CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.
LA PARUSIA (4)
PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE, Rue de Rennes, 117 – 1920
ARTICOLO QUARTO
PARTICOLARITÀ DI SAN MATTEO E DI SAN MARCO SULL’ABOMINIO DELLA DESOLAZIONE PREDETTA DAL PROFETA
DANIELE, CHE SAREBBE STATO PRESTO SEGUITO DALLA PARUSIA E DAL GIUDIZIO.
La lezione di San Luca, come abbiamo detto nell’articolo precedente, è particolare in quanto trascura completamente un punto al quale, nei primi due sinottici, è dato grande risalto ed occupa una parte considerevole del quadro. È il punto riguardante “l’abominio della desolazione predetto dal profeta Daniele“. E in effetti, questo punto, per essere compreso, presupponeva menti versate nella scienza delle Scritture, nella conoscenza della Legge, nella lettura dei Profeti, e del profeta Daniele in particolare: tante cose estranee ai Gentili, ai quali, come tutti sanno, il terzo Vangelo era specialmente destinato. L’omissione era quindi evidente o, per dirla meglio, era la spiegazione più naturale al mondo, ma non c’era da meno un’omissione. Per questo ci resta ora da completare lo studio fatto in precedenza sul testo di San Luca, esaminando il passo di San Matteo relativo a questo famoso abominio della desolazione, che, oltre al privilegio di suscitare la curiosità di un gran numero di persone, ha, cosa ancora più grave, la specialità di suscitare difficoltà di più di un tipo, che sarebbe importante approfondire una volta per tutte e, se possibile, chiarire definitivamente. Cominciamo a mettere il passo in questione davanti agli occhi del lettore, dopo una breve ricapitolazione del contesto in cui è inserito. Esso viene subito dopo il versetto già citato più volte: Et prædicabitur hoc Evangelium Regni in universo orbe in testimoninm omnibus gentibus et donec veniet consummatio. Gesù aveva detto che si sarebbero sentite guerre e voci di guerra, che ci sarebbero state pestilenze, carestie, ecc., che si sarebbero scatenate violente persecuzioni contro la Chiesa, che sarebbero venuti falsi profeti per ingannare molti, che la carità di molti si sarebbe raffreddata, e che solo coloro che persevereranno fino alla fine saranno salvati. Poi, dopo aver dichiarato che il Vangelo sarebbe stato prima predicato in tutto il mondo come testimonianza a tutte le nazioni, e che solo allora sarebbe arrivata la consumazione, continuò così: « Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione, predetto dal profeta Daniele, eretto nel luogo santo – chi legge comprenda – allora quelli che sono in Giudea fuggano sui monti, e chi è sul tetto di casa non entri a prendere quello che ha in casa sua, né chi è nel campo a prendere il mantello. Guai alle donne incinte e a quelle che allattano in quei giorni! Pregate che la vostra fuga non avvenga in inverno, né in giorno di sabato, perché allora ci sarà una così grande angoscia come non c’è stata dall’inizio del mondo fino ad oggi, né ci sarà mai. E se quei giorni non fossero abbreviati, nessuno sfuggirebbe; ma per il bene degli eletti, quei giorni saranno abbreviati. Se qualcuno vi dice: “Cristo è qui” o “Egli è là”, non credetegli, perché sorgeranno falsi Cristi e falsi profeti, e faranno grandi prodigi e cose meravigliose, per ingannare, se possibile, gli stessi eletti. Questo vi ho predetto… E subito dopo la tribolazione di quei giorni (statim post tribulationem dierum illorum), il sole si oscurerà e la luna non darà la sua luce, e le potenze del cielo saranno scosse. Allora apparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo », … e il resto lo sappiamo. Questo è il quadro degli eventi di cui l’abominatio desolationis predetta dal profeta Daniele doveva essere il segnale, secondo l’oracolo evangelico. Vediamo in essa giorni di calamità senza esempio nella storia, seguiti a breve dall’oscuramento del sole, le convulsioni dell’universo, tutti i prodromi della parusia, e la parusia stessa. D’altra parte, ed è qui che inizia la difficoltà, il tempo della suddetta abominatio desolationis non è affatto lasciato alle nostre congetture. Sembra che sia indicato molto chiaramente proprio nel libro di Daniele a cui il Vangelo si riferisce, ed indicato come il momento preciso dell’assedio e della caduta di Gerusalemme. Infatti, chi non ha in mente la famosa profezia delle settanta settimane, che dice espressamente che dopo che Cristo sarà ucciso, verrà un popolo guidato da un capitano a distruggere la città e il santuario, e che ci sarà un abominio della desolazione nel tempio, e che la desolazione durerà fino alla fine? Così, avremmo qui due cose: primo, la parusia annunciata come strettamente successiva ai giorni di estrema tribolazione che l’abominio predetto dal profeta Daniele avrebbe portato con sé; e in secondo luogo, l’abominio predetto dal profeta Daniele, fissato da Daniele stesso al tempo dell’occupazione di Gerusalemme da parte degli eserciti di Tito. Da questo punto in poi, la conclusione sarebbe chiara, ovvia e ineludibile, cioè che, secondo i dati del Vangelo, la fine del mondo sarebbe dovuta arrivare diciotto secoli fa, cioè prima che la prima generazione cristiana fosse giunta al termine. È a questa difficoltà, dove tutte le altre convergono, e dove i lettori studiosi si lasciano più facilmente circuire, che il presente articolo intende rispondere, dimostrando che tutto qui poggia su un falso supposto. – E poiché questo falso presupposto dipende interamente dalle idee più che incomplete che si hanno comunemente degli oracoli di Daniele e del loro contenuto, dobbiamo prima passarli in rassegna, e indagare attentamente tutto ciò che si riferisce alla suddetta abominatio desolationis, che il grande profeta aveva la missione propria di predire e annunciare. Per la maggior parte di coloro che non sono stati portati da circostanze particolari a fare uno studio speciale dei profeti dell’Antico Testamento, il nome di Daniele difficilmente richiama alla memoria qualche profezia oltre a quella menzionata sopra, delle settanta settimane. La grande fama di questo oracolo, la sua grande importanza nella questione messianica, il posto considerevole che occupa nei manuali di teologia, esegesi e apologetica, tutto questo lo ha fatto diventare, per molti, la profezia di Daniele tout court, la profezia di Daniele, o almeno, l’oraculum princeps che lascia tutti gli altri in ombra e, per lo stesso motivo, nell’oblio. Così, quando il Vangelo parla dell’abominatio desolationis quæ dicta est a Daniele propheta, non verrà in mente a nessuno di cercare il necessario chiarimento al di fuori del versetto che abbiamo citato sopra. È a questa linea finale della profezia, ben nota a tutti, che ci riferiremo puramente e semplicemente, senza sospettare minimamente che, in termini di riferimenti, potrebbe esserci molto di più. Inoltre, in questo seguiremo solo le indicazioni date dalla maggior parte dei commentatori di San Matteo, che sembrano essersi presi la briga di riferire i loro lettori a Daniele IX, 24-27, come se fosse l’unico luogo del profeta dove viene menzionato l’abominio in questione. Ma questo è un errore, e un errore manifesto, perché la verità, che è facile da verificare, è che Daniele ha effettivamente predetto l’abominatio desolationis in loco sancto, per tre periodi molto diversi e lontani: prima, per il tempo della persecuzione di Antioco (VIII, vers. 13, e XI, verso 31); in secondo luogo, per il tempo dell’assedio e della rovina di Gerusalemme (IX, verso 27); in terzo luogo, per il tempo dell’anticristo, la fine del mondo e la resurrezione dei morti (XII, verso 11). Rivediamo brevemente ciascuna di queste tre previsioni, notando le singolarità che le distinguono. È da tutte le osservazioni da fare che emergerà la luce di cui abbiamo bisogno. – In primo luogo, ecco l’abominatio desolationis predetta per il tempo della persecuzione di Antioco. Si tratta, come tutti sanno, di Antioco Epifane, quella radice del peccato di cui si parla nel libro di Maccabei, che fu il primo re pagano che si impegnò non solo a conquistare la terra d’Israele, ma anche ad abolirvi con la più atroce persecuzione la religione del vero Dio, e che per questo è dato nella Scrittura come il primo re pagano. Daniele lo vede, nell’ottavo capitolo, uscire da una delle quattro dinastie che avrebbero condiviso l’impero di Alessandro. Lo vede elevarsi nella sua empietà ed esaltarsi al di sopra del Dio degli dei, di cui proibisce il culto e profana il tempio. E un Angelo chiede a un altro Angelo: Quanto durerà questa visione, che riguarda il sacrificio perpetuo, il peccato di desolazione e l’abbandono del santuario per essere calpestato? E si risponde: Fino a duemilatrecento giorni; dopo di che il santuario sarà purificato. E questa stessa profezia è ripresa con maggiori sviluppi nell’undicesimo capitolo, dove l’Angelo che istruisce Daniele dice, tra l’altro, in riferimento al persecutore: “Le truppe inviate da lui profaneranno il santuario, faranno cessare il sacrificio continuo ed innalzeranno l’abominio della desolazione. AUFERENT JUGE SACRIFICIUM, ET DABUNT ABOMINATIONEM IN DESOLATIONEM; e questo, fino al tempo prefissato quando, avendo il castigo portato alla purificazione di Israele, verranno giorni migliori di calma, tranquillità e riposo. (Dan., XI, 31 ss.). È quindi evidente che abbiamo qui un primo oracolo di Daniele sull’abominio della desolazione, oggetto della nostra ricerca. Senza dubbio, non è quello che Nostro Signore poteva intendere quando disse: Cum ergo viderais abominationem desolationis quæ dicta est a Daniele propheta, visto che, al tempo di Nostro Signore, questo non doveva più essere realizzato nel futuro, ma aveva già ricevuto il suo compimento nel passato. Pertanto, non dovremmo occuparcene. Tuttavia, proprio questo adempimento, raccontato in tutti e due i libri dei Maccabei, servirà a stabilire, su passi autentici, qualcosa che è importante per noi chiarire prima: cioè, cosa significhi, almeno nella sua generalità, questa abominatio desolationis, nella quale molti sembrerebbero sospettare qualche arcano ancora inspiegabile, anche se certamente a torto, come sarà dimostrato perentoriamente dal racconto dei Maccabei, di cui i seguenti sono i passaggi principali: « Nel centoquarantacinquesimo anno del regno dei Greci, il re Antioco emanò un editto in tutto il suo regno affinché tutti diventassero un solo popolo e ciascuno rinunciasse alla propria legge… E mandò messaggeri a Gerusalemme e nelle altre città di Giuda, ordinando ai Giudei di cessare gli olocausti e i sacrifici nel tempio, di profanare i sabati e le feste, di contaminare il santuario e i santi, di costruire altari e boschetti sacri e templi di idoli, di lasciare incirconcisi i loro figli maschi e di contaminarsi con ogni sorta di impurità, perché la legge di Dio sia dimenticata per sempre e tutte le sue ordinanze siano abolite. E chiunque non obbedirà agli ordini del re, sarà messo a morte… E il quindicesimo giorno del mese di Casleu eressero un idolo abominevole della desolazione sull’altare dell’olocausto, e ne costruirono di simili in tutte le città di Giuda intorno. Bruciavano incenso e sacrificavano davanti alle porte delle case e nelle strade. Se trovavano i libri della legge da qualche parte, li bruciavano dopo averli strappati. Chiunque trovasse un libro dell’alleanza e chiunque mostrasse attaccamento alla legge, veniva messo a morte per editto del re. » Così si legge nel primo capitolo del primo libro di Maccabei, versetti 43 e seguenti. A questi sarà conveniente aggiungere gli altri dettagli dati nel secondo libro, dove si dice: « Poco dopo i massacri con cui cominciò la persecuzione, il re Antioco mandò un vecchio da Atene per costringere i Giudei ad abbandonare il culto dei loro padri e a profanare il tempio di Gerusalemme, dedicandolo a Giove Olimpico… L’invasione di questi mali era estremamente dolorosa da sopportare per tutto il popolo, perché il tempio era pieno di orge e dissolutezze; i gentili dissoluti facevano commercio con le prostitute anche nei cortili sacri, che essi trasformavano in luoghi di prostituzione… Non era più possibile celebrare i sabati o le feste, e nemmeno confessare semplicemente di essere Giudei. Un’amara necessità indusse i Giudei ai sacrifici che venivano fatti ogni mese nel giorno della nascita del re. Alle feste baccanali, erano costretti a camminare per le strade coronate di edera in onore di Bacco. Fu emesso un editto per far sì che le stesse misure fossero prese nelle città greche nelle vicinanze, con l’ordine di mettere a morte coloro che si rifiutavano di adottare i costumi pagani. Erano ovunque scene di desolazione » (II Mach., VI, 1 e segg.). Ecco dunque l'”abominio” che Daniele aveva predetto per il tempo della persecuzione di Àntioco, e che i libri dei Maccabei pongono davanti ai nostri occhi. Come si può vedere, non manca nulla al quadro che fornisce tutti i dati necessari per formare un’idea adeguata e completa. Si trattava in sostanza, con la proscrizione assoluta del culto di Dio, e specialmente del sacrificio perpetuo che ne è l’elemento principale, della profanazione della terra santa e del tempio, la sostituzione di un culto sacrilego e idolatrico, nonché la conversione del santuario stesso in un luogo di prostituzione e dissolutezza. Questo avvenne verso l’anno 160 a.C., ma durò solo tre o quattro anni, alla fine dei quali, cessata la persecuzione, il tempio fu purificato e il culto divino riportato alla sua condizione precedente (l Macc. IV, 36 sqq,; II Macch. , X, 1 sqq).
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Ma attraversiamo ora uno spazio di circa due secoli e mezzo, per arrivare all’abominatio desolationis segnata per il tempo degli ultime sventure di Gerusalemme. La predizione si trova nel noto oracolo di cui abbiamo parlato sopra, quello che annunciava l’avvento e la morte del Messia, la conclusione della nuova alleanza, l’abrogazione dell’antica legge, la riprovazione della Sinagoga ed i disastri che dovevano seguirne: « Dopo sessantanove settimane – disse l’Angelo al profeta – il Cristo sarà messo a morte e il popolo che ti rinnegherà non sarà più il popolo di Dio. Ed un popolo guidato da un capo verrà a distruggere la città ed il santuario, ed infine ci saranno la guerra e la devastazione. E per lui (Cristo) si farà la nuova alleanza con molti per una settimana (l’ultima delle settanta), e in mezzo alla settimana cesseranno le oblazioni ed i sacrifici. E CI SARÀ NEL TEMPIO L’ABOMINIO DELLA DESOLAZIONE, E FINO ALLA FINE DURERÀ LA DESOLAZIONE. (Dan., IX, 24-27). Così, secondo i termini di quest’altro oracolo, qualcosa di simile a ciò che era accaduto al tempo dell’empio Antioco doveva accadere al momento della caduta di Gerusalemme. Come al tempo di Antioco, ecco la profanazione del luogo santo, la desolazione del santuario, la violazione sacrilega di tutto ciò che era più sacro nel tempio; ma questo ora, in condizioni del tutto diverse da quelle precedentemente menzionate, e con un insieme di circostanze che porteranno a questa seconda apparizione dell’abominatio desolationis sul teatro della storia, con colorazione propria ed un carattere molto particolare. E notiamo, prima di tutto, che il tempio la cui desolazione è qui annunciata, non era più, come ai tempi di Antioco, il tempio del vero Dio e della vera religione, ancora in pieno possesso delle sue prerogative. Da una quarantina d’anni esso aveva perso la sua gloria, l’aveva persa proprio nel momento in cui, tra la costernazione di tutta la natura, il grande velo che chiudeva l’ingresso al Santo dei Santi fu strappato da cima a fondo, come segno che, nel sangue di Cristo appena spirato sul Calvario, l’Antico Testamento era giunto alla fine, che la legge figurativa aveva lasciato il posto alla Verità figurata, che lo statuto mosaico con i suoi riti, i suoi sacramenti, il suo sacerdozio, il suo altare e le sue cerimonie era stato abrogato per sempre. Ormai queste stesse cerimonie avevano cessato di esistere nella legge, ed il tempio non era che una reliquia. Che se i sacrifici e le altre osservanze legali avevano comunque continuato ad essere legittimamente celebrati lì, non era più in forza di una legge ormai obsoleta e superata, ma unicamente per la riverenza dovuta a Dio, da cui derivavano: questa riverenza esigeva che fossero trattati non come i riti delle false religioni, che devono essere aboliti e sterminati al più presto possibile e senza il minimo ritardo, ma piuttosto, secondo il bel paragone di Sant’Agostino, « come un morto di qualità, che non ci affrettiamo a seppellire incontinente nella terra, ma che teniamo in casa ancora per qualche tempo, in attesa di compiere gli ultimi doveri. » Così era con le osservanze e le cerimonie dell’antica legge durante i pochi anni tra il sacrificio sul Calvario e l’inizio della guerra di Giudea, come i morti erano tenuti nella casa mortuaria fino al tempo stabilito per il funerale e la sepoltura. Solo che, a causa dei nuovi e terribili crimini della Sinagoga, il funerale e la sepoltura dovevano diventare tragici e finire in un disastro. E infatti, nello stesso momento in cui gli eserciti romani apparvero sul suolo della Palestina, l’abominio della desolazione prese possesso del tempio e vi si stabilì come se fosse sua residenza. Inoltre, doveva regnare supremo, e superare ogni misura, fino a provocare l’implacabile vendetta del cielo, e finire per attirare sul tempio stesso la furiosa tempesta che spazzò via gli ultimi resti, rovesciò fin l’ultima pietra, e allo stesso tempo annientò per sempre l’intera economia di cui era la sede, il centro e il simbolo. E in cosa diremo che consisteva l’abominatio desolationis questa volta? La risposta, naturalmente, è una questione storica, e la storia alla mano ci dirà che essa consisteva in niente meno che nelle profanazioni inaudite di cui il tempio fu teatro per quasi quattro anni consecutivi, prima e durante l’assedio, per mano dei cosiddetti zeloti, gli ultimi rappresentanti della Sinagoga, i suoi pontefici ed il suo Sinedrio. Infatti era nel tempio, nelle sue corti, nel suo santuario e persino nel Santo dei Santi, che essi si erano trincerati come nella loro ultima roccaforte; fu lì che, agitati da tutta la furia dell’inferno, commisero tali crimini che Giuseppe non esita a scrivere che se i Romani, esecutori della vendetta divina, avessero tardato ancora, la terra si sarebbe aperta per inghiottire il tempio con la città, altrimenti i fuochi che una volta caddero sulla Pentapoli sarebbero nuovamente scesi dal cielo per divorare una razza mille volte più malvagia, più criminale e più empia di quella che avevano portato via ai tempi di Sodoma e Gomorra (De bello Judaic. l. VI, c. 16 ). Da tutto questo, è molto chiaro che l’abominatio desolationis, predetta da Daniele per il tempo dell’assedio, contrasta singolarmente con il precedente in questo punto capitale, che non era più l’opera di un persecutore, ma l’opera degli stessi ministri del santuario profanato, i guardiani nativi della sua santità e maestà. E da questa differenza seguono tutte le altre. Che se non vediamo più questa volta, come sotto Antioco, l’abolizione da parte del tiranno del culto e delle osservanze della legge di Mosè, e molto meno ancora l’introduzione di idoli che gli stessi zeloti aborrivano e detestavano, non vediamo nemmeno un termine fisso per la cessazione di una così grande devastazione, né una prospettiva di restaurazione. Non leggiamo più, come prima, “fino a duemilatrecento giorni, e il tempio sarà purificato” (Dan. VIII:14), né “metteranno su l’abominio della desolazione“, ma il popolo che conosce il suo Dio resterà fermo e agirà… fino al tempo stabilito per essere provati, purificati e resi bianchi. (Dan. XI, 31-35.) Questa non era più una persecuzione che Dio aveva voluto o permesso per mettere alla prova e purificare il Suo popolo; era solo l’ultimo scoppio di furia con cui la Sinagoga in via di estinzione, completava una maledizione senza rimedio ed una desolazione a cui non si sarebbe posto rimedio e una desolazione che nulla poteva consolare, secondo quanto detto: Et erit in templo abominatio desolationis, et usque ad consummationem et finem perseverabit desolatio.
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Ma è tempo di venire finalmente all’abominio della desolazione indicato sopra nel terzo ed ultimo luogo: quello che si vedrà alla fine dei tempi sotto il regno dell’anticristo, e che troviamo predetto nel dodicesimo capitolo di Daniele, come si dirà all’inizio di questo capitolo, ove la parola è data all’Angelo che completa la sua spiegazione al Profeta delle visioni che ha ricevuto precedentemente riguardo ai regni della terra e al regno di Dio. Già riprendendo e sviluppando ulteriormente la visione dell’ariete e del capro, del grande e del piccolo corno, che appare nell’ottavo capitolo, egli aveva, nell’undicesimo capitolo, abbozzato la storia futura dell’impero dei Persiani prima, e poi quello dei Greci, e poi si era soffermato a lungo e in modo molto speciale sul regno di Antioco Epifane, facendo del personaggio e delle sue gesta un quadro in cui tutta l’antichità cristiana ha riconosciuto una profezia con un doppio scopo, per cui, sotto i tratti del re senza Dio della Siria, vedeva l’uomo del peccato, l’empio per eccellenza, che sarà l’anticristo della fine dei tempi, e che, nella persecuzione del tempo dei Maccabei, tracciava il profilo della formidabile persecuzione che la Chiesa di Dio dovrà sopportare alla fine della sua carriera (S. Gerol. in Dan., c. XI). E ora, passando improvvisamente, alla maniera dei profeti, dalla figura alla cosa figurata, e attraversati tutti gli intermediari come con un salto, l’Angelo trasporta Daniele in quel futuro lontano che, nel quadro precedente, occupava ancora solo vagamente lo sfondo della prospettiva. Ora abbassa il sipario su Antioco e il suo tempo, per alzarlo su una nuova scena, una scena che tutto indica come quella della crisi suprema che precederà la consumazione dei tempi, la resurrezione dei morti, il giudizio universale, la ricompensa dei buoni, la punizione dei malvagi, in breve, la restaurazione di tutte le cose per l’eternità. Infatti, riprendendo la parola, l’Angelo continuò: « In quel tempo si alzerà Michele, il grande dominatore, che legherà i figli del tuo popolo; e verrà un tempo come non c’è mai stato da quando esiste il mondo, fino a quell’ora. E in quel tempo saranno salvati, tra il tuo popolo, tutti coloro che si trovano scritti nel libro. E la moltitudine di coloro che dormono nella polvere si sveglierà, alcuni alla vita eterna, altri per un obbrobrio, da cui saranno coperti per sempre. E coloro che hanno avuto la conoscenza di Dio (che sono vissuti fedeli alla sua legge), brilleranno come lo splendore del firmamento, e coloro che hanno condotto molti alla giustizia saranno come le stelle, eternamente e per sempre. E tu, Daniele, conserva queste parole e sigilla questo libro fino al tempo della fine. Allora molti lo studieranno e la conoscenza si moltiplicherà. » Questo è certamente un inizio che non lascia spazio ad equivoci, e se, come osserva San Girolamo, coloro che pretendono di riferire le ultime pagine di Daniele al solo Antioco sono riusciti a cavarsela finora, e a sostenere il loro sentimento in modo tale da poterlo fare in questo capitolo, non saranno in grado di farlo in questo capitolo, dove è descritta la resurrezione dei morti alla vita o all’obbrobrio eterno e ci diranno con qualche probabilità chi erano sotto Antioco quelli che brillavano come lo splendore del firmamento, o come stelle per sempre (Jerol. in Dan. c. XII, P. L. t. XXV, col. 575)? – Notiamo attentamente, allora, questo assemblaggio in un unico quadro di tutti i tratti più salienti dell’escatologia classica, compresa la futura conversione dei resti di Israele, che tanti altri oracoli annunciano, per arrivare all’ultima ora del mondo. Ma notiamo soprattutto ciò che la profezia mette più in evidenza: questa persecuzione finale di cui quella di Antioco era solo una debole immagine, dove l’arcangelo Michele verrà in persona a combattere contro satana e l’anticristo suo complice; essa si distinguerà per questa caratteristica fra tutte, un tempo di angoscia che non ha mai avuto il suo uguale in tutta la storia, tempus quale non fuit ex quo gentes esse cœperunt usque ad illud! Ed è anche a questa tremenda persecuzione che il Profeta rivolge la sua attenzione, chiedendo: “Quando finiranno queste cose prodigiose? E gli si risponde: In un tempo, due tempi e metà del tempo; E quando la forza del popolo santo sarà completamente spezzata, allora tutto sarà consumato. Ma Daniele dice che ha sentito senza capire; desidera dettagli più espliciti, e allora gli viene data l’ultima risposta su cui si chiude tutto il libro: la risposta in cui si fa espressa menzione dell’abominio della desolazione che il mondo vedrà sotto il regno dell’anticristo, nello stesso tempo in cui viene mostrata la fine benedetta a cui questo tempo, essendo passato il tempo della terribile prova, la desolazione condurrà. « Va’, Daniele – disse l’Angelo – perché queste parole sono chiuse e sigillate fino al tempo finale ». E molti saranno purificati e resi bianchi e provati con il fuoco; e gli empi agiranno come empi, e nessuno di loro capirà, ma coloro che hanno la conoscenza della pietà capiranno. E DAL MOMENTO IN CUI IL SACRIFICIO CONTINUO SARÀ TOLTO E L’ABOMINIO DELLA DESOLAZIONE SARÀ ERETTO, CI SARANNO MILLEDUECENTONOVANTA GIORNI. Beato chi aspetta e arriva a milletrecento trentacinque giorni. Ma tu andrai alla tua fine e ti riposerai, e resterai per la tua eredità fino alla fine dei giorni. Questo è l’oracolo che chiude la serie delle predizioni di Daniele riguardanti l’abominatio desolationis, e, confrontandolo con i precedenti, ogni lettore attento deve convenire che differisce da essi in modo notevole, in quanto è avvolto in un velo più denso di ombra e di mistero. Già, per il fatto stesso di non aver ancora ricevuto il suo compimento, si presenterebbe a noi nelle condizioni che sono comuni a tutte le profezie che l’evento non è venuto a chiarire, e per così dire, a decifrare. Infatti il futuro è e rimane sempre più o meno chiuso per noi, e le stesse cose che Dio ci ha rivelato di solito accadono in un modo diverso da quello che abbiamo o avremmo immaginato: il che fa dire a Sant’Ireneo che le profezie, prima che si compiano, sono enigmi la cui chiave ci sfugge (Iren, Contra Hær. l. IV, cap. XXVI, P. G. t. VII, col. 1052). – Ma qui, a questa ragione generale se ne aggiunge un’altra molto particolare, che l’oracolo stesso porta con sé la prova più esplicita della sua stessa oscurità. Si tratta di parole chiuse, di previsioni sigillate (vers. 4, 9); Daniele stesso dichiara di non capire: audivi et non intellexi, e se chiede ulteriori informazioni, l’Angelo risponde che il sigillo del mistero non può essere tolto fino al tempo del compimento, usque ad præfinitum tempus. Inoltre, al tempo del compimento stesso, gli empi non capiranno, neque intelligent omnes impii; solo i dotti capiranno, porro docti intelligent: i dotti, cioè i fedeli istruiti nella scienza della pietà, che troveranno allora in questa comprensione, in mezzo alle loro prove, incoraggiamento e speranza. Tutto questo è da ricordare, tutto questo è da notare attentamente, in vista del confronto che dovremo presto fare dell’oracolo di Daniele con il brano del Vangelo, oggetto del nostro studio. Tuttavia, qualunque sia il velo di mistero in cui il suddetto oracolo deve rimanere avvolto fino al tempo della fine, ci sono alcune generalità che il testo porta alla luce da solo, o che l’analogia dei luoghi paralleli rivela. Così, per esempio, sappiamo che la crisi, annunciata in questo dodicesimo capitolo di Daniele, sarà appositamente predisposta da Dio come mezzo di purificazione per l’ultima generazione cristiana: quella generazione che deve vedere tutti i segni della grande catastrofe, e sentire i primi suoni della tromba che risveglia i morti dalle loro tombe: così che, provato come l’oro nella fornace, libero da ogni attaccamento ad un mondo sull’orlo della distruzione, si trova pronta per portarsi davanti al Signore tornato a cercare i suoi per condurli nel suo regno eterno. Ed questo ciò che è da intendere nelle parole del versetto dieci: Eligentur et dealbabuntur, et quasi ignis probabuntur multi. Sappiamo, inoltre, che nel tempo della terribile persecuzione, ogni esercizio della vera religione sarà proscritto, che di conseguenza il culto di Dio cesserà di essere celebrato, almeno pubblicamente e apparentemente alla luce del giorno, in faccia al sole. A tempore cum ablatum fuerit fuge sacrificium, si legge nell’undicesimo versetto: dal tempo in cui il sacrificio perpetuo sarà tolto. Si tratta di una ripetizione di quanto abbiamo letto in precedenza (VIII, 13 e XI, 31) a proposito della persecuzione di Antioco, con la notevole differenza, però, che non si parla più del tempio o del santuario, né di nulla che possa ricordare un passato ormai scomparso da tempo. Il sacrificio perpetuo in questione è dunque il Sacrificio della nuova alleanza, che è succeduto a quello che, secondo la legge di Mosè, si offriva sera e mattina nel tempio di Gerusalemme, e al quale, a maggior ragione, si addice il nome di juge sacrificium, offerto conformemente alla legge della sua istituzione senza interruzione di giorno o notte, dal levante al ponente su tutte le lande e sotto ogni cielo. Questo è, in una parola, il Sacrificio dei nostri altari, che allora, in quei terribili giorni, sarà ovunque proscritto, ovunque proibito, e tranne quello che si potrà, e si farà nelle ombre sotterranee delle catacombe, ovunque interrotto. Sappiamo, in terzo luogo, che nello stesso tempo sarà eretto l’abominio della desolazione: « A tempore cum ablatum fuerit juge sacrificium et posita fuerit abominatio in désolationem. » Ma quale sarà l’abominatio desolationis per questa legge? Ovviamente qualcosa di analogo a quello che apparve nella persecuzione di Antioco, quando il tempio di Gerusalemme fu dedicato a Giove Olimpico e contaminato da ogni sorta di impurità e profanazioni, come è stato riportato sopra. Qualcosa di analogo, diciamo noi, tenendo conto della differenza di tempo e di luogo, e della sproporzione tra una persecuzione locale, come quella del tempo dei Maccabei, e la persecuzione mondiale che sarà quella dell’Anticristo. Ma dunque, cosa? Qualche nuovo mostro di idolatria stabilito nei nostri templi diventati i templi del dio dell’umanità (la chiesa modernista dell’uomo del Vaticano II? – ndr. – ), del dio della ragione, del dio immanente nel mondo, trionfando infine, dopo tanti sforzi del libero pensiero, sul Dio trascendente della rivelazione cristiana? Qualche mistero luciferiano tratto dagli oscuri recessi delle conventicole massoniche e installato alla luce del sole (il baphomet “signore dell’universo”? – ndr. -) al posto dei tabernacoli rovesciati di Nostro Signore Gesù Cristo? Qualche culto impuro dato agli idoli di carne e sangue (le aberrazioni sessuali delle lobby? – ndr – ), come si è visto nei giorni peggiori della nostra grande rivoluzione? Tante ipotesi che una facile immaginazione costruita sui dati del passato può suggerirci. Ma qual è il valore dei dati passati per le congetture future? È con grande senso che Bossuet ha scritto: « Tremo mettendo le mani sul futuro » (Bossuet, L’Apocalisse, XX, 14). Sarà dunque più sicuro, lasciare da parte tutte le determinazioni particolari ed attenersi puramente e semplicemente alla parola della Scrittura, dove essa annuncia la manifestazione del grande anticristo, l’anticristo per eccellenza, che si solleverà contro tutto ciò che è chiamato Dio ed onorato da culto, fino al punto di sedersi nel santuario di Dio e presentarsi come se fosse Dio. (II Tess., n, 4). Questa è l’affermazione più autorevole che si possa fare sull’abominatio desolationis degli ultimi giorni, senza preoccuparsi ulteriormente del come. E tutto ciò che si può dire con certezza è che nella sua apparizione, l’empio, l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, « sarà con la potenza di satana, accompagnato da ogni sorta di segni e prodigi ingannevoli, con tutte le seduzioni dell’iniquità » … questo ci promettono il progresso della magia, della negromanzia, dello spiritismo, del luciferianesimo, della teosofia e, in una parola, di tutte le cosiddette scienze occulte, con qualunque nome siano chiamate e sotto qualunque maschera si nascondano. (II Tess., II, 9-10). Quanto al resto, diciamolo ancora una volta, è un segreto del futuro, dove volenti o nolenti siamo obbligati a confessare che non vediamo nulla (fino al 2019! – ndr. – ). – Ma quanto più oscura ancora è la parte finale dell’oracolo di Daniele dove, dopo aver menzionato i milleduecentonovanta giorni che si contano dall’interruzione del sacrificio perpetuo e l’installazione dell’abominatio desolationis, si dice: « Beato chi aspetta e arriva a milletrecento trentacinque giorni! » Non è, senza dubbio, che anche qui tutto sia tenebra e oscurità, perché appare abbastanza chiaro che si tratti dell’aspettativa così spesso raccomandata di poi, nelle Scritture del Nuovo Testamento, « della beata speranza e venuta della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo » (Tit., II, 13; I Cor. 1, 17; Filipp., III, 20; I Tess. 1, 10; Eb. IX, 28; II Petr. III, 12, ecc.): che di conseguenza, come dice espressamente San Girolamo nel suo commento al presente versetto di Daniele, la fine dei 1335 giorni segna l’ora della parusia, « quando il Signore e Salvatore ritornerà nella sua maestà ». Questo, dico, sembra abbastanza chiaro, se ci riferiamo a ciò che l’Angelo ha detto poco prima sulla risurrezione dei morti e la ricompensa eterna dei giusti. Ma quante ombre ci sono ora, mescolate a questa luce! Cosa sono in particolare i 1290 giorni menzionati sopra? Quali sono i quarantacinque giorni che si aggiungono ad essi per completare la somma di 1335, e qual è la ragione per distinguerli dagli altri? Essi segnano l’intervallo tra la sconfitta dell’anticristo e l’arrivo del Giudice dei vivi e dei morti? E in questo caso, questo numero di 45, come quello di 1290 a cui si aggiunge, sarebbe un numero preciso, da prendere nel senso proprio e naturale della lettera, o non piuttosto uno di quei numeri mistici di cui i libri dei Profeti ci offrono tanti esempi? Tanti misteri che rimangono impenetrabili finché l’evento non porta qualcosa per decifrare l’enigma; tanti sigilli che saranno tolti solo al momento della fine, e solo per il bene per i fedeli servitori di Gesù Cristo, per quelli che, secondo la bella espressione dell’Apostolo “amano la sua venuta”, qui diligunt adveutum ejus. Perché gli altri, come è già stato detto, non capiranno, ma, ribelli a tutti gli avvertimenti come quelli della generazione di Noè, saranno sorpresi dalla catastrofe che cadrà su di loro all’insaputa, nel momento stesso in cui diranno: Pace e sicurezza. Cum dixerint pax et securitas, tunc repentinus eis superveniet intéritus, sicut dolor in utero habenti, et non effugient (I Tess. V, 3). – Finora abbiamo evidenziato, e, per quanto possibile, commentato e spiegato i vari oracoli di Daniele riguardanti l’abominazione della desolazione. Questa era l’indagine preliminare, spinta dalle difficoltà presentate dal passo di San Matteo, XXIV, 15 segg. , e in particolare dalla questione di ciò a cui mirava realmente la profezia del Vangelo, dove è detto: Quando vedrete l’abominio della desolazione, annunciato dal profeta Daniele, eretto nel luogo santo, chi legge intenda, ecc. Ora, dopo le spiegazioni precedenti, la risposta da cui dipende la soluzione desiderata sarà più facile; la daremo a titolo di conclusione, in un’esposizione semplice e rapida. – E prima di tutto, non avremo difficoltà a riconoscere che Gesù, riferendosi alla profezia di Daniele, si riferiva infatti all’oracolo del capitolo nove, riguardante il tempo e gli eventi dell’assedio. Ciò è perentoriamente dimostrato dal consiglio dato a coloro che si trovavano in Giudea di fuggire sui monti non appena si fosse visto l’abominio della desolazione nel tempio, che, secondo la collazione dei vari testi di San Matteo e San Luca, avrebbe cominciato ad apparire nello stesso momento in cui iniziava l’assedio di Gerusalemme da parte degli eserciti romani. Tutto questo è accettato dall’esegesi e dalla storia, ammesso senza dubbio da tutti gli interpreti, e noi non lo contraddiremo. Ma ciò che sembra più ovvio, se può esserlo, e più certo ancora, è che l’oracolo di Daniele a cui si fa principalmente riferimento era quello del dodicesimo capitolo, proprio quello che abbiamo appena citato, riguardante il tempo dell’anticristo e la grande persecuzione che verrà nel suo regno. E qui potrei osservare, prima di ogni altra cosa, che non c’è nulla nel testo evangelico che limiti l’ampiezza di questa espressione, abominationem desolationis quae dicta est a Daniele prophèta, all’unico abominio predetto per il tempo dell’assedio; nulla che determini la sua portata a Daniele IX, 27, ad esclusione di Daniele, XII, 11. Potrei aggiungere che nostro Signore non dice: “Quando vedrete l’abominio predetto da Daniele eretto nel tempio”, ma piuttosto: “eretto nel luogo santo, in loco sancto“, (èn topo aghio) che è un’espressione più generale, che va oltre l’orizzonte giudaico, e porta il pensiero oltre il tempio di Gerusalemme e gli eventi di cui doveva essere teatro. Potrei, dico, fare queste considerazioni, che non sono senza valore, e sarebbe utile mettere in fila, in mancanza di altre prove; ma non vi insisto, e preferisco affidarmi a due argomenti molto più perentori, il primo dei quali si legge nell’inciso: “Chi legge, intenda! Qui legit, intelligat“, subito dopo le parole “Quando vedrete l’abominio predetto dal profeta Daniele“. Infatti, questa inciso contiene un’evidente allusione a ciò che è stato notato sopra, dell’oscurità dell’oracolo del capitolo dodici. Inoltre, risponde direttamente al passaggio dove si dice che gli empi non l’avrebbero capito, che solo i fedeli avrebbero ricevuto l’intelligenza: Neque intelligent omnes impii… porro docti intelligent. Perciò, chi legge, ascolti. Questa è un’indicazione tacita, ma tanto più significativa, del luogo preciso del profeta a cui ci si riferisce. Tanto per il primo argomento. Ma il secondo è ancora più decisivo. Deriva dalle parole che appaiono un po’ più in basso nel testo di San Matteo …ci sarà grande angoscia, come non si vedeva nulla di simile dai tempi dell’inizio del mondo, e non lo sarà mai più. È parola per parola ciò che è detto in Dan. XII, 1: Et veniet tempus quale non fuit ex quo gentes esse cœperunt usque ad, illud. Da tutto ciò risulta che, nel passo di San Matteo che è stato oggetto del presente studio, Nostro Signore si riferiva subito ai due oracoli di Daniele sopra menzionati, e univa nello stesso quadro profetico gli eventi corrispondenti, quelli dell’assedio e quelli della persecuzione dell’Anticristo. È perché in effetti, questi eventi, per quanto distanti l’uno dall’altro nell’ordine del tempo, rappresentavano situazioni del tutto analoghe, che di per sé si prestavano ad essere presentate e disposte in un’unica prospettiva di futuro prossimo e lontano. Da un lato, la crisi che segnalava la fine della religione giudaica, che stava lasciando il posto a quella del Nuovo Testamento; dall’altro, la crisi che segnalava la fine della religione della terra, che sarebbe stata abolita per far posto a quella dell’eternità. Da una parte come dall’altra, giorni come mai visti, né mai si vedranno, ma giorni di vendetta al tempo dell’assedio (emerai eikoikeseos – Luca, XXI, 22), perché mai fu, mai si vedrà una vendetta come quella che fu fatta allora contro Gerusalemme; ed i giorni di persecuzione al tempo dell’anticristo (Tlipsis emeron ekeinon – Matth., XXIV, 29), perché mai fu, mai si vedrà persecuzione paragonabile a quella in cui satana, più scatenato che mai, eserciterà la sua seduzione senza limiti con mezzi inauditi fino ad allora. Infine, da entrambe le parti, il finimondo alla fine dei giorni della tribolazione, statim post tribulationem dierum illorum. Ma dopo la tribolazione dei giorni dell’assedio, il finimondo in immagine ed in figura, di cui abbiamo parlato in un articolo precedente; dopo la tribolazione dei giorni dell’anticristo, il vero finimondo, dove apparirà in tutta verità il segno del Figlio dell’uomo, che tutte le tribù della terra vedranno venire in grande potenza e maestà. Con queste semplici osservazioni, il ragionamento dei modernisti va in fumo ancora una volta, anche se non lo danno per scontato. Rimane per loro il più invincibile di tutti gli argomenti, o almeno quello che considerano tale, e che dobbiamo esaminare prima di lasciare il discorso escatologico che ci ha occupato finora, e passare agli altri luoghi della Scrittura che essi alterano, secondo la parola di San Pietro (II Petr., III, 16), per la loro propria perdizione, e anche, ahimè! Per quella di coloro che li ascoltano.