I TRE PRINCIPIIDELLA VITA SPIRITUALE (VII)
LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI
dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.
TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN. DON GIOVANNI BOSCO
VICENZA – Società Anonima Tipografica 1922
Nihil obstat quominus imprimatur. Vicetiæ, 24 Martii 1922.
Franciscus Snichelotto
IMPRIMATUR Vicetiæ, 25 Martii 1922. M. Viviani, Vic. Gen
SECONDO PRINCIPIO FONDAMENTALE: VINCERE SE STESSO (II)
CAPITOLO VI.
Mortificazione esterna.
1. L’esterna mortificazione consiste nella forza necessaria, per dominare e tener soggetti i sensi e le potenze corporali e fare di esse quell’uso che è richiesto dalla ragione e dalla coscienza.
2. Il fine della mortificazione esterna in generale è il retto uso dei sensi, preservandoli da ogni eccesso e disponendoli ad operare il bene con costanza. In altre parole: sottrarre ai sensi tutto ciò che li possa mettere in pericolo; rinunziare a tutte le lusinghe sensuali che abbiano per oggetto solo il piacere, ed abituare il corpo a sopportare quanto gli riesce sgradito e faticoso. In particolare, bisogna abituare la vista a non vedere e leggere tutto, specialmente se dovesse riceverne pericolose impressioni, Nemmeno all’udito si deve concedere la soddisfazione d’inutili conversazioni; ed al gusto non si deve permettere che vada alla caccia di squisitezze, ma che si contenti d’ogni cosa, e non si lamenti del cibo, né oltrepassi i limiti della sobrietà. Del bere nulla si dica, nel quale richiedesi somma moderazione. Il tatto deve abituarsi a portare la croce di un lavoro severo, a moderarsi nel dormire, a sopportare la stanchezza, il freddo ed il caldo e rendervisi indifferente. Un mezzo generale, innocuo e durevole, è il tenere esternamente la condotta che corrisponde a ciascuno, giusta lo stato suo e condizione.
3. Anzitutto, nel modo d’esercitare la mortificazione conviene usare moderazione e prudenza. Il fine suo, che è d’aiutare la natura, non di pregiudicarla, è quello che deve regolare e governar tutto. Una regola importante è di non perseverare troppo a lungo in una medesima austerità, ma variarla di quando in quando. Il privarsi di qualche cosa ogni qual tanto non fa danno. Fa d’uopo raccomandare e seguire un metodo di vita, che conservi l’individuo, e particolarmente il giovane, in buone forze. « Poco, ma con costanza », diceva un Santo, parlando della mortificazione esterna.
4. Il primo motivo che si presenta per la pratica di questa virtù, si basa sull’attuale condizione del corpo nostro moralmente considerato. Giusta il principio cattolico, il corpo, dopo la prima caduta, è una fucina di perversità e di peccato; per cui la Sacra Scrittura lo chiama semplicemente: corpo di peccato (Rom. VI, 6), legge di peccato (Ivi VII, 23); e dice che la carne ha desiderî contrari allo spirito (Gal. V, 47). Perciò San Paolo castiga il suo corpo e considera la mortificazione come una prova della sua missione apostolica, Risulta, quindi, da quanto si è detto, che trattare il corpo in questo modo è molto conforme all’idea cristiana. La concupiscenza che ci trascina al peccato, risiede propriamente nell’anima; ma il corpo e l’anima vivono uniti, formando un composto naturale, e per quest’intima unione, ciò che entra per i sensi influisce sull’anima, e può arrivare ad esser peccato, se si aggiunge il consenso. Chi non sa l’impressione e il danno che può cagionare un’occhiata imprudente? La maggior parte delle tentazioni arrivano all’anima mediante i sensi; per questo frenare i sensi equivale a prevenire le tentazioni e togliere forza al male. Bisogna mortificarsi, non solamente per levare al corpo il disordine delle passioni e l’ansia per le impressioni sensuali, ma per liberarlo altresì dalle difficoltà e indecisioni sue ad operare il bene, dalla sua accidia, pigrizia ed amore alle comodità, e per procurargli nello stesso tempo facilità, prontezza buona disposizione e costanza nel compimento d’ogni bene; per il che non c’è via migliore che mortificare il corpo ed i sensi. Da questa mortificazione corporale ne ricava vantaggio altresì l’anima, per conseguire l’umiltà. Imperocchè il trattamento che senza nessun riguardo è obbligata a dare al suo corpo, le ricorda di continuo la sua debolezza ed inclinazione al peccato, e così si guarda dalla superbia, radice di tutti i vizî e schiva umilmente e cautamente ogni pericolo di peccare. Anche lo spirito guadagna forza contro la sensualità, ed acquista prontezza, fervore, animo, gusto alla preghiera e facilità di farla; mediante l’esercizio della penitenza esterna, che consiste nella mortificazione corporale, eleva i suoi pensieri, a guisa d’aquila ringiovanita, dalle miserie di questa terra alle bellezze del cielo.
5. Finalmente, la mortificazione esterna ci viene predicata in tutti i toni dai Santi, anche i più dolci ed amabili; i quali non sono in ciò se non gl’interpreti della vita e degli esempi di Gesù Cristo. Essi parimente praticarono la mortificazione esterna, per quanto lo permettevano il loro stato e condizione. Somma è la stima che di questa mortificazione ha lo spirito cristiano; chi non facesse caso e la disprezzasse, non arriverebbe mai ad essere uomo spirituale.
CAPITOLO VII.
Mortificazione interna.
1. La mortificazione interna, come contrapposta all’esterna, consiste nel governare e indirizzare le interiori potenze dell’anima, per tenerle lontane dal male, conservarle nel bene e renderle atte ad ogni perfezione… Per potenze interne intendiamo l’intelletto, la volontà, l’immaginazione e l’appetito sensitivo.
2. Quanto sia l’importanza dell’interna mortificazione, chiaro apparisce, in primo luogo, comparandola coll’esterna, che non è altro se non un mezzo, una condizione e un frutto dell’interna. Questa è la sorgente ed il fine di quella alla quale comunica tutto il suo valore. Più ancora: mancando l’interna mortificazione non può aver durata l’esterna; senza di quella avremmo al più la religiosità del fakiro, o un’educazione puramente esterna della quale sono suscettibili persino gli animali. L’esterna penitenza può venire supplita in dati casi dall’interna, mediante il ritiro, il raccoglimento di spirito e la purità di cuore. Inoltre, quella dev’essere circoscritta a luogo, tempo e misura; mentre l’interna si può e si deve praticare sempre, dovunque e senza alcuna restrizione. Si dimostra in secondo luogo l’importanza della interna mortificazione considerando le sue relazioni colla moralità e col progresso nella virtù. L’ordine e il disordine morale, il peccato ed il merito derivano dalle interne potenze dell’anima. Da esse, dall’intelligenza e dalla libera volontà, dipende il valore morale della nostra vita e la responsabilità delle nostre azioni. L’azione esterna. non aggiunge nulla d’essenziale. È nel cuore che si commettono i peccati, come disse il Salvatore: Dal cuore partono i mali pensieri, gli omicidî, gli adulterî, le fornicazioni, i furti, i falsi testimonî, le maldicenze. Queste sono le cose che imbrattano l’uomo (Matt. XV, 18). L’interna mortificazione possiede in grado eminente le vere condizioni e contrassegni che caratterizzano le virtù solide. Solido è anzitutto quello che proviene da un principio vero e stabile, non dalla passione, né dall’utilità propria o impulso naturale, ma da Dio, da motivi soprannaturali, da una retta volontà; solido è inoltre quello che ci costa qualche molestia e difficoltà, poiché il farlo è segno certo che non cerchiamo noi stessi e che va contro la natura; solido finalmente è ciò che ci fa progredire, vale a dire, ciò che rimuove gl’impedimenti che opponiamo alla divina grazia. Orbene; tutte queste condizioni della virtù solida e massiccia si riscontrano unicamente nella mortificazione interna. Per questo è riconosciuta e indicata da tutti i santi e maestri di spirito come la vera e infallibile pietra di paragone della virtù, della perfezione e della santità. Basandosi sulla medesima, il maestro infallibile d’ogni santità, Gesù Cristo, distinse e giudicò le virtù. Gl’ipocriti farisei del giudaismo suoi contemporanei, malgrado l’esteriore loro apparenza di santità, non erano per Lui che dei sepolcri coperti e imbiancati al di fuori, e di dentro pieni d’immondezze e di ossa di morti (Matt. XXIII, 27).
3. Ma, in che cosa dobbiamo noi mortificarci? Anzitutto in ciò che risguarda la nostra vocazione, vale a dire, in quelle cose che c’impediscono di compiere perfettamente i doveri del nostro stato. In secondo luogo, in ciò di che ciascuno abbisogna in modo particolare, ,date le difficoltà sue personali e proprî difetti, siano essi interni od esterni. Finalmente, in ciò che Iddio vuole ed esige da noi.
CAPITOLO VIII.
La mortificazione dell’ intelletto.
Discendiamo a specificare di più l’oggetto della mortificazione.
4. Trattandosi dell’intelletto, è cosa evidente che quanto in esso debbasi mortificare non può essere che qualche disordine o mancanza colpevole, sia per eccesso o per difetto, nell’educazione ed uso del medesimo.
2. L’intelletto è la facoltà che conosce la verità, e siccome questa si consegue quando acquistiamo cognizioni, si deduce che nel raggiungimento di essa ed in quello della scienza consiste la formazione intellettuale. Aver una cura speciale per questa formazione, è la prima cosa e la più importante che dobbiamo fare; poiché l’intelletto è la più elevata e nobile facoltà dell’uomo, ed in un certo senso la più necessaria per la vita. Gl’ignoranti a nulla servono, né a Dio, né al mondo, né al demonio.
3. Nell’acquisto delle cognizioni si può peccare anzitutto per difetto. Esse devono essere certe, chiare e così estese come lo richiede la nostra condizione; bisogna guardarsi dalla superficialità e dalla pigrizia. Tra le cognizioni che dobbiamo acquistare non possono assolutamente mancare le verità religiose, quelle sublimi ed eterne verità (rationes æternæ), che rivelandoci i rapporti che passano tra noi e ciò che ci sta d’attorno, tra il mondo, Dio e l’eternità, ci fanno concepire una retta idea delle cose, idea ché senza dubbio è, l’oggetto più nobile che possa e debba conseguire l’intellettuale formazione; senza quest’idea manca la base ed il laccio d’unione con tutte le altre scienze, e per essa si arriva alla cognizione delle massime cristiane che regolano la vita morale, massime senza le quali l’uomo resterebbe privo di sostegno. Siccome questi fondamenti si basano sulla fede, ne consegue che dessa è ciò che col maggiore impegno dobbiamo conoscere e cercar di tradurre nella vita pratica.
4. D’altra parte, può anche avvenire che qualcuno voglia troppo sapere e studiare, ed allora è necessario reprimere la smoderata brama di penetrar tutto senza distinguere l’utile e necessario dall’inutile, superfluo e pericoloso; come anche di lanciarsi solo per presunzione e vanità in ciò che non si può raggiungere. – Gli antichi designavano in proposito una virtù speciale che chiamavano studiosità, la quale frena e modera la smoderata brama di sapere, ed a ragione; poiché questo vizio trae con sé molti inconvenienti, dei quali il primo è un’eccessiva preponderanza dell’intendimento; e siccome di frequente accade che ciò che pretendiamo di sapere supera le nostre forze intellettuali, risulta o una falsità e disordine di idee e di concetti, o una lamentabile superficialità e confusione. Imperocchè nulla vi ha che preoccupi tanto l’essere nostro, come lo studio e l’investigazione.. Conseguenza d’uno studio esagerato è l’impossessarsi che fa di noi una desolante aridità di cuore, accompagnata da una vera inettitudine di pregare, per nulla dire di un’incresciosa debolezza della volontà, che disgraziatamente patiscono tanti uomini d’ingegno. Dobbiamo, quindi, regolarci colla scienza come coll’alimento corporale; poiché, siccome il troppo mangiare nuoce allo stomaco, così l’esagerato sapere gonfia ed invanisce l’uomo. La scienza non è il bene maggiore che possa darsi; è assai più la verità, senza la quale ogni sapere non è che inganno e menzogna. Perciò alla scienza od all’investigazione non si può concedere incondizionatamente il preteso primato. Insomma, ciò che prima si deve apprendere è il necessario, poi l’utile e finalmente il dilettevole.
5. Guardiamoci, infine, dall’essere rigidi ed inflessibili nei nostri giudizî ed opinioni, poiché alla tenacità non può andare unita la pietà. Questa virtù cammina sempre colla semplicità, col candore e l’umiltà, virtù queste di cui è privo lo spirito pertinace, il quale invece genera dissensioni e rende l’uomo odioso e aborrito. La tenacità di giudizio diventa una specie di fanatismo e non si arrende alla verità; ed è già noto che la cosa migliore che può farsi coi fanatici è di lasciarli soli. – La tenacità di giudizio è nemica d’ogni verità e d’ogni scienza. Non vi fu eresia che in essa non abbia avuto i suoi principî. Non possono frenare l’ostinato né Dio, né la Chiesa; poiché risulta che egli rigetta non soltanto le verità speculative, ma anche le morali, e spesso tutta la scienza della vita pratica che si fonda sul buon senso e la ragionevolezza. Non v’è cosa che sia più opposta alla vita pratica dell’insensatezza, come del pari nulla si dà che più s’avvicini all’insensatezza della tenacità ed ostinazione al proprio parere. – Non crediamo d’essere giunti a far nostre tutte le scienze e di avere l’ultima parola in tutte le questioni; è infinitamente più ciò che ignoriamo di quel che sappiamo. Pensare da sé è buona cosa; ma è anche bene, e spesso meglio, ascoltare ed accettare ciò che dicono gli altri. È buona l’indipendenza, ma a condizione che non sia contro la verità. La conoscenza di sé è il migliore preservativo contro la tenacità di questo giudizio; essa ci rende umili e ragionevoli. I più saggi sono sempre i più docili.
CAPITOLO IX.
La mortificazione della volontà.
I. Si danno tre ragioni per provare l’esistenza somma che ha in sé la mortificazione o formazione della volontà. La prima è perché questa facoltà si presenta tra le principali dell’uomo, il quale, nato per la verità ed il bene, li comprende coll’intelletto e la volontà. La volontà in un certo senso è la facoltà principale; ma cieca in sé e per sé, ha bisogno che l’intelletto le indichi e proponga il bene a cui deve tendere, ed essa ordinariamente vi consente; e dico ordinariamente, perché non è necessità ad abbracciare questo o quel bene, come lo è l’intelletto a conoscere la verità, ma può qualche volta dissentire da ciò che questo le propone. È libera, e come libera che è e dev’esserlo. Nessun uomo e nemmeno Dio potrà mai costringerla. Mercè questa libertà che per scegliere e determinarsi possiede la volontà, essa è così grande ed eccellente, vera immagine dell’indipendenza divina. Il bene ed il male, tutti gli atti morali dipendono dalla volontà e da essa vengono determinati. Per questo la medesima è il pomo di discordia tra Dio e il demonio. Insomma, della felicità o infelicità dell’uomo è la sua propria volontà che decide. – La seconda ragione è la necessità che ha la volontà di essere formata e d’assoggettarsi inoltre ad una severa educazione. Di sua natura è limitata e cieca nelle sue decisioni; in conseguenza del peccato originale fu resa più debole e fiacca. Essa ricevette il primo e principale colpo dal detto peccato e ne sente continuamente gli effetti, parte per la concupiscenza, parte per le tentazioni che le vengono dal di fuori. Or da lacci sì sottili come sono le forze dell’umana volontà stà pendente la felicità dell’uomo. E questa precisamente è la ragione del perché Dio abbia dato molta più virtù alla volontà che non all’intelletto. – La terza ragione è che la volontà umana è sommamente suscettibile di educazione e di formazione; al che si aggiunge che questa educazione riesce molto più utile e vantaggiosa che non quella dell’intelletto. L’uomo può assoggettarsi la volontà, non così l’intelletto. Inoltre, per tutte parti s’incontrano difficoltà che l’intelletto non può superare: la volontà, in cambio, colla grazia di Dio può tutto. E a provarlo abbiamo l’esempio dei Santi, nei quali ciò che vale a canonizzarli è la buona volontà.
2. La mortificazione deve liberare la volontà da tre mancamenti ed eccessi.
Il primo è il disordine e la mancanza di rettitudine nell’intenzione. L’ordine, la rettitudine e la purità d’intenzione consistono nell’assoggettamento e nell’obbedienza della volontà a tutto ciò che la ragione e la coscienza le dettano come buono e necessario; la mancanza di rettitudine, nella resistenza ed insubordinazione contro ciò che come tale riconosce. Questo è il peggior peccato che possa commettere la volontà. Deve, quindi, lasciarsi reggere dalla ragione e dalla coscienza, il che non nuoce alla sua dignità regale. È cieca e deve tener dietro a chi la guida, se non vuol inciampare e cadere; poiché, infine, si assoggetta a Dio, regola suprema di bontà, che le si manifesta mediante la ragione e la coscienza. Sarà perfetta la purità d’intenzione quando la volontà nulla intraprenda né faccia che non sia conforme alla ragione, e operi tutto il bene che le corrisponde.
Il secondo mancamento è la durezza, l’immobilità, l’indecisione, la lentezza nell’operare il bene conosciuto, ed al quale è obbligata. Certamente che bisogna prima pensare ai motivi, ma poi fa d’uopo correre, e correre con sollecitudine ed energia, senza tentennamenti di sorta. Altrimenti potrebbe costar troppo caro il ritardo, poiché può trattarsi talvolta del cielo o dell’inferno.
Il terzo mancamento è la fiacchezza, la poca costanza ed energia, che molte volte derivano da qualche attacco ad alcun bene della terra. E bisogna considerare che questa affezione è sempre una degradante schiavitù, che, oltre ad inceppare la nostra libertà di azione e movimento, ci abbassa e impiccolisce rendendoci ridicoli e degni di compassione. Allora non ci resta altro rimedio che di sradicare e tagliare ciò che ci trattiene. Così si libera il cuore, che ricupera la sua pace e fortezza. L’incostanza della volontà può derivare altresì da pusillanimità o poca energia nel vincere le difficoltà, o dal timore di dover dar mano a maggiori e più difficili imprese. Non ci sfugga dalla memoria: una volontà debole non è fatta per questo mondo, dove non mancano mai croci e contraddizioni; o facciamo noi forse propositi solo per la quiete? Una volontà che non abbia energia per operare e resistere, non è volontà; tutt’al più essa potrebbe servire da banderuola.
3. Mezzo d’educazione della volontà è anzitutto la preghiera, che considerata in sé è una scuola di pazienza, specialmente se si fa in tempo determinato, qualsisiano le circostanze. Oltr’a ciò mediante la preghiera ci viene la grazia, senza la quale non possiamo noi assoggettare la riluttante nostra volontà, né sottrarci alla volubilità e leggerezza sua. – Un altro mezzo è di aver solidi e chiari principî, e di fare propositi risoluti e ben determinati. Se malgrado tali propositi e principî siamo così deboli ed incostanti, che saremmo senza di essi? È anche un buon mezzo avere una norma fissa di vita a cui assoggettarci; poiché ciò che le regole sono pel Religioso, pel secolare è l’orario quotidiano. Ad esso dobbiamo attenerci invariabilmente, e ad esso ritornare se avesse dovuto soffrire qualche turbamento. – Un’ottima occasione per rinvigorire la volontà sono le tentazioni che ci sopravvengono, vere guerre e battaglie in cui si esercita il nostro valore e la nostra costanza; e siccome sono tante e così diverse, possiamo, se sappiamo rintuzzarle con energia, acquistarci col tempo grande fermezza di carattere e copia di solida virtù. – Un mezzo altresì eccellente per educare la volontà è il vincersi nelle cose piccole e indifferenti che ad ogni passo s’incontrano durante il giorno, le quali, quantunque leggiere, sono molte, e la volontà vi acquista sempre forza. Esigua è la cosa, ma grande l’efficacia.
4. Un’educazione solida, retta e duratura della volontà è oggidì tanto più importante e necessaria, in quanto che si attende più esclusivamente e sovrabbondantemente a formare l’intelletto, lasciando la volontà abbandonata a sé stessa ed a tutte le tempeste, come un arbusto selvatico in campo aperto. E quali ne saranno i risultati? Che più tardi, quando dovrà lottare contro le insorgenti sue passioni, troverassi impotente a resistere. Gli è che nessuno avea pensato di darle un’educazione. Non s’insisterà mai abbastanza sostenendo che non è troppo l’occuparsi nell’educare e rinvigorire la volontà con un metodo chiaro, forte e sodo. Si fa presto ad imparare quello che è necessario per divenire buoni ed utili. Se metà dell’attenzione e fatica che in ciò mettiamo. l’adoperassimo nella formazione della volontà, saremmo presto santi.