LA PARUSIA (2)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (2)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE. Rue de Rennes, 117; 1920

ARTICOLO SECONDO

LA PRESENTE GENERAZIONE NON PASSERÀ, PRIMA CHE TUTTE QUESTE COSE NON SI SIANO COMPIUTE »,

in San Matteo (xxiv XXIV, 34) e San Marco (XIII, 30), da un lato; S. Luca dall’altro (XXI, 32).

Cominciamo col concedere audacemente che la parola generatio hæc, (ἠ γενεά αὓτη – [e ghenea aute]) significa, in senso naturale e ovvio, il tempo dei contemporanei di Gesù, la generazione di quel tempo in opposizione a quelle che la seguiranno, e di conseguenza, il periodo di tempo che, valutato all’estrema durata della vita umana, si concluderà con il primo secolo della nostra era. – Non sembra esserci alcun dubbio a questo proposito. È vero che diversi interpreti hanno creduto di poter uscire d’imbarazzo dando alla parola γενεά [ghenea] il senso di posterità, discendenza, razza, o addirittura “tutta la durata del genere umano” in generale, o del popolo giudaico in particolare, così da tradurre: « Questa generazione (cioè il genere umano, o se si vuole, la razza giudaica) non finirà finché tutte queste cose non saranno compiute. » In questo modo, la difficoltà che sta per occuparci scomparirebbe subito, e radicalmente, e ciò non potrebbe essere più chiaro; ma aggiungiamo rapidamente che scomparirebbe solo per farne posto ad un’altra incomparabilmente più grave, o per meglio dire, inestricabile in ogni modo. – Infatti, una tale interpretazione del testo evangelico, gli toglierebbe ogni credibilità ed è del tutto inammissibile. Innanzitutto perché farebbe parlare Gesù per niente dire. Perché se intendiamo questa generazione, con “tutto il genere umano”, il significato sarebbe: “In verità, vi dico, la fine del mondo non verrà finché non avverranno tutte le cose che ho predetto sulla fine del mondo stesso”, il che si ridurrebbe ad una solenne affermazione che la fine non verrà prima che venga la fine: una tautologia assurda e ridicola. E se si intende la razza peculiare del popolo giudaico, il significato, identico nella sostanza, aggiungerebbe solo l’assicurazione della durata futura di questo popolo fino all’ultimo giorno, una cosa senza dubbio estremamente notevole e degna di nota, soprattutto in considerazione delle condizioni molto particolari in cui esso si trovava, ma che non ha alcun tipo di connessione o legame con l’oggetto della presente questione. – In secondo luogo, l’espressione ἠ γενεά αὓτη (e ghenèa aute) ricorre fino a sedici altre volte nei Vangeli, sia di San Matteo, sia di San Marco, sia di San Luca, e sempre, costantemente, invariabilmente, significa la generazione favorita dalla presenza, dagli insegnamenti e dai miracoli di Gesù. È la generazione che è come i bambini seduti al mercato, che gridano ai loro compagni: « Abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; abbiamo cantato un lamento per voi e non vi siete battuti il petto. Giovanni non è venuto né a mangiare né a bere, e dicono: “È posseduto dal demonio”. Il Figlio dell’uomo è venuto mangiando e bevendo, e dicono che è un uomo allegro e un bevitore di vino » (Matth., XI, 16; Luca, VII, 31), Questa è ancora la generazione che chiede un segno, e alla quale sarà dato solo il segno del profeta Giona (Matth, XII, 39; Marco, VIII, 12; Luca, XI, 29); la generazione che sarà condannata nel giorno del giudizio dagli uomini di Ninive che fecero penitenza alla voce di Giona, così come la regina del Sud che venne dai confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone, mentre a questa generazione, fu mandato più di Giona e più di Salomone (Matth, XII, 41; Luca, XI, 31); la generazione, infine, dalla quale il sangue di tutti i profeti e di tutti i giusti fu versato fin dall’inizio, perché doveva rendere completa la misura crocifiggendo il Figlio di Dio stesso, e mettendo a morte i suoi Apostoli e i suoi ministri (Matth., XXIII, 36; Luca, XI, 50): tanti i caratteri che sono appropriati alla generazione contemporanea a Gesù, ed appropriati solo ad essa. Infine, non è evidente che dicendo: “Questa generazione non passerà finché tutte queste cose non saranno compiute“, Gesù intendeva rispondere alla domanda posta in precedenza dai discepoli, e posta in questi termini precisi: « Dicci quando avverranno queste cose, dic nobis quando hæc erunt? ». E non è ancora più evidente ancora che, intendendo ἠ γενεά αὓτη – ghenea aute – come “razza umana” o razza giudaica fino alla fine dei secoli, la risposta non sarebbe più una risposta, poiché lascerebbe il tempo degli eventi, in tutti i punti e lungo tutta la linea, completamente indeterminato? Non rifacciamo dunque i testi a nostro piacimento per amore di una causa, ma prendiamoli così come sono, con il significato dato loro dal valore naturale delle parole, dalle esigenze del contesto, dall’analogia dei passi paralleli e dal modo comunemente usato nel linguaggio umano. Gesù, interrogato sul tempo degli eventi, ha detto: “Questa generazione non passerà finché essi non saranno compiuti“. Questo era per dire ai suoi contemporanei che li avrebbero visti, che ne sarebbero stati testimoni, che addirittura, come appare dai termini di questa profezia e da diversi altri luoghi del Vangelo, avrebbero avuto una parte molto terribile in essi. E infatti, se veniamo ora all’evento, troveremo piena e completa conferma del senso naturale e ovvio delle parole ascoltate dagli Apostoli sul Monte degli Ulivi, alla vigilia della Passione. Una cosa è ovvia dall’inizio, e deve essere concessa prima di ogni ulteriore esame dell’oracolo evangelico. Non era ancora passato mezzo secolo, anzi meno, cioè quarant’anni, e tutto ciò che nella predizione è descritto in primo piano, aveva ricevuto da punto a punto, fino all’ultimo dettaglio, con una sorprendente precisione, il più brillante adempimento. Ho detto, tutto ciò che è descritto in primo piano, perché qui, come è evidente dal più semplice sguardo al testo dei tre evangelisti, siamo davvero in una di quelle profezie con doppio oggetto, e di conseguenza, con doppio piano, di cui abbiamo parlato nell’articolo precedente. È impossibile sbagliarsi. Due grandi catastrofi, distinte l’una dall’altra per come è possibile, sono chiaramente annunciate. La prima riguarda Gerusalemme, che sarà investita dalle armate, assediata, saccheggiata e calpestata dai Gentili; l’altra, incomparabilmente più grande, riguarda l’universo, che, scosso fino al suo fondo, sarà nelle convulsioni dell’agonia, mentre gli uomini si prosciugheranno dal terrore nell’attesa di ciò che accadrà al mondo (Luca, XXI, 20, segg.; 25, segg.). L’una più vicina, quando i Giudei saranno messi a ferro e fuoco e condotti in cattività tra tutte le nazioni, l’altra più lontana, che verrà solo dopo che il Vangelo sarà stato predicato su tutta la terra ed i tempi dei Gentili saranno stati compiuti (Luc. XXI, 24; Matt. XXIV, 14). – L’una che può essere evitata con la fuga, grazie ai segni dati in anticipo, l’altra che verrà all’improvviso, che sorprenderà come una rete tutti gli abitanti della terra, senza che sia possibile sfuggirvi, se non preparandosi ad essa con una vigilanza continua ed una preghiera perseverante (Matth., XXIV, 15; Luc, XXI, 35). L’una, infine, il cui tempo non cade sotto l’impenetrabile segretezza in cui è nascosto invece il tempo della seconda (Matth., XXIV, 36), e che, a differenza della seconda, occupa veramente quello che abbiamo chiamato il primo piano e per così dire il proscenio del quadro profetico dipinto da Nostro Signore. – Vediamo dunque, prima di ogni altra cosa, come questa profezia del primo piano, nella quale, notiamo già (perché questo è ciò che è importante osservare qui, e sul quale torneremo più avanti), l’oggetto del fondo stesso sia in qualche modo compreso, secondo che la cosa rappresentata si possa dire compresa nella figura, e la realtà rappresentata dall’immagine, nell’immagine che la rappresenta: Vediamo, dico, come si fosse realizzata da punto a punto, ed in ogni suo dettaglio, prima che fosse passata la generazione di cui Gesù aveva detto, non præteribit generatio hæc, donec omnia hæc fiant. Colpisce la presentazione fatta da Bossuet nel Discorso sulla storia universale. Ci basta trascrivere qui (salvo alcune lievi aggiunte, abbreviazioni e trasposizioni) i passaggi principali, a cominciare dall’enumerazione delle sventure segnalate negli anni precedenti l’assedio della sfortunata Gerusalemme (Bossuet, Hist. univ. II° parte, c. XXI – XXII). In primo luogo, Gesù aveva annunciato epidemie, carestie e terremoti, e infatti le storie testimoniano che mai queste cose erano state più frequenti e più notevoli di quanto lo fossero in questi tempi. Negli ultimi sette anni di Nerone, la terra, si può dire letteralmente, tremò da tutte le parti. Nel 61 e 62 d.C. i terremoti scossero l’Asia, l’Acaia e la Macedonia; le città di Hierapolis, Laodicea e Colossi furono particolarmente colpite (Tacito, Ann., XIV, 27.). Nel 63 passarono in Italia; la campagna di Napoli già ardeva di quei terribili incendi che, sedici anni dopo, portarono alla prima storica eruzione del Vesuvio. Si sono manifestati in scosse sotterranee. Napoli e Nocera furono colpite, Pompei fu quasi rasa ak suolo, Ercolano parzialmente distrutta: e questo era ancora solo il preludio alla loro rovina. Il terrore in Campania fu universale, gli uomini divennero folle per lo stacento (Tacit. Ann. XIV, 22). Il terreno sembrava scosso ovunque, e i Cristiani ricordarono le parole del Salvatore: Et terræ motus magni erunt per loca. L’anno 66 vide un altro tipo di disgrazia. La sfortunata Campania fu afflitta questa volta da venti torrenziali che devastarono case, arbusti e coltivazioni. Queste tempeste raggiunsero Roma, e nella città stessa, senza alcun disturbo visibile dell’atmosfera, una malattia pestilenziale spopolò tutti i ceti della società. Secondo Tacito (Ann., XVI, 13) e Svetonio (in Ner. 39), le case erano piene di corpi morti, le strade di convogli funebri. Uomini e donne, bambini e vecchi, schiavi e liberi, perirono allo stesso modo. In un solo autunno il tesoro di Venere Libitina registrò trentamila morti (De Clinmpagny, Rome et la  Judée, t. 1, c,11). Con il pronostico delle catastrofi naturali, si adempì anche il pronostico annunciato, di apparizioni spaventose nel cielo, e di segni straordinari: terroresque de cœlo, et signa magna erunt. Giuseppe: de Bello jud., l. VII, c. 12) e Tacito (Hist, v, 13), ci dicono che per un anno intero si vide planare una sinistra meteora a forma di spada, e (cosa che secondo Giuseppe sembrerebbe una favola inverosimile, se non fosse garantita da una moltitudine di testimoni oculari), che in quel momento si vedevano in tutto il paese, un po’ prima dell’alba, squadroni di cavalieri armati, che sfondavano le nuvole, correvano nell’aria e venivano ad accamparsi intorno alla capitale. « È anche una tradizione costante attestata nel Talmud, e confermata da tutti i rabbini, che circa quarant’anni prima della catastrofe, costantemente nel tempio sono state viste cose strane. Ogni giorno apparivano nuove prodigi, così che un famoso rabbino un giorno gridò: “Tempio, tempio, cosa ti muove e perché ti spaventi? Cosa c’è di più marcato di quel terribile rumore che fu udito dai sacerdoti nel santuario il giorno di Pentecoste, e questa voce che usciva dalle profondità di quel luogo Sacro: “Andiamo via da qui, andiamo via da qui! E se questo prodigio fu visto solo dai sacerdoti, qui ce n’era un altro manifesto agli occhi di tutto il popolo. Quattro anni prima della dichiarazione di guerra, un contadino di nome Gesù, detto Giuseppe, si mise a gridare: “Una voce uscì dall’oriente, “Una voce uscì dall’ovest, “Una voce uscì dai quattro venti: Una voce contro Gerusalemme e contro il tempio, una voce contro gli sposi e le spose, una voce contro tutto il popolo. Da allora non cessò mai di gridare: « Guai a Gerusalemme! » E nei giorni di festa gridava ancora più forte. E nessun’altra parola usciva dalla sua bocca; perché quelli che lo compiangevano, quelli che lo maledicevano e quelli che provvedevano a lui, non udirono da lui che questa terribile parola: « Guai a Gerusalemme! » Fu preso, interrogato e condannato alla fustigazione dai magistrati: ad ogni colpo e ad ogni richiesta, rispondeva senza mai lamentarsi: « Guai a Gerusalemme! » Fu rinviato come un pazzo, e corse per tutto il paese ripetendo continuamente la sua triste previsione. Per sette anni continuò a gridare in questo modo, senza rallentare e senza che la sua voce si indebolisse mai. Al momento dell’ultimo assedio, si rinchiuse nella città, girando instancabilmente intorno alle mura e gridando con tutta la sua forza: « Guai al tempio, guai alla città, guai a tutto il popolo! » Alla fine aggiunse: “Guai a me!” e allo stesso tempo fu colpito da una pietra lanciata da una macchina. » Questo per quanto riguarda i presagi di cui è stato detto: “Ci saranno apparizioni spaventose nel cielo e grandi segni”. Per quanto riguarda i disordini, le voci di guerra e l’insorgere di nazione contro nazione e regno contro regno: « Questo fu verificato alla lettera negli ultimi anni di Nerone, quando l’impero romano, così pacifico dopo la vittoria di Augusto e sotto il potere degli imperatori, cominciò a scuotersi, e le città della Gallia, della Spagna e tutti i regni di cui l’impero era composto, furono improvvisamente agitati: quattro imperatori (Galba, Ottone, Vitellio, Vespasiano) si sollevarono quasi contemporaneamente contro Nerone e tra loro; le coorti del pretorio, gli eserciti della Siria, della Germania e tutti quelli che erano sparsi in Oriente e in Occidente, che si scontrarono e attraversano il mondo da un’estremità all’altra, per decidere la loro dispute con battaglie sanguinose. In ventidue mesi, l’Italia fu invasa due volte, Roma presa due volte, la seconda con un assalto; guerra sul Reno, guerra sul Danubio, guerra sul Mar Nero, guerra ai piedi dell’Atlante, contemporaneamente sul Tevere; mai forse, per tante cause diverse, tante nazioni erano state agitate, tante terre avevano sofferto, tanti uomini erano morti. E questo doveva essere solo l’inizio dei dolori ». Badate a voi stessi, aveva aggiunto Gesù, intendendo che anche la Chiesa, sempre afflitta fin dalla sua prima costituzione, avrebbe visto accendersi contro di essa la furia dell’inferno, più violenta che mai. Vi consegneranno alle torture, vi faranno morire, sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Questo si compì punto per punto, e in particolare a Roma, dove Nerone scatenò la prima delle dieci grandi persecuzioni di cui Tacito ha descritto gli orrori, e mise a morte i principi degli Apostoli, San Pietro e San Paolo. Ma era sui Giudei che dovevano cadere le più grandi calamità: sui Giudei che, con la loro turbolenza e il loro furore, stavano preparando la loro stessa rovina, alla quale sarebbero stati irrimediabilmente precipitati dai falsi Cristi e dai falsi profeti che Gesù aveva annunciato: “Sorgeranno molti falsi Cristi e falsi profeti – aveva detto – e inganneranno molte persone. Infatti, non ne sono mai apparsi così tanti come nel periodo successivo alla sua morte. “Soprattutto al tempo della guerra di Giudea, e durante il regno di Nerone che la iniziò, Giuseppe ci mostra un numero infinito di questi impostori che attiravano il popolo nel deserto con vani prestigi e segreti di magia, promettendo loro una pronta e miracolosa liberazione. Infatti, uno dei segni più terribili dell’ira divina è quando, come punizione per i nostri peccati precedenti, essa ci consegna al nostro senso reprobo, così che siamo sordi a tutti i saggi avvertimenti, ciechi alle vie di salvezza che ci vengono mostrate, veloci a credere a tutto ciò che ci perde, purché ci lusinghi, e audaci a intraprendere tutto senza mai misurare la nostra forza con quella dei nostri nemici che irritiamo. E questo è ciò che doveva accadere ai Giudei, perché sebbene la loro ribellione avesse attirato su di loro le armi romane, Tito non li avrebbe persi, anzi, spesso offrì loro il perdono, non solo all’inizio della guerra, ma anche quando non potevano più sfuggire alle sue mani. Aveva già costruito un lungo ed esteso muro intorno a Gerusalemme, con torri e ridotte forti come la città stessa, quando mandò loro Giuseppe, un loro concittadino, uno dei loro capitani, uno dei loro sacerdoti, che era stato catturato in questa guerra mentre lasciava il suo paese. E cosa non aveva detto loro per smuoverli? Quante forti ragioni aveva dato loro per tornare all’obbedienza! Ma, sedotti dai loro falsi profeti, non ascoltarono nulla, e furono ridotti allo stremo; la fame ne uccise più che la guerra, e le madri mangiarono i loro figli. E Tito, da parte sua, era toccato dai loro mali, e prese i suoi dei come testimoni che non era lui la causa di tanti orrori, ed essi diedero ancora credito alle false predizioni che promettevano loro l’impero dell’universo. Ancor più, la città era presa, il fuoco era già appiccato da ogni parte, e questi insensati credevano ancora sempre ai falsi profeti che dicevano loro che il giorno della salvezza era arrivato, per cui avrebbero dovuto resistere fino alla fine e non ci sarebbe stata pietà per loro. » – Ma veniamo ora ai segni che Gesù diede al suo popolo per tirarlo fuori dalle disgrazie che dovevano colpire Gerusalemme. « Dio, naturalmente, non dà sempre al suo popolo fedele tali segni, e in questi terribili castighi che fanno sentire la sua potenza a intere nazioni, spesso colpisce i giusti con i colpevoli, perché ha mezzi migliori per separarli, di quelli che appaiono ai nostri sensi. Ma nella desolazione di Gerusalemme, affinché l’immagine dell’ultimo giudizio fosse più esplicita e la vendetta divina più pronunciata sui miscredenti, Egli non volle che i Giudei che avevano ricevuto il Vangelo si confondessero con gli altri, e Gesù diede ai suoi discepoli certi segni con cui avrebbero potuto sapere quando era il momento di lasciare quella città reproba. Si basò, come era sua abitudine, sulle profezie antiche, e guardando indietro al luogo dove l’ultima rovina di Gerusalemme fu mostrata così chiaramente a Daniele così chiaramente a Daniele: “Quando vedrete l’abominio della desolazione che Daniele ha profetizzato, colui che legge ascolti; quando l’avete visto posto nel luogo santo, oppure, come dice San Marco, nel luogo dove non dovrebbe essere, allora coloro che sono in Giudea, fuggano verso le montagne. San Luca racconta la stessa cosa con altre parole: Quando avrete visto gli eserciti circondare Gerusalemme, sappiate che la sua desolazione è vicina; allora quelli che sono in Giudea si ritirino sui monti. Uno degli evangelisti spiega l’altro, e mettendo insieme questi passaggi è facile per noi sentire che questo abominio predetto da Daniele è (in parte almeno) la stessa cosa degli eserciti intorno a Gerusalemme, κυκλουμένη ὑπό στρατοπέδων Ίερουσαλήμ [kokloumene upo stratopedon Ierousalem]. I santi Padri l’hanno intesa così, e la ragione ci convince, perché la parola abominio nell’uso della Scrittura, significa idolo, e tutti sanno che gli eserciti romani portavano sulle loro insegne le immagini dei loro dei e dei loro Cesari che erano i più rispettati tra tutti i loro dei. Queste insegne erano un oggetto di culto per i soldati, e poiché gli idoli, secondo gli ordini di Dio, non dovevano mai apparire in terra santa, le insegne romane ne erano bandite. Così vediamo nelle storie che, finché i romani ebbero qualche riguardo per i Giudei, non lasciarono mai apparire le insegne romane in Giudea. Permettevano che gli stendardi delle legioni entrassero a Gerusalemme solo velati; a volte, addirittura, facevano marciare le loro truppe senza insegna, come quando Vitellio attraversò la Giudea per portare la guerra in Arabia. Inoltre, secondo Giuseppe (Antiq. XVI, 2), essi arrivarono al punto di esentare i giovani dal servizio militare, affinché non fossero costretti a seguire stendarti contrassegnati da immagini idolatriche e a subire cose così contrarie alla loro legge. Ma all’epoca dell’ultima guerra giudaica, i romani non risparmiarono un popolo che volevano punire. Così, quando Gerusalemme fu assediata, era circondata da tanti idoli, quante erano le insegne romane, e [l’abominio] non apparve mai dove non doveva essere, cioè in terra santa e intorno al tempio (Questo è detto senza pregiudizio di un’interpretazione più completa di cui parleremo più tardi, secondo la quale l’abominazione della desolazione predetta dal profeta Daniele, segnò la profanazione del luogo santo da entrambe le parti in una volta sola. Da parte degli assedianti, con l’esposizione di insegne idolatriche e il culto che veniva reso loro sotto le mura stesse del tempio. Ma soprattutto e prima di tutto, dalla parte degli assediati, dagli eccessi degli Zeloti che, stabiliti nel tempio come in una fortezza, lo insozzarono durante quattro anni consecutivi, con crimini inauditi e forzature esecrabili che la penna si rifiuta di descrivere, come si dirà a suo luogo). – « Ma, si dirà, è questo il grande segno che Gesù doveva dare? Era il momento per fuggire quando Tito pose l’assedio a Gerusalemme e chiuse i viali così strettamente che non c’era modo non c’era modo di scappare? È qui la meraviglia della profezia. Gerusalemme fu assediata due volte in questi tempi: la prima da Gestio Gallo, governatore della Siria, nell’anno 66 d.C.; la seconda da Tito, quattro anni dopo. Nell’ultimo assedio, non c’era modo di scappare. Tito condusse questa guerra con troppo zelo, e l’accerchiamento impenetrabile che fece intorno alla città non diede speranza ai suoi abitanti. Ma non ci fu nulla del genere nell’assedio di Gestio; egli era accampato a cinquanta stadi da Gerusalemme; il suo esercito era sparso tutt’intorno, ma senza fare alcuna trincea, e fece la guerra con tanta negligenza da perdere l’occasione di prendere la città, le cui porte gli furono aperte dal terrore, dalle sedizioni e persino dalla sua stessa intelligenza. Inoltre, Gestio levò prontamente l’assedio e ordinò una ritirata che si trasformò in un disastro per i romani. Ecco perché, durante la tregua di quattro o cinque mesi che trascorse fino all’invasione dell’esercito di Vespasiano (cioè dall’autunno del 66 alla primavera del 67), lungi dall’essere impossibile la fuga, la storia registra espressamente che molti si ritirarono. « Dopo la sconfitta di Cestio – dice Giuseppe – (Joseph., 1. II de Bello jud., c. XXV), molti fuggirono da Gerusalemme come si fugge da una nave che affonda. » Quindi Gesù aveva distinto molto chiaramente i due assedi: uno in cui la città sarebbe stata circondata da trincee, “circumdabunt, te inimici tui vallo, et coangustabunt te undique” (Luca, XIX, 43); l’altro dove sarebbe stato investita dalle armate, cum videritis circumdari ab exercitu Jerusalem (Luca XXI, 20). Era allora che occorreva fuggire e ritirarsi sulle montagne; questo fu il segnale che Nostro Signore aveva dato ai suoi. E infatti i Cristiani obbedirono alla parola del loro Maestro. – Sebbene ce ne fossero migliaia a Gerusalemme e in Giudea, non leggiamo in Giuseppe o in altre storie che ce ne fossero nella città quando essa fu presa. Al contrario, i monumenti antichi mostrano che si ritirarono nella piccola città di Pella in un paese montuoso vicino al deserto, ai confini tra la Giudea e dell’Arabia. Il resto è noto; sono noti gli orrori dell’assedio, di cui Gesù disse: “Ci sarà allora una così grande angoscia come non c’è stata dall’inizio del mondo, né ci sarà mai. (1(I) Niente può dare un’idea dell’angoscia di quei giorni terribili come il resoconto dato da Giuseppe nel terzo libro della sua Storia Ecclesiastica, che è tradotto come segue: “Una donna di nome Maria, della regione al di là del Giordano, distinta sia per la sua nascita che per la sua ricchezza, si era rifugiata a Gerusalemme, dove fu tenuta rinchiusa con il resto della moltitudine. Già i terroristi che facevano tremare la città, come Gerusalemme, pressata da tutti i lati dai romani, era lacerata all’interno da tre fazioni ostili. “E anche se l’odio che queste fazioni avevano verso i romani arrivava fino al furore, non erano meno feroci l’una contro l’altra. Le battaglie all’esterno costarono ai Giudei meno sangue di quelle all’interno. Un momento dopo gli assalti sostenuti contro lo straniero, i cittadini ripresero la loro guerra interna; la violenza e il brigantaggio regnavano ovunque nella città. Nel frattempo, la città stava languendo, e tutto il bagaglio che aveva potuto portare con sé nella sua precipitosa ritirata era stato saccheggiato, e i loro sbirri la stavano gradualmente derubando degli ultimi resti della sua fortuna, e in particolare, di tutto il cibo che era possibile procurarsi. Questo portò al culmine l’indignazione di questa donna, che, stanca di preparare per gli altri un cibo che non le era permesso di toccare, e non avendo alcun mezzo per trovarlo, fu torturata dalla fame fino al fondo delle sue viscere, e ascoltando solo i sinistri consigli del furore e del bisogno estremo, finì per ribellarsi alla natura. Prendendo in mano suo figlio, che stava ancora allattando, gli disse: “Misero bambino, per chi o per cosa ti riserverei in mezzo ai terribili mali che ci sovrastano? I mali dell’assedio, i mali della carestia, i mali dell’atroce guerra civile! Cadendo nelle mani dei romani, se abbiamo la nostra vita, cosa possiamo aspettarci se non la servitù? Ma prima della schiavitù, ecco, è venuta la fame, e peggio di entrambe sono gli uomini faziosi che ci opprimono. Diventa dunque per me un cibo, per i nostri tiranni una furia, per il resto degli uomini la loro favola, poiché tu sei l’ultima cosa che ancora manca alle calamità degli ebrei!” Detto questo, taglia la gola a suo figlio, lo cucina, poi ne mangia la metà, e mette da parte l’altra metà che coprendola accuratamente. Nello stesso tempo, arrivarono gli sbirri che, attratti dall’odore dell’esecrabile arrosto, minacciarono la donna di morte se non avesse mostrato immediatamente il piatto che aveva preparato. E lei rispose che aveva riservato una buona metà per loro e che gliela avrebbe mostrata. Ma a una tale vista i briganti indietreggiano con orrore. E la donna riprese: “Questo è mio figlio, e questo è anche il mio crimine. Quindi mangiate, gente, visto che io stesso ne ho mangiato, e non date l’impressione di essere più sensibili di una donna, più teneri di una madre. Se, per scrupoli religiosi, siete riluttanti a mangiare la mia vittima, allora bene, lasciate che io, che ho già consumato la prima metà, ne abbia pure la seconda!” A queste parole gli sbirri si ritirarono tremando di orrore, non osando disputare tal piatto con una madre. E la notizia di un così grande delitto si diffuse subito in tutta la città, dove tutti si sentirono agghiacciati dall’orrore, e chiamarono beati coloro che la morte aveva preso prima che fossero stati testimoni oculari o auricolari di tali estremi mali » (Josephus, apud Euseb., Hist.,1, III, c. VI – Migne, P. G., t. XX, col. 231). – Si sa come Gerusalemme, pressata da ogni parte dai romani, fosse ormai solo un grande campo coperto di cadaveri, eppure i capi delle fazioni vi combattevano per l’impero. Non era questa un’immagine dell’inferno, dove i dannati si odiano l’un l’altro non meno di quanto odiano i demoni che odiano i demoni che sono i loro comuni nemici, e dove tutto è   di orgoglio, confusione e rabbia? » Ma alla fine il giorno fatale era arrivato, il giorno in cui Gerusalemme, una volta presa d’assalto, avrebbe visto il compimento della profezia di Gesù: Non relinquetur hic lapis super lapidem qui non destruatur. « Era il decimo giorno di agosto, che, secondo Giuseppe, si vedeva bruciare il tempio di Salomone. Nonostante la proibizione di Tito, e nonostante l’inclinazione naturale dei soldati, che doveva portarli piuttosto a saccheggiare che a dilapidare tanta ricchezza, un soldato, ispirato da un’ispirazione divina, si fece issare dai suoi compagni ad una finestra e diede fuoco al tempio. A questa notizia, Tito accorse, Tito ordinò che fosse subito spenta la fiamma incipiente. Ma l’ordine contrario era venuto dall’alto; la fiamma prese piede ovunque in un baleno, e in meno di qualche ora questo superbo edificio veniva ridotto in cenere. Così si consumò la più spaventosa catastrofe che la storia ricordi. Quale città ha mai visto perire un milione e centomila uomini in quattro mesi e in un solo assedio? Questo è ciò che i Giudei hanno visto nell’ultimo assedio di Gerusalemme. Non c’è da stupirsi, quindi, che il vittorioso Tito non ricevesse le congratulazioni dei popoli vicini, né le corone che gli mandavano per onorare la sua vittoria. Tante circostanze memorabili, l’ira di Dio così marcata e la sua mano così presente, lo tenevano in un profondo stupore, ed è questo che gli fece dire che egli non era il vincitore, e che era solo un debole strumento della vendetta divina » (Bossuet, passim, ubi supra).  – Questi sono gli eventi memorabili con cui tutte le predizioni di Gesù sulla città e sul tempio si sono adempiute con sorprendente precisione. Cominciati verso la fine del regno di Nerone, finirono sotto Tito nell’anno 70, quando, senza dubbio, non era ancora passata la generazione che nell’anno della predizione, cioè della passione (33 d.C.), fu chiamata “questa generazione”, ἠ γενεά αὓτη – ghênea aute. Infatti, molti dei contemporanei di Gesù ne erano stati testimoni e molti di loro vi erano morti. Molti, dico, e non solo tra i convertiti al Cristianesimo, che una speciale disposizione della Provvidenza aveva portato in salvo, ma anche, a quanto pare, di quelli che, dopo il sacco della città, furono ridotti in servitù e portati in cattività per tutta la terra. Ancora tutte queste cose non possono essere messe in dubbio perché hanno la notorietà che le dà la grande luce della storia. Inoltre, esse non sono l’oggetto principale della dimostrazione da dare al momento, dato che riguardano ancora solo quella parte della profezia che abbiamo chiamato sopra dell’avanti scena o primo piano, dove il culmine della difficoltà e del dibattito. – Così ora dobbiamo venire a quello che guarda lo sfondo, il fondo della prospettiva: il sole oscurato, la luna senza luce, le stelle che cadono dal cielo, l’intero universo in sussulto, il Figlio dell’Uomo che viene nella sua maestà, i suoi Angeli che raccolgono i suoi eletti dai quattro venti, da un capo all’altro del cielo, e il resto che si riferisce indiscutibilmente all’ultimo giorno del mondo. Vogliamo dire, forse, che anche di tutto questo sia testimone oculare la stessa generazione? Pretendiamo che non sia passata senza che anche tutto questo abbia ricevuto il suo compimento? O, una volta ammesso, come deve essere, che sarebbe inutile cercare un altro significato ragionevole per “generatio hæc” rispetto a quello che è stato stabilito, dovremo forse concedere di buon grado o forzati alla scuola modernista la validità della parola “generatio hæc” che essa attribuisce come un errore a Gesù Cristo? La risposta a tutte queste domande è più semplice e più ovvia di quanto sembri; ma prima di entrare nella spiegazione che lo metterà nella giusta luce, notiamo attentamente i due modi in cui si dice che un evento profetizzato si sia realizzato, nello stile delle Scritture. In primo luogo, in se stesso, cioè nella propria realtà. In secondo luogo, prima di realizzarsi in sé, in un evento precursore, la sua immagine e la sua figura. È vero che questo secondo modo, poiché non è letterale e materiale come il primo, non cade così direttamente sotto i sensi, ma è forse, per tutto questo, meno fondato nella verità? Niente affatto. E questo per la ragione già indicata, che la figura come tale contiene già in qualche modo la cosa che rappresenta, e le dà una specie di esistenza anticipata: soprattutto se la figura e la cosa rappresentata sono state prima unite nell’unità della stessa profezia, e che, di conseguenza, la realizzazione esatta dell’una può essere concepita solo come infallibilmente legata alla realizzazione integrale e completa dell’altra. Non dobbiamo stupirci di vedere questo stesso modo comunemente ricevuto, ammesso e assunto dagli stessi scrittori sacri, non meno che dai loro interpreti più autorizzati. Isaia, per esempio, profetizza il parto della Vergine e lo dà ad Achaz e a tutta la casa di Davide come segno della protezione di Dio contro la cospirazione di Phaceo, re di Samaria, e Rasin, re di Siria. « Ascolta ora, o casa di Davide, egli dice – Dio stesso ti darà un segno: ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio e si chiamerà Emmanuele; ed egli mangerà panna e miele finché saprà gettare via il male e scegliere il bene; e prima che il bambino sappia gettare via il male e scegliere il bene, il paese di cui i due re ti spaventano, sarà devastato (Isaia, VII, 13-16). » Indubbiamente, qui si parla del Messia, colui che unirà a questo bel nome di Emmanuele gli altri non meno magnifici, elencati nel capitolo seguente, di mirabile consigliere, Dio forte, padre dell’eternità, principe della pace (Isaia, IX, 6). Ma cosa? Isaia credeva allora nell’adempimento immediato del suo oracolo, e quindi nella venuta immediata del Messia, per calcolare così l’età del meraviglioso bambino, nel tempo in cui la Giudea sarebbe stata liberata dall’attacco dei due re congiurati, e il paese nemico (Siria e Samaria, Damasco ed Efraim) devastato e distrutto? O forse dovremmo deviare dal loro significato naturale queste significative parole: Quia antequam sciat puer reprobare malum et eligere bonum, derelinquetur terra quant tu detestaris, a facie duorum regum suorum? Ma distinguiamo l’adempimento dell’oracolo nella persona del vero Emmanuele dal suo precedente adempimento nella persona dell’Emmanuele figurato. Perché qui c’è un altro bambino misterioso che sarà concepito, che nascerà, al quale sarà dato un nome simbolico, garantendo alla casa di Davide la liberazione dal pericolo di cui è minacciata, prima che sia giunto il tempo del primo balbettio del neonato. Questo è il bambino di cui il profeta dice qualche riga più sotto: “E mi avvicinai alla profetessa ed ella concepì e partorì un figlio. E il Signore mi disse: “Chiamalo Mecher-Shalal-Chasch-Baz, perché prima che il bambino possa gridare: “Padre mio, madre mia! … le ricchezze di Damasco e il bottino di Samaria saranno portati davanti al re. degli Assiri. Et dixit Dominas ad me: voca nomen ejus, accelera spolia detraheri. Quia antequam sciât puer vocare patrem suum et matrem suam, auferetur fortitudo Damasci, et spolia Samariœ coram rege Assyriorum (Isai. VIII, 3-4). “Ed in lui, in questo bambino, l’oracolo dell’Emmanuel il primo adempimento, un sicuro segno del secondo, che lo avrebbe avuto solo diversi secoli dopo, non più all’ombra di una figura questa volta, ma nella pienezza della realtà, « il Messia che egli (Isaia) annuncia in termini così magnifici, non deve apparire di persona se non più tardi, ma nascerà ora in figura; il mistero della sua nascita si svolgerà davanti ad un intero popolo per risvegliare la sua fede nella promessa. Nascerà così un figlio di Isaia, e il nome simbolico datogli prima del suo concepimento, segnerà la prossima devastazione di Damasco ed Efraïm, o, in un senso più alto l’inferno sconfitto e spogliato dal Messia. La madre di questo bambino si chiama profetessa, non perché è la moglie di un profeta, e si cercherebbe invano nella Bibbia un’analogia che giustifichi questo significato, ma perché essa profetizza effettivamente, con un parto che è l’immagine, molto cruda senza dubbio, del parto verginale di Maria » (Le Hir, Profeti d’Israele, sez. 1, art. 2). E sarebbe facile moltiplicare gli esempi di queste profezie con un doppio adempimento di cui la Scrittura abbonda (come la profezia di Malachia (IV, 5) sul ritorno di Elia, e quella del Salmo LXXI, sulle glorie del regno di Gesù Cristo, entrambe le quali dovevano realizzarsi una prima volta, l’una nella persona di Giovanni Battista (Matth., IX, 14, e XVII, 12), l’altra nella persona di Salomone, “tamquam in umbra et imagine veritatis“, secondo l’espressione di San Girolamo in Dan, c. XI), e strettamente legati come sono all’economia già esposta degli eventi figurativi, che la Sapienza divina ha destinato ad essere di epoca in epoca come tante prime rappresentazioni e attuazioni anticipate dei misteri della nostra Religione. Detto questo, dico ora che nella profezia di cui ci stiamo occupando, tutto ciò che si riferisce all’ultimo giorno del mondo ebbe senza difficoltà, nella rovina di Gerusalemme, e di conseguenza, prima che fosse passata la generazione contemporanea di Gesù, un primo adempimento del tipo di cui abbiamo appena parlato: un adempimento in forma di figura, senza dubbio, o, se volete, solo in effigie, ma sufficiente, secondo l’uso della Scrittura, ad autorizzare l’espressione, donec omnia fiant. Dico e ripeto che in questa stessa catastrofe si realizzarono come in un quadro vivente, ed una grandiosa rappresentazione delle cose, tutti i tratti dell’oracolo relativi alla consumazione dei secoli – cioè i segni nel sole, nella luna e nelle stelle furono rappresentati allora dagli straordinari prodigi che abbiamo riportato da Giuseppe e Tacito; che il raduno degli eletti da un capo all’altro della terra fu marcata dalla conservazione dei fedeli in rifugi sicuri, e separati dalla massa dei reprobi, che, rinchiusi all’interno delle mura della città, stavano per diventare la preda di tutte i flagelli uniti; che lo scuotimento, lo sconvolgimento di tutta la natura era la figura di questo disastro inaudito che, secondo testimonianze storiche, gettò Tito in uno stupore così profondo e lo fece inchinare davanti ad un agente misterioso, una forza superiore, una potenza irresistibile, per cui si diceva essere strumento irresponsabile ed involontario. E così, se Cristo, in questo spaventoso “finimondo” – per prendere in prestito dalla lingua italiana un’espressione che si adatta molto bene al nostro soggetto – non si è mostrato agli occhi del corpo con i suoi Angeli sulle nuvole del cielo nella gloria e nella maestà, la sua presenza, tuttavia, il suo intervento, la sua azione era così evidente che era sentito e riconosciuto dai pagani stessi, al punto da costringere l’imperatore romano, nel bel mezzo di una vittoria, a confessare che non era lui il vincitore, ma che ad un altro andavano le acclamazioni e le corone. Ora, queste semplici citazioni sarebbero già sufficienti a risolvere ogni difficoltà. Sì, è vero: tutto doveva essere realizzato, e tutto è stato compiuto in effetti, prima che fosse passata la generazione di allora, generatio hæc, fosse passata: tutto, compresa la parte della fine del mondo, nel modo che è stato spiegato, e che è in tutti i punti in accordo con quella che fa legge qui, cioè il linguaggio ricevuto e consacrato nella Scrittura. Non avremmo quindi che solo la lezione di San Luca, che dice tutto, senza aggiungere nulla, senza determinare nulla, senza specificare nulla: Amen dico vobis, non præteribit generatio hæc donec omnia fiant (XXI, 32), e saremmo autorizzati a concludere che Gesù aveva annunciato che dovevano accadere durante la vita della sua generazione, eventi che sarebbero stati almeno un’immagine ed una bozza profetica della catastrofe suprema; non saremmo in alcun modo giustificati nel dire che aveva predetto questa catastrofe, considerata in sé, come prossima. – Ma questa non è ancora che solo una prima risposta. Se non avessimo altro da opporre all’affermazione modernista, dovremmo rinunciare al vantaggio di ridurre l’avversario convincendolo della falsità, poiché è probabile che le considerazioni precedenti, per quanto vere e fondate possano essere, lo sfiorerebbero appena; inoltre, rimarrebbero completamente al di fuori della sua comprensione, essendo i dati su cui poggiano, di natura tale che non potrebbe ammetterli senza smentire o negare se stessi. Questo, dunque, è il difetto essenziale ed insanabile dell’esegesi razionalista che, non riconoscendo il carattere trascendente e senza pari della Scrittura, manca di tutti i criteri necessari per penetrarne i misteri. Ma in questo caso, non c’è bisogno di penetrare nei segreti chiusi al profano; basta seguire la critica sul suo stesso terreno, per mostrare che sta operando su testi troncati, e quindi distorti, cosa imperdonabile sempre e ovunque, ma in particolare a coloro che si vantano di una scienza così positiva, e fanno tanta mostra della loro documentazione rigorosa. Ecco la lezione di San Matteo e di San Marco, che, letta fino in fondo, chiarisce e spiega quella di San Luca, ed esclude apertamente, chiaramente, categoricamente la fine del mondo, considerata in sé, dal numero degli eventi annunciati come da compiersi nel corso della presente generazione. Ma, ripeto, deve essere letto nella sua interezza, senza separare il primo membro dal secondo, al quale si oppone, e dal quale dipende necessariamente, in virtù dell’opposizione che limita e circoscrive la comprensione del soggetto. Così leggiamo in San Matteo: Amen dico vobis, quia non præteribit gêneraito hæc donec omnia hæc fiant. Ma non è qua la pausa, non è questo il punto in cui dobbiamo fermarci, perché le parole, cœlum et terra transibunt, verba autem mea non præteribunt, che seguono immediatamente, sono solo una parentesi, dopo la quale viene subito la proposizione opposta, determinativa della prima: de die autem illo et hora nemo scit, neque angeli cœlorum, nisi solus Pater. La stessa cosa in San Marco, lo stesso contrasto, la stessa opposizione tra questa generazione, queste cose, e questo giorno, quest’ora. Questo dà, parola per parola, come traduzione dell’uno e dell’altro evangelista: « In verità vi dico che questa generazione non finirà finché tutte queste cose non saranno compiute; ma per quel giorno e quell’ora nessuno lo conosce, nemmeno gli Angeli del cielo, né alcuno, né altri che il Padre mio. » Se dunque la profezia contrappone, da un lato, questa generazione, queste cose, e dall’altro, quel giorno e quell’ora; se, inoltre, segna chiaramente il tempo in cui queste cose si compiranno, e si ricusa riguardo a quel giorno, dicendo che nessuno sa quando verrà, né gli Angeli del cielo, né il Figlio (come uomo, e di conoscenza comunicabile), ma il Padre solo; Se, infine, quel giorno e quell’ora sono visibilmente il giorno e l’ora della parusia, come tutto il seguito del discorso dimostra troppo bene, perché sia necessario, non dico dimostrarlo, ma addirittura affermarlo: Ma quale fronte ci porterà questo testo, che sostenga che le dichiarazioni di Gesù sulla prossimità della catastrofe, non lasciano spazio ad equivoci? « Qui – dice Bossuet in modo eccellente – ci sono due tempi ben marcati, hæc e illa, in greco come in latino, segnare due tempi opposti, uno più vicino, l’altro più lontano. Questa generazione vedrà tutte queste cose compiute: generatio hæc, omnia hæc, omnia ista. Ma per quel giorno, per quell’ora, de die autem ille et hora, nessuno lo sa. È come se avesse detto: “Vi ho parlato di due cose: della rovina di Gerusalemme e della rovina di tutto l’universo al giudizio, di cosa debba succedere nella generazione in cui viviamo, e di cui gli uomini viventi devono essere testimoni, ne segno il tempo e questa generazione non passerà finché non si sarà adempiuto. Questo è per l’evento che stiamo toccando. Ma per quanto riguarda il giorno, questo giorno in cui verrò a giudicare il mondo, nessuno ne sa niente, ed Io non devo rendervelo noto. È chiaramente indicato che la caduta di Gerusalemme era vicina, e la Chiesa doveva saperlo. Ma per quel giorno, quell’ultimo giorno in cui l’intero universo sarà in subbuglio, e il Figlio dell’Uomo verrà in persona, nessuno ne sa niente, non sappiamo se sia lontano o vicino, e il segreto è impenetrabile, e agli Angeli del cielo, e alla Chiesa stessa, benché venga insegnato dal Figlio di Dio (Bossuet, Meditazioni sul Vangelo, l’ultima settimana del Salvatore, 76° giorno). » E con questa sola osservazione, senza nemmeno contare nessuna delle ragioni precedenti, va in fumo l’intera costruzione modernista sul testo: Amen dico vobis, non præteribit generatio hæc, donec omnia haec fiant.

LA PARUSIA (3)