OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (4)
ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,
ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE
AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866
DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (I)
Che cosa deve far un Vescovo per soddisfare alle sue obbligazioni? Io tremo nel dover risponder a questa interrogazione, perché potrebbe parer a taluno, che io fossi ardito a tal segno di voler prescriver leggi ai Pastori della Chiesa. Nondimeno ho speranza, che troverò scusa appresso tutti quelli, che mi leggeranno, quando vedranno, che io non parlo né come Autore, né come Teologo alla Chiesa Cattolica, ma come un semplice raccoglitore dei sentimenti dei Teologi, dei Padri e dei Concilii. Ma per trattare quest’argomento con qualche metodo, convien distinguere nell’esercizio del pastoral ministero due tempi diversi; tempo di calma, e tempo di tempesta. Ricerchiamo dunque i doveri d’un piloto nella calma, e conosceremo insieme i suoi doveri nella procella. Mostratemi gli obblighi d’un pastore, che non è circondato dai lupi, ed io vi mostrerò i suoi obblighi, quando i lupi insidiano l’ovile e la greggia. Quello, che un pilota, e un pastore è tenuto a fare in tempo che gode la pace coi venti e colle fiere, è molto più tenuto a farlo, quando entra in battaglia colle fiere e coi venti. E quello che un Vescovo deve al suo popolo in tempo di calma, lo deve molto più al suo popolo in tempo di agitazione.
Dunque quali sono i principali doveri di un Vescovo in tempo di pace?
Gesù Cristo ha chiamato se medesimo col nome di Pastore: Ego sum pastor bonus (Ioan. X, 11). Egli medesimo raccomandando a S. Pietro tutti i fedeli, lo ha dichiarato Pastor della Chiesa: Pasce agnos meos… pasce oves meas (Joan. XXI, 16, 17). S. Paolo Apostolo indirizzando il discorso a tutti i Vescovi raccomanda loro, come a Pastori la greggia: Attendite vobis, et universo gregi, in quo vos Spiritus Sanctus posuit Episcopos regere Ecclesiam Dei (Act. XX, 28). Dunque, i doveri di un Vescovo sono quelli di un Pastore, cioè, secondo il Concilio di Trento, di pascère il suo popolo colla divina parola, coll’amministrazione de’ Sacramenti (Concil. Trident. Sess. XXIII, Decr. de ref. c.1, Act. Eccles. Mediol. part. A, orat. S. Carol. in Concil. Province. primo Lugdun. 1682, pag. 50), e coll’esempio di tutte le buone opere. « Præcepto divino mandatum est omnibus, quibus animarum cura commissa est, oves suas agnoscere… verbique divini prædicatione, Sacramentorum administratione, ac bonorum omnium operum exemplo pascere. » – E per cominciare dal primo, il predicare al popolo la divina parola è un obbligo così rigoroso in un Vescovo, che non lo può dispensare, se non un legittimo impedimento, perché la predicazione, del Vangelo è il principale ufficio del Pastore (Concil. Cart. 4, can. 20, Concil. Mogunt. an. 813, can. 25, Concil. Rhemens. 2, c. 14 et 15, Tolet. A1, can. 2, Trullan. can.19, 20, Arelat. an. 843, can. 3, Turonens. 3, an. 81 3, can. 17, Ticinens. an. 850, can. 5, Lateran. 4, can. 10, Avenion. an. 1209, can. 4, Paris. an.1212, can. 3, Balsamon. în can. 58, Apost. Orat. S.Carol. in 2 Concil. Provinc. Bellarmin. ad Nepot. contr. 2). Perciò, allorquando il Vescovo è consacrato, gli consegnano il Vangelo, e gli dicono: Accipe Evangelium, vade, et prædica populo tibi commisso [Ricevi il Vangelo e predica al popolo a te affidato]. Nè queste sono leggi antiquate, o che possano abolirsi. L’ultimo general Concilio di Trento lo ricorda e lo ingiunge a tutti i Pastori in questa forma: Quia vero Christianæ Reipublicæ non minus necessaria est prædicatio Evangelii, lectio; quam et hoc est præcipuum Episcoporum munus; statuit, et de- crevit cadem Sancta Synodus, omnes Episcopos, Archiepiscopos, Primates, et omnes alios Ecclesiarum Praclatos teneri per se ipsos, si legitime impediti non fuerint, ad prædicandum sanctum Jesu Christi Evangelium. (Concil. Trident. Sess. 3 de reform. cap. 2) Ripete la stessa cosa alla sessione vigesima quarta capo quarto; e senza questa né pure una lunghissima desuetudine può dispensare i Vescovi da questa legge, la quale, come abbiam veduto coll’autorità dello stesso Concilio, non è legge Ecclesiastica, ma divina: Præcepto divino mandatum est. E infatti le pecore devono seguir il Pastore, e ascoltar la sua voce, e il Pastore deve chiamarle a nome una per una, e condurle al pascolo: Ques vocem eius audiunt, proprias oves vocat nominatim et adducit eas. Et cum proprias oves emiserit, ante eas vadit: et oves illum sequuntur, quia sciunt vocem eius [Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce – Joan. X, 3 et segg.). Dunque è necessario, che il Vescovo faccia sentire al Popolo la sua voce. Di più i Vescovi sono i successori degli Apostoli nell’Episcopato, e gli Apostoli hanno predicato per se medesimi il Vangelo per tutta la terra: In omnem terram exivit sonus eorum, et în fines orbis terræ verba eorum [Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola. – Psalm. XVIII, 5]. S. Paolo protestavaagli Efesini di aver predicato e in pubblico, e per le case; Vos scitis… quomodo nihil subtraxerim utilium, quominus annuntiarem vobis, et docerem vos publice, et per domos [voi sapete … come non mi sia sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio pubblicamente e nelle case … – Act. XX). Aggiungeva, che questo fosse un dovere, e guai, se non avesse predicato, (1 Cor., IX, 16). Si Evangelizavero non est mihi gloria, necessitas enim mihi incumbit: væ enim mihi est, si non evangelizavero [Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo (1 Cor. IX, 18). Non enim misit me Christus baptizare, sed evangelizare. Quindi scriveva a Tito: Tu autem loquere, quæ decent sanam doctrinam [Tu però insegna ciò che è secondo la sana dottrina: – Ad. Tit. II, 1]; e a Timoteo: Prædica verbum, insta opportune: argue, obsecra, increpa in omni patientia, et doctrina [… annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. – 2 Timot. IV, 2].Che però il Concilio Romano dell’anno 1074 arriva a dire, che niente giova a un Vescovo l’esser virtuoso, se poi non è capace0d’istruire il suo popolo (Concil. Roman. an. 1074, cap. 16), e di esortarlo a mantenersi nella sana dottrina. « Oportet Episcopum esse Doctorem: nihil enim prodest ei conscientia virtutum perfrui, nisi et creditum sibi populum posset instruere, et valeat exhortari in doctrina, et eos qui contradicunt redarguere.. [… è necessario che il Vescovo sia dotto, nulla gli vale una non ha credito nell’insegnare ed esortare alla dottrina e redarguire gli oppositori …] » E questo è ciò, che scriveva anche S. Girolamo (lib. 2 ep. select. 2) a Paolino: Sancta quippe rusticitas solum sibi prodest: et quantum ædificat ex vitæ merito Ecclesiam Christi, tantum nocet, si destruenti non resistat.[una santa rusticità serve a sé solamente, ma edifica col merito della Chiesa di Cristo, e tanto nuoce se non resiste ai ribelli]. – Troppo sarebbe, se io volessi qui riferire tutti i detti de’ Padri, i quali, (S. Gregor. Reg. Past. p. 2, c. 4 et in Evang. hom. 17,S. Agost. ep. 59, S. Leone ep.62, S. Isidor. de Eccles. offic. l. 2,S. Iar. 1.8 de Triniît. S. Cæsar. Vit. c. 6, S. Fulbert. Carnot. ep. 88ad Robert. Petrus Blesens. de instit. Episc. S. Thom,3 p. q. 67,art. 2) quando hanno parlato de’ Vescovi, si sono sempre dichiarati per questo incontrastabile loro dovere. Ma ecco quello, che scriveva S. Bernardo a un semplice Abate, ricordandogli l’obbligo di pascere col pane della divina parola i suoi sudditi, e sciogliendo insieme quelle (Bern. ep. 101, n.2) difficoltà, che dall’umana pigrizia. si sogliono produrre. « Procura di farti trovare dal servo fedele e prudente, e di comunicare a’ tuoi fratelli il celeste grano senza invidia, e di distribuirlo senza pigrizia; e non volerti scusar vanamente col dire, che sei uomo nuovo ed imperito; il che non so, se tu lo credi veramente, o pure se il fingi. Imperocchè non piace una infruttuosa verecondia, né deve lodarsi una falsa umiltà. Abbi dunque l’occhio al tuo impiego. Caccia via la vergogna in riflesso del tuo dovere, ed opera da maestro. Sei uomo nuovo, ma sei debitore; e sappi, che allora sei divenuto debitore, quando hai preso questo legame. Forse la novità Scuserà appresso il tuo creditore la perdita che farai del guadagno? Forse il trafficante soffre, che Scorrano senza frutto i primi mesi? Ma risponderai, che non sei abile a questo incarico. Come se il tuo buon animo dovess’essere accetto per quello, che non hai, e non piuttosto per quello, che hai. Devi esser pronto a render ragione di quel solo talento, che hai ricevuto, e niente più. Se hai ricevuto molto, molto hai da rendere; se poco, devi fruttificar questo poco. Imperocché chi non è fedele nel poco, non lo è né pure nel molto. Dà tutto quello che hai, perché dovrai render conto sino all’ultimo denaro; ma certamente quello che hai, non quel che non hai.» Qui finisce il Santo; ed io discorro così: Se s. Barnardo incaricava sì strettamente ad un Abate di predicare a’ suoi Monaci, che avrà poi detto a un Pastore di molte migliaia di anime? Così pensava ancora Giuliano Pomerio quando scriveva (De vit. contempl. l. 1, c. 21). « Nec vero se per imperitiam Pontifex excusabit, quasi » propterea docere non valeat, quod ci sufficiens, et luculentus sermo non suppetat; quando nulla alia Sacerdotis doctrina debet esse, quam vila; salisque auditores possint proficere, si a Doctoribus suis, quod vident Specialiter fieri, hoc sibi ctiam simpliciter » audiant prædicari: dicente Apostolo: Et si imperitus sermone, » sed non lingua….. Non igitur in verborum splendore, sed in Operum virtute totam prædicandi fiduciam ponat. » Ed infatti chi doveva parere più insufficiente a predicare di un Ambrogio, che di laico all’improvviso fu creato Vescovo, e dai tribunali fu di repente introdotto nel Santuario? Lo rifletteva egli medesimo; e pure non si credeva per questo dispensato dall’ob- bligo di predicare (S. Ambr. Office. 1. 1, c.1): S. Agostino racconta di averlo sentito (Conf. I. 6, c. 3) egli medesimo a predicare ogni Domenica. Chi potrà dunque scusarsi al tribunale di Dio per non avere dispensata al popolo la sua parola, quando Dio gli rinfaccerà l’esempio di un laico togato, che in un giorno solo è divenuto zelante banditore del suo Vangelo? Ma se in ogni tempo; e di precetto divino è tenuto un Pastore ad aprire le labbra colle sue pecorelle, molto più sarà tenuto di farlo in tempo di persecuzione. S’egli è obbligato a conservar la fede, quando è rispettata, molto più è obbligato a difenderla quando è assalita. S’egli deve guidar le pecore ai pascoli, quando i pascoli sono sani, molto più deve guardarle, quando sono infetti. Le pecore non conoscono i lupi, conoscono solo il pastore; e se il pastore non parla, andran senza riparo in bocca ai lupi. E se anche le pecore conoscessero il lupo, tuttavia non potrebbero da se difendersi; tocca al pastore o a custodirle nell’ovile, o a farsi innanzi a loro, e a spaventar colla sua voce, e a cacciare il lupo. Non è un pastore, ma un mercenario colui il quale quando vede venire il lupo, o fugge, o si nasconde, questo è segno, che le pecore non sono sue; questo è indizio, che a lui non appartengono quelle pecore (Joan. X, 12 et segg.). « Mercenarius autem, et qui non est pastor, cuius non sunt oves propriæ, videt lupum venientem, et dimittit oves, et fugit: et lupus rapit, et dispergit oves. Mercenarius autem fugit, quia mercenarius est, et non pertinet ad eum de ovibus. [Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore ]» Ma il Pastore deve alzar la voce anche contro quelli, che non sembrano lupi al di fuori, e che si coprono colle lane degli agnelli? Sì: bisogna avvisar le pecore, che si guardino anche da questi. Così ha fatto il primo Pastore Gesù Cristo Signor Nostro, il quale ha detto espressamente: (Math. VII, 15). Attendite a falsis prophetis, qui veniunt ad vos in vestimentis ovium, intrinsecus autem sunt lupi rapaces. [Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci]. Anzi più contro questi, che non contro gli altri,quanto è più facile il pericolo di seduzion nelle pecore. Se la pecora non può difendersi dal lupo, fugge almeno da lui, quando lo conosce per tale. Ma da un lupo travestito d’agnello la pecora né si difende, né fugge. « Episcopi, præsbyteri, scriveva Alcuino (de Offic. divin. de tons. Cleric.) debent annuntiare populis sibi subiectis adventum nequissimi hostis diaboli ut se prævideant, ne eius laqueo capiantur. »Ma dovrà dunque un Pastore espor la vita per la difesa delle sue pecorelle? Il Mercenario no: ma il Pastore anche la vita deve perdere per la loro salute. (Joan. X, 11). Così ha insegnato, e ha praticato Gesù Cristo. Ego sum Pastor bonus. Bonus Pastor animam suam dat pro ovibus suis. [Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore]. È vergogna per un Pastore, diceva Giovanni Scolastici (de Pastor Offic.) il temere la morte: Confusio est Pastori formidare mortem. (Quindi asseriva giustamente Giovanni Fonseca Dottore Spagnuolo nella sua Orazione recitata (Lab. t. 20, col.572) ai Padri del Concilio di Trento. Tenetur Pastor, sì quandoingruerit persecutionis procella, exemplo sui ducis Christi Crucifixi proprium caput pro ovium salute periculis obiicere; I fasti della Chiesa sono pieni delle gesta di zelanti Pastori, che hanno sostenuta la morte in difesa della fede, ed essi sono grandi nel Cielo, non per aver fatta un’opera di libera elezione, ma per aver compito intrepidamente al debito loro. – Fu ricercato S. Pietro Damiani da Enrico Arcivescovo di Ravenna, qual fosse il suo sentimento su l’Antipapa Cadolao, e insieme fu avvertito, che mandasse la sua risposta segretamente per. non esporsi a qualche affronto. Che cosa rispose il Santo? Rispose circa il primo punto, ch’egli giudicava Cadolao un simoniaco, e perciò indegno del Pontificato. E intorno al secondo punto, eccole sue parole: (Petri Damian. L 3, p. 4 edit. Bassan.1783 t. 1,col. 91). « Quod autem scripsistis, ut mitterem vobis litteras taciturnitate signatas, quasi paterno mihi consulentes affectu, ne adversafortassis incurrerem, si sensa cordis cum libertate proferrem;absit a me, ut in tali negotio dura prorsus, et aspera perpetisubterfugiam, et negligendo tam ingenuæ matris incestum, sub, umbra degener filius delitescam. Immo peto, ut epistola hæc in publicum veniat, et sic per vos, quid super hoc totius mundi periculo sentiendum sit, omnibus innotescat. »Ma se non si spera di placar la fame dei lupi, né di ritirarle pecore dal pascolo dovrà tanto e tanto il Pastore alzar la voce autorevole, ed esporsi forse a un insulto? Il Pastore sì: il Mercenario no: perché il mercenario non cerca che il suo vantaggio, e il pastore non bada che al suo dovere. Dio, che consegnò quella greggia al pastore, non gli domanderà conto della vita delle pecore, ma gli chiederà conto della sua vigilanza. La vita delle pecore non dipende totalmente dal pastore; dal pastore dipende il vegliare perché non si perdano. (Ezech. III, 17) « Io ti ho messo, disse Iddio ad Ezechiele, io ti ho messo per guardia della casa d’Israele; ed ascolterai le parole, che escono dalle mie labbra, e le promulgherai ad essi in mio nome. Se quando io dico all’empio, tu morirai, non lo farai sapere a lui, e non parlerai, affinché rivolga i passi dall’empio sentiero, e non muoia, colui se ne morrà nel suo peccato, ma io domanderò conto alle tue mani del suo sangue. Che se tu l’annunzierai all’empio, ed egli non si ritirerà dal suo peccato, e dall’iniquo sentiero; egli senza dubbio morirà nella sua iniquità,ma tu avrai messo in salvo l’anima tua. » Ecco il primo dovere di un Pastore, cioè di sgridar gli empii, che cercano di divorare la greggia, benché non speri, che costoro cangino le vie e i pensieri d’iniquità. Segue adesso l’altro dovere di un Pastore, cioè di ammonire i giusti, perché non si lascino depravar dagli empii (Ibi 20 et seg.) … « Che se un giusto abbandonerà le vie della giustizia, e diverrà iniquo: metterò un’inciampo dinanzi a lui, egli morirà, perché tu non l’hai avvertito; morirà nel suo peccato, e non resterà più memoria dell’opere buone ch’egli fece: ma del suo sangue io domanderò conto alle tue mani. Ma se tu avviserai il giusto, perché non pecchi, ed egli infatti non peccherà: conserverà la sua perché tu l’ammonisti, e tu avrai messo in salvo l’anima tua. » – Non son forse queste espressioni, e questi sentimenti a sufficienza terribili per l’anima di un Pastore? Ma se queste non bastano (Ved. le constitut. Apost. lib. 2, cap. 20), eccone delle altre (Ezech. XXXIV, 2 et segg.): « Guai, dice il Signore Iddio ai Pastori d’Israele, che pascevano se medesimi: non son forse le greggi, che devon esser pasciute dai Pastori? Voi mangiavate del latte, e vestivate delle lane, e uccidevate le più pingui agnelle; ma non pascevate la mia greggia. Non rinvigoriste le deboli, non risanaste le inferme, non fasciaste le lor ferite, e non riconduceste le smarrite, e non cercaste conto delle perdute; ma sovrastaste loro con austerità e con potere. E le mie pecore andaron disperse per non aver pastore; e caddero in bocca a tutte le bestie del campo, e si dispersero… Ecco dunque, che io stesso domanderò conto ai pastori della mia greggia.» – Faremo ancora tanto caso di questa scusa: a che serve il predicare, l’ammonire, il correggere? in questi tempi non può sperarsi alcun profitto. Ma dunque non è ancora evidente, che Iddio non cerca dal pastore la guarigion delle pecore, ma la cura della lor infermità. Nè pur da Pietro cercava Gesù Cristo altra cosa, fuorché il medicar le pecore, non già il guarirle, come diceva il Dottor Pietro Frago ai Padri (Labbé tom. 20, col. 332) del Concilio di Trento. Ne Christus quidem aliud a Petro postulavit: non enim a Pastore sanatio, sed cura, et sollicitudo exigitur. E Pietro Blesense al Vescovo di Orleans, esortandolo a difendere l’Immunità dinanzi al Principe (ep. 112): Ab exortatione, gli scrive, quæso non cesses, licet ille suorum consilio assessorum se obduret. Non scriveva S. Paolo a Timoteo, che aspettasse il frutto delle sue prediche, ma bensì che predicasse in tutte le guise. (2 Timoth. IV, 2). Prædica verbum, insta opportune; importune; argue, obsecra, increpa in omni patientia, et doctrina. [… annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina]. Che ottenne Gesù Cristo dai Giudei, che lo perseguitavano, colle sue prediche? Ottenne la morte sopra un patibolo, e questa fu la sua gloria più bella, e la sua maggior soddisfazione. – Bisogna leggere ciò, che scriveva S. Bernardo a Papa Eugenio intorno all’obbligo di predicare anche ai ribelli della fede, e ai trasgressori della legge. Voi dite, scriveva (de Consid. l. 4, c. 4, num. 8) il Santo Dottore, voi dite, che non siete punto migliore dei vostri Padri, i quali non furono ascoltati, ma anzi piuttosto derisi da un popolo iniquo. Ma appunto Maggiormente per questo voi dovete insistere per vedere se mai diano orecchio, e si calmino, insister dovete anche con quelli, che vi resistono. Potrebbe darsi, che queste mie parole vi sembrassero troppo avanzate. E che son forse (2 Timot. IV, 2) mie quelle parole: Insta opportune, importune?All’Apostolo, e non a me dovete dar la taccia d’indiscreto, se avete tanto coraggio. A un Profeta si comanda (Isai. LVIII, 1). Clama, ne cesses. E con chi? se non se cogli scellerati, e coi peccatori? Annuntia populo meo scelera eorum, et domui Jacob peccata eorum. Avvertite saggiamente, che s’indicano insieme e gli scellerati, e il popolo di Dio. Dovete far l’istesso concetto dei vostri Sudditi. Quantunque siano scellerati ed iniqui, guardatevi da quel rimprovero del Signore (Matth. XXV, 45), Quod uni ex minimis meîs non fecisti, nec mihi fecisti. Confesso, che codesto popolo sino ad ora ha mostrato una cervice dura, e un cuore indomito, ma non vedo poi, come possiate saper di certo, che sia un popolo affatto indomabile. Può succedere quello, che sino ad ora non è accaduto. Se voi diffidate, ricordatevi per altro, che nessuna cosa è impossibile dinanzi a Dio. Se hanno una fronte dura, indurate ancor voi la vostra contra di loro. Nessuna cosa è tanto dura, che non ceda a una più dura di lei. Diceva Iddio al Profeta (Ezec. III, 8). Dedi frontem tuam duriorem frontibus corum. [Ecco io ti do una faccia tosta quanto la loro e una fronte dura quanto la loro fronte]. Una sola cosa vi si può assolvere, cioè se avete operato col vostro popolo in guisa, che possiate dire; Popule meus, quid tibi debui facere, et non feci? [Popolo mio cosa avrei dovuto fare che non ho fatto?]. Se avete operato così, ma senza profitto, ecco che cosa vi resta da fare, e da dire. Uscite fuori da codesta Città dei Caldei, e dite, che v’è bisogno di predicare anche ad altre Città. Credo, che non vi pentirete d’andar esule, cangiando una Città con tutto il mondo. V’è dunque un tempo, in cui può un Pastore lasciar di predicare e di correggere il suo popolo. Ma quando? non quando teme di non far profitto, ma quando, dice S. Bernardo, avendo predicato, sgridato e resistito a un popolo iniquo, trova di non aver ricavato alcun profitto: « Insiste Magis… insiste et resistentibus …. Potest » fore, quod nec dum fuit….. Si dura fronte sunt, durato et tu contra tuam…… Unum est, quod te absolvit, si egisti cum populo illo, ut possis dicere: Popule meus, quid tibi debui facere, et non feci? » – Non sono meno spaventosi i sentimenti di S. Pietro Damiani a Niccolò II Pontefice. Signoreggiava a quei tempi fra i Chierici l’incontinenza, e scriveva il Santo al Sommo Pontefice (S. Petri Damian. Opusc. 18, Dissert. 2, cap. 8, tom. 3, col. 409) ricordandogli il suo dovere di opporsi con tutto lo zelo all’inondazione di questo vizio. « Valde tibi cavendum est, venerabilis Pater, qui quamvis temetipsum præbeas vernantis pudicitiæ candore conspicuum permittis tamen, ut in Clero tuo, tamquam cruenta illa Iezabel, obtineat luxuria principatum; de qua nimirum Angelo Thiatiræ Ecclesiæ dicitur ( Apoc. II, 20). Habeo adversum te pauca: quod permittis mulierem Iezabel, quæ se dicit Prophetam, docere el seducere servos meos fornicari. [Ma ho da rimproverarti che lasci fare a Iezabèle, la donna che si spaccia per profetessa e insegna e seduce i miei servi inducendoli a darsi alla fornicazione e a mangiare carni immolate agli idoli.]. Authentica certe est illa sententia, qua dicitur: Facti culpam habet, qui quod potest, negligit emendare. Quid enim profuit Heli (1 Reg. II), quia in luxuriam ipse non corruit, sed fornicantes filios paterna quidem pietate,non autem sacerdotali auctoritate corripuit? » [Eli non si diede alla lussuria, ma non emendò il comportamento dei figli con la sua autorità sacerdotale]. Al quale proposito soggiunge altrove il Santo (Opusc. 17, col. 379): « Si ergo Heli propter duos dumtaxat filios, quos non ea, qua digni crant, invectione corripit, cum eis simul, et cum tot hominum moltitudine periit; qua arbitramur dignos esse sententia, qui in aula Ecclesiastica, et soliis indicantium praesident, et super non ignotis pravorum hominum criminibus tacent? Qui dum dehonestare homines in publico metuunt, ad contumeliam superni Iudicis divinæ legis mandata confundunt; et dum perditis hominibus amittendi honoris officium servant, ipsum Ecclesiasticæ dignitatis Auctorem crudeliter inhonorant. » Conformi a questi sentimenti di S. Pier Damiani son pure le parole del Concilio di Aquisgrana, ann. 816, (lib. 1, cap. 26, Labbé tom. 9, col. 434). « Ille autem, » cui dispensatio verbi commissa est etiam si sancte vivat, et tamen perdite viventes arguere aul erubescat, aut metuat, cum omnibus, qui eo tacente perierunt, perit. Et quid ei proderit non puniri suo, qui puniendus est alieno peccato? » Quindi è, che Papa Agatone nella sua lettera a Tiberio ed Eraclio, Augusti, recitata nell’Azione quarta del terzo Concilio Costantinopolitano, ed Ecumenico l’an. 680 dopo aver esaltata la libertà Apostolica dei suoi predecessori nell’annunciare con infallibile certezza la Fede, soggiunge di se stesso così; (Labbé tom. 7, col. 662). « Væ enim mihi erit, si veritatem Domini mei, quam illi sinceriter prædicarunt, prædicare neglexero. Vae mihi erit, si silentio texero veritatem, quam erogare nummulariis iussus sum, idest Christianum populum imbuere, et docere. Quid in ipsius Christi futuro examine dicam si hic, quod absit, praedicare eius sermonum veritatem confundor?... [Guai a me se dimenticassi di predicare sinceramente la verità del Signore mio …] Quem infidelium saltem non perterreat illa severissima comminatio, qua indignaturum se protestatur, et asserit inquiens [incorrerei nelle severissima sentenza di indignazione comminata in …] (Math. X, 34): Qui me negaverit coram hominibus, negabo et ego eum coram Patre meo, qui in Coelis est. [ …chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli. » – Ecco anche che cosa scriveva Pietro Blesense al Vescovo d’Orleans animandolo a sostenere coraggiosamente l’Immunità Ecclesiastica (Ep.112 edit. Paris.1667, pag.175): « Noli æmulari in malignantibus Episcopis dico, qui Regem tuum blandis adulationibus palpant, canes muti, non valentes latrare. Acceptissima quidem est in Episcopis apud Deum professio veritatis. Animam pro veritate ponere non formides, ut videas dies bonos, quia sanguinem pereuntis Dominus de manu muti Sacerdotis exquiret. Arca siquidem Dei capitur, et populus gladio ruit, dum Sacerdos in filiorum correctione torpescit. [Non imitare quei Vescovi maligni che cercano di adulare il tuo re, che come cani muti, non abbaiano … graditissima presso Dio è nei Vescovi la professione della verità …] », Io ho recato ancora altre testimonianze su questo particolare nell’Opuscolo XXX, che ha per titolo Gregorio VII, e difendono la libertà Apostolica di questo Sommo Pontefice. – E che direm poi, se dalla esecuzione del debito pastorale si temano e si prevedano alla Chiesa mali maggiori, come sarebbe per esempio una violenta persecuzione, che togliesse l’esercizio del pubblico culto, onde verrebbero i Fedeli a restar privi del pascolo dei Sacramenti e della predicazione, e si troverebbero esposti a perdere facilmente anche la Fede? Rispondo, che se la Chiesa dovesse, unicamente reggersi secondo l’umana prudenza, questa difficoltà potrebbe avere gran peso. Ma poiché la Chiesa dev’essere secondo le divine ordinazioni governata, avendo Iddio sì chiaramente comandato, che i suoi pastori non tacciano, quest’umana prudenza indurrebbe una vera trasgressione della legge di Dio, e sarebbe a Lui ingiuriosa, quasi che l’infinita sapienza, e provvidenza di Dio non avesse mezzi, onde assicurare la conservazione e il buon ordine della sua Chiesa. Si potrà, non nego, in qualche caso differire l’ammonizione e la correzione, aspettando circostanze più favorevoli; ma è assai da temere per i Pastori, che la stessa dilazione non renda poi la piaga immedicabile, e che ciò che non si è fatto da prima per timore di qualche scandalo, si renda sempre più difficile a farsi in progresso, allorquando la piaga non medicata si sarà dilatata anche alle membra più sane, e avrà distese le sue radici alle parti vitali del corpo. Allora farà d’uopo d’una cura più assidua, d’un ferro più tagliente, d’una scienza più profonda, di un coraggio più intrepido. Allora l’infermo si contorcerà ed urlerà sempre più alla vista del medico e all’apparato della medicina; sinché atterrito l’uno e l’altro, arrivi finalmente a incancrenire la piaga, e a toglier la vita. Troppo pericolosa è quest’umana prudenza, la quale scuserebbe quasi sempre i Pastori dall’obbligo di ammonire e correggere i delinquenti. Imperocché quando mai accade, che questi cedano alla verga pastorale senza resistenza? È notabile a questo proposito ciò, che leggesi nei Dialoghi di Severo Sulpizio (l. 3) essere accaduto al Vescovo S. Martino. L’Imperator Massimo avea minacciato al Santo, che se egli non avesse comunicato con Itacio, da cui più Vescovi cattolici si erano separati per aver egli procurata la sentenza di morte contro i Priscillianisti, avrebbe mandato i tribuni nella Spagna a togliere e sostanze e vita a questi eretici. Non v’era dubbio, che in questa esecuzione sarebbero stati compresi anche molti cattolici de’ più santi. E perché Martino non avea voluto cedere all’istanze dell’Imperatore, questi avea già diretti i tribuni cogli ordini i più violenti. « Quod ubi Martino compertum est, dice Severo, iam noctis tempore, Palatium irrumpit, spondet, si parceretur, se communicaturum, dummodo Tribuni iam in excidium Ecclesiarum ad Hispanias missi retraherentur. Nec mora intercessit; Maximus indulget omnia. » E di fatti Martino comunicò coi Vescovi Itaciani nell’ordinazion di Felice, satius aestimans ad horam cedere, quam his non consulere, quorum cervicibus gladius imminebat. Convien qui riflettere, che alla fine Itacio non era un’eretico, onde il comunicare cogl’Itaciani non era un approvare qualch’errore, ma piuttosto un mostrare di non disapprovare la loro sanguinolenta condotta contro gli eretici contraria allo Spirito della Chiesa, la quale ha bensì procurato la deportazione degli eretici ostinati e perniciosi, ma si è sempre astenuta dal domandare contro di loro la pena capitale. Inoltre S. Martino vi aveva acconsentito per breve tempo ad horam e per salvare tant’innocenti, che altrimenti, sarebber periti. E pure ciò non ostante egli ne provò di poi un gran rammarico, e n’ebbe quest’avviso da un Angelo: « Merito, Martine, compungeris, sed aliter exire nequisti. Repara virtutem, resume constantiam, ne iam non periculum gloriæ, sed: salutis incurreris. » Laonde da quel tempo in poi si guardò il Santo con gran diligenza dal comunicare cogl’Itaciani. E non dimeno confessava egli stesso, che dopo un tal fatto avea sentita diminuire in sé medesimo la virtù de’ miracoli. « Cæterum, cum quosdam ex energumenis tardius quam solebat et gratia minore curaret, subinde nobis cum lacrimis fatebatur, se propter communionis illius malum, cui se vel puncto temporis, necessitate, non spiritu miscuisset, detrimentum sentire Virtutis. » Questo fatto può far comprendere, quanto dispiaccia a Dio qualunque azione ed omission d’un Pastore la quale diasegno o di approvare, o di non disapprovare abbastanza l’erroree l’empietà de’ malvagi, per il motivo di non irritarli vie più contro la Chiesa, e d’impedire mali maggiori. Se una qualche connivenza fosse in alcuni casi tollerabile, lo sarebbe al più ad horam per impedire un’imminente disordine, e a patto di ritrattarla subito che fosse possibile, come fece il santo Vescovo, e nei termini più ristretti, come praticò questo Santo, il quale comunicando una sola volta cogl’Itaciani, verumtamen summa vi Episcopis nitentibus, ut communionem illam subscriptione firmaret, extorqueri non potuît. Il vero è, che S. Ambrogio non volle dipoi a nessun patto comunicare cogl’Itaciani, sebbene con ciò irritasse sommamente l’animo di Massimo, e mettesse un impedimento ai felici effetti della sua legazione presso quest’Imperatore. (Paulin in vit. S. Ambros. et Ambros. in epist. ad Valentinian.). – Se S. Ambrogio avesse abbracciata questa falsa opinione, che per impedire maggioni mali si può condiscendere nelle cose, che immediatamente non riguardano il dogma, certamente non si sarebbe opposto con tanta fermezza a Valentiniano, che voleva, che gli consegnasse la Basilica e i sacri vasi per darli dipoi in mano agli Ariani. Avrebbero potuto dire, ch’egli cedeva le cose sacre all’Imperatore, che non apparteneva a lui il cercare ciò ch’egli ne avrebbe fatto, ch’esso non acconsentiva al sacrilego uso che ne farebber gli eretici; e che intanto era men male condiscendere agli ordini del Principe, che non esporre resistendo tutti i Cattolici alla di lui collera. Poteva aggiungere, che non volendo ubbidire, egli sarebbe stato per lo meno cacciato in esilio, e che il popolo senza pastore sarebbe poi stato facilmente sedotto dagli eretici; e che perciò non era prudenza il voler contrastare ai comandi risoluti di un Monarca irritato. E pure tale non fu il discorso del Santo Dottore, né conforme a questi dettami fu la sua risoluzione; ma rispose intrepidamente: « Absit a me, ut tradam Christi hæreditatem… Respondi ego quod Sacerdotis est; quod Imperatoris est, faciat Imperator; prius est, ut animam mihi, quam fidem auferat… Fugere autem et relinquere Ecclesiam non soleo; ne quis gravioris poente metu factum interpretetur. Scitis et vos ipsi, quod Imperatoribus soleam deferre non cedere; suppliciis me libenter offerre, nec metuere quæ parantur (Ambr. In Auxent.).» Ma perché il Santo sostenne coraggiosamente la causa di Dio, che ne seguì? Ecco che cosa ne dice il Cardinal Baronio nella sua Storia ecclesiastica. « Sed quæ post hace sunt subsequata? admiratione plane digna, Uni Ambrosio pro Ecclesiastica libertate pugnanti populus ac milites subditi atque principes, terra cœlumque mortales et superi, viventes atque vita functi, et quid insuper? ipsi denique spiritus adversarii, licet inviti, ei lamen præsto fuere. »