’anima sua e domandargli consiglio, il servo di Dio, dopo averlo consolato e fortificato il meglio che poté, lo consigliò di tenere in casa un sacerdote che gli dicesse ogni giorno la santa Messa. Il gentiluomo diss’egli che lo farebbe volentieri. Si ritirò in un suo castello: ed ogni giorno un pio sacerdote gli celebrava la santa Messa, alla quale assisteva il più devotamente che poteva. Mentre quel gentiluomo godeva, così regolandosi, grande tranquillità di spirito, avvenne che il sacerdote lo pregò di permettergli d’andare a celebrare la santa Messa in un paese vicino, in occasione d’una particolare festività: cosa che gli accordò facilmente, intendendo di andarvi egli pure ad ascoltarla. Ma un affare sopravvenuto lo trattenne in casa fin presso mezzogiorno. Allora, tutto sbigottito per aver perduto la santa Messa, e sentendosi assalito dall’antica tentazione, esce di casa. Incontra un contadino, che gli domanda dove andasse. « Vado, risponde il gentiluomo, ad ascoltare la santa Messa. » — « Ma, è troppo tardi, gli dice il contadino, son già tutte celebrate. » Fu una notizia sì dolorosa per lui, che si mise a gridare: « Ahimè! Non ho sentito Messa, e sono perduto! » Il contadino, che amava il denaro, vedendolo in tale stato, diss’egli: « Se volete, vi cedo la Messa che ho ascoltato, e tutto il frutto ricavatone. » L’altro, senza riflettere a nulla, ed addolorato d’aver perduto la Messa: « Grazie, caro; eccovi il mio mantello. „ Quell’uomo non poteva certamente cedere il frutto della Messa a cui aveva assistito senza farsi reo di grave peccato. Separatisi, il gentiluomo non tralasciò di continuare la sua strada per fare in chiesa le sue preghiere: e, tornando dopo averle recitate, trovò quel povero contadino avaro, appeso ad un albero nel medesimo luogo dove aveva ricevuto il mantello. Il buon Dio, in punizione della sua avarizia, aveva permesso che la tentazione del gentiluomo passasse in quell’avaro. Colpito da tale spettacolo, il gentiluomo ringraziò Dio d’averlo liberato da sì grande castigo, e non tralasciò mai d’assistere alla santa Messa per renderne grazie al Signore. E all’ora di morte, confessò che dacché aveva avuto la fortuna d’assistere tutti i giorni alla santa Messa, il demonio non l’aveva più tentato di disperazione. [Questo fatto storico è anche riportato dal P. Rossignoli, Le meraviglie divine nella Ss. Eucaristia, LXIII meraviglia]. Ebbene! F. M., non aveva ragione S. Giovanni Crisostomo, di dirci che se siamo tentati dobbiamo ascoltare devotamente la santa Messa, e possiamo stare sicuri che il buon Dio ci libererà? Sì, F. M., se avessimo abbastanza fede, la santa Messa sarebbe un rimedio per tutti i mali che potremmo subire nel corso della vita: infatti, Gesù Cristo non è nostro medico e dell’anima e del corpo?…

II. Ho detto che la santa Messa è il sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, sacrificio che è offerto a Dio solo, non agli angeli ed ai santi. Sapete che il sacrificio della santa Messa fu istituito il Giovedì santo, quando Gesù Cristo prese il pane, lo mutò nel suo Corpo, prese il vino e lo cangiò nel suo Sangue. Nello stesso momento, diede ai suoi Apostoli ed a tutti i loro successori quel potere che noi chiamiamo Sacramento dell’Ordine. La santa Messa consiste nelle parole della consacrazione: e voi sapete che i ministri della santa Messa sono i sacerdoti ed il popolo che ha la fortuna di assistervi, se si unisce ad essi: d’onde concludo, che il modo migliore di ascoltare la santa Messa è d’unirsi al sacerdote in tutto quanto egli dice; seguirlo in tutte le sue azioni, quanto è possibile. [1° Nel santo sacrificio della Messa, Gesù Cristo è il sommo Sacerdote ed il ministro principale. Egli offre il sacrificio in suo nome e per propria potestà: senza dubbio, si serve di mani estranee per offrirlo, ma Egli solo comunica tutta l’efficacia al sacrificio.

2° Il Sacerdote che celebra è veramente sacerdote e ministro del Sacrificio. E stato chiamato ed ordinato per questo fine; ha ricevuto questo potere da Gesù Cristo. È ministro di Gesù Cristo, e tiene il posto del Salvatore. Egli offre adunque, immediatamente il sacrificio per l’azione ed il ministero che gli sono personali. L’offre da solo, senza bisogno di concorso degli assistenti.

3° I fedeli, in fatto, non sono veramente, strettamente i ministri del Sacrificio. Se alcune volte sono detti ministri coerenti il santo Sacrificio, è in senso largo; non l’offrono da se stessi, ma pel ministero del sacerdote. Ed ecco come vi concorrono: 1° In modo generale, come membri della Chiesa che deputa il sacerdote ad offrire il sacrificio in suo nome; 2° in modo speciale, quando i fedeli assistendo alla Messa, si uniscono coll’intenzione, al sacerdote, per offrire a Dio questo sacrificio; 3° in modo specialissimo, quando concorrono in modo più prossimo al sacrificio, sia servendo il sacerdote all’altare, sia dando elemosine per la celebrazione delle Messe.]; e procurar di penetrarsi dei più vivi sentimenti d’amore e di riconoscenza: bisogna tenere questo metodo.Possiamo distinguere tre parti nel santo sacrificio della santa Messa: la prima parte, dal principio sino all’Offertorio; la seconda dall’Offertorio alla Consacrazione; la terza dalla Consacrazione alla fine. È necessario farvi notare che se noi fossimo volontariamente distratti durante una di queste parti commetteremmo un peccato mortale il che ci deve indurre a guardar bene di non lasciar divagare il nostro spirito a cose estranee, cioè che non hanno rapporto al santo Sacrificio della Messa.

[“Se fossimo distratti volontariamente durante una di queste parti, commetteremmo peccato mortale. „ Questa asserzione del B. Curato d’Ars è severa. I fedeli non debbono esser trattati più rigorosamente dei sacerdoti. Ora, i sacerdoti sono aggravati di peccato mortale soltanto se si rendono colpevoli d’una distrazione volontaria durante la consacrazione]. Dal principio all’Offertorio, dobbiamo comportarci come penitenti che sono penetrati del più vivo dolore dei loro peccati. Dall’Offertorio alla Consacrazione dobbiam condurci come ministri che debbono offrire Gesù Cristo a Dio suo Padre, e fargli il sacrificio di quanto siamo: cioè offrirgli i nostri corpi, le anime, i beni, la vita, ed anche la nostra eternità. Dopo la consacrazione, dobbiam considerarci come persone che debbono partecipare al Corpo adorabile ed al Sangue prezioso di Gesù Cristo: ed occorre per conseguenza fare ogni nostro sforzo per renderci degni di tal felicità. A meglio farvelo comprendere, F. M., vi proporrò tre esempi tolti dalla S. Scrittura, che vi mostreranno il modo con cui dovete ascoltare la santa Messa: cioè, di che cosa dovete occuparvi durante questo momento, fortunato per chi ha la ventura di ben comprenderlo. Il primo, è quello del pubblicano, che vi insegnerà che cosa dovete fare al principio della Messa. Il secondo è quello dei buon ladrone, che vi apprenderà come dovete diportarvi durante la Consacrazione. Il terzo, è il centurione che vi guiderà durante la santa Comunione. – Anzitutto il pubblicano ci insegnerà come dobbiamo comportarci al principio della santa Messa, che è un’azione così gradita a Dio e così efficace per ottenerci ogni sorta di grazie. Non dobbiam quindi aspettare d’essere in chiesa per prepararvici. No, F. M., no; un buon Cristiano comincia a prepararsi quando si sveglia, non lasciandosi occupare lo spirito da niente che non abbia relazione col santo Sacrificio. Dobbiamo rappresentarci Gesù Cristo nel giardino degli Ulivi, che prostrato la faccia a terra si prepara al Sacrificio sanguinoso che offrirà sul Calvario; a considerare la grandezza della carità che gli fa subire il castigo che dovremmo subir noi per tutta l’eternità. Bisogna venirvi digiuni, per quanto è possibile: ciò è molto gradito al buon Dio. Nei primi tempi della Chiesa, tutti intervenivano digiuni [Perché essi si comunicavano nella Messa]. Occorre, al mattino, non lasciarsi mai occupare lo spirito da affari materiali, ricordando che dopo aver lavorato tutta la settimana pel vostro corpo, è ben giusto che occupiate questo giorno nei bisogni dell’anima vostra e nel domandare al buon Dio perdono dei vostri peccati. Quando venite in chiesa, non fate conversazione: pensate che seguite Gesù Cristo il quale porta la croce al Calvario e va a morire per salvarvi. Bisogna trovar sempre un momento, prima della santa Messa, per raccogliersi alquanto, gemere sui propri peccati e domandarne perdono al buon Dio, esaminare le grazie più necessarie da domandargli durante la Messa, e guardarsi dal non mancar mai né all’Aspersione dell’acqua benedetta, né alla lettura della Passione, né alla Processione. [In gran numero di parrocchie, dall’Invenzione della S. Croce (3 Maggio) sino all’Esaltazione (14 Settembre) il parroco legge ogni giorno ai piedi dell’altare, prima di celebrare la santa Messa, la Passione per i prodotti della terra – Il Beato parlò di già nel discorso sulle Rogazioni, delle processioni domenicali che si fanno in molte parrocchie, secondo un’antica consuetudine, ogni domenica, prima della Messa solenne, dall’Invenzione sino all’Esaltazione della S. Croce, o come si dice a Cruce ad Crucem], perché sono azioni sante che vi preparano a fare ascoltare la Messa. Quando entrate in chiesa compenetratevi della grandezza della vostra felicità, con un atto di fede vivissima ed un atto di contrizione dei vostri peccati, che vi rendono indegni d’avvicinarvi ad un Dio così santo e così grande. Pensate, in questo momento, alle disposizioni del pubblicano quando entrò nel tempio ad offrire a Dio il sacrificio della sua preghiera. Ascoltate S. Luca: « Il pubblicano, egli dice, stavasi in fondo al tempio, gli occhi inclinati a terra, non osando guardar l’altare, e battevasi il petto dicendo a Dio: Abbiate pietà di me, o Signore, perché sono un peccatore » (Luc. XVIII). Vedete quindi, F. M, che egli non faceva come quei Cristiani che entrano in chiesa con aria altera ed arrogante, « che sembrano volersi accostare a Dio – ci dice il profeta Isaia – come persone che nulla hanno sulla coscienza che possa umiliarli davanti al loro Creatore. » (Is. LXVIII). Infatti, se volete ben osservare, quando entrano in chiesa questi Cristiani che hanno forse sulla coscienza più peccati che non capelli in testa, voi li vedete, dico, entrare con aria di noncuranza, o meglio con una specie di sprezzo per la presenza di Dio. Toccano l’acqua santa press’a poco come se immergessero le mani in un catino d’acqua per lavarsi dopo il lavoro; la maggior parte fanno questo senza divozione e senza pensare che l’acqua benedetta presa con grande rispetto cancella i peccati veniali e ci dispone a ben ascoltare la santa Messa. Vedete il nostro pubblicano, che credendosi indegno d’entrare nel tempio va a mettersi nel posto meno apparente che può trovare: è talmente confuso alla vista dei propri peccati, che nemmeno osa alzar gli occhi al cielo. E dunque ben lontano da quei Cristiani di nome che non sono mai abbastanza comodi, che si inginocchiano soltanto sulla sedia, che abbassano appena la testa durante l’Elevazione, che si sdraiano sulla sedia, od incrociano le gambe. Non diciamo nulla di coloro che non dovrebbero venire in chiesa se non per piangervi i loro peccati, ed invece lo fanno solo per insultare un Dio umiliato e disprezzato, col loro sfoggio di vanità, nell’intenzione d’attirarsi gli sguardi altrui: ed altri solo per alimentare il fuoco delle loro passioni colpevoli. O mio Dio! con tali disposizioni si può aver l’ardire di venire ad assistere alla santa Messa? « Ma il nostro pubblicano – ci dice S. Agostino – si batte il petto per mostrare a Dio il rimorso d’averlo offeso. » Ahimè! F. M., se noi Cristiani avessimo la sorte felice d’assistere alla santa Messa con le medesime disposizioni del pubblicano, quante grazie, quanti benefizi otterremo! Usciremmo ricolmi di beni celesti come le api dopo aver trovato più fiori che non volevano! Oh! se il buon Dio ci facesse la grazia di essere in principio della santa Messa ben penetrati della grandezza di Gesù Cristo, davanti al quale ci presentiamo, e della gravità dei nostri peccati, ben presto avremmo ottenuto il perdono delle nostre colpe e la grazia della perseveranza! Dobbiamo soprattutto tenerci in grandi sentimenti di umiltà durante la santa Messa: questo deve ispirarci il sacerdote quando discende dall’altare per dire il Confiteor inchinandosi profondamente, egli, che, tenendo il posto di Gesù Cristo stesso, sembra caricarsi di tutti i peccati dei suoi parrocchiani. Davvero! se il buon Dio ci facesse una volta comprendere che cos’è la santa Messa, quante grazie, quanti beni avremmo, che or non abbiamo! Da quanti pericoli saremmo preservati se avessimo una gran divozione alla santa Messa! Per provarvelo, F. M., vi citerò un bell’esempio che vi mostrerà che il buon Dio protegge in modo visibile quelli che hanno la fortuna di assistervi con divozione. Leggiamo nella storia, che S. Elisabetta, regina di Portogallo e nipote di S. Elisabetta regina d’Ungheria, era tanto caritatevole verso i poveri che, sebbene avesse ordinato al suo elemosiniere di non rifiutar loro nulla, faceva altresì continue elemosine di sua propria mano o per mezzo dei domestici. Ordinariamente si serviva di un paggio, del quale aveva riconosciuta la grande pietà: il che vedendo un altro paggio, ne fu geloso. Andò costui un giorno dal re, e dissegli che quel paggio aveva relazione peccaminosa con la regina. Il re, senza nulla esaminare, stabilì subito di disfarsi del paggio il più segretamente possibile; e passando il dì stesso in un luogo dove si faceva cuocere la calce, chiamò quelli che avevano cura di mantenere acceso il fuoco, e disse loro che il domani mattina manderebbe un paggio, del quale era malcontento, che loro domanderebbe se avessero eseguito gli ordini del re: dovevano prenderlo e gettarlo subito nel fuoco. Tornato a casa, comandò al paggio della regina d’andare il mattino seguente di buon’ora a fare questa commissione. Ma vedrete che il buon Dio non abbandona mai chi l’ama. Il buon Dio permise che, per fare la propria commissione, dovesse passare vicino ad una chiesa; ed in quel momento appunto udisse suonare l’Elevazione. Entra per adorare Gesù Cristo ed ascolta il resto della Messa. Ne incomincia un’altra; l’ascolta; una terza dopo finita la seconda; l’ascolta ancora. Frattanto il re, impaziente di sapere se erano stati eseguiti i suoi ordini, manda il paggio suo a domandare se avessero fatto quanto aveva lor comandato. Credendo fosse questi il primo, lo prendono e lo gettano nel fuoco. L’altro, che intanto aveva terminato le sue divozioni, va a far la commissione, domandando se avessero eseguito il comando del re. Gli risposero che sì. Ritornò costui a portar la risposta al re, che fu assai sorpreso di vederlo ritornare. Furibondo che fosse avvenuto il contrario di quanto sperava, gli domandò dove fosse stato per sì lungo tempo… Il paggio dissegli che, passando vicino ad una chiesa per andare dove avevagli ordinato, aveva udito il campanello dell’Elevazione, che ciò lo aveva stimolato ad entrare e restarvi sino alla fine della Messa: e che un’altra Messa avendo subito incominciato, prima che fosse finita quella, e poi una terza, le aveva ascoltate tutte: perché il padre suo prima di morire, dopo avergli dato la sua benedizione, gli aveva assai raccomandato di non lasciare una Messa cominciata senza aspettare che fosse finita, perché questo atto di pietà attirava molte grazie, e preservava da molte sventure. Allora il re, rientrato in sé, comprese che questo era avvenuto per giusto indizio di Dio: che la regina era innocente, ed il paggio un santo: che l’altro aveva operato solo per invidia. – Vedete, F. M., che senza la sua divozione, quel povero giovane sarebbe stato arso, e che Dio gli ispirò di entrare in chiesa per salvarlo da morte: mentre l’altro, che non aveva divozione per Gesù Cristo nel sacramento adorabile dell’Eucaristia, fu gettato nel fuoco. S. Tommaso ci dice che un giorno durante la santa Messa vide Gesù Cristo colle mani piene di tesori, che cercava distribuire; e aggiunge che se avessimo la ventura di assistere devotamente e spesso alla santa Messa, avremmo ben più grazie di quelle che abbiamo per salvar le anime nostre, ed anche per i bisogni temporali.

2° In secondo luogo ho detto che il buon ladrone ci istruirà sul modo di diportarci nel tempo della Consacrazione e dell’Elevazione della santa Messa, quando dobbiamo offrirci a Dio con Gesù Cristo, siccome chiamati a partecipare a questo augusto mistero. Vedete, F. M., come questo penitente fortunato si diporta nel momento medesimo del suo supplizio? vedete come apre gli occhi dell’anima per riconoscere il suo liberatore? Ed insieme, qual progresso fa mai nelle tre ore che si trova in compagnia del suo Salvatore morente? E attaccato alla croce, non ha più liberi che il suo cuore e la lingua; vedete con qual premura offre a Gesù Cristo l’uno e l’altra: gli dà tutto quanto può donargli, gli consacra il cuore con la fede e la speranza, e gli domanda umilmente un posto in paradiso, cioè nel suo regno eterno. Gli consacra la lingua pubblicando la sua innocenza e santità. Dice al suo compagno di supplizio: « E giusto che noi soffriamo: ma Egli è innocente . „ Mentre gli altri sono intenti solo ad oltraggiare Gesù Cristo colle bestemmie più orribili, egli ne diventa il panegirista: mentre i suoi discepoli stessi l’abbandonano, prende le sue difese: e la sua carità è sì grande che fa ogni sforzo per indurre l’altro a convertirsi. No, F. M., non meravigliamoci per nulla se scopriamo tante virtù in questo Buon Ladrone, perché niente è tanto capace di commuovere quanto la vista di Gesù Cristo morente: non v’ è altro momento in cui la grazia venga data con tanta abbondanza. Ahimè! F. M., se nel fortunato momento della Consacrazione avessimo la ventura d’essere animati da una viva fede, una Messa basterebbe per strapparci da qualsiasi vizio in cui fossimo, e per farci divenire veri penitenti, cioè perfetti Cristiani. Perché dunque, mi direte voi, assistiamo a tanteMesse e siamo sempre gli stessi? F. M., perché vi siamo presenti col corpo, ma lo spirito non vi è punto; e vi veniamo piuttosto a ricevere la nostra riprovazione colle cattive disposizioni con cui vi assistiamo. Ahimè! quante Messe ascoltate male, che invece d’assicurare la nostra salvezza ci peggiorano vieppiù! Apparso Gesù Cristo a S. Metilde, le disse: « Sappi, figlia mia, che i santi assisteranno alla morte di tutti coloro che avranno ascoltato devotamente la santa Messa, per aiutarli a ben morire, per difenderli dalle tentazioni del demonio e presentare le loro anime al Padre mio. » Qual fortuna per noi, F. M., esser assistiti in questo momento terribile da tanti Santi quante Messe avremo ascoltate!… No, F. M., non temiamo mai che la santa Messa ci causi ritardo negli affari temporali: anzi al contrario: stiamo sicuri che tutto andrà bene, e che anche i nostri affari ci riusciranno assai meglio che se avessimo la mala sorte di non assistervi. Eccone un esempio mirabile. Raccontasi di due artigiani, del medesimo mestiere e dimoranti nello stesso borgo, che uno di essi, carico di numerosa prole, non tralasciava mai ogni giorno di ascoltare la santa Messa, e viveva comodamente del suo mestiere: l’altro, invece, che non aveva figli…, lavorava parte della notte e tutto il giorno, e spesso il giorno dì domenica, eppure stentava assai per vivere. Questi che vedeva prosperare tanto gli affari dell’altro, incontratolo un giorno gli domandò donde poteva ricavar tanto da mantenere sì bene uria famiglia numerosa come la sua: mentre egli, solo con la moglie, lavorando senza tregua, era spesso sprovvisto di tutto. Risposegli l’altro che, se volesse, gli mostrerebbe il dì appresso donde veniva tutto il suo guadagno. Contentissimo di sì buona notizia, aspettò con impazienza il domani, che gli avrebbe insegnato a far anch’egli fortuna. Infatti l’altro non mancò d’andare a prenderlo. Eccolo che parte di buona voglia e lo segue con fedeltà. L’altro lo condusse alla chiesa, dove ascoltarono la santa Messa. Dopo che furono ritornati: “Amico mio, disse quegli che si trovava in prospere condizioni, ritornate al vostro lavoro. „ Altrettanto fece il giorno appresso: ma andato a prenderlo una terza volta pel medesimo scopo: “Come? dissegli l’altro: se voglio andare a Messa, ne so la strada, senza che vi disturbiate a venirmi a prendere: non voleva sapere questo, io; ma dove trovate tutto quel benessere che vi fa vivere comodamente; volevo vedere se facendo come voi vi avrei trovato il mio interesse. „ — “Amico mio, rispose quegli, non conosco altro luogo che quello della chiesa, ed altro mezzo che l’ascoltare ogni giorno la santa Messa: e da parte mia vi assicuro di non aver mai usato altri mezzi per aver tutto il bene che vi stupisce. Ma, noi! avete visto che Gesù Cristo nel Vangelo ci dice “di cercare anzi tutto il regno dei cieli, e tutto il resto ci verrà dato? „ A queste parole l’altro intese a che mirasse il primo conducendolo alla santa Messa: e gli soggiunse : “Avete ragione; chi non calcola che sul proprio lavoro è un cieco, ed io vedo che la santa Messa giammai impoverirà alcuno. Voi ne siete una prova ben grande. Voglio far come voi, e spero che il buon Dio mi benedirà. „ Infatti cominciò il giorno dopo e continuò per tutta la sua vita: ed in poco tempo divenne agiato. Quando gli si domandava donde proveniva che ora non lavorava più in domenica né di notte come prima, e diveniva più ricco, egli rispondeva: “Ho seguito il consiglio del mio vicino: andate a trovarlo, e vi insegnerà a star bene senza lavorar troppo; ascoltando cioè la Messa ogni giorno. „ Ciò forse vi fa meraviglia, F. M.? A me no. È quanto vediamo ogni giorno nelle case dove si coltiva la pietà: coloro che vengono spesso alla santa Messa, fanno assai meglio i loro affari di coloro ai quali la loro poca fede fa credere di non avere mai tempo per questo. Ahimè! se avessimo posto ogni nostra confidenza in Dio, e non contassimo sul nostro lavoro, quanto saremmo più felici! — Ma, mi direte, se non abbiamo nulla, nessuno ci dà niente. — Che cosa volete che il buon Dio vi aiuti quando non contate che sul vostro lavoro, e niente su di Lui? Voi non trovate neppure il tempo di recitare le vostre orazioni mattina e sera, e vi accontentate di venire alla Messa una volta alla settimana. Ahimè! non conoscete le risorse della Provvidenza di Dio per chi si confida in Lui. Ne volete una prova evidente? essa è davanti ai vostri occhi: Osservate il vostro pastore, ed esaminate la cosa davanti a Dio. — Oh! mi direte, c’è chi ve ne dà. — Ma chi me ne dà, se non la Provvidenza di Dio? ecco dove sono i miei tesori, e non altrove. Davvero! che l’uomo è cieco di tormentarsi tanto per andar dannato, ed essere anche infelice in questo mondo! Se aveste la fortuna di pensare bene alla vostra salvezza e d’assistere alla santa Messa, più spesso che potete, vedreste bentosto la prova di quanto vi dico. No, F. M., nessun momento è più prezioso, per domandar a Dio la nostra conversione, di quello della santa Messa: vedetelo. Un santo eremita, chiamato Paolo, vide un giovine assai ben vestito, che entrava in una chiesa accompagnato da gran quantità di demoni: ma dopo la santa Messa, vide uscire il giovine accompagnato d’una schiera di angeli che camminavano ai suoi fianchi. “O mio Dio, esclamò il santo, bisogna che la santa Messa Vi sia ben gradita!„ Il santo Concilio di Trento ci dice che la santa Messa placa la collera di Dio, converte il peccatore, rallegra il cielo, solleva le anime del purgatorio, rende gloria a Dio, ed attira ogni sorta di benedizioni sulla terra!. « Sess. XIII e XXII. Oh! F. M., se potessimo ben comprendere che cosa è il Sacrifizio della santa Messa, con qual rispetto vi assisteremmo?… Il santo abate Nilo ci racconta che il suo maestro S. Giovanni Crisostomo gli aveva detto un giorno, in confidenza, che durante la santa Messa vedeva una schiera d’angeli che discendevano dal cielo per adorare Gesù Cristo sull’altare, e che molti s’aggiravano in chiesa per ispirare ai fedeli il rispetto e l’amore che debbono avere per Gesù Cristo presente sull’altare. Momento prezioso, momento felice per noi, F. M., questo nel quale Gesù Cristo è presente sui nostri altari! Davvero! se i padri e le madri lo comprendessero e sapessero approfittarne, i loro figli non sarebbero così sventurati, così lontani dalla via del cielo. Mio Dio, quanti poveri vicino a sì grande tesoro!

3° Ho detto che il Centurione ci serve d’esempio quando abbiam la bella sorte di comunicarci, o spiritualmente o corporalmente. L’esempio di questo Centurione è così ammirabile, che la Chiesa sembra compiacersi di rimettercelo davanti agli occhi ogni giorno nella S. Messa. ” Signore, dissegli quest’umile servo, non son degno che veniate nella casa mia, ma dite una sola parola, ed il mio servo sarà guarito„ Ah! se il buon Dio vedesse in noi la medesima umiltà, la medesima cognizione del nostro nulla, con qual piacere ed abbondanza di grazie non verrebbe nel nostro cuore? Quanta forza e coraggio avremmo per vincere il nemico della nostra salvezza! Vogliamo, F . M., ottenere di mutar vita, cioè abbandonare il peccato e tornare a Dio? Ascoltiamo alcune Messe con questa intenzione, e stiamo sicuri, se le ascoltiamo devotamente, che Dio ci aiuterà ad uscire dal peccato: eccone un esempio. Narrasi nella storia che una giovanetta per più anni aveva condotto una vita miserabile con un giovane. Un giorno si sentì presa da paura, e riflettendo allo stato cui poteva ridursi la povera anima sua, se continuava quella vita. Subito, dopo la santa Messa, andò da un sacerdote a pregarlo d’aiutarla a uscire dal peccato. Il sacerdote, che ne conosceva la condotta, le domandò che cosa l’avesse decisa a questo cambiamento. “Padre mio, gli disse, durante la santa Messa, che la madre mia prima di morire mi fece promettere d’ascoltare ogni sabato, bo concepito un sì grande orrore del mio stato, che non posso più reggervi. „ — “O mio Dio! esclamò il santo sacerdote, ecco un’anima salvata dal valore della santa Messa!„ Ah! F. M., quante anime uscirebbero dal peccato, se avessero la fortuna di ascoltare la santa Messa con buone disposizioni! Non meravigliamoci dunque se il demonio ci mette tanti pensieri estranei. Ah! egli prevede, assai meglio di voi, la perdita che fate assistendovi con sì poco rispetto e divozione. F. M., da quanti pericoli e morti improvvise ci preserva la santa Messa! Quante persone, per una santa Messa ascoltata, salverà Iddio dalla sventura! S. Antonino ce ne racconta un bell’esempio. Ci dice che un giorno di festa due giovani andarono per una partita di caccia: l’uno aveva ascoltato la santa Messa, l’altro no. Mentre erano per via, il cielo si rannuvolò: udivansi tuoni spaventosi, e vedevansi lampi sì frequenti che il cielo sembrava in fiamme. Ma ciò che li atterriva ancor di più, era l’udire tra le folgori, di tratto in tratto, una voce che gridava: “Colpite quei disgraziati, colpiteli!„ Quietatasi un po’ la burrasca, incominciarono a rassicurarsi. Proseguendo il loro cammino, ad un tratto scoppiò un fulmine che incenerì quegli che non aveva ascoltato la. santa Messa. L’altro fu preso da sì gran spavento che non sapeva se dovesse proseguir oltre. In questa paura, udì ancora la voce gridare : “Colpite, colpite l’infelice!„ il che raddoppiava il suo spavento, avendo visto ai suoi piedi il compagno fulminato. Mentre credevasi perduto, udì un’altra voce che disse:”No, non colpitelo; egli ha ascoltato stamattina la Messa.„ La santa Messa ascoltata la mattina prima di partire lo preservò da una morte sì spaventosa. Vedete, F. M., come Dio ci concede grazie e ci preserva dalle sventure, quando abbiam la fortuna d’ascoltare la Messa come si deve? Ahimè! quali castighi debbono aspettarsi coloro che non hanno difficoltà di perderla in domenica. Anzitutto, il castigo visibile, è che essi periscono quasi tutti malamente: i loro beni vanno in deperimento, la fede abbandona i loro cuori, e sono doppiamente disgraziati. Mio Dio! quanto l’uomo è cieco sotto tutti i rapporti, per l’anima e pel corpo!

III. — La maggior parte delle persone del mondo ascoltano la santa Messa alla maniera dei farisei, del cattivo ladrone e di Giuda. Ho detto che la santa Messa è il ricordo della morte di Gesù Cristo sul Calvario: perciò Gesù Cristo vuole che, ogni volta che celebriamo il santo sacrificio della Messa, lo facciamo in sua memoria. Tuttavia dobbiamo dire gemendo che, mentre rinnoviamo il ricordo dei patimenti di Gesù Cristo, molti che v’assistono rinnovano il delitto dei Giudei e dei carnefici che l’attaccarono alla croce. Ma per meglio farvi conoscere se avete la sventura d’esser nel numero di coloro che così insultano i nostri santi misteri, vi farò notare, F. M., che fra coloro che furon testimoni della morte di Gesù Cristo sulla croce, ve ne erano di tre sorta: gli uni non facevano che passare davanti alla croce, senza fermarsi e senza sentire un vero dolore, più insensibili delle creature inanimate. Gli altri si avvicinavano al luogo del supplizio, consideravano tutte le circostanze della morte di Gesù Cristo; ma non era che per beffarsene, farne oggetto di risa ed oltraggiarlo con le bestemmie più orribili. Infine, un piccolo numero versava lagrime amare vedendo spiegare tante crudeltà sul corpo del loro Dio e loro Salvatore. Vedete ora a qual numero appartenete. Non parlerò di coloro che corrono ad udire una Messa in furia in una parrocchia dove hanno qualche affare, né di coloro che vi vengono a metà; che, in tal tempo, vanno a trovare un amico per bere un bicchierino in compagnia: lasciamoli da parte, perché costoro vivono come se fossero sicuri di non avere un’anima da salvare: essi hanno perduto la fede, e con ciò tutto è perduto. Ma parliamo solo di quelli che vi vengono ordinariamente. Ebbene, molti non vi vengono che per vedere ed essere veduti, con un contegno dissipato, come andrebbero ad un mercato, o in piazza, e, permettete la frase, ad un ballo. Vi stanno senza modestia: a mala pena mettono le ginocchia a terra durante l’Elevazione o la Comunione. Pregate voi, F. M., in tempo di Messa?…. No?! Ma, allora vi manca la fede! Ditemi, quando vi recate dai vostri superiori per domandare una grazia, non è vero che ne siete preoccupati durante tutta la strada; entrate con modestia, fate ad essi un profondo saluto, state scoperti davanti a loro, non pensate neppure a sedervi; tenete gli occhi bassi, e riflettete soltanto al modo di esprimervi bene e colle parole più adatte? Se sbagliate in qualche cosa, vi scusate subito della vostra poca educazione Se essi vi ricevono con bontà, sentite la gioia nascere nel vostro cuore. Ebbene! ditemi, F. M., non deve ciò confondervi, vedendo che usate tante precauzioni per un bene temporale? mentre venite alla chiesa con noncuranza, quasi con disprezzo, davanti ad un Dio morto per salvarci, e che ogni giorno versa il suo sangue per ottenervi grazia presso il Padre suo. Quale affronto, F. M., non è per Gesù Cristo vedersi insultato da vili creature? Ahimè! quanti durante la santa Messa commettono più peccati che non in tutta la settimana. Alcuni non pensano neppure al buon Dio, altri parlano, mentre il loro cuore ed il loro spirito si perdono, o nell’orgoglio, o nel desiderio di piacere, o nell’impurità. Quanti altri lasciano entrare ed uscire tutti i pensieri e desideri che il demonio loro manda. Quanti non hanno difficoltà di guardare, di volger la testa, di ridere e chiacchierare, di dormire come se fossero in letto, e forse ancor meglio. Ahimè! quanti Cristiani escono di chiesa forse con trenta o cinquanta peccati mortali di più che quando vi entrarono! Ma, mi direte, è meglio allora non assistervi. — Sapete che dovete fare ?… Assistervi, ed assistervi come si conviene, facendo tre sacrifici a Dio, cioè: quello del vostro corpo, del vostro spirito e del vostro cuore. Dico : del vostro corpo; che deve onorare Gesù Cristo con religiosa modestia; quello del vostro spirito, che ascoltando la santa Messa, deve penetrarsi del vostro nulla e della vostra indegnità, evitando ogni sorta di dissipazioni, allontanando da sé le distrazioni; quello del vostro cuore, che è l’offerta a Lui più accetta, poiché è il vostro cuore che vi domanda con tanta insistenza: “Figlio mio, vi dice, dammi il tuo cuore. Concludo, F. M., dicendo quanto siamo sfortunati quando ascoltiamo male la santa Messa, poiché troviamo la nostra riprovazione là dove gli altri trovano la loro salvezza. Voglia il cielo che assistiamo alla S. Messa ogni qualvolta potremo, poiché le grazie vi si attingono cosi abbondanti; e che vi portiamo sempre le migliori disposizioni. Così attireremo sopra di noi ogni sorta di benedizioni per questo mondo e per l’altro!… Ecco quanto vi auguro …

LO SCUDO DELLA FEDE (159)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (28)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA – 1861

SECONDA PARTE.

Genuino prospetto del Cattolicismo, e del Pretestantismo, delineato dai Protestanti.

PRATTENIMENTO III

Prospetto del Protestantesimo

PUNTO I.

Definizione e origine della Riforma protestante. Qualità dei suoi fondatori.

37. Prot. « Una rivolta, la quale, secondo che vediamo, dobbiamo chiamare – Riforma – separò regni potenti dalla Chiesa Cattolica. Di fatti, se ben si riguardano da giusti estimatori delle cose e le conseguenze e la sicurtà della Chiesa germanica, è forza conchiudere essere stata la Riforma un infausto parto d’ingiusta e demagogica rivoluzione. » (Enrico Steffens, Caricatura del Santuario, ossia, delle cose più sacre, T. 2, p. 298). Ascoltami:

« L’appellazione di Protestante fu un nome dato a coloro che si dichiararono o protestarono contro la Chiesa Cattolica, ossia universale. Una tal mania di protestare trasse origine in Germania l’anno 1547 da un Frate, il cui nome era Martino Lutero, appartenente ad un Convento di Frati Agostiniani, nell’Elettorato di Sassonia. A quest’epoca stessa il Papa aveva ordinato che si annunziassero l’indulgenze; ed avendo Sua Santità affidato quest’opera all’Ordine de’ Domenicani, e non a quello a cui Lutero apparteneva, ed acui affidata l’aveva sempre per lo innanzi: piccato l’eretico di questa preferenza, deliberò di farne vendetta opponendosi al Papa. Egli comunicò il suo progetto all’elettorato di Sassonia suo sovrano, ed in lui trovò il suo protettore, perché questi, secondo tutte le apparenze, aveva al saccheggiamento forte inclinazione, la quale alcuni anni dopo s’impadronì del nostro tiranno inglese (Enrico VIII), dei suoi cortigiani, del suo Parlamento.! » (Cobbet, Op. cit. Lett. 7, §99).

38. Apost. Ho già capito! Voi vi accingete ad infamare anche i grandi Fondatori della Riforma, dichiarandoli gente perversa!!! Ma come oserete degradare in tal modo quegli uomini sommi, proclamati dai vostri Missionari quali uomini santi, quali Apostoli mandati da Dio a riformare la sua Chiesa? Rispondete.

Prot. « Il mondo per avventura non ha mai in alcuna età veduto uno stuolo di miscredenti scellerati cotanto, quanto il furono Lutero, Zuinglio, Calvino, Bezza e il resto degli illustri Riformatori della Cattolica Chiesa…. Ognun di essi era notoriamente famoso pei vizi più scandalosi, anche a seconda dell’ampia confessione che ne hanno fatta i loro stessi seguaci… Eglino non si accordavano in nulla, se non se nella dottrina – che le buone opere sono inutili; e per verità la loro condotta di vita comprovava la sincerità del loro insegnamento; poiché non vi aveva un solo fra essi, le cui azioni non meritassero una forca » (Il medes., ivi, § 200).

« Tutti gli autori di un sentimento si accordano a rappresentare Lutero come un uomo il più scapestrato e facinoroso. Nella possibilità, che si fosse sentito eccitare al cangiamento di sua religione dalla sua coscienza, la sua coscienza però senza fallo non ha potuto giammai suggerirgli le abbominevoli azioni, di cui egli è colpevole, anche giusta le sue proprie confessioni. » (Il medes. ivi, Lett. 3, § 100).

« Lutero dice nelle opere sue, che dagli argomenti del diavolo (il quale, dic’egli, mangiava, beveva e dormiva seco) fu indotto ad apostatare e farsi patriarca del Protestantismo. Egli è quel Lutero, che dal suo discepolo Melantone viene appellato uomo brutale, vuoto di pietà e di umanità, più Giudeo che Cristiano. (Ivi, Lett, 8, § 251). » Senti qual sorta di orazione faceva a Dio questo preteso tuo Santo.

« O. Dio! per vostra bontà provvedeteci di abiti, di cappotti e di mantelli, di vitelli ben grassi, di capretti, di buoi, di montoni e di vitelle, di molte femmine e di pochi figli. Ben bevere, ben mangiare è il vero mezzo di non ammalarsi.» (Questa strana orazione, non è negata neppure dal furioso Bost nel suo Appel. né vi è chi ne dubiti). Una sera che la sua druda gli faceva osservare il cielo stellato, egli le disse:

« Oh la bella luce! Ella però non brilla per noi…. E perché, ripigliò Caterina, egli è forse che noi siamo spossessati del regno de’ cieli? — Può essere, rispose egli, in punizione dell’aver noi abbandonato il nostro stato, e sospirò. — Dunque converrà ritornarci? disse Caterina. — Ma Lutero rispose: È troppo tardi, il carro è troppo incagliato! » (Vedi Audin, Histoîr de vie de Luther, p. 278). Ecco, dunque, che il Patriarca della Riforma si dichiara egli stesso dannato, e dispera della propria salute come Caino.

39. « Di Zuinglio dicono, che egli ripurgò la diletta Sposa di Cristo, la Chiesa,… non con giusta e legittima predicazione della parola, ma con ispirito frenetico e tumultuante infuriò per ogni rispetto temerariamente, strinse violentemente le armi, e la spada vietata da Cristo, affin di costringere i suoi contraddittori alla sua sentenza. » (Gualtiero, Apologia pro Zuinglio, et operibus ejus, Tiguri 1581, fol, 18).

« Lutero asserisce essere stato Zuinglio miserabilmente ucciso dai papisti in battaglia, e perciò esser morto ne’ suoi peccati, e che al tutto disperava della salvezza dell’anima di Zuinglio. » (Hospiù, Mist. Sacram. par. 2, ad ann. 1544, fol. 187).

40. « Calvino è la più sinistra figura che ci offra il quadro della pretesa Riforma, vero mostro di corruzione e d’ipocrisia che cammina nell’ombra. Tutti i suoi passi son calcolati, e si direbbe che i suoi occhi, sfavillanti di una fiamma impura, slanciano sguardi mortali come quelli dal basilisco. » (Il traduttore (protestante) del Mosemio, T. 4, p. 91, in Nota).

« Calvino terminando la vita nella disperazione morì di vergognosissima e turpissima malattia, quale Dio minacciò ai ribelli e maledetti, pria tormentato e consunto. Ciò che io oso attestare con ogni verità, io che di presenza con questi miei occhi vidi il funesto e tragico fine di lui. » (Joan. Harenius, discepolo di Calvino, in Libello de vita Calvini).

« Dio colla sua potente mano di tal modo percosse questo eretico, che disperata la salute, invocati i demoni, giurando, esecrando e bestemmiando miserabilissimamente esalò l’anima maligna. » (Schlusselburg, De Theologia Calvini, 1594, lib. 2, fol. 72).

44. « Carlostadio è stato abbandonato al reprobo senso;… penso che non sia stato quell’uomo infelice posseduto da un solo diavolo. Dio abbia misericordia del peccato di lui, col quale pecca a morte. » (Lutero, în Locis comm. Class. V, cap. 15, fol. 17).

« Non si faccian le maraviglie, se io lo chiamo un diavolo; perocchè non mi prendo verun pensiero di Carlostadio, non guardo lui, ma a quello da cui è ossesso! » (Lutero, Mensal.  T. 3, fol. 61)

42. « Bezza cantò al mondo i suoi nefandi amori, gl’illeciti accoppiamenti, le fornicazioni, i sozzi adulterii con sacrilega poesia, non contento di ravvoltarsi quale immondo animale nel loto di laidissime libidini egli solo, se non contaminava altresì le orecchie della studiosa gioventù colla sua sozzura. » (Tilman Hesusius, in Lib. Verde et sanæ Confessionis). Li altri, che per brevità tralascio, erano modellati sullo stesso tipo. Da ciò puoi facilmente conoscere se eglino erano santi e Apostoli mandati da Dio a riformar la sua Chiesa!… Ma quanto a questo ultimo punto, ascolta oltreciò quello che insegna lo stesso patriarca della Riforma, Lutero, allorchè ad essi dirige la sua parola.

45. » Volete fondare una Chiesa? Or bene, dite: chi vi manda? Chi vi diede missione? Siccome rendete testimonianza di voi medesimi, così non dobbiamo credervi a bella prima, secondo il consiglio di S. Giovanni; ma bensì provarvi. Iddio non ha mandato alcuno nel mondo che non sia stato, chiamato dall’uomo, od annunziato con segni, neppure il suo Figlio. I Profeti traevano il loro diritto. dalla legge e: dall’ ordine profetico, come noi dagli -nomini. Non vi riconosco, se altro non avete a porre innanzi che una rivelazione affatto nuda. Iddio non avrebbe voluto che Samuele parlasse altrimenti ‘che in virtù dell’autorità di Eli. Allorchè si viene per cangiare la legge, occorrono miracoli: ove sono i vostri miracoli? Ciò che i Giudei dicevano al Signore, noi ve lo ridiciamo: Maestro, noi vogliamo un segno. Tanto per le vostre funzioni di Evangelisti. » (Lutero, Orazione recitata in Wittemberga contro Carlostadio – Vedi Audin, Op. cit. trad, ital. Vol. I, p.193).

« Fratelli,… non parlate di rivelazioni che autorizzino la vostra ribellione ! Ove sono i miracoli che l’attestino? » (Il medes., alle petizioni degli Anabattisti) Queste opposizioni e domande sono giustissime, e però possono e debbono farsi a tutti i Riformatori; compreso Lutero. Ora ritornando al primo punto, aggiungo a quanto ti ho detto, che …

» La Riforma, com’ella vien chiamata, fu ingenerata da brutale incontinenza, fu alimentata da ipocrisia e perfidia, e fu fomentata e favorita da ruberie, da devastazioni e fiumi di sangue. » (Cobbet, Op. cit. Lett, 1, § 4.

Ascolta adesso il resto. [Continua...]

IL SACRO CUORE (43)

IL SACRO CUORE (43)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE SECONDA.

CAPITOLO IV

RIASSUNTO E CONCLUSIONE

I

CONFRONTO DI QUESTA DIVOZIONE CON ALTRE

I misteri particolari  e il fondo dei misteri; gli atti e il  principio dell’azione.

Tutte le divozioni, che hanno per oggetto i misteri di Gesù si rivolgono alla Persona adorabile di Gesù, ma la riguardano o in uno stato, o in un fatto della sua vita. A. Natale onoriamo Gesù Nascente; nella Passione: Gesù penante; a Pasqua Gesù resuscitato etc. La divozione del sacro Cuore non si fissa a nessun mistero di Gesù, né a uno stato speciale della sua santa vita. Ma tutti, però, sono dominio di questa divozione in ciò che hanno di più intimo, perché essa vi studia il suo amore; i suoi sentimenti e le sue virtù. Essa va dunque in fondo ad ogni mistero per cercarne l’anima, per approfondirne lo Spirito ed averne, così, l’ultima spiegazione. Così, diceva il postulatore del 1765, con la festa del sacro Cuore (e si può dire altrettanto della divozione), « non ci si rappresentano solamente delle grazie Speciali, ma ci si dischiude internamente tutta la grande Sorgente di tutte le grazie. Non vi si ricorda un mistero particolare, ma vi si propone la meditazione e l’adorazione di tutti i misteri. Tutto quel che vi ha di misteri e di grazie nell’intimo di Gesù è nei segreti del suo cuore; tutti i beni che son venuti agli uomini da questo amore dell’amantissimo Redentore; tutto quello che la interna passione di Cristo… offre ai nostri sguardi e al nostro amore, tutto questo è rappresentato dalla festa del sacro Cuore, tutto vi è ricordato, tutto onorato » (Replicatio, n. 20: in Nilles, L. I, parte I, c. III, § 3, t. I, P. 146). – Da ciò si può comprendere quello che ci dicono i predicatori della convenienza liturgica della festa e il posto che tiene nel ciclo annuale. Questa festa sprigiona come l’essenza, il succo di tutti i misteri speciali di cui la liturgia ci ha ravvivata la memoria, e si capisce quello che essi ci dicono dell’eccellenza di questa devozione, sia che se ne riguardi o l’oggetto, o la fine, o l’atto proprio. – Senza seguirli in questi sviluppi del loro pensiero ci accontenteremo d’indicare come la divozione al sacro Cuore, sia un riassunto chiaro e profondo, una espressione viva e parlante, la formula la meglio indovinata dell’essenza stessa del Cristianesimo,

II.

IL SACRO CUORE E L’ ESSENZA DEL CRISTIANESIMO

Il Cristianesimo, Religione di Gesù; il Cristianesimo religione d’amore. Formula eccellente della divozione al sacro Cuore.

Che cosa è, infatti, il Cristianesimo nella sua intima sostanza? È insieme la Religione di Gesù, la Religione dell’amore, poiché Gesù e l’amore non formano che uno in una fusione ammirabile.

La Religione di Gesù. Riguardiamo le cose in Dio. Egli non ci conosce, per così dire, e non ci ama che in Gesù, nel solo mediatore fra Lui e noi; Egli non gradisce i nostri Omaggi, che presentati da Gesù; non vi è altro commercio fra Lui e noi, che per mezzo di Gesù, e, può dirsi, che non esistiamo per Lui, nell’ordine soprannaturale, che in Gesù, e per Gesù. Riguardando, ora, da parte nostra, noi non siamo salvi che per Gesù; non conosciamo il nostro Padre celeste che per mezzo di Gesù; non possiamo amarlo che per Gesù; non viviamo della vita soprannaturale che in quella misura che diveniamo uno con Gesù. Egli è veramente il tutto della nostra Religione, il tutto della vita cristiana. Ebbene! Nulla ci dà Gesù, ce lo fa conoscere ed amare intimamente in se stesso, ci mette in rapporto stretto e personale con Lui, ci fa vivere di Lui e in Lui, come la divozione al sacro Cuore. Non è essa forse, fra Lui e noi, quella fusione dei cuori che ne fa uno solo di due? Con il sacro Cuore abbiamo tutto Gesù. – Come è dunque possibile poter trovare qualcosa di più espressivo, di più efficace? San Giovanni Crisostomo riassumeva san Paolo, dicendo: « Il cuore di Paolo è il cuore di Cristo ». La divozione al sacro Cuore fa del cuore cristiano il cuore di Gesù.

La religione dell’amore. Si è definita la Religione come l’incontro di due amori. Come religione, non è precisamente questo. È affare di dovere, di riconoscimento dei rapporti essenziali tra Dio e noi. Ma questi rapporti, per non riguardare che la natura delle cose, non sono rapporti di amicizia; sono piuttosto apporti di padrone e di Servo, di Creatore e di creatura. Perché siano possibili rapporti di amicizia, fra Lui e noi, occorre una volontà speciale di Dio, che c’innalzi all’ordine soprannaturale, una effusione dello spirito di adozione, che ci permetta di dire « Padre mio » a quegli che, adottandoci, vuol ben chiamarci suoi figli. Ma, se la Religione, come tale, non può chiamarsi « l’incontro di due amori », il Cristianesimo lo può, ed è questa una delle idee più belle, più vere che se ne possa dare. Da parte di Dio, è un grande sforzo d’amore per vincere il nostro amore. Lo si è definito una grande misericordia, perché viene in soccorso di una grande miseria. Ma questa. Misericordia stessa, da dove viene? Dall’amore. La prima come l’ultima parola delle vie di Dio su di noi, è l’amore. A che cosa dobbiamo Gesù? All’amore: Sic Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret. A che cosa dobbiamo la passione e la redenzione? All’amore, Dilexit me, et tradidit semetipsum pro me. Tutto il mistero di Gesù si presenta come un supremo sforzo d’amore: Cum dilexisset suos qui erant in mundo, in finem dilexit eos. E la Chiesa tutta, coi Suoi sacramenti, e la sua magnifica organizzazione, per propagare nel mondo la grazia è la verità, non è altra cosa che una invenzione d’amore. Dio ha voluto che la prima condizione del governo ecclesiastico sia l’amore, l’amore per Iddio traboccante in amore sugli uomini. Amas me? Pasce agnos meos. Egli ha voluto che la prima legge imposta ai fedeli fosse la legge dell’amore. È il gran comandamento; se si osserva questo tutto andrà bene. Dilige, et quod vis fac (Si dice generalmente: ama et fac quod vis. La formula del testo è la formula stessa di Sant’Agostino. In epist. Joannis ad Parthos, tr. VII, c. IV, n. 8, Migne, t., XXXV, col. 2033. Indicazione dovuta alla erudita cortesia dell’abate Urbain).E pure dalla parte dei fedeli tutto converge all’amore. La legge, lo abbiamo veduto, si riassume nell’amore; la fede cristiana, al dire di San Giovanni, si caratterizza; come la fede, nell’amore: Et nos credidimus caritati. Tutta la vita cristiana consiste nel vivere in Gesù per l’amore; e la perfezione cristiana si definisce come l’unione dell’amore e la trasformazione amorosa in Gesù. La Religione cristiana, dunque, si riassume tutta nell’amore. Ma ciò significa che si riassume tutta nel sacro Cuore poiché la divozione al sacro Cuore è interamente divozione all’amore, divozione d’amore.Infine il Cristianesimo non è già Gesù, o l’amore, come fossero due cose distinte. È l’amore di Gesù per noi, è il nostro amore per Gesù; è l’amore di Dio per noi in Gesù, e il nostro amore per Iddio in Gesù. Non è forse un ridire con ciò in altri termini che il Cristianesimo è tutto intiero nel sacro Cuore?Senza dubbio, non è questa una formula necessaria, ma chi può negarle di essere una formula ammirabile, concisa, luminosa e singolarmente espressiva, siccome quella che parla e allo spirito, all’anima e agli occhi? Mons. Pie lo diceva sino dal 1857: « il Cristianesimo non saprebbe identificarsi così assolutamente con nessun altra devozione, come con quella del Sacro Cuore ». E Mons. Dubois lo diceva non è molto, nella sua bella pastorale (Lettera Sinodale, Dicembre 1857, Oevres, t. III, pag. 42) sul culto del sacro Cuore. « Tutta la Religione è qui, perché è la Religione dell’amore divino. La nostra fede crede a questo amore, principio di tutti i nostri misteri; la nostra morale vi risponde, ciò che è il compimento della legge » Questo culto è dunque con certezza, secondo la parola di Mons. Dubois, « il riassunto e come l’essenza medesima del Cristianesimo » (Lettera Pastorale, riprodotta nella Revue du Clergè français, 1903, t. XXXIV, pag. 646 e segg.). Non vi ha luogo di meravigliarci, se è così, delle magnifiche promesse di Nostro Signore alla beata Margherita Maria in favore dei devoti del Sacro Cuore. Che cosa non possiamo aspettarci da un tale amore? – Ciò può aiutarci a comprendere la parola singolarmente ardita della beata Margherita Maria. Che il Sacro Cuore, cioè, è come un nuovo mediatore, nuovo mediatore si intende come manifestazione nuova dell’eterno ed unico Mediatore, che fa come un nuovo dono di se stesso, dandoci il suo cuore che ci discopre: mediatore per mezzo del quale andiamo a Gesù, e troviamo Gesù, come per Gesù andiamo al Padre suo, e in Gesù troviamo Dio. Ciò può aiutarci anche a comprendere come Leone XIII abbia designato il sacro Cuore come il labarum dei nuovi tempi. Non che la croce debba sparire ed eclissarsi davanti al cuore, ma il cuore ci fa comprendere e conoscere meglio la croce; ci fa penetrare fino in fondo del mistero della redenzione, ne fa discendere, fino a noi le grazie della salute. Il regno del sacro Cuore nelle anime assicura il regno d’Iddio sulla terra (Vedi prima parte, c: II, §7. p. 43-46).

FESTA DEL CORPUS DOMINI (2021)

FESTA DEL CORPUS DOMINI (2021)

Doppio di I cl. con Ottava privilegiata di 2° ordine.

Paramenti bianchi.

Dopo il dogma della SS. Trinità, lo Spirito Santo ci rammenta quello dell’Incarnazione di Gesù, facendoci celebrare con la Chiesa il Sacramento per eccellenza che, riepilogando tutta la vita del Salvatore, dà a Dio gloria infinita e applica alle anime in tutti i momenti i frutti della Redenzione (Or.) ». Gesù ci ha salvati sulla Croce e l’Eucarestia, istituita alla vigilia della passione di Cristo, ne è il perpetuo ricordo (Or.). L’altare è il prolungamento del Calvario, la Messa annuncia « la morte del Signore » (Ep.). Infatti Gesù vi si trova allo stato di vittima; poiché le parole della doppia consacrazione ci mostrano che il pane si è cambiato in corpo di Cristo, e il vino in sangue di Cristo; di modo che per ragione di questa.doppia consacrazione, che costituisce il sacrificio della Messa, le specie del pane hanno una ragione speciale a chiamarsi « Corpo di Cristo», benché contengano Cristo tutto intero, poiché Egli non può morire, e le specie del vino una ragione speciale a chiamarsi « sangue di Cristo », per quanto anche esse contengano Cristo tutt’intero. E così il Salvatore stesso, che è il sacerdote principale della Messa, offre con sacrificio incruento, nel medesimo tempo che i suoi i sacerdoti, il suo Corpo e il suo Sangue che realmente furono separati sulla croce, e che sull’altare lo sono in maniera rappresentativa o sacramentale. – D’altra parte si vede che l’Eucarestia fu istituita sotto forma di cibo (All.) perché possiamo unirci alla vittima del Calvario. L’Ostia santa diviene così il « frumento che nutre le nostre anime » (Intr.). E a quel modo che il Cristo, come Figlio di Dio, riceve la vita eterna dal Padre, così i Cristiani partecipano a questa vita eterna (Vang.) unendosi a Gesù mediante il Sacramento che è il Simbolo dell’unità (Secr.). Così, questo possesso anticipato della vita divina sulla terra mediante l’Eucarestia, è pegno e principio di quella di cui gioiremo pienamente in cielo (Postcom.). « Il medesimo pane degli angeli che noi mangiamo ora sotto le sacre specie, dice il Concilio di Trento, ci alimenterà in cielo senza veli », poiché saremo faccia a faccia nel cielo, Colui che contempliamo ora con gli occhi della fede sotto le specie eucaristiche. – Consideriamo la Messa come centro di tutto il culto eucaristico della Chiesa; consideriamo nella Comunione il mezzo stabilito da Gesù per farci partecipare più pienamente a questo divino sacrifizio; così la nostra devozione verso il Corpo e il Sangue del Salvatore ci otterrà efficacemente i frutti della sua redenzione. Per comprendere il significato della Processione che segue la Messa, richiamiamo alla mente come gli Israeliti onoravano l’Arca d’Alleanza che simboleggiava la presenza di Dio in mezzo a loro.Quando essi eseguivano le loro marce trionfali, l’Arca santa avanzava portata dai leviti, in mezzo a una nuvola d’incenso, al suono degli strumenti di musica, di canti, e di acclamazioni di una folla entusiasta. Noi Cristiani abbiamo un tesoro molto più prezioso, perché nell’Eucaristia possediamo Dio stesso. Siamo dunque santamente fieri di fargli scorta ed esaltiamo, per quanto è possibile, il suo trionfo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXX: 17.
Cibávit eos ex ádipe fruménti, allelúia: et de petra, melle saturávit eos, allelúia, allelúia, allelúia.
Ps 80:2 [Li ha nutriti col fiore del frumento, allelúia: e li ha saziati col miele scaturito dalla roccia, allelúia, allelúia, allelúia.]

Exsultáte Deo, adiutóri nostro: iubiláte Deo Iacob.

[Esultate in Dio nostro aiuto: rallegratevi nel Dio di Giacobbe.]


Cibávit eos ex ádipe fruménti, allelúia: et de petra, melle saturávit eos, allelúia, allelúia, alleluja

[Li ha nutriti col fiore del frumento, allelúia: e li ha saziati col miele scaturito dalla roccia, allelúia, allelúia, allelúia.

Oratio

Orémus.
Deus, qui nobis sub Sacraménto mirábili passiónis tuæ memóriam reliquísti: tríbue, quǽsumus, ita nos Córporis et Sánguinis tui sacra mystéria venerári; ut redemptiónis tuæ fructum in nobis iúgiter sentiámus:

[O Dio, che nell’ammirabile Sacramento ci lasciasti la memoria della tua Passione: concedici, Te ne preghiamo, di venerare i sacri misteri del tuo Corpo e del tuo Sangue cosí da sperimentare sempre in noi il frutto della tua redenzione:]

Lectio

Léctio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor XI: 23-29
Fratres: Ego enim accépi a Dómino quod et trádidi vobis, quóniam Dóminus Iesus, in qua nocte tradebátur, accépit panem, et grátias agens fregit, et dixit: Accípite, et manducáte: hoc est corpus meum, quod pro vobis tradétur: hoc fácite in meam commemoratiónem.
Simíliter ei cálicem, postquam cenávit, dicens: Hic calix novum Testaméntum est in meo sánguine. Hoc fácite, quotiescúmque bibétis, in meam commemoratiónem. Quotiescúmque enim manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat. Itaque quicúmque manducáverit panem hunc vel bíberit cálicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini. Probet autem seípsum homo: et sic de pane illo edat et de calice bibat. Qui enim mánducat et bibit indígne, iudícium sibi mánducat et bibit: non diiúdicans corpus Dómini.

(Fratelli: Io lo appreso appunto dal Signore, ciò che ho trasmesso anche a voi: che il Signore Gesù la notte che fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso le grazie, lo spezzò, e disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che sarà offerto per voi: fate questo in memoria di me. Parimenti, dopo aver cenato, prese il Calice, e disse: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. Tutte le volte che Lo berrete, fate questo in memoria di me. Poiché ogni volta che mangerete questo pane, e berrete questo calice, annunzierete la morte di Signore fino a che egli venga. Perciò chiunque mangerà questo pane, o berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso, e poi mangi di questo pane e beva di questo calice. Poiché chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna, non distinguendo il corpo del Signore.)

Né dagli uomini, né dagli altri Apostoli, dice s. Paolo, io so ciò che vi ho insegnato sull’Eucaristia; ma Gesù Cristo stesso me l’ha rivelato. Non lascia la circostanza del tempo; la notte stessa, dice egli, in cui il Salvatore fu tradito da uno dei suoi Apostoli, dato in mano de’ suoi nemici e trattato con la peggior crudeltà, istituì questo divin sacramento, pegno il più prezioso del suo amore, ed attestato il più splendido della sua tenerezza. Colà propriamente fu fatto il testamento di questo amabile Padre, col quale dà tutto se stesso ai suoi figli, poche ore davanti la sua morte. S. Paolo entra quindi in molte particolarità di quanto avvenne in quella sì meravigliosa istituzione. È da osservare che l’Apostolo e tutti gli Evangelisti hanno voluto raccontare fin le minime circostanze di tale istituzione. Il Salvatore prese il pane. Gesù Cristo non poteva prendere che pane senza lievito, il solo di cui era permesso servirsi nel fare la pasqua: onde con ragione nella Chiesa romana si consacra con pane azzimo. Egli ringrazia il Padre suo della potestà che gli ha comunicato; i quali atti di ringraziamento eran sempre il preludio quand’era per operare le meraviglie più straordinarie. Quindi avendo spezzato il pane che teneva in mano, disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, che sarà dato per voi. Non disse: prendete e mangiate questo pane; ma prendete e mangiate, questo è il mio corpo; la sostanza che Io vi offro sotto queste specie, è il corpo mio, non è più pane. Poiché il Verbo eterno, la stessa verità, dice: Questo è il mio corpo, siamone convinti, dice s. Giovanni Grisostomo, crediamolo senza esitanza, riguardiamolo con gli occhi di una fede viva. Questo è il mio corpo: tale è la virtù e la forza delle parole della consacrazione, di produrre, come causa efficiente, ciò che esse esprimono. Perché tali proposizioni si trovino vere, bisogna solamente che la cosa che esse indicano esista dopo che son pronunziate. Ciò che Gesù Cristo prese in mano, non era che pane; ma appena Egli ebbe pronunziate le parole: Questo è il mio corpo, tutta la sostanza del pane fu annichilata, ed in ciò che Gesù Cristo diede a mangiare ai suoi Apostoli non restò altra sostanza che il suo proprio corpo, il quale indi a poche ore doveva esser dato in mano ai suoi nemici, saziato d’obbrobri, flagellato e crocifisso. Non vi restavan del pane che le sole apparenze, cioè il colore, la figura, peso, il sapore, che si dicono comunemente specie. Nel Nuovo Testamento non abbiamo nulla di più formale, di più preciso, di meglio indicato che questa realtà del corpo? del sangue di Gesù Cristo nell’adorabile eucaristia. Ogni volta che si parla di questo divino mistero, o nel sesto capitolo di s. Giovanni, o in tutti gli altri Evangelisti, od in s. Paolo, sempre vi siparla di una presenza e di un mangiare realmente e corporalmente ilcorpo ed il sangue di Gesù Cristo. Il senso delle figure non vi entra affatto, anzi n’è escluso positivamente, poiché il corpo che Gesù Cristo dette a mangiare a’ suoi Apostoli era il medesimo, secondo la sua parola, di quello che abbandonava alle ignominie della sua passione e alla croce per riscattarci. Questo è il mio corpo, che sarà dato per voi. Ora senz’essere Manicheo, nessuno ardirebbe dire che il corpo del Figliuolo di Dio non è stato dato alla morte che in figura. Dal tempo degli Apostoli fino ai nostri giorni, tutta la Chiesa ha sempre creduto che il corpo di Gesù Cristo è realmente e veramente offerto in sacrifizio, distribuito ai Fedeli nella Comunione, e realmente presente nell’eucaristia; e noi non potremmo parlare della presenza reale di Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento in modo più chiaro, più formale, più preciso di quel che hanno fatto i Padri dei primi secoli. – Voi mi direte forse, dice s. Ambrogio, che questo pane che vi si dà a mangiare nella comunione è pane usuale e ordinario. È vero che prima delle parole sacramentali questo pane era pane; ma dopo la consacrazione, in luogo del pane si trova il corpo di Gesù Cristo. Ecco che deve essere indubitabile per noi. Ma come si può fare, continua il medesimo Padre, che ciò che è pane sia il corpo di Gesù Cristo? E risponde: Per la consacrazione, la quale non contiene, se non che le proprie parole Gesù. Cristo; poiché, prosegue egli, in tutto ciò che precede la consacrazione, il sacerdote parla in suo nome, quando loda e benedice il Signore, ovvero prega per il re e per il popolo; ma quando arriva alla consacrazione, il sacerdote non parla più in suo nome, ma Gesù Cristo medesimo che parla per la bocca del sacerdote. È dunque, a dir propriamente, la parola di Gesù Cristo medesimo che opera questo sacramento; quella parola, io dico, che dal nulla ha create tutte le cose. Egli ha parlato, continua il medesimo Padre, e tutte le cose sono state fatte; ha comandato, ed ogni cosa è uscita dal nulla. Or, prima della consacrazione, non vi era affatto il corpo di Gesù Cristo, non eravi che pane ordinario: ma dopo la consacrazione, io ve lo ripeto, non vi è più pane, ma è il corpo di Gesù Cristo. Se s. Ambrogio avesse avuto a rispondere ai Protestanti dei nostri giorni, avrebbe egli potuto parlare in modo più preciso e più chiaro? – S. Cirillo, patriarca di Gerusalemme, che viveva nel IV secolo, spiegando al suo popolo le principali verità della religione, gli dice: La dottrina di s. Paolo sul divino mistero dell’Eucaristia deve più che bastare a stabilir la vostra credenza circa un sì augusto sacramento. Questo grande Apostolo ci diceva nella lezione che avete udita, come la notte istessa che questo divin Salvatore doveva esser tradito, prese del pane, e rendute le grazie, lo spezzò e disse: Prendete e mangiate; questo è il mio corpo. E parimente prendendo il calice, disse: Bevete, questo è il mio sangue. Dopo dunque che Gesù Cristo ha detto del pane che aveva preso: Questo è il mio corpo, chi è che oserà di avere il minimo dubbio? E poiché il medesimo Gesù Cristo ha detto così affermativamente: Questo è il mio sangue, chi potrà mai dubitare di questa verità, e dire che non è realmente il suo sangue? E come! dice egli, colui che ha cangiato l’acqua in vino alle nozze di Cana, non meriterà che crediamo che Egli cangi il vino nel suo prezioso sangue? Sotto le specie del pane e del vino, continua il medesimo Padre, il Salvatore ci dà il suo corpo ed il suo sangue; in guisa che noi portiamo veramente Gesù Cristo nel nostro corpo, quando riceviamo il suo: Sic enim efficimur Christiferi, cum corpus ejus et sanguinem in membra nostra recipimus. I pani della proposizione dell’antico Testamento sono aboliti: noi non abbiamo nel Nuovo che questo pane celeste e questo calice di salute, i quali santificano l’anima e il corpo. E perciò, conclude egli, guardatevi bene dall’immaginarvi che ciò che vedete non sia che pane e vino: è realmente il corpo e il sangue di Gesù Cristo: bisogna che la fede corregga l’idea che ve ne danno i sensi. Guardatevi bene dal giudicarne con gli occhi o dal sapore, ma la fede vi renda certa e indubitabile questa verità, essere il corpo e il sangue di Gesù Cristo che voi ricevete. Queste sono le parole di s. Cirillo. Ecco quale è stata la fede dei primi Fedeli sull’eucaristia. Si è sempre creduto nella Chiesa, dal primo giorno della sua nascita fino a noi, che la sostanza del pane e del vino si cangi nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù Cristo: ed è ciò che la Chiesa chiama transustanziazione, cioè cangiamento di sostanza; e per la virtù onnipotente delle parole di Gesù Cristo, che il sacerdote pronunzia in nome del Salvatore, si opera questo portento. Se Dio poté cangiare la moglie di Lot in una statua di sale, la verga di Aronne in un serpente, e l’acqua in vino alle nozze di Cana, dicevano i Padri della Chiesa quando istruivano i novelli battezzati per la prima comunione, perché questo medesimo Dio non potrà cangiare il pane ed il vino nel suo sacro corpo e nel suo prezioso sangue nel sacramento dell’eucaristia? – Ogni volta che mangerete di questo pane, dice Gesù Cristo, e berrete di questo calice, annunzierete la morte del Signore, fino a tanto che Egli venga. Il sacrifizio incruento di Gesù Cristo non differendo che nel modo dal sacrifizio cruento del medesimo Salvatore, deve richiamare alla mente di quelli che vi partecipano, la memoria della morte di Gesù Cristo. Con queste parole: Fino a tanto che egli venga, s. Paolo ci mostra che il sacramento dell’eucaristia durerà sino alla fine del mondo. Chiunque, pertanto, mangerà di questo pane o berrà di questo calice indegnamente, dice il s. Apostolo, sarà reo di delitto contro il corpo e il sangue di Gesù Cristo. Questa espressione prova in modo convincente la presenza reale del corpo e del sangue di Gesù Cristo. Qual orrore non dobbiamo avere del peccato che commettono coloro, i quali fanno comunioni sacrileghe! non è un sacrifizio che essi offrono, dice s. Giovan Grisostomo, è un omicidio che commettono; non è un nutrimento che prendono, è un veleno. Colui che mangia questo pane e beve di questo calice indegnamente, mangia e beve la sua condanna, per la colpa di non discernere il corpo del Signore; cioè egli ha in se stesso la prova visibile del suo peccato; e il suo processo, per così dire, è bell’e fatto. Questo divin Salvatore è il suo giudice, questo pane di vita è il decreto della sua morte. Sacrilegio, tradimento, nera ingratitudine, crudele ipocrisia, quanti delitti in una sola Comunione fatta indegnamente! E quali ne sono gli effetti? Spessissimo l’induramento e l’impenitenza finale.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Graduale

Ps CXLIV: 15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno,

[Gli occhi di tutti sperano in Te, o Signore: e Tu concedi loro il cibo a tempo opportuno,]

V. Aperis tu manum tuam: et imples omne animal benedictióne. Allelúia, allelúia.

[Apri la tua mano: e colma ogni essere vivente della tua benedizione,]


Ioannes VI: 56-57
Caro mea vere est cibus, et sanguis meus vere est potus: qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo. Alleluia.

[La mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui. Alleluia.]

Sequentia
Thomæ de Aquino.

Lauda, Sion, Salvatórem,
lauda ducem et pastórem
in hymnis et cánticis.

Quantum potes, tantum aude:
quia maior omni laude,
nec laudáre súfficis.

Laudis thema speciális,
panis vivus et vitális
hódie propónitur.

Quem in sacræ mensa cenæ
turbæ fratrum duodénæ
datum non ambígitur.

Sit laus plena, sit sonóra,
sit iucúnda, sit decóra
mentis iubilátio.

Dies enim sollémnis agitur,
in qua mensæ prima recólitur
huius institútio.

In hac mensa novi Regis,
novum Pascha novæ legis
Phase vetus términat.

Vetustátem nóvitas,
umbram fugat véritas,
noctem lux elíminat.

Quod in coena Christus gessit,
faciéndum hoc expréssit
in sui memóriam.

Docti sacris institútis,
panem, vinum in salútis
consecrámus hóstiam.

Dogma datur Christiánis,
quod in carnem transit panis
et vinum in sánguinem.

Quod non capis, quod non vides,
animosa fírmat fides,
præter rerum órdinem.

Sub divérsis speciébus,
signis tantum, et non rebus,
latent res exímiæ.

Caro cibus, sanguis potus:
manet tamen Christus totus
sub utráque spécie.

A suménte non concísus,
non confráctus, non divísus:
ínteger accípitur.

Sumit unus, sumunt mille:
quantum isti, tantum ille:
nec sumptus consúmitur.

Sumunt boni, sumunt mali
sorte tamen inæquáli,
vitæ vel intéritus.

Mors est malis, vita bonis:
vide, paris sumptiónis
quam sit dispar éxitus.

Fracto demum sacraménto,
ne vacílles, sed meménto,
tantum esse sub fragménto,
quantum toto tégitur.

Nulla rei fit scissúra:
signi tantum fit fractúra:
qua nec status nec statúra
signáti minúitur.

Ecce panis Angelórum,
factus cibus viatórum:
vere panis filiórum,
non mitténdus cánibus.

In figúris præsignátur,
cum Isaac immolátur:
agnus paschæ deputátur:
datur manna pátribus.

Bone pastor, panis vere,
Iesu, nostri miserére:
tu nos pasce, nos tuére:
tu nos bona fac vidére
in terra vivéntium.

Tu, qui cuncta scis et vales:
qui nos pascis hic mortáles:
tuos ibi commensáles,
coherédes et sodáles
fac sanctórum cívium.
Amen. Allelúia.

[Loda, o Sion, il Salvatore,  loda il capo e il pastore,  con inni e càntici.
Quanto puoi, tanto inneggia:  ché è superiore a ogni lode,  né basta il lodarlo.
Il pane vivo e vitale  è il tema di lode speciale,  che oggi si propone.
Che nella mensa della sacra cena,  fu distribuito ai dodici fratelli,  è indubbio.
Sia lode piena, sia sonora,  sia giocondo e degno  il giúbilo della mente.
Poiché si celebra il giorno solenne,  in cui in primis fu istituito  questo banchetto.
In questa mensa del nuovo Re,  la nuova Pasqua della nuova legge  estingue l’antica.
Il nuovo rito allontana l’antico,  la verità l’ombra,  la luce elimina la notte.
Ciò che Cristo fece nella cena,  ordinò che venisse fatto  in memoria di sé.
Istruiti dalle sacre leggi,  consacriamo nell’ostia di salvezza  il pane e il vino.
Ai Cristiani è dato il dogma:  che il pane si muta in carne,  e il vino in sangue.
Ciò che non capisci, ciò che non vedi,  lo afferma pronta la fede,  oltre l’ordine naturale.
Sotto specie diverse,  che son solo segni e non sostanze,  si celano realtà sublimi.
La carne è cibo, il sangue bevanda,  ma Cristo è intero  sotto l’una e l’altra specie.
Da chi lo assume, non viene tagliato,  spezzato, diviso:  ma preso integralmente.
Lo assuma uno, lo assumino in mille:  quanto riceve l’uno tanto gli altri:  né una volta ricevuto viene consumato.
Lo assumono i buoni e i cattivi:  ma con diversa sorte  di vita e di morte.
Pei cattivi è morte, pei buoni vita:  oh che diverso esito  ha una stessa assunzione.
Spezzato poi il Sacramento,  non temere, ma ricorda  che tanto è nel frammento  quanto nel tutto.
Non v’è alcuna separazione:  solo un’apparente frattura,  né vengono diminuiti stato  e grandezza del simboleggiato.
Ecco il pane degli Angeli,  fatto cibo dei viandanti:  in vero il pane dei figli  non è da gettare ai cani.
Prefigurato  con l’immolazione di Isacco, col sacrificio dell’Agnello Pasquale,  e con la manna donata ai padri.
Buon pastore, pane vero,  o Gesú, abbi pietà di noi:  Tu ci pasci, ci difendi:  fai a noi vedere il bene  nella terra dei viventi.
Tu che tutto sai e tutto puoi:  che ci pasci, qui, mortali:  fa che siamo tuoi commensali,  coeredi e compagni dei santi del cielo.  Amen. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangéli secúndum S. Ioánnem.
Ioann VI: 56-59
In illo témpore: Dixit Iesus turbis Iudæórum: Caro mea vere est cibus et sanguis meus vere est potus. Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in illo. Sicut misit me vivens Pater, et ego vivo propter Patrem: et qui mandúcat me, et ipse vivet propter me. Hic est panis, qui de coelo descéndit. Non sicut manducavérunt patres vestri manna, et mórtui sunt. Qui manducat hunc panem, vivet in ætérnum.

[Gesù disse un giorno alle turbe della Giudea: « La mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, resta .in me, e Io in lui. Come il Padre vivente ha mandato me, e io vivo per il Padre; così chi mangerà da me, vivrà per me. Questo è il pane che discese dal cielo. Non come i vostri padri, che mangiarono la manna e morirono: chi mangia di questo pane, vivrà in eterno » (Giov. VI, 56-59). ]

OMELIA

(G. Bonomelli, Misteri Cristiani, vol. IV, Brescia. Tip. E Libr. Queriniana, 1896)

La presenza reale. — La parola della $S. Scrittura e la parola della tradizione.

Ragionando della Santa Eucaristia, troviamo sul nostro cammino due sorta di avversari, coi quali ci è forza combattere. Gli uni ci muovono incontro a nome della ragione e, atteggiandosi a vindici de’ suoi diritti imprescrittibili, levano alto la voce e fieramente gridano: – Il vostro dogma della presenza reale di Cristo viola tutte le leggi della natura, è il più manifesto insulto che si possa fare alla ragione: noi non possiamo, non dobbiamo ammetterlo. Per credere a questa vostra dottrina dovremmo cessare d’essere uomini, abdicare alla ragione e fare a Dio, che ce l’la data, il massimo degli oltraggi -. Sono questi i razionalisti antichi e moderni. Gli altri ci muovono incontro a nome della stessa fede e armati della Scrittura e della autorità della tradizione, ci dicono: – Voi non intendete né quella, né questa: voi fate dire a Cristo e alla tradizione ciò ch’essi non insegnarono: voi falsate i Libri Santi; voi fraintendete i Padri e la dottrina della Chiesa antica: la dottrina della presenza reale è dottrina vostra, introdotta più tardi, e come tale vuolsi sbandire -. Ai razionalisti antichi e moderni risponderemo nel Ragionamento seguente colle armi della difesa, che sono bastevoli all’uopo, né altre si possono esigere da noi là dove si tratta d’una dottrina, che eccede le forze tutte della natura e della ragione umana. Agli avversarii, che discendono in campo contro di noi colle armi della Santa Scrittura e della veneranda antichità cristiana, risponderemo usando delle stesse armi, e condizioni pari. Voi ci provocate sul campo della interpretazione biblica e patristica: di buon grado accettiamo la lotta e giudici della stessa siano i nostri lettori, e, osiamo dirlo, gli stessi nostri avversari onesti e leali. –  Vero è che codesti avversarii, che protestano di impugnare le sole armi della Scrittura, se bene sì guarda, sono alleati dei razionalisti e spesso senza confessarlo si schierano nelle loro fila e combattono colle loro armi stesse. Ma checché sia di queste occulte alleanze coi razionalisti, noi qui accettiamo il duello sul terreno, sul quale ci sfidano. Essi dicono: – I Libri Santi del Nuovo Testamento intesi a dovere non istabiliscono la dottrina della presenza reale -. Noi diciamo precisamente il contrario: – I Libri Santi del Nuovo Testamento intesi a dovere stabiliscono ad evidenza la dottrina della presenza reale -. Essi dicono: – I Padri della Chiesa antica stanno per noi -. Noi diciamo: – Essi stano contro di voi e per noi -. Alla prova. È questione di semplice interpretazione e non difficile -. Sono tre Evangelisti, Matteo (XXVI, 26-28), Marco, (XIV, 22), Luca (XXXII, 19 e seg.) e l’ Apostolo Paolo (1° Cor., XI, 23 e seg.), i quali tutti, narrando la cena ultima di Nostro Signore, riferiscono colle identiche parole l’istituzione della Santa Eucaristia: « Questo è il mio corpo – Questo è il mio sangue ». Sulla autenticità ed integrità di queste parole per noi Cattolici come pei Protestanti di tutte le comunioni non esiste ombra di dubbio: perfettissimo è il consenso. Ciò posto ci sembra di poter ragionare in questa forma: Se le parole pronunciate da Cristo sul pane, che teneva in mano: « Questo è il mio Corpo » e sul vino, ch’era nel calice: « Questo è il mio sangue » si devono intendere nel loro senso proprio e naturale per modo che il corpo significhi il corpo e il sangue significhi il sangue e non altro, è chiaro che la presenza reale è messa fuori d’ogni dubbio. Or bene: il più volgare buon senso vuole che alle parole si dia quel significato che loro è proprio e naturale semprechè non vi sia necessità manifesta di darne uno metaforico e figurato. Qui nostro Signore dice che quel pane è il suo Corpo e quel vino è il suo Sangue: con qual diritto gli muteremo noi le parole in bocca, facendogli dire: – Questo pane è figura del mio corpo – Questo vino rappresenta il mio sangue. – Questo pane contiene la virtù del mio corpo – Questo vino racchiude la efficacia del mio sangue? – Se le parole corpo e sangue usate da Nostro Signore non si doveano prendere alla lettera per Corpo e sangue, perché mai Cristo non lo disse, o almeno non lo lasciò capire in modo indiretto? Perché mai i quattro Scrittori ispirati con un consenso veramente singolare ripetono quelle parole: « Questo è il mio corpo – Questo è il mio sangue? » Perché l’uno o l’altro per togliere i pericoli dell’errore, per dissipare il dubbio, ch’è troppo naturale in cosa sì nuova e al tutto inaudita e nemmeno immaginabile, non disse: – Questo pane figura il mio corpo – Questo vino è l’immagine del mio sangue? – Ci voleva sì poco per chiarire la verità! La qual cosa, poi era tanto più naturale quantochè non è raro il caso, in cui gli Evangelisti trovano conveniente spiegare il senso di alcune espressioni meno oscure e meno gravi di queste. S. Giovanni dopo aver riferite le parole di Cristo dette agli Ebrei: « Sciogliete questo tempio » crede bene aggiungere: – Ciò diceva del tempio del suo corpo -. Dopo aver riferito quelle altre: « Chi ha sete venga a me e dal suo seno scorreranno rivi » spiega la cosa e dice: – Questo Gesù diceva dello Spirito Santo, che i credenti avrebbero ricevuto -. E un altro Evangelista, riportata la frase di Cristo: « Guardatevi dal lievito dei farisei » la chiarisce, dicendo: – Che è l’ipocrisia -. Perché dunque nessuno dei quattro sacri Scrittori ebbe cura di far capire con una sola parola, con un solo cenno indiretto, che le parole corpo e sangue pronunciate da Gesù doveansi intendere in senso improprio e figurato? Perché questo senso non vi era e doveansi intendere nel loro senso proprio e comune di vero corpo e di vero sangue! – Oltrecchè noi apprendiamo dallo studio degli Evangelii e dalle Lettere di S. Paolo, che sono ben poche quelle verità e quelle istituzioni di Cristo, che siano riferite unanimemente colle stesse parole dagli Evangelisti e da S. Paolo: non lo stesso dogma della Santissima Trinità, non il Battesimo, non il Primato di Pietro, non la Confessione e andate dicendo: la sola istituzione della Santa Eucaristia è narrata da tre Evangelisti e da S. Paolo, senza mutarne una sillaba, e da Giovanni riportata a lungo perché omessa dagli altri. Perché tanta cura e consenso in riferirla con le stesse parole? Certamente perché cosa di suprema importanza. Ora vi domando: se l’Eucaristia non è che il simbolo del corpo e del sangue di Cristo, od una cotal sua virtù, sarebbe essa una gran cosa? Sarebbe meno del Battesimo, meno della Confessione e del Primato di Pietro. Dunque l’Eucaristia non è, non può essere una povera figura del corpo e del sangue di Cristo; ma sì la realtà e verità della sua presenza. Senza di che è da osservare che un linguaggio metaforico e improprio nel parlare comune non si usa, né si deve usare se non si può facilmente intendere, massime se si parla a gente poco istruita e di grosso intendimento: e se pure si vuole usare, ogni ragion vuole che accuratamente si spieghi per non indurre in errore gli uditori. Ora presso gli Ebrei era forse in uso che il pane indicasse il corpo, e che il vino indicasse il sangue? No, per fermo: nessuno pigliava il pane come segno del corpo e il vino segno del sangue. Gesù Cristo adunque non poteva usare quella metafora affatto ignota e meno ancora doveva usarla cogli Apostoli sì tardi ad intendere le cose più comuni fino a confondere il lievito della dottrina con quello del pane; fino a non comprendere; che non sono i cibi presi materialmente quelli che macchiano l’anima e a provocare quel duro rimprovero, che Gesù rivolge loro. La volle usare? Lo poteva, ma a patto di spiegarla in guisa che capissero essere figura e non realtà e per conseguenza dovea dire o far dire agli Evangelisti: – Questo è il mio corpo, cioè figura del mio corpo – Questo è il mio sangue, cioè figura del mio sangue -. Nol disse, non lo fece dire, non lo spiegò, non lo fece spiegare: ragion vuole che pigliamo le sue parole quali sono e che il corpo sia il corpo, e il sangue sia il sangue. – Direte voi che la evidente impossibilità della cosa costringeva gli Apostoli a dare alle parole di Cristo un senso figurato? Rispondo: Gli Apostoli Sapevano che Cristo era Dio; avevano visto tante meraviglie, tanti e sì splendidi prodigi operati da Lui: un anno prima aveano udita dalla sua bocca la promessa di ricevere un giorno la sua carne in cibo e la sua bevanda in sangue: ricordavano lo scandalo suscitato da quella promessa con tanta asseveranza affermata e le proteste di Pietro a nome di tutti di credere alle sue parole: sapevano imminente la morte del divino Maestro e udivano da Lui stesso, essere quello il suo Testamento: come non dovevano credere, essere quello il compimento della promessa avuta, il suggello del suo amore e perciò, non una semplice figura (cosa insignificante), ma la verità del suo corpo? A Lui, che aveva mutato l’acqua in vino, che aveva risuscitato Lazzaro: a Lui questo pure era possibile e perciò potevano, anzi dovevano interpretare il linguaggio di Cristo nel senso che aveva e che importava un grande miracolo. Ma se l’Eucaristia non era che una figura del suo corpo, non era miracolo e si riduceva ad una prova di amore della più lieve importanza di gran lunga inferiore a tante altre per essi ricevute. Ne è da dimenticare il tempo, l’ora, in cui Gesù compiva quell’atto e pronunciava quelle parole. Era quella l’ultima cena, che Gesù faceva co suoi cari: pochi momenti lo separavano dalla sua passione: vedeva i suoi nemici raccolti a consiglio e deliberanti sul modo e sul luogo di impadronirsi della sua Persona: vedeva al suo lato il traditore, che l’aveva venduto: tratto tratto il suo volto si oscurava e una mortale angoscia affannava l’anima sua e non la nascondeva a’ suoi cari: il suo cuore si apriva come un padre amoroso, che sta per abbandonare i suoi figli, e dalle sue labbra cadevano parole d’una confidenza, d’un affetto, d’una tenerezza, che gli stessi Apostoli non avevano mai udito le eguali: essi pure ne erano stupiti. E voi potete immaginare che in quella espansione ineffabile d’una tenerezza ineffabile Gesù pensasse a darne la prova a tutti i secoli venturi con questa espressione inintelligibile: – Sappiate che in questo pane vi lascio il simbolo del mio corpo, e in questo vino il simbolo del mio sangue? -. Si può dare idea più strana, trovato più inesplicabile, e vorrei dire più ridicolo di questo? In quei momenti solenni poteva tenere un linguaggio più oscuro? Eppure era allora che i poveri Apostoli, scossi dalle sue parole sì chiare e sì piene d’amore, esclamavano: « Ecco, ora parli chiaramente e non dici parabola alcuna: ora sappiamo che conosci tutte le cose e non hai bisogno che altri ti interroghi ». (Giov. XVI, 29, 3). Allora adunque il linguaggio di Cristo era chiaro, netto, sciolto da figure e metafore. Come lo sarebbe stato se le parole della consacrazione, senza spiegazione di sorta, intese come una metafora, erano un enigma? E non è tutto: è un fatto storico indubitato che gli Apostoli, i primi Cristiani, la Chiesa tutta fino al secolo XVI intesero le parole di Cristo nel loro senso proprio ed ovvio: appoggiati a quelle parole essi credettero sempre e tutti e fermamente la presenza reale di Cristo nella Eucaristia. (Nel secolo XI, Berengario, forse il primo, intese le parole di Cristo in senso figurato: fu combattuto e condannato e si ritrattò. Da Berengario a Zuinglio nessuno più, che si sappia, pensò a quella interpretazione). Possibile che tanti uomini, sì pii e sì dotti, per tanti secoli, gli stessi Apostoli, che udirono quelle parole dalle labbra di Cristo, non le intendessero e cadessero nell’enorme errore di credere presente Cristo nella Eucaristia, mentre non lo era, di adorare un po’ di pane e di vino in luogo dell’Uomo-Dio? E allora a che si ridusse per tanti secoli l’opera di Cristo? E più ancora. Noi tutti Cattolici e protestanti siamo unanimi nel professare che Gesù Cristo è Dio-Uomo. Come Dio-Uomo, Egli conosceva tutto, non occorre il dirlo. Allorchè adunque sedeva a mensa con i suoi Apostoli, in quell’ultima sera e, porgendo loro il pane e il vino; diceva: « Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue », lo sguardo suo onniveggente penetrava nelle menti loro e spaziava su tutti i milioni e miliardi di credenti futuri: e che vedeva? Vedeva tutti questi credenti, pieni d’amore per Lui, pronti a dare la vita per Lui, e moltissimi l’avrebbero data in mezzo ai tormenti, cader vittime d’un errore grossolano, d’una superstizione incredibile, d’una idolatria, che non ha l’eguale nella Storia dell’umanità, quella di adorare il Pane e il vino! Vedeva che la causa od occasione di tanta aberrazione proveniva da quelle sue quattro parole, intese alla lettera e ciò per la fede smisurata nella sua potenza e per l’ardentissimo amore, che faceva loro credere possibile tanto miracolo: vedeva che sostituendo a quella sola parola, la parola rappresenta o figura, sarebbesi cessato l’immenso errore e la detestabile superstizione: come credere che non l’avrebbe voluto impedire? Come immaginare che non volesse dire quella parola, che spiegava la verità e rendeva facilissima la fede nell’incomprensibile mistero? Per me, lo confesso altamente, non saprei concepire come Gesù, l’amabile maestro, sempre pronto a rischiarare la verità, ad istruire i suoi Apostoli, a togliere ogni dubbio anche in cose di poco momento, potesse permettere col tacere sì falsa e sì empia interpretazione delle sue parole e proprio allora che faceva il suo Testamento ed era per immolare sé stesso a loro salvezza. Dare per essi la vita sulla croce e rifiutare una parola che bastava a dissipare l’errore! è possibile? – S. Luca e S. Paolo alle parole di Cristo: « Questo è il mio corpo » fan seguire quest’altre: « Che è dato per voi – Che si spezza per voi. – Questo è il calice del mio sangue – Che si sparge per voi ». Ora si chiede: se è il pane che si dà o si spezza; se è il vino che sì versa per la salvezza degli uomini, oppure il corpo e il sangue di Cristo? La risposta non può essere dubbia: dunque quel pane che si spezzava e si dava: quel vino, che si porgeva, erano veramente il corpo e il sangue di Cristo. Se così non fosse, le parole di Lui non avrebbero senso, o l’avrebbero sacrilego. – Scorrendo gli Evangeli ci si presenta un fatto degno di considerazione. Delle verità e delle istituzioni capitali si parla più volte e si annunziano prima di proclamarle e stabilirle definitivamente. Così il Battesimo, la fondazione della Chiesa, l’istituzione del Primato di Pietro, la Missione degli Apostoli, la sua passione, la sua morte e la sua risurrezione, Cristo più e più volte annunziò, predisse e promise agli Apostoli chiaramente all’intento di preparare gli animi a credere e disporli alle dure prove, che li attendevano. Ma, non esito ad affermarlo, nessuna verità, nessuna istituzione Egli annunziò, predisse e promise con tanta chiarezza, con tanta forza e direi quasi con tanta durezza quanto l’Eucaristia. E potremo noi credere, dopo sì solenne annunzio e promessa di Cristo, che l’Eucaristia si riduca ad un simbolo, ad una figura, che è la cosa più facile a concepirsi, che esclude ogni mistero ed è priva d’ogni importanza reale? A voi il giudizio. – Intanto consideriamo in ogni sua parte la promessa della Eucaristia, che si legge nel capo VI del Vangelo di S. Giovanni che avvenne un anno circa prima della istituzione. L’Evangelista narra il miracolo della moltiplicazione dei pani, che fu operato il dì innanzi alla promessa. Evidentemente Gesù Cristo fece quel miracolo per aprirsi la via a parlare della Eucaristia e con esso ottener fede al miracolo senza confronto più grande della presenza reale. Seguiamo il discorso di Cristo. Dopo aver inculcata la necessità della fede e di nutrirsi d’un altro pane, migliore della manna del deserto, pane che dà la vita, continua e apertamente dice qual sia codesto pane: « Il pane, che io vi darò, è la mia carne, che dà la vita al mondo ». Gesù parla di pane, che darà: dunque non è la fede, perché questa allora si esigeva e non pel futuro. Che pane è desso? Lo dice Egli stesso in termini: « Il pane che vi darò è la mia carne ». È forse la grazia? No, perché in tutti i Libri Santi non troverete che Gesù Cristo abbia chiamato carne sua la sua grazia. Sarebbe stato un linguaggio non più udito, non inteso, perché oscurissimo e da Lui non ispiegato. Ed è sì vero che quella parola carne pronunciata da Cristo tornava strana e nuova agli uditori tutti, compresi certamente gli stessi Apostoli, che nacque tra loro contesa e dicevano gli uni agli altri: « Come può costui darci a mangiare la sua carne? ». Erano dunque persuasi che Gesù parlava della sua carne, che si doveva mangiare per avere la vita eterna, e non di un pane figurato o di qualsiasi cibo spirituale. Gesù intese che gli uditori suoi contendevano sul significato delle sue parole e precisamente sulla carne, che si doveva mangiare. Che fa egli ogni maestro degno di questo nome, allorché si accorge che le sue parole, o non sono intese, o sono malamente fraintese? S’affretta a spiegarne il senso, e se nol fa, fallisce al suo dovere, incorre giustamente il biasimo delle persone oneste e l’errore dei discepoli a ragione si imputa al maestro. Gesù era il Maestro per eccellenza; il suo linguaggio era sempre d’una semplicità incomparabile: ogni qualvolta i discepoli non lo comprendevano non disdegnava di spiegarsi meglio, adoperando i termini e le immagini più comuni. Il Vangelo è là a provarlo. Che doveva dunque egli fare Gesù allorché udì quel lamento: – Come può Costui darci a mangiare la sua carne? – Essi evidentemente avevano inteso che parlasse, non di fede, non di grazia, non di pane figurato, ma propriamente della sua carne. Come Maestro pieno di bontà, compatendo la loro ignoranza, doveva subito correggere il loro errore e dire: – Voi errate: io non parlo della mia carne, che dovete mangiare, no: io parlo della fede, che dovete avere in me, che deve essere il vostro cibo: parlo del pane, che un giorno vi darò e voi piglierete come figura del mio corpo -. Ogni difficoltà si dileguava dalla mente degli uditori. È così che Gesù parla? Udite. Con atteggiamento pieno di autorità, che non ammette replica, risponde: « In Verità, in verità vi dico, che se voi non mangiate la carne del Figliuolo dell’uomo e non bevete il suo sangue, voi non avrete la vita in voi! » Come, o divino Maestro? Questi uditori e discepoli non sanno comprendere come sia possibile, che voi diate loro a mangiare la vostra carne e ve ne chiedono la spiegazione, e voi raddoppiate la difficoltà, affermando che devono bere il vostro sangue? E voi sapete come la legge Mosaica, di cui sono gelosi osservatori, vieti loro severamente bere il sangue sotto qualsiasi forma? Se questi vostri uditori e discepoli non comprendono il vostro linguaggio, benigno come siete, spiegatelo: se colla parola carne e sangue intendete la figura o la virtù della vostra carne e del vostro sangue, o la grazia, o la fede, o ciò che a voi meglio piace, non vogliate tormentare e quasi opprimere le corte loro menti: parlate, parlate più chiaro: basta una sola parola!…. Nulla di tutto ciò. Gesù ribadisce la stessa cosa e dopo avere affermato con una forma solenne, quasi di giuramento: « In verità, in verità vi dico » continua e dice: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno ». Bastava questa sentenza, che è la ripetizione della antecedente. Eppure a Gesù non basta ancora e prosegue: « Perché la mia carne è veramente cibo ed il mio sangue è veramente bevanda ». La frase è ad un tempo ripetizione e spiegazione delle altre: ripetizione, perché troviamo sempre le parole carne e sangue; spiegazione, perché dice che la sua carne è ordinata ad essere cibo, il suo sangue bevanda e solo chi mangia di questa carne e beve di questo sangue si unisce a Lui, e rimane in Lui. Poteva esprimersi con maggiore chiarezza ed asseveranza? Sei volte Gesù ripete la parola mangiare, cinque volte la parola carne, quattro volte la parola bere, e quattro pure la parola sangue: non una sola volta le parole figura, segno, virtù od altra equivalente, che lasci anche solo da lungi sospettare, non trattarsi veramente della carne e del sangue adorabile del Figliuol di Dio. È dunque ragionevole, è necessario pigliare le parole di Cristo nel loro senso comune e naturale, perché così Cristo volle e non altrimenti: dunque nella Santa Eucaristia è veramente, realmente e sostanzialmente presente il corpo e il sangue di Gesù Cristo. Egli lo disse e come disse deve essere. Né è da omettere un ultimo argomento, che getta una luce ancor più viva sul senso delle parole di Cristo, che avete udite. S. Giovanni, che contro il suo costume si diffonde su questo fatto, scrive: – Che molti dei discepoli, udito il discorso di Gesù, dissero: « Questo parlare è duro; chi può ascoltarlo? » (È noto che S. Giovanni nel suo Vangelo è più sollecito di riferire le parole e la dottrina di Cristo che i fatti: questi sono pochi assai. Eppure su questo fatto, sia nei precedenti, sia nei conseguenti si diffonde. E perché duro? Senza dubbio è duro, perché non sanno comprendere come Gesù possa dare qual cibo la sua carne e qual bevanda il suo sangue. Non vi sarebbe nulla di duro se quel pane e quel vino fossero figura del corpo e del sangue di Cristo, o ne contenessero la misteriosa virtù. Dunque quei discepoli intendevano le parole di Cristo come noi ora le intendiamo. Ponete che tale non fosse il senso vero delle sue parole: non era dovere di Cristo rettificarlo? Che fa Egli? Udendo il bisbiglio de’ suoi discepoli, con accento ancora più risoluto, a Lui insolito co’ suoi cari, dice: « Ciò che vi ho detto vi scandalizza – e non lo potete credere? Che sarà allorché vedrete il Figliuol dell’uomo salire là dov’era prima? Allora sarà anche più difficile il comprenderlo; eppure lo dovrete credere ». A quelle parole alcuni dei discepoli non ressero: gli volsero le spalle e l’abbandonarono. A quella vista Gesù mutò forse linguaggio? Temperò forse le sue espressioni? Disse forse: – Badate ch’io parlo della fede, della figura del mio corpo e del mio sangue. Che difficoltà trovate voi che nell’Agnello pasquale avete già la figura mia? – Nulla di tutto ciò: con volto austero, e parola vibrata si rivolse ai dodici Apostoli, che gli facevano corona, e disse: « Volete andarvene voi pure? – Se non volete credere a ciò che vi ho detto, andatevene: non muto sillaba ». Quelli rimasero e Pietro a nome di tutti uscì in quella nobilissima protesta: « Signore, a chi ce ne andremo? Tu hai parole di vita eterna ». Fratelli! Un’ultima osservazione, che mi sembra di grandissimo peso. Dopo il discorso di Cristo, avviene una divisione tra’ suoi discepoli, come avete udito. Rimangono fedeli a Lui quelli che credono alle parole sue, quelli cioè che credono doversi mangiare la sua carne e bere il suo sangue per avere la vita eterna: l’abbandonano quelli che non possono e non vogliono ammettere tanto miracolo e che certo non avrebbero avuto difficoltà a rimanere con Lui e credere quando si fosse trattato d’una semplice figura del corpo e del sangue di Cristo. Ora’ se Cristo nelle sue parole non istabiliva la presenza reale del suo corpo, ma solo la figura o la virtù sua, quale ne sarebbe stata la conseguenza? Questa e non altra: Cristo avrebbe ritenuto presso di sé e tenuti come suoi discepoli fedeli quelli, che non comprendevano le sue parole e cadevano in un gravissimo errore e lasciava che da Lui partissero quelli, che avevano compreso il suo linguaggio e se ne andavano per non voler ammettere un errore grossolano, che il Maestro condannava. Possiamo noi dar luogo ad una ipotesi sì assurda ed empia? Eppure, se noi accettiamo l’interpretazione protestante, la conseguenza è inevitabile: rimasero con Cristo gli erranti, lo abbandonarono quelli che respingevano l’errore e Cristo non solo permise, ma volle sì manifesta contraddizione! Ve lo dissi più sopra: quanto alla istituzione della Santa Eucaristia, S. Paolo, quasi dimenticando l’indole d’una lettera, assume il carattere di Evangelista e la narra distesamente colle stesse parole di S. Luca, suo discepolo. Ma, riferito il fatto della istituzione, come voleva il suo scopo, scostandosi dagli Evangelisti, discende alla applicazione morale e scrive: « Chi riceve indegnamente l’Eucaristia si fa reo del corpo e del sangue di Lui ». Reo di lesa maestà è colui che direttamente offende la persona del principe, non mai chi fa ingiuria alla sua immagine: nella Eucaristia adunque si contiene, non la figura o la virtù di Cristo, sebbene la persona sua stessa. E poi i Protestanti condannano il culto delle immagini quasi un ritorno alla idolatria: come dunque nella Eucaristia riconoscerebbero una figura e tal figura del corpo di Cristo, che chi fa onta a questa, la faccia a Cristo istesso? – Vuole l’Apostolo che chiunque mangia del pane Eucaristico e del vino del calice, prima metta a prova se stesso; cioè scruti la sua coscienza e se la trova rea di colpa, o si astenga dalla Eucaristia, o se ne mondi. Se l’Eucaristia non fosse che la figura del corpo di Cristo sarebbe egli necessario premettere l’esame di coscienza e purificarla col dolore? Quando mai si disse non potersi contemplare il Crocifisso da chi si trova in peccato e il contemplarlo in peccato essere sacrilegio? Eppure S. Paolo insegna che chi riceve l’Eucaristia in peccato mangia e beve la sua condanna eterna. E perché? Perché, risponde l’Apostolo, non distingue il corpo del Signore – Non diiudicans corpus Domini -. Dunque vi è pane e pane; il pane comune, e il pane Eucaristico, che è il corpo del Signore. Qual prova che questo pane non è, non può essere una nuda figura, ma la verità del corpo di Cristo? Fratelli! Penso che codesta lunga dimostrazione biblica della presenza reale di Cristo nella Santa Eucaristia vi abbia recato noia e fastidio. Ma poteva io passarmene? Poteva io tenere in nessun conto la interpretazione protestante sopra questo capitolo della nostra fede? La mia sarebbe stata una colpa e quasi dissi una implicita confessione di impotenza in faccia ai nemici della presenza reale, che ci si fanno innanzi coi Libri Sacri alla mano e si vantano di tenerne essi soli la chiave. – Ma la dimostrazione cavata dalla Bibbia, tuttoché perentoria, sarebbe imperfetta quando non fosse avvalorata dalla autorità del Magistero della Chiesa, che ne è il riflesso e l’interprete infallibile. La verità rivelata è simile al seme: deposto nei Libri Santi, cresce e vigoreggia, quasi albero lussureggiante, nella Chiesa. Mi duole, o fratelli, dovervi spiegare sotto gli occhi la fede della Chiesa Cattolica dei primi secoli nel dogma della presenza reale, fede, che si manifesta in mille forme svariatissime: dico, mi duole, perché vi obbligo ad udir cose già conosciute e l’udirle ripetere non è senza molestia. Ma è una necessità dell’ordine ed io mi studierò di rendervi men grave quest’ultima parte colla maggiore brevità possibile e col ridurre a pochi capi tutto l’insegnamento della veneranda antichità cristiana per ciò che spetta alla presenza reale di Cristo nella divina Eucaristia, Svolgiamo i cento volumi, nei quali i Padri della Chiesa da S. Ignazio martire fino a S. Bernardo, nel corso non interrotto di undici secoli deposero il tesoro della fede, che gli Apostoli raccolsero dalla bocca di Cristo stesso: svolgiamo tutti i libri liturgici, la cui origine risale alla culla del Cristianesimo, di tutti i riti, di tutte le Chiese d’Oriente e d’Occidente, non escluse le separate da noi, di tutte le lingue: interroghiamo tutte le memorie cristiane antiche, scolpite sui monumenti in pietra, in cristallo, in bronzo, in argento, in oro, nei templi, sui sepolcri, sulle pareti delle Catacombe; dipinte sulle tavole, sugli indumenti sacri: in una parola interroghiamo tutta l’antichità cristiana in tutti gli angoli della terra, ed essa colle mille sue lingue, colle quali professa la sua fede, ci risponderà, che sempre, dovunque e unanimemente e fermissimamente ha creduto, nella Eucaristia contenersi l’Uomo-Dio, il Figlio di Dio e della Vergine, Gesù Cristo, il Salvatore del mondo. Odo la gran voce dei Padri, che salutano il Sacramento Eucaristico come il Sacramento dell’unione con Dio, della nostra consumazione con Lui, come il Sacramento dei Sacramenti, il mistero santo, il mistero terribile, il mistero tremendo, il mistero adorabile, il mistero dell’amore e della fede, la sorgente della vita, la prova suprema della carità divina, il Sacramento, nel quale Gesù Cristo diè fondo alle ricchezze infinite della sua bontà. — Riducete l’Eucaristia ad una figura, a non so quale comunicazione della virtù propria al corpo di Gesù Cristo: quel linguaggio dei Padri non ha senso, è una esagerazione intollerabile: ammettete la presenza reale e diventa l’espressione rigorosa e propria della verità. – Odo la gran voce dei Padri, che gridano: In questo Sacramento non badate ai sensi: la loro testimonianza vi inganna: ascoltate la fede, la sola fede: essa supplisce agli occhi, al tatto, al gusto: essa è tutto: qui bisogna fermare la nostra mente sulla parola di Cristo. – Perché questo linguaggio si usa dai Padri parlando della sola Eucaristia e sempre a preferenza della sola Eucaristia? Perché l’Eucaristia è il culmine dei misteri cristiani, a tutti sovrasta i Sacramenti e a tutti sovrasta, perché se gli altri racchiudono, conferiscono la grazia di Cristo, questo contiene Cristo stesso. Pensatevi finché vi piace, voi non vedrete altra ragione della sua eccellenza sopra il Battesimo, porta della Chiesa e sulla stessa Ordinazione, partecipazione del sovrano Sacerdozio di Cristo. – Odo la gran voce dei Padri, che mi assicurano, per la Santa Eucaristia, noi, venuti tanti secoli dopo Cristo, essere fatti contemporanei di Cristo, possederlo com’essi lo possedevano, vederlo, toccarlo com’essi lo vedevano e toccavano – Perché nessun Padre mai usò espressioni come queste, ragionando degli altri Sacramenti? A voi la risposta. – Odo la gran voce dei Padri, che mi dicono: nella Eucaristia il pane si muta, si converte, si trasforma, diventa il corpo di Cristo e il vino nel sangue di Lui. Non basta: mi dicono che, come il fango per virtù divina si mutò nel corpo di Adamo e l’acqua alle nozze di Cana fu fatta vino, e il cibo, che noi pigliamo diventa nostro sangue e nostra carne, così il pane ed il vino, posti sull’altare, alla voce del Sacerdote si trasformano nel corpo e nel sangue di Cristo. È egli possibile intendere queste parole tante volte ripetute e inculcate dai Padri, rigettando la presenza reale e la transustanziazione? – Odo la gran voce dei Padri, che predicano, l’Eucaristia essere l’opera della onnipotenza divina: Quegli solo poterla produrre, che disse e tutto fu fatto. Se noi non vi vediamo che un nudo ricordo, una figura di Cristo, dov’è il bisogno della sua onnipotenza? Chi di noi non può creare un simbolo e lasciare dopo di sé una memoria, che rammenti la nostra esistenza, o qualcuna delle opere nostre? – Odo la gran voce dei Padri, che nelle forme più chiare ed energiche insegnano, nella Santa Eucaristia essere veramente, realmente, propriamente, certamente tutto Cristo qual fu sulla terra ed ora è in cielo: non in figura, non in apparenza, non per ombra, ma nel suo vero corpo e sangue: che nella Eucaristia Egli si unisce a noi e noi a Lui: che il suo sangue si confonde col nostro: che le nostre labbra e la nostra lingua rosseggiano di esso; che il nostro corpo si impingua del suo: che Gesù Cristo è lì sull’altare come sulla croce: che l’altare diviene il cielo: che il Sacerdote lo tiene tra le sue braccia come tra le sue lo teneva la Vergine benedetta: che gli Angeli fanno corona all’altare, adorando il loro Re: che in questo Sacramento Gesù fa ciò che non fanno molte madri coi loro bambini, perché queste li danno a nutrire a donne estranee e Quegli ci nutre delle sue carni, ci abbevera del suo sangue. – Odo la gran voce dei Padri, che mi insegna, Gesù aver nascosto il suo corpo sotto i veli eucaristici per esercitare la nostra fede, perché più fidenti ci avviciniamo a Lui, perché lo possiamo ricevere dentro di noi. Se non fosse nascosto sotto le specie del pane e del vino, come potremmo noi avvicinarci a Lui, sostenere il fulgore della sua luce e albergarlo ne’ nostri petti? Odo la gran voce dei Padri, che non esitano ad asserire, che le parole di Cristo: – « Questo è il mio corpo – Questo è il mio sangue » – sono chiare, manifeste, indubitate: che non hanno bisogno di spiegazione; che si hanno da prendere come suonano, perché Egli è onnipotente: Egli l’ha detto e basta: che dobbiamo guardarci dallo scrutare tanto mistero: qui la ragione deve tacere, devono ammutolire i sensi e al loro luogo comandare la fede, la sola fede, se non vogliamo errare. Gran cosa! Leggo i Padri e trovo, che mi dicono: – Bada bene: se i Libri Santi insegnano, che Dio sì pente, che Dio si sdegna, che Dio cammina, che Dio ha occhi e orecchi, che Dio odia; tu non devi credere che Dio veramente si penta, che Dio si sdegni, che Dio cammini, che Dio abbia occhi e orecchi, che Dio odii: nulla di tutto questo può essere in Dio, infinita perfezione. I Libri Santi parlano così perché a te, uomo soggetto ai sensi, non possono parlare altrimenti. — Perché questi Padri stessi, parlando dell’Eucaristia e commentando le parole di Cristo: « Questo è il mio corpo – Questo è il mio sangue » non hanno cura di avvertirmi: – Poni ben mente: il corpo di Cristo, di cui qui si parla, non è il suo vero corpo; il sangue non è il suo sangue: ma sono l’uno e l’altro figurati nel pane e nel vino, che vedi -. E sì qui maggiore era la necessità di spiegare la cosa che non là dove si parla di Dio, perché ciascuno intende da sé che quelle imperfezioni disdicono a Dio, natura semplicissima e perfettissima, dovecchè nell’Eucaristia si parla di corpo, sotto corporee specie e questa metafora del pane e del vino significanti il corpo e il sangue di Cristo non s’era udita sulla terra e non ispiegata confondeva necessariamente tutte le menti. –  Finalmente odo la gran voce dei Padri, che a tutti i credenti intimano: – Piegate il ginocchio, chinate la fronte, e nella Santa Eucaristia, nel tempio, sulle vie, in pubblico, in privato, dovunque la trovate, nelle mani del Sacerdote, del Vescovo, del Papa, fosse anche nelle mani d’un laico, non importa, adoratela -. Perché? – Perché in essa è il Figlio di Dio, Gesù Cristo, in corpo, sangue, anima e Divinità -. È a questa voce dei Padri, della Chiesa Cattolica, che riempie i secoli e lo spazio, fanno eco le Chiese, che lo scisma e l’eresia divelsero dalla nostra, la Chiesa Inglese e la Luterana stessa, la Russa e la Foziana, l’Armena e la Nestoriana e la Eutichiana. Quale concento meraviglioso, o fratelli! E tutti costoro, pastori e fedeli, maestri e discepoli, sarebbero caduti nell’errore? Che dico nell’errore! Nella più turpe idolatria? Se così fosse, avrei tutto il diritto di rivolgermi a Cristo e dirgli: – O Figlio di Dio, venisti sulla terra per stabilire il tuo Regno, per fondare la tua Chiesa, e formarti di essa una sposa fedele senza macchia e senza ruga: per essa Tu versasti il sangue e nel suo seno versasti i tesori tutte delle tue grazie: Essa dichiarasti Maestra infallibile e quelli sono tuoi figli ch’Essa ti genera. Ora dov’è questa tua Chiesa? Questa tua sposa? Questa continuatrice dell’opera tua? Questa salvatrice dell’uman genere? Dov’è questa lucerna inestinguibile, che Tu accendesti e collocasti sul monte, perché illuminasse le vie della vita? Essa è spenta: Essa non è più: la tua sposa è infedele: l’opera tua è distrutta, il frutto del tuo sangue è perduto, rovesciato il tuo regno: la tua Chiesa, che dicesti non sarebbe mai vinta dalle porte dell’inferno, orrore! è caduta nella più abbietta idolatria! – Vedila colla fronte nella polvere adorare un po’ di pane e di vino! E Tu lo Potesti permettere? Tu, che con una sola parola potevi impedire tanto vituperio? – Ah, basta, basta, o fratelli. Ciò non è, non può essere: Cristo avrebbe fallito alle promesse! Il ginocchio a terra, o fratelli, e, fissi gli sguardi in quell’Ostia Sacrosanta, cantiamo coll’Angelo della Scuola: – Devoto io ti adoro, o nascosta Divinità, che ti veli sotto queste apparenze: il mio cuore si china innanzi a te, perché, pensando a te, sente d’essere nulla. L’occhio, il tatto, il gusto qui si ingannano: solo alla tua parola sicuramente si affida: credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio: non vi è nulla di più vero della tua parola di verità. Sulla croce la sola Divinità si occultava; qui anche l’umanità si ecclissa -. Credo, o Signore, credo -. Aiuta, sostieni la mia debolezza -. Amen.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Levit. XXI: 6
Sacerdótes Dómini incénsum et panes ófferunt Deo: et ideo sancti erunt Deo suo, et non pólluent nomen eius, allelúia.

[I sacerdoti del Signore offrono incenso e pane a Dio: perciò saranno santi per il loro Dio e non profaneranno il suo nome, allelúia.]

Secreta

Ecclésiæ tuæ, quǽsumus, Dómine, unitátis et pacis propítius dona concéde: quæ sub oblátis munéribus mýstice designántur.

[O Signore, Te ne preghiamo, concedi propizio alla tua Chiesa i doni dell’unità e della pace, che misticamente son figurati dalle oblazioni presentate.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

1 Cor XI: 26-27
Quotiescúmque manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat: itaque quicúmque manducáverit panem vel bíberit calicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini, allelúia.

[Tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore, finché verrà: ma chiunque avrà mangiato il pane e bevuto il sangue indegnamente sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.
Fac nos, quǽsumus, Dómine, divinitátis tuæ sempitérna fruitióne repléri: quam pretiósi Corporis et Sanguinis tui temporalis percéptio præfigúrat:

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che possiamo godere del possesso eterno della tua divinità: prefigurato dal tuo prezioso Corpo e Sangue che ora riceviamo].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “IL CORPUS DOMINI”

IL ” CORPUS DOMINI „

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Incola ego sum in terra.

(Ps. CXVIII, 19)

Queste parole, F. M., ci ricordano tutte le miserie della vita, il disprezzo che dobbiamo avere delle cose create e periture, ed il desiderio di uscirne per andare nella nostra vera patria, poiché la nostra patria non è il mondo. Tuttavia, F. M., consoliamoci nel nostro esilio: vi abbiamo un Dio, un amico, un consolatore ed un redentore, che può addolcir le nostre pene, e da questo luogo di miserie ci fa scorgere grandi beni; il che deve portarci ad esclamare, come la sposa dei Cantici: “Avete visto il mio diletto? e se l’avete visto, ah! ditegli che io altro non faccio che languire d’amore. „ — “Ah! sin a quando, Signore, esclama il santo Re profeta nei suoi trasporti d’amore e d’ammirazione; ahi sino a quando prolungherete il mio corpo esilio lontano da voi? (Ps. CXIX, 5)„ Ma, F. M., più felici dei santi dell’Antico Testamento, non solo possediamo Dio nella grandezza di sua immensità per la quale trovasi dappertutto; ma l’abbiamo ancora tal quale fu durante nove mesi nel seno di Maria, e sulla croce. Ancor più felici dei primi Cristiani che percorrevano cinquanta o sessanta miglia per aver la fortuna di vederlo, ogni parrocchia lo possiede, ogni parrocchia può goder quanto vuole della sua dolce compagnia. Ah! popolo felice quello dei Cristiani! E qual è, F. M., il mio proposito oggi? Eccolo. Voglio mostrarvi quanto è buono Iddio nella istituzione del sacramento adorabile della Eucaristia, ed i grandi vantaggi che ne possiamo cavare.

I. – F. M., ciò che forma la felicità d’un buon Cristiano, costituisce la sventura del peccatore. Ne volete la prova? Eccola. Per un peccatore che non vuol uscire dal peccato, la presenza di Dio diviene il suo supplizio: vorrebbe poter cancellare il pensiero che Dio lo vede e lo giudicherà: si nasconde, fugge la luce del sole, si immerge nelle tenebre, ha orrore di quanto può richiamargliene il pensiero: un ministro di Dio gli fa ombra, lo odia, lo fugge: ogni volta che pensa d’avere un’anima immortale, che Dio la ricompenserà o la punirà nell’eternità, a norma di quanto avrà fatto: è per lui uno strazio che lo divora senza tregua. Ah! triste esistenza quella d’un peccatore che vive nel peccato! Invano, amico mio, vorresti toglierti dalla presenza di Dio, non lo potrai! ” Adamo, Adamo, dove sei? „ — ” Ah! Signore, esclama, ho peccato, e temo la vostra presenza! „ Adamo, tutto tremante, corre a nascondersi, e proprio nel momento in cui credeva che Dio nol vedesse, la sua voce si fa sentire: “Adamo, tu mi troverai dappertutto: tu hai peccato, ed Io fui testimonio del tuo delitto: i miei occhi eran fissi su di te. „ — “Caino, Caino, dov’ è tuo fratello? „ Caino, udendo la voce del Signore, fugge come disperato. Ma Dio l’insegue colla spada alle reni: “Caino, il sangue di tuo fratello grida vendetta (Gen. III, 10). „ Oh! è dunque vero che il peccatore è nel timore, nella disperazione continua. Peccatore, che facesti? Dio ti punirà. — No, no, esclama, Dio non mi ha visto, “non vi è Dio „ — Ahi disgraziato, Dio ti vede e ti punirà. Da ciò concludo che un peccatore può ben tentare di rassicurarsi, di dimenticar i peccati, di fuggir la presenza di Dio e procurarsi quanto il suo cuore può desiderare; non sarà che un infelice: trascinerà dappertutto le sue catene ed il suo inferno. Ah! triste esistenza! No, F. M., non andiamo più oltre, questo pensiero è troppo straziante, questo linguaggio non conviene oggi davvero: lasciamo quei poveri sventurati nelle tenebre, poiché vogliono restarvi: lasciamoli dannarsi, poiché non vogliono salvarsi. “Venite, figli miei, diceva il santo re David, venite, ho grandi cose da annunciarvi; venite, e vi dirò quanto è buono il Signore con chi l’ama. Ha preparato ai suoi figli un nutrimento celeste, che produce frutti di vita. Dappertutto lo troveremo il nostro Dio: se andiamo nel cielo, là Egli vi è; se traversiamo i mari, lo vedremo al nostro fianco; se ci nascondiamo negli abissi del mare, ci accompagnerà (Ps. XXXIII, XXXII, CXXXVIII). „ No, no, il nostro Dio non ci perde di vista, come una madre non perde di vista il bambino che incomincia a muovere i primi passi. “Abramo, dice il Signore, cammina alla mia presenza e la troverai dappertutto. „ — “Mio Dio! esclama Mosè, mostratemi di grazia la vostra faccia: avrò quanto posso desiderare.„ (Es. XXXIII, 12). Ah! un Cristiano è consolato da questo caro pensiero che Dio lo vede, che Egli è testimonio delle sue pene e delle sue lotte, che Dio è al suo fianco. Ah! diciamo meglio, F. M., egli stringe Dio continuamente al suo seno. Ah! popolo cristiano, quanto sei avventurato di avere vantaggi che tanti altri popoli non hanno! E non aveva ragione di dirvi che se la presenza di Dio è un tormento pel peccatore, essa però è una felicità ineffabile, un cielo anticipato pel buon Cristiano? Sì, F. M., tutto questo è bello, è vero: ma è ancor poco, per così dire, in confronto dell’amore che Gesù Cristo ci porta nel sacramento adorabile dell’Eucaristia. Se parlassi ad increduli o ad empi che osano dubitare della presenza di Gesù Cristo in questo Sacramento adorabile, comincerei col dar loro delle prove così chiare e convincenti, da morir pel dolore d’aver dubitato d’un mistero basato su ragioni tanto forti e convincenti; io direi loro: Se Gesù Cristo è verace, lo è pure questo mistero, che preso del pane disse ai suoi Apostoli: « Eccovi del pane: ebbene lo cambio nel mio corpo; ecco del vino, lo cambio nel mio sangue: questo corpo è veramente lo stesso che sarà crocifisso, ed il sangue è lo stesso che verrà sparso per la remissione dei peccati: ogni volta che pronuncerete queste parole, voi farete il medesimo miracolo: questo potere voi lo comunicherete gli uni agli altri sino alla consumazione dei secoli „ Ma qui lasciamo da una parte queste prove: questo ragionamento è inutile per Cristiani, che tante volte gustarono le dolcezze che Dio loro comunica nel Sacramento d’amore. S. Bernardo ci dice che vi sono tre misteri ai quali non può pensare senza sentirsi il cuore morir d’amore e di dolore. Il primo è quello dell’Incarnazione, il secondo quello della Passione e Morte di Gesù Cristo, e il terzo quello del Sacramento adorabile dell’Eucaristia. Quando lo Spirito Santo ci parla del mistero dell’Incarnazione, adopera frasi che ci mettono nell’impossibilità di poter comprendere sin dove arriva l’amor di Dio per noi, dicendoci: “Così Dio ama il mondo, „ come se ci dicesse: lascio al vostro spirito, alla vostra immaginazione la libertà di formarvi quelle idee che vorrete: quand’anche aveste tutta la scienza dei profeti, i lumi dei dottori, le cognizioni degli Angeli, vi sarà impossibile comprendere l’amore che ebbe per voi Gesù Cristo in questi misteri. Quando S. Paolo ci parla dei misteri della Passione di Gesù Cristo, ecco come si spiega: “Benché Dio sia infinito in grazia e misericordia, sembra essersi esaurito per l’amor nostro. Eravamo morti, ci ha dato la vita. Eravamo destinati ad essere infelici per tutta l’eternità, e per sua bontà e misericordia cambiò la nostra sorte! (Ef. II, 4-6) „ Infine, quando S. Giovanni ci parla della carità che Gesù Cristo ebbe per noi istituendo il Sacramento adorabile dell’Eucaristia, ci dice « che ci ha amati sino alla fine » (Giov. XIII, 1) , „ cioè ha amato nel corso della sua vita l’uomo d’un amore senza confronto. Dirò meglio, F. M., ci ha amato quanto poteva amarci. O amore, quanto sei grande e poco conosciuto! Ecchè, amico mio! non ameremo un Dio che ha sospirato per la nostra felicità durante l’eternità intera?… Un Dio, che ha tanto pianto i nostri peccati, ed è morto per cancellarli! Un Dio, che volle lasciare gli Angeli del cielo, dov’è amato d’amor sì puro e perfetto, per venire in questo mondo, quantunque sapesse benissimo come sarebbe stato disprezzato. Conosceva anticipatamente le profanazioni di cui sarebbe stato oggetto in questo Sacramento d’amore. Sapeva che gli uni lo riceverebbero senza contrizione; gli altri senza desiderio di correggersi: altri forse col peccato nel cuore, e lo farebbero morire. Ma no, tutto questo non poté arrestare il suo amore. O popolo fortunato quello dei Cristiani!… “O città di Sion, rallegrati, fa conoscere il tuo giubilo, esclama il Signore per bocca del profeta Isaia, perché il tuo Dio abita in mezzo a te „ (Is. XII, 6). Sì, F. M., ciò che il profeta Isaia diceva al suo popolo, posso dirlo a voi, anzi con più verità. Cristiani, rallegratevi! Il vostro Dio vuol comparire in mezzo a voi. Questo tenero Salvatore vuol visitare le vostre piazze, le vostre e vie, le case vostre: dappertutto vuol spargere le sue benedizioni più abbondanti. O case avventurate, davanti alle quali egli passerà! O strade fortunate, che sosterranno i suoi passi santi! Potremo, trattenerci di dire dentro di noi, quando ritorneremo per la medesima via: Ecco dove è passato il mio Dio, ecco la strada che ha preso quando spargeva benefico le sue benedizioni su questa parrocchia. – Oh! quanto è consolante questo giorno per noi! Ah! se è permesso gustare qualche consolazione in questo mondo, non è in questo momento felice? Sì, dimentichiamole è possibile, tutte le miserie. Questa terra d’esilio sta per divenire veramente l’immagine della celeste Gerusalemme, le feste e le gioie del cielo discendono sulla terra. Ah! « se la mia lingua può obliare questi benefici, s’attacchi al mio palato !… „ (Ps. CXXXVI). Ah! se i miei occhi debbono ancor volgere i loro sguardi sulle cose terrene, che il cielo rifiuti loro la luce! Sì, F . M., se consideriamo tutto quanto Dio ha fatto: il cielo e la terra, questo bell’ordine che regna nel vasto universo, tutto ci annuncia una potenza infinita che ha tutto creato, una saggezza ammirabile che tutto governa, una bontà suprema che a tutto provvede con la stessa facilità che se fosse occupata d’un essere solo: tanti prodigi, non possono che riempirci di stupore e di ammirazione. Ma, se parliamo dell’adorabile sacramento dell’Eucaristia, possiamo dire che qui v’è il prodigio dell’amore d’un Dio per noi: qui la sua potenza, la grazia, la bontà sua risplendono in modo al tutto straordinario. Possiamo dire con tutta verità, che qui v’è il pane disceso dal cielo, il pane degli Angeli, che ci è dato per cibo delle anime nostre. E questo pane dei forti che ci consola, ed addolcisce le nostre pene. E qui veramente ” il pane dei viatori; „ diciamo anzi, F. M., la chiave che ci ha aperto il cielo. “Chi mi riceverà, dice il Salvatore, avrà la vita eterna: chi non mi riceverà, morrà. Chi ricorrerà, dice il Salvatore, a questo sacro banchetto farà nascere in sé una fonte che zampillerà sino alla vita eterna(Giov. VI, 54, 55). Ma per meglio conoscere l’eccellenza di questo dono, bisogna esaminare sino a qual punto Gesù Cristo ha spinto il suo amore per noi in questo Sacramento. No, F. M., non bastava al Figlio di Dio l’essersi fatto uomo per noi: per accontentare il suo amore, bisognò che si desse a ciascuno di noi in particolare. Vedete, F. M., quanto ci ama. Nel medesimo istante che i suoi poveri figli si preparavano a farlo morire, il suo amore lo porta a fare un miracolo, per restare in mezzo ad essi. Si vide, si può vedere un amore più generoso e più splendido di quello che ci mostra nel Sacramento del suo amore? Non possiamo dire, come il Concilio di Trento, che in esso la sua liberalità e generosità hanno esaurito tutte le loro ricchezze ? (Sess. XIII, cap. II). Può forse trovarsi qualche cosa sulla terra, ed anche in cielo, capace di essergli messa a confronto? Si vide alcune volte la tenerezza d’un padre, la liberalità d’un re pei suoi sudditi andar sì oltre quanto quella di Gesù Cristo nel Sacramento dei nostri altari! Vediamo che i genitori, nel testamento danno i loro beni ai figli: ma nel testamento che Gesù Cristo ci fa, non ci dà i beni temporali, poiché li abbiamo…, ma ci dà il suo Corpo adorabile ed il suo Sangue prezioso. Oh! felicità del Cristiano, quanto poco sei gustata! – No, F. M., non poteva spingere più lungi il suo amore che dandosi a noi: poiché ricevendolo, lo riceviamo con tutte le sue ricchezze. Non è questa la vera prodigalità d’un Dio per le sue creature? Sì, se Dio ci avesse data la libertà di domandargli quanto desideravamo, avremmo osato spinger sì lontano le nostre speranze? “D’altra parte, Dio stesso, benché Dio, poteva trovare cosa più preziosa da dosarci?„ domanda S. Agostino. Sapete, F . M., che cosa indusse Gesù Cristo ad acconsentire di restar notte e giorno nelle nostre chiese? Ah! F. M., fu perché ogni volta volessimo vederlo, potessimo trovarlo. Ah! tenerezza di padre, quanto sei grande! Può esserci cosa più consolante per un Cristiano, che sa di adorare un Dio presente in Corpo ed Anima!” Ah! Signore, esclama il Re-profeta, un giorno passato vicino a Voi, è preferibile a mille passati nelle adunanze del mondo!„ (Ps. LXXXIII, 11) Che cosa rende le nostre chiese così sante e rispettabili? Non è la presenza di Gesù Cristo? Ah! popolo felice quello dei Cristiani!

II. — Ma, chiederete, cosa dobbiamo fare per testimoniare a Gesù Cristo il nostro rispetto e la riconoscenza nostra? — Ecco, F. M.:

1° Non ci presenteremo davanti a Lui se non col più grande rispetto, e lo seguiremo in processione con gioia tutta celeste, raffigurandoci alla mente il gran giorno di quella processione che si farà dopo il giudizio universale. – Sì. F. M., per penetrarci del rispetto più profondo basta ricordarci che siamo peccatori, che siamo indegni di seguire un Dio così santo e puro. E un padre buono che tante volte abbiam disprezzato ed oltraggiato, che ci ama ancora, e ci dice che è pronto ad accordarci perdono. Cosa fa Gesù Cristo quando lo portiamo in processione? Eccolo. E come un re buono in mezzo ai suoi sudditi, come un buon padre circondato da’ suoi figli, come un buon pastore che vigila il suo gregge. Qual pensiero dobbiamo avere seguendo il nostro Dio? Eccolo. Dobbiamo seguirlo come i primi fedeli lo seguivano quand’era sulla terra, e beneficava tutti. Se avessimo la ventura di accompagnarlo con fede viva, potremmo essere sicuri di ottenere quanto gli domanderemo. Leggiamo nel Vangelo, che due ciechi, trovatisi sulla via seguita dal Signore, si posero a gridare: “O Gesù! Figlio di Davide, abbi pietà di noi! „ Gesù, n’ebbe compassione e domandò loro cosa volessero. “Ah! Signore, gli dissero, fate che noi vediamo. „ — “Ebbene! vedete, „ disse loro il buon Salvatore. (Matt. XX, 30-34).Un gran peccatore, Zaccheo, desiderando vederlo, s’arrampica su d’un albero: ma Gesù Cristo, che non ora venuto che per salvare i peccatori, gli gridò: “Zaccheo, discendi, perché oggi voglio fermarmi in casa tua. „ In casa tua! È come se gli avesse detto: Zaccheo, da lungo tempo la porta del tuo cuore è chiusa pel tuo orgoglio e le tue ingiustizie: aprimi oggi, vengo a darti il perdono. Sull’istante Zaccheo discende, si umilia profondamente davanti al suo Dio, ripara tutte le sue ingiustizie, e non vuol più che la povertà ed i patimenti per sé. O  fortunato momento che gli valse una felicità eterna! Un altro giorno in cui il Salvatore passava per un’altra via, una povera donna, afflitta da dodici anni da una perdita di sangue, lo seguiva. “Ah! diceva tra sé, se avessi la fortuna di toccare anche solo il lembo del suo abito, sono sicura che guarirei. „ (Luc. XIX, 1-10). Piena di confidenza, corre a gettarsi ai piedi del Salvatore, tocca il lembo del suo abito e sull’istante è liberata dal suo male. Sì, F. M., se avessimo la medesima fede, la medesima confidenza, otterremmo le medesime grazie: perché è lo stesso Dio, lo stesso Salvatore, lo stesso Padre, animato dalla stessa carità. “Venite, diceva il Profeta, venite, Signore, uscite dai vostri tabernacoli, mostratevi al popolo vostro che vi desidera e vi ama. „ Ahimè! quanti ammalati da guarire: quanti ciechi, cui render la vista! Quanti Cristiani, che seguiranno Gesù Cristo, e la loro povera anima è ricoperta di piaghe! Quanti Cristiani che sono nelle tenebre, e non vedono che son vicini a cadere nell’inferno! Mio Dio! Guarite gli uni ed illuminate gli altri! Povere anime, quanto siete sventurate! S. Paolo ci dice che essendo ad Atene, trovò scritto sa un altare: “Al Dio ignoto, „ o almeno dimenticato (Act. XVII, 23). Ah! F. M.! io potrei ben dirvi al contrario: vengo ad annunciarvi un Dio che sapete essere il vostro Dio, e non lo adorate e lo disprezzate. Quanti Cristiani che nei giorni di domenica non sanno che fare del loro tempo; che non si degnano neppure di venire per qualche breve momento a visitare il loro Salvatore, che arde di desiderio di vederli a sé vicini, per dir ad essi che li ama e vuol colmarli di benefizi. Oh! qual vergogna per noi!… Succede qualche novità? Si lascia tutto, e si corre. Per Iddio altro non facciamo che disprezzarlo e fuggirlo; il tempo ci pesa alla sua santa presenza; quanto facciamo è sempre lungo. Ah! qual differenza tra i primi fedeli e noi! essi consideravano come il tempo più felice di lor vita quello in cui avevano la fortuna di passare i giorni e le notti intere nelle chiese a cantar le lodi del Signore, od a piangere i loro peccati: ma oggi non è più così. Egli è lasciato, abbandonato da noi, v’è persino chi lo disprezza: la maggior parte ci presentiamo nelle chiese, in questi luoghi sacri, senza rispetto, senza amor di Dio, senza neppur sapere cosa vi veniamo a fare. Gli uni lasciano occupare il loro spirito ed il cuore da mille cose terrestri, e forse anche peccaminose: gli altri vi stanno con noia e disgusto: altri s’inginocchiano a fatica, mentre un Dio sparge il suo sangue prezioso pel loro perdono: altri infine lasciano appena discendere il Sacerdote dall’altare e subito sen fuggono. Mio Dio, come i figli vostri vi amano poco, o piuttosto vi disprezzano! Infatti, quale spirito di leggerezza e dissipazione non mostrate voi, quando siete in chiesa! gli uni dormono, gli altri parlano, e quasi nessuno si occupa di quanto dove fare.

2° F. M., tutti noi, fatti per Iddio, ricolmati di continuo de’ suoi benefizi più abbondanti, tutti dobbiamo testimoniargli la nostra riconoscenza, e affliggerci di vederlo tanto oltraggiato. Dobbiam fare come un amico che si rattrista per la sventura di un amico: così gli mostra sincera amicizia. Eppure, F. M., per quanti servigi abbia quest’amico potuto rendere all’amico, non avrà fatto mai quanto Dio ha fatto per noi. — Ma, chi deve, a quanto pare, dimostrare un amore più grande ed ardente per gli oltraggi che Gesù Cristo riceve da parte dei cattivi Cristiani? — Certamente tutti debbono affliggersi dei disprezzi che gli si fanno, e procurar di risarcirnelo: ma alcuni fra i Cristiani vi sono obbligati in modo particolare; ed eccoli: sono coloro che hanno la ventura d’appartenere alla confraternita del Ss. Sacramento. Dico: “Che hanno la fortuna. „ Ah! può darsi sorte più cara di quella d’esser scelti per far riparazione a Gesù Cristo degli oltraggi che riceve nel Sacramento del suo amore? Ma non illudetevi, F. M; come confratelli, siete obbligati a condurre una vita ben più perfetta che il resto dei Cristiani. I vostri peccati sono assai più sensibili per Gesù Cristo. Miei cari, non basta portare una candela in mano, per mostrar d’essere fra coloro che Dio ha scelto: ma bisogna che ci distingua la nostra vita, come la candela ci distingue da chi non l’ha. Perché, F. M., brillano queste candele? se non perché la vita vostra dev’essere un modello di virtù, e voi dovete gloriarvi d’essere figli di Dio, pronti a dar la vita per sostenere gli interessi del vostro Dio, al quale vi consacraste con grande sincerità? Sì, F. M., affaccendarsi ad abbellir le chiese ed i tabernacoli: sono queste buone e lodevoli dimostrazioni esteriori: ma non bastano. I Betsamiti, quando l’arca del Signore passò per il loro territorio, mostrarono la maggior premura e lo zelo più ardente: appena scortala, il popolo uscì in folla per incontrarla: tutti si affrettarono di uccidere buoi pel sacrificio. Eppure cinquanta mila furon colpiti da morte, perché non era stato abbastanza grande il loro rispetto!. (1 Re, VI). Oh! F. M., ci deve ben far tremare quest’esempio! Cosa rinchiudeva quell’arca? Ahimè! un po’ di manna, le tavole della legge: eppure, perché coloro che vi s’avvicinano non sono abbastanza penetrati della sua presenza, il Signore li colpisce di morte. Ma, ditemi, chi riflettendo alquanto alla presenza di Gesù Cristo, non sarebbe colto da timore? Quanti, F. M., sono così sciagurati da far compagnia al Salvatore, col cuore macchiato di colpe! Ah! disgraziato, potrai ben piegar le ginocchia, mentre Dio si alza per benedire il suo popolo: i suoi sguardi penetranti non lasceranno di vedere gli orrori che sono nel tuo cuore. Ma se l’anima nostra è pura, presentiamoci a seguire Gesù Cristo come un gran re che esce dalla sua città capitale a ricevere gli omaggi dei sudditi, e colmarli di benefici. Leggiamo nel Vangelo, che i due discepoli d’Emmaus camminavano col Salvatore senza conoscerlo: quando lo riconobbero, scomparve. Rapiti di gioia, si dicevano l’un l’altro: “Come mai non l’abbiamo conosciuto? I nostri cuori non si sentivano forse infiammati d’amore quando ci parlava spiegandoci la santa Eucaristia?„ (Luc. XXIV, 13-32) Mille volte più felici, . M., di quei discepoli, che camminavano con Gesù Cristo senza conoscerlo, noi sappiamo che è il nostro Dio ed il nostro Salvatore, che parla in fondo al nostro cuore, e vi fa nascere un numero infinito di buoni pensieri, di buone ispirazioni. “Figlio mio, ci dice, perché non vuoi amarmi? Perché non lasci quel maledetto peccato, che mette un muro di separazione tra noi due? Ah! figlio mio, vuoi dunque abbandonarmi? vorrai costringermi a condannarti ai supplizi eterni? Figlio mio, eccoti il perdono: vuoi tu pentirti? „ Ma che gli dice il peccatore? “No, no, Signore, preferisco vivere sotto la tirannia del demonio ed esser riprovato, anziché domandarvi perdono. „ Ma, mi direte, noi non diciamo questo al buon Dio. — Ed io vi soggiungo, che lo dite continuamente, ogni volta Iddio vi manda il pensiero di convertirvi. Ah! infelice, verrà un giorno che domanderai quanto oggi rifiuti; e forse non ti sarà accordato. È certo, F. M., che se avessimo la fortuna di tanti santi, ai quali Dio si faceva vedere, come a S. Teresa, talora come bambino nella culla, talora confitto sulla croce, avremmo senza dubbio maggior rispetto ed amore per Lui: ma non lo meritiamo; e poi ci crederemmo già santi: il che ci sarebbe argomento d’orgoglio. Ma, sebbene il buon Dio non ci conceda una tal grazia, non è meno presente e pronto ad accordarci quanto gli domanderemo. – Raccontasi nella storia, che un sacerdote, dubbioso di questa verità, dopo aver pronunciato le parole della consacrazione: “Come è possibile, diceva tra sé, che le parole di un uomo facciano un sì gran miracolo? „ Ma Gesù Cristo, per rimproverargli la sua poca fede, fece trasudare sangue all’Ostia santa in grande abbondanza. Ascoltate che cosa ci dice il medesimo autore: essendosi appiccato il fuoco in una cappella, tutta la costruzione fu abbruciata e distrutta: e la santa Ostia restò sospesa in aria, senza appoggio alcuno: venuto il sacerdote a riceverla in un vaso, subito vi discese dentro (È il miracolo delle sante Ostie di Faverney, nella diocesi di Besançon, avvenuto il ’26 Maggio 1608. Mgr de Ségur, La Francia ai piedi del Ss. Sacramento, xv, ricorda alcune particolarità del fatto in modo un po’ differente dal racconto del Beato). . Leggiamo nella storia ecclesiastica (Questo celebre miracolo avvenne in Parigi l’anno 1290. Vedi Rohrbacher, Storia universale…, lib. LXXVI), che la fantesca d’un giudeo, per pura compiacenza verso del padrone, gli portò un’Ostia santa. Dopo ricevutala in bocca, questa disgraziata la prese, la mise nel fazzoletto e la portò al padrone. Questo mostro, ebbro di gioia per aver Gesù Cristo in suo potere, come già i padri suoi quando lo misero in croce, si abbandonò a quanto il furor suo poté ispirargli. Gesù Cristo volle mostrargli quanto vivamente sentisse gli oltraggi che gli faceva. Il disgraziato, messa l’Ostia santa su d’una tavola, la colpì parecchie volte col temperino: l’Ostia si coperse tosto tutta di sangue: il che fece fremere la moglie ed i figli suoi, presenti a così raccapricciante spettacolo. Ripresala, la sospende ad un chiodo, e le dà molti colpi di staffile e di lancia: il sangue usciva in grande abbondanza come prima. La riprende per la terza volta, e la getta in una caldaia d’acqua bollente. Subito l’acqua fu cambiata in sangue: e nello stesso istante Gesù Cristo riprende la forma che aveva sull’albero della croce. In tal modo sembrava volesse Gesù Cristo tentar se poteva di commuoverlo. Ma il disgraziato, simile a Giuda, considera il suo delitto come troppo grande, e, disperando del perdono, fu condannato ad esser abbruciato vivo. F. M., non possiamo udir questi orrori senza fremere. Ahimè! quanti Cristiani lo trattano ancor più crudelmente! Ma, mi direte, come è possibile diportarsi in tal modo? — Ahimè! amico mio, Dio voglia che non vi tocchi mai tale sventura! Ogni volta che acconsentite al peccato!: un pensiero di orgoglio lo calpesta sotto i piedi e gli dà la morte: un pensiero impuro gli squarcia il cuore. — Ahimè! in questa processione raffiguriamoci il Salvatore come se andasse al Calvario: gli uni gli davano dei calci, gli altri lo ricoprivano d’ingiurie e di bestemmie… soltanto alcune anime sante lo seguivano piangendo, e mescolavano le lor lagrime col Sangue prezioso, di cui bagnava la via. Oh! quanti Giudei e carnefici stanno per seguire Gesù Cristo, e non si accontenteranno solo di farlo morire una volta, ma sopra tanti calvari, quanti sono i loro cuori! Ah! è possibile che un Dio che ci ama tanto sia così disprezzato e maltrattato? Sì, F. M., se amassimo il buon Dio, ci faremmo una gioia ed una felicità di venir tutte le domeniche a passar alcuni istanti per adorarlo, domandargli la grazia di perdonarci: considereremmo questi momenti come i più belli della vita. Ah! che gli istanti passati con questo Dio di bontà sono dolci e consolanti! Siete nell’affanno! venite a gettarvi un momento a’ suoi piedi, e vi sentirete consolati. Siete sprezzati dal mondo? venite qua, e troverete un amico che non vi mancherà di fedeltà. Siete tentato? oh! è qui che troverete delle armi forti e terribili per vincere il vostro nemico. Temete il giudizio formidabile che ha fatto tremare i più gran santi? approfittate del tempo in cui il vostro Dio è il Dio della misericordia, ed in cui vi è sì facile ottenere la sua grazia. Siete oppresso dalla povertà? Venite qui,vi troverete un Dio infinitamente ricco, e che vi dirà che tutti i suoi beni sono per voi, non in questo mondo, ma nell’altro. “E là ch’io ti preparo dei beni infiniti; disprezza questi beni perituri, e ne avrai altri che non periranno mai. „ Vogliamo incominciare a gustare la felicità dei santi? veniamo qui, e ne gusteremo il beato inizio. Ah! quanto fa bene, F. M., il godere i casti amplessi del Salvatore! Non li avete mai gustati? Se aveste avuto tal felicità non potreste più abbandonarla. Non meravigliamoci più che tante anime sante abbiano passata la lor vita nella sua casa giorno e notte: esse non potevano più separarsi dalla sua presenza. – Leggiamo nella storia, che un santo sacerdote trovava tante dolcezze e consolazioni nelle chiese, che dormiva sul pavimento dell’altare per aver la fortuna, svegliandosi di trovarsi presso il suo Dio: e Dio, per ricompensarlo, permise che morisse ai piedi dell’altare. Vedete S. Luigi, che nei suoi viaggi, Invece di passar la notte nel letto, la passava aipiedi degli altari, vicino alla dolce presenza del suo Salvatore. Perché, F. M., abbiamo tanta indifferenza e disgusto quando dobbiamo venir qui? Ahimè! perché mai gustammo questi momenti felici. Che dobbiam concludere da tutto ciò? Eccolo. Dobbiam riguardare come il momento più felice di nostra vita quello, in cui possiamo tener compagnia ad un amico sì buono. Seguiamolo in processione con un santo timore: siamo peccatori, domandiamogli con dolore e lagrime il perdono dei nostri peccati e saremo sicuri di ottenerlo… Riconciliati, sollecitiamo il dono prezioso della perseveranza. Diciamogli che piuttosto di offenderlo ancora, preferiamo morire. No, F. M., fin che non amerete il vostro Dio non sarete mai contenti: tutto vi peserà tutto vi annoierà: ma dacché l’amerete, passerete una vita felice, e aspetterete la morte con desiderio… Quella morte avventurata che ci riunirà al nostro Dio!… Ah! felicità! quando verrai?… Quanto è lungo questo tempo! Ah! vieni! tu ci procurerai il più grande di tutti i beni, il possesso di Dio!… Ciò che… vi desidero.