LA PARUSIA (5)
PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE – Rue de Rennes, 117; 1920
ARTICOLO QUINTO
ARGOMENTO PERENTORIO DEI MODERNISTI: « VEGLIATE E PREGATE, PERCHÉ NON SAPETE QUANDO SARÀ IL MOMENTO. QUELLO CHE DICO A VOI LO DICO A TUTTI! VEGLIATE »
(Marc., XIII, 33-37).
Dopo aver esaminato separatamente il testo di San Luca da una parte, e quello di San Matteo e di San Marco, nella parte che è propria di questi due evangelisti, dall’altra, dobbiamo ora considerare le esortazioni alla vigilanza che, nei tre Sinottici indistintamente, seguono l’oracolo escatologico, e sono come la conclusione pratica, o, se volete, la lezione morale che Gesù ne trae. Perché anche se non sono parte integrante dell’oracolo stesso, queste raccomandazioni sono tuttavia, in relazione alla profezia stessa, un elemento di interpretazione di primaria importanza. Inoltre, esse costituiscono la base delle principali, più forti e più evidenti ragioni addotte dai nostri avversari. I modernisti, infatti, si domandano se erano davvero coloro che erano materialmente e fisicamente presenti, presenti nelle loro persone, presenti in carne e ossa, a cui erano rivolte le raccomandazioni di Gesù che leggiamo in San Matteo: « Vegliate dunque, poiché non sapete quando il vostro Signore verrà. E sappiate che se il padre di famiglia sapesse quando verrà il ladro, vigilerebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Siate dunque pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà in un’ora che non vi aspettate » (Matth. XXIV, 42-44). E in San Marco: « Fate attenzione, vegliate e pregate, perché non sapete quando sarà il momento. Così un uomo, lasciando la sua casa per andare in viaggio, assegna il suo compito a ciascuno dei suoi servi, e ordina al portinaio di vigilare. Vegliate dunque, perché non sapete quando il padrone di casa verrà, se alla sera, o a mezzanotte, o al canto del gallo, o al mattino; perché non venga all’improvviso e vi trovi addormentati. E quello che dico a voi lo dico a tutti, vegliate » (Marco, XIII, 33-37). E in San Luca: « Badate a voi stessi, che i vostri cuori non siano appesantiti dalla crapula, dall’ubriachezza e dalle preoccupazioni di questa vita, e che quel giorno vi piombi addosso all’improvviso; perché verrà come una rete su tutti coloro che abitano sulla faccia della terra intera. Vegliate dunque e pregate incessantemente, affinché siate trovati degni di sfuggire a tutti questi mali che stanno per venire, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo. » (Luc. XXI, 34-36). Sì o no, ancora una volta: queste raccomandazioni erano dirette a Pietro, Giacomo, Giovanni, Andrea e gli altri che, alla vigilia della passione, circondarono Gesù sul Monte degli Ulivi e ascoltarono la risposta alle domande che essi stessi avevano posto, o … non erano dirette a loro? Ed essi pensano di tenerci qui in un dilemma senza speranza. Se infatti diciamo che le esortazioni alla vigilanza, alla preghiera, alla continua ed esatta preparazione per il possibile arrivo della parusia nel momento più imprevisto, riguardavano solo gli uomini del futuro, abbiamo contro di noi la dichiarazione esplicita e formale di Gesù stesso, che in San Marco concludeva con queste parole: Quod autem vobis dico, omnibus dico, vigilate: parole che, se hanno un significato, non possono averne altro che questo: E quello che dico a voi che mi ascoltate, lo dico anche a tutti: vegliate. Se, d’altra parte, non abbiamo difficoltà a riconoscere che queste esortazioni riguardavano, prima di tutti gli altri, coloro che Gesù aveva in persona presenti davanti a sé; allora qui viene la conseguenza, che è nel pensiero e nell’opinione di Gesù stesso, la parusia, sebbene incerta sul suo momento preciso, non doveva comunque arrivare entro i limiti della loro vita. Perché altrimenti, se li avesse visti per l’ultima ora del mondo giacere per secoli nelle loro tombe, e tornare alla polvere dalla quale tutti siamo venuti, avrebbe forse consigliato loro di essere vigili, per evitare che il loro Signore, venendo inaspettatamente, li trovasse addormentati? Li avrebbe forse paragonati, come vediamo in un altro luogo di San Luca (XII, 35 ss.), a dei servi che aspettano che il loro padrone torni dalle nozze, in modo che quando viene e bussa alla porta, gli aprano subito? Avrebbe messo nelle loro mani delle lampade accese e sui loro lombi la cintura che segna lo stato di un lavoratore nel pieno esercizio della sua attività? È questo il giusto atteggiamento dei morti nelle loro tombe? – A tutto ciò si può aggiungere che, affinché queste raccomandazioni avessero avuto, nei confronti della generazione contemporanea (e la stessa ragione varrà per le successive), la loro ragion d’essere e la loro utilità, non era affatto necessario che la parusia avvenisse effettivamente durante la vita di questa stessa generazione; che per essere tenuti all’erta, e per avere, secondo l’intenzione di Gesù, qualcosa che li addestrasse all’esercizio fervente delle buone opere, rappresentato qui dalle metafore delle lampade accese nelle mani e della cintura che stringe i lombi, era sufficiente che ne avessero solo l’apprensione; che, inoltre, per ispirare questa apprensione, erano sufficienti gli avvisi così solennemente dati, e con una sì particolare insistenza sull’intera incertezza del giorno e dell’ora (Matth., XXIV, 36), dei tempi e dei momenti (Act, I, 7); e che così, grazie a questa incertezza, che era sempre presente, o come stimolo o come minaccia, le esortazioni alla vigilanza continua, alla preparazione esatta e attenta, dovessero avere sempre la stessa portata, sempre la stessa attualità, sempre la stessa presa su tutti i fedeli di tutti i tempi, e su quelli delle prime generazioni come su quelli delle ultime, per quanto remoto possa essere il punto di durata segnato nei consigli di Dio per la fine del mondo e la venuta del Giudice dei vivi e dei morti. Sì, tutto questo sarà detto, come altre cose, con la stessa forza, la stessa verosimiglianza e la stessa ingegnosità. Lo si dirà, ma chi lo crederà? Perché, dopo tutto, si dovrebbe essere molto saldamente radicati nella regione delle astrazioni dove la mente si esercita su entità puramente metafisiche, per immaginare che la possibilità di una cosa che si sa potrebbe accadere tra mille o duemila anni, così come tra cento, tra venti, tra dieci o tra cinquanta, avrà mai alcuna azione, alcuna influenza, alcuna presa su uomini reali di carne e ossa. Che se l’incertezza del giorno e dell’ora ebbe davvero sulla prima generazione cristiana l’effetto di tenerli sospesi fu proprio a causa della persuasione, o almeno, della viva apprensione in cui si trovavano di un prossimo, se non imminente arrivo. Lo stesso fenomeno, e per la stessa ragione, si è verificato al momento del crollo dell’Impero Romano, e più particolarmente ancora, all’avvicinarsi dell’anno 1000. Ma, lasciando da parte le circostanze molto speciali che allora contribuirono a sollevare gli spiriti sulla vicinanza della catastrofe, l’incertezza del tempo della parusia, confessiamolo francamente, non ha mai, in tempi ordinari, avuto alcuna influenza su niente e nessuno, né sui credenti né sui miscredenti: possiamo fare appello qui, con tutta sicurezza, all’esperienza costante. Credenti e non credenti possono dormire sonni tranquilli, senza temere che la macchina del mondo vada improvvisamente in rovina, o che ci si preoccupi altrimenti dei “tempi e dei momenti” di cui il Padre si è riservato il segreto; senza mai pensarci, a parte le congetture puramente platoniche che a volte ci piace fare sul futuro; soprattutto, senza fare della possibile vicinanza della fine dei secoli un motivo speciale, né per modificare la nostra vita né per avanzare nell’unione con Dio e distaccarci dai beni terreni. In effetti, l’incertezza del giorno e dell’ora può avere un’influenza pratica su di noi solo se è combinata con una previsione ragionata di una data prossima. Perché solo allora ci sentiamo colpiti dalla possibilità della scadenza stessa, e di conseguenza abbiamo fretta di allontanare le possibilità che, senza un’attenzione costante, l’incertezza farebbe nascere. Altrimenti non ci facciamo caso, e giustamente: non più di quanto ci preoccupiamo, uscendo di casa, dell’idea che una tegola, cadendo da un tetto, possa, mentre camminiamo per strada, venirci addosso e schiacciarci. Come allora, supponendo che nella loro mente la parusia dovesse venire solo dopo una lunga serie di secoli, Gesù avrebbe potuto fare dell’incertezza del giorno e dell’ora uno dei fondamenti del Vangelo, uno dei suoi pilastri, uno stimolo di primaria importanza per tutti i fedeli senza eccezione, di epoca in epoca e di generazione in generazione? Dicevo, per tutti i fedeli indistintamente, a cominciare da quelli che lo ascoltarono sul Monte degli Ulivi due giorni prima dell’ultima Pasqua, come lo fece capire, ripetiamolo ancora, alla fine della sua esortazione: Quod autem vobis dico, omnibus dico, vigilate? In una parola, chi non vede che era vano esortarli a vigilare per la precisa ragione che non conoscevano l’ora del suo ritorno, poiché l’ora di questo ritorno era prevista da Lui, come se fosse persa in un lontano futuro trascendente e inaccessibile? Chi, d’altra parte, non capirebbe che fare loro personalmente le raccomandazioni urgenti che abbiamo visto equivaleva ad avvertirli che la parusia li avrebbe trovati ancora vivi, ancora in grado di incontrare il loro Maestro, di aprirsi a Lui, di riceverlo, e allo stesso tempo di significare loro che gli altri a cui erano rivolte le stesse raccomandazioni e avvertimenti erano e potevano essere solo a loro contemporanei? Questo è ciò che ognuno dirà a se stesso quando leggerà il Vangelo. E se tutto questo non può essere contestato con qualche parvenza di irragionevolezza, se tutto questo è del più puro, del più elementare, del più semplice senso comune, se tutto questo finalmente salta agli occhi di chiunque che, per partito preso non li abbia chiusi, allora dobbiamo finire per accettare come conclusione, una delle due cose: o Gesù ingannava sul giorno e sull’ora della parusia, o si ingannava Egli stesso. La prima ipotesi è certamente fuori questione. Rimane poi la seconda, che siamo giustificati a considerare come ormai messa al di là di ogni discussione, e quindi, come così bene e debitamente provato, definitivamente acquisita alla critica. – Così ragionano i modernisti che cercano qua il loro punto di forza. Noi non crediamo di avere in nulla dissimulato le loro osservazioni, o indebolito la loro posizione, o indebolito la forza delle loro prove. Era nostro dovere di cronisti, presentare l’attacco con tutti i vantaggi che può reclamare, e l’abbiamo fatto fedelmente, senza però, diciamolo subito, che gli aspetti speciosi degli argomenti addotti ci abbiano fatto perdere la fiducia nel portare al lettore la risposta soddisfacente che senza dubbio si aspettava da noi. Tuttavia, poiché le ragioni che abbiamo appena esposto sono in sostanza eccessivamente vecchie, vecchie non dico come il mondo, ma come la stessa esegesi evangelica, ci sia permesso, prima di presentare modestamente le nostre riflessioni, di trascrivere qui la soluzione che è stata data loro, circa quindici secoli fa, da quello che Bossuet chiama da qualche parte, la grande luce del quarto secolo. Cominciamo, dunque, ad ascoltare Sant’Agostino nella lettera già citata ad Esichio, alla quale si riferisce nel ventesimo libro della Città di Dio, e che egli stesso ha intitolato: De fine sæculi, in altre parole: della fine del mondo. Tutto potrebbe essere riportato in questa splendida esposizione degli oracoli escatologici del Nuovo Testamento. Accontentiamoci, almeno, del passaggio essenziale, che tratta più direttamente la presente difficoltà e che metteremo qui davanti agli occhi del lettore. « Ciò che l’ultimo giorno del mondo dà motivo di temere, in quanto sorprenderà gli empi come un ladro, ognuno di noi deve temerlo nell’ultimo giorno della propria vita, e per la stessa ragione. Perché nello stato in cui ciascuno sarà trovato l’ultimo giorno della sua vita, in quello stesso stato sarà trovato l’ultimo giorno del mondo, e come muore in questo, così sarà giudicato in quello. Questo è ciò che è scritto nel Vangelo di San Marco: “Vegliate dunque, perché non sapete quando il padrone di casa tornerà, sia a sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non venga all’improvviso e vi trovi addormentati. E quello che vi dico, lo dico a tutti voi, vegliate ”. Infatti, chi sono questi “tutti” a cui diceva questo, se non tutti i suoi fedeli, tutti i membri del suo Corpo mistico che è la Chiesa, in una parola, tutti i Cristiani? Non lo diceva solo a coloro che lo ascoltavano in quel momento; lo diceva anche a noi che siamo venuti dopo di loro, così come lo diceva a quelli che verranno dopo di noi fino al giorno del suo ultimo avvento. Ma come? Potrebbe essere forse che il giorno dell’ultimo avvento li troverà tutti vivi su questa terra, o potrebbe essere che le parole: “Vegliate, affinché non venga il Signore all’improvviso e vi trovi addormentati”, erano intese per i morti che giacciono nelle loro tombe? Perché, allora, dire a tutti ciò che poteva evidentemente essere adatto solo a coloro che erano presenti all’ultimo giorno? Perché, ancora, perché, se non perché, come contemporanei dell’ultimo giorno, tutto dovesse essere effettivamente come nel modo detto? Perché allora l’ultimo giorno (della parusia e del giudizio) verrà veramente per ciascuno, quando verrà il momento di lasciare questo mondo, nello stato, ormai fisso e immutabile, in cui sarà giudicato in quel giorno. Perciò ogni Cristiano deve vegliare affinché la venuta del Signore non lo trovi impreparato; e impreparato sarà trovato nel giorno del Signore, chi sarà trovato impreparato nell’ultimo giorno della sua vita (Ma queste forti parole devono essere comprese nella loro forma originale, che una traduzione imperfetta potrebbe solo indebolire e diminuire: « In quo unumqumque invenerit suus novissimus dies, in hoc eum coraprehendet mundi novissimus dies, quoniam qualis in die isto quisque moritur, talis in die illo judicabitur. Ad hoc pertinet quod in evangelio secundum Marcum ita scriptum est: Vigilate ergo, quia nescitis quando Dominus domus veniet, sero, an média nocte, an galli cantu, an mane ne eum venerit repente inveniât vos dormientes. Quod autem vobis dico, omnibus dico, vigiiate. Quibus enim omnibus dicit, nisi electis et dilectis suis ad corpus ejus pertinentibus, quod est Ecclesia? Non solum ergo illis dixit quibus tunc audientibus loquebatur, sed etiam illis qui fuerunt post illos ante nos, et ad nos ipsos, et qui erunt post nos usque ad ejus novissimum adventum. Numquid autem omnes inventurus est dies ille in hac vita, aut quisquam dicturus est quod ad defunctos etiam pertineat quod ait: Vigilate ne cum repente venerit, inveniât vos dormientes? Cur itaquo omnibus dicit, quod ad eos solos pertineat qui tunc erunt, nisi quia eo modo ad omnes pertinet, quo modo dixi? Tunc enim unicuique veniet dies ille, cum venerit ei dies ut talæis hunc exeat, qualis judicandus est illo die. Ac per hoc, vigilare débet omnis christianus, ne imparatum inveniat eum Domini adventus. Imparatum autem invenîet ille dies, quem imparatum invenerit suæ vitæ hujus ultimus dies. » – Augut., Epistola 199, n. 2 e 3). – E questa è una chiara risoluzione della difficoltà, se ce ne fosse una. Questo è ciò che tutti abbiamo imparato sulle ginocchia delle nostre madri, ciò che tutti abbiamo ricevuto nell’insegnamento del catechismo, ciò che ci è stato dato non appena siamo entrati nella vita « come lampada per dirigere i nostri passi, e come una luce per illuminare il nostro cammino », come una verità da avere costantemente davanti agli occhi, e un avvertimento da non perdere mai di vista, come quel filatterio o memoriale che i Giudei mettevano sulla loro fronte, fissato alle loro braccia, e appeso fino alle porte delle loro case, cioè: che la strada dell’uomo finisce con la sua esistenza terrena; che dalla sua esistenza terrena dipende assolutamente tutta la sua eternità; … che come Jahel inchiodò Sisara nel luogo e nella posizione stessa in cui si era addormentato, così la morte ci fissa per sempre nello stato morale in cui ci trova, senza lasciarci alcuna possibilità di cambiare mai; che al tribunale di Gesù Cristo l’istruzione sarà solo su ciò che si è fatto, mentre si è nel corpo, bene o male; che nel momento preciso in cui l’anima si separa dal corpo, avviene il giudizio particolare, di cui l’ultimo sarà solo una ripetizione o una conferma solenne; che in questo senso tutto accade a ciascuno di noi, per quanto riguarda la salvezza dell’anima, come se l’intero l’intervallo tra l’ultimo giorno della propria vita ed il giorno della parusia potesse essere rimosso; come se, l’uno coincidesse puntualmente e matematicamente con l’altro, come se venissimo colti dalla morte, per poi essere gettati incontinentemente ai piedi del Giudice, davanti al Figlio dell’uomo che viene sulle nuvole del cielo in grande potenza e maestà come ci descrive il Vangelo. Questo è ciò che si è sempre creduto nella Chiesa, ciò che le Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento insegnano formalmente, che nessuno ha mai, dico “mai” confutato, ma solo tentato di confutare con ogni risorsa della critica, ed ancor più nella recente scuola modernista, che di tutte quelle ha raccolto l’eredità, e perfezionato i processi della demolizione. – Ora, da tutto questo, è più chiaro e più evidente che la stessa condizione di vigilanza e di attenta preparazione alla parusia fu stabilita per tutti gli uomini indistintamente, per quelli che v’erano ieri, per quelli che vi sono oggi, e per quelli che vi saranno domani; che le stesse raccomandazioni erano valide per tutti, le stesse precauzioni erano imposte a tutti; che alle orecchie di tutti, infine, il grave avvertimento doveva risuonare con la stessa vivacità: Vegliate dunque, e pregate senza posa, affinché siate trovati degni di sfuggire a tutti questi mali che stanno per venire, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo. È altrettanto evidente che la parusia, come ci è data dalla rivelazione del Nuovo Testamento, si presenta a noi sotto due aspetti molto diversi, che dobbiamo avere costantemente davanti agli occhi, altrimenti saremo completamente confusi nella nostra lettura del Vangelo e degli scritti apostolici: in primo luogo, nella sua realtà futura, nel giudizio generale, e in secondo luogo, nelle sue anticipazioni quotidiane nella morte di ogni uomo in particolare. Questo è espresso molto bene da San Girolamo quando dice: « Il giorno del Signore (o della parusia): con questo si intenda o il giorno del giudizio o il giorno dell’uscita dal corpo di ognuno di noi, poiché ciò che sarà fatto nel giorno del giudizio per tutti gli uomini presi nel loro insieme, si compie nel giorno della morte per ognuno di loro individualmente. Diem Domini, diem intellige judicii sive diem exitus uniuscujusque de corpore; quod enim in die judicii futurum est omnibus, hoc in singulis die mords impletur (Hierom. In Joel, II, 1 – P. L. t. XXV, col. 965). » Ma tutte queste distinzioni non sono di buon gusto per i nostri avversari; non lo sono nemmeno per la loro comprensione. Si ricorderà forse che al momento della fase più acuta della crisi modernista, circa quindici anni fa, un vescovo avendo dato in una Vita di Nostro Signore Gesù Cristo, a proposito dei testi di cui ci stiamo occupando, la spiegazione tradizionale che abbiamo appena menzionato, attirò da uno degli uomini del partito, che allora era il più ascoltato, questa risposta verde: Che Sua Grandezza avesse il diritto, quando predicava nella sua cattedrale, di interpretare i suddetti testi della preparazione alla morte, cioè di trarne la migliore spiegazione che essi contengono oggi; ma che era ovvio per qualsiasi uomo senza pregiudizi, che Cristo non aveva avuto in vista questa lezione puramente morale; che Egli aveva parlato del prossimo avvento messianico, che i discepoli non avrebbero potuto intenderlo diversamente, e che lo storico doveva capirlo così. Ma Dio lo perdoni, lo storico, l’esegeta, il critico che ha emesso una tale sentenza … , non conosceva il suo Vangelo. Apro il Vangelo di San Luca al dodicesimo capitolo, versetti 15 e seguenti, e vi leggo: « Gesù disse al popolo: Guardatevi da ogni avarizia, perché pur nell’abbondanza, la vita di un uomo non dipende dai beni che possiede. » Poi raccontò loro questa parabola: « C’era un uomo ricco la cui tenuta aveva dato frutti abbondanti. E pensava tra sé: Che cosa farò? Perché non ho un posto dove mettere il mio raccolto. Questo è quello che farò: Abbatterò i miei granai e ne costruirò di più grandi, raccoglierò tutti i miei beni e le mie entrate, e dirò alla mia anima: Anima mia, tu hai messo in serbo grandi beni per molti anni; riposati, mangia, bevi e goditi. Ma Dio gli disse: Insensato! Questa stessa notte l’anima tua ti sarà richiesta; e quello che hai messo da parte, per chi sarà? Così è l’uomo che accumula e non è ricco davanti a Dio. » Certamente, ci sarà concesso questa volta che “Sua Grandezza”, anche se non stava predicando nella sua cattedrale, era non solo nel diritto, ma anche nella necessità assoluta di interpretare questo testo, della morte e della preparazione alla morte: una preparazione che il ricco della parabola aveva trascurato, per sentirsi dire improvvisamente: Questa stessa notte! l’anima tua… ! Non si parla qui della fine del mondo, né dell’apparizione del Figlio dell’uomo sulle nuvole del cielo, né delle assemblee generali che seguiranno l’ultima risurrezione. È una scena quotidiana quella che Gesù ci mette davanti agli occhi, il caso troppo frequente, ahimè, di chi è preso in mezzo ai suoi calcoli di fortuna o di allargamento della fortuna, a cento leghe dal pensare al conto che dovrà renderne quando apparirà davanti a Dio. Non c’è alcun dubbio, nessuna possibilità di una parvenza di contestazione. – Ora, stabilito questo, ascoltiamo il resto del discorso: Gesù disse allora ai suoi discepoli. « Perciò vi dico (IDEO DICO VOBIS): non siate in ansia per la vostra vita, né per cosa mangerete, né per il vostro corpo, per come lo vestirete … Fatevi delle borse che il tempo non logori e dei tesori che non possano mai venir meno, dove i ladri non abbiano accesso e dove le tarme non li divorino; perché dove è il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore. Siate cinti nei fianchi, e nelle vostre mani abbiate lampade accese. Siate come gli uomini che aspettano il ritorno del loro padrone dal banchetto di nozze, in modo che quando viene e bussa alla porta gli apriranno subito la porta. Beati quei servi che il padrone troverà a vegliare quando tornerà. Vi dico in verità, egli si cingerà e li farà sedere a tavola e verrà a servirli. Che venga alla seconda guardia, che venga alla terza, se li trova così, beati quei servi! Ma sappiate che se il padre di famiglia sapesse a che ora potrebbe arrivare il ladro, vigilerebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. E anche voi dovete essere pronti, perché il Figlio dell’Uomo verrà in un’ora che non pensate. » E tutto questo, ripetiamo, si legge non dopo l’oracolo escatologico del ventunesimo capitolo, ma dopo l’istruzione sul distacco dai beni della terra del dodicesimo capitolo, come morale della parabola dell’uomo ricco che fu sorpreso dalla morte quando pensava solo ad estendere i suoi domini, ad ampliare i suoi granai, a vivere in pace e a godersi il buon cibo. Ora, questo significa che la parusia non sia in gioco qui? Ovviamente no. Perché cos’è questa venuta, o piuttosto questo ritorno (versetto 36) del Figlio dell’uomo, che i Cristiani devono attendere in una veglia continua e laboriosa, se non è quest’altro avvento di cui tutte le pagine del Nuovo Testamento sono piene, quando il Figlio dell’uomo tornerà nella gloria del Padre suo per rendere a ciascuno secondo le sue opere? Senza dubbio, è la parusia di cui Gesù intende parlare, ed in effetti parla, ma la parusia considerata sotto il secondo aspetto che abbiamo menzionato sopra, la parusia considerata nelle anticipazioni segrete e quotidiane che ha alla morte di ognuno di noi, in attesa che esploda e si compia nel grande sole di quest’ultima scena del mondo, che sarà la chiusura del tempo, e l’inaugurazione del regno di Dio per l’eternità. E questo secondo aspetto, per il dispiacere dei modernisti, è presentato qui, non come un espediente inventato, in mancanza di qualcosa di meglio, dai teologi disperati (questi teologi sfortunati che non sono, però, colpevoli di tutti i misfatti di cui sono accusati), ma come un’informazione di prima importanza, e anche di prima mano, immediatamente, direttamente e più autenticamente al mondo, fornita dal Vangelo. E non servirà a nulla dire che l’esortazione alla vigilanza in vista della venuta del Figlio dell’uomo, il paragone del ladro che arriva di nascosto dal padre di famiglia, l’avvertimento di essere pronti a causa dell’incertezza dell’ora, l’apologo che ne segue, dell’amministratore fedele che il padrone al suo arrivo ricompensa stabilendolo su tutti i suoi beni e dell’infedele che egli punisce facendolo lacerare di colpi (Luca, XII, 35-46), si trovano anche in San Matteo, nello stesso ordine, e quasi negli stessi termini, ma messi dopo l’oracolo sulla fine del mondo, dopo la descrizione del glorioso avvento di Cristo, dopo la similitudine del diluvio che adombrò tutto il genere umano, eccetto Noè con la sua famiglia (Matth. XXIV, 42-51); che d’altra parte gli evangelisti non si attengono sempre all’ordine cronologico, che talvolta trasportano le parole di Gesù da un luogo all’altro, e allegano ad un discorso pronunciato in una data circostanza, ciò che tuttavia fu detto da Lui in una circostanza del tutto diversa; e così San Luca avrebbe potuto benissimo allegare alla parabola del ricco proprietario terriero colto dalla morte quando meno se lo aspettava, la lezione effettivamente data nell’unico discorso escatologico sul giudizio generale e la consumazione dei tempi. Tutto questo, dico, non servirà a nulla, perché, in primo luogo, la trasposizione attribuita a San Luca è una supposizione del tutto gratuita, che non solo nulla sostiene, ma che tutto, al contrario, contribuirebbe piuttosto a rovesciare, e che, in secondo luogo, ammessa pure questa stessa trasposizione, non modificherebbe in alcun modo né la forza del nostro argomento, né la legittimità della nostra conclusione. Dico, prima di tutto, che la trasposizione attribuita a San Luca è una supposizione puramente gratuita, una supposizione che nulla sostiene, che nulla nemmeno indica, né favorisce, certamente nulla nel contesto, dove, dalla repentinità dei colpi di morte che tolgono ai ricchi le loro ricchezze, Gesù coglie l’occasione per raccomandare la liberazione del cuore rispetto ai beni della terra; poi, da lì, passa alla necessità di farsi un tesoro in cielo, un tesoro inaccessibile e assolutamente indistruttibile; da lì, infine, alle precauzioni da prendere in vista dell’arrivo del ladro mistico che, dopo averci spogliato di tutto ciò che possedevamo quaggiù, ci chiederà ancora un resoconto esatto della gestione degli impieghi che ci aveva affidato. Non c’è traccia di un raccordo, né di alcun tipo di saldatura; tutto qui è in un unico flusso, pulito e franco. E poi, non abbiamo a che fare con uno degli evangelisti che, fin dall’inizio del suo libro, si è preso la briga di avvertirci che intendeva scrivere in ordine, cioè secondo l’ordine di successione e di eventi? (Luc. I, 3 – (Visum est et mihi ex ordine tibi scribere, optime Théophile; Ex ordine, καθεζῆς [katezes]; « La parola “καθεζῆς” più volte impiegata da San Luca, designa sempre la continuità, l’ordine, la sequenza regolare delle cose. » Crampon in h. l.), il racconto della vita, delle azioni, degli insegnamenti, della morte e della resurrezione di Gesù? D’altra parte, non vediamo forse che in più di un luogo del Vangelo l’ordine dei fatti o delle parole, certamente scambiati da San Matteo, è ristabilito da San Luca, che ovunque si mostra ansioso di far emergere la sequenza naturale e regolare della storia? » Se dunque ci fosse stata trasposizione da una parte all’altra, del passaggio in questione, sarebbe molto più razionale e conforme ai dati, attribuirla a San Matteo che avrebbe inserito nel discorso escatologico delle parole dette in realtà in un’altra circostanza, quella stessa che ci indica il terzo Vangelo. Inoltre, ci affrettiamo ad aggiungere che non c’è assolutamente alcuna ragione per sospettare una trasposizione, né da una parte né dall’altra, e questo per la ragione molto semplice che nulla impedisce a Gesù di ripetere una seconda volta, parlando del suo ultimo avvento, il consiglio precedentemente dato in relazione all’uomo ricco, la cui trama di felicità fu bruscamente interrotta dall’improvviso arrivo della morte. Che cosa – dice Sant’Agostino – impedisce a Gesù di ripetere in un luogo certe cose che aveva già detto altrove, o di rifare ciò che aveva già fatto prima? Quid enim prohiberet, Christum alibi quædam repetere quæ jam antea dixerat, aut iterum quædam facere quæ antea jam fecerat (August, De consensu evangelistarum, 1. II n. 45, Migne, P. L. t. XXXIV, col. 1092.)? “Non c’è nessuno, immagino, che non sottoscriva questo principio che è un principio di puro e semplice buon senso. Ma la solidità della nostra tesi non dipende in alcun modo da tutte queste considerazioni. Lasciamoli, se vogliamo, per il momento, e ammettiamo che l’esortazione alla vigilanza, illustrata dal confronto del ladro, e l’apologo dell’amministratore fedele premiato, dell’infedele punito, sia stata fatta una sola volta; che fu fatta proprio nel discorso agli apostoli sul Monte degli Ulivi, alla vigilia dell’ultima Pasqua; che San Luca la staccò da questo discorso per unirla alle lezioni sulla morte, nella parabola dell’uomo ricco di cui sopra. Ammettiamolo, dico, e senza ulteriori prove. Cosa ne seguirà ora? Se non mi sbaglio una sola cosa, cioè: Che San Luca, in assenza della cronologia, avrebbe considerato l’unico legame logico, l’unico collegamento, l’unica connessione delle cose; che, di conseguenza, nella sua idea, come nell’idea di coloro dai quali aveva ricevuto il Vangelo, “che erano stati da principio testimoni oculari e ministri della Parola (Luca, I, 2)”, i testi sulla preparazione alla parusia riguardavano in realtà la preparazione alla morte; che questi testi erano così interessati a questa preparazione che potevano essere collocati sia dopo l’intimazione del giorno sconosciuto in cui il Figlio dell’uomo ritornerà sulle ali del cielo in potenza e maestà, sia dopo quella del giorno incerto in cui ognuno di noi si sentirà dire: Ecco, la tua anima ti è richiesta di nuovo; così capirono i discepoli, così lo storico deve capire a sua volta; che, dunque, non siamo qui in presenza di un adattamento posteriore escogitato allo scopo di ricavare dai detti testi “la migliore applicazione che essi hanno oggi”, ma piuttosto in presenza del significato primo, nativo, originale, il significato che conferma nel modo più esplicito il doppio aspetto della parusia che abbiamo indicato sopra (La parusia nella sua realtà dell’ultimo giorno, e la parusia nelle sue anticipazioni di tutti i giorni …) come dare l’apice del Vangelo e degli scritti apostolici, riguardo all’articolo più importante della nostra Legge: Et iterum venturus est cum gloria judicare vivos et mortuos.
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Vedo solo una cosa che possa essere ragionevolmente opposta a ciò che è stato appena detto. Il passo di San Luca in questione termina con queste parole: E anche voi dovete essere pronti, perché in un’ora che non vi aspettate, il Figlio dell’uomo verrà. Ma cosa? dirà qualcuno, ma la morte arriva sempre quando non è attesa? Sempre come un ladro che si nasconde, si dissimula, sorprende? No, senza dubbio, e se vediamo in ogni momento quei colpi inaspettati che giustificano fin troppo bene la similitudine evangelica del ladro che opera sotto le ombre della notte, vediamo anche altri casi, e più ordinari e più frequenti, dove le cose non accadono in modo così in sordina; dove la morte è un visitatore che non teme la luce del giorno, un visitatore che si fa conoscere, che presenta la sua carta, che finalmente arriva nelle condizioni regolari che le relazioni sociali comportano. Come dunque, allora, se la venuta del Figlio dell’Uomo di cui si parla qui è la venuta della morte per ognuno di noi, è possibile che ci venga detto in modo così assoluto: Verrà in un’ora che non vi aspettate! Ma il testo evangelico, ben interpretato, risponderà a questa difficoltà. Noto, infatti, che mentre nella Vulgata la venuta del Maestro, il motivo della preparazione così urgentemente raccomandata, è espressa al tempo futuro, qua hora non putatis, Filius hominis veniet, nel greco, invece (che è, come tutti sanno, l’originale), è costantemente espressa al tempo presente, sia in San Luca che nei passi paralleli di San Matteo e San Marco. (Ghineste oti e ora ou dokeite, o Uios to antropou erketai – ἒρχεται – Luca, XII, 40). Stessa cosa, Matth. XXIV, 42 e 44. Lo stesso, Marco, XIII, 35. Ovunque ἒρχεται, tempo presente, da nessuna parte ἐλεύσεται – eleusetai – tempo futuro. Parola per parola: Vegliate, state pronti, perché nell’ora che non pensate, il Figlio dell’uomo viene, perché non sapete in quale ora viene il vostro padrone. E questo non è senza importanza, questo è da notare; perché non si dica che nel Nuovo Testamento il tempo presente è talvolta usato per il futuro. Certamente, non lo contraddico, e tanto meno perché questa non è una peculiarità del Nuovo Testamento, ma una generalizzazione più o meno comune a tutte le lingue e a tutta la letteratura. Ma non credo di essere contraddetto se dico che il tempo presente, sebbene a volte sia preso per il futuro, è più spesso ancora preso per il tempo presente, e che questo è il modo in cui dovrebbe essere preso, quando il contesto non persuade positivamente al contrario. Ma qui sembrerebbe piuttosto, dall’indicazione del contesto, che il tempo presente sia messo di proposito, nel senso in cui è comunemente usato per esprimere un’azione o un modo di fare abituale. Come quando il centurione disse a Nostro Signore: “Ho dei soldati sotto il mio comando, e dico a uno: ‘Vai’, ed egli va, e a un altro: ‘Vieni’, ed egli viene, e al mio servo: ‘Fai questo’, ed egli lo fa. Come quando si risponde a chi chiede delle abitudini di un uomo: Esce a mezzogiorno e viene la sera; oppure, viene a tale e tal altra ora, e talvolta a tale e tal’altra. E così, sembra, dovremmo sentire il Vangelo che dice: “In un’ora impensata, il Figlio dell’uomo viene”. Questo non vuol dire che viene sempre in questo modo, ma che viene anche spesso in questo modo. E poiché, inoltre, è impossibile sapere per chi verrà, e per chi non verrà in questo modo, tutti senza eccezione devono considerarlo come capace di venire in questo modo. Da qui l’avvertimento: Et vos estate parati, quia qua hora non putatis Filius hominis venit. E ancora: Quod autem vobis dico, omnibus dico, vigilate.