LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA – OBBLIGHI DI UN PASTORE (I)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (4)

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE

AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (I)

Che cosa deve far un Vescovo per soddisfare alle sue obbligazioni? Io tremo nel dover risponder a questa interrogazione, perché potrebbe parer a taluno, che io fossi ardito a tal segno di voler prescriver leggi ai Pastori della Chiesa. Nondimeno ho speranza, che troverò scusa appresso tutti quelli, che mi leggeranno, quando vedranno, che io non parlo né come Autore, né come Teologo alla Chiesa Cattolica, ma come un semplice raccoglitore dei sentimenti dei Teologi, dei Padri e dei Concilii. Ma per trattare quest’argomento con qualche metodo, convien distinguere nell’esercizio del pastoral ministero due tempi diversi; tempo di calma, e tempo di tempesta. Ricerchiamo dunque i doveri d’un piloto nella calma, e conosceremo insieme i suoi doveri nella procella. Mostratemi gli obblighi d’un pastore, che non è circondato dai lupi, ed io vi mostrerò i suoi obblighi, quando i lupi insidiano l’ovile e la greggia. Quello, che un pilota, e un pastore è tenuto a fare in tempo che gode la pace coi venti e colle fiere, è molto più tenuto a farlo, quando entra in battaglia colle fiere e coi venti. E quello che un Vescovo deve al suo popolo in tempo di calma, lo deve molto più al suo popolo in tempo di agitazione.

Dunque quali sono i principali doveri di un Vescovo in tempo di pace?

Gesù Cristo ha chiamato se medesimo col nome di Pastore: Ego sum pastor bonus (Ioan. X, 11). Egli medesimo raccomandando a S. Pietro tutti i fedeli, lo ha dichiarato Pastor della Chiesa: Pasce agnos meos… pasce oves meas (Joan. XXI, 16, 17). S. Paolo Apostolo indirizzando il discorso a tutti i Vescovi raccomanda loro, come a Pastori la greggia: Attendite vobis, et universo gregi, in quo vos Spiritus Sanctus posuit Episcopos regere Ecclesiam Dei (Act. XX, 28). Dunque, i doveri di un Vescovo sono quelli di un Pastore, cioè, secondo il Concilio di Trento, di pascère il suo popolo colla divina parola, coll’amministrazione de’ Sacramenti (Concil. Trident. Sess. XXIII, Decr. de ref. c.1, Act. Eccles. Mediol. part. A, orat. S. Carol. in Concil. Province. primo Lugdun. 1682, pag. 50), e coll’esempio di tutte le buone opere. « Præcepto divino mandatum est omnibus, quibus animarum cura commissa est, oves suas agnoscere… verbique divini prædicatione, Sacramentorum administratione, ac bonorum omnium operum exemplo pascere. » – E per cominciare dal primo, il predicare al popolo la divina parola è un obbligo così rigoroso in un Vescovo, che non lo può dispensare, se non un legittimo impedimento, perché la predicazione, del Vangelo è il principale ufficio del Pastore (Concil. Cart. 4, can. 20, Concil. Mogunt. an. 813, can. 25, Concil. Rhemens. 2, c. 14 et 15, Tolet. A1, can. 2, Trullan. can.19, 20, Arelat. an. 843, can. 3, Turonens. 3, an. 81 3, can. 17, Ticinens. an. 850, can. 5, Lateran. 4, can. 10, Avenion. an. 1209, can. 4, Paris. an.1212, can. 3, Balsamon. în can. 58, Apost. Orat. S.Carol. in 2 Concil. Provinc. Bellarmin. ad Nepot. contr. 2). Perciò, allorquando il Vescovo è consacrato, gli consegnano il Vangelo, e gli dicono: Accipe Evangelium, vade, et prædica populo tibi commisso [Ricevi il Vangelo e predica al popolo a te affidato]. Nè queste sono leggi antiquate, o che possano abolirsi. L’ultimo general Concilio di Trento lo ricorda e lo ingiunge a tutti i Pastori in questa forma: Quia  vero Christianæ Reipublicæ non minus necessaria est prædicatio Evangelii, lectio; quam et hoc est præcipuum Episcoporum munus; statuit, et de- crevit cadem Sancta Synodus, omnes Episcopos, Archiepiscopos, Primates, et omnes alios Ecclesiarum Praclatos teneri per se ipsos, si legitime impediti non fuerint, ad prædicandum sanctum Jesu Christi Evangelium. (Concil. Trident. Sess. 3 de reform. cap. 2) Ripete la stessa cosa alla sessione vigesima quarta capo quarto; e senza questa né pure una lunghissima desuetudine può dispensare i Vescovi da questa legge, la quale, come abbiam veduto coll’autorità dello stesso Concilio, non è legge Ecclesiastica, ma divina: Præcepto divino mandatum est. E infatti le pecore devono seguir il Pastore, e ascoltar la sua voce, e il Pastore deve chiamarle a nome una per una, e condurle al pascolo: Ques vocem eius audiunt, proprias oves vocat nominatim et adducit eas. Et cum proprias oves emiserit, ante eas vadit: et oves illum sequuntur, quia sciunt vocem eius [Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce – Joan. X, 3 et segg.). Dunque è necessario, che il Vescovo faccia sentire al Popolo la sua voce. Di più i Vescovi sono i successori degli Apostoli nell’Episcopato, e gli Apostoli hanno predicato per se medesimi il Vangelo per tutta la terra: In omnem terram exivit sonus eorum, et în  fines orbis terræ verba eorum [Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola. – Psalm. XVIII, 5]. S. Paolo protestavaagli Efesini di aver predicato e in pubblico, e per le case; Vos scitis… quomodo nihil subtraxerim utilium, quominus annuntiarem vobis, et docerem vos publice, et per domos [voi sapete … come non mi sia sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio pubblicamente e nelle case … – Act. XX). Aggiungeva, che questo fosse un dovere, e guai, se non avesse predicato, (1 Cor., IX, 16). Si Evangelizavero non est mihi gloria, necessitas enim mihi incumbit: væ enim mihi est, si non evangelizavero [Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo (1 Cor. IX, 18). Non enim misit me Christus baptizare, sed evangelizare. Quindi scriveva a Tito: Tu autem loquere, quæ decent sanam doctrinam [Tu però insegna ciò che è secondo la sana dottrina:  – Ad. Tit. II, 1]; e a Timoteo: Prædica verbum, insta opportune: argue, obsecra, increpa in omni patientia, et doctrina [… annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. – 2 Timot. IV, 2].Che però il Concilio Romano dell’anno 1074 arriva a dire, che niente giova a un Vescovo l’esser virtuoso, se poi non è capace0d’istruire il suo popolo (Concil. Roman. an. 1074, cap. 16), e di esortarlo a mantenersi nella sana dottrina. « Oportet Episcopum esse Doctorem: nihil enim prodest ei conscientia virtutum perfrui, nisi et creditum sibi populum posset instruere, et valeat exhortari in doctrina, et eos qui contradicunt redarguere.. [… è necessario che il Vescovo sia dotto, nulla gli vale una   non ha credito nell’insegnare ed esortare alla dottrina e redarguire gli oppositori …] » E questo è ciò, che scriveva anche S. Girolamo (lib. 2 ep. select. 2) a Paolino: Sancta quippe rusticitas solum sibi prodest: et quantum ædificat ex vitæ merito Ecclesiam Christi, tantum nocet, si destruenti non resistat.[una santa rusticità serve a sé solamente, ma edifica col merito della Chiesa di Cristo, e tanto nuoce se non resiste ai ribelli]. – Troppo sarebbe, se io volessi qui riferire tutti i detti de’ Padri, i quali, (S. Gregor. Reg. Past. p. 2, c. 4 et in Evang. hom. 17,S. Agost. ep. 59, S. Leone ep.62, S. Isidor. de Eccles. offic. l. 2,S. Iar. 1.8 de Triniît. S. Cæsar. Vit. c. 6, S. Fulbert. Carnot. ep. 88ad Robert. Petrus Blesens. de instit. Episc. S. Thom,3 p. q. 67,art. 2) quando hanno parlato de’ Vescovi, si sono sempre dichiarati per questo incontrastabile loro dovere. Ma ecco quello, che scriveva S. Bernardo a un semplice Abate, ricordandogli l’obbligo di pascere col pane della divina parola i suoi sudditi, e sciogliendo insieme quelle (Bern. ep. 101, n.2) difficoltà, che dall’umana pigrizia. si sogliono produrre. « Procura di farti trovare dal servo fedele e prudente, e di comunicare a’ tuoi fratelli il celeste grano senza invidia, e di distribuirlo senza pigrizia; e non volerti scusar vanamente col dire, che sei uomo nuovo ed imperito; il che non so, se tu lo credi veramente, o pure se il fingi. Imperocchè non piace una infruttuosa verecondia, né deve lodarsi una falsa umiltà. Abbi dunque l’occhio al tuo impiego. Caccia via la vergogna in riflesso del tuo dovere, ed opera da maestro. Sei uomo nuovo, ma sei debitore; e sappi, che allora sei divenuto debitore, quando hai preso questo legame. Forse la novità Scuserà appresso il tuo creditore la perdita che farai del guadagno? Forse il trafficante soffre, che Scorrano senza frutto i primi mesi? Ma risponderai, che non sei abile a questo incarico. Come se il tuo buon animo dovess’essere accetto per quello, che non hai, e non piuttosto per quello, che hai. Devi esser pronto a render ragione di quel solo talento, che hai ricevuto, e niente più. Se hai ricevuto molto, molto hai da rendere; se poco, devi fruttificar questo poco. Imperocché chi non è fedele nel poco, non lo è né pure nel molto. Dà tutto quello che hai, perché dovrai render conto sino all’ultimo denaro; ma certamente quello che hai, non quel che non hai.» Qui finisce il Santo; ed io discorro così: Se s. Barnardo incaricava sì strettamente ad un Abate di predicare a’ suoi Monaci, che avrà poi detto a un Pastore di molte migliaia di anime? Così pensava ancora Giuliano Pomerio quando scriveva (De vit. contempl. l. 1, c. 21). « Nec vero se per imperitiam Pontifex excusabit, quasi » propterea docere non valeat, quod ci sufficiens, et luculentus sermo non suppetat; quando nulla alia Sacerdotis doctrina debet esse, quam vila; salisque auditores possint proficere, si a Doctoribus suis, quod vident Specialiter fieri, hoc sibi ctiam simpliciter » audiant prædicari: dicente Apostolo: Et si imperitus sermone, » sed non lingua….. Non igitur in verborum splendore, sed in Operum virtute totam prædicandi fiduciam ponat. » Ed infatti chi doveva parere più insufficiente a predicare di un Ambrogio, che di laico all’improvviso fu creato Vescovo, e dai tribunali fu di repente introdotto nel Santuario? Lo rifletteva egli medesimo; e pure non si credeva per questo dispensato dall’ob- bligo di predicare (S. Ambr. Office. 1. 1, c.1): S. Agostino racconta di averlo sentito (Conf. I. 6, c. 3) egli medesimo a predicare ogni Domenica. Chi potrà dunque scusarsi al tribunale di Dio per non avere dispensata al popolo la sua parola, quando Dio gli rinfaccerà l’esempio di un laico togato, che in un giorno solo è divenuto zelante banditore del suo Vangelo? Ma se in ogni tempo; e di precetto divino è tenuto un Pastore ad aprire le labbra colle sue pecorelle, molto più sarà tenuto di farlo in tempo di persecuzione. S’egli è obbligato a conservar la fede, quando è rispettata, molto più è obbligato a difenderla quando è assalita. S’egli deve guidar le pecore ai pascoli, quando i pascoli sono sani, molto più deve guardarle, quando sono infetti. Le pecore non conoscono i lupi, conoscono solo il pastore; e se il pastore non parla, andran senza riparo in bocca ai lupi. E se anche le pecore conoscessero il lupo, tuttavia non potrebbero da se difendersi; tocca al pastore o a custodirle nell’ovile, o a farsi innanzi a loro, e a spaventar colla sua voce, e a cacciare il lupo. Non è un pastore, ma un mercenario colui il quale quando vede venire il lupo, o fugge, o si nasconde, questo è segno, che le pecore non sono sue; questo è indizio, che a lui non appartengono quelle pecore (Joan. X, 12 et segg.). « Mercenarius autem, et qui non est pastor, cuius non sunt oves propriæ, videt lupum venientem, et dimittit oves, et fugit: et lupus rapit, et dispergit oves. Mercenarius autem fugit, quia mercenarius est, et non pertinet ad eum de ovibus. [Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore ]» Ma il Pastore deve alzar la voce anche contro quelli, che non sembrano lupi al di fuori, e che si coprono colle lane degli agnelli? Sì: bisogna avvisar le pecore, che si guardino anche da questi. Così ha fatto il primo Pastore Gesù Cristo Signor Nostro, il quale ha detto espressamente: (Math. VII, 15). Attendite a falsis prophetis, qui veniunt ad vos in vestimentis ovium, intrinsecus autem sunt lupi rapaces. [Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci]. Anzi più contro questi, che non contro gli altri,quanto è più facile il pericolo di seduzion nelle pecore. Se la pecora non può difendersi dal lupo, fugge almeno da lui, quando lo conosce per tale. Ma da un lupo travestito d’agnello la pecora né si difende, né fugge. « Episcopi, præsbyteri, scriveva Alcuino (de Offic. divin. de tons. Cleric.) debent annuntiare populis sibi subiectis adventum nequissimi hostis diaboli ut se prævideant, ne eius laqueo capiantur. »Ma dovrà dunque un Pastore espor la vita per la difesa delle sue pecorelle? Il Mercenario no: ma il Pastore anche la vita deve perdere per la loro salute. (Joan. X, 11). Così ha insegnato, e ha praticato Gesù Cristo. Ego sum Pastor bonus. Bonus Pastor animam suam dat pro ovibus suis. [Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore]. È vergogna per un Pastore, diceva Giovanni Scolastici (de Pastor Offic.) il temere la morte: Confusio est Pastori formidare mortem. (Quindi asseriva giustamente Giovanni Fonseca Dottore Spagnuolo nella sua Orazione recitata (Lab. t. 20, col.572) ai Padri del Concilio di Trento. Tenetur Pastor, sì quandoingruerit persecutionis procella, exemplo sui ducis Christi Crucifixi proprium caput pro ovium salute periculis obiicere; I fasti della Chiesa sono pieni delle gesta di zelanti Pastori, che hanno sostenuta la morte in difesa della fede, ed essi sono grandi nel Cielo, non per aver fatta un’opera di libera elezione, ma per aver compito intrepidamente al debito loro.Fu ricercato S. Pietro Damiani da Enrico Arcivescovo di Ravenna, qual fosse il suo sentimento su l’Antipapa Cadolao, e insieme fu avvertito, che mandasse la sua risposta segretamente per. non esporsi a qualche affronto. Che cosa rispose il Santo? Rispose circa il primo punto, ch’egli giudicava Cadolao un simoniaco, e perciò indegno del Pontificato. E intorno al secondo punto, eccole sue parole: (Petri Damian. L 3, p. 4 edit. Bassan.1783 t. 1,col. 91). « Quod autem scripsistis, ut mitterem vobis litteras taciturnitate signatas, quasi paterno mihi consulentes affectu, ne adversafortassis incurrerem, si sensa cordis cum libertate proferrem;absit a me, ut in tali negotio dura prorsus, et aspera perpetisubterfugiam, et negligendo tam ingenuæ matris incestum, sub, umbra degener filius delitescam. Immo peto, ut epistola hæc in publicum veniat, et sic per vos, quid super hoc totius mundi periculo sentiendum sit, omnibus innotescat. »Ma se non si spera di placar la fame dei lupi, né di ritirarle pecore dal pascolo dovrà tanto e tanto il Pastore alzar la voce autorevole, ed esporsi forse a un insulto? Il Pastore sì: il Mercenario no: perché il mercenario non cerca che il suo vantaggio, e il pastore non bada che al suo dovere. Dio, che consegnò quella greggia al pastore, non gli domanderà conto della vita delle pecore, ma gli chiederà conto della sua vigilanza. La vita delle pecore non dipende totalmente dal pastore; dal pastore dipende il vegliare perché non si perdano. (Ezech. III, 17) « Io ti ho messo, disse Iddio ad Ezechiele, io ti ho messo per guardia della casa d’Israele; ed ascolterai le parole, che escono dalle mie labbra, e le promulgherai ad essi in mio nome. Se quando io dico all’empio, tu morirai, non lo farai sapere a lui, e non parlerai, affinché rivolga i passi dall’empio sentiero, e non muoia, colui se ne morrà nel suo peccato, ma io domanderò conto alle tue mani del suo sangue. Che se tu l’annunzierai all’empio, ed egli non si ritirerà dal suo peccato, e dall’iniquo sentiero; egli senza dubbio morirà nella sua iniquità,ma tu avrai messo in salvo l’anima tua. » Ecco il primo dovere di un Pastore, cioè di sgridar gli empii, che cercano di divorare la greggia, benché non speri, che costoro cangino le vie e i pensieri d’iniquità. Segue adesso l’altro dovere di un Pastore, cioè di ammonire i giusti, perché non si lascino depravar dagli empii (Ibi 20 et seg.) … « Che se un giusto abbandonerà le vie della giustizia, e diverrà iniquo: metterò un’inciampo dinanzi a lui, egli morirà, perché tu non l’hai avvertito; morirà nel suo peccato, e non resterà più memoria dell’opere buone ch’egli fece: ma del suo sangue io domanderò conto alle tue mani. Ma se tu avviserai il giusto, perché non pecchi, ed egli infatti non peccherà: conserverà la sua perché tu l’ammonisti, e tu avrai messo in salvo l’anima tua. » – Non son forse queste espressioni, e questi sentimenti a sufficienza terribili per l’anima di un Pastore? Ma se queste non bastano (Ved. le constitut. Apost. lib. 2, cap. 20), eccone delle altre (Ezech. XXXIV, 2 et segg.): « Guai, dice il Signore Iddio ai Pastori d’Israele, che pascevano se medesimi: non son forse le greggi, che devon esser pasciute dai Pastori? Voi mangiavate del latte, e vestivate delle lane, e uccidevate le più pingui agnelle; ma non pascevate la mia greggia. Non rinvigoriste le deboli, non risanaste le inferme, non fasciaste le lor ferite, e non riconduceste le smarrite, e non cercaste conto delle perdute; ma sovrastaste loro con austerità e con potere. E le mie pecore andaron disperse per non aver pastore; e caddero in bocca a tutte le bestie del campo, e si dispersero… Ecco dunque, che io stesso domanderò conto ai pastori della mia greggia.» – Faremo ancora tanto caso di questa scusa: a che serve il predicare, l’ammonire, il correggere? in questi tempi non può sperarsi alcun profitto. Ma dunque non è ancora evidente, che Iddio non cerca dal pastore la guarigion delle pecore, ma la cura della lor infermità. Nè pur da Pietro cercava Gesù Cristo altra cosa, fuorché il medicar le pecore, non già il guarirle, come diceva il Dottor Pietro Frago ai Padri (Labbé tom. 20, col. 332) del Concilio di Trento. Ne Christus quidem aliud a Petro postulavit: non enim a Pastore sanatio, sed cura, et sollicitudo exigitur. E Pietro Blesense al Vescovo di Orleans, esortandolo a difendere l’Immunità dinanzi al Principe (ep. 112): Ab exortatione, gli scrive, quæso non cesses, licet ille suorum consilio assessorum se obduret. Non scriveva S. Paolo a Timoteo, che aspettasse il frutto delle sue prediche, ma bensì che predicasse in tutte le guise. (2 Timoth. IV, 2). Prædica verbum, insta opportune; importune; argue, obsecra, increpa in omni patientia, et doctrina. [… annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina]. Che ottenne Gesù Cristo dai Giudei, che lo perseguitavano, colle sue prediche? Ottenne la morte sopra un patibolo, e questa fu la sua gloria più bella, e la sua maggior soddisfazione. – Bisogna leggere ciò, che scriveva S. Bernardo a Papa Eugenio intorno all’obbligo di predicare anche ai ribelli della fede, e ai trasgressori della legge. Voi dite, scriveva (de Consid. l. 4, c. 4, num. 8) il Santo Dottore, voi dite, che non siete punto migliore dei vostri Padri, i quali non furono ascoltati, ma anzi piuttosto derisi da un popolo iniquo. Ma appunto Maggiormente per questo voi dovete insistere per vedere se mai diano orecchio, e si calmino, insister dovete anche con quelli, che vi resistono. Potrebbe darsi, che queste mie parole vi sembrassero troppo avanzate. E che son forse (2 Timot. IV, 2) mie quelle parole: Insta opportune, importune?All’Apostolo, e non a me dovete dar la taccia d’indiscreto, se avete tanto coraggio. A un Profeta si comanda (Isai. LVIII, 1). Clama, ne cesses. E con chi? se non se cogli scellerati, e coi peccatori? Annuntia populo meo scelera eorum, et domui Jacob peccata eorum. Avvertite saggiamente, che s’indicano insieme e gli scellerati, e il popolo di Dio. Dovete far l’istesso concetto dei vostri Sudditi. Quantunque siano scellerati ed iniqui, guardatevi da quel rimprovero del Signore (Matth. XXV, 45), Quod uni ex minimis meîs non fecisti, nec mihi fecisti. Confesso, che codesto popolo sino ad ora ha mostrato una cervice dura, e un cuore indomito, ma non vedo poi, come possiate saper di certo, che sia un popolo affatto indomabile. Può succedere quello, che sino ad ora non è accaduto. Se voi diffidate, ricordatevi per altro, che nessuna cosa è impossibile dinanzi a Dio. Se hanno una fronte dura, indurate ancor voi la vostra contra di loro. Nessuna cosa è tanto dura, che non ceda a una più dura di lei. Diceva Iddio al Profeta (Ezec. III, 8). Dedi frontem tuam duriorem frontibus corum. [Ecco io ti do una faccia tosta quanto la loro e una fronte dura quanto la loro fronte]. Una sola cosa vi si può assolvere, cioè se avete operato col vostro popolo in guisa, che possiate dire; Popule meus, quid tibi debui facere, et non feci? [Popolo mio cosa avrei dovuto fare che non ho fatto?]. Se avete operato così, ma senza profitto, ecco che cosa vi resta da fare, e da dire. Uscite fuori da codesta Città dei Caldei, e dite, che v’è bisogno di predicare anche ad altre Città. Credo, che non vi pentirete d’andar esule, cangiando una Città con tutto il mondo. V’è dunque un tempo, in cui può un Pastore lasciar di predicare e di correggere il suo popolo. Ma quando? non quando teme di non far profitto, ma quando, dice S. Bernardo, avendo predicato, sgridato e resistito a un popolo iniquo, trova di non aver ricavato alcun profitto: « Insiste Magis… insiste et resistentibus …. Potest » fore, quod nec dum fuit….. Si dura fronte sunt, durato et tu contra tuam…… Unum est, quod te absolvit, si egisti cum populo illo, ut possis dicere: Popule meus, quid tibi debui facere, et non feci? » – Non sono meno spaventosi i sentimenti di S. Pietro Damiani a Niccolò II Pontefice. Signoreggiava a quei tempi fra i Chierici l’incontinenza, e scriveva il Santo al Sommo Pontefice (S. Petri Damian. Opusc. 18, Dissert. 2, cap. 8, tom. 3, col. 409) ricordandogli il suo dovere di opporsi con tutto lo zelo all’inondazione di questo vizio. « Valde tibi cavendum est, venerabilis Pater, qui quamvis temetipsum præbeas vernantis pudicitiæ candore conspicuum permittis tamen, ut in Clero tuo, tamquam cruenta illa Iezabel, obtineat luxuria principatum; de qua nimirum Angelo Thiatiræ Ecclesiæ dicitur ( Apoc. II, 20). Habeo adversum te pauca: quod permittis mulierem Iezabel, quæ se dicit Prophetam, docere el seducere servos meos fornicari. [Ma ho da rimproverarti che lasci fare a Iezabèle, la donna che si spaccia per profetessa e insegna e seduce i miei servi inducendoli a darsi alla fornicazione e a mangiare carni immolate agli idoli.]. Authentica certe est illa sententia, qua dicitur: Facti culpam habet, qui quod potest, negligit emendare. Quid enim profuit Heli (1 Reg. II), quia in luxuriam ipse non corruit, sed fornicantes filios paterna quidem pietate,non autem sacerdotali auctoritate corripuit? » [Eli non si diede alla lussuria, ma non emendò il comportamento dei figli con la sua autorità sacerdotale]. Al quale proposito soggiunge altrove il Santo (Opusc. 17, col. 379): « Si ergo Heli propter duos dumtaxat filios, quos non ea, qua digni crant, invectione corripit, cum eis simul, et cum tot hominum moltitudine periit; qua arbitramur dignos esse sententia, qui in aula Ecclesiastica, et soliis indicantium praesident, et super non ignotis pravorum hominum criminibus tacent? Qui dum dehonestare homines in publico metuunt, ad contumeliam superni Iudicis divinæ legis mandata confundunt; et dum perditis hominibus amittendi honoris officium servant, ipsum Ecclesiasticæ dignitatis Auctorem crudeliter inhonorant. » Conformi a questi sentimenti di S. Pier Damiani son pure le parole del Concilio di Aquisgrana, ann. 816, (lib. 1, cap. 26, Labbé tom. 9, col. 434). « Ille autem, » cui dispensatio verbi commissa est etiam si sancte vivat, et tamen perdite viventes arguere aul erubescat, aut metuat, cum omnibus, qui eo tacente perierunt, perit. Et quid ei proderit non puniri suo, qui puniendus est alieno peccato? » Quindi è, che Papa Agatone nella sua lettera a Tiberio ed Eraclio, Augusti, recitata nell’Azione quarta del terzo Concilio Costantinopolitano, ed Ecumenico l’an. 680 dopo aver esaltata la libertà Apostolica dei suoi predecessori nell’annunciare con infallibile certezza la Fede, soggiunge di se stesso così; (Labbé tom. 7, col. 662). « Væ enim mihi erit, si veritatem Domini mei, quam illi sinceriter prædicarunt, prædicare neglexero. Vae mihi erit, si silentio texero veritatem, quam erogare nummulariis iussus sum, idest Christianum populum imbuere, et docere. Quid in ipsius Christi futuro examine dicam si hic, quod absit, praedicare eius sermonum veritatem confundor?... [Guai a me se dimenticassi di predicare sinceramente la verità del Signore mio …]  Quem infidelium saltem non perterreat illa severissima comminatio, qua indignaturum se protestatur, et asserit inquiens [incorrerei nelle severissima sentenza di indignazione comminata in …] (Math. X, 34): Qui me negaverit coram hominibus, negabo et ego eum coram Patre meo, qui in Coelis est. [ …chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.   » –  Ecco anche che cosa scriveva Pietro Blesense al Vescovo d’Orleans animandolo a sostenere coraggiosamente l’Immunità Ecclesiastica (Ep.112 edit. Paris.1667, pag.175): « Noli æmulari in malignantibus Episcopis dico, qui Regem tuum blandis adulationibus palpant, canes muti, non valentes latrare. Acceptissima quidem est in Episcopis apud Deum professio veritatis. Animam pro veritate ponere non formides, ut videas dies bonos, quia sanguinem pereuntis Dominus de manu muti Sacerdotis exquiret. Arca siquidem Dei capitur, et populus gladio ruit, dum Sacerdos in filiorum correctione torpescit. [Non imitare quei Vescovi maligni che cercano di adulare il tuo re, che come cani muti, non abbaiano … graditissima presso Dio è nei Vescovi la professione della verità …]  »,  Io ho recato ancora altre testimonianze su questo particolare nell’Opuscolo XXX, che ha per titolo Gregorio VII, e difendono la libertà Apostolica di questo Sommo Pontefice. – E che direm poi, se dalla esecuzione del debito pastorale si temano e si prevedano alla Chiesa mali maggiori, come sarebbe per esempio una violenta persecuzione, che togliesse l’esercizio del pubblico culto, onde verrebbero i Fedeli a restar privi del pascolo dei Sacramenti e della predicazione, e si troverebbero esposti a perdere facilmente anche la Fede? Rispondo, che se la Chiesa dovesse, unicamente reggersi secondo l’umana prudenza, questa difficoltà potrebbe avere gran peso. Ma poiché la Chiesa dev’essere secondo le divine ordinazioni governata, avendo Iddio sì chiaramente comandato, che i suoi pastori non tacciano, quest’umana prudenza indurrebbe una vera trasgressione della legge di Dio, e sarebbe a Lui ingiuriosa, quasi che l’infinita sapienza, e provvidenza di Dio non avesse mezzi, onde assicurare la conservazione e il buon ordine della sua Chiesa. Si potrà, non nego, in qualche caso differire l’ammonizione e la correzione, aspettando circostanze più favorevoli; ma è assai da temere per i Pastori, che la stessa dilazione non renda poi la piaga immedicabile, e che ciò che non si è fatto da prima per timore di qualche scandalo, si renda sempre più difficile a farsi in progresso, allorquando la piaga non medicata si sarà dilatata anche alle membra più sane, e avrà distese le sue radici alle parti vitali del corpo. Allora farà d’uopo d’una cura più assidua, d’un ferro più tagliente, d’una scienza più profonda, di un coraggio più intrepido. Allora l’infermo si contorcerà ed urlerà sempre più alla vista del medico e all’apparato della medicina; sinché atterrito l’uno e l’altro, arrivi finalmente a incancrenire la piaga, e a toglier la vita. Troppo pericolosa è quest’umana prudenza, la quale scuserebbe quasi sempre i Pastori dall’obbligo di ammonire e correggere i delinquenti. Imperocché quando mai accade, che questi cedano alla verga pastorale senza resistenza? È notabile a questo proposito ciò, che leggesi nei Dialoghi di Severo Sulpizio (l. 3) essere accaduto al Vescovo S. Martino. L’Imperator Massimo avea minacciato al Santo, che se egli non avesse comunicato con Itacio, da cui più Vescovi cattolici si erano separati per aver egli procurata la sentenza di morte contro i Priscillianisti, avrebbe mandato i tribuni nella Spagna a togliere e sostanze e vita a questi eretici. Non v’era dubbio, che in questa esecuzione sarebbero stati compresi anche molti cattolici de’ più santi. E perché Martino non avea voluto cedere all’istanze dell’Imperatore, questi avea già diretti i tribuni cogli ordini i più violenti. « Quod ubi Martino compertum est, dice Severo, iam noctis tempore, Palatium irrumpit, spondet, si parceretur, se communicaturum, dummodo Tribuni iam in excidium Ecclesiarum ad Hispanias missi retraherentur. Nec mora intercessit; Maximus indulget omnia. » E di fatti Martino comunicò coi Vescovi Itaciani nell’ordinazion di Felice, satius aestimans ad horam cedere, quam his non consulere, quorum cervicibus gladius imminebat. Convien qui riflettere, che alla fine Itacio non era un’eretico, onde il comunicare cogl’Itaciani non era un approvare qualch’errore, ma piuttosto un mostrare di non disapprovare la loro sanguinolenta condotta contro gli eretici contraria allo Spirito della Chiesa, la quale ha bensì procurato la deportazione degli eretici ostinati e perniciosi, ma si è sempre astenuta dal domandare contro di loro la pena capitale. Inoltre S. Martino vi aveva acconsentito per breve tempo ad horam e per salvare tant’innocenti, che altrimenti, sarebber periti. E pure ciò non ostante egli ne provò di poi un gran rammarico, e n’ebbe quest’avviso da un Angelo: « Merito, Martine, compungeris, sed aliter exire nequisti. Repara virtutem, resume constantiam, ne iam non periculum gloriæ, sed: salutis incurreris. » Laonde da quel tempo in poi si guardò il Santo con gran diligenza dal comunicare cogl’Itaciani. E non dimeno confessava egli stesso, che dopo un tal fatto avea sentita diminuire in sé medesimo la virtù de’ miracoli. « Cæterum, cum quosdam ex energumenis tardius quam solebat et gratia minore curaret, subinde nobis cum lacrimis fatebatur, se propter communionis illius malum, cui se vel puncto temporis, necessitate, non spiritu miscuisset, detrimentum sentire Virtutis. » Questo fatto può far comprendere, quanto dispiaccia a Dio qualunque azione ed omission d’un Pastore la quale diasegno o di approvare, o di non disapprovare abbastanza l’erroree l’empietà de’ malvagi, per il motivo di non irritarli vie più contro la Chiesa, e d’impedire mali maggiori. Se una qualche connivenza fosse in alcuni casi tollerabile, lo sarebbe al più ad horam per impedire un’imminente disordine, e a patto di ritrattarla subito che fosse possibile, come fece il santo Vescovo, e nei termini più ristretti, come praticò questo Santo, il quale comunicando una sola volta cogl’Itaciani, verumtamen summa vi Episcopis nitentibus, ut communionem illam subscriptione firmaret, extorqueri non potuît. Il vero è, che S. Ambrogio non volle dipoi a nessun patto comunicare cogl’Itaciani, sebbene con ciò irritasse sommamente l’animo di Massimo, e mettesse un impedimento ai felici effetti della sua legazione presso quest’Imperatore. (Paulin in vit. S. Ambros. et Ambros. in epist. ad Valentinian.). – Se S. Ambrogio avesse abbracciata questa falsa opinione, che per impedire maggioni mali si può condiscendere nelle cose, che immediatamente non riguardano il dogma, certamente non si sarebbe opposto con tanta fermezza a Valentiniano, che voleva, che gli consegnasse la Basilica e i sacri vasi per darli dipoi in mano agli Ariani. Avrebbero potuto dire, ch’egli cedeva le cose sacre all’Imperatore, che non apparteneva a lui il cercare ciò ch’egli ne avrebbe fatto, ch’esso non acconsentiva al sacrilego uso che ne farebber gli eretici; e che intanto era men male condiscendere agli ordini del Principe, che non esporre resistendo tutti i Cattolici alla di lui collera. Poteva aggiungere, che non volendo ubbidire, egli sarebbe stato per lo meno cacciato in esilio, e che il popolo senza pastore sarebbe poi stato facilmente sedotto dagli eretici; e che perciò non era prudenza il voler contrastare ai comandi risoluti di un Monarca irritato. E pure tale non fu il discorso del Santo Dottore, né conforme a questi dettami fu la sua risoluzione; ma rispose intrepidamente: « Absit a me, ut tradam Christi hæreditatem… Respondi ego quod Sacerdotis est; quod Imperatoris est, faciat Imperator; prius est, ut animam mihi, quam fidem auferat… Fugere autem et relinquere Ecclesiam non soleo; ne quis gravioris poente metu factum interpretetur. Scitis et vos ipsi, quod Imperatoribus soleam deferre non cedere; suppliciis me libenter offerre, nec metuere quæ parantur (Ambr. In Auxent.).» Ma perché il Santo sostenne coraggiosamente la causa di Dio, che ne seguì? Ecco che cosa ne dice il Cardinal Baronio nella sua Storia ecclesiastica. « Sed quæ post hace sunt subsequata? admiratione plane digna, Uni Ambrosio pro Ecclesiastica libertate pugnanti populus ac milites subditi atque principes, terra cœlumque mortales et superi, viventes atque vita functi, et quid insuper? ipsi denique spiritus adversarii, licet inviti, ei lamen præsto fuere. »

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “QUOD APOSTOLICI MUNERIS”

Il Santo Padre S.S, Leone XIII, scrive questa importante lettera enciclica per ribadire i concetti evangelici che animano una società cristiana, la dottrina sociale della Chiesa, opposta alle aberranti ideologie partorite nelle sette di perdizione, le conventicole adoratrici del baphomet. Questa dottrina è stata ed è totalmente disattesa dalle generazioni del secolo scorso e successive in ogni parte del mondo che hanno preferito seguire i miraggi economici e di benessere che il demonio presentava loro fraudolentemente. Le ideologie variamente mascherate … socialista, comunista, progressista, ed oggi – la peggiore di tutte – mondialista, traggono tutte la loro velenosa radice dal Non serviam luciferino, ideologia che conduce alla morte del corpo (si pensi alle guerre scatenate dai comunisti in ogni luogo del pianeta, alle persecuzioni cruente, fino alle false pandemie dei kazari-mondialisti, sostenute da macabri soppressioni nelle sale di rianimazione, o nei letti di ospedali “macello-dedicati” ove si entra sani, e si esce inceneriti … il trionfo della medicina senza DIO!), ma soprattutto alla morte dell’anima, giusta punizione per l’apostasia ed il rifiuto a seguire la legge divina sbandierata dalla Santa Madre Chiesa di Cristo … Santa Madre oggi cacciata dal “cielo” e rifugiata nel deserto lontano dai falsi prelati eretici e scismatici, ipocriti propagatori di false dottrine, falsi culti, falsi sacramenti, sacrilegi inauditi … finiranno tutti con il falso profeta, la bestia e il dragone nello stagno di fuoco … parola di Dio  già vergata nel libro di San Giovanni Apostolo … qui autem diligit iniquitatem, odit animam suam. Pluet super peccatores laqueos; ignis et sulphur, et spiritus procellarum, pars calicis eorum.

Leone XIII
Quod Apostolici muneris

Lettera Enciclica

Già dall’inizio del Nostro Pontificato, secondo quanto richiedeva la natura dell’Apostolico ministero, con Lettera enciclica a Voi indirizzata, Venerabili Fratelli, segnalammo la micidiale pestilenza che serpeggia per le intime viscere della società e la riduce all’estremo pericolo di rovina; indicammo contemporaneamente i rimedi più efficaci per richiamarla a salute e per salvarla dai gravissimi pericoli che la sovrastano. Ma nel giro di poco tempo crebbero talmente i mali che allora deplorammo, da sentirci ora costretti a rivolgervi di nuovo la parola, come se alle Nostre orecchie risuonasse la voce del Profeta: “Grida, non darti posa; alza la tua voce come una tromba” (Is 58,1). Comprendete facilmente, Venerabili Fratelli, che Noi parliamo della setta di coloro che con nomi diversi e quasi barbari si chiamano Socialisti, Comunisti e Nichilisti, e che sparsi per tutto il mondo, e tra sé legati con vincoli d’iniqua cospirazione, ormai non ricercano più l’impunità dalle tenebre di occulte conventicole, ma apertamente e con sicurezza usciti alla luce del giorno si sforzano di realizzare il disegno, già da lungo tempo concepito, di scuotere le fondamenta dello stesso consorzio civile. Costoro sono quelli che, secondo le Scritture divine, “contaminano la carne, disprezzano l’autorità, bestemmiano la maestà” (Gd 8), e nulla rispettano e lasciano integro di quanto venne dalle leggi umane e divine sapientemente stabilito per l’incolumità e il decoro della vita. Ai poteri superiori (ai quali, secondo l’ammonimento dell’Apostolo, conviene che ogni anima si tenga soggetta, e che da Dio ricevono il diritto di comandare) ricusano l’obbedienza e predicano la perfetta uguaglianza di tutti nei diritti e negli uffici. Disonorano l’unione naturale dell’uomo e della donna, rispettata come sacra perfino dai barbari, e indeboliscono e anche lasciano in balìa della libidine il vincolo coniugale per il quale principalmente si mantiene unita la società domestica. Presi infine dalla cupidigia dei beni terreni, che “è radice di tutti i mali, e per amore della quale molti hanno traviato dalla fede” (1Tm VI, 19), impugnano il diritto di proprietà stabilito per legge di natura, e con enorme scelleratezza, dandosi l’aria di provvedere e di soddisfare ai bisogni e ai desideri di tutti, si adoperano per rubare e mettere in comune quanto fu acquisito o a titolo di legittima eredità, o con l’opera del senno e della mano, o con la frugalità della vita. Rendono pubbliche queste mostruose opinioni nei loro circoli; le consigliano nei libercoli; le diffondono nel popolo con un mucchio di gazzette. Pertanto si è accumulato tanto odio della plebe sediziosa contro la veneranda maestà e l’impero dei Re, al punto che scellerati traditori, sdegnosi di ogni freno, più volte a breve intervallo di tempo, con empio ardimento rivolsero le armi contro gli stessi Sovrani. –  Queste audaci macchinazioni degli empi, che ogni giorno minacciano all’umano consorzio più gravi rovine e tengono in ansiosa trepidazione l’animo di tutti, traggono principio e origine da quelle velenose dottrine che, sparse nei tempi passati quali semi malsani in mezzo ai popoli, diedero a suo tempo frutti così amari. Infatti, Voi ben conoscete, Venerabili Fratelli, che la guerra implacabile mossa fin dal secolo decimosesto dai Novatori contro la fede cattolica, e che venne sempre crescendo fino ai giorni nostri, ha per scopo d’aprire la porta a quelle idee e, per dir più propriamente, ai deliri della ragione abbandonata a se stessa, eliminata ogni rivelazione e rovesciato ogni ordine soprannaturale. Tale errore, che a torto prende nome dalla ragione, siccome solletica e rende più viva l’innata bramosia d’innalzarsi, ed allenta il freno ad ogni sorta di cupidigie, senza difficoltà s’introdusse non solo nella mente di moltissimi, ma giunse anche a penetrare ampiamente nella società civile. Quindi con empietà nuova, sconosciuta perfino agli stessi pagani, si costituirono Stati senza alcun riguardo a Dio ed all’ordine da Lui prestabilito; si andò dicendo che l’autorità pubblica non riceve da Dio né il principio, né la maestà, né la forza di comandare, ma piuttosto dalla massa popolare la quale, ritenendosi sciolta da ogni legge divina, tollera appena di restare soggetta alle leggi che essa stessa a piacere ha sancite. – Combattute e rigettate come nemiche della ragione le verità soprannaturali della fede, si costringe lo stesso Autore e Redentore del genere umano ad uscire insensibilmente e a poco a poco dalle Università, dai Licei e dai Ginnasi e da ogni pubblica consuetudine della vita. Infine, messi in dimenticanza i premi e le pene della eterna vita avvenire, l’ardente desiderio della felicità è stato rinserrato entro gli angusti confini del presente. Con queste dottrine disseminate in lungo e in largo, e con tale e tanta licenza d’opinare e di fare accordata dovunque, non deve recare meraviglia che gli uomini della plebe, stanchi della casa misera e dell’officina, anelino a lanciarsi sui palazzi e sulle fortune dei più ricchi; non deve recare meraviglia che, scossa, vacilli ormai ogni pubblica e privata tranquillità, e che l’umanità sia giunta quasi alla sua estrema rovina. – Ma i supremi Pastori della Chiesa, ai quali incombe il dovere di difendere dalle insidie nemiche il gregge del Signore, si adoperarono per scongiurare tempestivamente il pericolo e per provvedere all’eterna salute dei fedeli. Infatti, non appena si cominciarono a formare le società segrete, in mezzo alle quali fin d’allora covavano i germi degli errori che abbiamo rammentato, i Romani Pontefici Clemente XII e Benedetto XIV non omisero di scoprire gli empi disegni delle sette e d’avvertire i fedeli di tutto l’universo della rovina che nell’oscurità si preparava. E quando poi coloro che si vantavano del nome di filosofi vollero concedere all’uomo una libertà sfrenata, e si prese ad inventare un nuovo diritto e a stabilirlo contro ogni legge naturale e divina, il Papa Pio VI di felice memoria mostrò immediatamente con pubblici documenti la malvagia indole e la fallacia di quei principi, e contemporaneamente con Apostolica antiveggenza vaticinò le rovine alle quali sarebbe stato tratto il popolo miseramente ingannato. Però, non essendosi in alcun modo provveduto a che quelle prave teorie non venissero instillate ogni giorno più nelle menti dei popoli e non entrassero nei pubblici decreti di governo, Pio VII e Leone XII colpirono d’anatema le sette segrete, e di nuovo ammonirono la società dei pericoli che per opera loro incombevano. Infine è noto a tutti con quali gravissime parole e con quanta fermezza d’animo e costanza il Nostro glorioso Predecessore, il Papa Pio IX di felice memoria, sia con le Allocuzioni, sia con Lettere encicliche mandate ai Vescovi di tutto il mondo, abbia combattuto contro gl’iniqui sforzi delle sette e specificatamente contro la peste del Socialismo, che da quelle sin da allora germogliava. – Ma per somma sventura, coloro ai quali venne affidata la cura di promuovere i comuni vantaggi, circonvenuti con gli artifici di perfidi uomini e spaventati dalle loro minacce, tennero sempre in sospetto la Chiesa e l’avversarono, non comprendendo che gli sforzi delle sette sarebbero andati a vuoto se la dottrina della Chiesa cattolica e l’autorità dei Romani Pontefici, sia presso i Principi, sia presso i popoli, fosse sempre rimasta nell’onore dovuto. Infatti, “la Chiesa del Dio vivente, che è colonna e fondamento di verità” (1Tm III, 15), insegna dottrine e dà precetti che largamente provvedono al benessere ed al quieto vivere della società, e per i quali l’infausto germe del Socialismo è divelto dalle radici. – Sebbene i Socialisti, abusando dello stesso Vangelo per ingannare gl’incauti, abbiano il costume di travisarlo secondo i loro intendimenti, tuttavia è tanta la discordanza delle loro perverse opinioni dalla purissima dottrina di Cristo, che non se ne può immaginare una maggiore: “Infatti, quale consorzio della giustizia con l’iniquità? o quale società della luce con le tenebre?” (2 Cor VI, 14). Costoro invero non smettono di blaterare – come abbiamo già accennato – che tutti gli uomini sono per natura uguali fra loro, e quindi sostengono non doversi prestare alle autorità né onore, né riverenza, né obbedire alle leggi se non forse a quelle redatte a loro piacimento. All’opposto, secondo gl’insegnamenti del Vangelo, tutti gli uomini sono uguali in quanto avendo tutti avuto in sorte la medesima natura, tutti sono chiamati alla medesima altissima dignità di figliuoli di Dio; avendo tutti lo stesso fine da conseguire, dovranno essere giudicati a norma della stessa legge, per riceverne premi o pene secondo che avranno meritato. Tuttavia, l’ineguaglianza di diritti e di potestà proviene dall’Autore medesimo della natura, “dal quale tutta la famiglia e in cielo e in terra prende il nome” (Ef III, 15). Gli animi poi dei Principi e dei sudditi, secondo la dottrina e i precetti della Chiesa cattolica, sono così legati attraverso scambievoli doveri e diritti, che ne resta temperata la passione sfrenata del comandare, e diviene facile, costante e nobilissima la ragione dell’ubbidienza. – E valga il vero: la Chiesa inculca sempre nei sudditi il precetto dell’Apostolo: “Non esiste potestà se non da Dio, e quelle che ci sono, sono ordinate da Dio. Pertanto, chi si oppone alla potestà, resiste alla disposizione di Dio, e coloro che resistono si comprano la condanna”. E di nuovo comanda “di essere soggetti, come è necessario, non solo per timore dell’ira, ma anche per riguardo alla coscienza, e comanda di rendere a tutti quello che è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi la gabella, la gabella; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore” (Rm XIII, 1-2.5-7). Pertanto, Colui che creò e governa ogni cosa, nella sua provvida sapienza dispose che le infime cose attraverso quelle di mezzo, e le cose di mezzo attraverso le altissime arrivino ciascuna al proprio fine. Perciò, come nello stesso regno celeste volle che vi fossero cori di Angeli distinti fra loro e gli uni agli altri soggetti; nello stesso modo stabilì anche nella Chiesa vari gradi di ordini, ed una moltitudine di ministeri, onde non tutti fossero Apostoli, non tutti Pastori, non tutti Dottori (cf. 1Cor XII, 28-30); così dispose del pari che nella società civile fossero varii ordini distinti per dignità, per diritti e per potere, onde la comunità, a somiglianza della Chiesa, rendesse l’immagine di un corpo che ha molte membra, le une più nobili delle altre, ma insieme scambievolmente necessarie e sollecite del bene comune. – In pari tempo, però, affinché i capi dei popoli si servano della potestà ad essi data ad edificazione e non a distruzione, la Chiesa di Cristo opportunamente ricorda che anche sui Principi sovrasta la severità del Giudice Supremo. Avvalendosi delle parole della divina Sapienza, essa grida a tutti nel nome di Dio: “Porgete le orecchie, voi che avete il governo dei popoli e vi gloriate di dominare molte nazioni: la potestà è stata data a voi dal Signore, e la virtù dall’Altissimo, il quale esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri pensieri… Poiché un giudizio severissimo si farà di coloro che sovrastano… Dio infatti non esonererà nessuno dal giudizio, né temerà la grandezza di chicchessia, perché Egli ha fatto il grande e il piccolo, e di tutti tiene eguale cura. Ma ai maggiori sovrasta un maggiore tormento” (Sap VI, 2-8). Tuttavia, se accada talvolta che la pubblica potestà venga dai Principi esercitata a capriccio ed oltre misura, la dottrina della Chiesa Cattolica non consente ai privati d’insorgere a proprio talento contro di essi, affinché non sia vieppiù sconvolta la tranquillità dell’ordine, e non derivi perciò maggior detrimento alla società. E quando le cose siano giunte a tal punto che non sorrida alcun’altra speranza di salvezza, vuole che si raggiunga il rimedio coi meriti della pazienza cristiana e con insistenti preghiere al Signore. – Se la volontà dei legislatori e i decreti dei Principi comanderanno qualche cosa che sia contraria alla legge divina o naturale, allora la dignità e il dovere del nome cristiano, e il pensiero Apostolico esigono “doversi obbedire più a Dio che agli uomini” (At V, 29). – La stessa società domestica, che è alla base di ogni comunità e di ogni regno, sente e sperimenta necessariamente questa benefica virtù della Chiesa che influisce sull’ordinatissimo regime e sulla conservazione della società civile. Infatti, ben sapete, Venerabili Fratelli, che questa società, retta secondo l’esigenza del diritto naturale, si fonda principalmente sopra l’unione indissolubile dell’uomo e della donna, si completa negli scambievoli doveri e diritti tra i genitori e i figli, tra i padroni e i servi. Sapete ancora che essa va quasi a disciogliersi secondo le dottrine del Socialismo; in quanto, perduta la stabilità che le deriva dal matrimonio cristiano, ne consegue che venga pure ad indebolirsi in straordinaria maniera l’autorità dei padri sopra i figli, e la riverenza dei figli verso i genitori. Al contrario, la Chiesa insegna che il matrimonio, “degno di essere in tutto onorato” (Eb XIII, 4), istituito da Dio fin dal principio del mondo per propagare e conservare l’umana specie e da Lui voluto indissolubile, crebbe a condizione ancora più stabile e più santa per opera di Cristo che gli conferì la dignità di Sacramento e volle che ritraesse in sé l’immagine della sua unione con la Chiesa. Pertanto, secondo quanto insegna l’Apostolo (Ef V, 22-24), come Cristo è il capo della Chiesa, così il marito è il capo della sposa; e come la Chiesa si tiene soggetta a Cristo che nutre per lei un amore castissimo ed eterno, così conviene che le spose siano soggette ai loro mariti, i quali a loro volta le debbono amare di affetto fedele e costante. – Analogamente la Chiesa tempera in tal modo la potestà dei padri e dei padroni i quali, senza trascendere la giusta misura, riescono a contenere dentro i confini del rispetto i figli ed i servi. Stando infatti agli insegnamenti cattolici, nei genitori e nei padroni si trasfonde l’autorità del Padre e del Padrone celeste; perciò essa non solo trae da Lui origine e forza, ma ne mutua anche necessariamente la natura e l’indole. Conseguentemente l’Apostolo esorta i figli “ad obbedire ai loro genitori nel nome del Signore, ad onorare il padre e la madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa” (Ef VI, 1-2). Ai genitori poi ingiunge: “E voi, padri, non provocate ad ira i vostri figli, ma allevateli nella disciplina e nell’istruzione del Signore” (Ef VI, 4). Di nuovo poi ai servi ed ai padroni dallo stesso Apostolo viene inculcato il comandamento divino: obbediscano “ai padroni carnali come alla persona di Cristo… servendo con amore come al Signore”; questi alla loro volta “mettano da parte l’asprezza, ben sapendo che il Signore di tutti è nei cieli, e che presso di Lui non v’è preferenza di persone” (Ef VI, 5-7). Se tutte queste cose fossero diligentemente compiute secondo il volere divino da tutti coloro che ne hanno il dovere, sicuramente ogni famiglia presenterebbe una certa somiglianza con la dimora celeste, e i preclari benefìci che ne seguirebbero non sarebbero solo ristretti entro i confini delle pareti domestiche, ma si riverserebbero altresì in abbondanza a vantaggio degli Stati medesimi. – Inoltre la sapienza cattolica, costruita sui precetti della legge naturale e divina, mirabilmente provvide alla pubblica e domestica tranquillità anche con le dottrine che professa ed insegna intorno al diritto di proprietà e alla divisione dei beni, che sono fatti per le necessità ed i comodi della vita. Pertanto, mentre i Socialisti rappresentano il diritto di proprietà come un ritrovato umano contrario alla naturale eguaglianza degli uomini, ed anelando alla comunanza dei beni ritengono non doversi sopportare di buon animo la povertà, e potersi impunemente violare i beni e i diritti dei più ricchi, la Chiesa molto più saggiamente ed utilmente anche nel possesso dei beni riconosce disuguaglianza tra gli uomini, naturalmente diversi per forze fisiche ed attitudine d’ingegno, e vuole intatto ed inviolabile per tutti il diritto di proprietà e di possesso che dalla stessa natura deriva. Infatti, sa che Iddio, Autore e vindice di ogni diritto, vietò il furto e la rapina in modo che neppure è lecito desiderare l’altrui: gli uomini ladri e rapaci, non altrimenti che gli adulteri e gli adoratori degli idoli, sono esclusi dal regno dei cieli. Tuttavia non dimentica per questo la causa dei poveri, né avviene che la pietosa Madre trascuri di provvedere alle loro indigenze: ché anzi, con materno affetto, se li stringe al seno, e ben sapendo che essi impersonano Cristo, il quale considera come fatto a se stesso il beneficio elargito anche all’ultimo dei poveri, li tiene in grande onore, con ogni mezzo possibile li solleva; si adopera con ogni sollecitudine affinché in tutte le parti del mondo s’innalzino case ed ospedali destinati a raccoglierli, a mantenerli, a curarli, e prende quegli asili sotto la propria tutela. Incalza poi i ricchi col gravissimo precetto di dare ai poveri il superfluo, e li spaventa intimando loro il giudizio divino, secondo il quale se non verranno in aiuto dell’indigenza saranno puniti con eterni supplizi. Da ultimo ricrea e conforta considerevolmente gli animi dei poveri sia proponendo l’esempio di Cristo “il quale, essendo ricco, si fece povero per noi” (2Cor VIII, 9), sia ripetendo quelle parole di Lui, con le quali chiama i poveri beati, e comanda loro di sperare i premi dell’eterna beatitudine. Ora, chi non vede come questa sia la più bella maniera di comporre l’antichissimo dissidio tra i poveri ed i ricchi? Come infatti dimostrano la natura delle cose e l’evidenza dei fatti, esclusa o accantonata quella maniera di componimento, è necessario che accada una delle due: o che la massima parte dell’umanità ricada nella turpissima condizione di schiavi che fu lungamente in uso presso i Gentili; ovvero che la società umana rimanga in balìa di continui rivolgimenti e sia contristata da rapine e da latrocini, come deploriamo essere avvenuto anche in tempi recenti. – Stando così le cose, Venerabili Fratelli, Noi a cui presentemente è affidato il governo di tutta la Chiesa, come fin dall’inizio del Nostro Pontificato mostrammo ai popoli ed ai Principi sbattuti da violenta procella il porto ove riparare, così adesso, preoccupati dall’estremo pericolo che sovrasta, di nuovo indirizziamo loro l’Apostolica voce; ed in nome della loro salvezza e di quella dello Stato di nuovo li preghiamo insistentemente e li scongiuriamo di accogliere ed ascoltare come maestra la Chiesa, tanto benemerita della pubblica prosperità dei regni, e si persuadano che le ragioni della religione e dell’impero sono così strettamente congiunte che di quanto viene quella a scadere, di altrettanto diminuiscono l’ossequio dei sudditi e la maestà del comando. Anzi, conoscendo che la Chiesa di Cristo possiede tanta virtù per combattere la peste del Socialismo, quanta non ne possono avere le leggi umane, né le repressioni dei magistrati, né le armi dei soldati, ridonino alla Chiesa quella condizione di libertà, nella quale possa efficacemente compiere la sua benefica azione a favore dell’umano consorzio. – E Voi, Venerabili Fratelli, che ben conoscete l’origine e la natura delle imminenti sciagure, rivolgete tutte le forze dell’animo Vostro a che la dottrina cattolica sia accolta negli animi di tutti e vi penetri fino in fondo. Procurate che fin dalla prima età tutti si avvezzino ad amare Dio con tenerezza filiale e a riverirne la maestà; che prestino ossequio all’autorità dei Principi e delle leggi, e che, frenate le cupidigie, custodiscano gelosamente l’ordine stabilito da Dio nella civile e nella domestica società. Inoltre ponete ogni studio affinché i figli della Chiesa Cattolica non aderiscano né diano alcun favore alla detestabile setta; anzi, con azioni egregie e con un contegno assolutamente lodevole, dimostrino quanto prospera e felice sarebbe la società, se tutte le sue membra si abbellissero dello splendore di opere compiute correttamente, e di virtù. – Infine, siccome i seguaci del Socialismo principalmente vengono cercati fra gli artigiani e gli operai, i quali, avendo per avventura preso in uggia il lavoro, si lasciano assai facilmente pigliare all’esca delle promesse di ricchezze e di beni, così torna opportuno di favorire le società artigiane ed operaie che, poste sotto la tutela della Religione, avvezzino tutti i loro soci a considerarsi contenti della loro sorte, a sopportare la fatica e a condurre sempre una vita quieta e tranquilla. – Iddio, a cui siamo tenuti a riferire il principio ed il fine di ogni santa impresa, assecondi i Nostri e i Vostri intendimenti, Venerabili Fratelli. Del resto, la stessa ricorrenza di questi giorni, nei quali si celebra solennemente il giorno natalizio del Signore, Ci solleva alla speranza di opportunissimo aiuto. Infatti, Cristo fa sperare anche a noi quella salutare salvezza che Egli nascendo portò al mondo invecchiato e corrotto da tanti mali, e ci promette quella pace che allora per mezzo degli Angeli fece annunziare agli uomini. Infatti “né la mano del Signore si è accorciata così che non possa salvare, né le sue orecchie sono chiuse sicché non possa sentire” (Is LIX, 1). Pertanto, in questi faustissimi giorni, augurando a Voi, Venerabili Fratelli, ed ai fedeli delle Vostre Chiese ogni più lieto e prospero evento, insistentemente preghiamo il Datore di ogni bene affinché nuovamente “appaiano agli uomini la benignità e l’amore del Salvatore nostro Dio” (Tt III, 4), il quale, sottrattici dalla potestà dell’implacabile nostro nemico, ci sollevò alla dignità nobilissima di figli. – Affinché più presto e più pienamente conseguiamo il nostro desiderio, innalzate Voi stessi, Venerabili Fratelli, insieme con Noi fervide preci a Dio ed interponete presso di Lui il patrocinio della Beata Vergine Maria, Immacolata fin dall’origine, del di Lei Sposo Giuseppe e dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, nell’intercessione dei quali poniamo la massima fiducia. – Intanto, auspice delle divine grazie, con tutto l’affetto del cuore a Voi, Venerabili Fratelli, al Vostro Clero ed a tutti i popoli fedeli impartiamo nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 28 dicembre 1878, anno primo del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI PENTECOSTE (2021)

DOMENICA DI PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Pietro in Vincoli.

Doppio di I Cl. con Ottava privilegiata di I ord. –  Paramenti rossi

Il dono della sapienza è un’illuminazione dello Spirito Santo, grazie alla quale la nostra intelligenza contempla le verità della fede in una luce magnifica e ne prova una grande gioia ». (P. MESCHLER.)

Gesù aveva posto le fondamenta della Chiesa durante la sua vita apostolica e le aveva comunicato i suoi poteri dopo la sua Resurrezione. Lo Spirito Santo doveva compiere la formazione degli Apostoli e rivestirli della forza che viene dall’Alto (Vangelo). Al regno visibile di Cristo succede il regno visibile dello Spirito Santo, che si manifesta scendendo sui discepoli di Gesù. La festa della Pentecoste è la festa della promulgazione della Chiesa; perciò, si sceglie la Basilica dedicata a S. Pietro, capo della Chiesa, per la Stazione di questo giorno. Gesù, ci dice il Vangelo, aveva annunciato ai suoi la venuta del divin Paracleto e l’Epistola ci fa vedere la realizzazione di questa promessa. All’ora Terza il Cenacolo è Investito dallo Spirito dì Dio: un vento impetuoso che soffia improvvisamente intorno alla casa e l’apparizione di lingue di fuoco all’interno, ne sono i segni meravigliosi. — Illuminati dallo Spirito Santo (Orazione) e riempiti dall’effusione dei sette doni, (Sequenza), gli Apostoli sono rinnovati e a loro volta rinnoveranno il mondo intero (Introito, Antifona).E la Messa cantata all’ora terza, è il momento in cui noi pure « riceviamo lo Spirito Santo, che Gesù salito al cielo, effonde in questi giorni sui figli di adozione ». (Prefatio), poiché ognuno dei misteri liturgici opera dei frutti di grazia nelle anime nostre nel giorno anniversario in cui la Chiesa lo celebra. Durante l’Avvento, dicevamo al Verbo: «Vieni, Signore, ad espiare i delitti del tuo popolo»; ora diciamo con la Chiesa allo Spirito Santo: Vieni, Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in noi il fuoco dell’amor tuo » (Alleluia). È la più bella e la più necessaria delle orazioni giaculatorie, poiché lo Spirito Santo, il « dolce ospite dell’anima », è il principio di tutta la nostra vita soprannaturale.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Sap I: 7. Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja.

[Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Ps LXVII: 2 Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus. [Sorga il Signore, e siano dispersi i suoi nemici: e coloro che lo òdiano fuggano dal suo cospetto].

Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja

[Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Oratio

Orémus.

Deus, qui hodiérna die corda fidélium Sancti Spíritus illustratióne docuísti: da nobis in eódem Spíritu recta sápere; et de ejus semper consolatióne gaudére.

[O Dio, che in questo giorno hai ammaestrato i tuoi fedeli con la luce dello Spirito Santo, concedici di sentire correttamente nello stesso Spirito, e di godere sempre della sua consolazione.]

Lectio

Léctio  Actuum Apostolórum. Act. II: 1-11

“Cum compleréntur dies Pentecóstes, erant omnes discípuli pariter in eódem loco: et factus est repéente de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis: et replévit totam domum, ubi erant sedentes. Et apparuérunt illis dispertítæ linguæ tamquam ignis, sedítque supra síngulos eórum: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, et coepérunt loqui váriis linguis, prout Spíritus Sanctus dabat éloqui illis. Erant autem in Jerúsalem habitántes Judaei, viri religiósi ex omni natióne, quæ sub coelo est. Facta autem hac voce, convénit multitúdo, et mente confúsa est, quóniam audiébat unusquísque lingua sua illos loquéntes. Stupébant autem omnes et mirabántur, dicéntes: Nonne ecce omnes isti, qui loquúntur, Galilæi sunt? Et quómodo nos audívimus unusquísque linguam nostram, in qua nati sumus? Parthi et Medi et Ælamítæ et qui hábitant Mesopotámiam, Judaeam et Cappadóciam, Pontum et Asiam, Phrýgiam et Pamphýliam, Ægýptum et partes Líbyæ, quæ est circa Cyrénen, et ádvenæ Románi, Judaei quoque et Prosélyti, Cretes et Arabes: audívimus eos loquéntes nostris linguis magnália Dei.” 

[“Giunto il giorno della Pentecoste, i discepoli si trovavano tutti insieme nel medesimo luogo. E all’improvviso venne dal cielo un rumore come di vento impetuoso, e riempì tutta la casa, dove quelli sedevano. E apparvero ad essi delle lingue come di fuoco, separate, e se ne posò una su ciascuno di loro. E tutti furono ripieni di Spirito Santo, e cominciarono a parlare varie lingue, secondo che lo Spirito Santo dava loro di esprimersi. Ora abitavano in Gerusalemme Giudei, uomini pii, venute da tutte le nazioni che sono sotto il cielo. Quando si udì il rumore la moltitudine si raccolse e rimase attonita perché ciascuno li udiva parlare nella sua propria lingua. E tutti stupivano e si meravigliavano, e dicevano: «Ecco, non son tutti Galilei, questi che parlano? E come mai, li abbiamo uditi, ciascuno di noi, parlare la nostra lingua nativa? Parti, Medi ed Elamiti, e abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle regioni della Libia in vicinanza di Cirene, e avventizi romani, Giudei e Proseliti, Cretesi e Arabi li abbiamo uditi parlare nelle nostre lingue delle grandezze di Dio”. (Atti II, 1-11).]

LINGUE E FUOCO.

Il miracolo delle lingue, il gran miracolo del giorno della Pentecoste, è stato mirabilmente descritto di sul testo sacro del nostro Manzoni.

« Come la luce rapida — piove di cosa in cosa

— E i color varii suscita — Ovunque si riposa;

— Tal risonò molteplice — La voce dello Spiro;

L’Arabo, il Parto, il Siro, — In suo sermon udì ».

Ma quel miracolo ne significava un altro che cominciava da quel giorno a diventar realtà mercè la diffusione, allora inaugurata ufficialmente, del Santo Vangelo, del verbo di Cristo. La divisione delle lingue — la chiamo così per aderire al racconto biblico nella sua integrità e nel suo spirito — fu un castigo non proprio per la materialità delle lingue molteplici che si cominciarono a parlare, ma perché gli uomini, da Babele in poi, non si intesero più, non si capirono, non si amarono, si contrastarono in odî e in guerre fratricide. Si divisero. Era il castigo dell’orgoglio quella divisione delle anime di cui era espressione chiara la varietà delle lingue. Il linguaggio, divinamente dato agli uomini perché intendessero, serviva a confonderli, a separarli. I figli, abbandonando la casa paterna, di fratelli che ivi erano, diventarono stranieri prima gli uni agli altri, per diventare nemici poi. Tutto questo si capovolge a Gerusalemme, nella Pentecoste dello spirito, che continua e suggella e propaga la redenzione di N. S. Gesù Cristo. I figli ritrovano il Padre, imparano di nuovo a parlare con Lui, sentirlo ed esserne sentiti « Loquentes variis linguis », sì, ma « loquentes magnalia Dei ». Non più gli Dei falsi e bugiardi, ma Dio unico, vivo e vero. Non più solo un simbolo ferreo di questa unità divina nell’unico Tempio, come al giorno della legge e dei profeti, ma un unico santuario delle anime, un solo Dio, il Dio predicato, il Dio comunicato da N. S. Gesù Cristo alla umanità, un solo Dio nei cuori. E ciascuno canta nella sua lingua materialmente, o in lingua diversa: «loquentes variis linguis,» ma tutti capiscono. « Audivimus eos loquentes ». «L’Arabo, il Parto, il Siro in suo sermon l’udì. » Mirabile fusione di popoli che comincia attraverso la fusione delle anime, fusione meravigliosa di anime che comincia attraverso la riconciliazione umile e fervente con Dio… E continuerà così di secolo in secolo nella Chiesa e mercè di essa, piena com’è dello Spirito Santo. Un numero crescente di popoli i più diversi, per colpa della vecchia babele, formeranno via via una sola famiglia, un solo popolo: « populus eius, » il popolo di Dio. Parleranno il linguaggio intimo della stessa fede: « una fides ». Il verbo, la parola più vera, più umana, non è quella che suona materialmente sulle labbra; è quella che squilla, che splende nell’intelletto, di cui l’esterna è un’eco, come spiega profondamente San Tommaso. Uniamoci sempre più, in questa lingua interiore con l’accettazione umile della verità rivelata, della verità cristiana, quella verità di cui lo Spirito Santo è maestro intimo a ciascuno di noi, se ciascun di noi accetta il Magistero solenne e autorevole della Chiesa. Parliamo la lingua divina della stessa fede, « una fides » e i nostri cuori batteranno all’unisono della stessa carità. Ci capiremo senza parlare, magari: quelli che si amano davvero si capiscono così. E lavoriamo perché la cerchia dei popoli che in Gesù Cristo e nella Sua Chiesa ritrovano il segreto di una verità, diventi sempre più larga.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

ALLELUJA

Allelúja, allelúja

Ps CIII: 30 Emítte Spíritum tuum, et creabúntur, et renovábis fáciem terræ. Allelúja.

[Manda il tuo Spírito e saran creati, e sarà rinnovata la faccia della terra. Allelúia.

[Hic genuflectitur:]

Veni, Sancte Spíritus, reple tuórum corda fidélium: et tui amóris in eis ignem accénde.

[Vieni Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli: ed accendi in essi il fuoco del tuo amore]

Sequentia

Veni, Sancte Spíritus,

et emítte cælitus lucis tuæ rádium.

Veni, pater páuperum; veni, dator múnerum; veni, lumen córdium.

Consolátor óptime, dulcis hospes ánimæ, dulce refrigérium.

 In labóre réquies, in æstu tempéries, in fletu solácium.

O lux beatíssima, reple cordis íntima tuórum fidélium.

Sine tuo númine nihil est in hómine, nihil est innóxium.

Lava quod est sórdidum, riga quod est áridum, sana quod est sáucium.

 Flecte quod est rígidum, fove quod est frígidum, rege quod est dévium.

Da tuis fidélibus, in te confidéntibus, sacrum septenárium.

Da virtútis méritum, da salútis éxitum, da perénne gáudium. Amen. Allelúja.

[Vieni, o Santo Spirito,
E manda dal cielo,
Un raggio della tua luce.

Vieni, o Padre dei poveri,
Vieni, datore di ogni grazia,
Vieni, o luce dei cuori.

O consolatore ottimo,
O dolce ospite dell’ànima
O dolce refrigerio.

Tu, riposo nella fatica,
Refrigerio nell’ardore,
Consolazione nel pianto.

O luce beatissima,
Riempi l’intimo dei cuori,
Dei tuoi fedeli.

Senza la tua potenza,
Nulla è nell’uomo,
Nulla vi è di innocuo.

Lava ciò che è sòrdito,
Irriga ciò che è àrido,
Sana ciò che è ferito.

Piega ciò che è rigido,
Riscalda ciò che è freddo,
Riconduci ciò che devia.

Dà ai tuoi fedeli,
Che in te confidano,
Il sacro settenario.

Dà i meriti della virtú,
Dà la salutare fine,
Dà il gaudio eterno.
Amen. Allelúia. ]

Evangelium

 Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XIV: 23-31

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Si quis díligit me, sermónem meum servábit, et Pater meus díliget eum, et ad eum veniémus et mansiónem apud eum faciémus: qui non díligit me, sermónes meos non servat. Et sermónem quem audístis, non est meus: sed ejus, qui misit me, Patris. Hæc locútus sum vobis, apud vos manens. Paráclitus autem Spíritus Sanctus, quem mittet Pater in nómine meo, ille vos docébit ómnia et súggeret vobis ómnia, quæcúmque díxero vobis. Pacem relínquo vobis, pacem meam do vobis: non quómodo mundus dat, ego do vobis. Non turbátur cor vestrum neque formídet. Audístis, quia ego dixi vobis: Vado et vénio ad vos. Si diligere tis me, gaudere tis utique, quia vado ad Patrem: quia Pater major me est. Et nunc dixi vobis, priúsquam fiat: ut, cum factum fúerit, credátis. Jam non multa loquar vobíscum. Venit enim princeps mundi hujus, et in me non habet quidquam. Sed ut cognóscat mundus, quia díligo Patrem, et sicut mandátum dedit mihi Pater, sic fácio.”

“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Chiunque mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo da lui, e faremo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole. E la parola, che udiste, non è mia: ma del Padre, che mi ha mandato; queste cose ho detto a voi, conversando tra voi. Il Paracleto poi, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel nome mio, Egli insegnerà a voi ogni cosa, e vi ricorderà tutto quello che ho detto a voi. La pace lascio a voi; la pace mia do a voi; ve la do Io non in quel modo, che la dà il mondo. Non si turbi il cuor vostro, né s’impaurisca. Avete udito, come io vi ho detto: Vado, e vengo a voi. Se mi amaste, vi rallegrereste certamente perché ho detto, vado al Padre: conciossiaché il Padre è maggiore di me. Ve l’ho detto adesso prima che succeda: affinché quando sia avvenuto crediate. Non parlerò ancor molto con voi: imperciocché viene il principe di questo mondo, e non ha da far nulla con me. Ma affinché il mondo conosca, che Io amo il Patire, e come il Padre prescrissemi, così fo” (Jo. XIV, 23- 31) .

OMELIA

(G. Bonomelli: Misteri Cristiani. Vol. III; Rag. IV. – Ed. Queriniana, Brescia, 1896)

La Pentecoste ed i Vaticini di Cristo.

Tra i Misteri della nostra fede, voi non lo ignorate, o carissimi, tiene un alto posto l’odierno, che chiamasi della Pentecoste, ossia del cinquantesimo giorno dopo la Pasqua. La Chiesa ebbe sempre cura sollecita di celebrarlo colla maggior pompa e circondarlo di tutto quello splendore e di quella sacra magnificenza, di cui ella conosce sì bene il segreto. La Pentecoste giudaica ricordava la legge di Dio, promulgata sul Sinai; legge di timore, scritta sulle tavole di pietra, per un solo popolo, popolo di dura cervice e di cuore incirconciso; la Pentecoste cristiana rammenta la legge divina sancita sul Calvario, uscita dal Cenacolo, compimento dell’antica, legge d’amore, scritta da Dio, non sulla pietra, ma sul cuore stesso dei credenti. A questo giorno la Chiesa ci prepara col digiuno e lo fa seguire da una ottava solenne. Ne’ tempi andati essa volea che questo Mistero fosse festeggiato per tre giorni e che tutti i fedeli si accostassero ai Sacramenti come alla Pasqua: che se, un secolo fa, i tre giorni di festa furono ridotti a due, e se da quasi sette secoli fu tolto il precetto di ricevere i Sacramenti della Penitenza e della Eucaristia, ciò fu fatto per acconciarsi ai bisogni dei tempi mutati e per quello spirito sapientissimo di discrezione e di benignità, che informa sempre le sue leggi. E bene a ragione la Chiesa festeggia questo giorno, quasi dissi, non altrimenti che quelli del Santo Natale e della Pasqua di Risurrezione; perché se nel Santo Natale essa celebra il nascimento e nella Pasqua la Risurrezione del suo fondatore e sposo, Gesù Cristo, nella Pentecoste essa ricorda il frutto di quei due Misteri, la sua stessa origine, il felice suo ingresso nel mondo. Perocché oggi la Chiesa, piena di vita immortale, esce dal Cenacolo, come cinquanta giorni prima Gesù Cristo risorto balzò dal sepolcro. Essa in questo giorno discende intrepida per le vie di Gerusalemme: in questo giorno per bocca di Pietro e de’ suoi fratelli Apostoli fa udire per la prima volta la potente sua voce e comincia quella lotta terribile, quella audacissima di tutte le conquiste, che attraverso alle più fortunose vicende deve aver fine coi secoli. In questo giorno Gesù Cristo, di sua mano, stacca dalla sponda questa piccola e fragile barchetta della Chiesa e la lancia sulle onde tempestose di questo mare infido, che è il secolo: sopra di essa pianta l’albero della Croce, spiega le candide vele al soffio dello Spirito Santo; Egli stesso ne affida il timone al pescatore di Betsaida e gli grida: « Non temere: io ho vinto il mondo e sono teco: spingi in alto la prora, calca i superbi flutti del mare e drizza il timone verso le rive tranquille della eternità ». – Il fatto o Mistero della Pentecoste è ricco di molti e sublimi insegnamenti: oggi mi piace metterne in luce due, il primo de’ quali prova come Cristo signoreggi con sicuro sguardo il futuro: il secondo spiega l’enigma della guerra atroce del mondo contro la Chiesa: l’uno e l’altro poi insieme congiunti mostrano la sapienza divina di Cristo e ci devono confortare nelle prove sì aspre della vita, che ci è forza affrontare. Gesù Cristo annunziò in termini chiarissimi molte profezie: voi le trovate registrate nei Vangeli: non ne cadde una sola. Tutte nel tempo e nei modi stabiliti si adempirono esattamente. Io sono d’avviso che fra le profezie annunziate da Cristo non se ne trovi pur una, che sia stata tante volte, con tanta chiarezza e in tante e sì diverse forme annunziata come quella che riguarda le sorti della sua Chiesa sulla terra: ed è di questa che intendo ragionare. – Aprite i quattro Evangeli: scorreteli per ogni verso. Quasi ad ogni pagina Gesù Cristo parla della sorte riserbata agli Apostoli, ai discepoli, ai credenti nel suo nome: parla del suo regno, la Chiesa, e delle vicende che l’aspettano. Che dice? Come descrive le sorti della Chiesa? Come saranno accolti dal mondo i suoi Apostoli e i loro successori? Come tratteggia la storia futura della sua Chiesa? Mirabile a dirsi! Cristo ne parla con una chiarezza e asseveranza spaventosa: si direbbe che prova una misteriosa voluttà nel dipingere il futuro coi più foschi colori, e mentre avrebbe dovuto temperare la frase, attesa la natura timida degli Apostoli, la rende più tagliente, nulla tace, nulla dissimula, tutto predice con una crudezza di linguaggio inaudita. Ascoltatelo: cito le sue parole così come si trovano sparse nei suoi Vangeli, e come mi si affacciano alla memoria. « Vi mando in mezzo al lupi… Vi trascineranno nelle loro radunanze… vi flagelleranno… sarete tratti innanzi ai giudici ed ai re per la mia dottrina… il fratello si farà accusatore del fratello e lo darà a morte… il padre darà in mano ai nemici il figlio e i figli si leveranno contro i padri e li uccideranno… sarete in odio a tutti pel mio nome… perseguitati in una città, fuggite in un’altra,… han chiamato me Belzebub: quanto più voi! Non temete quelli che possono uccidere il corpo, ma non possono uccidere l’anima… vi cacceranno dalle loro assemblee e si verrà a tale, che crederanno di rendere omaggio a Dio, ammazzando… come hanno perseguitato me, perseguiteranno voi ». – E non crediate che questa sia la condizione degli Apostoli, ristretta al primo stabilimento della Chiesa fino al termine dei tempi, perché  Gesù Cristo espressamente afferma, che i suoi discepoli saranno trattati come Lui, loro maestro; perché predice perpetua la esistenza della Chiesa e perpetua altresì la lotta e perché San Paolo, interprete fedele ci fa sapere, che soffriranno persecuzione tutti quelli che vogliono vivere secondo gli insegnamenti del divino Maestro, tantochè essere Cristiano ed essere fatto segno a contraddizioni è la stessa cosa: quanto più la Chiesa, che sotto la sua bandiera raccoglie tutti i seguaci di Cristo! Carissimi! Possiamo noi dubitare che queste parole siano cadute dalla bocca di Cristo prima che dai fatti ricevessero la loro conferma? No: è impossibile dubitarne. Vi può essere un linguaggio più netto, più preciso di questo? No! È simile ad una lama acuta a due tagli, lucida come pulito argento. Ora permettete che vi domandi: Questo vaticinio sì esplicito, sì chiaro, sì ripetuto, sì particolareggiato, che annunzia l’accoglienza che sarà fatta agli Apostoli, che dipinge la sorte riserbata alla Chiesa nel corso dei secoli, era esso umanamente possibile? Rispondeva esso ai calcoli della sapienza umana allorché Cristo lo proferiva? Senza stare in forse un istante rispondo: no. Cristo. giudicando le cose coll’occhio della ragione e della scienza umana, non doveva, non poteva gittare là una profezia come quella che avete udita: anzi predire tutto il contrario. – E in vero: poniamoci a lato di Cristo, in mezzo agli Apostoli, e consideriamo il mondo d’allora, la nuova dottrina da Lui insegnata, la natura, il carattere, l’indole degli Apostoli. Nel mondo, in alto, negli uomini della scienza e del potere, delle arti e delle lettere, del foro e delle ricchezze, troviamo l’indifferenza, lo scetticismo religioso, l’epicureismo; in alcuni pochi uomini, di sensi nobili ed elevati, troviamo le superbe dottrine stoiche o quelle brillanti di Platone: nelle moltitudini vive ancora il paganesimo, non come dottrina (che non lo fu mai), ma come culto, come tradizione, come mezzo per riempire, se era possibile, un bisogno del cuore per quetare un sentimento indistinto dell’infinito e giustificare una condotta, che doveva ripugnare al grido confuso della coscienza, – Il popolo re, in Roma, vedeva sorgere per opera di Agrippa un tempio sacro agli Dei tutti della terra: il suo nome di Panteon era la più solenne professione di tolleranza religiosa universale. L’Areopago d’Atene innalzava allori ad una folla di Numi e perfino al Dio ignoto. L’Egitto poteva liberamente adorare le sue divinità, come i Siri e i Galli le loro. Non una legge che proscriva le Religioni senza numero dell’Impero Romano, non un cittadino molestato pel culto ch’egli presta ai suoi Numi nazionali. E fu politica sapiente dell’antica Roma e non ultima delle cause che spiegano l’ampiezza del suo Impero, il rispetto e l’obbedienza che ottenne da tanti popoli differentissimi. La stessa nazione giudaica non isfuggì a questo soffio di universale infiacchimento del sentimento religioso, a questa tolleranza d’ogni culto. Noi vediamo sedere nel gran Consiglio di Gerusalemme buon numero di Sadducei, gli Epicurei d’Israele, che negavano l’esistenza e la vita futura senza che l’Autorità suprema lì molestasse. Ecco il mondo romano e greco, il mondo gentile ed ebraico al tempo di Cristo. La tolleranza religiosa si apre la via dovunque e discende dall’alto. – Consideriamo la dottrina teorica e morale, che Cristo introduce nel mondo: essa non respinge ma completa e perfezione quella di Mosè: non poteva dunque essere combattuta dai Giudei e da loro più che da tutti gli altri popoli doveva essere accolta, come fioritura del mosaismo. – Che dire del paganesimo di Grecia e di Roma? – L’insegnamento di Cristo per ciò che spetta Dio e la sua natura, la condotta morale dell’uomo, nella classe dotta, informata ai principii filosofici di Socrate, Platone, Aristotele e Zenone, ammirati e seguiti a Roma da Seneca, Cicerone, M. Aurelio ed altri, non poteva non trovare la più cordiale accoglienza. Sovra molti punti teorici e pratici del Vangelo di Cristo e della filosofia platonica e stoica parvero sì grande la somiglianza e l’affinità, che il razionalismo moderno osò ed osa affermare, che il Cristianesimo in sostanza è il frutto della filosofia messa al contatto dell’ebraismo, è il portato naturale della evoluzione scientifica di quell’epoca. Il Cristianesimo, pertanto, non poteva trovare opposizione seria nella classe alta della società, negli uomini della Scienza, e tutti sanno che le moltitudini ignare finiscono sempre col seguire quelli che le guidano. Che se poi finalmente consideriamo gli Apostoli e il loro carattere, sempre più dobbiamo persuaderci che l’opera loro alla peggio doveva passare inosservata come quella di alcuni poveri allucinati e fanatici. Erano ignoranti, rozzi, sprovveduti di beni di fortuna, senza credito, senza protezioni, senza prestigio sul popolo, stranieri, appartenenti alla razza più spregiata di tutto l’Oriente, vivevano di limosine. Predicavano il disprezzo delle ricchezze, degli onori e dei piaceri: esigevano dai seguaci l’amore della umiltà, la purezza del cuore, la temperanza, la mortificazione, l’ubbidienza e il rispetto per coscienza a tutte le autorità: imponevano a nome di Dio il perdono delle offese, la fedeltà coniugale, il dovere della limosina, l’amore non solo dei connazionali, ma di tutti indistintamente gli uomini. Come odiare e perseguitare uomini, che professavano sì sante dottrine, che non facevano male a chicchessia, bene a molti, che desideravano farne a tutti? Si potevano compatire come illusi, non mai porre fuori d’ogni legge e metterli a morte come nemici dello Stato e del genere umano, Dunque Gesù Cristo, mandando gli Apostoli a predicare e a fondare la Chiesa, poteva bene predire loro alcune molestie, alcune vessazioni comuni, la noncuranza, il disprezzo del mondo, ma non poteva, umanamente ragionando, predire loro e ai loro successori tante e sì feroci persecuzioni, quali sono quelle che leggiamo nel Vangelo. Eppure le predisse nei termini più espliciti e ripetutamente, tantoché nulla di più certo e di più chiaro di questo vaticinio. – Che dice la storia? I fatti, ch’essa ci narra, a chi hanno essi dato ragione? Ai calcoli della umana prudenza, o alla parola di Cristo, a quelli interamente contraria? La storia della Chiesa comincia in questo giorno ed ecco ciò ch’essa registra. Appena gli Apostoli sciolgono la lingua e annunziano il Vangelo di Cristo, molti della folla, e secondo ogni verosimiglianza gli uomini della scienza e del potere, in aria di scherno e di compatimento esclamano: – Costoro sono ubriachi -. E poco appresso sono condotti dinnanzi ai tribunali, interrogati, minacciati, battuti con verghe, gettati in carcere, sbandeggiati. Stefano, l’intrepido diacono, è sepolto sotto una gragnuola di pietre: Giacomo ha mozzo il capo: l’altro Giacomo, il minore, è precipitato dal tempio: Pietro e Andrea crocifissi, Paolo decapitato e tutti gli altri Apostoli e discepoli cogli esigli, colle carceri, col sangue suggellano la loro fede. La storia degli Apostoli è la storia della Chiesa: mutano alquanto le forme della lotta per ragione dei luoghi, dei tempi, dei costumi, ma la sostanza è sempre la stessa. La Chiesa trova sempre sulla sua via nemici potenti, che le tendono insidie, che la combattono, che col sofisma o col ferro tentano di ucciderla. – Ora sono popoli, che si scagliano sopra di essa; ora principi, che le stringono i polsi; ora i dotti che la coprono di calunnie e di fango; ora nemici esterni; ora nemici interni: la sua vita è veramente una incessante milizia, una perpetua guerra: ebbe ed ha tregue, ma pace vera e stabile non mai. Scorrete la sua storia dal dì della Pentecoste fino ad oggi e ditemi se vi fu mai regno, impero o repubblica, che avesse sulle braccia tanti e sì formidabili nemici quanti ne ebbe la Chiesa e la lotta anziché mitigarsi o scemare, accenna ad inasprirsi su tutti i punti e l’avvenire si avanza sempre più minaccioso. – I poteri umani dalle altezze monarchiche vanno discendendo nelle moltitudini e in cento modi attuandosi e trasformandosi: ma la diffidenza, l’astio, l’odio, o alla men peggio la più inesplicabile indifferenza verso la Chiesa, trattata come nemica o straniera, perdurano. La scienza, essa pure, va quotidianamente allargando le sue conquiste e diventa sempre più patrimonio comune; ma è pur troppo questa scienza, che male usata e divenuta di fatto monopolio di pochi audaci, fornisce le armi più terribili ai nemici della fede e a viso scoperto combatte la Chiesa. – Né ci sia grave por mente a un fatto, che può sembrare strano. Moltissime sono le religioni, che vissero e vivono sulla terra: sono molte le Chiese, che si gloriano del nome di Cristo e che si sono staccate dal grand’albero della Chiesa Cattolica, in cui solo si concreta perfettamente il Cristianesimo. Vedete la Chiesa greca foziana, la eutichiana o copta, la nestoriana, la russa, la rumena, la bulgara, la serba e tutte le varie Chiese protestanti, quale che ne sia il nome: sono tutti rami, che l’eresia o lo scisma staccarono dall’albero della Comunione Cattolica Romana: abbiamo comune con esse la maggior parte dei dogmi rivelati, comune il Decalogo: tutte queste varie Chiese si accordano perfettamente tra lor o in un solo punto, quello di respingere l’autorità suprema ed infallibile del Romano Pontefice, che è il centro della nostra unità di fede e di governo. Ebbene, o carissimi: tutte codeste Chiese cristiane, separate dalla Cattolica, sono lasciate in pace e popoli e governi le lasciano progredire tranquillamente la loro via. Chi molesta e perseguita la Chiesa Russa? Chi pensa a mettere impacci alle Chiese protestanti d’Inghilterra. di Olanda, di Svizzera e di Germania? Chi aggrava la mano sulle Chiese foziana, nestoriana od eutichiana? Nessuno, ch’io sappia: anzi le veggo protette, favorite, onorate dai governi loro e talor troppo. Generalmente parlando, la sola Chiesa Cattolica fa eccezione: per essa vi sono pressoché dovunque e sempre diffidenze, molestie, impacci ed anche persecuzioni più o meno aperte. Pigliate tutte lo Religioni che esistono sulla terra; paragonatele tra loro e voi troverete, che quella che fu ed è più fieramente combattuta con ogni sorta di armi è la Chiesa Cattolica: è un primato e glorioso che nessuno le può contendere. Per restringerci ai tempi moderni, ditemi: Nel periodo sì tremendo della rivoluzione francese, che cosa soffersero i Protestanti in Francia? Nei giorni nefasti della Comune chi se la pigliò colle Chiese protestanti o colle Sinagoghe giudaiche? Nella fiera lotta del Kulturcamp quali molestie patirono le Chiese luterane, calvinistiche o zwingliane? Non passa un solo anno, e spesso un solo mese, che il vento, che soffia ora da nord, ora da est, ora dal sud, non ci porti le grida dolorose dei fratelli nostri Cattolici perseguitati, imprigionati e uccisi al Tonchino, alla Corea, all’Annam [l’attuale Vietnam – ndr.-], alla Cocincina, in China, sulle rive del Congo, dell’alto Nilo o dei laghi dell’Africa centrale. Di lei a ragione canta il poeta:

“Tu che da tanti secoli / Soffri, combatti e preghi; / Che le tue tende spieghi / Dall’uno all’altro mar.”

La vita di Gesù Cristo fu vita di continui dolori e di continue umiliazioni; poteva ella essere diversa quella della sua Sposa e del suo Corpo mistico, la Chiesa? Ora si domanda: Come mai la Chiesa, che non fece, né può far male a persona, che fece e fa bene a tutti, agli individui come alla società, nell’ordine intellettuale, morale e anche materiale, fu ed è sì ferocemente odiata, perseguitata? Egli è come domandare: Perché Cristo fu odiato, perseguitato e sì crudelmente messo a morte, Egli che visse amando beneficando tutti? Le cause vere dobbiamo cercarle, non nella ragione, ma nelle passioni: secondo la ragione doveva essere benedetta e proclamata la grande benefattrice dell’umanità: ma secondo le passioni doveva essere maledetta come la peggior nemica, e se fosse possibile cacciata dal mondo. – La Chiesa leva la sua gran voce ed ammaestra tutti gli nomini; e che cosa insegna? Insegna che vi è Dio, Creatore e Signore d’ogni cosa: che al suo sguardo non isfugge nulla, nemmeno il più occulto pensiero: che ogni uomo a Lui dovrà rendere conto strettissimo d’ogni pensiero, d’ogni affetto, d’ogni parola e d’ogni azione. Insegna che il Figliuol di Dio si fece uomo patì e morì per tutti e costituì Lei stessa, la Chiesa, Maestra infallibile e guida sicura nella via della virtù e della salvezza. Insegna finalmente, che bisogna osservare quella legge eterna, che è scritta nel nostro cuore e che il Vangelo ha rischiarata, confermata e condotta alla più alta perfezione. Ecco l’insegnamento della Chiesa. Si può immaginare scuola più sublime, più popolare e più santa di questa? Vi può essere istituzione di questa più utile, volete al privato, volete al pubblico bene? Perché dunque il mondo e i poteri della terra le mossero e muovono sì aspra guerra? Perché il mondo e troppo spesso ì poteri che lo reggono non amano la luce, ma le tenebre secondo il linguaggio del Vangelo. – O mondo, che importa a te della Chiesa, dei suoi dogmi e delle sue leggi morali? Che importa a te del suo Vangelo e del suo Decalogo? Tu sei libero: tu puoi fare ciò che ti aggrada: a te che fa se la Chiesa co’ suoi figli creda a Dio, a Cristo, alla vita futura? Se la sua fede ti sembra una superstizione, le sue leggi un giogo inutile e funesto, non hai ragione di turbarti e di levarti contro di essa. Infine, Essa non impone la sua fede e le sue leggi colla forza; anzi Essa altamente predica che la Religione sua detesta la forza materiale e domanda la persuasione (È dottrina formale della Chiesa Cattolica, insegnata dai Padri costantemente, come S, Atanasio, S. Ilario ed altri e proposta da Leone XIII nella Enciclica Immortale Dei opus, dove, citando S. Agostino, scrive: – Nessuno è costretto ad abbracciare la fede -. I Cattolici possono usare al bisogno la forza per difendere la Propria fede, non mai per imporla ad altri.). Lasciala dunque in pace: non ti curare di Essa: non fare a te stesso il torto di metterti in guerra contro una società perché non pensa a tuo modo. Tu spieghi la bandiera della libertà di pensare per tutti egualmente: dunque rispetta questa libertà anche nella Chiesa: nella perfetta tolleranza d’ogni credenza e d’ogni opinione tu non puoi odiare la Chiesa, né dilettarti a gettar pietre sul suo cammino e farla segno de’ tuoi assalti e delle tue ire. Se non l’ami, non la voler nemmeno odiare -. Così dovrebb’essere se il mondo ragionasse, se i poteri della terra fossero fedeli ai principii, dei quali si vantano apostoli. Ma in fondo alla natura umana vi è qualche cosa che è più forte di certi principii, ch’essa scrive sui suoi codici e sulle sue bandiere e che assi volte la costringe a rinnegarli anche a costo di infliggere a se stessa l’onta della contraddizione. Fratelli mici! le tenebre saranno sempre nemiche della luce; la vita sarà sempre in lotta colla morte e l’errore à sempre in faccia alla Verità per combatterla. Perché il lupo anche satollo si getta sull’agnello e l’uccide e la tigre anche sfamata si lancia sulla gazzella, che trova sulla sua via? È l’istinto più che il bisogno che spinge l’uno e l’altra alla strage: così l’odio del mondo contro della Chiesa, l’astio di certi poteri pubblici contro di essa è figlio dell’istinto. Sgorga dalla natura delle cose ed opera a dispetto della ragione e della volontà e persino del proprio interesse. –  Conobbi un uomo, cui non facea difetto un ingegno naturale pronto ed acuto, ricco e potente nella società in cui viveva. In lui era profondo l’odio contro la Religione, contro i preti e contro i frati: al solo vederli fremeva. – E che t’han fatto di male, gli dissi, questi frati, la cui sola vista le torna intollerabile? – Non m’han fatto nulla di male -. Perché dunque li odia e li ammazzerebbe se potesse? – Nol so: ma ho qui dentro qualche cosa che mi costringe ad odiarli -. E diceva bene. Come nell’ordine fisico e materiale vi sono elementi e corpi che hanno tra loro una misteriosa affinità e si combinano tra loro e si fondono insieme, e ve ne sono altri che si respingono a vicenda, così è nell’ordine morale. Tra i buoni e i cattivi vi sono talvolta ripugnanze misteriose ed invincibili, che possono giungere fino all’odio più cupo, al parossismo dell’odio, che si manifesta in atti feroci, che sembrano inesplicabili. La storia è piena di questi fenomeni strani e la stessa vita domestica ne offre non rari esempi. Sono antipatie istintive, sono nemici che prima di conoscersi si sentono, e se posso dirlo. Si odorano. Il Paganesimo colle sue superstizioni, colle sue brutture; il giudaismo colle sue idee falsissime sul Messia e sull’opera sua: la scienza pagana col suo orgoglio; in una parola il mondo, quale è dipinto dal Vangelo, si vide innanzi la Chiesa di Cristo colle sue verità, colle Virtù si sublimi, che la rendevano sì bella e veneranda; presentirono in essa la forza divina, che li avrebbe vinti e annientati, o l’istinto della propria conservazione li riempì di odio contro il novello nemico e armò la loro destra a’ danno di Lei. La vista, la presenza, il nome, la vo della Chiesa, di questa Chiesa, debole fin che volete, ma di cui sentivano arcanamente la superiorità, offendeva, feriva il mondo e i poteri del mondo, li provocava all’ira, li spingeva alla guerra più implacabile. Ecco la spiegazione ovvia e naturale di quelle persecuzioni, che a prima fronte sembravano affatto inverosimili. – V’ha di più, o fratelli. In ogni uomo vi è sempre il sentimento indistruttibile della propria indipendenza, che sì facilmente egli confonde coll’amor proprio esagerato. Frugate bene nei penetrali dell’anima sua e troverete l’io, quell’io, che si desta, si inalbera e diventa feroce allorché altri gli intima di piegarsi e arrendersi a discrezione. L’io individuale si trasforma nell’io d’una scuola, di un corpo morale e diviene l’io nazionale, Non vi è nulla di più terribile di questo “io”, in cui si concentra la dignità vera, o falsa, poco importa, la grandezza, la gloria, l’orgoglio d’una nazione. Guai per chi osa affrontarne le ire! Quell’io offeso è come il leone del deserto, che il cacciatore assale nella sua tana e ferisce. La Chiesa fa come Cristo: essa si presenta debole, umile, ma franca, risoluta, colla coscienza dei suoi doveri e diritti. Essa, benché inerme e umanamente debole, a nome di Dio, intima a tutti egualmente le stesse verità, le stesse leggi, gli stessi doveri: non tempera le asprezze di certe verità e di certi doveri, che stringono l’uomo privato come l’uomo pubblico: il suo linguaggio è, come vuole il Vangelo: – È, è; no, no. Credete questo Simbolo, osservate questo decalogo, obbedite a me, come rappresentante di Cristo se volete essere salvi: se ricusate, perirete tutti egualmente, siate ricchi, siate poveri, siate dotti, siate ignoranti, siate sudditi, o siate re. Dinanzi a Dio Siete tutti eguali e chi siede più alto troverà più Severo il giudice – Immaginate voi, carissimi, come i Pagani, gli ebrei, i filosofi, i magistrati, i consoli, i governatori, i re, gli imperatori dovessero accogliere questo insegnamento e quelli che lo annunziavano! Pensate voi come l’orgoglio dei ricchi, dei dotti, dei magistrati, dei re, e degli imperatori ne fosse ferito e ne fremesse! Pensate come, avendo in mano il potere, il Supremo potere, ne dovessero usare contro questi miserabili Galilei, contro questa Chiesa, che avevano l’inaudita audacia di imporsi loro, di chiedere loro l’omaggio della mente e del cuore in modo sì perentorio, senza limite di tempo, senza far distinzione tra classe e classe, tra sudditi e regnanti! La lotta era ed è inevitabile, ha riempito e riempie ancora il mondo. –  Gli uomini della scienza e più ancora gli uomini del potere non solo non sanno rassegnarsi alle parti di discepoli e di soggetti in faccia ad altri uomini. sia pure che si atteggino a mandati del Cielo, ma per un cotale istinto, per un cotale bisogno in essi quasi naturale, e quasi per abitudine, hanno la pretensione, che tutti si pieghino dinanzi a loro, che tutti ubbidiscano ad un loro cenno. È sì dolce cosa il comandare! È sì caro al nostro orgoglio vedere chinarsi dinanzi a noi le fronti dei fratelli nostri e poter loro sovrastare! Ora ponete la Chiesa in faccia ai Re e agli Imperatori pagani e più tardi anche in faccia ai Re e agli Imperatori cristiani, nei quali la fede non estingue, né può estinguere al tutto la malnata radice dell’orgoglio, retaggio comune: voi comprendete che questi uomini del potere debbono sentire prepotente il desiderio e quasi bisogno di assoggettarsi questa Chiesa, che parla a nome di Dio, che proclama i diritti sacri della coscienza ed osa dire loro: – Voi potete arrivare sin qui, sulle soglie della coscienza: ma non potete, non dovete andare più oltre. Qui finisce il vostro impero, qui comincia quello di Dio e il mio. – Ciascuno può comprendere di leggeri come gli uomini del potere non solo pàgani, ma anche cristiani e cattolici, nei quali non raramente vivevano ancora le idee pagane, si adontassero e si mettessero in sull’armi. Tutte le altre religioni per timore, o per isperanza, o per difetto di convinzioni dinanzi all’autorità laica si piegavano, calavano agli accordi e vendevano in tutto o in parte almeno la loro libertà: pur di vivere si rassegnavano a servire; solo la Chiesa Cattolica rispondeva: – Io rendo a Cesare ciò che è di Cesare, ma prima rendo a Dio ciò che spetta a Dio; io ubbidisco in tutto ciò che non offende i diritti di Dio; dove questi sono offesi, non posso, non voglio, non debbo ubbidire. Potete tormentarmi, sbandirmi, gettarmi nelle carceri, tormentarmi, sbandirmi, caricarmi di catene, trascinarmi sul patibolo; ma da me non avrete altra risposta di questa in fuori: Bisogna ubbidire prima a Dio che agli uomini -. Ecco ciò che forma la forza e la grandezza della Chiesa e che naturalmente eccitò contro di Essa i sospetti, le ire e gli odii implacabili di quasi tutti i poteri della terra. Ecco in fondo la vera causa delle lotte tra Chiesa e Stato, che riempiono tutto il medio evo, che sotto altre forme appariscono dal medio evo fino alla rivoluzione francese e dalla rivoluzione francese giungono fino ai nostri giorni. La Chiesa Cattolica prega per Nerone, secondo il precetto di Pietro e Paolo: prega per tutti i poteri pubblici e li onora in Oriente e in Occidente, anche quando la perseguitano: Essa riconosce gli Imperatori di Germania e di Russia anche quando vede i suoi Vescovi, sacerdoti e fedeli multati, imprigionati ed esuli erranti sotto il cielo di Siberia; ma non è mai, che ceda loro un solo punto di dottrina, che tradisca un solo apice delle verità ricevute da Cristo. Tanta costanza e fortezza d’animo dovrebbe colmare di meraviglia il mondo e in quella vece accende le sue ire ed arma il suo braccio. – È ciò che Cristo previde ed annunciò e che ci spiega la storia sempre antica e sempre nuova della sua Chiesa. Noi ti salutiamo, o Chiesa di Dio, specchio fedele del tuo fondatore e sposo, Gesù Cristo. Tu sei veramente segno: “D’inestinguibil odio – E d’indomato amor” – Nelle persecuzioni, che sono tue inseparabili compagne, vediamo adempito il vaticinio di Cristo e troviamo la soluzione naturale di questa lotta che sembra inesplicabile, fra te e il secolo. Noi ci raccogliamo sotto le tue tende, ascoltiamo le tue parole, ubbidiamo ai tuoi cenni, sempre memori di ciò che a te disse il divino Maestro – Ecco io sono con voi fino al termine dei tempi – Ecce ego vobiscum sum usque ad consumationem sæculi -.

IL CREDO

Offertorium

Orémus – Ps LXVII: 29-30

Confírma hoc, Deus, quod operátus es in nobis: a templo tuo, quod est in Jerúsalem, tibi ófferent reges múnera, allelúja.

[Conferma, o Dio, quanto hai operato in noi: i re Ti offriranno doni per il tuo tempio che è in Gerusalemme, allelúia].

Secreta

Múnera, quæsumus, Dómine, obláta sanctífica: et corda nostra Sancti Spíritus illustratióne emúnda.

[Santifica, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che Ti vengono offerti, e monda i nostri cuori con la luce dello Spirito Santo].

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Acts II: 2; 4

Factus est repénte de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis, ubi erant sedéntes, allelúja: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, loquéntes magnália Dei, allelúja, allelúja.

[Improvvisamente, nel luogo ove si trovavano, venne dal cielo un suono come di un vento impetuoso, allelúia: e furono ripieni di Spirito Santo, e decantavano le meraviglie del Signore, alleluja, alleluja.]

Postcommunio

Orémus.

Sancti Spíritus, Dómine, corda nostra mundet infúsio: et sui roris íntima aspersióne fecúndet.

[Fa, o Signore, che l’infusione dello Spirito Santo purifichi i nostri cuori, e li fecondi con l’intima aspersione della sua grazia] .

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (157)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (26)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA – 1861

SECONDA PARTE.

Genuino prospetto del Cattolicismo, e del Pretestantismo, delineato dai Protestanti.

PRATTENIMENTO II

Alcune sovrumane bellezze della Chiesa Cattolica

Punto I.

L’ ammirabile sua perpetua stabilità ed estensione, ec.

I Papi – loro supremazia,

11. Apostata. Bravo il mio carissimo Protestantismo! Avete altro da dirmi in lode della Cattolica Chiesa? Proseguite pure nel vostro delirio; giacché al presente occupa tutti i vostri pensieri!!!

Prot. « Non vi è, e non vi fu mai su questa terra opera di umana politica cotanto meritevole di esame, quanto la Chiesa Cattolica Romana. La storia di questa Chiesa congiunge insieme le due grandi epoche dell’umano incivilimento. Niun’altra istituzione esiste tuttora in piedi, la quale possa ricondurre indietro i nostri pensieri a quei tempi, quando il fumo de’ sacrifizi s’innalzava dal Pantheon, e quando i leopardi e le tigri saltellavano entro l’anfiteatro Flavio. Le più boriose stirpi di regi non son che d’ieri, se si paragonano alla linea dei Sommi Pontefici. Noi rintracciamo questa linea in una serie non interrotta dal Papa che coronò Napoleone nel secolo XIX; a quello che coronò Pipino nel secolo VII; e ben più oltre dell’epoca di Pipino si estende l’augusta dinastia, finché sì perde ne’ crepuscoli della fede. La Repubblica di Venezia tiene in fatto di antichità il secondo posto. Ma la Repubblica di Venezia ci comparisce moderna in Paragone del Pontificato; e la Repubblica di Venezia è già sparita, ed i Pontefici rimangono. La Sede Pontificia rimane tuttora, non già in istato di decadimento, non già come un semplice monumento di antichità, ma piena di vita e di giovanile vigore. La Chiesa Cattolica invia tuttora a più remoti confini del mondo intiero i suoi missionarii, non meno zelanti di quell’Agostino che disbarcò in Kent (contea d’Inghilterra) co’ suoi compagni; e tuttora affronta i potentati ostili con quel medesimo coraggio col quale affrontò Attila.

12. Il numero dei suoi figli è maggiore di quello che si avesse in qualsivoglia altra epoca. Le sue conquiste nel nuovo mondo l’hanno più che compensata delle perdite giù sostenute nel vecchio. La spirituale dominazione si estende sopra le vaste contrade che stanno tra le pianure del Missouri fino al capo Horn; contrade che da qui ad un secolo conterranno probabilmente una popolazione tanto grande, quanto quella che abita presentemente l’Europa. I membri addetti alla sua comunione non sono men di cencinquanta milioni (ora dugento milioni); e torna ben difficile il poter provare, che tutte le altre sette cristiane unite insieme ascendono a cento venti milioni. Né punto vediamo alcun segno che indichi esser vicina la fine della sua lunga dominazione. Essa ha già veduto il cominciamento di tutti i governi, e di tutte le istituzioni  ecclesiastiche che esistono oggi nel mondo; e noi non siamo inclinati a credere che essa non sia destinata a veder la fine di essi tutti. Ella era grande e rispettata prima che i Franchi oltrepassassero il Reno, quando la greca eloquenza era tuttora in fiore in Antiochia, e quando gli idoli ricevevano adorazioni nei templi de La Mecca. Ed essa potrà similmente esistere men vigorosa di adesso, quando qualche viaggiatore della Nuova-Zelanda si porrà a sedere, circondato da un’ampia solitudine, sopra un dirupato pilastro. del già rotto ponte di Londra, per disegnare in un Album le rovine della Chiesa di S. Paolo (Tempio protestante di Londra).

13. «Spesso sentiamo dire che il mondo diventa costantemente più e più illuminato, e che questi grandi lumi debbono esser favorevoli al Protestantismo, e contrarii al Cattolicismo. Noi siamo protestanti, e avremmo per avventura desiderato di poter prestar fede a tutto questo; ma molto temiamo che la proposizione non abbia alcun fondamento, e dia nel falso. Imperocchè veggiamo bene in due secoli e mezzo (ora più di tre) avere lo spirito umano acquistato una energia, ed una vita (benché per una sola e certa direzione) incredibile…. Però con tutto questo noi in pari tempo  scorgiamo che nello spazio di 250 anni il Protestantismo non ha fatto conquiste di cui valga la pena il parlare. Anzi crediamo che se vi è stato qualche cambiamento, quel combiamento è stato favorevole alla Chiesa Romana. Dopo ciò sarebbe pure a domandare, come mai possa altri sperare che lo sviluppo delle umane cognizioni abbia a riuscir nocivo ad un sistema, il quale, per non dire di più, fermo ed illeso ha saputo rimanersi al suo luogo, non ostante il continuo progredir delle scienze dal tempo della Regina Elisabetta? »

14. «L’effetto del grande scoppio del protestantismo in una parte del Cristianesimo fu quello di produrre il ravvivamento del pari violento dello zelo cattolico in un’altra…. Nel corso di una sola generazione, l’intiero spirito della Chiesa di Roma si cambiò. Dalle sale del Vaticano sino al più isolato romitaggio degli ap pennini il gran rinnovamento si sentiva e si vedeva dappertutto. Tutte le istituzioni anticamente introdotte per la propagazione e la difesa della fede furono ripulite e rese efficaci… Il celebre Ignatio di Loyola nella grande reazione cattolica ebbe la parte che ebbe Lutero nel gran movimento protestante… La sua attività ed il suo zelo vinsero tutti gli ostacoli: e sotto la sua direzione l’ordine de’ Gesuiti cominciò ad esistere, e crebbe rapidamente alla piena misura della sua potenza gigantesca. Con qual veemenza, con quale esatta disciplina, con qual coraggio intrepido, con quale abnegazione, con qual dimenticanza dei più cari legami privati, con quale intensa e ostinata divozione ad un solo fine, con quale accortezza nel praticare i varii mezzi i Gesuiti combatterono per la loro Chiesa, per la loro Chiesa, si trova scritto in ogni pagina degli annali di Europa per molte generazioni…

15. » I Romani Pontefici mostrarono nelle proprie persone tutte le austerità de primi anacoreti della Siria. Paolo IV, portò al trono pontificale lo stesso zelo fervente, che lo aveva portato al convento de’ Teatini. Pio V, sotto i suoi splendidi abiti, portava giorno e notte il cilicio di un semplice frate; andava scalzo per le strade nelle processioni: trovava anche “in mezzo alle sue occupazioni più urgenti e difficili il tempo per l’orazione privata: spesso si lagnava che i pubblici doveri del suo grado erano poco favorevoli all’aumento della santità, ed edificava il suo gregge con esempii innumerevoli di umiltà, di carità e di perdono delle ingiurie personali; mentre allo stesso tempo sosteneva l’autorità della sua Sede, e le dottrine incorrotte della sua Chiesa con tutta la costanza e l’ardore d’Ildebrando. Gregorio XIII si sforzava non solo d’imitare, ma anche di oltrepassare Pio nelle virtù severe di una sacra professione. Come fu il Capo, così furono i membri. Il cambiamento nello spirito del mondo cattolico si può rintracciare in ogni ramo di letteratura e di arte. Se ne accorgerà ciascuno che paragoni il poema del Tasso con quello dell’Ariosto, ovvero i monumenti di Sisto V con quelli di Leone X! ( Nacaulay, History of England from the accession, etc. London 1848)

16. Apost. Caro Protestantismo! Io per voi abbandonai Papa e Papato, e voi venite a seccarmi col farne elogj? Morte al Papa! Abbasso il Papato!

Prot. « L’idea di un supremo Pontificato de’ Vescovi in Roma è un’idea la più grande e sublime che si sia mai in alcun tempo recata ad effetto. La mente umana non poté mai concepire un pensiero più bello e più perfetto (né uguale) di quello della Gerarchia e della teocrazia. Essa era in armonia coi bisogni dei tempi che correvano, e fu per così dire un avvenimento necessario. » (Marheinecke. Il sistema del Cattolicesimo nel suo sviluppo simbolico. Heidelberg 1810, p. 195).

17. «I Papi innalzarono una diga al torrente della barbarie, che avrebbe menato guasto su tutto il mondo. Furono essi che con le loro mani veramente da padri fondarono la Gerarchia (questa fu fondata col Papato di Gesù Cristo) è con esso lei la libertà di tutti gli Stati. Priva di questa libertà Roma potea cadere pei rescritti di un solo; priva di quella Gerarchia, non era già possibile d’istillare in tutti popoli i medesimi sensi, e gli stessi amori. La Chiesa vedova del Papa farebbe mostra di un esercito, a cui mancato fosse ed ucciso il valoroso capitano. » – (Giovanni Müller, Op. T. 8, p. 56).

18. « Fu veramente una grave disgrazia per la Russia, che non la religione Romana, ma la greca divenisse la sua religione nazionale. Poichè gli Istituti Regolari dell’Occidente erano molto più utili per la cultura nazionale, che non i Monaci dell’Oriente; e fino il Primato del Romano Pontefice, che riuniva più nazioni in una sola monarchia spirituale, riusciva più vantaggioso per la civiltà e per la cultura de popoli, ed era nel medesimo tempo più conforme all’indole generale degli Stati, che non il debole sistema gerarchico greco! » (Spittler, presso Ag. Theiner, La Chiesa scismatica di Russia descritta etc. Lugano 1846, p. 148 e segg.).

« L’intera Europa senza il Papato sarebbe facilmente caduta fra gli artigli de’ tiranni, i quali l’avrebbero fatta lor preda; e sarebbe così diventata quasi un teatro: d’irreconciliabili ed eterne discordie, e forse anco un deserto mongolico. » (Herder, I miei pensieri sulla filosofia del genere umano, T. 3, p. 167).

19. Apost. « Sì, il Papato fu una gloria di Italia, e fu grandemente utile all’Europa. Nel medio evo, quando tutto era sconvolgimento «ed anarchia, sebbene i Papi fossero egualmente immorali degli altri principi, pure la loro influenza religiosa impedì la dissoluzione della società, tenne unite le popolazioni dell’Europa col legame di una religione uniforme, e col propagarvi le leggi romane passate nel diritto canonico, e sparse fra di loro i germi di una futura civiltà. In Italia mantenne vive le tradizioni romane, che furono la causa che essa per la prima si liberasse dal caos del medio evo, essa la prima sì desse leggi scritte, e si svolgesse a lei quel precoce incivilimento che fu la fiaccola civilizzatrice di tutta l’Europa. – Dunque – bisogna disfarsi del Papa? » (Bianchi Giovini, nel suo giornale: L’Unione, 9 ottobre 1859).

20. Prot. Tu ragioni da bestia. Non conosci ciò che ne avverrebbe alla Religione quando le fosse tolto il suo Capo? Sei affatto cieco?

« Giusta cosa ella è, e non può negarsi, che ogni religione abbia un Capo che la governi e a tutti gli altri presegga, affinché l’unità e la pace durino ferme e non siano turbate. Perocché una religione, la quale non avesse che reggitori particolari e propri a ciascun paese, non starebbe molto a tramutarsi, e pretender novelle forme, secondo che tornerebbe conto ai fini e alle bisogne degli Stati. Diverrebbe allora un istituto civile; cosicché potrebbesi non a torto equiparare alle poste ed ai balzelli. Cambierebbesi da ultimo in una istituzione di finanza, atta a condurgli uomini quasi fossero sempre bambini e da sorreggersi col laccio, e servirebbe così materialmente alle mire dello Stato. Potrebbe più appellarsi in questa guisa un istituto divino?! » (Oken, Il nuovo armamento, la nuova Francia, 1814, p. 736)

Apost. Ma se così è, perché appellate il Papa – l’Anticristo?

21. Prot. « Colui non è l’Anticristo che non insegna veruna cosa, la quale si opponga alla dottrina insegnataci da Gesù Cristo. Ma il Papa nulla insegna di opposto alla dottrina di Gesù Cristo; dunque il Papa non è l’Anticristo. » (Ugone Grozio, presso Monsign. Bossuet, dottrina e critica di Grozio, Venezia 1784, §19, p. 65).

« Se i primi riformatori, nei loro-scritti privati, non han mancato di nominare il Papa Anticristo, e la Chiesa Cattolica la prostituta di Babilonia, non devesi perder punto di vista che eglino erano nel calore del combattimento…. Se loro fosse dato di ritornare e vedere il movimento attuale; eglino troverebbero l’Anticristo ben altrove che sopra la Sede di Roma. Io riconosco un progresso in queste parole del Conte di Zizendorf: Nel Papa io non vedo punto l’Anticristo; ma il Capo legittimo della Chiesa Romana. » (Sthal, nel Sinodo di Brema, Compte rendu des Seans, etc. Vedi Annales catholiques de Genève, P. 41, 42, Dec. 1852).

22. Apost. Ciò che singolarmente mi rende insoffribile il Papa è quella sua pretesa spirituale Monarchia universale indipendente, per cui pretende di aver diritto, di comandare in casa di tutti, con tanto danno ed ingiuria de governanti e dei governati; poiché è causa funesta di continui disordini e dissenzioni, che mai potranno cessare finché tal potere non sia bandito dal mondo. Non è egli vero?

Prot. Se tale universale potestà sia o no pretesa, già   te l’ho fatto conoscere, e se ciò non ti basta, ti rimetto alle mie Discussioni al tribunal della Bibbia. Veniamo dunque al resto.

«Vi è una via antica e semplice di assicurare per l’avvenire la sicurezza degli Stati, i diritti reciproci de Sovrani e dei popoli, e cotesta via infallibile eccola. Ritrovate in tutti i poteri quella Pontificia Monarchia, la quale fin da principio ha esistito nella Chiesa Cristiana, che sola può dominare sui cuori, che meritò l’ammirazione de’ primi fedeli, che anche dopo per lunga stagione esercitò il suo potere invisibile e spirituale su tutte le società politiche, delle quali mantiene i diritti reciproci, delle quali consacrò la indipendenza; delle quali preparava e disponeva il perfezionamento, quando ciechi legislatori a scavare si accinsero i suoi maestosi fondamenti, e a fulminare l’interdetto contro i ministri di Lei, ed a diminuire la sua influenza morale a segno, che poterono mandare ad effetto il loro piano iniquo di ribellare i popoli, di rovesciare le Dominazioni che hanno loro origine da Dio, e di operare quella rivoluzione spaventevole che abbiamo veduta…

» Tale è la natura della Monarchia Pontificia: Non è altro che quella del Re dei Re: offre essa ai poveri e ai deboli un riparo contro l’oppressione e la violenza, mantiene l’obbedienza ai Sovrani legittimi, ed impedisce le popolari insurrezioni. Monarchia ammirabile per il principio divino che la costituisce, quello cioè dello sproprio e della rinunzia ad ogni temporale vantaggio. Lungi dal sottometter le nazioni al duro scettro ed uniforme di un solo Padrone, essa mantiene l’indipendenza respettiva degli Stati, e lascia ad ognuno di essi quella che più gli conviene forma di civil reggimento, secondo gli interessi, il commercio, i bisogni, le abitudini e le località delle diverse nazioni. Lungi dal volere che s’incurvino i popoli sotto il potere di un solo Monarca, la spirituale Potestà presenta all’universo lo spettacolo dell’unità nella varietà medesima, il bello morale ed il bello politico, l’unione di popoli diversi, i quali non hanno che un sol cuore ed un’anima sola, benché differenti presso di loro ed i costumi, e le leggi, e la individua esistenza, e la forma del governo…

» Quale è dessa ora la vocazione sublime, a cui sono chiamate tutte le Potestà temporali? Non è forse quella di conservare nella sua integrità lo spirituale Potere, unico loro proteggitore? Ed eglino non si affretteranno a restituire alla Monarchia universale (la quale pone all’autorità loro il suggello) i suoi venerandi Ministri, gli zelanti suoi Missionarj, i suoi pii cenobiti, e tanti solitari divoti; sostegni fedeli, che la empietà le ha ultimamente rapiti, onde poter riuscire a disertarla?

» La Chiesa salvò l’Europa col suo potere da una totale barbarie: Ella fu il punto di riunione di tutti gli stati isolati: Ella sì collocò fra il tiranno e la vittima, e rannodando fra le nazioni inimiche i vincoli d’interesse, di alleanza; di amicizia, divenne la salvaguardia delle famiglie, dei popoli, degli individui! » (Pietro Foux, presidente del Comitato Riformato, Lettera sull’Italia, 376, 378, 380, 384).

«La Monarchia Pontificia ha insegnato alle nazioni ed ai re a riguardarsi vicendevolmente come compatrioti, essendo tutti egualmente soggetti allo “scettro divino della Religione, e qual centro di unità è stata per più secoli l’uman genere un vero benefizio. Ah! Perché mai divisioni funeste hanno tolta per molti Stati l’attiva sua forza a quel centro prezioso di unità! Ah! se tutte le parti, che separate si sono dal sistema generale vi si riunissero sotto un rapporto di riconciliazione evangelica, in luogo di lacerarsi a vicenda, e correr rischio di piombare nel caos, quanta forza e quanta stabilità acquisterebbero le società politiche! e come crescer vedrebbe la Religione il suo impero su i cuori !! » (Robertson [presbiteriano] presso Foux Op. cit. p. 126).

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA: OBBLIGHI DEI FEDELI (III)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE

AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI

  • 1866

RIFLESSIONI SULLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (III)

La storia della Chiesa è fedele maestra di tutte queste verità; ed io mi accingo a darne un brevissimo saggio nella persecuzione eccitata nel secolo decimo sesto in Inghilterra contro la Cattolica Religione. So benissimo, che non mancano degli Scrittori, i quali hanno attribuito quei disastri alla imprudenza e precipitazione dei Papi piuttosto, che ai vizi di Arrigo, e degli ecclesiastici e secolari di quel tempo. Ma io reputo questa imputazione essere una calunnia di uomini poco esperti e inconsiderati contro la Santa Sede, nata da false idee e da principii di non retto raziocinio. Chiamo una falsa idea il pretendere, che la Santa Sede avrebbe operato più prudentemente col dissimulare il fallo di Arrigo, o coll’astenersi almeno dagli estremi rimedii delle censure, dalle quali irritato il Re passò finalmente alle più violente risoluzioni contro la Cattolica Chiesa. Chiamo un raziocinio men retto il supporre, che la Fede non si sarebbe perduta in Inghilterra, se i Papi si fossero mostrati più circospetti e moderati nell’usar del rigore, e il voler attribuire un fatto certo, qual è la perdita della fede, a una cagione incerta, qual è la costanza e la fermezza de’ Sommi Pontefici. E infatti, siccome non v’ha dubbio, che vi sono delle circostanze, nelle quali anche la prudenza Evangelica consiglia di tacere, dissimulare e differire, così parimenti è indubitato esservi altre circostanze, in cui né differire si può, né tacere, né dissimulare. Nobis caute discendum est, quatenus os discretum, et congruo tempore vox aperiat, et rursum congruo taciturnitas claudat. Così diceva S. Gregorio Magno (Regul. Pastoral.). David tacebat non semper, sed pro tempore, non iugiter, neque omnibus, sed irritanti adversario; provocanti peccatori non respondebat. Così S. Ambrogio (De offic. lib. 1, cap.10, num. 14). Ora il decidere e il giudicare, quanto sia spediente all’onor di Dio e al bene della Chiesa il tacere, o il parlare, non è officio di persone private, ma bensì di quelli, che Iddio ha posti a pascere il suo popolo, e ai quali lo Spirito Santo somministra i lumi e le ispirazioni opportune all’adempimento del lor ministero. Se Gesù Cristo avesse osservato la regola prescritta da questi uomini troppo prudenti, non avrebbe sgridati e minacciati così spesso gli Scribi, e i Farisei, né gli avrebbe chiamati col nome d’ipocriti, e di prole di serpenti. Non v’ha dubbio che costoro s’irritarono sempre più contro il Figliuol di Dio per la libertà de’ suoi rimproveri, e congiurarono più rabbiosamente contro la di Lui vita. Ma perché essi erano maligni, superbi, e impenitenti, perché essi prendevano occasione d’imperversare sempre di più, quanto più erano corretti dal Redentore, per questo avrete voi il coraggio di accusar Gesù Cristo d’imprudenza e di temerità? Lo scandalo, ch’essi prendevano, era uno scandalo ingiusto e malizioso, e che da essi appunto ha preso il nome di farisaico, eche non deve impedire a veruno l’uso della correzione, allorquandolo esige l’onor di Dio e il bene universale. Clemente VII cassò l’illegittimo matrimonio di Arrigo VIII con Anna Bolena vivente la legittima di lui consorte Caterina, mediante la sentenza data in Roma del 1534 il 23 Marzo, e che comincia: Cum pendente lite etc. (apud Sander. – de Schism. Anglic. l. 1). Sin qui che cosa potete voi opporre, poiché lo stesso Arrigo aveva portata questa causa al tribunale del Papa, e pendente ancora la lite il Papa avea frattanto inibito ad Arrigo queste illegittime nozze? Se Clemente avesse dissimulato un tal eccesso, oltre l’offendere i Principi congiunti per sangue a Caterina, oltre il mancare di giustizia con lei medesima, avrebbe confermato il Re Arrigo nel suo delitto, avrebbe dato segno di non far conto di tali eccessi, o di non avere abbastanza di zelo per correggerli, avrebbe somministrata occasione ad altri d’imitare la dissolutezza d’Arrigo, avrebbe eccitata l’ammirazione e lo scandalo in tutti i buoni, i quali avean presente il coraggio di Giovanni Battista adoperato con Erode a costo della vita. Gli ambasciatori di Arrigo avevano parlato con alterigia e con impudenza al Sommo Pontefice per quest’affare in Marsiglia, udendoli il Re di Francia, ed aveano appellato dalla sua autorità a un futuro Concilio. Fu allora, che il Re Francesco cominciò a vergognarsi della sua interposizione, e Clemente a pentirsi dell’indulgenza adoperata sino a quel punto. (Sander. Ibidem). – Poteva egli dunque il Papa tacere più a lungo su questo fatto senza incorrere la taccia d’indolenza, di connivenza e di mancanza al proprio dovere? Ma direte voi, poteva almeno il Papa in quell’incontro risparmiar le censure. Imperocchè, « Henricus, hac accepta sententia, cum ea non aliter atque si ipsi iniuria facta fuisset mire interpretaretar, tantum abfuit, ut eidem pareret, aut penitentiam cogitaret, ut perditorum potius hominum more pervicacius multo progrederetur, et doloris sui ulciscendi causa nihil aliud versaret animo, quam vindictam. » Così scrive lo stesso Sandero. E infatti i Cardinali stessi, che aveano dissuaso il Papa dal differire quella sentenza; parvero dipoi pentiti, e pensarono, ma senza risolversi, ai mezzi di ritrattare quel passo (Raynald. an.1534 n,. 5). – Sempre più Arrigo fu irritato per la Bolla di Paolo III, con cui questo Pontefice gl’intimava le pene più gravi adoperate dalla Chiesa, se non desisteva da’ suoi eccessi. Io non nego, che queste cose non contribuissero ad infiammare sempre più l’animo di Arrigo contro la Chiesa. Ma qui si tratta di sapere, se i Papi fossero imprudenti per questo loro procedere, e se sarebbero stati col più lodevoli differire o moderare almeno la correzione. E qui appunto è dove un privato non può farsi giudice, trattandosi non di una prudenza mondana, ma di una prudenza ecclesiastica e spirituale, che è un dono dello Spirito Santo compartito per il ben comune della Chiesa a quelli specialmente, ch’Egli ha eletti a reggerla e governarla. Pio procedé forse anche con maggior vigore contro la Regina Elisabetta; ma egli era un Santo. Tommaso di Cantuaria parve feroce e implacabile contro Enrico II, e i Vescovi suoi fautori; ma anche questi era un Santo. Piuttosto, che moderare il pastoral suo vigore col Re, egli si esibì a Papa Alessandro di rinunziare liberamente in sua mano il Vescovato, che non avea voluto rassegnare alle minacce di Enrico, e alle rimostranze degli altri Vescovi, poiché diceva egli: « Si ad Regis comminationem, ut coepiscopi mei persuasere instantias, renunciassem Episcopalis  auctoritatis mihi indulto privilegio, ad Principum votum et voluntatem Catholicæ Ecclesiæ perniciosum relinqueretur exemplum » (S. Tom. Vit. Quadripart. lib. 2, cap. 12 inter Oper. Christian. Lupi Venet. 1727, tom. 10). E benchè ad alcuni sembrasse di profittare di questa occasione per sedare l’ira del Re, provvedendo la Chiesa di Cantuaria d’altro Pastore più accetto, e la persona di Tomaso d’altra Chiesa, pur nondimeno altri si opposero dicendo: « Eo cadente: caderent universi Episcopi, ut nullis futuris temporibus auderet quis obviare Principis voluntati: et sic vacillaret status Catholicæ Ecclesiæ, et Romani Pontificis deperiret auctoritas. Expedit igitur restitui etiam invitis omnibus, et ei, qui pro nobis dimicat, omnimode succurrendum (Ibidem). » Questo consiglio fu seguito da Papa Alessandro, il quale lo confermò nella Sede di Cantuaria, di cui Tomaso temeva di non aver avuto sino allora un legittimo possesso, dicendogli: « Nunc demum, Frater, nobis liquet, quem habuisti, et habes zelum pro Domo Domini, quoniam sincera conscientia te ipsum statuisti murum ex adverso…. Et sicut nostræ persecutionis factus es particeps, et consors individuus, ita tibi, Deo auctore in nullo deesse poterimus, quamdiu in hoc corpore mortali duraverit spiritus (Ibid.). » Ora voi sapete, quanto crebbe dipoi la persecuzione d’Enrico in tutto il regno per la sola persona di Tomaso, sinché o per ordine suo, p per far piacere a lui, quest’intrepido Vescovo fu tolto crudelmente di vita. Tutto questo, direste voi, avrebbe potuto impedirsi se il Pontefice avesse accettata la rinunzia del Vescovato da Tomaso. E pure egli non giudicò di dover procedere di questa maniera: e finalmente Enrico dopo la morte di Tomaso si ravvide de’ suoi eccessi, ne fece pubblica e solenne penitenza, e restituì la pace alla Chiesa. Fingiamo adesso, che invece di ravvedersi si fosse Enrico sempre più ostinato ne’ suoi trasporti, e avesse finalmente sradicata sin d’allora la fede dall’Inghilterra. Che cosa non direste voi dell’imprudenza di Papa Alessandro, quasi che per sostenere la sola persona di Tomaso avesse sacrificato la Fede di tutto un regno? Ma l’esito non fu tale, anzi ne ridondò alla Chiesa onore e utilità. Quindi forse non avrete il coraggio di condannare la condotta del Sommo Pontefice Alessandro. Dove io discopro in voi un falso metodo di ragionare, volendo dall’esito giudicare della prudenza, o imprudenza dell’Apostolica Sede. Se voi vi applicherete a leggere accuratamente la Regola Pastorale di S. Gregorio Magno, vi troverete degli ammirabili e minuti precetti sulla condotta d’un Pastore verso i trasgressori della divina legge; ma dovrete insieme concludere, che la giusta applicazione di quei precetti alla pratica non è un affare della sola prudenza dell’uomo, ma molto più di un lume particolare della divina Sapienza, la quale certamente assiste in singolar modo i Pastori collocati sulla Cattedra della verità a governare la Chiesa. E in conseguenza, io torno a ripetere, sarà sempre temerità quella di un privato, il quale pretende di giudicare con franchezza della diversa condotta usata dai Sommi Pontefici nelle diverse circostanze della Chiesa, secondo i diversi lumi e aspirazioni del divino Spirito, che gli assiste e dirige. Ma sarà anche insieme un falso ragionare il voler dall’esito misurar la giustizia e la prudenza del loro operare. No, non fu la sentenza di Clemente VII, non furono le sue censure secondo alcuni troppo precipitate, né la Bolla di Paolo III, che cagionaron la perdita della Fede in Inghilterra, ma bensì i peccati di quel regno, che provocarono la collera di Dio, e disposer quel popolo ad abbandonarsi finalmente all’errore. Anche senza quelle procedure de’ Papi la Fede si sarebbe perduta in Inghilterra forse con meno strepito, ma probabilmente con maggior danno della Chiesa, e de’ Fedeli. Già prima della sentenza di Clemente ecco di quali persone ridondava la corte di Arrigo. « Statim Henrici aula eiusmodi hominibus completa est, qui sacra omnia ridere, sacerdotibus illudere, religiosorum vitam in contemptum adducere, ecclesiasticorum divitias ac potentiam carpere, ridiculas de monachis fabulas fingere, et supra omnia Pontifici Romano detrahere, invidiamque facere solebant, et qui in his se petulantissimos et audacissimos praebebant, ii primas apud Annam, et per eam etiam apud Regem obtinebant (Sander. 1. 1). » – I consiglieri d’Arrigo erano il segretario Tomaso Cromvelo, l’Arcivescovo Graumero, e il Cancelliere Audleo, uomini egualmente scaltri, e propensi all’eresia. I Vescovi erano già caduti nell’errore di giurare obbedienza al Re nelle cause ecclesiastiche e spirituali, indottivi dall’autorità di Giovanni Fischero Vescovo Roffense, il quale per declinare la tempesta sovrastante al Clero, e sperando opportuno rimedio dal tempo, avea tratti a questo passo i Prelati più fermi, medicando il sacrilego giuramento colla clausola: Quantum per Dei verbum liceret (Sander. Ibid.). Nel Gennaio del 1533 cioè due mesi prima della sentenza del Papa erasi adunato in Londra il Parlamento a decidere gli affari di religione, e s’era disciolto il primo di Marzo per testimonianza di Burneto (Histor. lib. 2). Era dunque già seguita l’apostasia dalla Fede prima, che Clemente le censure fulminasse contro Arrigo. Nè questo Re prometteva pentimento e correzione, se il Papa avesse differito di lanciare i suoi fulmini, ma soltanto di dilazionare anch’egli la sua deserzione dal Papa, che per altro aveva incominciato. Così racconta Belcairo Zelcai (l. 20) « Bellaius… quamvis indignatum eo perduxit, ut si Clemens suam fulminationem differret, ipse quoque quod animo intenderat, nempe ut Clementi pristinam observantiam renuntiaret, exequi differret. » Dal che può conoscersi, che cosa avrebbe ottenuto il Papa con una maggior dilazione, da chi faceva con lui patti così arditi e minacciosi. Qual fosse eziandio la corruttela degli Ecclesiastici in quel regno si vide di poi sotto Eduardo VI, allorché una gran parte di essi non ebbe difficoltà di legarsi con vincolo di pubblico matrimonio, o a dir meglio di sacrilego concubinato (Sander. lib. 1). Ma qual attestato più autentico della vera cagione della perdita della Fede in Inghilterra, quanto ciò, che si osservò sotto il regno di Maria, e dipoi in quello di Elisabetta? Lo stesso Arrigo prima di morire avea tentato di riconciliarsi colla Chiesa, spinto a questo passo dagli stimoli della coscienza. Ma non volendo pubblicamente confessare il suo delitto, né farne la debita penitenza, ben dimostrò, qual animo fosse il suo, e quale stato sempre sarebbe, e qual era la moderazione, che egli esigeva dal Sommo Pontefice per conservare nel regno la Cattolica Religione, cioè una totale dissimulazione e connivenza egualmente ingiuriosa a Dio e scandalosa ai Fedeli. A lui sottentrò Eduardo, ed indi la Regina Maria, sotto il cui comando si riconciliò l’Inghilterra colla Chiesa. Si vide allora, quanto fosse sorprendente l’indulgenza dell’Apostolica Sede per quel regno. Il Cardinal Polo come Legato del Papa dichiarò con pubblico istrumento assoluti in perpetuo dalle pene e censure canoniche tutti quelli, che nel tempo dello scisma aveano acquistati i Beni monastici; benché non lasciasse di avvisarli, « ut corum, qui in Scripturis Sacris de hoc genere sacrilegii notantur, metuant exitus, ac Dei omnipotentis in tales severissima iudicia non obliviscantur, licet  Ecclesia suum ius secundum canones non persequatur (Sander. lib. 2). » Si dispensò con tutti i coniugati, ch’erano quasi innumerabili, dagl’impedimenti ecclesiastici del matrimonio. Benché si distaccassero dalle Sedi Vescovili gli eretici intrusi per restituirvi i Vescovi Cattolici, nondimeno si confermarono i Vescovi di credenza cattolica, ch’erano stati creati durante lo scisma, e si ritennero sei nuovi Vescovati eretti al tempo di Arrigo. (Sander. lib. 2, Fleury lib. 149, num. 56, e lib. 150, num. 37). Per parte poi degl’Inglesi parve del tutto sincera la loro riconciliazione. La Regina Maria rassegnò nelle mani del Legato tutte le decime, primizie e benefizii, ed altri simili proventi, che sotto Arrigo ed Eduardo erano stati applicati al regio erario (Sander. Ibidem; Fleury lib. 130, num. 87). Il Parlamento presentò al Legato del Papa una supplica concepita con tutti i segni più rispettosi di umile pentimento e di sincera ritrattazione, aggiuntavi la protesta di far tutto il possibile per l’abrogazion delle leggi contrarie alla Chiesa (apud Sander. Ibid.). Il Legato a nome del Sommo Pontefice benedice e assolve pubblicamente i Parlamentari e il Re, e la Regina, i quali piegati a terra le ginocchia ricevono l’assoluzione del Papa (ibidem). Si spediscono a Roma ambasciatori a protestare obbedienza al Sommo Pontefice a nome di tutto il Regno. I Vescovi di credenza cattolica, ma creati in tempo dello Scisma, non contenti della Pontificia dispensa, domandano tutti in particolare, eccettuatone un solo, alla Sede Apostolica il perdono dell’antecedente lor colpa, e la conferma nei lor Vescovati (ibidem). Si restituiscono nelle Accademie le Scuole di Cattolica dottrina, e di Scolastica teologia; ma giova di aggiungere il rimanente colle stesse parole del Sandero. « Restituuntur ac ornantur passim Ecclesiæ, altaria eriguntur ct consecrantur, collegia nova amplissima dote fundantur, cœnobia Benedictinoraum, Carthusianorum, Brigittensium, Dominicanorum, Observantium, ac aliorum Ordinem a devotis personis ræedificantur, catholicis Regibus in hoc genere pietatis subditis omnibus prælucentibus. Ad sanctum Sacrificium, Confessionem, Communionem, publicas preces plebs alacri studio concurrit. Et ad Sacramentum quidem Confirmationis, quia per totum fere sexennium, quo Eduardus regnavit, legittime non administrabatur, tam innumerabilis parvulorum ex omnibus urbibus, Oppidis, pagis, agris turba deferebatur, ut Episcopi variis locis pene opprimerentur… Alque ita quidem religioni Catholicæ studio omnia fervebant (ibidem). » Chi non avrebbe sperato dopo sì felici successi una stabil perseveranza della Cattolica Religione in Inghilterra? E pure chi nol sa? Dopo cinque anni e Quattro mesi di regno muore la piissima Regina Maria; il Trono è occupato da Elisabetta; la persecuzione infierisce con maggior crudeltà, che non avea fatto sotto Arrigo; e la Cattolica religione è finalmente proscritta da quel regno. Questa è la vera epoca della perdita stabile e durevole della Fede in Inghilterra, là dove sotto Arrigo questa perdita fu soltanto passeggera. Ora che diran qui i sapienti del secolo? Fu forse l’imprudenza e la precipitazione di Clemente VII, e di Paolo III, che diedero occasione a questa nuova persecuzione dappoichè l’indulgenza di Giulio III lor successore avea riparati con tanta moderazione tutti i disordini e gli effetti dello scisma, e dell’eresia? – Qui è dove fa d’uopo ricorrere piuttosto agli occulti impenetrabili giudizi della divina provvidenza. Ma siccome per altro la sottrazion della Fede da un regno è uno de’ più severi castighi dell’irritata divina giustizia, ed ogni castigo suppone un delitto, convien anche dire, che molti e gravissimi fossero agli occhi di Dio gli eccessi di quel popolo infelice, e somma fosse la di lui ingratitudine, per cui si videro da lui sottratte le divine beneficenze. Forse, dice il Sandero, la cagion fu l’ostinazione. degli Ecclesiastici, i quali per la più parte non vollero prestarsi alla riforma decretata in un Sinodo dal Cardinal Legato, e approvata dal Papa, e l’ambizion di quel Clero, e l’infinita sollecitudine di accumular Beneficii; unde iam tum homines aliquot vere pii, et secundum Deum prudentes timuerunt, ne iterum a Domino gravioribus quam ante flagellis vapularemus (Sander. lib. 2 sub fin.). Forse furono i sacrilegi gravissimi d’Arrigo, e del suo popolo, che non potevano espiarsi con sì leggiera e breve penitenza. Forse la retenzione dei Beni Ecclesiastici, che sono il patrimonio di Gesù Cristo, e dei Poveri; e benché Giulio III avesse dato facoltà al suo Legato di transigere e dispensare coi detentori di tali Beni a tal segno, ut prædicta Bona sine ullo scrupulo in posterum retinere possit (apud Baynald. an. 1554, num. 8); nondimeno convien rammentarsi, che lo stesso Legato avea avvisati gli occupatori, che avesser i severissimi giudizi di Dio sopra i sacrilegi: « In quo tamen huiusmodi occupantes gravissime admonet, ut eorum, qui in Scripturis Sacris de hoc genere sacrilegii notantur, metuant exitus, ae Dei omnipotentis in tales severissima iudicia non obliviscantur (Sander. lib. 2). » Lo stesso Cardinal Legato, uomo per altro così pio, dotto e prudente erasi mostrato forse troppo indulgente coi Sacerdoti ammogliati, ai quali, dopo averlì separati dalle mogli, e privati degli anteriori Benefizii, avea permesso di ascendere troppo presto ad altro maggior grado, risolvendosi a ciò fare per la grande penuria de’ Sacerdoti: « In eo paulo indulgentior, ut a multis observatum fuit, quod in sacerdoles, ac religiosos uxoratos non apimadvertit satis; sed a praetentis uxoribus tantum separatos, atque beneficiis prioribus privatos, mox ad alia maiora sacerdotia nimis cito admiserit. Sed ut illud fieret, presbyterorum magnæ tum penuriæ indultum dicebatur » (Sander. ibidem). I Vescovi di credenza cattolica creati nello Scisma di Arrigo fuor della. Chiesa, e che aveano sottoscritto al Primato di Eduardo, non ostante l’umile e sincera loro ritrattazione, tuttavia non aveano forse ancor data a Dio e alla Chiesa quella soddisfazione e riparazion dello scandalo, che competeva a così gran delitto, e che Dio volle da essi in questa seconda persecuzione colla effusion del lor sangue per la confession della Fede. « Cuius criminis gravissimas paulo post pœnas… .. deinde multo magis sub Elisabetha omnes luerunt, depositionem, et diuturnos carceres usque ad mortem patientissime tollerantes, misericordiamque simul, et iustissima in se Dei iudicia collaudantes » (Sander. lib. 2 Eduard.). Certo è, che assai meno accuserebbero i prudenti del secolo la fermezza e severità dei Pastori della Chiesa, se fossero qualche poco istruiti nelle divine Scritture, in cui leggiamo, qual conto faccia Iddio di ciò, che ordinariamente poco si apprezza anche tra i savi, qual severissima pena Egli ne esiga. Ma non convien dimenticare per questo ciò, che ho detto da prima, cioè che Iddio della persecuzione medesima si prevale a far pompa della sua misericordia non solo coi giusti, ma eziandio coi peccatori, e ad ingrandire sempre più i trionfi della sua Chiesa. – Quanti sotto Elisabetta espiarono con una gloriosa morte per la Fede l’apostasia, in cui erano caduti sotto Arrigo ed Eduardo, o la timida e interessata condiscendenza adoperata da loro con quei Principi? Così imitarono il celebre Giovanni Fischero Vescovo e Cardinale, di cui abbiam parlato, e il quale sotto Arrigo era stato autore agli altri di sottoscrivere il sacrilego giuramento coll’eccezione; quantum per Dei verbum liceret,. Del qual fatto egli pentito dipoi pubblicamente si accusava e diceva: « Suas idest Episcopi partes fuisse, non cum exceplione dubia, sed aperte, et disertis verbis cœleros potius docuisse, quid verbum Dei permitteret, quidve probiberet, quo minus alii in fraudem incurrerent; nec unquam sibi deinceps peccatum hoc Satis expiasse videbatur, quousque proprio sanguine hanc maculam eluisset » (Sander. lib. A). Come di fatti ebbe la sorte di poter ottenere sotto o Stesso Arrigo con tanta gloria sua e della cattolica religione. Ma nulla può essere più a proposito di ciò che lasciò scritto il Ribadeneira, e leggesi nell’Appendice allo Scisma Anglicano, o sia libro quarto di quella Storia (cap. 32, Colon. 1628). « Essendo, dic’egli, per dar compimento a questa Storia dello Scisma Anglicano, pare che sarà cosa utile l’investigare alcuna di quelle cagioni, per cui l’ineffabile e secreta provvidenza di Dio ha permessa in quel regno così barbara persecuzione. Imperocchè temo, che si trovino alcuni non solo tra il volgo, ma anche tra i più prudenti, i quali riguardando semplicemente con occhi carnali lo stato dell’Inghilterra e il potere de’ nemici di Dio, possano dire, che Iddio ha abbandonata la propria causa e l’onor proprio, e che non vendica i suoi servi. A queste difficoltà ho destinato coll’assistenza del Signore di soddisfare almeno in parte. Iddio nelle opere sue due cose riguarda, vale a dire la propria gloria, e la nostra eterna salute; e amendue questi fini sommamente risplendono nell’Anglicana persecuzione. Imperocchè qual maggior ossequio può l’uomo prestare a Dio, quanto il morire per esso Lui? Ma nello stesso tempo non può l’uomo provveder meglio a se stesso, quanto sacrificando la vita per quel Signore, il quale per lui la sacrificò molto prima. Nei combattimenti e nella vittoria dei Martiri la gloria di Dio e il loro vantaggio sono così scambievolmente connessi, che l’una cosa senza l’altra non crescerebbe, ma dall’onor di Dio risulta maggiore la corona del martirio. E poiché Dio è zelatore della propria gloria, e amico de’ nostri vantaggi, non dee far meraviglia, se permette tali combattimenti, dai quali egli ricava tanto onore, e l’uomo tante utilità e mercede. Considerate dall’una parte le armi, colle quali il demonio assale questi beati Martiri, ed esaminate dall’altra il vigore e la fortezza, con cui essi resistono, e intenderete subito, quanto sia ammirabile la grazia e il favore divino. Combattono contro i Martiri i demonii e i lor ministri, combatton la fame, la sete, la nudità, l’infamia, le lusinghe, le speranze, i timori e le vane promesse; combattono i tormenti delle carceri, le catene, le ruote, il fuoco, i patiboli e la spada; combatte 1’infermità della carne, la debolezza della complessione, e l’amor proprio. E pure benché sì gran moltitudine d’uomini contro essi combatta, nondimeno per opera della divina grazia si vede, che uomini e donne, fanciulletti e fanciulle’ con tanta fortezza gli vincono, che ne restan confusi i giudici, affaticati ì tiranni, confermati i Cattolici e consolati gli Angioli istessi. Quindi alcuni, i quali non erano Inglesi, né mai vissuti erano in Inghilterra, mossi dall’esempio di tanti gloriosi Martiri Inglesi, si trasferirono a quel regno, e vollero imitarli, e accompagnarli nei supplici e nello spargimento di sangue per la Fede. « Oltre a che questa persecuzione ha portato somma utilità agl’Inglesi cattolici, poiché con essa sono provati, esaminati, dai terreni affetti si purgano, e tutto giorno a Dio si offrono in sacrifizio. Laonde giudico, che si trovino al presente in Inghilterra uomini più santi di quello, che trovar si potessero in tempo di quiete e di tranquillità. Imperocchè la prosperità assai volte snerva gli uomini, e gli rende fiacchi ed effeminati; laddove la tribolazione gli fa divenire martiri, fervorosi e costanti. Quelli adunque, che soccombendo nelle persecuzioni abbandonan la fede, dimostrano, che hanno dissolutamente vissuto sino ad ora, e che non erano nella fede forti e saldi abbastanza. Ma quelli, che sono piantati non già sull’arena, ma sul fondamento di Gesù Cristo, questi crescono fra le tribolazioni, come alcuni alberi fra i ghiacci e le nevi. Quanto poi di gloria ottiene la Chiesa dalla fortezza di questi suoi Martiri? Quanta edificazione e buon esempio da essa deriva? Quanto è onorevole alla Chiesa l’aver dei figli così illustri, così magnanimi, così bellicosi? « Che dirò poi dell’altro frutto, che da questa presecuzione si raccoglie; poiché tutte le provincie e i regni cattolici di qua imparano, qual tenore debbano osservar cogli eretici. Fioritissimo fu per un tempo il Regno d’Inghilterra e tale da far meraviglia per la virtù, la religione, l’umanità, la pace, la concordia, la libertà, e per la dolce comunicazione fraterna. Ora poi sembra divenuta un’altra Babilonia per la varietà, contrarietà e confusione delle eresie; è spelonca di ladri per le ingiustizie, è macello dei servi di Dio; è sede della guerra civile, della servitù, e di una miserabile cattività; anzi, è un incendio, che nato da una scintilla di cieco amore si è poi dilatato dalla setta di Calvino. Laonde di quanta vigilanza hanno mestieri i Re, i Principi e le cattoliche Repubbliche, affinché questo fuoco infernale non invada ancora i loro Regni. Insegna ancora quest’anglicana persecuzione, quanto dobbiam compatire quelli, che son presi di mira, vedendoli proscritti dalla patria, cacciati dalle case, spogliati degli averi e degli onori, avuti in conto di traditori, e trattati come sediziosi. Imperocché tutti noi siamo Cattolici, e siam membra d’un sol corpo mistico, il quale è la Chiesa, e il di lui capo è Gesù Cristo, e il suo Vicario in terra il Romano Pontefice. Chi non soffre pazientemente la povertà vedendo oggi nell’Inghilterra tanti ricchi e illustri personaggi spogliati de’ loro beni, e stretti in carcere non avere con che coprirsi, né pane con cui sfamarsi? Quale infermo non si farà coraggio, pensando come innumerabili Sacerdoti, e delicatissime Matrone oggi in Inghilterra sono con crudelissimi tormenti straziati? Non per altra cagione permette Iddio questa persecuzione, se non perché si confermi la nostra fede, si rassodi la speranza, si accenda la carità, si comprenda il vigore della divina grazia, si fortifichi la pazienza, si ecciti la divozione, si faccia rinunzia ai piaceri, si scuota la pigrizia, e si confonda finalmente la nostra negligenza e pusillanimità. Permette dunque Iddio, che gli eretici affliggano e vessino la Chiesa, affinché questa agitata nel vaglio delle persecuzioni più pura diventi, più santa e più perfetta; e affinché a tutti sia palese, ch’essa al par della Luna soffre talvolta le sue ecclissi e oscurità, ma non perisce giammai, né resta priva di sua virtù.» Sin qui il Ribadeneira. Finalmente vi prego a riflettere, che rigorosamente parlando la Fede non si è mai perduta in Inghilterra. Il culto pubblico della Cattolica Religione, questo è quello, che mancò del tutto in quel regno. Del rimanente da quell’epoca sino ai nostri giorni vi si è sempre mantenuto un buon numero di fervorosi Cattolici, dei quali scriveva ai suoi tempi il Ribadeneira, e credo, che possa anche affermarsi al presente: eristimo sanctiores nunc in Anglia homines reperiri, quam lempore quietis et prosperitatis potuerint inveniri. – Che se Arrigo non si fosse pubblicamente e solennemente separato dalla Romana Chiesa; se non avesse suscitata contro i Cattolici la tempesta della persecuzione, chi sa, se nessun vero cattolico saria rimasto in quella nazione. Imperocchè non par verosimile, ch’egli avesse voluto abbandonare il partito già preso, né rinunziare alla passione, né ritrattare il mal fatto, né allontanare i cattivi consiglieri, e gli eretici dal suo fianco, onde parte per le frodi di costoro, parte per il di lui mal esempio, parte per la connivenza dei Prelati, a poco a poco l’errore avrebbe corrotti anche i buoni, senza che nessuno gli avvertisse, e facesse loro coraggio a persistere nella cattolica Fede. Io credo che la Fede in un regno possa rassomigliarsi a un robusto naviglio nel mare, il quale se viene scosso e agitato dalla tempesta, benché spesso si trovi in pericolo di restar sommerso, e benché abbia a sgravarsi d’una gran parte del peso, onde è carico, nondimeno spesse volle anche cogli alberi infranti arriva a salvamento, e nel porto si ristora finalmente dai danni sofferti. Ma se mentre sembra, che l’acque dormano in calma, e i nocchieri non vegliano alla sua custodia, furtivamente e inosservata vi penetra di fianco l’onda insidiosa, a poco a poco lo vedete abbassarsi, ed indi scomparire del tutto, senza che quasi nessuno siasi avveduto del suo totale e irreparabil naufragio. – Che se voleste risalire alla prima sorgente delle tribolazioni della Chiesa, la troverete d’ordinario nel rilassamento del Clero. Questo Ceto destinato da Dio per essere il sale della terra, se svanisce e perde il suo sapore, non è più atto a servire di condimento, e conviene per conseguenza, che ogni cibo divenga insipido e noioso. Tutto allora è freddezza, indifferenza e languore nella Fede; e il sale non essendo più idoneo a condire vien gittato sulla pubblica strada, e lo calpestano quanti vi passano. Questo, che in sostanza è l’avvertimento, che diede Gesù Cristo ai suoi Apostoli (Matth. V, 13), forma da se solo la spiegazione delle tribolazioni, che tante volte ha dovuto sostenere il Clero Cattolico, e del disprezzo, a cui si è veduto esposto in mezzo allo stesso popolo Cristiano. S. Cipriano, ed Eusebio han rilevata la corruzione del Clero che precedette l’orribili persecuzioni de’ lor tempi, e gli storici del secolo decimo sesto hanno fatta la stessa osservazione all’epoca dell’eresia di Lutero. Quindi il fine principale della tribolazione è di richiamare il Clero al dovere, e alla perfezion del suo stato, e per mezzo del di lui zelo ed esemplarità rinnovare lo spirito dei Fedeli. Indarno si aspirerebbe alla Riforma della vita secolaresca, se non vi si faccia precedere la Riforma della condotta ecclesiastica. Questa è stata sempre la comune opinione fondata non solo nella provvidenza di Dio, il quale ha collocati i suoi Ministri come fiaccola accesa sul Monte Santo di Sion, affinché allo splendor di quel lume il popolo discuopra il sentiero, per cui deve camminare al termine della salute, ma eziandio perché è cosa pur troppo conforme all’umana natura, che non si creda alla dottrina di un uomo, il quale opera all’opposto di quello, che agli altri insegna, insinua e prescrive. È notabile ciò che riferisce Odorico Rainaldi all’anno 1559, §. 30 essere accaduto sotto il Pontificato di Paolo IV, perché il suddetto Pontefice avendo risaputo un grave e pubblico delitto d’un Porporato, ed infiammato di sacro zelo avendo esclamato con alta voce, Reformatio, Reformatio; allora il Cardinal Paciecco, che v’era presente, si fece coraggio a rispondere: Recte quidem, sed Reformatio a nobis ut exordium sumat, necessum est. Oimè, esclamava il Vescovo Laudense nella sua Orazione recitata per l’esequie del Cardinal di Bari (Mansi Concil. tom. 28col. 526) nel Concilio di Costanza, io lo dirò con dolore, ma trattenere non posso il concepito sentimento. « Nos Clerici debemus esse exemplar laicorum, ut vitam et mores suos emendarent.Iam cito nobis opus est ut accipiamus exemplum vivendi ab eis.Nonne magis moraliter, magis seriose, magis composite, magis devote, ct reverenter se gestant in Ecelesiis, quam nos? O dolor,o plus quam dolor! quod Christi Sponsa praeelecta, mater Ecclesia,per nostram dissolutionem, et vanitatem ita deturpatur. Propter quod, hoc etiam Deo permittente, et suam defensionemdetrahente, multa mala nos involvunt. Nam at flebilis nos docetexperientia, iam fere omnes Principes, barones, milites, cives etclientes, servi et liberi, nos persequuntur, nobis detrahunt, nosdeplumant, nos despiciunt. Et si in his angustiis constituti clamemusad Dominum pro auxilio quid nobis respondit? Misererinequeo, quia poenitere non vultis. Tollite vos causam, sive malamvestram vitam, quantum in vobis fuerit, et ego tollam effectum,sive hanc vestram persecutionem. Verumtamen, ReverendissimiFratres, ecce nune tempus acceptabile, ecce nunc diessalutis; emendemus in melius, quod ignoranter peccavimus. »Né deesi sfuggire dal Clero di confessare i proprii delitti pertimore di scandalizzare il popolo, o di riconoscere e autorizzare incerto modo per vere le sediziose e atroci calunnie degli avversari della Chiesa. L’umile confessione è quella che placa non solo Iddio,ma che edifica ancora il popolo, il quale così impara ciò che devefar egli stesso, e che prende piuttosto scandalo, se si accorge, che vogliono scusarsi, o dissimularsi anche quelle prevaricazioni, che per altro sono innegabili. Gli eretici poi rimangon confusi da un’umile confessione incomprensibile, e impraticabile dalla loro indurata. alterigia; e disarmati si trovano a poter nuocere colla calunnia al buon nome del Clero cattolico, allorché questi confessandole sue trasgressioni viene a separare virtualmente il vero dal falsocon una efficacia, e con un esito più felice di qualunque eloquente apologia. Imperocché allora nessun uomo fornito di buon senso e di equità potrà darsi a credere, che quelli i quali con sentimenti di umiltà confessano al pubblico i loro errori, vogliano poi tacere,o dissimulando negare, se fosser veri, anche que’ più atroci ed esagerati delitti, che dagli eretici sono ad essi malignamente imputati.I Principi stessi Cattolici, che devono essere dal Clero ammoniti,coi quali il dissimulare l’ingiurie di Dio sarebbe vera empietà, come asseriva il citato Vescovo Laudense (Ibid. col. 563), rimangonoin tal modo più convinti dell’equità della correzione, e più disposti a riformare ancor essi la loro condotta verso la Chiesa.Ben lo conobbero in Francia i Prelati, che nell’anno 881 si adunarono da diverse provincie in un luogo detto S. Macra della Diocesi di Reims, ed ivi tennero il loro Sinodo dopo l’infestazionede’ barbari e la persecuzione dei perversi Cristiani, sotto il regno del Re Ludovico (Concil. Mansi tom. 17, col. 573 et sequ.). Ivi dopo di avere stabiliti gli uffici della pontificale e della regia autorità,prima di procedere ad indicare al Principato gli abusi contro la Chiesa introdotti, e necessari ad essere estirpati colla di lui cooperazione ed aiuto; prima di ammonire de’ suoi doveri il Monarca, e i di lui Ministri; ben conoscendo, che potea forse ad essi non piacere l’episcopal correzione, prendon principio dall’accusa di sé medesimi, e della lor negligenza, per cui, dicono, è avvenuto ciò, che sta scritto in Isaia 14. « Et erit sic ut populus, sic et sacerdos. Sacerdos enim non distat a populo, quando nullo vitæ suæ merito vulgi transcendit actionem. Ecce iam pene nulla est sæculi actio, quam non Sacerdotes administrent. Quanto autem mundus gladio feriatur aspicimus, quibus quotidie percussionibus intereat populus, videmus. Cuius hoc nisi nostro præcipue peccato agitur? Ecce depopulatæ urbes, eversa castra, ecclesiæ ac monasteria destructa, in solitudinem agri redacti sunt; sed nos pereunti populo auctores mortis existimus, qui esse debuimus duces ad vitam. Ex nostro enim peccato populi turba prostrata est, quia faciente nostra negligentia ad vitam erudita non est. Pensemus ergo, qui unquam per linguam nostram conversi deperverso suo opere, nostra increpatione correpti pœnitentiam egerunt; quis luxuriam ex nostra eruditione deseruit, quis avaritiam, quis superbiam declinavit. Hic pastores vocati sumus, et cum ante æterni Pastoris oculos venerimus, ibi gregem nostra prædicatione conversum non ducemus. Sed utinam, si ad prædicationis virtutem non sufficimus, loci nostri officiùm in innocentia teneamus (Ibid. cap. 2, col. 540).»

Questo è dunque fuor di dubbio il mezzo principale non solo per riparare ai mali della Chiesa; ma per potere applicarsi ancora con qualche frutto alla Riforma del popolo Cristiano, le di cui colpe sono sempre il motivo delle straordinarie tribolazioni. Né egli è difficile dopo questo primo passo il trovare un piano di Riforma ecclesiastica, e laicale, dappoichè ne abbiamo non pochi, e tutti proficui, che ci sono stati lasciati dai nostri maggiori quasi in eredità. Anzi egli è tanto più facile di quello, che lo fosse ai nostri maggiori, quanto che l’ecumenico Concilio di Trento ne ha stabiliti i fondamenti, né si troverà certamente in esso cosa alcuna, che debba detrarsi, e poche, che si possano aggiungervi per un Piano universale, che deve da tutti essere abbracciato, e nel quale perciò la moltiplicazion delle leggi genera piuttosto inciampo, che facilità all’osservanza. E certamente se si volessero ripigliar di bel nuovo tutti i punti di Riforma, che dai Prelati, dai Principi e dalle Nazioni furono proposti prima del Tridentino Concilio e nelle sue sessioni, e quelli, che si affacciarono ai Concili di Costanza e di Basilea, e che si trovano per disteso negli Annali di Odorico Rainaldi nelle recenziori edizioni dei Concili, e nella Istoria del Concilio di Trento scritta dal Cardinal Pallavicini, chi ha scorso questi volumi anche solo alla sfuggita, si avvedrà subito, che l’appigliarsi a questo metodo sarebbe lo stesso, che gittarsi a nuoto in un vasto oceano senza poter fissare giammai un lido sicuro di terra ferma, a cui dirigersi. Tutti i piani, le istanze, le riflessioni, e consultazioni anteriori al Tridentino Concilio si versarono, dirò così, in seno al sacro Consesso di quei dottissimi Padri, i quali ne fecero un lungo ed accurato esame, e diretti dal divino Spirito procedettero alla dichiarazione di quelle Riforme, ch’erano necessarie, utili, praticabili, e che la Chiesa ha dipoi avuto ed avrà sempre sotto l’occhio sino alla fine de’ secoli. Egli è dunque più conducente allo scopo proposto l’esigere diligentemente l’osservanza dei Tridentini Decreti, che il moltiplicarne il numero con nuove addizioni. È ben vero, che il Concilio di Trento non istabilì, come abbiam osservato, che i principali fondamenti di una perfetta Riforma, e che in riguardo alla esecuzione ed all’applicazion pratica, specialmente nei punti subalterni e minuti di disciplina, i quali su que’ fondamenti si posano, e insieme gli riparano dall’essere smossi ed offesi, può nascere gran variazione nelle diverse provincie e diocesi, da cui insensibilmente viene dappoi la disciplina a risentirne anche nella sostanza. Ma questo Supplemento, che certamente sembra necessario, è stato già donato alla Chiesa dal Santo Cardinal Borromeo nella Copiosa Raccolta dei Concilii Provinciali di Milano distribuita in due Volumi, e nella «quale sono anche registrati molti Editti e Decreti di quell’immortal Porporato. Chiunque si ponga a leggere, ed a considerare quest’insigne Raccolta, troverà poche cose da desiderare, pochissime da cangiarsi; ed egli sarebbe certo d’una somma utilità l’aver pronto un Piano quasi adeguato di Riformazione, la quale altrimenti potrebb’essere molto a lungo desiderata ed aspettata, ma senza effetto. È da riflettersi eziandio, che i suddetti Concilii di Milano cominciarono a celebrarsi poco dopo la fine del Tridentino, vale a dire quando era ancora recente la memoria delle discussioni in esso tenute, e dello spirito di quel venerabil Consesso. Né perciò sarebbe da trascurarsi la collazione di altri simili Concilii, che si tennero a quell’epoca per l’esecuzione del Tridentino; e giovar potrebbero ancora le particolari Memorie per la Riforma dell’ecclesiastica universale o particolar disciplina presentate a Paolo III, ed a Clemente VIII, e scritte di lor commissione; l’una dai Cardinali Contarini, Carafa, Polo, e Sadoleto con altri insigni Prelati l’an. 1588, e che vien riportata da Natale Alessandro al secolo decimo sesto (cap. 1, art.16, § 3, e seg.), anteriore di poco tempo alla convocazione del Tridentino; l’altra dal Cardinal Bellarmino, e trovasi inserita nel fine della Vita di questo Cardinale scritta dal Padre Daniello Bartoli, ed impressa nuovamente in Napoli l’anno 1739. L’esempio particolare di una Provincia o Metropoli, che coll’approvazione della Santa Sede intraprendesse a praticare le disposizioni dei Concilii di Milano potrebbe assai giovare all’universal riforma, la quale altrimenti sarebbe troppo malagevole e tarda, se decretar si dovesse da un generale Concilio. Io ho accennato questo metodo sin dalla prima edizione di quest’Opera nell’Opuscolo degli Abusi nella Chiesa; né però ho mai preteso, come neppur ora pretendo di usurpare un magistero incompetente al mio grado e alle mie cognizioni. Sarebbe questa un’intollerabile temerità, parto ordinario della superbia insieme, e dell’ignoranza, giacché l’uomo mediocremente istruito dee conoscere, che una teoria speculativa non è sempre riducibile alla pratica, e che chi si trova in un punto della circonferenza non iscuopre con distinzione i raggi del circolo, come per altro li vede quegli, il quale è collocato nel centro, in cui vanno tutti i raggi ad unirsi e a terminare in un punto. Ma egli non è per altro superfluo il recar pietre alla fabbrica di un signorile edifizio, dalle quali poi l’artefice sceglie quelle che giudica al suo lavoro più opportune. Ripigliando pertanto il mio principale argomento conchiudo. – Cessate finalmente di meravigliarvi e di scandalizzarvi delle tribolazioni della Chiesa. Questa meraviglia e questo scandalo non suol esser effetto, che della debolezza dell’animo, dell’attacco ai propri comodi, o della mancanza d’istruzione. Ammirate piuttosto la provvidenza e la sapienza di quel Dio, che la governa, e che purgandola nel fuoco delle tribolazioni la fa poi di là uscire non solo illesa, ma più splendida e più robusta a gloria sua, o a confusione de’ suoi nemici.

[Fine Prima parte]

LA PARUSIA (5)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (5)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE – Rue de Rennes, 117; 1920

ARTICOLO QUINTO


ARGOMENTO PERENTORIO DEI MODERNISTI: « VEGLIATE E PREGATE, PERCH
É NON SAPETE QUANDO SARÀ IL MOMENTO. QUELLO CHE DICO A VOI LO DICO A TUTTI! VEGLIATE »

(Marc., XIII, 33-37).

Dopo aver esaminato separatamente il testo di San Luca da una parte, e quello di San Matteo e di San Marco, nella parte che è propria di questi due evangelisti, dall’altra, dobbiamo ora considerare le esortazioni alla vigilanza che, nei tre Sinottici indistintamente, seguono l’oracolo escatologico, e sono come la conclusione pratica, o, se volete, la lezione morale che Gesù ne trae. Perché anche se non sono parte integrante dell’oracolo stesso, queste raccomandazioni sono tuttavia, in relazione alla profezia stessa, un elemento di interpretazione di primaria importanza. Inoltre, esse costituiscono la base delle principali, più forti e più evidenti ragioni addotte dai nostri avversari. I modernisti, infatti, si domandano se erano davvero coloro che erano materialmente e fisicamente presenti, presenti nelle loro persone, presenti in carne e ossa, a cui erano rivolte le raccomandazioni di Gesù che leggiamo in San Matteo: « Vegliate dunque, poiché non sapete quando il vostro Signore verrà. E sappiate che se il padre di famiglia sapesse quando verrà il ladro, vigilerebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Siate dunque pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà in un’ora che non vi aspettate » (Matth. XXIV, 42-44). E in San Marco: « Fate attenzione, vegliate e pregate, perché non sapete quando sarà il momento. Così un uomo, lasciando la sua casa per andare in viaggio, assegna il suo compito a ciascuno dei suoi servi, e ordina al portinaio di vigilare. Vegliate dunque, perché non sapete quando il padrone di casa verrà, se alla sera, o a mezzanotte, o al canto del gallo, o al mattino; perché non venga all’improvviso e vi trovi addormentati. E quello che dico a voi lo dico a tutti, vegliate » (Marco, XIII, 33-37). E in San Luca: « Badate a voi stessi, che i vostri cuori non siano appesantiti dalla crapula, dall’ubriachezza e dalle preoccupazioni di questa vita, e che quel giorno vi piombi addosso all’improvviso; perché verrà come una rete su tutti coloro che abitano sulla faccia della terra intera. Vegliate dunque e pregate incessantemente, affinché siate trovati degni di sfuggire a tutti questi mali che stanno per venire, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo. » (Luc. XXI, 34-36).  Sì o no, ancora una volta: queste raccomandazioni erano dirette a Pietro, Giacomo, Giovanni, Andrea e gli altri che, alla vigilia della passione, circondarono Gesù sul Monte degli Ulivi e ascoltarono la risposta alle domande che essi stessi avevano posto, o … non erano dirette a loro? Ed essi pensano di tenerci qui in un dilemma senza speranza. Se infatti diciamo che le esortazioni alla vigilanza, alla preghiera, alla continua ed esatta preparazione per il possibile arrivo della parusia nel momento più imprevisto, riguardavano solo gli uomini del futuro, abbiamo contro di noi la dichiarazione esplicita e formale di Gesù stesso, che in San Marco concludeva con queste parole: Quod autem vobis dico, omnibus dico, vigilate: parole che, se hanno un significato, non possono averne altro che questo: E quello che dico a voi che mi ascoltate, lo dico anche a tutti: vegliate. Se, d’altra parte, non abbiamo difficoltà a riconoscere che queste esortazioni riguardavano, prima di tutti gli altri, coloro che Gesù aveva in persona presenti davanti a sé; allora qui viene la conseguenza, che è nel pensiero e nell’opinione di Gesù stesso, la parusia, sebbene incerta sul suo momento preciso, non doveva comunque arrivare entro i limiti della loro vita. Perché altrimenti, se li avesse visti per l’ultima ora del mondo giacere per secoli nelle loro tombe, e tornare alla polvere dalla quale tutti siamo venuti, avrebbe forse consigliato loro di essere vigili, per evitare che il loro Signore, venendo inaspettatamente, li trovasse addormentati? Li avrebbe forse paragonati, come vediamo in un altro luogo di San Luca (XII, 35 ss.), a dei servi che aspettano che il loro padrone torni dalle nozze, in modo che quando viene e bussa alla porta, gli aprano subito? Avrebbe messo nelle loro mani delle lampade accese e sui loro lombi la cintura che segna lo stato di un lavoratore nel pieno esercizio della sua attività? È questo il giusto atteggiamento dei morti nelle loro tombe? – A tutto ciò si può aggiungere che, affinché queste raccomandazioni avessero avuto, nei confronti della generazione contemporanea (e la stessa ragione varrà per le successive), la loro ragion d’essere e la loro utilità, non era affatto necessario che la parusia avvenisse effettivamente durante la vita di questa stessa generazione; che per essere tenuti all’erta, e per avere, secondo l’intenzione di Gesù, qualcosa che li addestrasse all’esercizio fervente delle buone opere, rappresentato qui dalle metafore delle lampade accese nelle mani e della cintura che stringe i lombi, era sufficiente che ne avessero solo l’apprensione; che, inoltre, per ispirare questa apprensione,  erano sufficienti gli avvisi così solennemente dati, e con una sì particolare insistenza sull’intera incertezza del giorno e dell’ora (Matth., XXIV, 36), dei tempi e dei momenti (Act, I, 7); e che così, grazie a questa incertezza, che era sempre presente, o come stimolo o come minaccia, le esortazioni alla vigilanza continua, alla preparazione esatta e attenta, dovessero avere sempre la stessa portata, sempre la stessa attualità, sempre la stessa presa su tutti i fedeli di tutti i tempi, e su quelli delle prime generazioni come su quelli delle ultime, per quanto remoto possa essere il punto di durata segnato nei consigli di Dio per la fine del mondo e la venuta del Giudice dei vivi e dei morti. Sì, tutto questo sarà detto, come altre cose, con la stessa forza, la stessa verosimiglianza e la stessa ingegnosità. Lo si dirà, ma chi lo crederà? Perché, dopo tutto, si dovrebbe essere molto saldamente radicati nella regione delle astrazioni dove la mente si esercita su entità puramente metafisiche, per immaginare che la possibilità di una cosa che si sa potrebbe accadere tra mille o duemila anni, così come tra cento, tra venti, tra dieci o tra cinquanta, avrà mai alcuna azione, alcuna influenza, alcuna presa su uomini reali di carne e ossa. Che se l’incertezza del giorno e dell’ora ebbe davvero sulla prima generazione cristiana l’effetto di tenerli sospesi fu proprio a causa della persuasione, o almeno, della viva apprensione in cui si trovavano di un prossimo, se non imminente arrivo. Lo stesso fenomeno, e per la stessa ragione, si è verificato al momento del crollo dell’Impero Romano, e più particolarmente ancora, all’avvicinarsi dell’anno 1000. Ma, lasciando da parte le circostanze molto speciali che allora contribuirono a sollevare gli spiriti sulla vicinanza della catastrofe, l’incertezza del tempo della parusia, confessiamolo francamente, non ha mai, in tempi ordinari, avuto alcuna influenza su niente e nessuno, né sui credenti né sui miscredenti: possiamo fare appello qui, con tutta sicurezza, all’esperienza costante. Credenti e non credenti possono dormire sonni tranquilli, senza temere che la macchina del mondo vada improvvisamente in rovina, o che ci si preoccupi altrimenti dei “tempi e dei momenti” di cui il Padre si è riservato il segreto; senza mai pensarci, a parte le congetture puramente platoniche che a volte ci piace fare sul futuro; soprattutto, senza fare della possibile vicinanza della fine dei secoli un motivo speciale, né per modificare la nostra vita né per avanzare nell’unione con Dio e distaccarci dai beni terreni. In effetti, l’incertezza del giorno e dell’ora può avere un’influenza pratica su di noi solo se è combinata con una previsione ragionata di una data prossima. Perché solo allora ci sentiamo colpiti dalla possibilità della scadenza stessa, e di conseguenza abbiamo fretta di allontanare le possibilità che, senza un’attenzione costante, l’incertezza farebbe nascere. Altrimenti non ci facciamo caso, e giustamente: non più di quanto ci preoccupiamo, uscendo di casa, dell’idea che una tegola, cadendo da un tetto, possa, mentre camminiamo per strada, venirci addosso e schiacciarci. Come allora, supponendo che nella loro mente la parusia dovesse venire solo dopo una lunga serie di secoli, Gesù avrebbe potuto fare dell’incertezza del giorno e dell’ora uno dei fondamenti del Vangelo, uno dei suoi pilastri, uno stimolo di primaria importanza per tutti i fedeli senza eccezione, di epoca in epoca e di generazione in generazione? Dicevo, per tutti i fedeli indistintamente, a cominciare da quelli che lo ascoltarono sul Monte degli Ulivi due giorni prima dell’ultima Pasqua, come lo fece capire, ripetiamolo ancora, alla fine della sua esortazione: Quod autem vobis dico, omnibus dico, vigilate? In una parola, chi non vede che era vano esortarli a vigilare per la precisa ragione che non conoscevano l’ora del suo ritorno, poiché l’ora di questo ritorno era prevista da Lui, come se fosse persa in un lontano futuro trascendente e inaccessibile? Chi, d’altra parte, non capirebbe che fare loro personalmente le raccomandazioni urgenti che abbiamo visto equivaleva ad avvertirli che la parusia li avrebbe trovati ancora vivi, ancora in grado di incontrare il loro Maestro, di aprirsi a Lui, di riceverlo, e allo stesso tempo di significare loro che gli altri a cui erano rivolte le stesse raccomandazioni e avvertimenti erano e potevano essere solo a loro contemporanei? Questo è ciò che ognuno dirà a se stesso quando leggerà il Vangelo. E se tutto questo non può essere contestato con qualche parvenza di irragionevolezza, se tutto questo è del più puro, del più elementare, del più semplice senso comune, se tutto questo finalmente salta agli occhi di chiunque che, per partito preso non li abbia chiusi, allora dobbiamo finire per accettare come conclusione, una delle due cose: o Gesù ingannava sul giorno e sull’ora della parusia, o si ingannava Egli stesso. La prima ipotesi è certamente fuori questione. Rimane poi la seconda, che siamo giustificati a considerare come ormai messa al di là di ogni discussione, e quindi, come così bene e debitamente provato, definitivamente acquisita alla critica. – Così ragionano i modernisti che cercano qua il loro punto di forza. Noi non crediamo di avere in nulla dissimulato le loro osservazioni, o indebolito la loro posizione, o indebolito la forza delle loro prove. Era nostro dovere di cronisti, presentare l’attacco con tutti i vantaggi che può reclamare, e l’abbiamo fatto fedelmente, senza però, diciamolo subito, che gli aspetti speciosi degli argomenti addotti ci abbiano fatto perdere la fiducia nel portare al lettore la risposta soddisfacente che senza dubbio si aspettava da noi. Tuttavia, poiché le ragioni che abbiamo appena esposto sono in sostanza eccessivamente vecchie, vecchie non dico come il mondo, ma come la stessa esegesi evangelica, ci sia permesso, prima di presentare modestamente le nostre riflessioni, di trascrivere qui la soluzione che è stata data loro, circa quindici secoli fa, da quello che Bossuet chiama da qualche parte, la grande luce del quarto secolo. Cominciamo, dunque, ad ascoltare Sant’Agostino nella lettera già citata ad Esichio, alla quale si riferisce nel ventesimo libro della Città di Dio, e che egli stesso ha intitolato: De fine sæculi, in altre parole: della fine del mondo. Tutto potrebbe essere riportato in questa splendida esposizione degli oracoli escatologici del Nuovo Testamento. Accontentiamoci, almeno, del passaggio essenziale, che tratta più direttamente la presente difficoltà e che metteremo qui davanti agli occhi del lettore. « Ciò che l’ultimo giorno del mondo dà motivo di temere, in quanto sorprenderà gli empi come un ladro, ognuno di noi deve temerlo nell’ultimo giorno della propria vita, e per la stessa ragione. Perché nello stato in cui ciascuno sarà trovato l’ultimo giorno della sua vita, in quello stesso stato sarà trovato l’ultimo giorno del mondo, e come muore in questo, così sarà giudicato in quello. Questo è ciò che è scritto nel Vangelo di San Marco: “Vegliate dunque, perché non sapete quando il padrone di casa tornerà, sia a sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non venga all’improvviso e vi trovi addormentati. E quello che vi dico, lo dico a tutti voi, vegliate ”.  Infatti, chi sono questi “tutti” a cui diceva questo, se non tutti i suoi fedeli, tutti i membri del suo Corpo mistico che è la Chiesa, in una parola, tutti i Cristiani? Non lo diceva solo a coloro che lo ascoltavano in quel momento; lo diceva anche a noi che siamo venuti dopo di loro, così come lo diceva a quelli che verranno dopo di noi fino al giorno del suo ultimo avvento. Ma come? Potrebbe essere forse che il giorno dell’ultimo avvento li troverà tutti vivi su questa terra, o potrebbe essere che le parole: “Vegliate, affinché non venga il Signore all’improvviso e vi trovi addormentati”, erano intese per i morti che giacciono nelle loro tombe? Perché, allora, dire a tutti ciò che poteva evidentemente essere adatto solo a coloro che erano presenti all’ultimo giorno? Perché, ancora, perché, se non perché, come contemporanei dell’ultimo giorno, tutto dovesse essere effettivamente come nel modo detto? Perché allora l’ultimo giorno (della parusia e del giudizio) verrà veramente per ciascuno, quando verrà il momento di lasciare questo mondo, nello stato, ormai fisso e immutabile, in cui sarà giudicato in quel giorno. Perciò ogni Cristiano deve vegliare affinché la venuta del Signore non lo trovi impreparato; e impreparato sarà trovato nel giorno del Signore, chi sarà trovato impreparato nell’ultimo giorno della sua vita (Ma queste forti parole devono essere comprese nella loro forma originale, che una traduzione imperfetta potrebbe solo indebolire e diminuire: « In quo unumqumque invenerit suus novissimus dies, in hoc eum coraprehendet mundi novissimus dies, quoniam qualis in die isto quisque moritur, talis in die illo judicabitur. Ad hoc pertinet quod in evangelio secundum Marcum ita scriptum est: Vigilate ergo, quia nescitis quando Dominus domus veniet, sero, an média nocte, an galli cantu, an mane ne eum venerit repente inveniât vos dormientes. Quod autem vobis dico, omnibus dico, vigiiate. Quibus enim omnibus dicit, nisi electis et dilectis suis ad corpus ejus pertinentibus, quod est Ecclesia? Non solum ergo illis dixit quibus tunc audientibus loquebatur, sed etiam illis qui fuerunt post illos ante nos, et ad nos ipsos, et qui erunt post nos usque ad ejus novissimum adventum. Numquid autem omnes inventurus est dies ille in hac vita, aut quisquam dicturus est quod ad defunctos etiam pertineat quod ait: Vigilate ne cum repente venerit, inveniât vos dormientes? Cur itaquo omnibus dicit, quod ad eos solos pertineat qui tunc erunt, nisi quia eo modo ad omnes pertinet, quo modo dixi? Tunc enim unicuique veniet dies ille, cum venerit ei dies ut talæis hunc exeat, qualis judicandus est illo die. Ac per hoc, vigilare débet omnis christianus, ne imparatum inveniat eum Domini adventus. Imparatum autem invenîet ille dies, quem imparatum invenerit suæ vitæ hujus ultimus dies. » – Augut., Epistola 199, n. 2 e 3). – E questa è una chiara risoluzione della difficoltà, se ce ne fosse una. Questo è ciò che tutti abbiamo imparato sulle ginocchia delle nostre madri, ciò che tutti abbiamo ricevuto nell’insegnamento del catechismo, ciò che ci è stato dato non appena siamo entrati nella vita « come lampada per dirigere i nostri passi, e come una luce per illuminare il nostro cammino », come una verità da avere costantemente davanti agli occhi, e un avvertimento da non perdere mai di vista, come quel filatterio o memoriale che i Giudei mettevano sulla loro fronte, fissato alle loro braccia, e appeso fino alle porte delle loro case, cioè: che la strada dell’uomo finisce con la sua esistenza terrena; che dalla sua esistenza terrena dipende assolutamente tutta la sua eternità; … che come Jahel inchiodò Sisara nel luogo e nella posizione stessa in cui si era addormentato, così la morte ci fissa per sempre nello stato morale in cui ci trova, senza lasciarci alcuna possibilità di cambiare mai; che al tribunale di Gesù Cristo l’istruzione sarà solo su ciò che si è fatto, mentre si è nel corpo, bene o male; che nel momento preciso in cui l’anima si separa dal corpo, avviene il giudizio particolare, di cui l’ultimo sarà solo una ripetizione o una conferma solenne; che in questo senso tutto accade a ciascuno di noi, per quanto riguarda la salvezza dell’anima, come se l’intero l’intervallo tra l’ultimo giorno della propria vita ed il giorno della parusia potesse essere rimosso; come se, l’uno coincidesse puntualmente e matematicamente con l’altro, come se venissimo colti dalla morte, per poi essere gettati incontinentemente ai piedi del Giudice, davanti al Figlio dell’uomo che viene sulle nuvole del cielo in grande potenza e maestà come ci descrive il Vangelo. Questo è ciò che si è sempre creduto nella Chiesa, ciò che le Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento insegnano formalmente, che nessuno ha mai, dico “mai” confutato, ma solo tentato di confutare con ogni risorsa della critica, ed ancor più nella recente scuola modernista, che di tutte quelle ha raccolto l’eredità, e perfezionato i processi della demolizione. – Ora, da tutto questo, è più chiaro e più evidente che la stessa condizione di vigilanza e di attenta preparazione alla parusia fu stabilita per tutti gli uomini indistintamente, per quelli che v’erano ieri, per quelli che vi sono oggi, e per quelli che vi saranno domani; che le stesse raccomandazioni erano valide per tutti, le stesse precauzioni erano imposte a tutti; che alle orecchie di tutti, infine, il grave avvertimento doveva risuonare con la stessa vivacità: Vegliate dunque, e pregate senza posa, affinché siate trovati degni di sfuggire a tutti questi mali che stanno per venire, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo. È altrettanto evidente che la parusia, come ci è data dalla rivelazione del Nuovo Testamento, si presenta a noi sotto due aspetti molto diversi, che dobbiamo avere costantemente davanti agli occhi, altrimenti saremo completamente confusi nella nostra lettura del Vangelo e degli scritti apostolici: in primo luogo, nella sua realtà futura, nel giudizio generale, e in secondo luogo, nelle sue anticipazioni quotidiane nella morte di ogni uomo in particolare. Questo è espresso molto bene da San Girolamo quando dice: « Il giorno del Signore (o della parusia): con questo si intenda o il giorno del giudizio o il giorno dell’uscita dal corpo di ognuno di noi, poiché ciò che sarà fatto nel giorno del giudizio per tutti gli uomini presi nel loro insieme, si compie nel giorno della morte per ognuno di loro individualmente. Diem Domini, diem intellige judicii sive diem exitus uniuscujusque de corpore; quod enim in die judicii futurum est omnibus, hoc in singulis die mords impletur (Hierom. In Joel, II, 1 – P. L. t. XXV, col. 965). » Ma tutte queste distinzioni non sono di buon gusto per i nostri avversari; non lo sono nemmeno per la loro comprensione. Si ricorderà forse che al momento della fase più acuta della crisi modernista, circa quindici anni fa, un vescovo avendo dato in una Vita di Nostro Signore Gesù Cristo, a proposito dei testi di cui ci stiamo occupando, la spiegazione tradizionale che abbiamo appena menzionato, attirò da uno degli uomini del partito, che allora era il più ascoltato, questa risposta verde: Che Sua Grandezza avesse il diritto, quando predicava nella sua cattedrale, di interpretare i suddetti testi della preparazione alla morte, cioè di trarne la migliore spiegazione che essi contengono oggi; ma che era ovvio per qualsiasi uomo senza pregiudizi, che Cristo non aveva avuto in vista questa lezione puramente morale; che Egli aveva parlato del prossimo avvento messianico, che i discepoli non avrebbero potuto intenderlo diversamente, e che lo storico doveva capirlo così. Ma Dio lo perdoni, lo storico, l’esegeta, il critico che ha emesso una tale sentenza … , non conosceva il suo Vangelo. Apro il Vangelo di San Luca al dodicesimo capitolo, versetti 15 e seguenti, e vi leggo: « Gesù disse al popolo: Guardatevi da ogni avarizia, perché pur nell’abbondanza, la vita di un uomo non dipende dai beni che possiede. » Poi raccontò loro questa parabola: « C’era un uomo ricco la cui tenuta aveva dato frutti abbondanti. E pensava tra sé: Che cosa farò? Perché non ho un posto dove mettere il mio raccolto. Questo è quello che farò: Abbatterò i miei granai e ne costruirò di più grandi, raccoglierò tutti i miei beni e le mie entrate, e dirò alla mia anima: Anima mia, tu hai messo in serbo grandi beni per molti anni; riposati, mangia, bevi e goditi. Ma Dio gli disse: Insensato! Questa stessa notte l’anima tua ti sarà richiesta; e quello che hai messo da parte, per chi sarà? Così è l’uomo che accumula e non è ricco davanti a Dio. » Certamente, ci sarà concesso questa volta che “Sua Grandezza”, anche se non stava predicando nella sua cattedrale, era non solo nel diritto, ma anche nella necessità assoluta di interpretare questo testo, della morte e della preparazione alla morte: una preparazione che il ricco della parabola aveva trascurato, per sentirsi dire improvvisamente: Questa stessa notte! l’anima tua… ! Non si parla qui della fine del mondo, né dell’apparizione del Figlio dell’uomo sulle nuvole del cielo, né delle assemblee generali che seguiranno l’ultima risurrezione. È una scena quotidiana quella che Gesù ci mette davanti agli occhi, il caso troppo frequente, ahimè, di chi è preso in mezzo ai suoi calcoli di fortuna o di allargamento della fortuna, a cento leghe dal pensare al conto che dovrà renderne quando apparirà davanti a Dio. Non c’è alcun dubbio, nessuna possibilità di una parvenza di contestazione. –  Ora, stabilito questo, ascoltiamo il resto del discorso: Gesù disse allora ai suoi discepoli. « Perciò vi dico (IDEO DICO VOBIS): non siate in ansia per la vostra vita, né per cosa mangerete, né per il vostro corpo, per come lo vestirete … Fatevi delle borse che il tempo non logori e dei tesori che non possano mai venir meno, dove i ladri non abbiano accesso e dove le tarme non li divorino; perché dove è il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore. Siate cinti nei fianchi, e nelle vostre mani abbiate lampade accese. Siate come gli uomini che aspettano il ritorno del loro padrone dal banchetto di nozze, in modo che quando viene e bussa alla porta gli apriranno subito la porta. Beati quei servi che il padrone troverà a vegliare quando tornerà. Vi dico in verità, egli si cingerà e li farà sedere a tavola e verrà a servirli. Che venga alla seconda guardia, che venga alla terza, se li trova così, beati quei servi! Ma sappiate che se il padre di famiglia sapesse a che ora potrebbe arrivare il ladro, vigilerebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. E anche voi dovete essere pronti, perché il Figlio dell’Uomo verrà in un’ora che non pensate. » E tutto questo, ripetiamo, si legge non dopo l’oracolo escatologico del ventunesimo capitolo, ma dopo l’istruzione sul distacco dai beni della terra del dodicesimo capitolo, come morale della parabola dell’uomo ricco che fu sorpreso dalla morte quando pensava solo ad estendere i suoi domini, ad ampliare i suoi granai, a vivere in pace e a godersi il buon cibo. Ora, questo significa che la parusia non sia in gioco qui? Ovviamente no. Perché cos’è questa venuta, o piuttosto questo ritorno (versetto 36) del Figlio dell’uomo, che i Cristiani devono attendere in una veglia continua e laboriosa, se non è quest’altro avvento di cui tutte le pagine del Nuovo Testamento sono piene, quando il Figlio dell’uomo tornerà nella gloria del Padre suo per rendere a ciascuno secondo le sue opere? Senza dubbio, è la parusia di cui Gesù intende parlare, ed in effetti parla, ma la parusia considerata sotto il secondo aspetto che abbiamo menzionato sopra, la parusia considerata nelle anticipazioni segrete e quotidiane che ha alla morte di ognuno di noi, in attesa che esploda e si compia nel grande sole di quest’ultima scena del mondo, che sarà la chiusura del tempo, e l’inaugurazione del regno di Dio per l’eternità. E questo secondo aspetto, per il dispiacere dei modernisti, è presentato qui, non come un espediente inventato, in mancanza di qualcosa di meglio, dai teologi disperati (questi teologi sfortunati che non sono, però, colpevoli di tutti i misfatti di cui sono accusati), ma come un’informazione di prima importanza, e anche di prima mano, immediatamente, direttamente e più autenticamente al mondo, fornita dal Vangelo. E non servirà a nulla dire che l’esortazione alla vigilanza in vista della venuta del Figlio dell’uomo, il paragone del ladro che arriva di nascosto dal padre di famiglia, l’avvertimento di essere pronti a causa dell’incertezza dell’ora, l’apologo che ne segue, dell’amministratore fedele che il padrone al suo arrivo ricompensa stabilendolo su tutti i suoi beni e dell’infedele che egli punisce facendolo lacerare di colpi (Luca, XII, 35-46), si trovano anche in San Matteo, nello stesso ordine, e quasi negli stessi termini, ma messi dopo l’oracolo sulla fine del mondo, dopo la descrizione del glorioso avvento di Cristo, dopo la similitudine del diluvio che adombrò tutto il genere umano, eccetto Noè con la sua famiglia (Matth. XXIV, 42-51); che d’altra parte gli evangelisti non si attengono sempre all’ordine cronologico, che talvolta trasportano le parole di Gesù da un luogo all’altro, e allegano ad un discorso pronunciato in una data circostanza, ciò che tuttavia fu detto da Lui in una circostanza del tutto diversa; e così San Luca avrebbe potuto benissimo allegare alla parabola del ricco proprietario terriero colto dalla morte quando meno se lo aspettava, la lezione effettivamente data nell’unico discorso escatologico sul giudizio generale e la consumazione dei tempi. Tutto questo, dico, non servirà a nulla, perché, in primo luogo, la trasposizione attribuita a San Luca è una supposizione del tutto gratuita, che non solo nulla sostiene, ma che tutto, al contrario, contribuirebbe piuttosto a rovesciare, e che, in secondo luogo, ammessa pure questa stessa trasposizione, non modificherebbe in alcun modo né la forza del nostro argomento, né la legittimità della nostra conclusione. Dico, prima di tutto, che la trasposizione attribuita a San Luca è una supposizione puramente gratuita, una supposizione che nulla sostiene, che nulla nemmeno indica, né favorisce, certamente nulla nel contesto, dove, dalla repentinità dei colpi di morte che tolgono ai ricchi le loro ricchezze, Gesù coglie l’occasione per raccomandare la liberazione del cuore rispetto ai beni della terra; poi, da lì, passa alla necessità di farsi un tesoro in cielo, un tesoro inaccessibile e assolutamente indistruttibile; da lì, infine, alle precauzioni da prendere in vista dell’arrivo del ladro mistico che, dopo averci spogliato di tutto ciò che possedevamo quaggiù, ci chiederà ancora un resoconto esatto della gestione degli impieghi che ci aveva affidato. Non c’è traccia di un raccordo, né di alcun tipo di saldatura; tutto qui è in un unico flusso, pulito e franco. E poi, non abbiamo a che fare con uno degli evangelisti che, fin dall’inizio del suo libro, si è preso la briga di avvertirci che intendeva scrivere in ordine, cioè secondo l’ordine di successione e di eventi? (Luc. I, 3 – (Visum est et mihi ex ordine tibi scribere, optime Théophile; Ex ordine, καθεζῆς [katezes]; « La parola “καθεζῆς” più volte impiegata da San Luca, designa sempre la continuità, l’ordine, la sequenza regolare delle cose. » Crampon in h. l.), il racconto della vita, delle azioni, degli insegnamenti, della morte e della resurrezione di Gesù? D’altra parte, non vediamo forse che in più di un luogo del Vangelo l’ordine dei fatti o delle parole, certamente scambiati da San Matteo, è ristabilito da San Luca, che ovunque si mostra ansioso di far emergere la sequenza naturale e regolare della storia? » Se dunque ci fosse stata trasposizione da una parte all’altra, del passaggio in questione, sarebbe molto più razionale e conforme ai dati, attribuirla a San Matteo che avrebbe inserito nel discorso escatologico delle parole dette in realtà in un’altra circostanza, quella stessa che ci indica il terzo Vangelo. Inoltre, ci affrettiamo ad aggiungere che non c’è assolutamente alcuna ragione per sospettare una trasposizione, né da una parte né dall’altra, e questo per la ragione molto semplice che nulla impedisce a Gesù di ripetere una seconda volta, parlando del suo ultimo avvento, il consiglio precedentemente dato in relazione all’uomo ricco, la cui trama di felicità fu bruscamente interrotta dall’improvviso arrivo della morte. Che cosa – dice Sant’Agostino – impedisce a Gesù di ripetere in un luogo certe cose che aveva già detto altrove, o di rifare ciò che aveva già fatto prima? Quid enim prohiberet, Christum alibi quædam repetere quæ jam antea dixerat, aut iterum quædam facere quæ antea jam fecerat (August, De consensu evangelistarum, 1. II n. 45, Migne, P. L. t. XXXIV, col. 1092.)? “Non c’è nessuno, immagino, che non sottoscriva questo principio che è un principio di puro e semplice buon senso. Ma la solidità della nostra tesi non dipende in alcun modo da tutte queste considerazioni. Lasciamoli, se vogliamo, per il momento, e ammettiamo che l’esortazione alla vigilanza, illustrata dal confronto del ladro, e l’apologo dell’amministratore fedele premiato, dell’infedele punito, sia stata fatta una sola volta; che fu fatta proprio nel discorso agli apostoli sul Monte degli Ulivi, alla vigilia dell’ultima Pasqua; che San Luca la staccò da questo discorso per unirla alle lezioni sulla morte, nella parabola dell’uomo ricco di cui sopra. Ammettiamolo, dico, e senza ulteriori prove. Cosa ne seguirà ora? Se non mi sbaglio una sola cosa, cioè: Che San Luca, in assenza della cronologia, avrebbe considerato l’unico legame logico, l’unico collegamento, l’unica connessione delle cose; che, di conseguenza, nella sua idea, come nell’idea di coloro dai quali aveva ricevuto il Vangelo, “che erano stati da principio testimoni oculari e ministri della Parola (Luca, I, 2)”, i testi sulla preparazione alla parusia riguardavano in realtà la preparazione alla morte; che questi testi erano così interessati a questa preparazione che potevano essere collocati sia dopo l’intimazione del giorno sconosciuto in cui il Figlio dell’uomo ritornerà sulle ali del cielo in potenza e maestà, sia dopo quella del giorno incerto in cui ognuno di noi si sentirà dire: Ecco, la tua anima ti è richiesta di nuovo; così capirono i discepoli, così lo storico deve capire a sua volta; che, dunque, non siamo qui in presenza di un adattamento posteriore escogitato allo scopo di ricavare dai detti testi “la migliore applicazione che essi hanno oggi”, ma piuttosto in presenza del significato primo, nativo, originale, il significato che conferma nel modo più esplicito il doppio aspetto della parusia che abbiamo indicato sopra (La parusia nella sua realtà dell’ultimo giorno, e la parusia nelle sue anticipazioni di tutti i giorni …) come dare l’apice del Vangelo e degli scritti apostolici, riguardo all’articolo più importante della nostra Legge: Et iterum venturus est cum gloria judicare vivos et mortuos.

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Vedo solo una cosa che possa essere ragionevolmente opposta a ciò che è stato appena detto. Il passo di San Luca in questione termina con queste parole: E anche voi dovete essere pronti, perché in un’ora che non vi aspettate, il Figlio dell’uomo verrà. Ma cosa? dirà qualcuno, ma la morte arriva sempre quando non è attesa? Sempre come un ladro che si nasconde, si dissimula, sorprende? No, senza dubbio, e se vediamo in ogni momento quei colpi inaspettati che giustificano fin troppo bene la similitudine evangelica del ladro che opera sotto le ombre della notte, vediamo anche altri casi, e più ordinari e più frequenti, dove le cose non accadono in modo così in sordina; dove la morte è un visitatore che non teme la luce del giorno, un visitatore che si fa conoscere, che presenta la sua carta, che finalmente arriva nelle condizioni regolari che le relazioni sociali comportano. Come dunque, allora, se la venuta del Figlio dell’Uomo di cui si parla qui è la venuta della morte per ognuno di noi, è possibile che ci venga detto in modo così assoluto: Verrà in un’ora che non vi aspettate! Ma il testo evangelico, ben interpretato, risponderà a questa difficoltà. Noto, infatti, che mentre nella Vulgata la venuta del Maestro, il motivo della preparazione così urgentemente raccomandata, è espressa al tempo futuro, qua hora non putatis, Filius hominis veniet, nel greco, invece (che è, come tutti sanno, l’originale), è costantemente espressa al tempo presente, sia in San Luca che nei passi paralleli di San Matteo e San Marco. (Ghineste oti e ora ou dokeite, o Uios to antropou erketai – ἒρχεται – Luca, XII, 40). Stessa cosa, Matth. XXIV, 42 e 44. Lo stesso, Marco, XIII, 35. Ovunque ἒρχεται, tempo presente, da nessuna parte ἐλεύσεται – eleusetai – tempo futuro. Parola per parola: Vegliate, state pronti, perché nell’ora che non pensate, il Figlio dell’uomo viene, perché non sapete in quale ora viene il vostro padrone. E questo non è senza importanza, questo è da notare; perché non si dica che nel Nuovo Testamento il tempo presente è talvolta usato per il futuro. Certamente, non lo contraddico, e tanto meno perché questa non è una peculiarità del Nuovo Testamento, ma una generalizzazione più o meno comune a tutte le lingue e a tutta la letteratura. Ma non credo di essere contraddetto se dico che il tempo presente, sebbene a volte sia preso per il futuro, è più spesso ancora preso per il tempo presente, e che questo è il modo in cui dovrebbe essere preso, quando il contesto non persuade positivamente al contrario. Ma qui sembrerebbe piuttosto, dall’indicazione del contesto, che il tempo presente sia messo di proposito, nel senso in cui è comunemente usato per esprimere un’azione o un modo di fare abituale. Come quando il centurione disse a Nostro Signore: “Ho dei soldati sotto il mio comando, e dico a uno: ‘Vai’, ed egli va, e a un altro: ‘Vieni’, ed egli viene, e al mio servo: ‘Fai questo’, ed egli lo fa. Come quando si risponde a chi chiede delle abitudini di un uomo: Esce a mezzogiorno e viene la sera; oppure, viene a tale e tal altra ora, e talvolta a tale e tal’altra. E così, sembra, dovremmo sentire il Vangelo che dice: “In un’ora impensata, il Figlio dell’uomo viene”. Questo non vuol dire che viene sempre in questo modo, ma che viene anche spesso in questo modo. E poiché, inoltre, è impossibile sapere per chi verrà, e per chi non verrà in questo modo, tutti senza eccezione devono considerarlo come capace di venire in questo modo. Da qui l’avvertimento: Et vos estate parati, quia qua hora non putatis Filius hominis venit. E ancora: Quod autem vobis dico, omnibus dico, vigilate.

LA PARUSIA (6)

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA: OBBLIGHI DEI FEDELI (II)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA

ESPOSTI DAL

P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE – AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

RIFLESSIONI SULLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (II)

Né questa è la sola gioia della Chiesa. Quanti anche di quelli, che prevaricarono, pentiti ritornano al di lei seno, confessan il lor delitto, divengono agli altri esempio di penitenza, e attestano nella loro riconciliazione la pietà della madre, che gli ha generati! Né tutti aspettano l’aura di pace, che gli trasporti tranquillamente al lido. In mezzo alla stessa tempesta alcuni si ravvedono della apostasia dalla fede, che il timore o l’interesse, o l’ambizione in essi produssero. Perseguitati fuor della Chiesa da un atroce rimprovero della coscienza più che non lo furono nella Chiesa dalle minacce de’ suoi nemici, delusi nelle fallaci loro speranze, spogliati da quei medesimi che gl’invitarono a una vergognosa diserzione, s’avvedono finalmente della seduzione, riconoscono il lor delitto, rendendo col loro ritorno una gloriosa testimonianza alla verità della fede, che abbandonarono. La storia ecclesiastica ridonda di questi trofei della Religione, e infonde venerazione e invidia ai più calamitosi tempi della Chiesa per la gloria, ch’essa vi raccolse ne’ suoi confessori e penitenti. – Intanto dalle agitazioni sofferte dalla Chiesa, e da essa per divino aiuto vittoriosamente superate senza lesione o macchia della sua dottrina e della sua morale si accrescono ogni giorno più i motivi di credibilità appresso gli esatti pensatori per conoscere la divinità della di lei Fondazione. Come mai fra le violenze dei pagani, fra le sottigliezze degli eretici, fra le discordie degli stessi teologi, minata sotto ai piedi dagl’insidiosi artifizii di una ingegnosa, erudita e onnipotente incredulità, la Chiesa Cattolica ha potuto sussistere, e sussiste tuttavia immacolata nella sua credenza e nelle sue leggi? Come mai in una guerra di diciotto secoli attizzata da tutte le parti e in tutt’i modi contro la di lei Dottrina, pur nondimeno oggi s’insegnano da essa quelle stesse verità, che furono insegnate da Gesù Cristo e dagli Apostoli, senza diminuzione varietà e alterazione veruna, con essersi queste sempre più dichiarate e dilucidate in mezzo a quelli stessi sulfurei globi di fumo, che l’abisso ha continuamente vomitato dalle sue viscere per oscurarle? Come mai è ciò accaduto nella sola Chiesa Cattolica; non ne’ Portici e nelle Accademie dei filosofi e dei letterati? Gli astronomi, i fisici, i naturalisti, i medici, i chimici, i giurisconsulti, i politici, i ragionatori di religione, di morale, di commercio e di legislazione sono stati rovesciati gli uni sugli altri coi loro sistemi dalle onde dei secoli, che incalzandosi seppellirono sotto i lor gorghi, o trasportarono nell’oceano del disprezzo e della confusione quelle sublimi produzioni, che furono il risultato dello studio più profondo, del genio più ammirato, e della protezione de’ principi più liberali. Non si può più discernere con sicurezza ciò, che insegnarono Platone, Aristotile, Zenone, Epicuro. I loro discepoli alterarono la dottrina dei maestri: e gli eruditi de’ secoli posteriori dopo le più accurate diligenze per separare l’originale dottrina di que’ filosofi dalle addizioni e variazioni introdotte dai discepoli, lasciano luogo tuttavia a prolisse e interminabili disputazioni. Ma il Codice della dottrina e della legislazione divina della Chiesa Cattolica corre tuttavia senza variazione nelle mani di tutti; si è conservato ad onta dei saccheggi dei barbari rapaci, e della stupidità dei secoli tenebrosi; i nemici più eruditi della Chiesa non hanno trovato argomento plausibile per negare la sua legittima autenticità. Ora ecco da una parte la dottrina di Mosè, di Gesù Cristo, e degli Apostoli; ecco dall’altra la dottrina presente della Chiesa Cattolica. Confrontate e mostrateci, se è possibile, alcuna diversità tra l’una e l’altra. Che se questa costante purità e integrità della cattolica insegnanza si fosse conservata sotto la protezione dei potenti del secolo per un corso così lungo di tempo, ciò sarebbe nondimeno un evento meritevole di somma ammirazione, per non essere mai accaduto dacché mondo è mondo di qualunque altra più favorita dottrina. Ma poiché ciò è avvenuto fra tanti urti, inimicizie, assalti, e insidie di tutt’i poteri della terra, e degli abissi, questo fatto non può certamente spiegarsi, se non si ammetta, che una podestà soprannaturale e divina è quella, che presiede e sostiene intatta la dottrina della Chiesa di Gesù Cristo. Bisogna pur confessare per l’amore della sincerità, e della divina gloria della Chiesa, che vi sono stati dei tempi così infelici, di cui sembra quasi, che non possano immaginarsi i peggiori, e nei quali veduta si è deturpata dai vizii persino la Cattedra de’ Romani Pontefici. Tale fu il secolo decimo, di cui ecco che cosa scrive il Padre della storia ecclesiastica, il Ven. Cardinal Baronio all’anno 900 (num. 1 e 3): « Incomincia, egli dice, un nuovo secolo solito a chiamarsi Ferreo per la sua barbarie e sterilità del bene, di Piombo per la deformità del vizio inondatore, e Oscuro per la inopia di Scrittori… Certamente non parve, che la Chiesa si trovasse giammai in più grave cimento, né in più manifesto pericolo di total ruina, come lo fu nel vedersi agitata dalle tumultuose procelle di questo secolo. Imperocchè tutto ciò, che soffrì un giorno la Chiesa o sotto i gentili Imperatori, dagli eretici, o dagli scismatici e da qualunque altro siasi persecutore, tutto dee riputarsi a confronto di questi mali quasi un giuoco di fanciulli; e anzi dee computarsi per un guadagno, essendochè per quelle antiche persecuzioni la Chiesa divenne più bella, più estesa e più gloriosa, avendo mai sempre riportati trionfi sulla sconfitta empietà. Ma quali furono questi mali, e donde nacque la più acerba di tutte le tempeste? Eccone la cagione, ma tale, che appena si troverà chi lo creda, anzi neppure appena sarà creduto, se pure nol veda co’ propri occhi, e nol maneggi egli stesso. Che indegne cose, turpi e deformi, e inoltre esecrande e abbominevoli fu costretta a soffrire la Sacrosanta Sede Apostolica, sul cui cardine tutta si aggira la Cattolica Chiesa, allorquando i Principi secolari quantunque Cristiani, ma in questa parte degni d’esser chiamati ferocissimi tiranni, si usurparono dispoticamente l’elezione dei Romani Pontefici! Quanti mostri orrendi a vedersi, oh vergogna e dolore! furono allora intrusi in quella Sede, che agli Angeli stessi è rispettabile! Quanti mali per essi nacquero; quante tragedie si consumarono! Di quante sordidezze rimase allor aspersa quella, ch’era senza macchia e senza ruga, di qual fetore infetta, di quali lordure imbrattata, e per esse di perpetua infamia denigrata! » Sin qui il Cardinal Baronio in qualità di storico sincero, che compiange i mali della Chiesa, ma non gli nasconde. Ascoltate ora lui stesso parlare e ragionar da filosofo (Ivi num. 1) « Sulle porte di questo secolo infelice al rimirare in faccia l’abbominazione desolante nel Tempio di Dio, non prendano scandalo i pusilli, ma piuttosto ammiri ciascuno, come alla custodia di questo Tempio sta vigilante la Divina Onnipotenza, poiché a sì turpe abbominazione non tenne dietro, come altra volta, la desolazione e ruina del Tempio, e si conosca, che questo secondo Tempio è stabilito su fondamenti più saldi del primo; cioè nelle promesse di Cristo più immobili del cielo e della terra, come protestò Egli medesimo. Imperocchè essendo quest’ultimo opera di Dio, fu egli altresì, che con quella onnipotente parola, con cui fermò nel gran vacuo i cieli, stabili perpetuo questo Tempio, allorchè collocandone il fondamento sopra di se medesimo pietra immobile, e congiungendo con indissolubile glutine pietra a pietra disse all’Apostolo Pietro. Tu sei Pietro e sopra questa Pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevaleranno contro di essa. Pertanto siccome è immobile la prima pietra, che è Cristo, così la seconda a lei sovrapposta, che è Pietro, e così immobile e perenne la Chiesa edificata sopra di essi; né potrà distruggersi per i peccati degli uomini l’edificio di Dio, come fu per essi distrutto quello di Salomone: Ecce enim plus, quam Salomon, Hic.» Gli stessi racconti e le stesse riflessioni possono riscontrarsi nel Cardinal Bellarmino (præfat. in libr. de Rom. Pontif.); in Natale Alessandro (histor. eccles. sæc. 9 et 10, cap. 1, art. 17); ed in Mabillon (præf. ad sæcul. 5, Benedict. . § 1, n. 9). E ben vero però, che può prudentemente sospettarsi, esservi della esagerazione nei vizii de’ Romani Pontefici intrusi nella Sede Apostolica durante il secolo decimo, poiché si vedono descritti da una penna piuttosto satirica, che istorica, e poiché gli Annalisti Franchi di quei tempi non ne fanno menzione alcuna. Ma nondimeno quand’anche fossero a dieci doppi maggiori, non farebbero altro, che mostrar sempre più la divina protezione a favore della Cattolica Chiesa, ed a verificare con maggior evidenza le infallibili promesse di Gesù Cristo, non essendo perita la Chiesa, né contaminata essendosi la sua dottrina sulla Cattedra di così viziosi Pontefici. È intanto è da notare anche in quei tempi la provvida sostituzione di mezzi e di grazie a sostegno e propagazione della sua Chiesa. Mentre i Principi arrogandosi una legittima autorità intrusero nella Sede di Pietro alcuni Pastori troppo degeneranti dalla santità dell’Apostolico Ministero non mancarono tuttavia d’illustrarla colla probità, santità della vita, dottrina ecclesiastica, e dilatazione della fede altri non pochi Pontefici. Tali furono Benedetto V, Stefano VIII, Leone VI, Agapito II, Anastasio III, Leone VII, Martino II, Giovanni XIII, Benedetto VII, Giovanni XV, Gregorio V, Silvestro II; come può riscontrarsi nel Breviario de’ Romani Pontefici di Francesco Pagi, nelle loro Vite riportate nell’ultima edizione de’ Concili di M. Mansi, e nel Conato cronologico istorico di Daniele Papebrochio. Donde sempre più si conferma; essersi notabilmente esagerato il numero dei Pontefici scandalosi sedenti sulla Cattedra Romana nel secolo decimo » ed essersi trovato anche in qualche parte ingannato il Cardinal Baronio, che seguendo le testimonianze della continuazione di Luitprando e d’altri storici di quel secolo, non avea sotto gli occhi i posteriori documenti scoperti e pubblicati dopo l’edizione della di lui Storia Ecclesiastica. Intanto ancora fu fioritissimo lo Stato della Chiesa a quell’epoca nell’Italia, Germania, Francia, ed Inghilterra, per la presidenza di ottimi e zelanti Vescovi, e per la religiosa esemplarità di santi Monaci, come può vedersi dal catalogo, che il Padre Mabillon ha inserito nella sua Prefazione al tomo terzo degli Annali Benedettini. Ma comparvero ancora degli uomini abbastanza istruiti secondo la letteratura di que’ tempi nelle scienze ecclesiastiche, come apparisce dai cataloghi degli ecclesiastici Scrittori del Bellarmino, di Natale Alessandro, e di altri recenziori. Che se rivolgasi l’occhio alla Chiesa Orientale, si troverà, che in que’ tempi fiorirono Basilio Macedone, Leone Sapiente, Costantino Porfirogenito benemeriti delle buone lettere e della Fede cattolica, con altri, i quali nella Bizantina istoria vengono con somma lode commendati. I Patriarchi di Costantinopoli, di Alessandria, di Antiochia, e di Gerusalemme comunicavano nella Fede colla Cattedra di Pietro, né si erano lasciati sedurre dallo Scisma di Fozio. Santissimi Monaci risplendevano negli Asceteri della Siria e della Palestina, nel monte Athos, ed in altri eremi della Grecia. Fortissimi Martiri si lasciarono uccidere per la confessione della cattolica Fede dai Saraceni, dai Bulgari e dagli Sciti; e si fa menzione dei gloriosi loro combattimenti nei Menei della Greca Chiesa. Nell’Occidente si tennero non pochi Concili per restaurare l’ecclesiastica disciplina, e vi concorse specialmente nell’Inghilterra lo zelo ancora di alcuni Monarchi cattolici, quali furono Edmondo, ed Egaro Rè di quest’isola. Ciò per altro, che merita maggior attenzione, è ciò, che è stato rilevato da M. Giuseppe Simonio Assemani nella sua Prefazione o dedica al Tomo secondo de’ Calendarii della Chiesa Universale. « Egli è evidente, dice questo eruditissimo Letterato, che nel decimo secolo si aggiunse alla Chiesa Cattolica quasi la terza parte dell’Orbe Cristiano.. Vale a dire gli Slavi, gli Unni, e i Normanni, che tenevano il lor soggiorno nella Svezia, nella Danimarca, nella Russia, nella Polonia, nella Boemia, nella Moravia, nella Carintia, nella Dalmazia, nell’Illirico, nella Macedonia, nella Ungheria, Valachia, Moldavia, Scizia, e negli altri luoghi, nei quali è in uso il linguaggio Slavico, o Turco. » La qual conquista della Chiesa Cattolica vien anche confessata da Guglielmo Cave scrittore eterodosso nella sua Istoria Letteraria sul principio del decimo secolo. Da tutto il qual complesso manifestamente apparisce esservi nella Chiesa Cattolica una superiore divina provvidenza, la quale non solamente la sostiene immobile e ferma fra le tempeste, ma compensa eziandio prodigiosamente le sue perdite e i suoi disastri. – Ma mi direte, che nella persecuzione la Chiesa perde talvolta provincie e regni intieri, dai quali parte esigliata per sempre la fede. Questo è verissimo; ed è uno di que’ più terribili flagelli; con cui nella sua collera punisce Iddio le peccatrici e impenitenti nazioni. Ma questo, che è un danno irreparabile per esse, non suole essere per la Chiesa una perdita, anzi piuttosto un’occasione di nuovi acquisti. In questo caso alle nazioni ribelli d’ordinario Iddio sostituisce le nazioni più barbare, e le arricchisce di quei doni, che furono ingratamente rifiutati da un popolo eletto e beneficato. Si vedono allora compite le minacce di Dio e dei suoi Profeti, e le fiamme dell’incendio dei regni devastati dall’eresia, e abbandonati dalla fede insegnano alle future generazioni, che l’Onnipotente non ha bisogno delle adorazioni e degl’incensi degli uomini, e ch’essi divengano a Lui oggetto di riprovazione, se non si arrendono alle sue correzioni e ai temporali suoi castighi. Il Regno di Dio vi sarà tolto, dicea agli Ebrei il Salvatore del mondo, e sarà dato a un popolo, che ne produrrà i frutti (Matth. XXI, 43). Che cosa farà il Padrone a que’ vignaiuoli, che si sono ribellati contro di lui? Farà malamente perire questi miserabili, ed affitterà la vigna ad altri, che la coltiveranno, e si prenderanno cura di farla fruttificare (Ib. V, 40). Quindi S. Paolo e S. Barnaba ritirandosi dall’ostinata Giudea, e portandosi a predicare ai Gentili il Vangelo, dissero agli Ebrei: Poiché voi rigettate la parola di salute, e vi reputate indegni della vita eterna, ecco che noi ci rivolgiamo verso le Nazioni, perché il Signore ci ha così ordinato (Act. XIV, 46). – Terribile sostituzione, io non lo nego, ma la quale non è che un avveramento delle minacce del Signore, e che in conseguenza conferma la divinità della Cattolica Chiesa. Sostituzione, la quale, come ho già detto, compensa abbondantemente la Chiesa della sua perdita. Che cos’era il popolo Giudeo in paragone di tutte le nazioni del mondo? Or perché questo popolo non volle ricevere la legge Evangelica, a quali e quante nazioni non fu predicata? quanti popoli non si sono convertiti e santificati? Che cosa erano alcuni regni e provincie dell’Europa a confronto delle immense regioni dell’America? Or perché questi regni e provincie si ribellarono a Dio, e preferirono degli apostati a Gesù Cristo, quante barbare genti di là dai mari agghiacciati piegarono il collo al soave giogo del Vangelo? Né in questo severo giudizio Iddio si dimenticò de’ suoi servi Fedeli. Forse non si convertirono alla Fede anche alcuni del popolo Giudeo, benché la Sinagoga fu riprovata? Forse nell’Inghilterra non rimase mai sempre un numero eletto di fervorosi Cattolici, benché restasse soggiogata dall’eresia? Forse negli ultimi tempi non rimanevano molte famiglie emulatrici della credenza e della carità de’ primitivi Cristiani in que’ luoghi medesimi, di dove pareva. Per sempre sbandita la Fede? Ricorrete i secoli scorsi, e osservate, come Iddio ha continuamente ricompensate le perdite della sua Chiesa, ed ha persino rivolti a propagarla quei mezzi, che i di lei nemici adoperano a distruggerla. La Chiesa nascente fu sbandita dalla Giudea, dove aveva ricevuta la culla. Ma quella persecuzione le apri un campo immenso in cui dilatare il suo dominio, e nella sua fuga si distese da Gerusalemme sino a Roma, alla Grecia, all’Europa e al mondo tutto. Sparse Ario la pestilente sua dottrina, mentre perseverava ancora contro la Chiesa a incrudelire la Romana ferocia. Ma non molto di poi il gran Costantino sottomise alla Sede di Pietro l’Imperial Diadema, e seco trasse la conversione d’innumerabili gentili; acquisto senza dubbio Superiore ai detrimenti, che dagli Ariani la Chiesa sostenne. É vero, che per due secoli e mezzo l’Ariana eresia soffocò gran parte dei seminati, e desertò le campagne di Cristo. Ma in que’ secoli istessi si fece tributarii alla Fede i Galli, e le lontane regioni situate vicino all’Istro, gli Armeni, i Borgognoni, i Saraceni, gli Scozzesi, i Persiani, i Bavari, gli Omeriti di là dall’Egitto, i Franchi sotto îl famosissimo Clodoveo (Sozom. lib. 2, cap. 5 e seg. Ruffin. 1.1, cap. 9, Socrat. 1.1, cap. 19, et l. 4, c. 33 e 36, Theodoret. I. 1, c. 24; Evagr. lib. 4, cap. 20 e seg.). – Si aggiunsero compagne ad Ario l’eresie di Nestorio, di Eutiche, di Pelagio, di Sergio e di Pirro, favoreggiate dalla potenza di molti Imperatori. E per altro furono compensate le perdite colla conversione dell’Ibernia, dell’Inghilterra, delle Fiandre, e d’altri popoli della Germania (Sigisbert. in Chronic.). Mentre gl’Iconomaci Imperatori d’Oriente infuriavano contro le sacre Immagini, Gregorio II ridusse a compimento per opera di Bonifazio la gloriosa conquista dell’Alemagna. Si sottomisero a Cristo i Dani, i Sassoni domati da Carlo Magno, gli Sclavi, gli Unni, i Gothi, i Suevi, i Boemi, i Bolgari (Bzovius 1. 4, sign. 7). Recò gran piaga alla Chiesa lo Scisma ostinato della Chiesa Greca, e la vita scandalosa di alcuni Romani Pontefici. Ma come abbiamo veduto, in quel tempo si perfezionò ed ampliò la conversione delle nazioni d’Europa. Abbracciarono la fede i Moravi, i Dalmati, i popoli dell’Ilirico, della Scizia e della Pomerania. Seguirono le loro orme la Norvegia, la Zelandia, la Scandinavia, l’Ungheria, la Polonia e la Russia. E così fu trasportata sino a’ nostri giorni la Fede da uno ad altro popolo, onde si verificasse mai sempre la parola di Gesù Cristo intorno alla indefettibile durazione della Chiesa, e al castigo delle nazioni apostate dal Vangelo. Voi vedete adunque, che non sono le persecuzioni per la Chiesa, e per i Fedeli quel gran male, che voi andate immaginando, e che sono anzi per essa, e per loro un tesoro nascosto della divina beneficenza. E pure vi sono degli uomini, i quali non sanno combinare queste permissioni di Dio colla sua gloria, e colla sua santità. Come, mai dicono essi, lascia Iddio, che gli empii s’innalzino a un grado così sublime di prosperità, e sopraffacciano i giusti, di modo che si direbbe, che Dio stesso gli ha piantati, e che ha dilatate le lor radici? Quare via impiorum prosperatur? Plantasti eos, et radicem miserunt; proficiunt, et faciunt fructum? (Ierem. 12, 1). Ma io vi ho già risposto, che voi supponete il falso. Imperocchè la maggior parte de’ tribolati non sono veramente giusti. Aggiungo ora, essere egualmente falso, che gli empii sieno totalmente prosperati, benché prevalgano per qualche tempo contra il giusto. Essi potrebbero assomigliarsi a que’ demonii, che nell’abisso tormenta noi peccatori, e i quali non per questo possono chiamarsi felici. Quanti anche di loro periscono sotto la spada; quanti languiscono negli stenti; quanti sono straziati dai rimorsi della coscienza, dalla incontentabilità delle passioni! Essi non son forti, che per eseguirei giudizi di Dio a correzione de’ peccatori, e a prova de’ giusti, Domine in iudicium posuisti eum, et fortem, ut corriperes; fundasti eum (Habac. 1). Ma sostenete ancora per qualche tempo, e vedrete, che gli empii non esistono più, e non vivono fuorché nell’abbominazione degli uomini.Il vostro peggior errore per altro si è di misurare la gloria di Dio e della Chiesa col tempo e non colla eternità. Sembra impossibile in un Cristiano questo errore, ed io di fatti non lo credo in esso lui un errore, ma una irriflessione, e una dimenticanza. Il regno di Dio è un regno eterno. Egli ha presenti al suo sguardo tutti, e nel medesimo istante i secoli scorsi; e quelli, che verrannodi poi, e nello stesso tempo, che vede i momentanei assalti degli empii contro il suo trono, contempla ancora l’ignominiosa eterna loro sconfitta. Per questo, dice S. Agostino, Dio è perchè così paziente, è eterno. Dominus patiens, quia æternus. La Chiesa sposa di Gesù Cristo, ed or militante contro l’armi de’ suoi nemici, sarà finalmente coronata di trionfi e di gloria senza timore d’esser mai più assalita. Il giorno estremo dell’universale giudizio giustificherà la divina provvidenza per la sua Chiesa, e riempirà di confusione e d’obbrobrio que’ perfidi, che l’insultarono. Ma questo giorno, che tarda per voi, e che vedete così di lontano fra l’ombre incerte e oscure de’ tempi, non tarda per Dio. Questo giorno è presente a’ suoi occhi, come lo sarà per noi, allorquando sen giunga, ed egli sin d’ora calca col piè vittorioso il dorso degli avversari della Sposa. sua Quel tempo, che noi chiamiamo col nome di secolo, il corso di mille anni non è “appresso di lui, che un sol giorno, e un giorno è a lui dinanzi, come lo sono per noi mille anni”. Unum vero hoc non lateat vos, charissimi, quia unus dies apud Dominum sicut mille anni, et mille anni sicut dies unus (2 Petr. III, 8). Riflettete, che questa verità è di tanta importanza, che l’Apostolo S. Pietro vi scongiura ad averla presente, quasi fosse la sola cosa necessaria a sapersi: unum vero hoc non lateat vos, charissimi. E perchè? Perché in questa verità sta nascosta la soluzione di tutti i dubbi vostri di tutte le vostre meraviglie, di tutti i vostri scandali. Voi stupite e vi scandalizzate persino, che la Chiesa di Gesù Cristo sia perseguitata. È quanto, dite voi, quanto mai tarderà Iddio a farsi temere e a vendicarsi? Ah non tarda Iddio, no non tarda. Non tardat Dominus promissionem suam, sicut quidam ezistimant. (Ibidem). Voi parlate un linguaggio, che non è quello di Dio, perché la dilazione di mille anni è per lui come quella di un sol giorno. Apud Dominum mille anni sicut dies unus. Egli non tarda, ma opera pazientemente in grazia vostra, non volendo che alcuno perisca, desiderando, che tutti ritornino a penitenza. Sed patienter agit propter vos, nolens aliquos perire, sed omnes ad pœnitentiam reverti. Che se i suoi nemici vorranno perseverare nella impenitenza, e nell’odio contro la Chiesa, verrà poi alla fine quel giorno preparato dai secoli eterni, nel quale risarcirà la Chiesa della sua gloria, e coprirà l’empio dell’eterna irreparabile ignominia. Opera Iddio colla sua Chiesa della stessa provvida maniera, con cui ha operato col suo divin Figliuolo sulla terra. Imperocché Gesù Cristo è il capo, e la Chiesa è il di lui corpo. Troppo dunque era conveniente, che nell’ordine della provvidenza a Gesù Cristo divenisse conforme la Chiesa; E quale avvilimento non dovrebbe a voi parer quello, con cui Gesù Cristo è venuto al mondo? Egli apparisce un impotente per la sua povera condizione, per la mancanza di protezioni, per la sua età di bambino. I Betlemmiti ricusano di prestare un alloggio a sua Madre benché vicina al parto, e bisogna cedere alla lor crudeltà senza il minimo risentimento. Voi siete, o mio Dio, che avete fatto l’estate e il verno, la primavera e l’autunno, ma sembra, che non possiate difendervi dai rigori della stagione. Voi non potete fare un passo da voi stesso, ed è necessario, che Maria e Giuseppe vi trasportino da un luogoall’altro sulle loro braccia.Chi avrebbe mai detto, che Gesù era la sapienza del Padre? Egli mostra apparentemente l’ignoranza e l’imbecillità di un bambino,che non sa nemmeno articolare una parola per esprimere i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Nelle circostanze della sua nascita egli comparisce di un grado inferiore alla condizione degli altri uomini. Qual uomo nasce in una stalla; qual bambino ha per culla una mangiatoia, e per compagnia due animali? Ma avvicinate questo giorno a quello del Giudizio, che per voi è sì lontano, ma dinanzi a Dio è più vicino, che il giorno di domani. Allora Gesù Cristo spiegherà un carattere di sovranità, di potenza e di sapere tutto proprio d’un Dio. In quel giorno il Padre gli darà la stessa sua gloria, e tutto il corteggio degli Angeli, affinché il Figliuolo dell’Uomo sia riconosciuto ancora per Figliuolo di Dio: Filius homines venturus est în gloria Patris sui cum Angelis suis (Matih. XVI, 27).In quel giorno tutte le tribù della terra lo vedranno discender dal Cielo sul dorso luminoso delle nubi con gran potere e maestà. Videbunt Filium hominis venientem în nubibus cœli cum virtute multa, et maiestate (Matth. XXIV, 30). In quel giorno egli sarà grande in modo, che collo splendore della terribil sua gloria illuminerà tutta la terra. Si farà veder come una folgore; che si striscia rapidamente per i sentieri dell’aria, e sembra, che voglia avvampare con una luce sanguigna le sottoposte campagne. Sicut fulgur coruscans de sub Cœlo in ea quæ sub Cœlo sunt, fulget; ita erit Filius die sua (Luc. XVII, 24). Allora Egli produrrà tutto il potere sovrano d’un Dio. Potere di distruzione, che oscurerà il sole e la luna, e farà precipitare dal cielo le stelle, che avvamperà d’incendio la terra, che invilupperà nelle fiamme i suoi nemici, e farà commuovere dalle lor sedi i cieli, e liquefarsi in fumo. Potere di edificazione istantanea e miracolosa, che richiamerà a ricomporsi, ad organizzarsi, e a rivivere le polveri dei defunti disperse sulla faccia della terra, o mescolate colle arene del mare. Potere di giudizio, per cui convocherà ad esame, e pronunzierà sentenza inappellabile su tutte le generazioni d’Adamo. Potere di Re, con cui metterà a possesso d’un regno eterno i fedeli suoi servi, e fulminerà per sempre col folgore della maledizione i suoi nemici. Ah allora si farà conoscere altresì da questo secolo tutto luce, e tutto tenebre; luce di carnale sapienza, e tenebre di celeste verità. Svilupperà in faccia al Mondo il mistero della sua dissimulazione e del suo silenzio, per cui s’argomentarono gli empii, che Dio non vi fosse, o fosse divenuto imbecille: silenzio di provvidenza, che voleva lasciar libero il corso a quelle vicende, che avrebbero corretta e migliorata la Chiesa: silenzio di prova, con cui, voleva tentare un sovrano esperimento della fedeltà de’ suoi eletti: silenzio di pena, con cui la divina giustizia abbandona l’incredulo alla sua cecità e al suo induramento: silenzio d’un Dio, che stava dall’alto dei Cieli contemplando, qual nuovo ordine di società e di culto avrebber saputo effettuare quei geni superbi, che anelavano a distruggere l’ordine da Lui stabilito. Ecco quel giorno aspettato da Dio nel suo silenzio per vendicare i torti fatti a Gesù Cristo e alla Chiesa; e questo stesso è quel giorno, che deve in silenzio aspettare il Cristiano per veder l’esito delle persecuzioni e dei persecutori. Il prescindere da quest’oggetto, il dimenticarlo, il non farne quasi più conto, egli è segno di una fede debole e vacillante; è un indizio di cuore unicamente sollecito dei beni caduchi, e della gloria momentanea del Mondo. Sarebbe certamente vergognosa debolezza per un Cristiano il lasciarsi superare in queste riflessioni da un Filosofo gentile. Plutarco ha scritto un Commentario intitolato: de tarda Dei vindicta; nel quale propone molte buone ragioni sul presente argomento. Se è cosa ardua, egli dice, per gl’imperiti l’indovinare il consiglio del medico, perché abbia fatto il taglio non prima, ma dopo, e perché piuttosto oggi che ieri abbia apprestata qualunque medicina; molto meno debbono cercar gli uomini di sapere, perché Dio, il qual conosce il tempo opportuno di punire l’improbità, scelga piuttosto un tempo che l’altro; anzi comprender debbono, non essere conveniente, che in questo egli osservi un solo e medesimo tempo per tutti. Quid ergo mirandum, si cum res humanæ ita sint obscuræ, de consilio dicere parum espeditum sit, quamobrem delinquentium ab his postea, ab illis, prius piacula exigat? Niun miglior frutto può l’uomo raccoglier da Dio quando esprimendo e ricopiando in se stesso l’ornamento delle di lui perfezioni. Ora Egli suole punire lentamente i malvagi a fine di toglier da noi la ferocia e l’impeto della vendetta, e per insegnarci a non lasciarci trasportar dalla collera impetuosa, che s’infiamma a dispetto della ragione contro coloro, che ci travagliarono; ma vuole, che ricopiato la di Lui piacevolezza e lentezza con moderazione e riflessione,e che prendiamo a nostro consigliere il tempo, il quale non precipita in azioni soggette a pentimento, e di questa maniera procediamo ad esiger dagli altri il castigo. Per lo che se gli esempi degli uomini celebri, e le loro moderate azioni sono capaci di frenare in noi il bollor della collera; molto più dee ciò da noi ottenere la contemplazione di Dio, il quale non soggetto a timore o pentimento, pur nondimeno sospende la vendetta, e ne aspetta pazientemente il giorno. Dobbiam dunque giudicare, che la mansuetudine e tolleranza appartiene a una virtù divina, la quale se punisse subito correggerebbe pochi, e castigando tardi apporta a molti. utilità ed emendazione; quæ plectendo paucos corrigit; tarda plectendo multis commodat, eosque emendat. Questo non è, che un piccolo saggio dei nobili sentimenti, che Plutarco ha lasciati in questa operetta, e che avrebbero anche più vigore, se fossero corroborati non dagli esempi di eroi pagani, ma da quelli del Figliuol di Dio, e de’ suoi fedeli seguaci. Che rimprovero sarebbe per noi, se col lume della fede, colla dottrina del celeste nostro Maestro, colla scorta della mansuetudine del Figliuol di Dio e dei Santi non giungessimo a tanto di pareggiar almeno i gentili filosofi, che rimasero di queste verità persuasi dalla sola guida della ragione, e dall’esempio di alcuni de’ loro falsi Eroi? Io ripiglio ora quello, che ho detto sin ora, e lo ristringo in breve tratto per maggior chiarezza. La provvidenza di Dio nel governo della sua Chiesa è diretta al bene spirituale de’ Fedeli, alla gloria della Chiesa in tutti i secoli, e alla di lei esaltazione nella fine dei tempi. – Qual è il bene spirituale dei Fedeli? La pratica delle virtù, la mortificazione delle passioni e della carne, e l’estirpazione de’ vizi. Ora egli è evidente, che le persecuzioni sono il mezzo più sicuro e più universale per ottener quest’effetto. Dunque, è conveniente che Dio procuri alla sua Chiesa questi vantaggi per mezzo delle persecuzioni. Qual è la gloria della Chiesa in tutti i secoli? L’essere sempre stata combattuta in tutti i modi dagli empii, e il non essere mai stata superata da loro. Questa è la gloria principale della Chiesa, perché mostra, che l’onnipotenza divina veglia costantemente a suo favore, e perché in lei e di lei così verificano le predizioni del Figliuol di Dio. Dunque la provvidenza di Dio deve permettere sì fatti combattimenti nella sua Chiesa. Quale sarà l’esaltazione della Chiesa nella fine dei tempi? L’essere coronata come vincitrice de’ suoi nemici, e l’essere riconosciuta per la vera Chiesa da’ suoi sprezzatori. Tunc stabunt iusti in magna constantia adversus cos qui se angustiaverunt, et qui abstulerunt labores eorum (Sap. 5). Gesù Cristo medesimo sarà glorificato nella sua Chiesa e colla sua Chiesa, quando tutti i suoi nemici saran posti sotto i suoi piedi. Oportet illum regnare, donec ponat inimicos omnes sub pedibus eius (1 Corinth. XV, 25). Egli non è dunque meraviglia, se intanto Dio permette così frequenti e feroci assalti contro la Chiesa di Gesù Cristo. Se non vi fossero guerre,ostilità e persecuzioni, non vi sarebbero nemmeno vittorie e trionfi. -Ma gl’increduli non conoscono questa provvidenza, e intanto deridono la Chiesa di Dio. Lasciate, ch’essi si prendano questa momentanea soddisfazione. Iddio gli abbandona alla lor maligna e affettata ignoranza, e questa è una vendetta degna di Dio sopra i superbi. Un Dio, che non ha bisogno di nessuno, saprà glorificare in essi la sua giustizia, poiché essi non han voluto glorificare la sua misericordia. Universa propter semetipsum operatus est Dominus: impium quoque ad diem malum (Prov. XVI, 4).Ma gli stessi Cattolici si scandalizzano della condotta di Dio, e del trionfo passeggero degli empii. Quali sono questi Cattolici? Quelli, che hanno attaccato il lor cuore al Mondo, e pare che ristringano tutte le benedizioni di Dio a una misera felicità temporale. Quelli, che si dolgono, che la Fede sia perseguitata, non tanto per zelo della Fede, quanto perché nella persecuzione si trovano al cimento di perdere i posti, le sostanze e gli onori. Quelli, che hanno una fede, e una cognizione debole dei beni dell’altra vita, e del premio, che Iddio tiene preparato ai tribolati. Imperocchè se avessero una fede viva, una ferma speranza, un’ardente carità, si consolerebbero piuttosto delle disgrazie sofferte per la confession del Nome di Gesù Cristo. Ibant gaudentes a conspectu Concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine lesu contumeliam pati (Act. V, 41). Ora che deve fare Iddio per correggerli? Secondarie i lor desiderii, renderli tosto vittoriosi degli empii, moltiplicare ad essi le sostanze e gli onori? Questo sarebbe un fomentare i lor vizi, e un confermarli nell’errore. È dunque più vantaggioso per essi, che colla privazione dei beni della terra ne conoscano la caducità e la vanità, e sieno tratti quasi per forza a prender maggior sollecitudine dei beni eterni, e ad abbandonarsi tra le braccia della divina provvidenza. Dite lo stesso e molto più di tant’altri, i quali hanno la fede, ma una fede contradetta dalle opere, e che non basta a salvarli. Sono essi, che in virtù di una fede morta pretenderebbero di aver parte in tutte le benedizioni di Dio, e di trionfare gloriosamente de’ lor nemici. Se Iddio gli esaudisse, essi moltiplicherebbero i lor peccati, e si allontanerebbero sempre più dalla via della salute. Egli è a questi, che Dio intima per mezzo della persecuzione: Usquequo claudicatis în duas partes? Si Dominus est Deus, sequimini eum; si autem Baal, sequimini illum (3 Reg. XVIII, 21).Ma pur troppo non pochi di questi scellerati nel tempo della persecuzione si dividono dalla Chiesa, e si collegano co’ suoi nemici. È vero; ma essi rendono giustizia in questa maniera alla santità della Chiesa, colla quale non eran d’accordo i lor costumi. Essi faceano più nocumento alla Chiesa col mostrarsi falsi Cattolici, che nol faranno coll’arrolarsi fra i miscredenti. Longe plus nocet falsus catholicus, quam sì verus appareret hæreticus (S. Bernard. In Cantic. Serm. 65, num. 4). Bisogna consolarsi, quando questi malvagi escono dalla Chiesa, così cessano di attaccare segretamente il contagio alla greggia di Gesù Cristo.« Gratulandum est, cum tales de Ecclesia separantur, ne oves Christi sæva sua, et venenata contagione prædentur… Sic probantur fideles, sic perfidi deteguntur. Sic et ante iudicii diem hic quoque iam iustorum atque iniustorum animae dividuntur, et a frumento paleæ separantur » (S. Cyprian. de Unitat. Eccl.).» Alcuni di loro tornano poi alla Chiesa, e con un sincero e pubblico pentimento rendono onore alla Fede, e assicurano la propria salute. Ma vi sono anche de’ giusti, dei timorati e prudenti, che si lasciano sedurre o dalle lusinghe, o dalle minacce dell’eresia. Chi può credere, ch’essi fossero veracemente giusti, e timorati, e prudenti, se si lasciarono così facilmente guadagnar dall’errore? « Quare ille vel ille fidelissimi, prudentissimi in Ecclesia in illam partem transierunt? Quis hoc dicens non ipse sibi respondet, neque prudentes, neque fideles æstimandos, quos hæreses potuerint demandare (Tertull. de Præscript. cap. 3).» Il grano non è trasportato in aria dal vento, né le piante di profonda radice sono svelte dalla procella. Le vuote paglie sono innalzate dal vento, e i deboli arboscelli sono spiantati dal turbine. « Triticum non rapit ventus, nec arborem solida radice fundatam procella subvertit. Inanes paleæ tempestate iactantur, invalidæ arbores turbinis incursione evertuntur. » (Cyprian. de Unitat. Eccles.). [2 Continua …]

LA PARUSIA (4)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (4)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE, Rue de Rennes, 117 – 1920

ARTICOLO QUARTO


PARTICOLARITÀ DI SAN MATTEO E DI SAN MARCO SULL’ABOMINIO DELLA DESOLAZIONE PREDETTA DAL PROFETA
DANIELE, CHE SAREBBE STATO PRESTO SEGUITO DALLA PARUSIA E DAL GIUDIZIO.

La lezione di San Luca, come abbiamo detto nell’articolo precedente, è particolare in quanto trascura completamente un punto al quale, nei primi due sinottici, è dato grande risalto ed occupa una parte considerevole del quadro. È il punto riguardante “l’abominio della desolazione predetto dal profeta Daniele“. E in effetti, questo punto, per essere compreso, presupponeva menti versate nella scienza delle Scritture, nella conoscenza della Legge, nella lettura dei Profeti, e del profeta Daniele in particolare: tante cose estranee ai Gentili, ai quali, come tutti sanno, il terzo Vangelo era specialmente destinato. L’omissione era quindi evidente o, per dirla meglio, era la spiegazione più naturale al mondo, ma non c’era da meno un’omissione. Per questo ci resta ora da completare lo studio fatto in precedenza sul testo di San Luca, esaminando il passo di San Matteo relativo a questo famoso abominio della desolazione, che, oltre al privilegio di suscitare la curiosità di un gran numero di persone, ha, cosa ancora più grave, la specialità di suscitare difficoltà di più di un tipo, che sarebbe importante approfondire una volta per tutte e, se possibile, chiarire definitivamente. Cominciamo a mettere il passo in questione davanti agli occhi del lettore, dopo una breve ricapitolazione del contesto in cui è inserito. Esso viene subito dopo il versetto già citato più volte: Et prædicabitur hoc Evangelium Regni in universo orbe in testimoninm omnibus gentibus et donec veniet consummatio. Gesù aveva detto che si sarebbero sentite guerre e voci di guerra, che ci sarebbero state pestilenze, carestie, ecc., che si sarebbero scatenate violente persecuzioni contro la Chiesa, che sarebbero venuti falsi profeti per ingannare molti, che la carità di molti si sarebbe raffreddata, e che solo coloro che persevereranno fino alla fine saranno salvati. Poi, dopo aver dichiarato che il Vangelo sarebbe stato prima predicato in tutto il mondo come testimonianza a tutte le nazioni, e che solo allora sarebbe arrivata la consumazione, continuò così: « Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione, predetto dal profeta Daniele, eretto nel luogo santo – chi legge comprenda – allora quelli che sono in Giudea fuggano sui monti, e chi è sul tetto di casa non entri a prendere quello che ha in casa sua, né chi è nel campo a prendere il mantello. Guai alle donne incinte e a quelle che allattano in quei giorni! Pregate che la vostra fuga non avvenga in inverno, né in giorno di sabato, perché allora ci sarà una così grande angoscia come non c’è stata dall’inizio del mondo fino ad oggi, né ci sarà mai. E se quei giorni non fossero abbreviati, nessuno sfuggirebbe; ma per il bene degli eletti, quei giorni saranno abbreviati. Se qualcuno vi dice: “Cristo è qui” o “Egli è là”, non credetegli, perché sorgeranno falsi Cristi e falsi profeti, e faranno grandi prodigi e cose meravigliose, per ingannare, se possibile, gli stessi eletti. Questo vi ho predetto… E subito dopo la tribolazione di quei giorni (statim post tribulationem dierum illorum), il sole si oscurerà e la luna non darà la sua luce, e le potenze del cielo saranno scosse. Allora apparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo », … e il resto lo sappiamo. Questo è il quadro degli eventi di cui l’abominatio desolationis predetta dal profeta Daniele doveva essere il segnale, secondo l’oracolo evangelico. Vediamo in essa giorni di calamità senza esempio nella storia, seguiti a breve dall’oscuramento del sole, le convulsioni dell’universo, tutti i prodromi della parusia, e la parusia stessa. D’altra parte, ed è qui che inizia la difficoltà, il tempo della suddetta abominatio desolationis non è affatto lasciato alle nostre congetture. Sembra che sia indicato molto chiaramente proprio nel libro di Daniele a cui il Vangelo si riferisce, ed indicato come il momento preciso dell’assedio e della caduta di Gerusalemme. Infatti, chi non ha in mente la famosa profezia delle settanta settimane, che dice espressamente che dopo che Cristo sarà ucciso, verrà un popolo guidato da un capitano a distruggere la città e il santuario, e che ci sarà un abominio della desolazione nel tempio, e che la desolazione durerà fino alla fine? Così, avremmo qui due cose: primo, la parusia annunciata come strettamente successiva ai giorni di estrema tribolazione che l’abominio predetto dal profeta Daniele avrebbe portato con sé; e in secondo luogo, l’abominio predetto dal profeta Daniele, fissato da Daniele stesso al tempo dell’occupazione di Gerusalemme da parte degli eserciti di Tito. Da questo punto in poi, la conclusione sarebbe chiara, ovvia e ineludibile, cioè che, secondo i dati del Vangelo, la fine del mondo sarebbe dovuta arrivare diciotto secoli fa, cioè prima che la prima generazione cristiana fosse giunta al termine. È a questa difficoltà, dove tutte le altre convergono, e dove i lettori studiosi si lasciano più facilmente circuire, che il presente articolo intende rispondere, dimostrando che tutto qui poggia su un falso supposto. – E poiché questo falso presupposto dipende interamente dalle idee più che incomplete che si hanno comunemente degli oracoli di Daniele e del loro contenuto, dobbiamo prima passarli in rassegna, e indagare attentamente tutto ciò che si riferisce alla suddetta abominatio desolationis, che il grande profeta aveva la missione propria di predire e annunciare. Per la maggior parte di coloro che non sono stati portati da circostanze particolari a fare uno studio speciale dei profeti dell’Antico Testamento, il nome di Daniele difficilmente richiama alla memoria qualche profezia oltre a quella menzionata sopra, delle settanta settimane. La grande fama di questo oracolo, la sua grande importanza nella questione messianica, il posto considerevole che occupa nei manuali di teologia, esegesi e apologetica, tutto questo lo ha fatto diventare, per molti, la profezia di Daniele tout court, la profezia di Daniele, o almeno, l’oraculum princeps che lascia tutti gli altri in ombra e, per lo stesso motivo, nell’oblio. Così, quando il Vangelo parla dell’abominatio desolationis quæ dicta est a Daniele propheta, non verrà in mente a nessuno di cercare il necessario chiarimento al di fuori del versetto che abbiamo citato sopra. È a questa linea finale della profezia, ben nota a tutti, che ci riferiremo puramente e semplicemente, senza sospettare minimamente che, in termini di riferimenti, potrebbe esserci molto di più. Inoltre, in questo seguiremo solo le indicazioni date dalla maggior parte dei commentatori di San Matteo, che sembrano essersi presi la briga di riferire i loro lettori a Daniele IX, 24-27, come se fosse l’unico luogo del profeta dove viene menzionato l’abominio in questione. Ma questo è un errore, e un errore manifesto, perché la verità, che è facile da verificare, è che Daniele ha effettivamente predetto l’abominatio desolationis in loco sancto, per tre periodi molto diversi e lontani: prima, per il tempo della persecuzione di Antioco (VIII, vers. 13, e XI, verso 31); in secondo luogo, per il tempo dell’assedio e della rovina di Gerusalemme (IX, verso 27); in terzo luogo, per il tempo dell’anticristo, la fine del mondo e la resurrezione dei morti (XII, verso 11). Rivediamo brevemente ciascuna di queste tre previsioni, notando le singolarità che le distinguono. È da tutte le osservazioni da fare che emergerà la luce di cui abbiamo bisogno. – In primo luogo, ecco l’abominatio desolationis predetta per il tempo della persecuzione di Antioco. Si tratta, come tutti sanno, di Antioco Epifane, quella radice del peccato di cui si parla nel libro di Maccabei, che fu il primo re pagano che si impegnò non solo a conquistare la terra d’Israele, ma anche ad abolirvi con la più atroce persecuzione la religione del vero Dio, e che per questo è dato nella Scrittura come il primo re pagano. Daniele lo vede, nell’ottavo capitolo, uscire da una delle quattro dinastie che avrebbero condiviso l’impero di Alessandro. Lo vede elevarsi nella sua empietà ed esaltarsi al di sopra del Dio degli dei, di cui proibisce il culto e profana il tempio. E un Angelo chiede a un altro Angelo: Quanto durerà questa visione, che riguarda il sacrificio perpetuo, il peccato di desolazione e l’abbandono del santuario per essere calpestato? E si risponde: Fino a duemilatrecento giorni; dopo di che il santuario sarà purificato. E questa stessa profezia è ripresa con maggiori sviluppi nell’undicesimo capitolo, dove l’Angelo che istruisce Daniele dice, tra l’altro, in riferimento al persecutore: “Le truppe inviate da lui profaneranno il santuario, faranno cessare il sacrificio continuo ed innalzeranno l’abominio della desolazione. AUFERENT JUGE SACRIFICIUM, ET DABUNT ABOMINATIONEM IN DESOLATIONEM; e questo, fino al tempo prefissato quando, avendo il castigo portato alla purificazione di Israele, verranno giorni migliori di calma, tranquillità e riposo. (Dan., XI, 31 ss.). È quindi evidente che abbiamo qui un primo oracolo di Daniele sull’abominio della desolazione, oggetto della nostra ricerca.  Senza dubbio, non è quello che Nostro Signore poteva intendere quando disse: Cum ergo viderais abominationem desolationis quæ dicta est a Daniele propheta, visto che, al tempo di Nostro Signore, questo non doveva più essere realizzato nel futuro, ma aveva già ricevuto il suo compimento nel passato. Pertanto, non dovremmo occuparcene. Tuttavia, proprio questo adempimento, raccontato in tutti e due i libri dei Maccabei, servirà a stabilire, su passi autentici, qualcosa che è importante per noi chiarire prima: cioè, cosa significhi, almeno nella sua generalità, questa abominatio desolationis, nella quale molti sembrerebbero sospettare qualche arcano ancora inspiegabile, anche se certamente a torto, come sarà dimostrato perentoriamente dal racconto dei Maccabei, di cui i seguenti sono i passaggi principali: « Nel centoquarantacinquesimo anno del regno dei Greci, il re Antioco emanò un editto in tutto il suo regno affinché tutti diventassero un solo popolo e ciascuno rinunciasse alla propria legge… E mandò messaggeri a Gerusalemme e nelle altre città di Giuda, ordinando ai Giudei di cessare gli olocausti e i sacrifici nel tempio, di profanare i sabati e le feste, di contaminare il santuario e i santi, di costruire altari e boschetti sacri e templi di idoli, di lasciare incirconcisi i loro figli maschi e di contaminarsi con ogni sorta di impurità, perché la legge di Dio sia dimenticata per sempre e tutte le sue ordinanze siano abolite. E chiunque non obbedirà agli ordini del re, sarà messo a morte… E il quindicesimo giorno del mese di Casleu eressero un idolo abominevole della desolazione sull’altare dell’olocausto, e ne costruirono di simili in tutte le città di Giuda intorno. Bruciavano incenso e sacrificavano davanti alle porte delle case e nelle strade. Se trovavano i libri della legge da qualche parte, li bruciavano dopo averli strappati. Chiunque trovasse un libro dell’alleanza e chiunque mostrasse attaccamento alla legge, veniva messo a morte per editto del re. » Così si legge nel primo capitolo del primo libro di Maccabei, versetti 43 e seguenti. A questi sarà conveniente aggiungere gli altri dettagli dati nel secondo libro, dove si dice: « Poco dopo i massacri con cui cominciò la persecuzione, il re Antioco mandò un vecchio da Atene per costringere i Giudei ad abbandonare il culto dei loro padri e a profanare il tempio di Gerusalemme, dedicandolo a Giove Olimpico… L’invasione di questi mali era estremamente dolorosa da sopportare per tutto il popolo, perché il tempio era pieno di orge e dissolutezze; i gentili dissoluti facevano commercio con le prostitute anche nei cortili sacri, che essi trasformavano in luoghi di prostituzione… Non era più possibile celebrare i sabati o le feste, e nemmeno confessare semplicemente di essere Giudei. Un’amara necessità indusse i Giudei ai sacrifici che venivano fatti ogni mese nel giorno della nascita del re. Alle feste baccanali, erano costretti a camminare per le strade coronate di edera in onore di Bacco. Fu emesso un editto per far sì che le stesse misure fossero prese nelle città greche nelle vicinanze, con l’ordine di mettere a morte coloro che si rifiutavano di adottare i costumi pagani. Erano ovunque scene di desolazione » (II Mach., VI, 1 e segg.). Ecco dunque l'”abominio” che Daniele aveva predetto per il tempo della persecuzione di Àntioco, e che i libri dei Maccabei pongono davanti ai nostri occhi. Come si può vedere, non manca nulla al quadro che fornisce tutti i dati necessari per formare un’idea adeguata e completa. Si trattava in sostanza, con la proscrizione assoluta del culto di Dio, e specialmente del sacrificio perpetuo che ne è l’elemento principale, della profanazione della terra santa e del tempio, la sostituzione di un culto sacrilego e idolatrico, nonché la conversione del santuario stesso in un luogo di prostituzione e dissolutezza. Questo avvenne verso l’anno 160 a.C., ma durò solo tre o quattro anni, alla fine dei quali, cessata la persecuzione, il tempio fu purificato e il culto divino riportato alla sua condizione precedente (l Macc. IV, 36 sqq,; II Macch. , X, 1 sqq).

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Ma attraversiamo ora uno spazio di circa due secoli e mezzo, per arrivare all’abominatio desolationis segnata per il tempo degli ultime sventure di Gerusalemme. La predizione si trova nel noto oracolo di cui abbiamo parlato sopra, quello che annunciava l’avvento e la morte del Messia, la conclusione della nuova alleanza, l’abrogazione dell’antica legge, la riprovazione della Sinagoga ed i disastri che dovevano seguirne:  « Dopo sessantanove settimane – disse l’Angelo al profeta – il Cristo sarà messo a morte e il popolo che ti rinnegherà non sarà più il popolo di Dio. Ed un popolo guidato da un capo verrà a distruggere la città ed il santuario, ed infine ci saranno la guerra e la devastazione. E per lui (Cristo) si farà la nuova alleanza con molti per una settimana (l’ultima delle settanta), e in mezzo alla settimana cesseranno le oblazioni ed i sacrifici. E CI SARÀ NEL TEMPIO L’ABOMINIO DELLA DESOLAZIONE, E FINO ALLA FINE DURERÀ LA DESOLAZIONE. (Dan., IX, 24-27). Così, secondo i termini di quest’altro oracolo, qualcosa di simile a ciò che era accaduto al tempo dell’empio Antioco doveva accadere al momento della caduta di Gerusalemme. Come al tempo di Antioco, ecco la profanazione del luogo santo, la desolazione del santuario, la violazione sacrilega di tutto ciò che era più sacro nel tempio; ma questo ora, in condizioni del tutto diverse da quelle precedentemente menzionate, e con un insieme di circostanze che porteranno a questa seconda apparizione dell’abominatio desolationis sul teatro della storia, con colorazione propria ed un carattere molto particolare. E notiamo, prima di tutto, che il tempio la cui desolazione è qui annunciata, non era più, come ai tempi di Antioco, il tempio del vero Dio e della vera religione, ancora in pieno possesso delle sue prerogative. Da una quarantina d’anni esso aveva perso la sua gloria, l’aveva persa proprio nel momento in cui, tra la costernazione di tutta la natura, il grande velo che chiudeva l’ingresso al Santo dei Santi fu strappato da cima a fondo, come segno che, nel sangue di Cristo appena spirato sul Calvario, l’Antico Testamento era giunto alla fine, che la legge figurativa aveva lasciato il posto alla Verità figurata, che lo statuto mosaico con i suoi riti, i suoi sacramenti, il suo sacerdozio, il suo altare e le sue cerimonie era stato abrogato per sempre. Ormai queste stesse cerimonie avevano cessato di esistere nella legge, ed il tempio non era che una reliquia. Che se i sacrifici e le altre osservanze legali avevano comunque continuato ad essere legittimamente celebrati lì, non era più in forza di una legge ormai obsoleta e superata, ma unicamente per la riverenza dovuta a Dio, da cui derivavano: questa riverenza esigeva che fossero trattati non come i riti delle false religioni, che devono essere aboliti e sterminati al più presto possibile e senza il minimo ritardo, ma piuttosto, secondo il bel paragone di Sant’Agostino, « come un morto di qualità, che non ci affrettiamo a seppellire incontinente nella terra, ma che teniamo in casa ancora per qualche tempo, in attesa di compiere gli ultimi doveri. » Così era con le osservanze e le cerimonie dell’antica legge durante i pochi anni tra il sacrificio sul Calvario e l’inizio della guerra di Giudea, come i morti erano tenuti nella casa mortuaria fino al tempo stabilito per il funerale e la sepoltura. Solo che, a causa dei nuovi e terribili crimini della Sinagoga, il funerale e la sepoltura dovevano diventare tragici e finire in un disastro. E infatti, nello stesso momento in cui gli eserciti romani apparvero sul suolo della Palestina, l’abominio della desolazione prese possesso del tempio e vi si stabilì come se fosse sua residenza. Inoltre, doveva regnare supremo, e superare ogni misura, fino a provocare l’implacabile vendetta del cielo, e finire per attirare sul tempio stesso la furiosa tempesta che spazzò via gli ultimi resti, rovesciò fin l’ultima pietra, e allo stesso tempo annientò per sempre l’intera economia di cui era la sede, il centro e il simbolo. E in cosa diremo che consisteva l’abominatio desolationis questa volta? La risposta, naturalmente, è una questione storica, e la storia alla mano ci dirà che essa consisteva in niente meno che nelle profanazioni inaudite di cui il tempio fu teatro per quasi quattro anni consecutivi, prima e durante l’assedio, per mano dei cosiddetti zeloti, gli ultimi rappresentanti della Sinagoga, i suoi pontefici ed il suo Sinedrio. Infatti era nel tempio, nelle sue corti, nel suo santuario e persino nel Santo dei Santi, che essi si erano trincerati come nella loro ultima roccaforte; fu lì che, agitati da tutta la furia dell’inferno, commisero tali crimini che Giuseppe non esita a scrivere che se i Romani, esecutori della vendetta divina, avessero tardato ancora, la terra si sarebbe aperta per inghiottire il tempio con la città, altrimenti i fuochi che una volta caddero sulla Pentapoli sarebbero nuovamente scesi dal cielo per divorare una razza mille volte più malvagia, più criminale e più empia di quella che avevano portato via ai tempi di Sodoma e Gomorra (De bello Judaic. l. VI, c. 16 ). Da tutto questo, è molto chiaro che l’abominatio desolationis, predetta da Daniele per il tempo dell’assedio, contrasta singolarmente con il precedente in questo punto capitale, che non era più l’opera di un persecutore, ma l’opera degli stessi ministri del santuario profanato, i guardiani nativi della sua santità e maestà. E da questa differenza seguono tutte le altre. Che se non vediamo più questa volta, come sotto Antioco, l’abolizione da parte del tiranno del culto e delle osservanze della legge di Mosè, e molto meno ancora l’introduzione di idoli che gli stessi zeloti aborrivano e detestavano, non vediamo nemmeno un termine fisso per la cessazione di una così grande devastazione, né una prospettiva di restaurazione. Non leggiamo più, come prima, “fino a duemilatrecento giorni, e il tempio sarà purificato” (Dan. VIII:14), né “metteranno su l’abominio della desolazione“, ma il popolo che conosce il suo Dio resterà fermo e agirà… fino al tempo stabilito per essere provati, purificati e resi bianchi. (Dan. XI, 31-35.) Questa non era più una persecuzione che Dio aveva voluto o permesso per mettere alla prova e purificare il Suo popolo; era solo l’ultimo scoppio di furia con cui la Sinagoga in via di estinzione, completava una maledizione senza rimedio ed una desolazione a cui non si sarebbe posto rimedio e una desolazione che nulla poteva consolare, secondo quanto detto: Et erit in templo abominatio desolationis, et usque ad consummationem et finem perseverabit desolatio.

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 Ma è tempo di venire finalmente all’abominio della desolazione indicato sopra nel terzo ed ultimo luogo: quello che si vedrà alla fine dei tempi sotto il regno dell’anticristo, e che troviamo predetto nel dodicesimo capitolo di Daniele, come si dirà all’inizio di questo capitolo, ove la parola è data all’Angelo che completa la sua spiegazione al Profeta delle visioni che ha ricevuto precedentemente riguardo ai regni della terra e al regno di Dio. Già riprendendo e sviluppando ulteriormente la visione dell’ariete e del capro, del grande e del piccolo corno, che appare nell’ottavo capitolo, egli aveva, nell’undicesimo capitolo, abbozzato la storia futura dell’impero dei Persiani prima, e poi quello dei Greci, e poi si era soffermato a lungo e in modo molto speciale sul regno di Antioco Epifane, facendo del personaggio e delle sue gesta un quadro in cui tutta l’antichità cristiana ha riconosciuto una profezia con un doppio scopo, per cui, sotto i tratti del re senza Dio della Siria, vedeva l’uomo del peccato, l’empio per eccellenza, che sarà l’anticristo della fine dei tempi, e che, nella persecuzione del tempo dei Maccabei, tracciava il profilo della formidabile persecuzione che la Chiesa di Dio dovrà sopportare alla fine della sua carriera (S. Gerol. in Dan., c. XI). E ora, passando improvvisamente, alla maniera dei profeti, dalla figura alla cosa figurata, e attraversati tutti gli intermediari come con un salto, l’Angelo trasporta Daniele in quel futuro lontano che, nel quadro precedente, occupava ancora solo vagamente lo sfondo della prospettiva. Ora abbassa il sipario su Antioco e il suo tempo, per alzarlo su una nuova scena, una scena che tutto indica come quella della crisi suprema che precederà la consumazione dei tempi, la resurrezione dei morti, il giudizio universale, la ricompensa dei buoni, la punizione dei malvagi, in breve, la restaurazione di tutte le cose per l’eternità. Infatti,  riprendendo la parola, l’Angelo continuò: « In quel tempo si alzerà Michele, il grande dominatore, che legherà i figli del tuo popolo; e verrà un tempo come non c’è mai stato da quando esiste il mondo, fino a quell’ora. E in quel tempo saranno salvati, tra il tuo popolo, tutti coloro che si trovano scritti nel libro. E la moltitudine di coloro che dormono nella polvere si sveglierà, alcuni alla vita eterna, altri per un obbrobrio, da cui saranno coperti per sempre. E coloro che hanno avuto la conoscenza di Dio (che sono vissuti fedeli alla sua legge), brilleranno come lo splendore del firmamento, e coloro che hanno condotto molti alla giustizia saranno come le stelle, eternamente e per sempre. E tu, Daniele, conserva queste parole e sigilla questo libro fino al tempo della fine. Allora molti lo studieranno e la conoscenza si moltiplicherà. » Questo è certamente un inizio che non lascia spazio ad equivoci, e se, come osserva San Girolamo, coloro che pretendono di riferire le ultime pagine di Daniele al solo Antioco sono riusciti a cavarsela finora, e a sostenere il loro sentimento in modo tale da poterlo fare in questo capitolo, non saranno in grado di farlo in questo capitolo, dove è descritta la resurrezione dei morti alla vita o all’obbrobrio eterno e ci diranno con qualche probabilità chi erano sotto Antioco quelli che brillavano come lo splendore del firmamento, o come stelle per sempre (Jerol. in Dan. c. XII, P. L. t. XXV, col. 575)? – Notiamo attentamente, allora, questo assemblaggio in un unico quadro di tutti i tratti più salienti dell’escatologia classica, compresa la futura conversione dei resti di Israele, che tanti altri oracoli annunciano, per arrivare all’ultima ora del mondo. Ma notiamo soprattutto ciò che la profezia mette più in evidenza: questa persecuzione finale di cui quella di Antioco era solo una debole immagine, dove l’arcangelo Michele verrà in persona a combattere contro satana e l’anticristo suo complice; essa si distinguerà per questa caratteristica fra tutte, un tempo di angoscia che non ha mai avuto il suo uguale in tutta la storia, tempus quale non fuit ex quo gentes esse cœperunt usque ad illud! Ed è anche a questa tremenda persecuzione che il Profeta rivolge la sua attenzione, chiedendo: “Quando finiranno queste cose prodigiose? E gli si risponde: In un tempo, due tempi e metà del tempo; E quando la forza del popolo santo sarà completamente spezzata, allora tutto sarà consumato. Ma Daniele dice che ha sentito senza capire; desidera dettagli più espliciti, e allora gli viene data l’ultima risposta su cui si chiude tutto il libro: la risposta in cui si fa espressa menzione dell’abominio della desolazione che il mondo vedrà sotto il regno dell’anticristo, nello stesso tempo in cui viene mostrata la fine benedetta a cui questo tempo, essendo passato il tempo della terribile prova, la desolazione condurrà. « Va’, Daniele – disse l’Angelo – perché queste parole sono chiuse e sigillate fino al tempo finale ». E molti saranno purificati e resi bianchi e provati con il fuoco; e gli empi agiranno come empi, e nessuno di loro capirà, ma coloro che hanno la conoscenza della pietà capiranno. E DAL MOMENTO IN CUI IL SACRIFICIO CONTINUO SARÀ TOLTO E L’ABOMINIO DELLA DESOLAZIONE SARÀ ERETTO, CI SARANNO MILLEDUECENTONOVANTA GIORNI. Beato chi aspetta e arriva a milletrecento trentacinque giorni. Ma tu andrai alla tua fine e ti riposerai, e resterai per la tua eredità fino alla fine dei giorni. Questo è l’oracolo che chiude la serie delle predizioni di Daniele riguardanti l’abominatio desolationis, e, confrontandolo con i precedenti, ogni lettore attento deve convenire che differisce da essi in modo notevole, in quanto è avvolto in un velo più denso di ombra e di mistero. Già, per il fatto stesso di non aver ancora ricevuto il suo compimento, si presenterebbe a noi nelle condizioni che sono comuni a tutte le profezie che l’evento non è venuto a chiarire, e per così dire, a decifrare. Infatti il futuro è e rimane sempre più o meno chiuso per noi, e le stesse cose che Dio ci ha rivelato di solito accadono in un modo diverso da quello che abbiamo o avremmo immaginato: il che fa dire a Sant’Ireneo che le profezie, prima che si compiano, sono enigmi la cui chiave ci sfugge (Iren, Contra Hær. l. IV, cap. XXVI, P. G. t. VII, col. 1052). – Ma qui, a questa ragione generale se ne aggiunge un’altra molto particolare, che l’oracolo stesso porta con sé la prova più esplicita della sua stessa oscurità. Si tratta di parole chiuse, di previsioni sigillate (vers. 4, 9); Daniele stesso dichiara di non capire: audivi et non intellexi, e se chiede ulteriori informazioni, l’Angelo risponde che il sigillo del mistero non può essere tolto fino al tempo del compimento, usque ad præfinitum tempus. Inoltre, al tempo del compimento stesso, gli empi non capiranno, neque intelligent omnes impii; solo i dotti capiranno, porro docti intelligent: i dotti, cioè i fedeli istruiti nella scienza della pietà, che troveranno allora in questa comprensione, in mezzo alle loro prove, incoraggiamento e speranza. Tutto questo è da ricordare, tutto questo è da notare attentamente, in vista del confronto che dovremo presto fare dell’oracolo di Daniele con il brano del Vangelo, oggetto del nostro studio. Tuttavia, qualunque sia il velo di mistero in cui il suddetto oracolo deve rimanere avvolto fino al tempo della fine, ci sono alcune generalità che il testo porta alla luce da solo, o che l’analogia dei luoghi paralleli rivela. Così, per esempio, sappiamo che la crisi, annunciata in questo dodicesimo capitolo di Daniele, sarà appositamente predisposta da Dio come mezzo di purificazione per l’ultima generazione cristiana: quella generazione che deve vedere tutti i segni della grande catastrofe, e sentire i primi suoni della tromba che risveglia i morti dalle loro tombe: così che, provato come l’oro nella fornace, libero da ogni attaccamento ad un mondo sull’orlo della distruzione, si trova pronta per portarsi davanti al Signore tornato a cercare i suoi per condurli nel suo regno eterno. Ed questo ciò che è da intendere nelle parole del versetto dieci: Eligentur et dealbabuntur, et quasi ignis probabuntur multi. Sappiamo, inoltre, che nel tempo della terribile persecuzione, ogni esercizio della vera religione sarà proscritto, che di conseguenza il culto di Dio cesserà di essere celebrato, almeno pubblicamente e apparentemente alla luce del giorno, in faccia al sole. A tempore cum ablatum fuerit fuge sacrificium, si legge nell’undicesimo versetto: dal tempo in cui il sacrificio perpetuo sarà tolto. Si tratta di una ripetizione di quanto abbiamo letto in precedenza (VIII, 13 e XI, 31) a proposito della persecuzione di Antioco, con la notevole differenza, però, che non si parla più del tempio o del santuario, né di nulla che possa ricordare un passato ormai scomparso da tempo. Il sacrificio perpetuo in questione è dunque il Sacrificio della nuova alleanza, che è succeduto a quello che, secondo la legge di Mosè, si offriva sera e mattina nel tempio di Gerusalemme, e al quale, a maggior ragione, si addice il nome di juge sacrificium, offerto conformemente alla legge della sua istituzione senza interruzione di giorno o notte, dal levante al ponente su tutte le lande e sotto ogni cielo. Questo è, in una parola, il Sacrificio dei nostri altari, che allora, in quei terribili giorni, sarà ovunque proscritto, ovunque proibito, e tranne quello che si potrà, e si farà nelle ombre sotterranee delle catacombe, ovunque interrotto. Sappiamo, in terzo luogo, che nello stesso tempo sarà eretto l’abominio della desolazione: « A tempore cum ablatum fuerit juge sacrificium et posita fuerit abominatio in désolationem. » Ma quale sarà l’abominatio desolationis per questa legge? Ovviamente qualcosa di analogo a quello che apparve nella persecuzione di Antioco, quando il tempio di Gerusalemme fu dedicato a Giove Olimpico e contaminato da ogni sorta di impurità e profanazioni, come è stato riportato sopra. Qualcosa di analogo, diciamo noi, tenendo conto della differenza di tempo e di luogo, e della sproporzione tra una persecuzione locale, come quella del tempo dei Maccabei, e la persecuzione mondiale che sarà quella dell’Anticristo. Ma dunque, cosa? Qualche nuovo mostro di idolatria stabilito nei nostri templi diventati i templi del dio dell’umanità (la chiesa modernista dell’uomo del Vaticano II? – ndr. – ), del dio della ragione, del dio immanente nel mondo, trionfando infine, dopo tanti sforzi del libero pensiero, sul Dio trascendente della rivelazione cristiana? Qualche mistero luciferiano tratto dagli oscuri recessi delle conventicole massoniche e installato alla luce del sole (il baphomet “signore dell’universo”? – ndr. -) al posto dei tabernacoli rovesciati di Nostro Signore Gesù Cristo? Qualche culto impuro dato agli idoli di carne e sangue (le aberrazioni sessuali delle lobby? – ndr – ), come si è visto nei giorni peggiori della nostra grande rivoluzione? Tante ipotesi che una facile immaginazione costruita sui dati del passato può suggerirci. Ma qual è il valore dei dati passati per le congetture future? È con grande senso che Bossuet ha scritto: « Tremo mettendo le mani sul futuro » (Bossuet, L’Apocalisse, XX, 14). Sarà dunque più sicuro, lasciare da parte tutte le determinazioni particolari ed attenersi puramente e semplicemente alla parola della Scrittura, dove essa annuncia la manifestazione del grande anticristo, l’anticristo per eccellenza, che si solleverà contro tutto ciò che è chiamato Dio ed onorato da culto, fino al punto di sedersi nel santuario di Dio e presentarsi come se fosse Dio. (II Tess., n, 4). Questa è l’affermazione più autorevole che si possa fare sull’abominatio desolationis degli ultimi giorni, senza preoccuparsi ulteriormente del come.  E tutto ciò che si può dire con certezza è che nella sua apparizione, l’empio, l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, « sarà con la potenza di satana, accompagnato da ogni sorta di segni e prodigi ingannevoli, con tutte le seduzioni dell’iniquità » … questo ci promettono il progresso della magia, della negromanzia, dello spiritismo, del luciferianesimo, della teosofia e, in una parola, di tutte le cosiddette scienze occulte, con qualunque nome siano chiamate e sotto qualunque maschera si nascondano. (II Tess., II, 9-10). Quanto al resto, diciamolo ancora una volta, è un segreto del futuro, dove volenti o nolenti siamo obbligati a confessare che non vediamo nulla (fino al 2019! – ndr. – ). – Ma quanto più oscura ancora è la parte finale dell’oracolo di Daniele dove, dopo aver menzionato i milleduecentonovanta giorni che si contano dall’interruzione del sacrificio perpetuo e l’installazione dell’abominatio desolationis, si dice: « Beato chi aspetta e arriva a milletrecento trentacinque giorni! » Non è, senza dubbio, che anche qui tutto sia tenebra e oscurità, perché appare abbastanza chiaro che si tratti dell’aspettativa così spesso raccomandata di poi, nelle Scritture del Nuovo Testamento, « della beata speranza e venuta della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo » (Tit., II, 13; I Cor. 1, 17; Filipp., III, 20; I Tess. 1, 10; Eb. IX, 28; II Petr. III, 12, ecc.): che di conseguenza, come dice espressamente San Girolamo nel suo commento al presente versetto di Daniele, la fine dei 1335 giorni segna l’ora della parusia, « quando il Signore e Salvatore ritornerà nella sua maestà ». Questo, dico, sembra abbastanza chiaro, se ci riferiamo a ciò che l’Angelo ha detto poco prima sulla risurrezione dei morti e la ricompensa eterna dei giusti. Ma quante ombre ci sono ora, mescolate a questa luce! Cosa sono in particolare i 1290 giorni menzionati sopra? Quali sono i quarantacinque giorni che si aggiungono ad essi per completare la somma di 1335, e qual è la ragione per distinguerli dagli altri? Essi segnano l’intervallo tra la sconfitta dell’anticristo e l’arrivo del Giudice dei vivi e dei morti? E in questo caso, questo numero di 45, come quello di 1290 a cui si aggiunge, sarebbe un numero preciso, da prendere nel senso proprio e naturale della lettera, o non piuttosto uno di quei numeri mistici di cui i libri dei Profeti ci offrono tanti esempi? Tanti misteri che rimangono impenetrabili finché l’evento non porta qualcosa per decifrare l’enigma; tanti sigilli che saranno tolti solo al momento della fine, e solo per il bene per i fedeli servitori di Gesù Cristo, per quelli che, secondo la bella espressione dell’Apostolo “amano la sua venuta”, qui diligunt adveutum ejus. Perché gli altri, come è già stato detto, non capiranno, ma, ribelli a tutti gli avvertimenti come quelli della generazione di Noè, saranno sorpresi dalla catastrofe che cadrà su di loro all’insaputa, nel momento stesso in cui diranno: Pace e sicurezza. Cum dixerint pax et securitas, tunc repentinus eis superveniet intéritus, sicut dolor in utero habenti, et non effugient (I Tess. V, 3). – Finora abbiamo evidenziato, e, per quanto possibile, commentato e spiegato i vari oracoli di Daniele riguardanti l’abominazione della desolazione. Questa era l’indagine preliminare, spinta dalle difficoltà presentate dal passo di San Matteo, XXIV, 15 segg. , e in particolare dalla questione di ciò a cui mirava realmente la profezia del Vangelo, dove è detto: Quando vedrete l’abominio della desolazione, annunciato dal profeta Daniele, eretto nel luogo santo, chi legge intenda, ecc. Ora, dopo le spiegazioni precedenti, la risposta da cui dipende la soluzione desiderata sarà più facile; la daremo a titolo di conclusione, in un’esposizione semplice e rapida. – E prima di tutto, non avremo difficoltà a riconoscere che Gesù, riferendosi alla profezia di Daniele, si riferiva infatti all’oracolo del capitolo nove, riguardante il tempo e gli eventi dell’assedio. Ciò è perentoriamente dimostrato dal consiglio dato a coloro che si trovavano in Giudea di fuggire sui monti non appena si fosse visto l’abominio della desolazione nel tempio, che, secondo la collazione dei vari testi di San Matteo e San Luca, avrebbe cominciato ad apparire nello stesso momento in cui iniziava l’assedio di Gerusalemme da parte degli eserciti romani. Tutto questo è accettato dall’esegesi e dalla storia, ammesso senza dubbio da tutti gli interpreti, e noi non lo contraddiremo. Ma ciò che sembra più ovvio, se può esserlo, e più certo ancora, è che l’oracolo di Daniele a cui si fa principalmente riferimento era quello del dodicesimo capitolo, proprio quello che abbiamo appena citato, riguardante il tempo dell’anticristo e la grande persecuzione che verrà nel suo regno. E qui potrei osservare, prima di ogni altra cosa, che non c’è nulla nel testo evangelico che limiti l’ampiezza di questa espressione, abominationem desolationis quae dicta est a Daniele prophèta, all’unico abominio predetto per il tempo dell’assedio; nulla che determini la sua portata a Daniele IX, 27, ad esclusione di Daniele, XII, 11. Potrei aggiungere che nostro Signore non dice: “Quando vedrete l’abominio predetto da Daniele eretto nel tempio”, ma piuttosto: “eretto nel luogo santo, in loco sancto“, (èn topo aghio) che è un’espressione più generale, che va oltre l’orizzonte giudaico, e porta il pensiero oltre il tempio di Gerusalemme e gli eventi di cui doveva essere teatro. Potrei, dico, fare queste considerazioni, che non sono senza valore, e sarebbe utile mettere in fila, in mancanza di altre prove; ma non vi insisto, e preferisco affidarmi a due argomenti molto più perentori, il primo dei quali si legge nell’inciso: “Chi legge, intenda! Qui legit, intelligat“, subito dopo le parole “Quando vedrete l’abominio predetto dal profeta Daniele“. Infatti, questa inciso contiene un’evidente allusione a ciò che è stato notato sopra, dell’oscurità dell’oracolo del capitolo dodici. Inoltre, risponde direttamente al passaggio dove si dice che gli empi non l’avrebbero capito, che solo i fedeli avrebbero ricevuto l’intelligenza: Neque intelligent omnes impii… porro docti intelligent. Perciò, chi legge, ascolti.  Questa è un’indicazione tacita, ma tanto più significativa, del luogo preciso del profeta a cui ci si riferisce. Tanto per il primo argomento. Ma il secondo è ancora più decisivo. Deriva dalle parole che appaiono un po’ più in basso nel testo di San Matteo …ci sarà grande angoscia, come non si vedeva nulla di simile dai tempi dell’inizio del mondo, e non lo sarà mai più. È parola per parola ciò che è detto in Dan. XII, 1: Et veniet tempus quale non fuit ex quo gentes esse cœperunt usque ad, illud. Da tutto ciò risulta che, nel passo di San Matteo che è stato oggetto del presente studio, Nostro Signore si riferiva subito ai due oracoli di Daniele sopra menzionati, e univa nello stesso quadro profetico gli eventi corrispondenti, quelli dell’assedio e quelli della persecuzione dell’Anticristo. È perché in effetti, questi eventi, per quanto distanti l’uno dall’altro nell’ordine del tempo, rappresentavano situazioni del tutto analoghe, che di per sé si prestavano ad essere presentate e disposte in un’unica prospettiva di futuro prossimo e lontano. Da un lato, la crisi che segnalava la fine della religione giudaica, che stava lasciando il posto a quella del Nuovo Testamento; dall’altro, la crisi che segnalava la fine della religione della terra, che sarebbe stata abolita per far posto a quella dell’eternità. Da una parte come dall’altra, giorni come mai visti, né mai si vedranno, ma giorni di vendetta al tempo dell’assedio (emerai eikoikeseos – Luca, XXI, 22), perché mai fu, mai si vedrà una vendetta come quella che fu fatta allora contro Gerusalemme; ed i giorni di persecuzione al tempo dell’anticristo (Tlipsis emeron ekeinon – Matth., XXIV, 29), perché mai fu, mai si vedrà persecuzione paragonabile a quella in cui satana, più scatenato che mai, eserciterà la sua seduzione senza limiti con mezzi inauditi fino ad allora. Infine, da entrambe le parti, il finimondo alla fine dei giorni della tribolazione, statim post tribulationem dierum illorum. Ma dopo la tribolazione dei giorni dell’assedio, il finimondo in immagine ed in figura, di cui abbiamo parlato in un articolo precedente; dopo la tribolazione dei giorni dell’anticristo, il vero finimondo, dove apparirà in tutta verità il segno del Figlio dell’uomo, che tutte le tribù della terra vedranno venire in grande potenza e maestà. Con queste semplici osservazioni, il ragionamento dei modernisti va in fumo ancora una volta, anche se non lo danno per scontato. Rimane per loro il più invincibile di tutti gli argomenti, o almeno quello che considerano tale, e che dobbiamo esaminare prima di lasciare il discorso escatologico che ci ha occupato finora, e passare agli altri luoghi della Scrittura che essi alterano, secondo la parola di San Pietro (II Petr., III, 16), per la loro propria perdizione, e anche, ahimè! Per quella di coloro che li ascoltano.

LA PARUSIA (5)

LE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA: OBBLIGHI DEI FEDELI (I)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE

TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

RIFLESSIONI SULLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA

Obblighi dei fedeli (I)

Voi siete Cattolico, siete istruito nei principii della vostra Religione, voi amate la Chiesa; siete anche ardente di zelo per la gloria di lei; e nondimeno vi scandalizzate delle tribolazioni, ch’Ella soffre. Non vorreste, che Dio permettesse a’ suoi nemici di aggravarla di catene e d’ignominie; vi meravigliate, com’essi sopravvivano sulla terra; se poteste strappare i fulmini all’Onnipotente, e stringerli nella vostra destra, voi gli avventereste con tutto l’impeto contro coloro, che vilipendono la Chiesa di Dio. Siete dunque Cattolico? Siete istruito nei principii della vostra religione? E pensate di questa guisa? Fate un torto a voi stesso, perché dimostrate con questa collera di esser mancante di raziocinio, non sapendo dedurre da quei principii, che avete appresi, le conseguenze legittime. Se v’è argomento di Religione, in cui sia necessario il buon uso di un sano e diritto ragionare, questo è certamente. uno dei più interessanti, essendo connesso colle verità fondamentali della Fede, e colla gloria, che Iddio pretende di ricavare per se, e per noi da queste tribolazioni. Non vorreste persecuzioni della Chiesa? Dunque vorreste smentir Gesù Cristo, che le ha predette con tanta sicurezza e costanza. Egli ha pur detto, che il fratello avrebbe tradito a morte il fratello, e il padre il figlio; e che i figli si sarebbero ribellati ai loro genitori, e gli avrebbero messi a morte; e che i suoi discepoli sarebbero divenuti oggetto d’odio per tutti a motivo della confessione del di lui Nome (Matth. X, 21, et seq., Marc. XIII,12. Luc. XXI,11 et sequ.). Egli ha ricordato a’ suoi discepoli, che avessero sempre presente il suo parlare; che il servo non è maggiore del padrone, e che, se Egli era stato perseguitato, doveano esserlo ancor essi (Joan. XV, 17, et sequ.). Egli è giunto a dir loro, che chiunque gli avesse uccisi, avrebbe immaginato di prestar ossequio a Dio medesimo (Joan. XVI, 2). Era necessario, che si verificassero in tutti i tempi queste predizioni, che Gesù Cristo faceva per tutti i tempi a’ suoi discepoli. Se Dio operasse a norma de’ vostri suggerimenti, e non permettesse mai nella Chiesa le persecuzioni, verrebbe a condannar se stesso di menzogna. Non avete voi penetrata questa fatal conseguenza del vostro zelo irragionevole? Ma non ci sta, direte voi, la gloria di Dio, e della sua Chiesa. E di qual gloria parlate voi? Della gloria di questo mondo, o pur di quella dell’altro? Dovreste saper nondimeno, che la gloria dei seguaci di Gesù Cristo in questa vita è il soffrire le persecuzioni per la giustizia; è l’essere maledetti, e caricati d’ogni contumelia in grazia di lui (Matth. V, 10). Dovreste sapere, che alla gloria dell’altra vita accrescono lustro e grandezza le tribolazioni di questa. Il Regno dei cieli è aperto a coloro, che sono ingiustamente perseguitati, e per essi è ivi apparecchiata una copiosa mercede (Ibidem). La gloria di Dio e della sua Chiesa? Ma in che l’hanno riposta i più fedeli seguaci di Gesù Cristo? Noi ci gloriamo nelle tribolazioni; dice 1’Apostolo, sapendo che la tribolazione dà occasione alla pazienza, e la pazienza è la prova della nostra fede (Rom. V, 3). Egli si gloriava persino della tribolazione de’ suoi fratelli. Io medesimo mi glorio per voi nella Chiesa di Dio, scrive a quelli di Tessalonica, mi glorio nella vostra pazienza, e nella vostra fede, e in tutte le persecuzioni e tribolazioni, che sostenete, in dichiarazione del giusto giudizio di Dio, per cui patite, e da cui sarete riputati degni del suo regno; giacché è cosa giusta al suo cospetto di rendere tribolazione a quelli, che vi danno tribolazione, e riposo a voi, che siete tribolati, insieme con noi, allorquando Gesù Cristo Signor Nostro manifesterà in cielo in mezzo agli Angeli, che lo servono, il suo potere, vendicandosi colle fiamme di coloro, che non conobber Dio, e che non ubbidirono al Vangelo del Signor Nostro Gesù Cristo: pagheranno essi la pena con una morte eterna lontani dalla faccia del Signore, e dalla gloria della sua onnipotenza, allorché egli verrà a glorificarsi de’ suoi Santi, e a farsi ammirare in tutti quelli, che credettero in lui (2 Thessal. 1, 4 et sequ.).  La Gloria di Dio e della sua Chiesa? Ma qual maggior gloria per Dio e per la Chiesa, quanto il vedere degli uomini perseguitati, che benedicono e pregano per i loro persecutori? Noi siam maledetti e benediciamo, dice l’Apostolo; siamo perseguitati, e lo soffriamo in pace: bestemmiano contro di noi, e preghiamo per essi; siam divenuti quasi la feccia del mondo, e il ludibrio di tutti(1 Cor. IV, 12). E pure io soprabbondo. d’allegrezza in tutte le mie tribolazioni, egli soggiunge (2 Cor. VII, 4). E pure io mi compiaccio nelle mie infermità, nelle contumelie, nelle necessità, nelle persecuzioni e nelle angustie sofferte per Cristo (2 Cor. XII, 10). Qual gloria vi può esser maggior di questa per la Chiesa? Gloria che la distingue da tutte le false religioni, e da quella superba filosofia, che non conosce questa virtù nemmen per nome. E pure questa gloriosa virtù non comparirebbe mai così luminosa nella Chiesa, se non esistessero le persecuzioni. Ma v’è ancora un motivo più interessante per la gloria della Chiesa medesima, onde Dio ha permesso in ogni tempo tante e sì feroci tempeste contro di lei. La persecuzione è un testimonio sensibile della verità della nostra Religione. Imperocchè uno dei caratteri della vera religione è la santità; e una religione santa non può stare senza persecuzioni. Il demonio non può soffrire in pace una Religione, che abbatte il suo dominio, che diminuisce il numero de’ suoi sudditi, che è ordinata a popolare il regno dei cieli da lui perduto. Questo spirito maligno ostinato nel male e nell’odio contra Dio non può soffrire una religion santa, da Dio stabilita, e a Lui onorevole. Ma i malvagi abbandonati alle sfrenate loro passioni devono anch’essi abborrire una Religione, che gli giudica, gli spaventa, gli condanna. E in conseguenza la iniquità degli abissi collegata con quella del mondo vomiterà sempre tutto il veleno-di una ostinata avversione contro la Chiesa, di cui ella può dirsi naturale nemica. Se il mondo vi odia, diceva Gesù Cristo a’ suoi discepoli, sappiate, che Io fui odiato da lui prima di voi. Se voi foste stati del mondo, il mondo avrebbe amato ciò, che era suo. Ma perché voi non siete del mondo, ma dal mondo io vi ho eletti, per questo il mondo vi odia (Joan. XV,17). Noi intendiamo, scriveva S. Cipriano a Lucio sommo Pontefice, noi intendiamo e penetriamo in tutta la luce del nostro cuore i santi e salutari consigli della divina maestà, e le ragioni, per cui è insorta di fresco questa repentina persecuzione, e per cui la secolar podestà ha fatto impeto all’improvviso contro la Chiesa di Cristo, contro il beato Vescovo e Martire Cornelio, e contro voi tutti; cioè per confondere e respinger gli eretici ha voluto Iddio mostrare, qual è la Chiesa, quale quel Vescovo unico per divina ordinazione eletto, quali i Preti per sacerdotale onore congiunti col Vescovo, quale il vero popolo adunato con Cristo, e il gregge del Signore in carità unito, chi erano gli assaliti dal nemico, e quali all’incontro quelli, che il demonio come suoi risparmiava. Imperocchè l’avversario di Cristo non perseguita, e non assalta se non i soldati e gli accampamenti di Cristo. – Gli eretici già abbattuti una volta e fatti gli suoi non gli cura, e trapassa. Quelli cerca di abbattere, che stanno ancora in piedi. Hæreticos prostratos semel, et suos factos contemnit, et præterit. Eos quaerit deticere quos videt stare (Cyprian. ep. 58). In conseguenza la persecuzione distingue i fedeli a Cristo, e i suoi nemici, gli fa discernere a tutti, gli divide e separa anche esterna- mente dal corpo della Chiesa, ond’essa possa gloriarsi di essere l’unica e vera Sposa di Cristo. – Sappian dunque gli eretici, perché poterono essere risparmiati dagl’increduli, perché poterono vivere in pace con essi, perché ritener poterono i loro altari, perché non furon dispersi sulla terra, perché furono eziandio rispettati ed onorati dagli empii. Neque enim persequitur, et impugnat Christi adversarius nisi castra, et milites Christi. Essi non erano soldati di Cristo, non appartenevano a quella Chiesa, che viene abborrita ed assalita dall’inferno. Per questo non hanno la gloria di esser perseguitati dagli infedeli, con cui se non sono affatto congiunti, hanno per altro un nodo di Non remota consanguineità, che gli rende tollerabili al loro cospetto. Alla sola Cattolica Chiesa appartiene il cimento della persecuzione e la palma della vittoria. – Anzi v’è ancora di più. La persecuzione, che rispetta gli eretici e gli distingue, gli separa altresì come abbiam detto visibilmente dalla Chiesa, e con ciò dai maligni umori si purga il di lei corpo. Imperocchè v’ha degli eretici che si divisero esternamente dal corpo di Gesù Cristo, o innalzarono a parte una Chiesa, e conoscer si fecero, che non erano dei nostri, perché con noi non rimasero. Ex nobis prodierunt, sed non erant ex nobis: nam st fuissent ex nobis, mansissent utique nobiscum (1 Ioan. II, 19). Ma v’ha ancora di quelli, i quali benché pei loro errori non più appartengono all’anima della Chiesa, nondimeno esternamente partecipano a’ suoi riti e a’ suoi Sacramenti; lupi, che vivono fra l’armento ricoperti della pelle d’agnello, e divorano impunemente il fedele e innocente gregge di Cristo. Questi appiattati nell’ovile arriverebbero a poco a poco a trasformare gli agnelli medesimi in lupi, a comunicare ad essi la loro falsa dottrina, e a cangiare il regno di Dio nel regno dell’errore e della incredulità. Ma il folgore della persecuzione gli sbalordisce e gli spaventa dosso la pelle: gittan di insidiosa, sbalzano fuor della Chiesa per isfuggir la tempesta, e compariscono quali erano ma non conosciuti, scaltri e maligni nemici della Chiesa medesima. Allora il Fedele si mera- viglia insieme e si consola; e la Chiesa sgravata di questi perniciosi umori acquista uno stato di più vegeta sanità. Hæretici… sic sunt în corpore Christi, sicut humores mali. Quando evomuntur, tunc relevatur corpus; sic et mali quando exeunt tunc relevatur Ecclesia (S. August. Tract. 3 in epist. S. Ioan. num. 4). Né di questi soli si sgrava in tempo di persecuzione la Chiesa, ma eziandio di tanti rapaci, superbi, molli e dissutili, che disonorano la di lei santità. Anche questa separazione appartiene alla di lei gloria e alla di lei conservazione. Imperoechè la Chiesa è santa principalmente per la santità del suo Capo, della sua Fede e della sua Legge, ma poi anche secondariamente, perché in essa fioriscono degli uomini per santità insigni, e perché in essa si conserva la purità de’ costumi. Ma questo estrinseco lustro di santità e di purità verrebbe in essa ad intorbidarsi, e a perire quasi del tutto, se la pace e il riposo prendessero in lei uno stabile domicilio. Ella è questa la condizione delle umane cose stabilita nella fragilità, nella malizia e nella volubilità del cuor dell’uomo, e accertata in ogni tempo dall’esperienza maestra. La pace, il riposo, l’abbondanza e sicurezza ammolliscono l’animo, e lo preparano ad ogni sorte di vizi. Allora il lusso, la morbidezza, l’intemperanza, la sete di acquistare, la scostumatezza del vivere s’introduce, si moltiplica e diventa costume. Allora si macchia al di fuori la purità e la santità della Chiesa, e la trascuranza dell’educazion giovanile, e lo scandalo della pubblica dissolutezza rendono il vizio nelle successive generazioni trionfante, irreparabile e perpetuo. Permette dunque Iddio, che allora massimamente insorga il vento della persecuzione, il qual risveglia la vigilanza dei suoi ministri, atterrisce i peccatori, separa dal grano la paglia, e monda 1’aia della Chiesa di Gesù Cristo. – Chi crederebbe mai, che nel terzo secolo della Chiesa la feroce persecuzione di Decio fosse stato il rimedio apparecchiato da Dio a rinvigorire l’ecclesiastica disciplina infievolita e corrotta dall’ozio di una lunga pace? E pure questo è ciò, che attesta espressamente l’eloquentissimo S. Cipriano (lib. de Lapsis). Ha voluto, egli dice, il Signore, che fosse provata la sua famiglia, e poiché una lunga pace aveva corrotto la disciplina dataci da Dio, la celeste punizione risvegliò la Fede, che giaceva, e per così dire dormiva. Quia traditam nobis divinitus disciplinam pax longa corruperat, iacentem fidem, et pœne ut ita dixerim dormientem censura cœlestis erexit. E quali erano i vizi, che nel seno di quella pace avean gittate tra i Fedeli di que’ primi tempi le velenose radici? Seguite a leggere S. Cipriano in quel luogo, e vi troverete una minuta descrizione della corruttela, che erasi già introdotta fra le lusinghe del riposo in mezzo al gregge dei Fedeli. Tutti attendevano, egli dice, ad accrescere il lor patrimonio, e dimenticati di ciò, che i Fedeli avean fatto sotto gli Apostoli, e che sempre avrebber dovuto praticare affaticavano con insaziabile cupidigia a moltiplicar le sostanze. Non si vedeva divozion religiosa ne’ sacerdoti, non fedeltà sincera nei ministri, non misericordia nelle opere, non disciplina ne’ costumi. Corrotta negli uomini la barba, e miniata la faccia nelle femmine. Insidiavano gli occhi adulteri alle creature di Dio, e si dipingevano con fallaci colori i capelli. Astute frodi si mettevano in opera per ingannare i semplici, e si meditavan le arti più inique per circonvenire i fratelli. Con gli infedeli stringevasi il legame del matrimonio, e si prostituivano a’ gentili le membra di Cristo. Non sol si giurava inconsideratamente, ma si spergiuava, si sprezzavano con alterigia i superiori, si scagliavano a vicenda velenose maledizioni, e si nutrivano odi e discordie pertinaci. Moltissimi Vescovi, ai quali incombeva di esortar gli altri, e di porgere ad essi buon esempio, negligentando il divin ministero erano divenuti procuratori de’ secolari negozi, e lasciata la cattedra, e abbandonato il popolo scorrevano straniere provincie, andando a caccia di lucrosa mercatura, volendo in mezzo alla penuria de’ fratelli abbondare di argento, usurpando con insidiose frodi gli altrui fondi, e moltiplicando usure per aumentare il guadagno. Che cosa non meritavamo noi di soffrire per così fatti peccati? Iddio l’aveva a noi prenunziato e predetto- Ma noi dimentichi delle leggi e dell’osservanza, e sprezzando i divini comandi abbiam costretto Iddio a ricorrere ai più severi rimedii per correggere i nostri delitti e per provare la nostra fede. Sin qui il santo martire Cipriano. Io Vi prego intanto a confrontare questa descrizione colle nostre passate prevaricazioni, e a riflettere, se una persecuzione era necessaria anche per noi a risvegliare la fede sopita in seno di una lunghissima pace. Fingete, che Dio rendesse perpetua nella sua Chiesa la pace, in tal caso moltiplicherebbe in modo la zizania, che non avrebbe più luogo a spuntare e a germogliarvi il grano. V’è dunque un tempo di mietitura, in cui il Celeste Agricoltore ordina a’ suoi ministri di mietere il campo, e di separar dal grano la zizania. Dopo di che innaffiando di nuovo colle sue grazie il campo, e gittandovi nuova semenza, lo apparecchia a produrre una messe più eletta. E perché dormendo i custodi in tempo di pace, torna il nemico e seminarvi nuova zizania, un’altra mietitura è preparata ai Fedeli, e succedendo a vicenda la tempesta a riposo, o s’impedisce, che perisca affatto la santità nella Chiesa. Così la divina provvidenza ha ordinate le tribolazioni alla salute e alla santità degli eletti. La guerra medesima, riflette Teodoreto parlando della persecuzione Persiana (lib. 5, cap. 38); la guerra medesima, come ci mostra l’esperienza, suole apportare maggior vantaggio, che non la pace; perché la pace ci rende molli, infingardi e timidi; ma la guerra scuote e risveglia gli animi, e costringe a disprezzare i beni della presente vita, come beni caduchi. Confermerò il sin qui detto con un passo simile a quello di S. Cipriano, tratto dall’istorico Eusebio, il quale fu testimonio della posteriore atrocissima persecuzione di Diocleziano, e minutamente assegna la ragione per cui Dio la permise, nell’eloquente sua narrazione. Ecco dunque le parole, i sentimenti, e le riflessioni di questo Storico (Euseb. hist. Eccl. lib. 8, cap. 1: « Io certamente, dic’egli, non posso adeguatamente spiegare, quale e quanta gloria, e insieme libertà aveva conseguita presso i Greci non solo, ma eziandio presso i Barbari avanti questa persecuzione la dottrina del vero culto verso il Dio supremo annunziata da principio agli uomini da Gesù Cristo. Può esserne bastante argomento la benignità degl’Imperatori verso i nostri, ai quali commettevan persino il governo delle provincie, liberandoli dal timore di dover prestarsi ai sacrifici, per quella singolar benevolenza, da cui verso la religion nostra eran compresi. Che duopo v’è di parlar di quelli, che godean cariche negl’imperiali palagi, o degl’imperatori medesimi, i quali aveano accordata facoltà ai domestici, e loro mogli, figliuoli e servi di esercitare liberamente e colle pratiche, e coi discorsi la lor religione sotto i propri occhi; e permetteano ad essi di gloriarsi in certo modo, e di far ostentazione della libertà della lor fede; e con singolar amore sopra tutti gli altri ministri gli abbracciavano. Così pure avreste veduto riveriti e amati tutti i Prelati delle Chiese e dalle persone private, e dai reggitori delle provincie. E chi potrà interamente descrivere l’innumerabil moltitudine degli uomini, che si rifugiavano quotidianamente in seno alla Fede di Gesù Cristo; chi il numero delle Chiese aperte in tutte le città; chi il luminoso concorso dei popoli ai sacri edifizi? Donde avvenne, che non bastando l’antiche fabbriche, s’innalzarono dai fondamenti spaziose Chiese in ciascuna città. Né tali stabilimenti, che ogni giorno in meglio crescevano, poterono dal livore distruggersi, né dalla malignità de’ demonii, né dalle insidie degli uomini, sinché la destra dell’Onnipotente Iddio protesse e custodì il suo popolo, ch’erasi reso degno di tal presidio. Ma poiché noi per la troppa libertà eravamo divenuti negligenti e pigri; poiché cominciarono ad invidiarsi l’un l’altro, e a mormorare; poiché tra noi si destarono guerre intestine, e colle parole quasi con armi ed aste l’un l’altro ferivansi; poichè i Prelati contro i Prelati, e i popoli contro i popoli eccitavan discordie e tumulti; in fine, poiché la frode e la finzione erano giunte al sommo della malizia; allora con leggier colpo, come è solito, a poco a poco e moderatamente cominciò la divina vendetta a muoversi contro di noi, essendo ancora intatto lo stato della Chiesa, e adunandosi liberamente per anco i Fedeli; e dié principio la persecuzione contro quelli, che militavano. Ma posciachè privi d’ogni senno, non pensavano neppure a placare l’ira divina: che anzi piuttosto a somiglianza degli empii giudicando, che le umane cose non vengono dalla cura e provvidenza di Dio governate, e aggiungevamo ogni giorno delitti a delitti; mentre i nostri Pastori non curando le regole della Religione con iscambievoli contese fra lor combattevano, non attendendo ad altro, che ad acerescer le ingiurie, le minacce, l’emulazione, gli odii e le scambievoli inimicizie; vendicando con somma contenzione a se stessi la prelatura, come una tirannide; allora finalmente, conforme all’espressione di Geremia, oscurò il Signore nella sua collera la figlia di Sionne, e precipitò dall’alto la gloria d’Israele, e mostrò di non ricordarsi nel giorno dell’ira sua dello sgabello de’ suoi piedi. Sommerse il Signore ogni decoro d’Israele, e distrusse tutti i muri di sua difesa. E come è predetto nei Salmi, rovesciò il testamento del suo servo, profanò in terra la di lui santità, vale a dire colla sovversion delle Chiese distrusse tutti i suoi ripari, e gli dié per baluardo il timore. Lo depredarono tutte le turbe del popolo, che passavan per via; laonde divenne l’obbrobrio de’ suoi vicini. Imperocchè Iddio esaltò la destra de’ suoi nemici, e gli tolse l’aiuto della sua spada, né gli prestò soccorso nella guerra. Lo purificò sino all’ultimo, e fece in pezzi il di lui soglio battendolo a terra. Scemò i giorni della sua vita; e lo coprì d’ignominia. Hæc omnia nostris temporibus completa sunt.» Son queste tutte parole di Eusebio. – Ma non debbo omettere un bel passo di S. Giovanni Grisostomo, laddove spiega il capo terzo di S. Matteo, perché troppo fecondo di utili riflessioni. « L’aia, dic’egli, è la Chiesa; il granaio è il regno celeste, e il campo è questo mondo. Siccome adunque un padre di famiglia mandando i mietitori raccoglie le spighe dal campo, e le trasporta nell’aia per ivi triturarle e vagliarle, e per separare il grano dalla paglia: così il Signore mandando gli Apostoli e gli altri dottori quasi mietitori, recise dal mondo i gentili, e gli ragunò nell’aia della Chiesa. Qui dobbiamo esser battuti, e vagliati. Imperocché siccome il grano racchiuso nella paglia non esce fuori, se non vien battuto: così anche l’uomo dagl’impedimenti mondani e dagli affetti carnali, in cui trovasi quasi in paglia inviluppato, difficilmente si stacca se non viene agitato da qualche tribolazione. E siccome il grano, che è pieno, appena leggermente percosso, sbuca fuori dalla sua pelle: ma se è sottile e macilento, tarda di più: se poi è vuoto, non esce mai fuori, ma resta pesto dentro la stessa sua buccia, e in conseguenza è gittato fuori insiem colle paglie; così tutti gli uomini stanno come in paglia racchiusi nei loro affetti carnali. Ma chi è fedele e di buona volontà, ed ha dentro il midollo della virtù, appena è leggermente tribolato, sbuca fuori de’ suoi carnali diletti, e se ne corre a Dio. Ma se è alquanto infedele, fa d’uopo di grande tribolazione, per farlo sortire della sua carne, e andarsene a Lui. Chi è poi veramente infedele e vuoto per quanto sia pesto, siccome il grano vuoto non sbuca fuori della sua paglia, così né pur egli mai si sviluppa da’ suoi carnali desiderî, e dai mondani impedimenti; né passa in seno a Dio; ma nei suoi mali si pesta e s’indura, per esser poi cacciato fuori dell’aia insieme cogl’infedeli… Ma forse direte; non era meglio, che Dio sin da principio avesse chiamato tutti gli eletti al Cristianesimo, affinché non fosse bisogno di sempre vagliare la Chiesa, ma dessa se ne stesse piuttosto in pace? Rispondete: potreste voi, mentre avete ancora la messe nel campo, separare dalle paglie il grano? No: ma se tentaste una cosa simile, non dividereste il grano dalla paglia; bensì piuttosto perdereste amendue. Così dunque non era possibile il discernere e il chiamare gli eletti di mezzo ai Giudei, o ai Gentili senza la tentazione; perché chi non conosce Cristo, né la sua parola, se commette errore o peccato, non si sa se lo commetta per mal animo, ovvero per ignoranza. Ma chi ha conosciuto Cristo e la sua Legge, e contuttociò cade in errore e in peccato, è troppo chiaro, che non erra né pecca per non saper chi sia Dio, e qual sia la sua volontà, ma perché non ama la legge di Dio. E questo come può scuoprirsi senza la tentazione? Imperocché se nello stadio non si mette in vista la palma, non potete mai incolpare l’atleta, il quale non vuol entrare nella lotta, come uomo debole e fiacco; perché non si sa, se si ritiri dalla lotta per essere debole e fiacco, o pure perché non vede proposta a’ vincitori la palma. Che se vede la palma, e rifiuta di lottare, allora è chiaro, che per la sua pigrizia lo rifiuta. Così anche il gentile, che ignora il futuro giudizio e il premio della risurrezione, non si può conoscere, se lasci di fare il bene, perché non l’ama, o pure perché non ne spera alcuna mercede. Che se poi diverrà Cristiano, e sarà istruito del futuro Giudizio, allora peccando mostrerà chiaramente, che pecca, perché non ama il bene. Ma voi forse ripiglierete così, questo va bene tra gli uomini, ma non con Dio, che conosce i cuori, e prevede il futuro, e così poteva ben Egli sapere senz’altro di che volontà ciascuno sarebbe. Ma rispondo: nel giusto giudizio di Cristo non si cerca solo, ch’Egli conosca la rettitudine del suo giudizio sull’uomo, ma si vuole altresì, che l’uomo stesso conosca di essere rettamente giudicato da Cristo col testimonio de’ suoi pensieri, e colla prova delle sue azioni, siccome sta scritto: Cogitationibus invicem accusantibus, aut etiam defendentibus în die, cum iudicaverit Deus occulta hominum [… dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono]. (Rom. II, 15). Se dunque l’uomo senza conoscer Cristo, né la sua legge, fosse condannato solamente dalla sapienza di Dio, come potrebbe capire di essere stato giustamente condannato? Imperocchè è ben vero, che Dio conoscitore de’ cuori sa di condannarlo giustamente; ma il peccatore non saprebbe di essere giustamente condannato, e potrebbe dire: Ancor io se avessi avuto cognizione di Cristo, avrei osservata la sua fede e la sua legge. Perciò Cristo tutti chiamò alla cognizione della verità, affinché si veda manifestamente, che i peccatori non per ignoranza, ma per cattiva volontà peccarono; e rinunziando a Cristo si diedero volontariamente al partito del demonio. È dunque necessario, che tutti e buoni e cattivi si faccian Cristiani, e che tutti ricevano il lume della verità, sinché poi sopravvenendo la tentazione pochi si eleggan tra i molti, e s’adempia ciò, che sta scritto; Multi sunt vocati, pauci vero electi (Matth. XX). Ditemi: siete voi degno di reprensione, perché separate il grano dalla paglia, e così separato lo riponete ne’ granai? Questo poi no; né sarebbe ben fatto di riporre insiem col grano le paglie, le quali non sono necessarie per vostro uso. E perché dunque incolperemo Iddio, che dai fedeli separa gl’infedeli, i quali non giovano alla sua gloria? Con questo di più, che quelle paglie hanno dalla natura l’esser paglie, né possono mai esser grano: ma gl’infedeli sono infedeli non per natura, ma per cattiva lor volontà, non volendo in se ritenere il midollo della giustizia. Se dunque quelle paglie, che non possono esser mai grano, pur tuttavia si brucian nel fuoco; quanto più ragionevolmente arderanno nel fuoco gl’infedeli, che potevano divenire grano, se non avessero rifiutata la giustizia? » Sin qui il Grisostomo. Voi potete di qui rilevare, quanto era giusto, che Iddio facesse raccogliere colla rete della predicazione e giusti e malvagi nella sua Chiesa per giustificare la sua sincera volontà di salvar tutti gli uomini; ma quanto insieme era necessario, che lasciasse a ogni tratto libero il corso alla persecuzione per separare i malvagi dai giusti, riparando così all’onore della sua Sposa, e preservando gli eletti dalla corruzione, in cui cadrebbero per gli esempi e per la compagnia dei malvagi. So benissimo quel che opporrete a questa riflessione, cioè che la violenza della persecuzione mette a cimento anche i giusti medesimi, e che nella persecuzione vi sono ancora de’ buoni, che cadono vinti dalla tentazione, e i quali senza questa sorte di tentazione avrebber perseverato nel bene sino alla morte. Ma primieramente ignorar non potete, che la tentazione è fatta appunto dirò così per i giusti, perchè Iddio vuol prender prova della lor fedeltà, e questa prova non è mai così luminosa quanto, allorquando è assalita la fede e perseguitata la virtù. Dio vi tenta, diceva Mosè agli Ebrei, affinchè si manifesti, se l’amate, o no, con tutto il cuore e con tutta l’anima (Deut. XIII, 14). Egli tenta, cioè fa prova dell’amore e della fedeltà de’ giusti, vuole, ch’essi medesimi conoscano alla prova, se temono veramente Iddio, fa ad essi toccar con mano la propria debolezza, e la necessità della sua grazia, gli assiste intanto co’ suoi aiuti, e gli solleva per mezzo della tribolazione a un grado più sublime d’umiltà, di coraggio, di fiducia, d’amore pér lui. Così è, dice S. Paolo: omnes qui pie volunt vivere in Christo Iesu, persecutionem patientur (2 Timot. III, 12). I nostri Padri soffrirono anch’essi ignominie e battiture, carcere e catene; furono lapidati, segati per mezzo e tentati; moriron di spada, e girarono vagabondi, vestiti di rozze pelli, mendici, angustiati ed afflitti, erranti per le solitudini, nei monti, nelle spelonche e nelle caverne della terra. Essi furono tutti tentati per la confession della fede. Et hi omnes testimonio fideî probati (ad Hebr. XI, 39). Le Sacre Carte sono così piene di questa verità, che non può concepirsi, come un Cristiano possa prenderne meraviglia, e dimostrarsene quasi ignaro. Né crediate, che sia sì facile la prevaricazione dei veri giusti nel tempo della persecuzione. Non tutti quelli, che giusti appariscono, tali sono veracemente al cospetto di Dio, che penetra nel fondo dei cuori. L’uomo giusto e temente Iddio è quegli, che adempie tutta la legge, ed ama Iddio con tutto il cuore e con tutta l’anima; e perché molti vi sono, che giusti compariscono fallacemente agli occhi propri e a quelli del mondo, per questo vuole Iddio, che per mezzo della persecuzione si renda a tutti palese la verità. Niuno pensi, dice S. Cipriano, che i buoni possano separarsi dalla Chiesa. Nemo existimet bonos ab Ecclesia posse recedere (S. Cyprian. De Unît. Eccl.). Niuno, attesta S. Agostino, si trasferisce al partito degli eretici, se non il peccatore. Non enim quisquam în eos sectandos incidit, nisi peccator (S. August. in Psalm. 10). – L’eresie, aggiunge Tertulliano, hanno molto vigore contro quelli che non han vigore nella fede. Hæreses apud cos multum valent, qui in fide non valent (Tertullian. de Præscript. cap. 2). Quindi rare volte si verifica, che trascinati dall’impeto della tentazione periscano fuor della Chiesa coloro che nella Chiesa si sarebber salvati. Ex his enim hominibus hæretici fiunt, qui etiam si essent in Ecclesia, nihilo minus errarent (Sanctus August. de vera Relig. cap. 8). E infatti quali furono coloro, che prevaricarono nella persecuzione di Decio? Quelli, di cui S. Cipriano avea descritti i perversi costumi, e che erano soverchiamente solleciti di conservare il loro patrimonio, non già que’ giusti e timorati di Dio, che aveano il cuore distaccato dal disordinato amore dei beni della terra. « Dissimulanda, fratres dilectissimi, veritas non est, nec vulneris nostri materia et causa reticenda. Decepit multos patrimonii sui amor cæcus, nec ad recedendum parati aut expediti esse potuerunt, quos facultates suæ velut compedes ligaverunt. Illa fuerunt remanentibus vincula, illæ catenæ, quibus et virtus retardata est, et fides pressa, et mens vincta, et anima præclusa, ut serpenti terram secundum Dei sententiam devoranti præda et cibus fierent, qui terrestribus inhærerent (S. Cypr. de Lapsis).» Egli è dunque falso, che molti si perdano nella persecuzione di quelli, che senza la persecuzione si sarebber salvati. Imperocchè d’ordinario la persecuzione sorprende la Chiesa nel tempo, in cui corrotti i costumi de’ Fedeli pochi di loro si salverebbero in essa. – Così rifletteva il Grestsero essere accaduto nella Germania innanzi all’invasione delle eresie di Lutero e di Calvino. Inscitiæ ruditate, morum corruptela, et omnium Ordinum tum politicorum, quam ecclesiasticorum depravatione, quæ ante Lutheranam, et Calvinianam hæresim Germaniam insederant, quam pauci salvabantur (in lib. haereticor. iudex Oper. Tom. 17, cap. 10). Anzi quanto non acquistano di guadagno i giusti dalla persecuzione? Imperoechè qual è quell’uomo sì giusto, il quale possa presumere di non essere a Dio debitore per le sue colpe? Quis est homo, ut immaculatus sit, et ut iustus appareat natus de muliere? Ecce inter sanctos eius nemo immutabilis, et coeli non sunt mundi in conspectu eius (Tob. XIII). Ora la persecuzione gli mette in istato di soddisfare alla divina giustizia per le loro colpe, e di purgare più leggermente in questa vita que’ difetti, che avrebbero dovuto più gravemente scontare nell’altra. Non basta. Essa fa loro conoscere delle colpe, che a Dio sommamente dispiacevano, e che gli avrebber finalmente strascinati ad eccessi, e ne procura in essi la detestazione e l’emendazione. Nel tempo di pace e di riposo il torrente, che. strascina con sé le pianticelle sottili insidia ancora alle radici delle piante più robuste, e le divelte finalmente insieme col terreno, in cui sono piantate. L’ozio e la morbidezza dominante, il desiderio dei comodi e dei piaceri della vita, il genio di crescere di grado e di dilatare i possedimenti antichi con nuovi acquisti, insensibilmente si apprende anche alle persone oneste e timorate. Si diminuisce la cognizion del disordine, quando è diventato comune, non si apprende più per quello, ch’è veramente, l’uomo comincia a reputarsi innocente, perché è più riservato degli altri nelle soddisfazioni, che accorda alle sue passioni. Se questo stato di calma fosse durevole, non resterebbe quasi più nessun giusto sulla terra. Ma nella persecuzione l’uomo giusto si trova necessitato a rinunziare a tutti gli agi superflui, e a non pensare ad altri acquisti, mentre è costretto ad abbandonare anche gli antichi. Deve rinunziare un posto, che non può più ritenere salva la legge di Dio e la sua coscienza. Non ambisce più degl’impieghi e degli onori, che non si possono accordare colla sua fede. Una felice necessità distacca il suo cuore dai beni della terra, e a proporzione di questo distacco egli si accosta e si avvicina a Dio. Perciò nel tempo delle persecuzioni si formano quelli uomini eroicamente virtuosi, che servono d’esemplare alle future generazioni, e che hanno fatto in ogni tempo la gloria della cattolica Religione. Se la persecuzione arriva a togliere e ad interdire il culto pubblico, si vedono intiere private famiglie emulare il fervore e la carità de’ primitivi Fedeli. – Che se finalmente alla persecuzione succede la pace, che spettacolo di gioia, e di trionfo non si presenta allora agli occhi di tutta la Chiesa! Con quali colori, e con quali espressioni ci ha lasciato dipinto questo trionfo l’eloquente S. Cipriano! « È arrivato, egli diceva, quel giorno da tutti desiderato, e dopo la tetra orribile caligine di lunga notte comparve dalla divina luce rischiarato il mondo. Rivediamo con gioia i Confessori, che si sono segnalati per il loro buon nome e per la fama della lor fede, e non sappiamo stancarci nel baciarli e nello stringerli con insaziabile soddisfazione fra le nostre braccia. Avete resistito valorosamente al mondo, presentaste uno spettacolo glorioso agli occhi di Dio, foste d’esempio a quelli, che verranno dopo di noi. Quelle mani illustri, e assuefatte continuamente alle sacrosante azioni resistettero ai sacrilegi sacrifizii; e le labbra santificate dal cibo celeste del Sangue e del Corpo del Signore rifiutarono il profano contatto degli avanzi degl’idoli. La vostra fronte immacolata non potè soffrire, che la corona del demonio riposasse sul luogo, dov’era impresso il segno di Dio, e si riservò a cingere la corona del Signore. Oh con qual allegrezza vedendovi ritornare dalla battaglia vi abbraccia nel suo seno la Chiesa! Oh come beata e giuliva spalanca le sue porte, perché a schiere possiate entrarvi coi trofei dei superati nemici Vengono! cogli uomini trionfanti anche le femmine, le quali combattendo col secolo vinsero ancora il proprio sesso. Vengono in doppia schiera di gloria le verginelle e i fanciulli, che sorpassarono gli anni colla loro virtù. E tutta l’altra moltitudine segue la vostra gloria, e accompagna con insegne quasi eguali i vostri passi » (S. Cyprian. de Lapsis).

[1 Continua …]

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX- “NULLIS CERTE”

« …Nel mondo sarete angustiati; ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo” (Gv XVI, 33); Beati coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia (Mt V,10), siamo preparati a seguire le illustri vestigia dei Nostri Predecessori, ad emularne gli esempi, e a patire ogni cosa sopra ed acerba, ed anche a dare la vita, anziché disertare in alcun modo la causa di Dio, della Chiesa e della giustizia. » Questo è ancora il motto che deve animare un “vero” Cattolico a resistere all’azione delle forze del male che si abbattono costantemente sulla Chiesa Cattolica, come del resto nel santo Vangelo è ampiamente preannunziato citando le feroci persecuzioni che i “congregati delle nazioni” scateneranno sulla Chiesa, sui credenti laici e chierici, sulle società e popoli cristiani. Qui il Santo Pontefice rivendica per sé e su tutti Cattolici del mondo i diritti della Santa Sede a cui veniva “consigliato” da un Imperatore francese di cedere i territori ribelli, ubbidendo ai “suggerimenti” delle logge massoniche che lo sostenevano nel suo dominio, prima poi di rovesciarlo rovinosamente sostituendo il suo traballante impero con una repubblica chiaramente di ideologia massonica che tuttora angaria quel popolo un tempo cristiano. La persecuzione è continuata in maniera subdola, fino alle vicende attuali, in cui è divenuta la più terribile di ogni tempo, molto più delle celebri dieci della Chiesa nascente. Molti penseranno che la persecuzione non ci sia ancora ma … ciechi che non comprendono che le persecuzioni materiali, fanno soffrire, e possono perfino uccidere il corpo, procurando nel contempo un merito straordinario al martire consapevole di affrontare anche la morte nell’attesa della eterna beatitudine. Come molti dottori della Chiesa hanno sapientemente rilevato, alle dieci persecuzioni degli imperatori romani, sono susseguite le persecuzioni ben più insidiose per l’anima: quelle delle eresie succedutesi dal IV secolo in poi … arianesimo, ebionismo, monofisismo, monotelismo, pelagianesimo, semipelagianesimo, macedonianesimo …. luteranesimo,  e diverse altre fino al giansenismo, all’americanismo, al fineysmo … in successione e tutte in condizione di uccidere, come hanno fatto, un’infinità di anime. Ma, oggi che viviamo il modernismo anticristiano della sinagoga del demonio infiltrata nei palazzi vaticani, e che come sapientemente affermava il Santo Pontefice Pio X, è la somma di tutte le eresie, noi abbiamo la persecuzione contemporanea e concentrata di tutte le eresie, persecuzione più dannosa che mai, perché non percepita come tale dalla quasi pressoché maggioranza degli esseri umani che, pertanto, andando incontro alla morte certa dell’anima – pur restando il corpo indenne da lesioni – è votata all’eterna dannazione. È questa veramente la persecuzione di gran lunga la peggiore – anche senza aspettare il marchio della bestia ed il tatuaggio-chip sottopelle – perché occulta, inconsapevole e che dà la morte elargendo apparentemente salvezza, come la morte di un malato che, credendo oltretutto di assumere un rimedio salutare alla sua malattia, ingerisce un veleno dolce, ma mortale, e qual morte …. quella eterna dell’anima! Ancora una volta le profezie bibliche sono state esatte fino all’ultima virgola, trattino, apex… Almeno noi del pusillus grex cerchiamo di farci trovare nell’osservanza operosa della fede quando il Signore Gesù nostro Giudice verrà a giudicarci per poter essere incoronati, dopo le feroci persecuzioni, dalla eterna gloria.


Pio IX
Nullis certe

Noi non possiamo certamente spiegarvi a parole, Venerabili Fratelli, quanto gaudio e quanta letizia, fra le Nostre gravissime amarezze, Ci abbiano recato sia da parte di Voi tutti, sia dei Fedeli affidati alle vostre cure, la singolare e meravigliosa fede, la pietà e l’osservanza verso Noi e questa Sede Apostolica, e l’egregio consenso, l’alacrità, il fervore e la costanza nel difendere i diritti della medesima Sede e nel patrocinare la causa della giustizia. Infatti, allorché prima della Nostra Lettera Enciclica a Voi spedita il 18 giugno dell’anno scorso, e poi dalle Nostre due Allocuzioni concistoriali, con sommo dolore del vostro animo conosceste i gravissimi mali da cui erano miseramente colpite le cose sacre e civili in Italia. Voi comprendeste gli iniqui e temerari moti di ribellione contro i legittimi Principi della stessa Italia, e contro il sacro e legittimo Principato Nostro e di questa Santa Sede; Voi, secondando tosto i Nostri voti e le Nostre cure, non frapponendo alcun indugio, vi affrettaste con ogni zelo ad ordinare nelle vostre diocesi pubbliche preghiere. Quindi non solo con le vostre lettere, piene di profondo ossequio e carità a Noi inviate, ma anche con le lettere pastorali e con altri scritti dotti e religiosi, diffusi nel popolo, alzaste l’episcopale vostra voce – con lode insigne del vostro Ordine e del vostro nome – a propugnare strenuamente la causa della santissima nostra Religione e della giustizia, e a condannare con ogni vigore i sacrileghi attentati commessi contro il civile Principato della Chiesa Romana. Difendendo costantemente questo Principato, vi siete compiaciuti di professare e di insegnare che esso fu dato al Romano Pontefice per singolare disegno di quella divina Provvidenza che regge e governa ogni cosa, affinché Egli, per il fatto di non essere mai soggetto a nessun potere civile, possa esercitare sopra tutto il mondo, con pienissima libertà e senza alcun impedimento, il supremo ufficio del ministero apostolico a Lui divinamente affidato dallo stesso Nostro Signore Gesù Cristo. – Ammaestrati dalle vostre istruzioni e trascinati dal vostro egregio esempio, i figliuoli a Noi carissimi della Chiesa Cattolica con sommo impegno gareggiarono e gareggiano per esprimerci da parte loro i medesimi sentimenti. Infatti da tutte le regioni dell’intero orbe cattolico ricevemmo innumerevoli lettere, sia di ecclesiastici, sia di laici, d’ogni dignità, ordine, grado e condizione, e perfino lettere sottoscritte da centinaia di migliaia di Cattolici, con le quali essi manifestano e confermano la loro venerazione e devozione filiale verso di Noi, e verso la Cattedra di Pietro; detestando fortemente la ribellione e gli attentati commessi in alcune Nostre province, sostengono che il patrimonio del beato Pietro debba assolutamente conservarsi integro ed inviolato, e si debba difenderlo da ogni offesa; ciò non pochi, tra loro, dimostrarono con dottrina e sapienza in libri appositamente dati alla luce. Ora, queste preclare manifestazioni sia Vostre, sia dei Fedeli, meritevoli certamente di ogni lode ed encomio, e degne di venire iscritte nei fasti della Chiesa Cattolica a caratteri d’oro, Ci commossero talmente che non Ci potemmo astenere dall’esclamare lietamente: “Benedetto sia Dio e il Padre del Signor nostro Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione, che così ci consola in sì travaglio“. Perciò in mezzo alle gravissime angustie dalle quali veniamo oppressi, nulla poteva riuscirci più gradito, nulla più giocondo, nulla più desiderato, che il vedere di quale concorde ed ammirabile premura Voi tutti, Venerabili Fratelli, siete animati ed accesi per difendere i diritti di questa Santa Sede, e con quale egregia volontà i Fedeli affidati alle vostre cure in ciò vi secondano. Quindi, Voi assai agevolmente potete pensare quanto la paterna Nostra benevolenza verso Voi e verso gli stessi Cattolici si accresca ogni giorno a buon diritto e meritatamente. – Ma, mentre il Nostro dolore veniva alleggerito da un così stupendo impegno ed amore sia Vostro, sia dei Fedeli verso Noi e questa Santa Sede, una nuova cagione di tristezza Ci venne da altra parte. Perciò Noi vi scriviamo questa Lettera, affinché in cosa di tanta importanza siano noti soprattutto a Voi i sentimenti del Nostro animo. Non molto tempo fa, come la maggior parte di Voi già conoscerà, venne dal giornale di Parigi, intitolato Moniteur, divulgata una lettera dell’Imperatore dei Francesi, con la quale egli rispondeva a una Nostra epistola, in cui con ogni calore pregavamo la Maestà sua imperiale a volere, col validissimo suo patrocinio nel Congresso di Parigi, mantenere integro ed inviolabile il dominio temporale Nostro e di questa Santa Sede, e rivendicarlo dalla iniqua ribellione. Ora, nell’anzidetta sua risposta quel supremo Imperatore, ricordando un certo suo consiglio propostoci poco tempo innanzi intorno alle province ribelli del Nostro dominio pontificio, Ci esorta a volere rinunziare al possedimento di quelle province, ritenendo che solo così possa ora rimediarsi al presente turbamento delle cose. – Ciascuno di Voi, Venerabili Fratelli, intende benissimo che Noi, memori del gravissimo Nostro dovere, non abbiamo potuto tacere dopo aver ricevuto una tale lettera. Perciò, senza frapporre indugio, Ci affrettammo a rispondere allo stesso Imperatore dichiarando limpidamente e apertamente, con apostolica libertà dell’animo Nostro, che in nessun modo affatto Noi potevamo annuire al suo consiglio, “perché esso presenta insuperabili difficoltà, tenuto conto della dignità Nostra e di questa Santa Sede e del Nostro Sacro carattere e dei diritti della stessa Sede, i quali non appartengono alla successione di qualche reale famiglia, ma bensì a tutti i Cattolici“. Contemporaneamente abbiamo manifestato “non potersi da Noi cedere ciò che non è Nostro, e che comprendiamo che la vittoria, che si vorrebbe fosse concessa ai ribelli dell’Emilia, sarebbe di stimolo agl’indigeni ed ai forestieri perturbatori delle altre province a fare la stessa cosa, vedendo la prospera fortuna toccata a quei primi“. Fra le altre cose, allo stesso Imperatore dichiarammo “non potere Noi rinunziare alle dette Province dell’Emilia, appartenenti al Nostro Pontificio dominio senza violare i solenni giuramenti dai quali siamo legati senza suscitare querele e moti nelle altre Nostre Province, senza recare ingiuria a tutti i Cattolici; infine, senza debilitare i diritti non solo dei Principi d’Italia, che furono ingiustamente spogliati dei loro domini, ma ancora di tutti i Principi del mondo cristiano, i quali non potrebbero con indifferenza vedere introdotti certi principii“. – Né abbiamo tralasciato di notare che “la Maestà Sua non ignorava con quali uomini, con quale danaro e con quali aiuti i recenti attentati di rivolte a Bologna, a Ravenna ed in altre città erano stati provocati e compiuti, mentre la massima parte di quei popoli, quasi attonita, si guardò dal partecipare a quegli scompigli inaspettati, e si mostrò del tutto aliena dal volerli seguire“. E poiché il serenissimo Imperatore credeva che Noi dovessimo cedere quelle Province pei moti di ribellione ivi di quando in quando suscitati, abbiamo risposto opportunamente che un argomento di tal fatta, come quello che prova troppo, non prova nulla. Infatti, moti non dissimili accaddero spessissimo sia negli Stati d’Europa, sia altrove; e nessuno pensa che da ciò si possa trarre motivo per diminuire il civile dominio di un legittimo Principe. – Non abbiamo omesso di esporre al medesimo Imperatore che l’ultima sua lettera era molto diversa dalla precedente, scritta a Noi prima della guerra d’Italia e che Ci recava non afflizione ma consolazione. Avendo poi giudicato, da certe parole della lettera imperiale pubblicata nel menzionato giornale, di dover temere che le predette Nostre Province dell’Emilia dovessero già considerarsi come separate dal pontificio Nostro dominio, perciò abbiamo pregato, in nome della Chiesa, la Maestà Sua di fare in modo, anche per il suo proprio bene e vantaggio, che tale Nostro timore fosse pienamente dileguato. E con quella paterna carità con cui dobbiamo provvedere alla eterna salute di tutti, gli abbiamo richiamato alla mente che da ciascuno si dovrà un giorno dare stretta ragione di sé al tribunale di Cristo, ed incontrare un giudizio severissimo; perciò ciascuno deve sforzarsi di pensare come sperimentare gli effetti della misericordia anziché quelli della giustizia. – Queste sono le cose principali che fra le altre abbiamo risposto al sommo Imperatore dei Francesi; le stesse cose abbiamo giudicato di dover completamente manifestare a Voi, Venerabili Fratelli, affinché Voi in prima, ed anche tutto l’Orbe cattolico, sempre più sappiate che Noi, aiutandoci Dio, pel gravissimo debito dell’ufficio Nostro, senza timore alcuno facciamo ogni sforzo, e non tralasciamo nessun tentativo per difendere con forza la causa della Religione e della giustizia, ed il civile Principato della Chiesa Romana. Noi facciamo ogni sforzo per mantenere costantemente integre ed inviolate le possessioni temporali della Chiesa e i suoi diritti, i quali spettano a tutto l’Orbe cattolico; con ciò provvediamo altresì alla giusta causa degli altri Principi. – Confidando nel divino aiuto di Colui che disse: “Nel mondo sarete angustiati; ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo” (Gv XVI, 33); “Beati coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia” (Mt V,10), siamo preparati a seguire le illustri vestigia dei Nostri Predecessori, ad emularne gli esempi, e a patire ogni cosa sopra ed acerba, ed anche a dare la vita, anziché disertare in alcun modo la causa di Dio, della Chiesa e della giustizia. Ma ben facilmente potete arguire, Venerabili Fratelli, da quanto dolore siamo trafitti vedendo da quale atrocissima guerra la santissima Nostra Religione, con grandissimo detrimento delle anime, è combattuta, e da quali turbini veementissimi è sconquassata la Chiesa, e questa Santa Sede. Facilmente ancora comprendete come gravissima sia la Nostra angoscia ben sapendo quanto è grande il pericolo delle anime in quelle sconvolte Nostre Province, dove, per opera specialmente di pestiferi scritti diffusi nel pubblico, la pietà, la Religione, la fede e l’onestà dei costumi di giorno in giorno vengono scosse. – Voi dunque, Venerabili Fratelli, che siete chiamati a partecipare della Nostra sollecitudine, e che con tanta fede, costanza e virtù vi accendeste a propugnare la causa della Religione, della Chiesa e di questa Sede Apostolica, continuate con maggior animo ed impegno a difendere la medesima causa, ed ogni giorno infiammate maggiormente i Fedeli affidati alle vostre cure, affinché essi, sotto il vostro indirizzo, non cessino mai di porre ogni opera, ogni impegno ed ogni consiglio per la difesa della Chiesa Cattolica e di questa Santa Sede, e per la conservazione del civile Principato della medesima e del Patrimonio del Beato Pietro, la tutela del quale appartiene a tutti i Cattolici. – Quello però che massimamente, per quanto sappiamo e possiamo, chiediamo da Voi, Venerabili Fratelli, che insieme con Noi, e unitamente ai Fedeli affidati alle vostre cure, porgiate senza interruzione fervidissime preghiere a Dio Ottimo Massimo affinché Egli comandi ai venti ed al mare, e col suo potentissimo aiuto assista Noi, assista la Sua Chiesa, sorga e giudichi la causa Sua; ed oltre a ciò con la celeste Sua grazia voglia, propizio, illuminare tutti i nemici della Chiesa e di questa Apostolica Sede, e con la onnipotente Sua virtù si degni di ridurli nelle vie della verità, della giustizia e della salute. – Affinché Iddio, supplicato da Noi, più facilmente porga l’orecchio alle preghiere Nostre e Vostre e di tutti i Fedeli, domandiamo soprattutto, Venerabili Fratelli, l’intercessione dell’Immacolata e Santissima Madre di Dio, Maria Vergine, la quale è di tutti noi amantissima Madre, speranza certissima e potente tutela e sostegno della Chiesa, e del cui patrocinio niente è più valido presso Dio. Imploriamo altresì il suffragio del Beatissimo Pietro, Principe degli Apostoli, che Cristo Signor Nostro stabilì quale pietra fondamentale della sua Chiesa, contro cui le porte dell’inferno non potranno mai prevalere; e chiediamo ancora il suffragio del suo coapostolo Paolo e di tutti i Santi, che con Cristo regnano in cielo. Non dubitiamo, Venerabili Fratelli, che Voi, per la vostra esimia religione e per il vostro zelo sacerdotale, nei quali siete sommamente prestanti, vorrete secondare solertissimamente questi Nostri voti e queste Nostre richieste. E frattanto, come pegno dell’ardentissima Nostra carità verso Voi, impartiamo l’Apostolica Benedizione, che muove dall’intimo del Nostro cuore, a Voi, Venerabili Fratelli, come a tutto il Clero, ed ai Fedeli laici affidati alla vigilanza di ciascuno di Voi.

Dato in Roma, presso San Pietro, il 19 gennaio 1860, anno decimoquarto del Nostro Pontificato.