VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (2)

VITA dell’angelico dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (2)


dell’ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti
Card.
Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA – FRANCESCO FERRARI, 1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

8. — Professione religiosa e andata a Colonia.

Pio XI nella sua enciclica Studiorum Ducem così si esprime: « Se la pudicizia di Tommaso, nel pericolo estremo a cui fu esposta, fosse venuta meno, è da ritenersi che la Chiesa non avrebbe avuto il suo Angelico Dottore. A nessuna virtù infatti meglio si collega la sapienza celeste, che alla mondezza del cuore; e Cristo lo insegnò dicendo: Beati i mondi di cuore, perché essi vedranno Dio. Ben giudicarono i superiori di Napoli che il noviziato di Tommaso, anche lungi dal chiostro, fosse compiuto. E qual maggior prova si richiedeva da lui per ammetterlo alla professione religiosa? Il farlo professare era, d’altra parte, un mezzo per metterlo sempre più al sicuro; ed egli davvero ne aveva il più pieno diritto. Contro i fratelli, essendo stata risaputa la loro infamia, erasi mosso lo sdegno tanto del Pontefice Innocenzo IV, quanto dell’Imperatore Federico; e la contessa Teodora era ormai disarmata, tanto più che le figlie si eran così volte in favore del giovane perseguitato. Nelle mani del ricordato Priore Fra Tommaso Agni da Lentino poté il novizio emettere i suoi voti solenni di povertà, castità ed obbedienza, ed ascriversi definitivamente all’Ordine Domenicano. Questo santo religioso, che fu poi Vescovo di Betlemme e Legato di Terra Santa, e che più volte aveva visitato Tommaso nel carcere col favore delle sorelle di lui, era in quel momento raggiante di gioia. E fu maggiore la sua soddisfazione quando seppe che in Roma il Pontefice aveva presa la cosa su di sé ed erasi mostrato irremovibile dinanzi ai lamenti e alle proteste della famiglia d’Aquino, difendendo ad un tempo e il diritto di Tommaso di seguire la sua vocazione e l’operato dei religiosi che alcuni avevano messo in mala vista agli occhi di lui. Prima, infatti, di pronunziarsi in favore del novizio, il Papa lo aveva voluto a sé e lo aveva interrogato intorno alla sua vocazione. Davanti al Pontefice il giovane religioso aveva, con ammirabile candore, difeso il suo diritto, ma non aveva per nulla accennato alle violenze patite. Solo aveva chiesto umilmente al Vicario di Gesù Cristo libertà di seguire, per la via della croce, il Divino Maestro. E il Papa lo aveva benedetto, vietando ai parenti di perseguitarlo in qualunque modo. Ad evitar però ogni pericolo, il Generale dell’Ordine, che era allora Fra Giovanni di Wildehausen, detto il Teutonico, il quale doveva recarsi a Parigi e quindi in Germania, prese con sé Fra Tommaso e lo condusse a Colonia, tanto più che soltanto in quel celebre studio dell’Ordine sapeva che egli avrebbe trovato il suo più degno maestro, Alberto Magno. Partirono da Roma nel settembre del 1244.

9. — Alberto Magno.

L’uomo che Dio aveva destinato ad essere a Tommaso maestro e padre, Alberto di Colonia, della nobile famiglia dei Conti di Bollstadt, non aveva forse l’uguale nell’Ordine Domenicano per santità di vita e altezza di dottrina. Dal Beato Giordano di Sassonia, succeduto a San Domenico nel governo dell’Ordine, egli aveva di 19 anni ricevuto l’abito nel convento di Parigi; ed oltre ad aver tutti meravigliato per la profondità del suo ingegno, per la prontezza della sua memoria e per il profitto che fece ben presto in tutte le scienze del tempo suo, aveva dato altresì esempio della più ardente pietà, e soprattutto della più viva divozione verso il SS. Sacramento e la Vergine Madre. In Parigi, ove prima insegnò, poi a Strasburgo, a Ratisbona, a Colonia acquistò sì alta fama che gli fu dato il soprannome di Grande. In Roma, ove aveva tenuto in Vaticano l’ufficio di Maestro del Sacro Palazzo e Teologo del Papa, era rimasto celebre il suo nome. Gareggiò colla scienza la sua santità: zelantissimo per la salute delle anime non tralasciò mai la predicazione della divina parola e la alternò sempre coll’insegnamento: ebbe una carità inesauribile verso i poveri; e quando gli fu dato, li soccorse nel modo più largo. Uomo di orazione, ebbe in pratica di recitare ogni giorno finterò salterio. Gli furono commesse le cariche più onorifiche nell’Ordine, e dalla Santa Sede venne eletto Vescovo di Ratisbona e Legato in Polonia. – Nato più che tre lustri prima del suo discepolo Tommaso, gli sopravvisse di altri 16 anni; e fu somma gloria di lui l’aver avuto un tal discepolo, di cui aiutò i progressi nella scienza con indicibile amore, di cui vide con gioia i trionfi e di cui pianse finalmente la morte. E se Tommaso volò agli eterni riposi senza poter giungere al Concilio di Lione, ov’era chiamato, in questo venerando consesso Alberto Magno sembrò parlare in suo luogo e zelare per lui l’onore di Dio e della Chiesa. La storia ci mostra ad evidenza come il Beato Alberto concepisse fin da principio verso il giovane Tommaso un grandissimo affetto e lo tenesse veramente come figlio. Di qui si spiega quanto valore acquistassero per Tommaso i suoi insegnamenti e quanto giovassero alla completa formazione di lui i suoi esempi; e come l’angelico giovane, quasi per via di un amore docile e veramente filiale, entrasse man mano nel segreto dei più alti pensieri del grande Maestro a lui comunicati con affetto di padre.

10 — Il bue muto

Se col santo suo Maestro trattava Tommaso con filiale espansione, ed a lui furon subito note, coll’altezza dell’ingegno, tutte quelle doti di mente e di cuore che nel carattere italiano, e con più evidenza nei meridionali, si uniscono spesso in dolce armonia coll’affabilità e gentilezza dei modi, coi suoi compagni egli fu piuttosto restio, e non mostrò dapprima familiarità nessuna. Assorto com’era nello studio e nel meditare continuo, osservante al sommo del silenzio, abitualmente serio e composto, fu giudicato soltanto da quella superficie, e creduto povero d’ingegno e del tutto inesperto. Si aggiunga una circostanza notata dagli storici, che Tommaso, quasi del tutto astratto dalle cose di quaggiù, non si accorgeva spesso di ciò che avveniva attorno a lui, sicché egli ebbe poi bisogno di una continua guida per le cose materiali, e fu provveduto che un religioso fosse addetto alla cura della sua persona. Questa singolarità dové certo esser notata anche nella sua giovinezza, e poté venire diversamente giudicata. Certo è che i suoi compagni di scuola presero a chiamarlo il bue muto di Sicilia ». Quel soprannome gli venne dato dapprima dai meno riflessivi di quei giovani, ma presto divenne comune, e non mancò chi giudicò scarsità d’ingegno quella taciturnità e alienazione dai sensi; fino al punto che un suo condiscepolo si offrì amorevolmente a fargli da ripetitore, pensando che poco o nulla avesse compreso delle lezioni del maestro. Per più giorni Tommaso ascoltò quelle ripetizioni, mostrando sempre all’improvvisato maestro la più schietta gratitudine pel benevolo ufficio; e se frattanto non si accresceva la sua scienza, faceva invece grandi progressi la sua umiltà; mentre provava un’interna gioia per la poca stima che si aveva di lui. Egli aveva appreso che l’umiltà è la sola via per salire alla grandezza vera; e che nel disprezzo di sé e nello star lietamente in basso sta il fondamento della virtù più sublime.

11. — Il presagio del Beato Alberto

Al Beato Alberto non restò celato il fatto di quel soprannome, e forse rise in cuor suo dell’inganno in cui eran caduti i suoi scolari intorno al giovane napoletano nuovo venuto. Tacque per allora, ed aspettò che si presentasse un’occasione per correggere quell’errore. E questa non tardò, perché avendo egli un giorno spiegato un passo difficilissimo dell’opera « sui nomi divini » da tutti allora attribuita a San Dionigi Areopagita, il condiscepolo di Tommaso, che gli faceva da ripetitore, disse a lui di mettere in carta ciò che per avventura avesse compreso della lezione del maestro. Tommaso lo fece con semplicità mirabile; e accadde che quello scritto capitò nelle mani del Maestro Alberto, che ne restò stupito, per quanto fosse certo del sublime ingegno di Tommaso. Ma perché a tutti fosse nota la cosa ed egli avesse dalla scolaresca il rispetto che si meritava, stabilì pel giorno seguente una disputa, nella quale Tommaso avesse la parte di difensore. Egli dové obbedire; e le sue risposte pronte, sicure, luminose, superarono ogni aspettativa. Gli oppositori, secondo l’uso della scuola, insistevano colle più sottili obiezioni che avrebbero messo in imbroglio i più provetti; ma egli ne vide subito il debole e le sciolse senza difficoltà veruna, sì che il Maestro degli studenti, che guidava la disputa, gli disse: Voi qui non parlate da scolaro ma piuttosto da Maestro! Allora il Beato Alberto credé giunto il momento di rompere il silenzio: e rivolto a tutta la scolaresca esclamò: Voi lo chiamate il bue muto; ma questo bue manderà tali muggiti, che se ne udirà l’eco in tutto il mondo! – Uno storico fedele del Santo aggiunge: La testimonianza di tanto maestro non lo fece per nulla montare in superbia; ed egli continuò nella sua solita ed esemplare semplicità. E interrogato più tardi perché egli avesse sempre taciuto nella scuola di Maestro Alberto, rispose: Perché ancora non avevo imparato a parlare.

12. — All’Università di Parigi.

Da quel momento a Tommaso furono affidati nella scuola i più delicati uffici. Ma il Capitolo Generale dell’Ordine, tenuto appunto in Colonia nel 1245, prese la determinazione di presentare Alberto all’Università di Parigi perché prendesse la laurea del dottorato, da cui nessuno veniva insignito innanzi il trentacinquesimo anno. Ma non si separò per questo il discepolo dal Maestro, perché insieme fu determinato che si recasse in quella metropoli anche Fra Tommaso, per continuarvi il suo corso di teologia. Partirono nell’autunno del medesimo anno; e in Parigi presero dimora nel celebre Convento di San Giacomo, già fondato nel 1217 dal Beato Mannes fratello di San Domenico, quattro anni avanti la morte del Santo Patriarca. Nel corso di quasi trent’anni quel Convento aveva acquistato una celebrità senza pari, specialmente per avere i Generali dell’Ordine risposto con larghezza ai desideri di San Luigi re di Francia, che bramò aver nella sua metropoli i più eletti ingegni dell’Ordine; favore che egli ricambiò coi benefìzi più larghi. Questi religiosi, uniti ai più celebri di altri Ordini, specialmente di quello dei Minori, occuparono nella celebre Università varie cattedre importanti. Per la venuta di Maestro Alberto ebbe l’Università un notevole incremento, e le sue lezioni furono le più frequentate. La sua fama corse per tutto e attirò scolari dai più lontani paesi. – La vita di Tommaso studente di teologia nell’Università di Parigi fu quella del più umile religioso. Dicon gli storici che egli era sempre occupato in gravi pensieri, e sembrava quasi non curare le necessità della vita. Sedeva a mensa e sembrava mangiar senza gusto; sorgeva e non ricordava affatto quel che aveva mangiato. I libri eran la sua passione più viva; e quando poté avere alcuni volumi dei Padri, avidamente li lesse e colla prodigiosa memoria li fece suoi; soprattutto cercò di penetrar nella mente di Sant’Agostino, che sempre considerò come suo speciale Maestro. – La sua preghiera si fece sempre più intensa, né mai era impedita dallo studio, che, del resto, era anch’esso una preghiera. Colla pietà più profonda e coll’esercizio continuato delle religiose virtù si preparò ai sacri Ordini, che via via gli vennero conferiti, per ricever finalmente quello a cui sapeva di doversi preparare col massimo fervore: il Sacerdozio.

13. — Ritorno a Colonia. L’ordinazione sacerdotale.

Era stato tenuto nel 1248 il Capitolo Generale dell’Ordine a Parigi per la festa di Pentecoste; ed erano state scelte dai Padri quattro città per erigervi gli studi generali, oltre quello che già esisteva in San Giacomo di Parigi, ove ogni provincia dell’Ordine doveva inviare tre studenti: Bologna per l’Italia, Colonia per la Germania, Oxford per l’Inghilterra e Montpellier per la Provenza. A diriger quello di Colonia fu nominato il Beato Alberto Magno, che nell’autunno di quell’anno si mise di nuovo in viaggio e condusse seco Fra Tommaso, che sotto la sua guida continuò con sommo profitto il corso dei suoi studi teologici durato, a quanto sembra, fino al 1252. Al sacerdozio fu promosso Tommaso in Colonia nel suo anno venticinquesimo. La celebrazione della Santa Messa fu per lui da quel momento la cosa senza paragone più degna della giornata. Gli storici della sua vita raccontano che, mentre diceva la Messa, egli era tutto rapito in Dio; che il suo volto, come accadeva a San Domenico, era spesso coperto di lacrime, e sembrava bevere a gran sorsi a quella fonte di vita e di grazia, che è la Divina Eucarestia. Giovanni XXII, nel proclamare la sua santità, lo additava ad esempio; perché ogni giorno, prima di salire la cattedra, il Santo Dottore era solito celebrare con somma devozione la Santa Messa e poi udirne un’altra; e se talvolta non poteva celebrare, ascoltavane due. E le più volte amava servire egli stesso ai confratelli che celebravano, parendogli questo un ministero angelico; ma doveva porre una speciale attenzione per rattenere gli slanci del suo spirito e non restare rapito in Dio. È facile comprendere come le giornate di lui passassero nella più intima unione col suo Signore. Lo studio, l’insegnamento e la contemplazione delle cose celesti si alternavano e, possiam dire, si compenetravano; e quando scriveva o dettava, poteva paragonarsi ad una fonte tranquilla che versa in abbondanza acque salutari. Tale specialmente era Tommaso quando predicava. Per la predicazione egli sapeva avere il Santo Patriarca Domenico fondato il suo Ordine, e dall’insegnamento della cattedra non disgiunse mai il ministero della parola. Possiamo figurarci come fossero sante ed amabili le predicazioni di San Tommaso! Dice un suo storico che il popolo udiva con tanta riverenza la sua parola, come se venisse da Dio. Delle prediche da lui tenute sui Vangeli e sulle Epistole di tutte le domeniche dell’anno e per molte feste dei Santi non restano che brevi note, ma esse ci bastano a dimostrare come egli sempre cercasse di rendere amabile la verità, da lui mostrata nei suoi molteplici aspetti; e che la parola di Dio rivelata fosse sempre la sua guida. Nulla vi si trova di sapienza terrena; è la parola evangelica nel suo senso più vero e più pieno; e sotto il rigore del ragionamento, si sente la dolcezza del cuore di un Santo. – Se il popolo accorreva nelle chiese ad udirlo, lo avrebbero ammirato i dotti non meno nella scuola. Il Beato Alberto era in quel momento l’oracolo dei tempi suoi, nessuno dottore aveva levata di sé più alta rinomanza. Ma Tommaso, senza perder nulla dell’umiltà del discepolo, doveva presto superare il maestro per la nuova luce che parve gettare sulle grandi verità filosofiche e teologiche e per l’invidiabile chiarezza dell’esposizione. Per tutti i centri di studio corse la fama di giovane sì raro; e l’Università di Parigi desiderò di riaverlo come Maestro, dopo averlo ammirato come studente. Il Generale dell’Ordine, che era tuttora il Padre Giovanni Teutonico, consentì alla domanda che specialmente ne faceva il celebre Cardinale Domenicano Ugo di San Caro, il quale prevedeva quanto splendore avrebbe apportato a quella celebre scuola il bravo Dottore italiano. E così nell’anno 1252 tornò a Parigi e inaugurò il suo insegnamento col grado di Baccelliere.

14. — Amicizia con San Bonaventura.

Con altri frati Minori era stato inviato all’Università di Parigi, in quel tempo, anche Fra Bonaventura da Bagnorea, elettissimo ingegno ed uomo ammirabile per purità e santità di vita. Nato nel 122, ebbe al battesimo il nome di Giovanni, che fu poi mutato in quello di Bonaventura per questo fatto. In età di quattro anni fu colto da grave malattia, ed era in pericolo di vita. La madre prostrata ai piedi di San Francesco d’Assisi, lo scongiurò a salvarle il figlioletto. Il Santo si mise a pregare, e il bambino guarì. Allora il Santo lo prese nelle mani, e, levati gli occhi al cielo, esclamò: O buona ventura! Con questo nome egli prese poi l’abito del santo poverello. Appena s’incontrarono, questi due grandi italiani, che dovevano essere i più fulgidi luminari del loro secolo nei due grandi Ordini, si conobbero e si amarono teneramente, come già si erano amati i loro due santissimi padri Domenico e Francesco. Come tra di loro gareggiarono nella pietà e nell’amore delle celesti cose, così si emularono nella virtù dell’umiltà; e si narra che spesso si intrattenessero insieme in santi colloqui. In uno di questi, Tommaso trovò il compagno tutto intento a scrivere la vita di San Francesco. Non volle distrarlo da quella santa occupazione, e ritirandosi, disse: Lasciamo che un Santo lavori per un altro Santo. Un’altra volta a Bonaventura che lo interrogava onde avesse tratto tutto il sapere di cui erasi arricchita la sua intelligenza, Tommaso mostrò il Crocifìsso, dicendo esser quello il libro da cui aveva imparato tutto ciò che sapeva. E fu dolce per il nostro Tommaso che mentre egli, come vedremo, dové accettare, per volere dei Superiori, il Dottorato nella celebre Università, venisse ad un tempo conferito il grado stesso al suo grande amico Fra Bonaventura, come fu a lui di conforto il vederselo a fianco nella lotta che dové sostenere per la difesa dei diritti che vennero in quel tempo contrastati ai nuovi Ordini religiosi. Sarebbe venuto un giorno in cui un grande Pontefice, desideroso di unire gli sforzi dell’Europa cristiana per la grande causa religiosa e civile che agitava allora gli animi, avrebbe voluto in Lione al Concilio Generale questi due grandi luminari della Chiesa; ma, alla vigilia del grande avvenimento, la morte doveva separare Tommaso dall’amato compagno, che si sarebbe poi a lui ricongiunto nel cielo.

15 — Il Beato Pietro da Tarantasia e il Beato Ambrogio da Siena.

Tra i compagni di studio e d’insegnamento che ebbe in Parigi San Tommaso, meritano d’esser ricordati due sopra tutti: il Beato Pietro da Tarantasia, poi Papa Innocenzo V e il Beato Ambrogio da Siena. Era il primo un giovane savoiardo nato forse nel medesimo anno del Dottore Angelico in Tarantasia nella Valle d’Aosta ai pie’ dei ghiacciai del Monte Bianco. Per il suo svegliatissimo ingegno fu mandato a Parigi giovanetto di appena nove o dieci anni; e ivi restò subito incantato dei Frati Predicatori che vide a San Giacomo. Chiese l’abito, e tosto gli fu dato, nonostante la tenera età, tanto piacque la ingenuità e candore con cui lo chiese. Vestito con ben altri sessanta giovani dal Beato Giordano, succeduto a San Domenico nel governo dell’Ordine, fece tutti meravibilare per i progressi nella pietà e nello studio. Era uno spettacolo, in quei momenti, veder correre a quel convento il fiore della gioventù là convenuta da tanti paesi ed entrare a gara nella figliolanza di San Domenico! Nel Beato Giordano di Sassonia era come una meravigliosa attrattiva: narrano che, quando passava per le vie, le madri nascondessero i loro figlioli per timore che gli andassero dietro. Durante il suo generalato, che durò quindici anni, vestì oltre mille novizi. Sapeva infondere in essi l’amore di una vita perfetta e lo zelo più acceso per la salute delle anime. La prosperità dell’Ordine diceva poi con compiacenza, dipende da queste giovani piante. Fra Pietro, prima nelle scuole di San Giacomo e poi nell’Università, fu tra i discepoli più diligenti; e quando vi giunse da Colonia San Tommaso, nel 1252, egli attendeva ai suoi studi teologici e con lui udì le lezioni del Beato Alberto Magno. Due anni dopo San Tommaso, nel 1258 egli ottenne la laurea del Magistero. Troveremo poi insieme i due Santi religiosi col loro Maestro nel Capitolo di Valenciennes, ove portarono il contributo del loro sapere nelle decisioni prese intorno agli studi nell’Ordine. – La carriera percorsa dal Beato Pietro fu rapidissima e giunse al culmine più alto. Eletto nel 1262 Provinciale di Francia, diede all’Ordine grande impulso e ne tenne alto il prestigio. Nominato dieci anni dopo Arcivescovo di Lione e Primate delle Gallie, porse braccio validamente a Gregorio X nel preparare il Concilio che doveva tenersi in quella città, e dal medesimo, prima che il Concilio si aprisse, fu nominato Cardinale insieme con San Bonaventura, e i due Cardinali insieme col Beato Alberto Magno furono come l’anima di quell’assemblea. San Tommaso era già volato al cielo! Terminato il Concilio, Gregorio X prese con lui la via di Roma e s’infermò ad Arezzo, dove santamente morì. In Arezzo stessa si tenne il Conclave, e nel primo scrutinio il voto unanime dei Padri cadde sul Beato Pietro, che, eletto Papa, prese il nome di Innocenzo V. Era il primo Papa Domenicano. Fu stimato uno dei più eloquenti uomini del suo secolo: e a tutti fu esempio di virtù e di apostolico zelo. Scrisse anche opere teologiche pregiatissime; e nel breve pontificato, durato soli cinque mesi e due giorni, poté compiere in bene della Chiesa salutari riforme e lavorare a tutto potere per l’opera della riconciliazione tra i principi e i popoli, e specialmente per la sospirata unione della Chiesa Greca colla Latina. – Sebbene tutto nascosto nel più modesto ritiro, lo pareggiò per altezza d’ingegno il Beato Ambrogio, un po’ più di lui avanzato negli anni, che nato in Siena nel 1220 dalla nobilissima famiglia dei Sansedoni, di 17 anni vestì in patria l’abito religioso e fu inviato a Parigi, ove alla scuola di Alberto Magno fu condiscepolo al Beato Pietro e a San Tommaso. Sebbene molti lo giudicassero, per altezza d’ingegno, pari all’Angelico Dottore, non volle mai salire al grado del Magistero, e i Superiori, per non contristarlo, non crederono di fargliene un comando. Divise la sua vita tra le fatiche dell’insegnamento e quelle della predicazione; ed era cosa mirabile l’udirlo parlare, tanta era l’attrattiva della sua semplice e illuminata eloquenza. Non bastavano spesso le chiese a contenere la folla che si accalcava da ogni parte ; e gli convenne spesso parlar nelle piazze. Talvolta fu veduta al suo orecchio una bianca colomba, ed altri prodigi confermarono la santità della sua parola. Fu accettissimo a Clemente IV, che lo volle in Italia e gli affidò in Roma l’ufficio di Maestro del Sacro Palazzo e predicatore apostolico e l’incarico di riordinare nella città i buoni studi che erano assai in decadenza. Passò la sua vita in laboriosi impieghi, nel sedare inimicizie tra i popoli, e specialmente nel rivendicare la libertà delle elezioni papali. Fu Legato pontificio in Germania, pacificatore di regni e di repubbliche; e per comando di Gregorio X predicò con meraviglioso zelo la santa Crociata. Alla sua città scomunicata da Clemente IV per aver dato aiuto a Corradino di Svevia, contro Carlo d’Angiò, della cui crudeltà questi fu vittima a Tagliacozzo, egli ottenne la riconciliazione col Pontefice e la liberazione delle pene a lei minacciate. Si oppose a tutto potere alla sua elezione ad Arcivescovo di Siena, voluta dai suoi concittadini e dal Pontefice, ed amò continuare nella sua vita di apostolo e cogliere in essa quasi la palma del martirio, perché, predicando in Siena, con grande impeto, contro l’usura, gli si ruppe una vena nel petto e poco dopo morì in età di 66 anni, il 20 marzo del 1286. Lasciò pochi scritti, sebbene dottissimo; e si dice che tanto alta stima egli avesse verso il suo grande condiscepolo San Tommaso e sì basso sentire di sé, che si ricusasse di scrivere o dettare, parendogli bastare ad esuberanza quanto avrebbe scritto San Tommaso. – La nobiltà dei natali, l’altezza dell’ingegno, la gentilezza e soavità del carattere unirono il Beato Pietro e il Beato Ambrogio coi più stretti legami all’Angelico San Tommaso; ma ciò che maggiormente li strinse in dolce comunanza di affetto, fu il verginale candore e soprattutto l’umiltà del cuore per cui nessuno osava anteporsi all’altro, mentre a vicenda si stimavano e si amavano. Se la superbia divide gli animi ed è causa di contese e riprova dell’umana miseria, l’umiltà li unisce e li affratella nella giocondità della pace e ne mostra a tutti la vera grandezza.

16. — La lotta contro i religiosi.

Fu assai dolorosa la contesa che sorse nel seno dell’Università di Parigi intorno ai nuovi istituti religiosi, specialmente ai due Ordini mendicanti dei Domenicani e dei Francescani. La lotta, derivata certo dalla gelosia pel rapido prosperare delle due grandi istituzioni che avevan dato alla Chiesa ed al mondo dottori così eminenti, come Alberto Magno, Tommaso e Bonaventura, ebbe un pretesto dall’uccisione avvenuta in una notte del 1252 di uno studente dell’Università di Parigi, che con altri tre era stato villanamente assalito per le vie della città. I tre, dopo essere stati crudelmente maltrattati, furon tenuti prigioni, e ne vennero tratti il giorno seguente per le proteste dell’Università. Gli assalitori appartenevano alla guardia del celebre istituto, ove i più dei dottori secolari chiesero giustizia; e in segno di protesta, sospesero le loro lezioni. I dottori invece che appartenevano agli Ordini religiosi, vollero continuarle; e sorse di qui una fiera contesa fra gli uni e gli altri dottori, sebbene i rei fossero stati debitamente puniti di comune consenso. Intanto i dottori secolari fecero un decreto, ov’era stabilito che in simili casi dovessero sospendersi tutte le lezioni. Ai religiosi un tal decreto non piacque, non vedendo essi nell’interruzione delle lezioni nessun vantaggio in tali casi. Ma i secolari si ostinarono, e giunsero al punto di escludere dall’insegnamento i religiosi. La discordia non rimase soltanto nel seno dell’Università; la città stessa era divisa per le calunnie che si spargevano contro i dottori religiosi. Il Santo Re Luigi IX era allora in Palestina; Bianca di Castiglia, sua madre, che tanto aveva amato e protetto i nuovi Ordini, era morta; e teneva la reggenza Alfonso, Conte di Poitiers, fratello di San Luigi, che non seppe spiegare nel fatto la dovuta energia. E così seguitaron le liti, che furono lunghe ed aspre: e dové intervenirvi lo stesso Pontefice Innocenzo IV, a cui i superiori dei due Ordini avevano appellato. Con una bolla inviata da Assisi il 1° luglio del 1253, egli proibì severamente ogni vessazione che venisse fatta contro i Predicatori e i Minori, che dichiarava del tutto degni della sua particolare protezione. – Ma a turbare più profondamente gli animi apparve al 4 di febbraio del 1254 un vero libello diffamatorio, di cui furono fatti molti esemplari e che fu mandato agli Arcivescovi e Vescovi ed altri prelati. In esso la preponderanza dei religiosi nella celebre Università veniva mostrata come un danno per il cattolico insegnamento, ed erano accusati i Domenicani di aver tirato ai loro voleri lo stesso Conte di Poitiers. Il più celebre tra gli oppositori fu Guglielmo di Sant’Amore, Canonico di Beauvais. Questo famoso dottore ed abile sofista, armato di tutti gli strali della calunnia, fu spedito dalla parte avversa come procuratore alla corte di Roma, dove tanto si adoperò, che Innocenzo IV, da lui male informato, si mostrò dapprima esitante, e poi apertamente contrario ai religiosi, da lui colpiti con una celebre costituzione il 21 novembre di quell’anno. Guglielmo di Sant’Amore aveva lavorato per oltre quattro mesi per ottenere il suo intento, di trarre, cioè, almeno in parte, il Pontefice nelle sue vedute e fargli giudicare non giovevole alla salvezza delle anime e al diritto del clero secolare la troppa prosperità dei due Ordini dei Predicatori e dei Minori. Ma il giorno stesso il Pontefice restava colpito da una paralisi, in seguito alla quale egli moriva il 7 dicembre di quel medesimo anno. Tornava intanto dalla Palestina il Santo Re Luigi IX, che tosto intervenne nella questione, e tentò rimetter la pace, spinto particolarmente dall’amore che portava verso i due Ordini di San Domenico e di San Francesco, fino al punto che fu udito dire, che se avesse potuto dividersi in due, avrebbe dato una parte di sé ai Domenicani, l’altra ai Francescani. Sulla cattedra di San Pietro era intanto salito Alessandro IV, che un giorno solo dopo la sua elezione, il 22 dicembre del 1254, non esitò a dichiarar nulla la costituzione del suo Predecessore, e la fece seguire da una lettera al Generale dell’Ordine, il Beato Umberto de Romanis, ove gli mostrò la sua paterna benevolenza. D’altra parte lo stesso Padre Generale lavorava per l’opera della pacificazione insieme col Generale dei Francescani, Giovanni da Parma; e i loro sforzi riuniti, colla protezione ad un tempo del Pontefice e del Re, davano i loro buoni effetti. Alessandro IV in una celebre bolla del 14 aprile 1255 condannava severamente e revocava tutte le disposizioni dei dottori secolari dell’Università contro i religiosi. Ma ancora la lotta non era terminata.

17. — Il bidello Guillot.

Il nostro Tommaso, che si trovò in mezzo a tutte queste contese, die’ esempio ad ognuno della calma più serena, anche quando vide depresso il suo Ordine e non risparmiate a sé ed ai suoi derisioni e calunnie. Ci conservarono gli storici memoria di un fatto che ci dipinge al vivo il carattere di San Tommaso ed è ad un tempo una bella conferma della sua sapiente condotta in questi momenti travagliosi. Purtroppo la celebrità a cui era rapidamente salito questo italiano non ancora laureato, il concorso di uditori d’ogni parte alle sue lezioni, mentre quelle di altri, che già avevano acquistato grido, restavano deserte, era una delle segrete ragioni di tutta quella guerra. Egli forse non lo pensò, e continuò senz’altro per la sua strada; e quando gli fu vietato di tener pubbliche lezioni nelle aule dell’Università, le seguitò con eguale concorso nel suo convento di San Giacomo. Era la Domenica delle Palme, ed egli predicava nella chiesa appunto di quel convento, quando il devoto silenzio degli uditori fu interrotto ad un tratto dalla voce molesta di un uomo, che si alzò improvvisamente dinanzi al pulpito, ed impose silenzio al predicatore. Egli era un certo Guillot, che nell’Università aveva l’ufficio di bidello degli scolari della Picardia. Tommaso si tacque; e l’importuno interlocutore disse a tutta l’assemblea come egli aveva, d’urgenza, da comunicare a tutti un avvertimento a nome dei professori dell’Università. Ed allora trasse dalla tasca un foglio, e lesse un lungo scritto, ove erano accumulate accuse sopra accuse contro i dottori Domenicani e Francescani, con la relativa difesa dell’operato di Guglielmo di Sant’Amore. Come Dio volle, quella lettura terminò; e Tommaso, che in quel tempo era rimasto impassibile, seguitò senz’altro la sua predica, riprendendola precisamente dal punto in cui era rimasta interrotta. Ciò valse presso tutto l’uditorio a sua magnifica difesa. L’insolente bidello non rimase impunito. Alessandro IV, che riseppe la cosa, ordinò al Vescovo di Parigi di fulminargli la scomunica in presenza dei maestri e degli scolari, di privarlo della sua carica e di domandare al Re che lo cacciasse dalla città.

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (3)

LA SITUAZIONE (1)

LA SITUAZIONE (1):

DOLORI, PERICOLI, DOVERI E CONSOLAZIONI DEI CATTOLICI DEI TEMPI PRESENTI

OPERA DI MONSIGNORE G. G. GAUME PROTONOTARIO APOSTOLICO

Custos, quid nocte?

Sentinella: che è della notte?

ROMA tipografia Tiberina – 1861

LA SITUAZIONE

Lettera al Sig. G. di F. — al castello di B.

DOLORI

Lettera Prima

Caro Amico.

Voi mi rammentate il mio opuscolo OVE ANDIAM NOI? Quest’opera pubblicata sedici anni fa, è agli occhi vostri la storia anticipata di ciò che al presente vediamo; onde mi pregate di dire nel 1860 quello ch’io pensi della situazione dell’Europa, come prediceva nel 1844. Lascio alla vostra amicizia la responsabilità del giudizio, che sarà per portarne. E veramente in quanto al desiderio di sapere ove noi ne siamo, messo da parte tutto quel che alla mia persona si riguarda, chi potrà biasimarlo? perciocché esso viene di troppo giustificato dalla gravità delle circostanze.A certe ore del giorno il sole brilla in tutta la pienezza del suo splendore; onde l’uomo può allora consecrarsi alle sue occupazioni, e camminare senza timore di smarrire la sua via. Ma succede un momento, in cui il sole passa di sotto l’orizzonte; e in tal caso, senza scomparire interamente, gli oggetti si oscurano e si dileguano dalla nostra vista. Succede bentosto la notte, e niuno allora può senza pericolo né lavorare nè camminare. (Ambulate, dum lucem habetis, ut non vos tenebræ comprehendant. Joan. XII. 35— Venit nox, quando nemo potest operari. Id. IX. 4.)

Quest’alternativa di luce e di tenebre ha pur luogo nel giorno che appellasi la vita; vita delle nazioni non meno che de gl’individui. Allorché il sole della fede brilla su di esse, le società camminano senza timore di errare. Ma sopravvengono alcune epoche, in cui l’errore, per lungo tempo carezzato, finisce coll’accumular tante nubi da oscurare l’orizzonte. La verità allora più non gitta sulla maggior parte delle intelligenze, se non un barlume dubbioso. Il pericolo di smarrirsi diviene imminente. – A queste ore terribili una sorta di vertigine sembra invadere il mondo. Le teste hanno il capogiro: le parole cangiano di significato: gli spiriti più fermi, più non ragionano; gli altri sragionano del tutto. Nel conflitto incessante delle opinioni contradittorie, le convinzioni vacillano. L’incertezza del vero ingenera l’incertezza del dritto: e quindi una folla di giudizi erronei, e troppo spesso di atti eternamente rincrescevoli. Se noi non siamo arrivati a questo punto, qua almeno tendiamo. Già si fa notte in Europa; ed io ve ne darò una sola prova. Un processo, senza esempio come senza nome nella storia, si fa al Papato. Sono ormai più di dieci mesi, che alcune nazioni, figlie della Chiesa, piatiscono pubblicamente contro la loro Madre. Esse l’accusano di molte cose, e domandano che venga spogliata. Tutta Europa, prò e contra, ha preso parte al dibattimento. La causa sembra essere stata discussa, e in questi momenti la sentenza si rende a colpi di cannone. Prigioniero, fuggitivo, o martire, il Padre dei Cristiani mangerà d’ora innanzi il pane della limosina, e non saprà ove riposare il suo capo. Gli uni dicono: egli è ben giudicato. Gli altri: è un fatto compiuto. Alcuni: l’è un parricidio. Al cospetto di questi opposti giudizii, il diritto di un Cattolico è di domandare al prete il lume necessario per rischiarare il presente, e orizzontare 1’avvenire: Sentinella, che n’è della notte? Custos quid de nocte? Dovere del prete è di rispondere; sicché per compierlo, quanto è in me, io v’invio queste poche pagine. Conseguiranno esse il loro fine, se contribuiranno a mettere lo spirito ed il cuore dei cattolici all’unisono con quello della Chiesa loro madre. E prima di tutto bisogna definire la situazione. Quale è dessa, e quali sono i suoi caratteri distintivi? Liberata dai mille sofismi coi quali si cerca di oscurarla o di snaturarla; prescindendo dagli accessori politici, che sono solamente le peripezie del dramma, la situazione si riduceva ieri a tre parole: « Diminuire il patrimonio di S. Pietro; fare del Papa un pensionato dell’Europa; non lasciargli che un trono vacillante ed uno scettro derisorio ».

Ma oggi la rivoluzione, divenuta più ardita, formola così il suo progetto: « Un impero italiano con Roma per capitale. » (Il tempo delle mezze-parole è passato. Il Sig. Cavour ha detto in pieno parlamento: « Noi vogliamo che la Città eterna diventi la capitale dell’Italia. A quali condizioni, quando, e come? Noi potremo dirlo fra sei mesi ». Lo scioglimento spiega la commedia —  V. Atti del Parlam. di Torino – Ottobre 1860 ). Ecco lo scopo. Invano si sono impiegati tutti i mezzi per ingannare i Cattolici, e l’Europa. Ciò che la rivoluzione vuole oggi, ciò che essa voleva ieri, ciò che ha sempre voluto, non è né Milano, né Firenze, né Palermo, né Napoli, né Venezia: è Roma. Se essa prende la Toscana e la Lombardia, la Sicilia e le Romagne, è per prender Roma. Ecco , io lo ripeto, quello che la rivoluzione vuole con una volontà immutabile. Ed io aggiungo, ecco quello che essa deve volere. Prima di dirne la ragione, è necessario di ben caratterizzare la sua guerra attuale contro la metropoli del Cattolicismo. – Or questa guerra presenta dei caratteri che la distinguono essenzialmente da tutte le altre, e che ne aumentano la gravità. Nei secoli passati si sono veduti più volte i Papi obbligati di abbandonar Roma, e di fuggire in esilio. Il discacciatore aveva un nome proprio. Esso si chiamava successivamente Errico, Ottone, Barbarossa. Si sapeva a chi il fallo dovesse imputarsi. Oggi il discacciatore del Papa non ha più un nome proprio; ch’esso si appella LEGIONE. Garibaldi, Fanti, Mazzini, Vittorio Emmanuele e gli altri non sono che soldati della legione. Legione non è in alcuna parte, ed è dappertutto. Essa abita l’aria: parla tutte le lingue: tutti gli echi del mondo rispondono alla sua voce: ed è appunto quella che sottomette al suo processo il Papato, che lo cita al tribunale del mondo intero, e ne discute i diritti; trasformando in problema ciò che era in stato di domma, e facendo gridare a milioni di voci: Il Papa ha torto! Legione è lo Spirito che soffia oggi sul mondo, e che lo arma contro la Santa Sede. – In altri tempi, l’espulsione del Vicario di Gesù Cristo era un atto di brutalità e di violenza passeggiera. Imperocché la pubblica opinione protestava con energia, e forzava bentosto il rapitore a rilasciare la sua preda. Ma oggi lo stesso fatto è un atto calcolato a sangue freddo; cioè un atto che entra in un piano generale, e che si pretende di far passare per legittimo. Non si espelle già il S. Padre, ma gli si prova che deve ritirarsi. Sul valore dei motivi l’opinione è divisa: che invero il Papato cade cogli applausi della metà dell’Europa. In altri tempi, lo spogliamento del Patrimonio di S. Pietro non toglieva alla Chiesa tutta la sua indipendenza territoriale. Proprietaria in beni fondi in tutti i Paesi, essa continuava ad essere una potenza colla quale bisognava far bene i conti. Oggidì, confiscando lo Stato Romano, si toglie alla madre delle nazioni cristiane l’ultimo angolo di terra indipendente che le rimane. – In altri tempi il Papato era per l’Europa battezzata quello che era l’Arca Santa pel popolo d’Israele. Onde il toccarlo non era solamente ferirlo al cuore, ma attaccare Iddio medesimo nella pupilla degli occhi suoi. Oggidì, gli attentati i più mostruosi contro la Santa Sede lasciano le nazioni indifferenti. Appena la terra dei prodi ha fornito qualche migliajo di crociati per difendere la più sacra e la più gloriosa delle cause! Donde deriva questo cangiamento nello spirito pubblico? Come spiegare la spaventevole facilità colla quale la rivoluzione corre al suo scopo? Qual è il senso dell’iniqua intrapresa, di cui l’ultimo atto sarà probabilmente consumato prima della pubblicazione di queste lettere? Ogni governo poggia su due forze: la forza morale, e la forza materiale. Ad uno Stato debole, essenzialmente pacifico, e circondato da Stati potenti la prima è tutto. Tanto nel suo interno quanto nell’esterno è necessario che l’affezione generale, il rispetto, la popolarità in una parola, lo circondi, e gli tenga luogo di armata e di fortezze. Malgrado alcune tribolazioni inevitabili, la Sovranità di S. Pietro così visse per dieci secoli, tranquilla e venerata in mezzo alla bellicosa Europa. Questa potente popolarità, nata dall’amore e dalla fede dei popoli, protegge forse oggidì la sovranità benedetta di Pio IX? – L’Europa attuale è per tre quarti eretica, scismatica, razionalista ed indifferente: gli è questo un fatto. Da molto tempo le nazioni moderne anche cattoliche tendono a secolarizzarsi; il che vuol dire ad affrancarsi il più che possono dall’autorità religiosa: e questo è anche un altro fatto. « Le società, si dice, sono laiche: esse devono esserlo: tale è lo spirito del tempo, il segno della virilità, la condizione del progresso ». – Da questi due fatti ne risulta un terzo. L’Europa attuale non sa più intendere un PRETE-RE. Essa compiange i sudditi di lui come si compiangono i parias dell’India. Ma essa comprende e sopporta benissimo, come tutti i paesi eretici e scismatici, un RE-PONTEFICE. Ai suoi occhi, la sovranità pontificale è un vecchio avanzo del medio evo; un legato vergognoso dei tempi di ignoranza; un resto di teocrazia incompatibile colla civilizzazione, ed un ostacolo all’affrancamento dello spirito umano. – Da ciò, come conseguenza inevitabile, si deriva la divisione dell’opinione sulla questione romana. Da ciò le m0igliaja di sarcasmi sparsi dappertutto contro il governo del Papa, contro la condotta politica del Papa, contro i sudditi del Papa, contro i soldati del Papa. – È dunque un fatto tristamente vero, che il governo temporale del Vicario di Gesù Cristo non ha più per difesa la potente popolarità di altra volta. In ciò sta la doppia causa della sua instabilità e dei trionfi della rivoluzione.

Questa situazione è l’opera dell’Europa, la quale non ne è che più colpevole. Essa vi apparirà tale sempreppiù, se vi farete ad esaminare lo scopo dello spogliamento che segue a farne con tanta ostinazione, o che lascia compiere con tanta debolezza. Isolare la Chiesa; ricacciarla a poco a poco fuori della società; indebolire la sua azione sul mondo; rimenarla allo stato di potenza puramente spirituale come ai giorni delle catacombe; renderla dipendente da Cesare; impedire i suoi movimenti e farla entrare nella fase più difficile della sua esistenza: per chi sa ben leggere è questa l’idea primaria scritta nel fatto supremo che si cerca di consumare. Costituire le Potestà temporali padrone assolute della terra mediante la proprietà, dell’intelligenza mediante la dottrina, e della volontà mediante la legge; annientare così il gran fatto sociale del Cristianesimo, che fu appunto la divisione gerarchica dei poteri; tale è la seconda idea già realizzata da tutti i governi eterodossi.

In altri termini il fatto attuale significa: SOSTITUZIONE DEL REGNO ASSOLUTO DELL’UOMO AL REGNO DI DIO. Tali sono i caratteri esterni della situazione. Nella mia prossima lettera cercherò di dirvene la ragione misteriosa.

Tutto vostro etc.

LA SITUAZIONE (2)

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (1)

VITA
dell’angelico dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (1)
dell’ ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti
Card.
Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA
FRANCESCO FERRARI 1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

PREFAZIONE

Questa breve narrazione della vita dell’Angelico Dottore San Tommaso d’Aquino non è scritta per gli eruditi né frutto d’indagini nuove. Non ha ingombro di citazioni; e basterà assicurare i lettori che il racconto è stato condotto dietro la traccia dei primi biografi e dei documenti più autorevoli, che essi potranno trovare enumerati in appendice. Quello che soprattutto preme, è che dai fatti essi deducano, per loro bene, utili insegnamenti e specialmente i giovani apprendano da questo santissimo Duce dei loro studi, che non si sale in alto se non coll’aiuto di due ali: la pietà e la scienza.
Quando diciamo che San Tommaso fu
il più dotto tra i Santi, e il più
santo tra i Dotti, intendiamo affermare che in lui dottrina e santità si eguagliarono} e furon somme ambedue; così poté salire ad un culmine, che ad altri
non fu dato toccare. Felice chi saprà seguirlo per quella via, ponendo, come lui, per fondamento della sua vita, l’umiltà che ci fa grandi, e la purezza del cuore, a cui è concessa la visione di Dio.

I. — Nascita e presagi felici.

La data della nascita di San Tommaso d’Aquino è incerta. Vari riscontri cronologici ci conducono all’anno 1226. Nell’anno stesso, in Assisi, volò al cielo San Francesco, e Dio dava alla terra San Tommaso; come cinque anni innanzi aveva dato San Bonaventura, mentre in Bologna moriva San Domenico. Anche sulla patria si ha qualche incertezza negli storici, però dai più si ritiene che la nascita avvenisse in Roccasecca, nella contea di Aquino, da cui traeva il titolo la nobile famiglia. Tommaso ebbe il nome dell’avo, e nacque da Landolfo Conte d’Aquino e Signore di Loreto e di Belcastro e da Teodora Caracciolo, figlia del Conte di Teate e oriunda dai Principi Normanni. Da Landolfo aveva avuto Teodora altri due figli: Landolfo e Rinaldo, e cinque figlie; ma per Tommaso, che fu l’ultimo, accaddero segni speciali che lo mostrarono vero frutto di benedizione anche prima della nascita. Narrano gli storici di un santo eremita, soprannominato il Buono, che si presentò a Teodora quand’era incinta, e le disse grandi cose del bambino che essa avrebbe dato alla luce: che sarebbe stato un gran luminare nella Chiesa, che avrebbe dato alla famiglia un sommo splendore; e le suggerì di dargli il nome dell’avo, Tommaso, che, secondo l’origine ebraica, significa abisso. Il fanciullino fu tenuto a battesimo dal Conte di Somma, che fece in quell’atto le veci di Papa Onorio III. Si parlò anche di una luce che splendé sul volto del neonato nel momento del battesimo, e si conservò memoria nella famiglia di un graziosissimo fatto, riferito poi nei processi, avvenuto quando il bambino aveva pochi mesi. Era stato condotto dalla madre ad un bagno; ed ivi la balia si accorse che egli aveva in mano un pezzetto di carta e lo stringeva forte. Tentò di averlo, ma il bambino con molte strida si opponeva. Corse la contessa, che gli tolse dalla manina la carta, ove lesse le parole Ave Maria. Ma il bambinello fece tutti gli sforzi per riaver nelle mani la carta; ed appena che l’ebbe, se la pose in bocca e la inghiottì. Così possiam dire che col latte materno Tommaso facesse sua la devozione verso la Vergine Madre.

2. — A Montecassino.

I Conti d’Aquino erano in relazione stretta coi Monaci di Montecassino, grande asilo di pietà e di scienza e vero faro di civiltà, ove i figli di San Benedetto, che ivi sui principii del secolo VI aveva gettato le basi del suo Ordine e di tutto il monachismo d’Occidente, vivevano santamente sotto la guida di Sinibaldo, della stessa famiglia d’Aquino, allora abate del Monastero. Di questa nobile abbazia si erano resi altamente benemeriti gli antenati del giovanetto per averla più volte difesa contro le violenze dei messi di Ruggero, Re delle due Sicilie. Com’era costume dei nobili di quei dintorni, specialmente quando i loro figli promettevano bene di sé, il Conte Landolfo affidò Tommaso, di soli cinque anni, a quei Monaci, perché ne avessero cura. Tommaso visse in Montecassino come nella casa del Signore; lassù apprese a pregare, ed ebbe da quei santi religiosi i primi insegnamenti delle lettere. 1 libri erano la sua passione, quando potevali avere; e tutti i Monaci ammiravano come il bambino agli studi convenienti all’età sapesse alternare le devote preghiere. Gli avevano parlato di Dio, delle sue perfezioni, della sua immensa bontà, di Dio creatore del cielo e della terra; ma egli non era pago. E rivolto al suo maestro, domandavagli con molte istanze: Chi è Dio? Il ripetersi di quella domanda era segno che egli avrebbe voluto sapere qualche cosa di più di quel che il buon maestro gli potesse dire. Questo lo avrebbe appreso più tardi colla preghiera e colla chiarezza che sarebbe venuta nella sua mente dalla luce di Dio; ma in parte soltanto, qui in terra; perché il luogo ove Dio pienamente si svela è solamente il cielo.

3. — Nel castello di Loreto.

I progressi fatti da Tommaso in Montecassino nei primi studi fu così straordinario, che il conte Landolfo pensò d’inviarlo alle scuole di Napoli. Ma per godere qualche mese almeno della sua compagnia, la famiglia lo volle con sé nel castello di Loreto Aprutino, che essa possedeva, e dove soleva passare la stagione autunnale. Partì Tommaso da Montecassino col suo aio, e si recò in Loreto, ove abitavano i suoi genitori con quattro figlie. La quinta era stata sventuratamente uccisa nella sua culla da un fulmine caduto sul patrio castello, mentre era presso il fratellino Tommaso, che rimase illeso. I due fratelli stavano iniziandosi alle armi sotto Federigo II. La gentilezza e bontà del giovinetto, la sua mirabile intelligenza, la sua angelica pietà si rivelarono a tutti; sebbene sotto il velo di una modestia ed umiltà senza pari egli tentasse di nascondere le sue doti di mente e di cuore. Appunto in quel tempo fu afflitto tutto il paese da una grave carestia. Le porte del castello erano assediate dai poveri; e Tommaso era tutto lieto quando gli veniva dato l’incarico di distribuire le elemosine. Si vedeva rapidamente scender la scala che conduceva alla ròcca, e portare a quei miseri il soccorso. E supplicava i genitori perché fossero larghi nel dare, promettendo loro, in compenso, benedizioni e grazie da parte di Dio. Ma la carità di Tommaso non aveva limiti; e spesso egli correva alla dispensa, e colmava di pane il grembo della sua veste. La cosa apparve eccessiva all’amministratore della casa, che volle avvertirne il padre; e questi attese ad ammonire il figliuolo appunto nel momento in cui questi usciva dalla rócca colla solita provvista. Trovatosi in faccia al padre, aprì la sua veste fissando con occhio sereno il volto leggermente adirato di lui. Ma il pane era scomparso; il grembo di Tommaso era pieno di fiori! Stupirono tutti del prodigio; e con Tommaso ne furono lieti in modo speciale i poverelli, che da quel momento ebbero da lui senza limiti i pietosi soccorsi.

4. — Nell’ Università di Napoli.

In Napoli, ove abitò sotto la custodia del suo aio fedele, attese Tommaso agli studi per cinque anni. Nella città bellissima era stata eretta di fresco un’Università, a cui subito era accorsa molta gioventù d’Italia e di fuori, specialmente per godere l’incanto di quel cielo e di quel mare. Fu stabilita nel 1224 da Federigo II imperatore, coll’intenzione di far diminuire d’importanza quella di Bologna, città a lui nemica. Tra gli uomini dotti che vi insegnavano nel tempo in cui la frequentò il giovinetto Tommaso, troviamo ricordato un Pietro Martino, maestro di umanità e retorica, e un Pietro d’Ibernia, professore insigne di filosofia. Questi specialmente furono i maestri di Tommaso nello studio napoletano. Tutti gli storici del Santo parlan di lui non solo come di un ottimo scolaro, ma come di un giglio di purezza conservatosi intatto in mezzo alla corruzione di quella città incantevole e al contatto di una gioventù sfrenata; parlano della sua carità verso i poveri, della sua semplicità e nobiltà di tratto unita ai più innocenti costumi, delle sue molte orazioni, specialmente quando nell’antica chiesa di San Michele a Morfìsa, che il popolo chiamava Sant’Angelo, ebbe conosciuto i Padri Domenicani. Il Santo Patriarca Domenico da appena vent’anni era morto ; e già il suo Ordine era salito in alta fama di santità e dottrina. Napoli nel 1231 aveva accolto i figli di lui, che nella Chiesa di San Michele, già appartenuta ai Benedettini, poi incorporata nel gran tempio di San Domenico Maggiore, attendevano ai sacri ministeri, e nella città e nei dintorni predicavano santamente la divina parola. Tommaso rimase incantato del loro abito, e più della loro modestia e bontà: la stretta povertà in cui vivevano li faceva ai suoi occhi più grandi ancora; perché egli aveva bene appreso che le ricchezze della terra sono tutt’altro che i veri beni per l’uomo; e soprattutto li rendeva a lui amabili la purità angelica di vita in cui vivevano e che aveva loro conciliato la stima universale. L’amore alla scienza divina di cui vedeva così pieni i Frati Predicatori e il desiderio di una vita perfetta tutta impiegata nel servizio di Dio e nella salute delle anime, furono i due grandi motivi che attrassero Tommaso alla vita domenicana. Egli conobbe altresì il pericolo in cui sarebbesi trovata la sua virtù in mezzo al mondo, che già facevagli udire da tante parti le voci lusinghiere della lode all’ingegno sublime, che già tanto lo sollevava sui suoi condiscepoli, e alle doti di cui la natura lo aveva fornito; e cercò un rifugio sicuro. San Domenico dal cielo fissò il suo sguardo sopra un giovinetto sì caro, e gli pose in cuore un vivo desiderio di divenir suo figliuolo. Sappiamo che Tommaso si unì in affettuosa amicizia col Padre Giovanni da San Giuliano, dotto e santo religioso, di cui narrano gli storici che più volte vide il santo giovinetto col volto irradiato di luce celeste, mentre, inginocchiato presso gli altari, intensamente pregava.

5. — Vestizione religiosa e prime lotte.

Verso il mese di Agosto del 1243, nella sua età di diciassette anni, Tommaso, nella Chiesa di San Michele a Morfisa, prostrato in terra, chiedeva la misericordia di Dio e dell’Ordine Domenicano; e rialzatosi, riceveva dalle mani del Padre Tommaso Agni da Lentino l’abito bianco, simbolo di innocenza, tutelato dal mantello nero della penitenza. La notizia della decisione presa dall’illustre figlio del Conte d’Aquino fece accorrere al Convento molte persone meravigliate al vedere un giovinetto così nobile e che tanto faceva sperare del suo ingegno, chiedere, nel più bel fiore della sua età, mentre tutto intorno a lui sorrideva, l’abito di un Ordine mendicante, che voleva anzitutto la penitenza e il nascondimento di sé. Chi lo vide raggiante di gioia tender le braccia all’abito bianco che il Priore gli porgeva, conobbe forse i disegni di Dio su quest’anima eletta, superiori assai alle vedute umane; ma non mancarono quelli che condannarono lui di inconsideratezza per essersi chiuse da se stesso tutte le vie che la fortuna avevagli aperto dinanzi, e i frati d’imprudenza e anche d’avarizia. In quel frattempo l’aio di Tommaso, a cui egli aveva candidamente palesata innanzi la sua decisione, aveva avvertito il Conte d’Aquino, che dimorava allora in Roccasecca. Ma il Conte non seppe forse la cosa che quando Tommaso era stato già accettato nell’Ordine. Sembra che poco dopo egli morisse; e si sa che la Contessa desolata si recò in Napoli per riavere a tutti i costi il figliuolo, anche perché la morte del marito pareva averne accresciuto in lei il diritto. Ella amava il suo Tommaso d’uno specialissimo amore, sapeva di non essere stata mai da lui contristata colla più leggiera disobbedienza; e forte si meravigliava, che, così docile com’era, avesse preso quella decisione senza nemmeno avvertirla! A Tommaso invece era parsa cosa tanto naturale, e tanto necessario da parte sua aveva veduto l’obbedir prontamente alla chiamata di Dio, che non aveva veduto probabile da parte dei pii genitori la minima opposizione. Del resto, di tali fatti non eran rari gli esempi in quella età; e questo giustifica anche i religiosi, che, del resto, vedevano nel giovanetto i più evidenti segni della chiamata di Dio. Purtroppo essi temerono opposizioni fin da principio, e si prepararono a difendere come un sacro diritto la vocazione di Tommaso. Saputo che la Contessa si era messa in viaggio per Napoli, vollero che il novizio evitasse quell’incontro, e lo fecero segretamente fuggire. Due religiosi Io accompagnarono al Convento di Santa Sabina sull’Aventino in Roma, ov’era fresco e vivo il ricordo del santo Fondatore. Forse fu lo stesso Tommaso che li pregò a non esporlo ai pericoli di quel colloquio; e sebbene fosse fermamente deciso, umilmente temé di se stesso. Teodora, dopo aver riempita Napoli dei suoi clamori, volle raggiungerlo a Roma. Al cuore di Tommaso sarebbe stato dolce rimanere in quel caro Convento ove ancora vivevano alcuni padri che erano vissuti col Santo Patriarca e dove trovava tutta la freschezza e semplicità di quei primi anni della vita domenicana. Ma i Superiori che avevano avuto sentore della cosa, lo avevano di nuovo fatto partire, perché prendesse la via della Francia.

6. — Fuga del Santo e suo arresto. La prima conquista.

Il buon novizio con quattro compagni se ne andava lieto, credendosi ormai sicuro, e cercando in paesi lontani la pace desiderata. Ma purtroppo eran pronte per lui altre lotte, e, per volere di Dio, altre vittorie. Bisognerebbe entrare nel segreto di quei tempi di contrasti feroci, in cui, pur di ottenere un intento, da nessun mezzo si recedeva, fosse pure il più indegno. A Tommaso d’Aquino i nobili parenti avrebbero volentieri concesso a suo tempo di vestire un abito ecclesiastico che lo stradasse a prelature o abbazie: la nota celebrità del casato, l’ingegno rarissimo che di giorno in giorno sempre più si rivelava, avrebbero aperto a lui le più splendide vie. Ma appunto queste vie egli aveva voluto chiuder tutte davanti a sé; e questa fu la ragione della lotta ch’ei sopportò da gigante. La madre di Tommaso, i fratelli, le sorelle non ascoltaron per allora che la voce della carne e del sangue. Teodora riuscì a sapere che il suo Tommaso batteva la via che da Roma conduce a Siena, e fece disperato appello ai due figli che militavano in quel momento ai servizi dell’Imperatore Federigo II, il quale aveva posto l’assedio a Viterbo: che in ogni modo cercassero il fratello per la via senese, ed arrestatolo, lo conducessero a lei. Il novizio, che era ormai vicino ai confini della Toscana, si vide presso Acquapendente assalito ad un tratto, circondato dalla soldatesca, e dagli stessi suoi fratelli strapazzato e costretto a separarsi dai suoi compagni, che si salvarono colla fuga, e, coll’abito mezzo lacero messo in groppa ai cavalli e condotto al patrio castello di Monte San Giovanni. – Fu questo il campo della lotta più fiera: qui Tommaso si mostrò veramente grande. Il primo incontro colla madre, armata di tutte le ragioni dell’umana prudenza, avvalorate dal più vivo affetto materno, fu per Tommaso un primo trionfo. Egli l’ascoltò in silenzio e con calma serena. Alle lacrime e preghiere di lei non si commosse, e a quelle voci del senso oppose una sola ragione: la volontà di Dio che lo chiamava e a cui doveva anzitutto obbedire. Di tale chiamata era sicuro, tanto viva gli si era fatta sentire nel cuore. Ma la povera madre non si arrese. Si separò dal figlio col proposito di tentare altre vie. Ordinò che si tenesse sotto custodia, e che soltanto alle due sorelle maggiori fosse permesso di visitarlo. Queste s’impegnarono ad aiutar la madre per ottenere l’intento. – Cominciò allora colle sorelle una seconda lotta, e fu davvero un maggiore trionfo; perché i colloqui colle sorelle, che soprattutto mettevano innanzi i diritti materni, furono da Tommaso volti a tal punto, che le due nobili giovinette sentirono man mano il loro cuore distaccarsi dai pensieri e dagli amori del secolo e fermamente desiderare e volere quello che il santo fratello desiderava e voleva. Anzi una di esse fin d’allora decise di consacrarsi a Dio: l’altra nell’esercizio delle più austere virtù passò poi la sua vita nel secolo. Alla madre, sulle prime, esse nulla rivelarono, per aver modo di recarsi liberamente dal fratello, dalle cui parole s’infervoravano sempre più. E al cuore di lui Iddio concedeva una calma ed una gioia ineffabile che lo avvalorava alle lotte future.

7. — La vittoria più bella.

E venne la lotta più terribile. Non tardò a scoprirsi il cambiamento avvenuto nelle sorelle, che tenevano segretamente informati di tutto i Domenicani. Questi, per mezzo loro, fecero pervenire al novizio un abito dell’Ordine ed alcuni libri di Filosofia e di Sacra Scrittura, nei quali tanto si deliziava, ed erano stati avvisati di stare all’erta nei pressi del castello per qualunque occorrenza. Ci duole il dire dell’infame pensiero che venne in mente ai due scostumati fratelli quando seppero dell’ostinazione di Tommaso. Farlo cadere, questo fu il loro diabolico intento; dalla vita di virtù farlo scivolare ad un tratto nelle vie della carne; questo mal passo sarebbe stato il più decisivo per fargli cambiare strada per sempre. Certamente alla madre essi non fecero trapelar nulla dello scellerato disegno. Una giovane dissoluta si prestò ai loro infami voleri; e mentre Tommaso una sera, a ora già tarda, stavasene solo nella sua carcere presso un focolare acceso, ella aprì cautamente la porta e si offerse a lui con tutte le grazie e le lusinghe della procacità femminile. La forza di Dio diè vigore in quel momento al cuore ed al braccio di Tommaso, che, vista la donna, non esitò un istante, e, con un tizzone acceso, si lanciò contro di lei per colpirla nella faccia. Dicono gli storici che il mite Tommaso fece quest’atto con grandissimo sdegno ». E mentre la donna fuggiva, egli, col tizzone stesso, delineava sul muro una croce e si gettava in ginocchio davanti a lei. – Fu questo il gran trionfo per cui la vita di Tommaso si abbellì di luce divina. A celebrarlo scesero gli Angeli del cielo, che si rallegrarono con lui, fatto ad essi più simile per quella vittoria, e cinsero i suoi fianchi di un cingolo sacro. – Corsero le sorelle e diedero avviso ai Domenicani, che penetrarono nella cinta più stretta del castello. Esse avevano preparato una cesta di vimini e una corda; e Tommaso, per le mani stesse delle due giovani sorelle, fu calato giù dal muro e scese nelle braccia dei frati, che nel buio della notte si diedero con lui alla fuga. Ai fratelli non fu dato nel momento di scoprir la cosa; e mentre essi forse già si allietavano della sua caduta, egli era già in via per il suo convento di Napoli.

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (2)


UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XI – QUADRAGESIMO ANNO (2)

Continua l’analisi dettagliata della questione sociale secondo la dottrina della Chiesa Cattolica, dottrina che scaturisce dagli insegnamenti cristico-evangelici e dalla Tradizione apostolica. Nel contempo si denunciano le aberranti ideologie social-comuniste, di ispirazione gnostico-satanica, che oggi trionfano, dopo un’apparente eclissi politica, nel mondialismo di stampo massonico mascherato da governo unico mondiale e democrazia (o meglio demonocrazia) globalista, organismo asservito gli interessi dei kazari, i falsi Giudei che si pretendono tali ma … non lo sono, e che hanno infestato tutte le istituzioni nazionali e mondiali pseudo-filantropiche finanche falso-religiose, come appunto l’antichiesa del Novus Ordo e tutte le sette protestanti e sedevacantiste anticristiane, il cui obiettivo unico è la rimozione o la negazione del Vicario di Cristo, oggi impedito e sostituito da due caricature da opertetta buffa, “il gatto e la volpe” di memoria fiabesca come il burattino creato dall'”apprendista” Collodi impegnato nel descrivere il cammino nelle logge di perdizione. La lettera è un vero trattato di dottrina sociale e merita uno studio attento soprattutto da parte di coloro che reggono le sorti politiche, economiche e sociali dei popoli. La via del benessere materiale e spirituale è loro indicata con chiarezza ed infallibilità perenne. Chi non si atterrà, nel governo del popolo a queste direttive scaturite dalla tradizione divina, si apre la porta dell’inferno e l’apre ai suoi sottoposti che non hanno seguito la via salvifica indicata dal Verbo divino incarnato, anzi fanno già esperienza in anticipo della condizione infernale, come oggi tutti possiamo constatare nei Paesi apostati un tempo cristiani, in particolare nella nostra Italia, culla del Cristianesimo, terra del Vicario di Cristo estromesso il 26 ottobre del 1958, e che è quindi la prima a pagare un debito immenso per le colpe commesse e che commette tuttora contro il “dolce Cristo in terra”, S. S. Gregorio XVIII.

LETTERA ENCICLICA

QUADRAGESIMO ANNO (2)

DEL SOMMO PONTEFICE

PIO XI

AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,

PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI

E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI

CHE HANNO PACE E COMUNIONE

CON LA SEDE APOSTOLICA,

SULLA RICOSTRUZIONE DELL’ORDINE SOCIALE

NEL 40° ANNIVERSARIO DELLA RERUM NOVARUM

(2)

III – MUTAZIONI PROFONDE DELLA SOCIETA’ DOPO LEONE XIII

100. E veramente profonde sono le mutazioni che dai tempi di Leone XIII in qua hanno subìto tanto il regime economico quanto il socialismo. E anzitutto, che le condizioni economiche siano profondamente trasformate è una cosa a tutti evidente. E voi sapete, venerabili Fratelli e diletti Figli, che il Nostro Predecessore di f. m. nella sua enciclica contemplava soprattutto quell’ordinamento economico con cui generalmente si contribuisce all’attività economica dagli uni col capitale, dagli altri con il lavoro, secondo che egli definiva con felice espressione: Non può esservi capitale senza lavoro né lavoro senza capitale (enc. Rerum novarum, n. l5).

1 – Mutazioni nell’ordinamento economico

a) relazioni fra capitale e operai

101. Orbene, Leone XIII adottò ogni mezzo per disciplinare questo ordinamento economico, secondo le norme della rettitudine; sicché è evidente che esso non è in sé da condannarsi. E infatti non è di sua natura vizioso: allora però viola il retto ordine, quando il capitale vincola a sé gli operai, ossia la classe proletaria, col fine e con la condizione di sfruttare a suo arbitrio e vantaggio le imprese e quindi l’economia tutta, senza far caso, né della dignità umana degli operai, né del carattere sociale dell’economia, né della stessa giustizia sociale e del bene comune.

102. Vero è che neppure oggi è questo il solo ordinamento economico vigente in ogni luogo; un’altra forma vi è che abbraccia ancora grande moltitudine di persone, importante per numero e potere, quale, ad esempio, la classe degli agricoltori, in cui la maggior parte del genere umano si procura con probo e onesto lavoro quanto è necessario alla vita. Anche essa ha le sue angustie e le sue difficoltà, alle quali allude il Nostro Predecessore in parecchi tratti della sua enciclica e Noi pure in questa vi abbiamo più di una volta accennato.

b) capitalismo industriale

103. Ma, l’ordinamento capitalistico dell’economia, col dilatarsi dell’industrialismo per tutto il mondo, dopo l’enciclica di Leone XIII si è venuto esso pure allargando per ogni dove, a tal punto da invadere e penetrare anche nelle condizioni economiche e sociali di quelli che si trovano fuori della sua cerchia, introducendovi in certo modo la sua impronta.

104. Perciò quando invitiamo a studiare le trasformazioni che l’ordinamento capitalistico dell’economia subì dopo il tempo di Leone XIII, non solamente procuriamo il bene di coloro che abitane in paesi dominati dal capitale e dall’industria, ma di tutto intero il genere umano.

c) concentrazione della ricchezza

105. E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento.

106. Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare.

107. Una tale concentrazione di forze e di potere, che è quasi la nota specifica della economia contemporanea, è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè, spesso i più violenti nella lotta e i meno curanti della coscienza.

108. A sua volta poi la concentrazione stessa di ricchezze e di potenza genera tre specie di lotta per il predominio: dapprima si combatte per la prevalenza economica; di poi si contrasta accanitamente per il predominio sul potere politico, per valersi delle sue forze e della sua influenza nelle competizioni economiche; infine si lotta tra gli stessi Stati, o perché le nazioni adoperano le loro forze e la potenza politica a promuovere i vantaggi economici dei propri cittadini, o perché applicano il potere e le forze economiche a troncare le questioni politiche sorte fra le nazioni.

d) funeste conseguenze

109. Ultime conseguenze dello spirito individualistico nella vita economica sono poi quelle che voi stessi, venerabili Fratelli e diletti Figli, vedete e deplorate; la libera concorrenza cioè si è da se stessa distrutta; alla libertà del mercato è sottentrata la egemonia economica; alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio; e tutta l’economia è così divenuta orribilmente dura, inesorabile, crudele. A ciò si aggiungono i danni gravissimi che sgorgano dalla deplorevole confusione delle ingerenze e servizi propri dell’autorità pubblica con quelli della economia stessa: quale, per citarne uno solo tra i più importanti, l’abbassarsi della dignità dello Stato, che si fa servo e docile strumento delle passioni e ambizione umane, mentre dovrebbe assidersi quale sovrano e arbitro delle cose, libero da ogni passione di partito e intento al solo bene comune e alla giustizia. Nell’ordine poi delle relazioni internazionali, da una stessa fonte sgorgò una doppia corrente: da una parte, il nazionalismo o anche l’imperialismo economico; dall’altra non meno funesto ed esecrabile, l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene.

e) i rimedi

110. Ora, con quali mezzi si possa rimediare a un male così profondo, già l’abbiamo indicato nella seconda parte di questa enciclica, dove ne abbiamo trattato di proposito sotto l’aspetto dottrinale: qui ci basterà ricordare la sostanza del Nostro insegnamento. Essendo dunque l’ordinamento economico moderno fondato particolarmente sul capitale e sul lavoro, devono essere conosciuti e praticati i precetti della retta ragione, ossia della filosofia sociale cristiana, concernenti i due elementi menzionati e le loro relazioni. Così, per evitare l’estremo dell’individualismo da una parte, come del socialismo dall’altra, si dovrà soprattutto avere riguardo del pari alla doppia natura, individuale e sociale propria, tanto del capitale o della proprietà, quanto del lavoro. Le relazioni quindi fra l’uno e l’altro devono essere regolate secondo le leggi di una esattissima giustizia commutativa, appoggiata alla carità cristiana. È necessario che la libera concorrenza, confinata in ragionevoli e giusti limiti, e più ancora che la potenza economica siano di fatto soggetti all’autorità pubblica, in ciò che concerne l’ufficio di questa. Infine le istituzioni dei popoli dovranno venire adattando la società tutta quanta alle esigenze del bene comune cioè alle leggi della giustizia sociale; onde seguirà necessariamente che una sezione così importante della vita sociale, qual è l’attività economica, verrà a sua volta ricondotta ad un ordine sano e bene equilibrato.

2 – Trasformazione del socialismo

111. Non meno profonda che quella dell’ordinamento economico è la trasformazione che dal tempo di Leone XIII ebbe il socialismo, con cui specialmente lottò il Nostro Predecessore. Allora infatti esso poteva quasi dirsi uno e propugnatore di principi dottrinali ben definiti o raccolti in un sistema: ora invece va diviso in due partiti principali, discordanti per lo più fra loro e inimicissimi, ma pur tali che nessuno dei due si scosta dal fondamento proprio di ogni socialismo, e contrario alla fede cristiana.

a) socialismo più violento o comunismo

112. Un partito infatti del socialismo andò soggetto alla trasformazione stessa che abbiamo spiegato sopra, rispetto all’economia capitalistica, e precipitò nel comunismo; il quale insegna e persegue due punti, né già per vie occulte o per raggiri, ma alla luce aperta e con tutti i mezzi, anche più violenti una lotta di classe la più accanita e l’abolizione assoluta della proprietà privata. E nel perseguire i due intenti non v’ha cosa che esso non ardisca, niente che rispetti: e dove si è impadronito del potere, si dimostra tanto più crudele e selvaggio, che sembra cosa incredibile e mostruosa. Di che sono prova le stragi spaventose e le rovine che esso ha accumulato sopra vastissimi paesi dell’Europa Orientale e dell’Asia. Quanto poi sia nemico dichiarato della santa Chiesa, e di Dio stesso, è cosa purtroppo dimostrata dall’esperienza e a tutti notissima. Non crediamo perciò necessario premunire i figli buoni e fedeli della Chiesa contro la natura empia e ingiusta del Comunismo; ma non possiamo tuttavia, senza un profondo dolore, vedere l’incuria e l’indifferenza di coloro che mostrano di non dar peso ai pericoli imminenti, e con una passiva fiacchezza lasciano che si propaghino per ogni parte quegli errori, da cui sarà condotta a morte la società tutta intera con le stragi e la violenza. Ma soprattutto meritano di essere condannati coloro che trascurano di sopprimere o trasformare quelle condizioni di cose, che esasperano gli animi dei popoli e preparano con ciò la via alla rivoluzione e alla rovina della società.

b) socialismo più mite

113. Più moderato è l’altro partito che ha conservato il nome di socialismo; giacché non solo professa di rigettare il ricorso alla violenza, ma se non ripudia la lotta di classe e l’abolizione della proprietà privata, la mitiga almeno con attenuazioni e temperamenti. Si direbbe quindi che, spaventato dei suoi principi e delle conseguenze che ne trae il comunismo, il socialismo si pieghi e in qualche modo si avvicini a quelle verità che la tradizione cristiana ha sempre solennemente insegnate; poiché non si può negare che le sue rivendicazioni si accostino talvolta, e molto da vicino, a quelle che propongono a ragione i riformatori cristiani della società.

c) la lotta di classe

114. La lotta di classe, infatti, quando si astenga dagli atti di inimicizia e dall’odio vicendevole, si trasforma a poco a poco in una onesta discussione, fondata nella ricerca della giustizia: discussione che non è certo quella felice pace sociale che tutti vagheggiano, ma che può e deve essere un punto di partenza per giungere alla mutua cooperazione delle classi. Così anche la guerra dichiarata alla proprietà privata si viene sempre più calmando e restringendosi a tal segno, che alla fine non viene più assalita in sé la proprietà dei mezzi di produzione, ma una certa egemonia sociale, che la proprietà contro ogni diritto si è arrogata e usurpata. E infatti tale supremazia non deve essere propria dei semplici padroni, ma del pubblico potere. Con ciò si può giungere insensibilmente fino al punto che le massime del socialismo più moderato non discordino più dai voti e dalle rivendicazioni di coloro che, fondati sui princìpi cristiani, si studiano di riformare la società umana. E in verità si può ben sostenere, a ragione, esservi certe categorie di beni da riservarsi solo ai pubblici poteri, quando portano seco una tale preponderanza economica, che non si possa lasciare in mano ai privati cittadini senza pericolo del bene comune.

115. Cotali giuste rivendicazioni e desideri non hanno più nulla che ripugni alla verità cattolica e molto meno sono rivendicazioni proprie del socialismo. Quelli dunque che a queste sole mirano, non hanno ragione di dare il nome al socialismo.

116. Né perciò si dovrà credere che quei partiti o gruppi di socialisti, che non sono comunisti, si siano ricreduti tutti a tal segno, o di fatto o nel loro programma. No, perché essi per lo più, non rigettano né la lotta di classe, né l’abolizione della proprietà, ma solo la vogliono in qualche modo mitigata. Senonché, essendosi i loro falsi princìpi così mitigati e in qualche modo cancellati, ne sorge, o piuttosto viene mosso da qualcuno, il dubbio: se per caso anche i princìpi della verità cristiana non si possano in qualche modo mitigare o temperare, per andare così incontro al socialismo e quasi per una via media accordarsi insieme. E vi ha di quelli che nutrono la vana speranza di trarre a noi in questo modo i socialisti. Vana speranza, diciamo. Quelli, infatti, che vogliono essere apostoli tra i socialisti, devono professare apertamente e sinceramente, nella sua pienezza e integrità, la verità cristiana, ed in nessuna maniera usare connivenza con gli errori. Che, se veramente vogliono essere banditori del Vangelo, devono studiarsi anzitutto di far vedere ai socialisti che le loro rivendicazioni, in quanto hanno di giusto, si possono molto più validamente sostenere coi princìpi della fede cristiana e molto più efficacemente promuovere con le forze della cristiana carità.

d) socialismo e Cristianesimo

117. Ma che dire nel caso che, rispetto alla lotta di classe e alla proprietà privata, il socialismo sia realmente così mitigato e corretto da non aver più nulla che gli si possa rimproverare su questi punti? Ha con ciò forse rinunziato ai suoi princìpi, alla sua natura contraria alla religione cristiana? Qui sta il punto, su cui molte anime si trovano esitanti. E non pochi sono pure i cattolici, i quali ben conoscendo come i princìpi cristiani non possono essere né abbandonati, né cancellati, sembrano rivolgere lo sguardo a questa Santa Sede e domandare con ansia, che decidiamo se questo socialismo si sia ricreduto dei suoi errori a tal segno, che senza pregiudizio di nessun principio cristiano, si possa ammettere e in qualche modo battezzare. Ora per soddisfare, secondo la Nostra sollecitudine paterna, a questi desideri, proclamiamo che il socialismo, sia considerato come dottrina, sia considerato come fatto storico, sia come « azione », se resta veramente socialismo, anche dopo aver ceduto alla verità e alla giustizia su questi punti che abbiamo detto, non può conciliarsi con gli insegnamenti della Chiesa cattolica. Giacché il suo concetto della società è quanto può dirsi opposto alla verità cristiana.

118. Infatti, secondo la dottrina cristiana, il fine per cui l’uomo dotato di una natura socievole, si trova su questa terra, è questo che, vivendo in società e sotto un’autorità sociale ordinata da Dio (cfr. Rom 13,1), coltivi e svolga pienamente tutte le sue facoltà a lode e gloria del Creatore; e adempiendo fedelmente i doveri della sua professioni o della sua vocazione, qualunque sia, giunga alla felicità temporale ed insieme alla eterna. Il socialismo al contrario, ignorando o trascurando del tutto questo fine sublime, sia dell’uomo come della società, suppone che l’umano consorzia non sia istituito se non in vista del solo benessere.

119. Infatti, da ciò che una divisione conveniente del lavoro, più efficacemente che lo sforzo diviso degli individui, assicura la produzione, i socialisti deducono che l’attività economica, nella quale essi considerano solamente il fine materiale, deve per necessità essere condotta socialmente. E da siffatta necessità, secondo essi, deriva che gli uomini sono costretti, per ciò che riguarda la produzione, a sottomettersi interamente alla società; anzi il possedere una maggiore abbondanza di ricchezze che possa servire alle comodità della vita, è stimato tanto che gli si debbono posporre i beni più alti dell’uomo, specialmente la libertà, sacrificandoli tutti alle esigenze di una produzione più efficace. Questo pregiudizio dell’ordinamento « socializzato » della produzione portato alla dignità umana, essi credono che sarà largamente compensato dall’abbondanza dei beni, che gli individui ne ritrarranno per poterli applicare alle comodità e alle convenienze della vita secondo i loro piaceri. La società dunque, qual è immaginata dal socialismo, non può esistere né concepirsi disgiunta da una costrizione veramente eccessiva, e d’altra parte resta in balia di una licenza non meno falsa, perché mancante di una vera autorità sociale: poiché questa non può fondarsi sui vantaggi temporanei e materiali, ma solo può venire da Dio Creatore e fine ultimo di tutte le case (enc. Diuturnum del 9 giugno 1881).

120. Che se il socialismo, come tutti gli errori, ammette pure qualche parte di vero (il che del resto non fu mai negato dai Sommi Pontefici), esso tuttavia si fonda su una dottrina della società umana, tutta sua propria e discordante dal vero cristianesimo. Socialismo religioso e socialismo cristiano sono dunque termini contraddittori: nessuno può essere buon cattolico ad un tempo e vero socialista.

121. Tutte queste verità pertanto, da Noi richiamate e confermate solennemente con la Nostra autorità, si debbono applicare del pari a una totale nuova forma o condotta del socialismo poco nota finora in verità, ma che al presente si va diffondendo tra molti gruppi di socialisti. Esso attende soprattutto a informare di sé gli animi e i costumi; particolarmente alletta sotto colore di amicizia la tenera infanzia per trascinarla, seco, ma abbraccia altresì la moltitudine degli uomini adulti; per formare in fine « l’uomo socialistico », sul quale vuole appoggiare l’umana società plasmata secondo le massime del socialismo.

122. Senonché, avendo Noi spiegato già largamente nella Nostra enciclica Divini illius Magistri su quali princìpi si fondi e quali fini intenda l’educazione cristiana (enc. Divini illius Magistri del 31 dicembre 1929), è tanto chiaro ed evidente che ad essi contraddice quanto fa e cerca il socialismo educatore, che non occorre altra dichiarazione. Ma quanto siano gravi e terribili i pericoli che questo socialismo porta seco, sembra che l’ignorino o non vi diano gran peso coloro che non si curano punto di resistervi con zelo e coraggio secondo la gravità della cosa. È Nostro dovere pastorale quindi mettere costoro in guardia dal danno gravissimo e imminente, e si ricordino tutti che di cotesto socialismo educatore è padre bensì il liberalismo, ma l’erede è e sarà il bolscevismo.

e) diserzione dei Cattolici verso il socialismo 

123. Da ciò, venerabili Fratelli, voi potete intendere, con quanto dolore vediamo, in taluni paesi specialmente, non pochi dei Nostri figli – di cui non possiamo persuaderci che abbiano abbandonato del tutto la vera fede e la buona volontà – aver disertato il campo della Chiesa per passare alle file del socialismo: gli uni professandosi apertamente socialisti e professandone le dottrine; gli altri per indifferenza, o anche con ripugnanza, per aggregarsi alle associazioni che si professano o sono di fatto socialistiche.

124. Con paterna ansietà Noi andiamo pensando e investigando come sia potuto accadere una tanta aberrazione, e Ci sembra di sentire che molti di essi Ci rispondano a loro scusa: la Chiesa e quelli che alla Chiesa si proclamano più aderenti, favoriscono i ricchi, trascurando gli operai e non se ne dànno pensiero alcuno: perciò questi hanno dovuto, al fine di provvedere a sé, aggregarsi alle schiere dei socialisti.

125. Ed è questa, senza dubbio, cosa ben lacrimevole, venerabili Fratelli, che vi siano stati e ancora vi siano di quelli che, dicendosi cattolici, quasi non ricordino la legge sublime della giustizia e della carità, la quale non solamente ci prescrive di dare a ciascuno quello che gli tocca, ma ancora di soccorrere ai nostri fratelli indigenti come a Cristo medesimo (Lett. di S. Giacomo, c. 2); e, cosa ancora più grave, per ansia di guadagno non temono di opprimere i lavoratori. E vi ha pure chi abusa della religione stessa, facendo del suo nome un paravento alle proprie ingiuste vessazioni per potersi sottrarre alle rivendicazioni pienamente giustificate degli operai. Noi non cesseremo mai di riprovare una simile condotta; poiché sono costoro la causa per cui la Chiesa, senza averlo punto meritato, ha potuto aver l’apparenza, e quindi essere accusata, di prendere parte per i ricchi e di non aver alcun senso di pietà per le pene di quelli che si trovano come diseredati della loro parte di benessere in questa vita. Ma che questa apparenza e questa accusa sia immeritata ed ingiusta, tutta la storia della Chiesa dà testimonianza; e l’enciclica stessa, di cui celebriamo l’anniversario, è la più splendida prova della somma ingiustizia di simili contumelie e calunnie, lanciate contro la Chiesa e i suoi insegnamenti.

f) paterno invito a ritornare

126. Ma per quanto provocati dagli insulti e trafitti nel cuore di padre, siamo ben lungi dal rigettare da Noi questi figli, sebbene così miseramente traviati e lontani dalla verità e dalla salvezza. Con tutto l’ardore anzi e con tutta la più viva sollecitudine li invitiamo a ritornare al materno seno della Chiesa. E Dio faccia che prestino orecchio alla Nostra voce! Ritornino donde sono partiti, alla casa cioè del Padre e ivi perseverino dove è il loro proprio luogo, tra le file cioè di quelli che seguendo gli insegnamenti di Leone XIII, da Noi ora solennemente rinnovati, si studiano di restaurare la società secondo lo spirito della Chiesa, rassodandovi la giustizia e la carità sociale. E si persuadano essi che non potranno mai trovare altrove una felicità maggiore, anche su questa terra, se non vicino a Colui che per amore nostro « essendo ricco, diventò povero, affinchè dalla povertà di Lui diventassimo ricchi » (2 Cor VIII, 9), che fu povero e in mezzo alle fatiche fino dalla sua giovinezza, che invita a sé tutti gli oppressi dalla fatica e dalle afflizioni per dar loro un pieno conforto nella carità del suo Cuore (Mt XI, 28); e che infine, senza accettazione di persone, richiederà di più da quelli ai quali avrà dato di più (cfr. Luc 12,48), e renderà a ciascuno secondo il suo operato (Mat XVI, 27).

3 – Rinnovamento dei costumi

127. Ma se consideriamo la cosa con più diligenza e più a fondo, chiaramente vediamo che a questa tanto desiderata restaurazione sociale deve precedere l’interno rinnovamento dello spirito cristiano, dal quale purtroppo si sono allontanati tanti di coloro che si occupano di cose economiche; se no, tutti gli sforzi cadranno a vuoto, non costruendosi l’edificio sulla roccia, ma su la mobile arena (cfr. Mat 7,24).

128. E infatti, venerabili Fratelli e diletti figli, abbiamo dato uno sguardo all’odierno ordinamento economico, e l’abbiamo trovato guasto profondamente. Di poi, richiamato a nuovo esame il comunismo e il socialismo, e tutte le loro forme, anche più mitigate, abbiamo trovato che sono molto lontani dagli insegnamenti del Vangelo.

129. Quindi, per usare le parole del Nostro Predecessore, se un rimedio si vuole dare alla società umana, questo non sarà altro che il ritorno alla vita e alle istituzioni cristiane (enc. Rerum novarum, n. 22). Giacché questo solo può distogliere gli occhi degli uomini affascinati e al tutto immersi nelle cose transitorie di questo mondo, e innalzarli al cielo: questo solo può portare efficace rimedio alla troppa sollecitudine per i beni caduchi, che è l’origine di tutti i vizi. Del quale rimedio chi può negare che la società umana non abbia al presente un sommo bisogno?

a) il principale disordine dell’odierno sistema: il danno delle anime

130. Tutti restano quasi unicamente atterriti dagli sconvolgimenti, dalle stragi, dalle rovine temporali. Ma se consideriamo i fatti con occhio cristiano, com’è dovere, che cosa sono tutti questi mali in paragone della rovina delle anime? Eppure si può dire senza temerità essere tale oggi l’andamento della vita sociale ed economica, che un numero grandissimo di persone trova le difficoltà più gravi nell’attendere a quell’uno necessario all’opera capitale fra tutte, quella della propria salute eterna.

131. Di queste innumerevoli pecorelle costituiti Pastore e Tutore dal Principe dei Pastori, che le redense col suo sangue, non possiamo contemplare con indifferenza tale sommo pericolo; che anzi, memori dell’ufficio pastorale, con paterna sollecitudine andiamo di continuo ripensando come recare ad esse aiuto, ricorrendo altresì allo studio indefesso di altri, che vi sono impegnati per debito di giustizia e di carità. Che cosa gioverebbe infatti che gli uomini con più saggio uso delle ricchezze si rendessero più capaci di fare acquisto anche di tutto il mondo, se poi ne ricevessero danno per l’anima? (cfr. Mat 15,26). Che cosa gioverebbe insegnar loro sicuri princìpi intorno alla economia, se poi si lasciano trascinare dalla sfrenata cupidigia e dal gretto amore proprio a tal segno che pur avendo udito gli ordini del Signore, abbiano poi a fare tutto all’opposto! (cfr. Fudic. 2,17).

b) cause del danno spirituale

132. Questa defezione della vita sociale ed economica dalla legge cristiana e l’apostasia che ne consegue di molti operai dalla fede cattolica, hanno la loro radice e la loro fonte negli affetti disordinati dell’anima, triste conseguenza del peccato originale che ha distrutto l’equilibrio meraviglioso delle facoltà umane; sicché l’uomo facilmente trascinato da perverse cupidigie, viene fortemente spinto ad anteporre i beni caduchi di questo mondo a quelli imperituri del cielo. Di qui una sete insaziabile di ricchezze e di beni temporali che, se in ogni tempo fu solita a spingere gli uomini a trasgredire le leggi di Dio e calpestare i diritti del prossimo, oggi col moderno ordinamento economico, offre alla fragilità umana incentivi assai più numerosi. E poiché l’instabilità della vita economica e specialmente del suo organismo, richiede uno sforzo sommo e continuo di quanti vi si applicano, alcuni vi hanno indurito la coscienza a tal segno che si danno a credere lecita l’aumentare i guadagni in qualsiasi modo e difendere poi con ogni mezzo dalle repentine vicende della fortuna le ricchezze accumulate con tanti sforzi. I facili guadagni, che l’anarchia del mercato apre a tutti, allettano moltissimi allo scambio e alla vendita, e costoro unicamente agognando di fare guadagni pronti e con minima fatica, con la sfrenata speculazione fanno salire e abbassare i prezzi secondo il capriccio e l’avidità loro, con tanta frequenza, che mandano fallite tutte le sagge previsioni dei produttori. Le disposizioni giuridiche poi, ordinate a favorire la cooperazione dei capitali, mentre dividono la responsabilità e restringono il rischio del negoziare, hanno dato ansa alla più biasimevole licenza; giacché vediamo che, scemato l’obbligo di dare i conti, viene attenuato il senso di responsabilità nelle anime, e sotto la coperta difesa di una società che chiamano anonima, si commettono le peggiori ingiustizie e frodi, e i dirigenti di queste associazioni economiche, dimentichi dei loro impegni, tradiscono non rare volte i diritti di quelli di cui avevano preso ad amministrare i risparmi. Né per ultimo si può omettere di condannare quegli ingannatori che, non curandosi di soddisfare alle oneste esigenze di chi si vale dell’opera loro, non si peritano invece di aizzare le cupidigie umane, per venirle poi sfruttando a proprio guadagno.

133. Questi così gravi inconvenienti non potevano essere emendati, o piuttosto prevenuti, se non da una severa disciplina morale, rigidamente mantenuta dall’autorità sociale. Ma questa purtroppo mancò. Infatti, avendo il nuovo ordinamento economico cominciato appunto quando le massime del razionalismo erano penetrate in molti e vi avevano messo radici, ne nacque in breve una scienza economica separata dalla legge morale; e per conseguenza alle passioni umane si lasciò libero il freno. Quindi avvenne che in molto maggior numero di prima furono quelli che non si diedero più pensiero di altro che di accrescere ad ogni costo la loro fortuna, e cercando sopra tutte le cose e in tutto i loro propri interessi, non si fecero coscienza neppure dei più gravi delitti contro gli altri. I primi poi che si misero per questa via larga. che conduce alla perdizione (cfr. Mat 7,13), trovarono molti imitatori della loro iniquità sia per l’esempio della loro appariscente riuscita, sia per il fasto insolito delle loro ricchezze, sia per il deridere che fecero, quasi vittima di scrupoli insulsi, la coscienza altrui, sia infine schiacciando i loro competitori più timorosi.

134. Così, traviando dal retto sentiero i dirigenti della economia, fu naturale che anche il volgo degli operai venisse precipitando nello stesso abisso, e ciò tanto più che molti sovraintendenti delle officine sfruttavano i loro operai, come semplici macchine, senza curarsi delle loro anime, anzi neppure pensando ai loro interessi superiori. E in verità fa orrore il considerare i gravissimi pericoli a cui sono esposti nelle moderne officine i costumi degli operai (dei giovani specialmente) e il pudore delle giovani e delle donne, gli impedimenti che spesso il presente ordinamento economico e soprattutto le condizioni affatto irrazionali dell’abitazione recano all’unione e alla intimità della vita di famiglia; alle difficoltà di santificare debitamente i giorni di festa; all’universale indebolimento di quel senso veramente cristiano, onde prima anche persone rozze e ignoranti, sapevano elevarsi ad alti ideali, laddove ora è sottentrata l’unica ansia di procacciarsi comecchessia la vita quotidiana. E così il lavoro corporale, che la divina Provvidenza, anche dopo il peccato originale, aveva stabilito come esercizio in bene del corpo insieme e dell’anima, si viene convertendo in uno strumento di perversione: la materia inerte, cioè esce nobilitata dalla fabbrica, le persone invece si corrompono e si avviliscono.

a) cristianizzazione della vita economica

135. A una strage così dolorosa di anime, che durando farà cadere a vuoto ogni sforzo di rigenerazione della società, non si può rimediare altrimenti se non col ritorno manifesto e sincero degli uomini alla dottrina evangelica, ai precetti cioè di Colui che solo ha parole di vita eterna (cfr. Giov VI, 70), e quindi parole tali che, passando cielo e terra, esse non passeranno mai (cfr. Mat. XXIV, 35). Così quanti sono veramente sperimentati nelle cose sociali, invocano con ardore quella che chiamano perfetta « realizzazione » della vita economica. Ma un tale ordinamento, che Noi pure ardentemente desideriamo e con fervido studio promuoviamo, riuscirà incompleto e imperfetto, se tutte le forme dell’attività umana amichevolmente non si accordano ad imitare ed a raggiungere, per quanto è dato all’uomo, la meravigliosa unità del disegno divino; quell’ordine perfetto, diciamo, che a gran voce la Chiesa proclama e la stessa retta ragione richiede: che cioè le cose tutte siano indirizzate a Dio come a primo supremo termine di ogni attività creata, e tutti i beni creati siano riguardati come semplici mezzi, dei quali in tanto si deve far uso in quanto conducono al fine supremo.

136. Né si deve credere che perciò le professioni lucrative siano meno stimate ovvero ritenute come poco conformi alla dignità umana. Al contrario, anzi, noi impariamo a riconoscere in esse con venerazione la manifesta volontà del Creatore, il quale ha posto l’uomo sulla terra perché la venga lavorando, facendola servire alle sue molteplici necessità. Né si proibisce a quelli che attendono alla produzione, l’accrescere nei giusti e debiti modi la loro fortuna; anzi la Chiesa insegna essere giusto che chiunque serve alla comunità e l’arricchisce con l’accrescere i beni della comunità stessa, ne divenga anch’egli più ricco, secondo la sua condizione, purché tutto ciò si cerchi col debito ossequio alla legge di Dio e senza danno dei diritti altrui e se ne faccia un uso conforme all’ordine della fede e della retta ragione.

137. Che se queste norme saranno da tutti, in ogni luogo e sempre mantenute, non solamente la produzione e l’acquisto dei beni, ma anche l’uso delle ricchezze, che ora si vede così spesso disordinato, verrà tosto ricondotto nei limiti della equità e della giusta distribuzione. Così alla sordida cupidigia dei soli interessi propri, che è l’obbrobrio e il grande peccato del nostro secolo, si opporrà davvero e col fatto la regola, soavissima insieme ed efficacissima, della moderazione cristiana, onde l’uomo deve cercare anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, ritenendo per certo che i beni temporali gli saranno dati per giunta, in quanto avrà bisogno, in forza della sicura promessa della liberalità divina (cfr. Mat VI, 33).

b) legge della carità

138. Se non che per assicurare appieno queste riforme, è necessario che si aggiunga alla legge della giustizia, la legge della carità la quale è il vincolo della perfezione (Col 3,14). Quanto dunque s’ingannano quei riformatori imprudenti, i quali solo curando l’osservanza della giustizia e della sola giustizia commutativa, rigettano con alterigia il concorso della carità! Certo, la carità non può essere chiamata a fare le veci della giustizia, dovuta per obbligo e iniquamente negata. Ma quando pure si supponga che ciascuno abbia ottenuto tutto ciò che gli spetta di diritto, resterà sempre un campo larghissimo alla carità. La sola giustizia, infatti, anche osservata con la maggiore fedeltà, potrà bene togliere di mezzo le cause dei conflitti sociali, non già unire i cuori e stringere insieme la volontà.

139. Ora tutte le istituzioni ordinate a consolidare la pace e promuovere il mutuo soccorso tra gli uomini, per quanto sembrino perfette, hanno il loro precipuo fondamento di sodezza nel legame vicendevole, delle volontà onde i soci vanno uniti fra loro; e mancando questo, come spesso vediamo per esperienza, riescono vane le migliori prescrizioni. Una vera intesa di tutti ad uno stesso bene comune non potrà dunque aversi altrimenti, che quando tutte le parti della società sentano di essere membri di una sola grande famiglia e figli di uno stesso Padre celeste, anzi di essere un solo corpo in Cristo e membri gli uni degli altri (Rom. XII, 20) in modo che se un membro patisce, patiscono insieme tutti gli altri (1 Cor. XII, 26). Allora soltanto i ricchi e gli altri dirigenti muteranno la primitiva loro freddezza verso i loro fratelli più poveri, in calda e operosa affezione; ne accoglieranno le giuste domande con volto benigno e cuore largo, e, al bisogno, ne perdoneranno anche cordialmente le colpe e gli errori. Gli operai poi, dal loro canto, deposto sinceramente ogni sentimento di odio e di invidia, che i fautori della lotta di classe sfruttano tanto astutamente, non solo non disdegneranno il posto loro assegnato dalla Provvidenza divina nella società umana, ma l’avranno anzi in gran pregio, perché ben consapevoli di cooperare davvero utilmente e onoratamente, ciascuno secondo il proprio grado e ufficio, al bene comune, e seguendo in ciò più da vicino gli esempi di Colui che, essendo Dio, ha voluto essere sulla terra un operaio e stimato figlio di operaio.

c) difficoltà dell’impresa

140. Da questa nuova diffusione pertanto dello spirito evangelico nel mondo, che è spirito di moderazione cristiana, e di carità universale, sorgerà, speriamo, quella piena e desideratissima restaurazione della umana società in Cristo e quella pace di Cristo nel regno di Cristo a cui fin dall’inizio del Nostro Pontificato abbiamo fermamente proposto di consacrare tutte le Nostre cure e la Nostra pastorale sollecitudine (cfr. lett. enc. Ubi arcano del 23 dicembre 1922). E voi pure, venerabili Fratelli, che insieme con Noi per mandato dello Spirito Santo governate la Chiesa di Dio (cfr. At XX, 28), con molto lodevole zelo allo stesso intento, come a cosa capitale e al presente più necessaria che mai, indefessamente lavorate, in tutte quante le parti del mondo, anche nei paesi delle sacre Missioni tra gl’infedeli. A voi dunque siano date le meritate lodi, ed insieme con voi a quelli tutti, siano chierici o laici, che vediamo con gioia esservi ogni giorno compagni e validi cooperatori della stessa opera grandiosa. Diciamo i diletti figli Nostri iscritti all’Azione Cattolica, i quali con particolare studio si occupano con Noi della questione sociale, in quanto questa spetta e compete alla Chiesa, per la sua stessa divina istituzione. E Noi li esortiamo tutti caldamente. nel Signore che non tralascino fatiche, non si lascino vincere da difficoltà, ma crescano ogni giorno più nello zelo e nel vigore (cfr. Deut XXXI, 7). Ardua, per certo, è l’impresa che loro proponiamo, giacché ben sappiamo che da una parte e dall’altra, sia tra le classi superiori come tra le inferiori della società, si oppongono in gran numero ostacoli e difficoltà da superare; ma non perciò si perdano essi di animo, né si lascino a nessun conto distogliere dal proposito. L’affrontare aspre battaglie è proprio dei cristiani; sostenere gravi fatiche è proprio di quelli che, quali buoni soldati di Cristo, lo seguono più da vicino (cfr. 2 Tim. II, 3).

141. Fidati, dunque, nell’onnipotente aiuto di Colui che vuole salvi gli uomini tutti (cfr. Tim. 2,4), procuriamo con tutte le forze di giovare a quelle anime infelici, lontane da Dio, e distaccandole dalle cure temporali, nelle quali troppo si avviluppano, insegniamo loro a volgere con fiducia il desiderio alle cose eterne. Il che talvolta si otterrà più agevolmente di quanto a prima vista non sembrava forse sperabile; poiché, se nell’intimo dell’uomo anche più rotto all’iniquità si nascondono, come favilla sotto la cenere, delle mirabili forze spirituali, testimoni non dubbi di quell’anima naturalmente cristiana, quanto più nel cuore di tanti altri che furono indotti in errore piuttosto per ignoranza e per le circostanze esteriori.

142. Del resto, alcuni lieti indizi di sociale rinnovamento si presagiscono già nelle stesse ordinate schiere degli operai, tra cui con somma Nostra allegrezza, vediamo anche folti stuoli di giovani cattolici, i quali con docilità ricevono le ispirazioni della grazia divina e con incredibile zelo si studiano di guadagnare a Cristo i propri compagni. Né meritano minor lode i capi delle associazioni operaie, i quali, posposti i propri interessi e unicamente solleciti del bene dei propri compagni si sforzano di conciliare e promuovere con prudenza le loro giuste rivendicazioni con la prosperità di tutta la maestranza, né per qualsivoglia impedimento o aspetto si lasciano rimuovere da questo nobile impiego. Che anzi vediamo pure in gran numero giovani destinati o per ingegno o per ricchezze ad occupare tra poco un bel posto tra i dirigenti della società, i quali si applicano con più intenso studio alle questioni sociali, e danno liete speranze di dedicarsi un giorno pienamente all’opera della restaurazione sociale.

d) la via da seguire

143. Le condizioni presenti, venerabili Fratelli, ci additano la via che occorre tenere. Come in altre età della storia della Chiesa, noi dobbiamo lottare con un mondo ricaduto in gran parte nel paganesimo. Ora per ricondurre a Cristo le classi diverse di uomini che l’hanno rinnegato, è necessario anzitutto scegliere nel loro seno e formare ausiliari della Chiesa, che ne comprendano lo spirito e i desideri e sappiano parlare ai loro cuori con senso di fraterno amore. I primi ed immediati apostoli degli operai, devono essere operai; industriali e commercianti, gli apostoli degli industriali e degli uomini di commercio.

144. A Voi soprattutto, venerabili Fratelli, e al vostro Clero spetta cercare con diligenza, scegliere con prudenza, formare ed istruire con opportunità questa schiera di laici apostoli, sia di operai come di padroni. Un’opera certamente ardua s’impone ai sacerdoti, e per sostenerla, tutti quelli che crescono nelle speranze della Chiesa, debbono venirsi preparando con lo studio assiduo delle cose sociali. Ma soprattutto è necessario che quelli da Voi applicati in modo particolare a questo ministero, si mostrino tali, cioè forniti di tanto squisito senso di giustizia, da opporsi con una costanza del tutto virile, alle rivendicazioni esorbitanti ed alle ingiustizie, da qualunque parte vengano; è necessario che siano segnalati per prudenza e discrezione lontana da qualsiasi esagerazione; ma specialmente che siano intimamente compenetrati della carità di Cristo, che sola vale a sottomettere con forza e soavità i cuori e le volontà degli uomini alle leggi della giustizia e dell’equità. Questa è la via già più di una volta raccomandata dal felice esito, e che ora si deve seguire con ogni alacrità e senza titubanze.

145. Quanto poi ai cari figli Nostri scelti ad un’opera così grande, vivamente li esortiamo nel Signore a consacrarsi totalmente alla formazione delle anime loro affidate; e nell’adempimento di questo ufficio il più sacerdotale ed apostolico, con opportunità si avvalgano di tutti i mezzi più efficaci dell’educazione cristiana, come istruzione della gioventù, istituzione di cristiane associazioni, fondazioni di circoli di studio, conformi alla regola della fede. Ma soprattutto facciano grande stima e applichino al bene dei loro discepoli quel mezzo preziosissimo di rinnovamento individuale e sociale che Noi abbiamo additato negli Esercizi spirituali con l’enciclica Mens Nostra. Nella quale enciclica abbiamo esplicitamente ricordato e caldamente raccomandato, con gli Esercizi a pro dei laici tutti, anche i Ritiri in specie utilissimi per gli operai (enc. Mens Nostra del 20 dicembre 1929). In questa scuola dello spirito infatti non solo si formano gli ottimi cristiani, ma anche si addestrano i veri apostoli per qualsiasi condizione di vita, riscaldandosi alla fiamma del Cuore di Gesù Cristo. Da questa scuola, come gli Apostoli dal Cenacolo di Gerusalemme, usciranno uomini fortissimi nella fede, di costanza invitta nelle persecuzioni, ardenti di zelo e premurosi unicamente di propagare per ogni dove il regno di Cristo.

146. E certamente, ai nostri tempi più che mai si ha bisogno di tali valorosi soldati di Cristo che si affatichino con tutte le forze a preservare la famiglia umana dalla spaventosa rovina che la incoglierebbe, se, col disprezzo degli insegnamenti del Vangelo, si lasciasse prevalere un ordine di cose che conculcano le leggi della natura non meno che quelle di Dio. La Chiesa di Cristo, edificata sulla pietra incrollabile, non ha nulla da temere per sé, ben sapendo che le porte dell’inferno non prevarranno mai contro di essa (cfr. Mat XVI, 18); sicura come è, per la prova dell’esperienza di tanti secoli, che dalle tempeste anche più violente uscirà sempre più forte e gloriosa di nuovi trionfi. Ma il suo cuore di madre non può non commuoversi ai mali innumerevoli che queste tempeste accumulerebbero sopra migliaia di uomini, e soprattutto agli enormi danni spirituali che ne sgorgherebbero a rovina di tante anime redente dal sangue di Cristo.

147. Tutto, dunque, deve essere tentato per distogliere la società umana da mali così grandi. A ciò debbono tendere le nostre fatiche, a ciò le nostre cure e le nostre continue e ferventi preghiere a Dio. Perché mediante il soccorso della grazia divina noi abbiamo in mano la sorte della famiglia umana.

148. Non permettiamo dunque, venerabili Fratelli e diletti Figli, che i figliuoli di questo secolo si mostrino più accorti, nel loro genere, di noi i quali per divina bontà siamo i figliuoli della luce (cfr. Luc XVI, 18). Noi infatti vediamo con quale meravigliosa sagacia si adoperino a scegliersi aderenti operosi e formarseli atti a diffondere sempre più largamente i loro errori fra tutte le classi e in tutte le parti del mondo. Quando poi prendono ad impugnare la Chiesa di Cristo, li vediamo mettere a tacere le varie loro interne dissezioni e costituire come un solo concorde esercito per raggiungere con l’unione delle forze il comune intento.

e) unione e cooperazione di tutti i buoni

149. Ora, nessuno certamente ignora a quante e quanto grandi opere si stenda dappertutto l’indefesso zelo dei cattolici, sia in ordine al bene sociale ed economico, sia in materia scolastica e religiosa. Ma questa azione mirabile e faticosa non di rado perde di efficacia per la troppa dispersione delle forze. Si uniscano dunque tutti gli uomini di buona volontà quanti sotto la guida dei Pastori della Chiesa amano di combattere questa buona e pacifica battaglia di Cristo; e tutti, sotto la guida ed il magistero della Chiesa, secondo il genio, le forze, la condizione di ciascuno, cerchino di contribuire in qualche misura a quella cristiana restaurazione della società, che Leone XIII auspicò con l’immortale enciclica Rerum novarum; non mirando a se stesso e agli interessi propri, ma a quelli di Gesù Cristo (cfr. Fil 2,21); non, pretendendo di imporre le proprie idee, comunque belle ed opportune esse sembrino, ma mostrandosi disposti a rinunziarvi per il bene comune, affinché in tutto e soprattutto Cristo regni, Cristo imperi, e al quale sia onore e gloria e potere nei secoli (cfr. Apoc V, 13).

Benedizione finale

150. E perché così felicemente avvenga, a Voi tutti, venerabili Fratelli e diletti figli, quanti fate parte dell’immensa famiglia cattolica a Noi affidata, ma con un particolare affetto del Nostro cuore agli operai e a quanti altri lavorano nelle arti manuali, dalla divina Provvidenza a Noi più vivamente raccomandati, come pure ai padroni ed imprenditori cristiani, impartiamo con paterno amore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso san Pietro, il 15 maggio 1931, anno decimo del Nostro Pontificato.

PIO PP. XI

DOMENICA TERZA DI QUARESIMA (2021)

DOMENICA III DI QUARESIMA (2021)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Lorenzo fuori le mura.

Semidoppio, Dom. privil. di I cl. • Paramenti violacei.

L’assemblea liturgica si tiene in questo giorno a S. Lorenzo fuori le mura che è una delle cinque basiliche patriarcali di Roma. In questa chiesa si trovano i corpi di due diaconi Lorenzo e Stefano. L’Orazione del primo (10 agosto) ci fa domandare di estinguere in noi l’ardore dei vizi come questo Santo superò le fiamme dei suoi tormenti; e quella del secondo (26 dicembre) ci esorta ad amare i nostri nemici come questo Santo che pregò per i suoi persecutori. Queste due virtù: la castità e la carità, furono praticate soprattutto dal patriarca Giuseppe, di cui la Chiesa ci fa la narrazione nel Breviario proprio in questa settimana. Giuseppe resistette alle cattive sollecitazioni della moglie di Putifarre e amò i fratelli fino a rendere loro bene per male. (Nel sacramentario Gallicano – Bobbio – , Giuseppe è chiamato il predicatore della misericordia; e la Chiesa, nella solennità di S. Giuseppe, proclama in modo speciale la sua verginità.) Quando Giuseppe raccontò ai fratelli i suoi sogni, presagio della sua futura gloria, essi concepirono contro di lui tanto odio, che presentatasi l’occasione, si sbarazzarono di lui gettandolo in una cisterna senza acqua. Di poi lo vendettero ad alcuni Ismaeliti che lo condussero in Egitto e lo rivendettero ad un nobile egiziano di nome Putifarre. Fu appunto lì che Giuseppe resistette energicamente alle sollecitudini della moglie di Putifarre e divenne per questo il modello della purezza (la Chiesa nel corso di questa settimana, – Epistola e Vangelo di sabato – legge ì brani della donna adultera e di Susanna. I Padri della Chiesa spesso hanno messo in rapporto quest’ultima con Giuseppe). – « Oggi, dice S. Ambrogio, vien offerta alla nostra considerazione la storia del pio Giuseppe. Se egli ebbe numerose virtù, la sua insigne castità risplende in modo del tutto speciale. È giusto quindi che questo santo Patriarca ci venga proposto come lo specchio della castità » (Mattutino). Giuseppe, accusato ingiustamente dalla moglie di Putifarre, fu messo in prigione: egli si rivolse a Dio, lo pregò di liberarlo dalle sue catene. L’Introito usa espressioni analoghe a quelle della preghiera di Giuseppe: « I miei occhi sono rivolti senza tregua verso il Signore, poiché Egli mi libererà dagli inganni ». « Come gli occhi dei servi sono fissi verso i padroni, continua il Tratto, cosi io volgo il mio sguardo verso il Signore, mio Dio, fino a quando non avrà compassione di me ». Allora « Dio onnipotente riguarda i voti degli umili, e stendi la tua destra per proteggerli » (Orazione). Faraone difatti fece uscire Giuseppe dalla prigione, lo fece sedere alla sua destra e gli affidò il governo di tutto il suo regno. Giuseppe prevenne la carestia che durò sette anni; il Faraone allora lo chiamò « Salvatore del popolo ». (Il Vangelo dà una sola volta questo titolo a Gesù, quando parla alla Samaritana presso il pozzo di Giacobbe. Questo Vangelo è quello del Venerdì della stessa settimana, consacrato alla storia di Giuseppe). – In questa occasione i fratelli di Giuseppe vennero in Egitto ed egli disse loro: « Io sono Giuseppe che voi avete venduto. Non temete. Dio ha tutto disposto perché io vi salvi da morte ». La felicità di Giacobbe fu immensa allorché poté rivedere il figlio; egli abitò con i suoi figli nella terra di Gessen, che Giuseppe aveva loro data. « La gelosia dei fratelli di Giuseppe, dice S. Ambrogio, è il principio di tutta la storia di Giuseppe ed è ricordata nello stesso tempo per farci apprendere che un uomo perfetto non deve lasciarsi andare alla vendetta di un offesa o a rendere male per male » (Mattutino). È impossibile non riconoscere in tutto questo una figura di Cristo e della sua Chiesa. – Gesù, figlio della Vergine Maria (Vang.), è il modello per eccellenza della purità verginale. Il Vangelo lo mostra in lotta in modo speciale contro lo spirito impuro. Il demonio che egli scaccia col dito di Dio, cioè per virtù dello Spirito Santo, dal muto ossesso, era « un demonio impuro », dicono S. Matteo e San Luca. La Chiesa scaccia dalle anime dei battezzati il medesimo spirito immondo. Si sa che la Quaresima era un tempo di preparazione al Battesimo e in questo Sacramento il Sacerdote soffia per tre volte sul battezzato dicendo: « esci da lui, spirito impuro, e fa luogo allo Spirito Santo ». « Ciò che si fece allora in modo visibile, dice S. Beda nel commento del Vangelo, si compie invisibilmente ogni giorno nella conversione di quelli che divengono credenti, affinché dapprima scacciato il demonio, esse scorgano poi il lume della fede, indi la loro bocca, prima muta, si apra per lodare Dio » (Mattutino). « Né gli adulteri, né gli impudichi, dice parimente S. Paolo nell’Epistola di questo giorno, avran parte nel regno di Cristo e di Dio. Non si nomini neppure fra voi la fornicazione ed ogni impurità. Specialmente in questo tempo di lotta contro satana, noi dobbiamo imitare Gesù Cristo di cui Giuseppe era la figura. Questo Patriarca ci dà ancora l’esempio della virtù della carità, come Gesù e la sua Chiesa. Gesù, odiato dai suoi, venduto da uno degli Apostoli, morendo sulla croce, pregò per i suoi nemici. Pregò Dio, ed Egli lo glorificò facendolo sedere alla sua destra nel suo regno. Nella festività di Pasqua, Gesù, per mezzo dei Sacerdoti, distribuirà il frumento eucaristico, come Giuseppe distribuì il frumento. Per ricevere la Santa Comunione, la Chiesa esige questa carità, della quale S. Stefano, le cui reliquie si conservano nella chiesa stazionale, ci diede l’esempio perdonando ai suoi nemici. Gesù esercitò questa carità in grado eroico « allorché offrì se stesso per noi » sulla croce (Ep.), di cui l’Eucaristia è il ricordo. — La figura di Giuseppe e la stazione di questo giorno illustrano in una maniera perfetta, il mistero pasquale al quale la liturgia ci prepara in questo tempo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV: 15-16.

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et pauper sum ego.

[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Ps XXIV: 1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam,.

[A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego.

[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

 Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde.

[Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.

Ephes. V: 1-9

“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.”

[Fratelli: siate dunque imitatori di Dio come figlioli diletti, e vivete nell’amore, come Cristo che ci ha amati e ha dato per noi se stesso a Dio in olocausto come ostia di soave odore. La fornicazione, la impurità di qualsiasi sorta, l’avarizia non si senta neppur nominare fra voi, come a santi si conviene. Non oscenità, non discorsi sciocchi, non buffonerie, tutte cose indecenti; ma piuttosto il rendimento di grazie. Perché, sappiatelo bene, nessuno che sia fornicatore, o impudico, o avaro (che è un idolatra) ha l’eredità del regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi seduca con vani discorsi, perché a causa di questi vien l’ira di Dio sugli increduli. Dunque non vi associate con loro. Una volta eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Vivete come figli della luce. Or frutto della luce è tutto ciò che è buono, giusto e vero].

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Se si paragonano queste esortazioni di San Paolo a quelle dei moralisti suoi contemporanei, pagani o giudei, e d’ogni tempo, purché non Cristiani, uno stupore ci invade e ci domina. Quanta altezza fin dalle prime battute dell’odierna epistola: « imitatores Dei estote, » siate imitatori di Dio. Non si può andar più in là, più in su. Specie se si rifletta che il Dio proposto a modello non è la divinità antropomorfica, malamente, fiaccamente antropomorfica del paganesimo, bensì la divinità austeramente, moralmente trascendente del Cristianesimo; non una divinità umanizzata a cui è difficile mostrarsi anche per l’uomo sub-umano, ma la divinità sublime e pura a cui l’uomo non s’accosta se non superando se stesso. Talché la formula pagana « sequere Deum » che altri potrebbe citare come equivalente a questa di San Paolo, per sminuire la nostra meraviglia, sarebbe fuor di proposito. Ma la meraviglia cresce quando noi sentiamo Paolo dir queste cose tanto difficili ed alte in tono d’infinita semplicità e dolcezza. «Imitate Dio, continua l’Apostolo, come figli carissimi voi che siete in Lui ». Vi è già una gran dolcezza nell’idea stessa della Paternità Divina; è, figlioli di Dio; figli, noi piccoli, di Lui che è così grande! Ma San Paolo accentua ancora la dolcezza di quella grande parola e ricorda ai Cristiani per eccitarli ad essere fedeli, eroici emulatori del Padre Celeste, che essi ne sono i figli carissimi, diletti; anzi prediletti. Figli che Dio veramente da Padre ha amati ed ama, ha amati nel giorno della creazione, riamati anche più teneramente e fortemente nel giorno della redenzione. Figli carissimi! Noi rasentiamo il mistero, siamo tuffati nel mistero dell’amore divino. – Che Dio possa avere caro l’uomo! « quid est homo (vien fatto di esclamare) quod memor es eius » che cosa è l’uomo, perché occupi un posticino qualsiasi nei Tuoi pensieri! — e più nel Tuo cuore. Eppure è così. Di Dio noi siamo i figli carissimi. Perciò amorevole deve essere il nostro sforzo per accostarci a Dio, per riprodurlo nella nostra vita. « Ambulate in dilectione », camminate nell’amore, nell’atmosfera dell’amore. L’appello del Monarca è pieno di maestà, l’appello del padrone è pieno di forza, l’appello di Dio è appello di Padre al figlio, appello pieno di dolcezza, pieno d’amore. Ma nell’amore c’è il segreto dell’entusiasmo, e pei sentieri dell’amore, additati da Paolo a noi Cristiani, come i sentieri veramente nostri, le anime volano portate dal vento dell’amore. Nessun segreto migliore di questo per vincere l’altezza che si erge formidabile dinanzi a noi quando guardiamo come a nostra meta niente meno che a Dio.

 Graduale

Ps IX: 20; IX: 4

Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo.

[Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.]

In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua.

[Voltano le spalle i miei nemici: stramazzano e periscono di fronte a Te.]

Tractus

Ps. CXXII:1-3

Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in cœlis.

[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]

Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.

[Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]

Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri,

[E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi].

Miserére nobis, Dómine, miserére nobis.

[Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam. [Luc XI: 14-28]

“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”

“In quel tempo Gesù stava cacciando un demonio, il quale era mutolo. E cacciato che ebbe il demonio, il mutolo parlò, e le turbe ne restarono meravigliate. Ma certuni di loro dissero: Egli caccia i demoni per virtù di Beelzebub, principe dei demoni. E altri per tentarlo gli chiedevano un segno dal cielo. Ma Egli, avendo scorti i loro pensieri, disse loro: Qualunque regno, in contrari partiti diviso, va in perdizione, e una casa divisa in fazioni va in rovina. Che se anche satana è in discordia seco stesso, come sussisterà il suo regno? conciossiachè voi dite, che in virtù di Beelzebub Io caccio i demoni. Che se Io caccio i demoni per virtù di Beelzebub, per virtù di chi li cacciano i vostri figliuoli? Per questo saranno essi vostri giudici. Che se io col dito di Dio caccio i demoni, certamente è venuto a voi il regno di Dio. Quando il campione armato custodisce la sua casa, è in sicuro tutto quel che egli possiede. Ma se un altro più forte di lui gli va sopra e lo vince, si porta via tutte le sue armi, nelle quali egli poneva sua fidanza, e ne spartisce le spoglie. Chi non è meco, è contro di me; e chi meco non raccoglie, dissipa. Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, cammina per luoghi deserti cercando requie; e non trovandola, dice: Ritornerò alla casa mia, donde sono uscito. E andatovi, la trova spazzata e adorna. Allora va, e seco prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrano ad abitarvi. E la fine di un tal uomo è peggiore del principio”

Omelia

Sopra la confessione che è il rimedio del peccato.

“Erat Jesus ejiciens dæmonium, et illud erat mutum”

[I SERMONI DEL B. GIOVANNI B. M. VIANNEY CURATO D’ARS – Trad. Italiana di G. D’Isengard P. d. M. – vol. IV. Torino, libr. Del Sacro Cuore, 1907]

SULLA QUALITÀ DELLA CONFESSIONE.

Surgam, et ibo ad Patrem meum, et dicam eì: Pater, peccavi in cœlum coram te.

[Mi leverò su, e andrò dal Padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro cielo e contro di te.]

(S. LUCA XV).

Tal dolore e tal pentimento, fratelli miei, deve produrre nei nostri cuori il pensiero de’ nostri peccati; e su questa via si mise il figliuol prodigo, quando, rientrato in sé medesimo, riconobbe la profonda miseria e i beni perduti separandosi così dal buon padre. Sì, esclama, mi leverò su, e andrò dal mio buon padre; mi getterò a’ suoi piedi e bagnerò delle mie lacrime: « O padre mio, coperto di peccati e oppresso dalla vergogna, non oso riguardare il cielo, né Voi come padre, poiché vi ho così orribilmente dispregiato; ma sarò troppo lieto, se vorrete pormi nel numero de’ vostri servi ». Bel modello, fratelli miei, per un peccatore, che, mosso dalla grazia, sente l’abisso della sua miseria, e peso de’ suoi peccati e de’ rimorsi che lo divorano. Beato e mille volte beato il peccatore che s’accosta al suo Dio con sentimento di dolore e di fiducia a quelli di questo gran penitente. Sì, fratelli miei, è sicuro di trovar, come lui, in Dio un padre pieno di bontà e di tenerezza, che volentieri gli rimetterà le sue colpe e gli restituirà tutti i beni che il peccato gli aveva rapito. – Ma di che dunque vi parlerò? Ah! consolatevi: vengo ad annunziarvi la più grande di tutte le felicità. Ah! che dico? Vengo a spiegarvi sotto gli occhi tutte le grandezze della misericordia divina. Ah! povera anima, consolati: mi par d’udirti gridare, come il cieco di Gerico: « Ah! Gesù, figliuolo di David, abbiate pietà di me » (S. Luc. XVIII, 38). Sì, povera anima, tu troverai…. Qual è il mio intendimento? Eccolo, fratelli miei: mostrarvi nel modo più semplice e più familiare, quali disposizioni dovete avere accostandovi al sacramento della penitenza. Son cinque, ed eccole: la nostra confessione, per esser buona e meritarci il perdono de’ nostri peccati, dev’essere: 1° umile; 2° semplice; 3° prudente; 4° intera; 5° sincera. – Se le vostre confessioni sono accompagnate da queste condizioni, siete sicuri del perdono. Vedremo poi in che modo la mancanza di queste condizioni, può rendere sacrileghe le nostre confessioni.

I. — Parlando a Cristiani, fratelli miei, che cercano solo i mezzi di salvare le loro povere anime, non occorre dimostrarvi la divina origine della confessione: basta dirvi che Gesù Cristo medesimo l’ha stabilita, dicendo a’ suoi Apostoli e insieme a’ loro successori: « Ricevete lo Spirito santo: saranno rimessi i peccati a coloro ai quali voi li rimetterete, e saranno ritenuti a coloro a cui li riterrete » (S. Giov. XX, 22, 23); o anche, se volete, quando disse: « Tutto ciò che scioglierete sulla terra, sarà sciolto anche in cielo: e tutto ciò che legherete sulla terra, sarà legato anche in cielo» (Matt. XVIII. 18); parola che ci fa conoscere manifestamente la divina origine e la necessità della confessione. Infatti, come si potevano rimettere o ritenere i peccati, s’essi non si facevan conoscere a coloro che hanno questo sublime e mirabile potere? Neppure è necessario farvi intendere i vantaggi della confessione: basta una parola sola, poiché, commesso anche un solo peccato mortale, senza la confessione, non potremo giunger mai alla visione di Dio, e saremo condannati a provare eternamente tutti i rigori della sua collera ed esser maledetti. Seppur vi dirò che la confessione ci fa riacquistare l’amicizia di Dio e ridona all’anima nostra la vita e ci restituisce tutte le opere buone che il peccato aveva fatto morire. Se non sentite tutta la felicità e tutti i vantaggi della confessione, interrogate i demoni, che bruciano nell’inferno, e v’insegneranno a stimarla e a profittarne. Sì, miei fratelli, se chiediamo a tutti i Cristiani dannati, perché siano tra quelle fiamme, tutti ci diranno che causa della loro sciagura è o l’aver dispregiato il sacramento della penitenza, cioè la confessione, o l’esservisi accostati senza le dovute disposizioni. Se da quel luogo d’orrore salite al cielo, e domandate a quelli antichi peccatori, che passarono nelle sregolatezze venti o trent’anni, che cosa abbia procurato ad essi tanta gioia e tanti diletti, tutti vi diranno che il solo sacramento della penitenza valse loro quei beni infiniti. No, miei fratelli, uiuno dubita di verità così consolante per un peccatore, il quale pel peccato ha perduto il suo Dio, ch’egli cioè ha un mezzo sì facile e sì efficace per riacquistare ciò che il peccato gli aveva rapito ( « Sì, diceva un giorno un medico protestante, voi cattolici siete pur felici! Quando avete qualche cosa che vi pesa … andate a confessarvi, e tosto la pace torna ne’ vostri cuori; io invece, fin dalla mia gioventù, ho il peso d’un peccato da cui non posso liberarmi ». Oh! bella invenzione della misericordia del mio Dio! Sì, miei fratelli, uno de’ grandi vantaggi della confessione è la pace dell’anima. Se domandassi ad un fanciullo: Che cos’è la Confessione? mi risponderebbe semplicemente ch’è l’accusa de’ propri peccati fatta ad un sacerdote approvato per ricevere l’assoluzione, cioè il perdono. — Ma, perché, mi direte, Gesù Cristo volle assoggettarci ad un’accusa così umiliante, che costa tanto al nostro amor proprio? — Amico mio, vi risponderò che appunto per umiliarci Gesù Cristo vi ci ha condannati. È fuor d’ogni dubbio penoso ad un superbo l’andare a dire a un confessore tutto il male che ha fatto, tutto quello ch’ebbe in pensiero di fare, tanti cattivi pensieri, tanti desideri corrotti, tante azioni ingiuste e vergognose che si vorrebbe poter celare a sé medesimo. Ma voi non badate che la superbia è sorgente d’ogni peccato, e che ogni colpa è una superba ribellione della creatura contro il Creatore: è dunque giusto che Dio ci abbia condannato a quest’accusa così umiliante per un superbo. Ma consideriamo quest’umiliazione cogli occhi della fede: è forse cosa penosa cangiare una confusione pubblica ed eterna con una confusione di cinque minuti, quanti ne occorrono per confessare i nostri peccati al ministro di Dio per riacquistare il cielo e l’amicizia del nostro Dio? — Ma perché, chiederete, tanti han sì grande ripugnanza per la confessione, e i più vi si accostano mal disposti? — Ohimè! fratelli miei, perché taluni hanno perduta la fede; altri sono superbi; altri infine non sentono le piaghe della povera anima loro, né le consolazioni che la confessione apparecchia al Cristiano che vi si accosta degnamente. Chi è, miei fratelli, colui che ci comanda di confessare tutti i nostri peccati sotto pena di dannazione eterna? Ohimè! lo sapete pur quanto lo so io: è Gesù Cristo medesimo; e tutti vi sono obbligati, dal santo Padre, all’infimo artigiano. Mio Dio, quale accecamento spregiare e non far caso d’un mezzo sì facile e sì efficace per assicurarsi una infinita felicità, liberandosi dalla più grande delle sciagure ch’è la collera eterna! Ma non è questo, miei fratelli, ciò che vi par più necessario a sapersi, poiché sapete che la confessione è il solo mezzo che ci resta per uscir dal peccato: o confesseremo le nostre colpe, o ci toccherà ardere nell’inferno: si sa che, per gravi, enormi e numerosi che siano i nostri peccati, ne otterremo senza fallo il perdono, se li confessiamo. Ecco che cosa dovete assolutamente sapere: ascoltatemi attentamente.

1° Dico in primo luogo che la confessione dev’essere umile, cioè che dobbiamo nel tribunale della penitenza considerarci come rei dinanzi al giudice, ch’è Dio medesimo: dobbiam da noi accusare i nostri peccati, e non aspettare che il sacerdote ce ne interroghi, conforme all’esempio di David, che diceva: « Sì, mio Dio, da me stesso accuserò al Signore i miei peccati » (Sal. XXXI, 5), e non far come la maggior parte de’ peccatori, che raccontano i loro peccati come una storia indifferente, non mostrano dolore e pentimento d’avere offeso Dio, e par si confessino soltanto per commetter sacrilegi. O mio Dio, si può pensarvi bene e non sentirsi morire d’orrore? Se il confessore si vede costretto a farvi qualche ammonizione, che ferisca un po’ il vostro amor proprio, se v’impone qualche penitenza che vi ripugni, o anche se vi differisce l’assoluzione, guardatevi bene dal mormorare; sottomettetevi umilmente; guardatevi pure dal brontolare, e molto meno disputare con lui, rispondendogli arrogantemente, (come fanno certi peccatori indurati e venduti all’empietà, i quali fors’anche usciron di chiesa incolleriti senza neppur mettersi in ginocchio). Non dimenticate mai che il tribunale della penitenza, ove siede il confessore, è veramente il tribunale di Gesù Cristo; ch’Egli ode la vostra accusa, v’interroga, vi parla e pronunzia la sentenza d’assoluzione. Dico che bisogna accusarci umilmente, cioè non rigettar mai le proprie colpe sugli altri, come fan molti quando vanno a confessarsi, simili ad Adamo, che si scusò gettando la colpa su Eva, ed Eva gettandola sul serpente, invece di confessarsi umilmente colpevoli; dicendo che, se han peccato, non è colpa loro; bisogna fare tutto il contrario. Un uomo facile ad andare in collera, si scuserà dandone carico a sua moglie o ai suoi figliuoli; un ubbriacone darà la colpa alla compagnia che l’ha costretto a bere; un vendicativo attribuirà la causa della sua colpa a un’ingiuria che gli fu fatta; un maledico si scuserà asserendo che dice la pura verità; un uomo che lavora la Domenica getterà la colpa sugli affari urgenti che vanno a male. Una madre, che fa omettere le preghiere a’ suoi figliuoli, si scuserà colla mancanza di tempo. Dite, fratelli miei, vi par questa una confessione umile? Vedete chiaro che non è. « Ponete, di grazia, o mio Dio, diceva il santo re David, una custodia alla mia bocca, perché la malizia del mio cuore non trovi scusa ai miei peccati » (Salm. CXL: 3, 4). Dico dunque che dobbiamo farci conoscere quali siamo, perché la nostra confessione sia buona e capace di farci riacquistare l’amicizia di Dio.

2° Dico che la confessione dev’esser semplice, cioè che dobbiamo evitare tutte le accuse, inutili, gli scrupoli che fan ripetere venti volte la stessa cosa, fan perder tempo al confessore, stancano quei che aspettano per confessarsi e spengono la divozione. Bisogna con una manifestazione sincera farsi conoscere quali si è; bisogna accusar ciò ch’è dubbio come dubbio, ciò ch’è certo come certo; p. es. se diceste di non esservi fermati su cattivi pensieri, mentre dubitate d’esservene dilettati, sarebbe mancar di sincerità, quasi aveste avuto soltanto il pensiero; parimenti dire che la cosa da voi rubata vale solo tanto, credendo che forse valga di più; ovvero dire: « Padre mio, m’accuso d’avere in una delle mie confessioni dimenticato un peccato », mentre l’avevate taciuto per malaugurata vergogna o per negligenza. Queste maniere d’accusa vi farebbero commettere un orribile sacrilegio. Dico pure ch’è mancanza di sincerità l’aspettare che il confessore v’interroghi su certi peccati; se avete avuto intenzione di tacerli, non basterà confessarli, perché il confessore ve ne ha richiesti, ma dovrete aggiungere: « Padre, se non m’aveste interrogato su questo peccato, non ve l’avrei detto ». Se non usaste tale sincerità, la vostra confessione sarebbe nulla e sacrilega. Sfuggite, fratelli miei, sfuggite tutte queste frodi: abbiate il cuor sulle labbra. Potete, sì, ingannare il vostro confessore, ma ricordate bene che non riuscirete ad ingannare Iddio, che vede e conosce meglio di voi i vostri peccati. Se mai il demonio, questo satana maledetto, vi tentasse per farvi nascondere o travisare qualche peccato, riflettete tosto: ma con questo mi renderò più reo che non sono; commetterò un peccato assai più orribile che quello che intendo nascondere, poiché sarà un sacrilegio: posso ben nasconderlo al sacerdote, ma Dio lo conosce meglio di me; prima o poi dovrò pur confessarlo, ovvero dovrò rassegnarmi ad andare nell’inferno ad ardere eternamente. Manifestandolo dovrò (è vero) incontrare una piccola umiliazione; ma che cos’è in confronto di quella confusione pubblica ed eterna? Un infermo, dovete dire, che desidera la guarigione, non teme di scoprire le malattie, anche più vergognose e segrete, per farsi applicare’ il rimedio; ed io temerò di scoprire le piaghe della povera anima mia al mio medico spirituale per poterne guarire? Potrò rimanere in istato di dannazione per tutto il resto della mia vita? Se non avete coraggio di manifestare qualche peccato, dite al sacerdote: « Padre mio, ho un peccato che non oso dirvi: di grazia, aiutatemi ». Sebbene questa disposizione sia imperfetta, tuttavia così riuscirete ad accusarlo, il che è assolutamente necessario.

3° In terzo luogo dico che la confessione dev’essere prudente; il che vuol dire che bisogna accusare i propri peccati con parole oneste; inoltre che non si devono, senza necessità, far conoscere i peccati altrui. Dico “senza necessità”, perché talora è necessario: ad es., avete avuto la disgrazia di commettere un peccato contro la santa virtù della purità con uno od una de’ vostri parenti: bisogna pur dire questa circostanza senza di che fareste un sacrilegio. Siete in una casa, ov’è una persona, che vi spinge al male: avete pure obbligo di dirlo, perché siete in occasione prossima di peccato. Ma dicendolo dovete attendere ad accusare i peccati vostri non gli altrui.

4° Dico in quarto luogo che la confessione deve essere integra, cioè che si debbono manifestare tutti i propri peccati mortali, la loro specie, il numero e le circostanze necessarie. Dico primieramente la specie: non basta dire in generale che si è peccato assai; ma bisogna dir pure, qual sorta di peccati son quelli di cui ci si accusa, se furto, bugia, impurità o simili. E non basta neppure dir la specie, deve dirsi il numero, p. es. se diceste: Padre mio, m’accuso d’aver mancato alla Messa, d’aver rubato, d’aver mormorato, d’aver fatto cose disoneste, non andrebbe bene così: dovete dir pure quante volte avete commessi questi peccati: bisogna anche entrare nei particolari e dir certe circostanze. Forse non capite che cosa sia circostanza: son quelle particolarità che accompagnano il peccato e lo rendono più o meno considerevole o più o meno scusabile. Queste circostanze si traggono: dalla persona che pecca con un’altra, se è parente e in qual grado, se padre o madre, fratello o sorella, se una figlioccia col suo padrino o un figlioccio colla madrina, un cognato colla cognata; 2° dalla qualità o quantità dell’oggetto ch’è materia del peccato; 3° dal motivo che induce al peccato; 4° dal tempo, in cui avete peccato; se era Domenica, e in tempo delle funzioni; 5° dal luogo: se fu in un luogo consacrato alla preghiera, cioè in una chiesa; 6°dal modo in cui si commise il peccato; e finalmente dalle conseguenze del peccato. Vi son pure circostanze che mutano la specie del peccato, cioè a dire costituiscono peccato d’altra natura. P. es. commettere impurità con donna maritata è adulterio; con una parente è incesto; fermarsi sopra un cattivo pensiero, consentire a un cattivo desiderio, dare un cattivo sguardo è peccato contro la castità; ma se ciò accade in chiesa è profanazione del luogo santo, è una specie di sacrilegio. Queste sono circostanze che mutano la specie del peccato. Ve ne sono altre, che, senza cangiarla, l’aggravano assai: p. es. chi commette peccato alla presenza di parecchie persone, o dinanzi a’ propri figliuoli; chi ha bestemmiato il nome di Dio, tenuto discorsi disonesti, fatte maldicenze alla presenza di molte persone, ha fatto maggior peccato che chi commise questi peccati dinanzi a pochi; chi per ore intiere ha fatto discorsi disonesti ha commesso peccato più grave che chi ha parlato in tal modo per breve tempo. Mormorare per odio è peccato assai più grave, che se si mormorasse per leggerezza. Ubbriacarsi, andare al ballo, al festino, alla bettola in Domenica è maggior peccato che andarvi in giorno feriale, perché questo giorno è in modo particolare consacrato a Dio. Ecco, fratelli miei, le circostanze che debbono dichiararsi, senza di che temete delle vostre confessioni. Ohimè! dove sono i Cristiani che badano a tutte queste cose! Ma, diciam del pari, dove sono quelli che fan buone confessioni? Si vede dal loro modo di vivere. Bisogna pur dire se si è abituati nel peccato, e quanto tempo è durato quell’abito, se i peccati, in cui s’è caduti, si commisero per malizia e con riflessione, e quali conseguenze provennero dal peccato commesso; perché soltanto così possiam farci conoscere. Vedete come si comporta un malato col suo medico? Gli scopre non solo il suo male, ma anche il principio e il progresso della malattia, e usa le parole più chiare. Se il medico non capisce, ripete, non cela, non travisa nulla di ciò che crede necessario per far conoscere il suo male e procurare la propria guarigione. Ecco, fratelli miei, come dobbiamo comportarci col nostro medico spirituale, per metterlo in condizione di conoscer bene le piaghe dell’anima nostra, cioè conoscerci quali ci conosciamo noi dinanzi a Dio. – Dico inoltre che si deve confessare anche il numero. Rammentate che, se non dite il numero dei peccati mortali, le vostre confessioni non valgon nulla; dovete dir quante volte siete caduti nell’istesso peccato, perché ogni volta è una nuova colpa. Se avete commesso un peccato tre volte, e diceste due soltanto, la volta che non accusate farebbe sì che la vostra confessione fosse un sacrilegio, se, come si suppone, si tratta di peccato mortale. Ohimè! Miei fratelli, quanti di quei che sono caduti in colpe di questa fatta, parte bruciano nell’inferno, parte non ripareranno forse mai a quella catena di confessioni e comunioni sacrileghe! Si contenteranno di dire: « Padre mio, m’accuso di aver mormorato, d’aver bestemmiato ». — « Ma quante volte? » chiederà il sacerdote. — « Non molto spesso, ma qualche volta sì ». Ed è questa una confessione integra, fratelli miei? Ohimè! quanti dannati, quante anime riprovate! Sapete, miei fratelli, quand’è lecito dire: « Tante volte all’incirca? » Quando si fa una confessione lunga, e torna impossibile dire nettamente quante volte s’è fatto un peccato: allora ecco che cosa deve farsi: si deve dire quanto tempo durò la cattiva abitudine, e quante volte approssimativamente si cadeva ogni settimana, ogni mese, ogni giorno; dir se l’abito fu per qualche tempo interrotto; e così si potrà avvicinarsi, quant’è possibile, al numero esatto. Se non ostante tutta la diligenza posta nell’esame, avete dimenticato qualche peccato, la confessione sarà buona; basterà che nella prima confessione diciate: « Padre, m’accuso d’avere involontariamente dimenticato il tal peccato nell’ultima confessione »; così sarà unito a quelli che avete accusato. Perciò appunto nell’accusarci si suol dire: « Padre, m’accuso di questi peccati, e di quei che non ricordo ». Quanto a’ peccati veniali, nei quali si cade così spesso, non si ha obbligo di confessarsene perché questi peccati non ci fan perdere la grazia e l’amicizia di Dio, e si può ottenerne il perdono con altri mezzi, cioè colla contrizione del cuore, col digiuno, coll’elemosina e col santo sacrifizio. Ma il santo Concilio di Trento c’insegna ch’è utilissimo il confessarli. (Sess. XIV, c. 5). Eccone le ragioni: 1° Spesso un peccato, da noi creduto veniale, è mortale agli occhi di Dio; 2° per mezzo del sacramento della penitenza se ne ottiene molto più facilmente il perdono; 3° la confessione dei peccati vernali ci rende più vigilanti su noi medesimi; 4° gli ammonimenti del confessore possono aiutarci molto a correggerci; 5° l’assoluzione che riceviamo ci dà forza per poterli evitare. Ma se ce ne confessiamo, dobbiamo averne pentimento e desiderio d’emendarcene; altrimenti ci esporremmo a commetter sacrilegi. Perciò, conforme al consiglio di S. Francesco di Sales, quando avete da rimproverarvi soltanto peccati veniali, conviene che al fine della vostra confessione vi accusiate d’un peccato grave della vita passata, dicendo: « Padre, m’accuso d’aver in altro tempo commesso il tal peccato », dicendolo come se non l’avessimo confessato mai, colle circostanze e col numero delle volte, che vi si è caduti. Ecco presso a poco, fratelli miei, quali debbono essere le doti d’una buona confessione. Tocca adesso a voi esaminare se le vostre confessioni passate furono accompagnate da tutte le qualità di cui abbiam parlato. Se vi riconoscete colpevoli, non perdete tempo: forse nel tempo in cui vi ripromettete di ritornare sui vostri passi, non sarete più al mondo, brucerete nell’inferno col rammarico di non aver fatto ciò che potevate far sì bene, mentre eravate ancor sulla terra e avevate all’uopo tutti i mezzi necessari.

II. — Vediamo adesso in poche parole in quanti modi si pecca contro queste disposizioni. Sapete, fratelli miei, (e vi fu insegnato fin da fanciulli) che l’integrità e la sincerità sono qualità assolutamente necessarie per fare una buona confessione, cioè per aver la buona sorte di ricevere il perdono de’ vostri peccati. Il mezzo più sicuro per fare una confessione buona è manifestare i vostri peccati con semplicità dopo d’esservi esaminati bene; poiché un peccato omesso per difetto gravemente colpevole d’esame, quantunque se ne aveste avuto coscienza, l’avreste detto, basterà a render sacrilega la vostra confessione. Eppure, fratelli miei, quanti Cristiani vanno a confessarsi il più delle volte senza neppur pensare alle loro colpe, o almeno vi pensano così leggermente che quando si confessano, se il sacerdote non li esamina, non han nulla da dire. Soprattutto tra quelli che si confessano solo raramente, s’incontrano spesso di tali che non temono di mentire a Dio, celando volontariamente peccati, di cui la coscienza li rimprovera, e dopo una simile confessione osano presentarsi alla sacra Mensa per mangiare, come dice San Paolo, la loro condanna (I Cor. XI, 29). Ma ecco, fratelli miei, chi più facilmente è soggetto a far cattive confessioni: coloro che per qualche tempo hanno adempita fedelmente ai doveri religiosi. Il demonio, che non risparmia nulla per trarli a perdizione, li tenta terribilmente. Se vengono a cadere, sgomentati da una parte per vergogna del loro peccato, dall’altra per timore di farsi conoscere così colpevoli, fanno una fine disgraziata. Usano confessarsi per quella tal festa, e temono d’esser notati se non vi vanno, ma non vorrebbero confessarsi colpevoli. Che cosa fanno? Tacciono il loro peccato e cominciano una catena di sacrilegi, che forse durerà sino alla morte, senza aver forza di romperla un’altra volta. Sarà un tale non disposto a restituire una cosa rubata, a riparare una ingiustizia fatta, a non più ricevere indebitamente interesse dal suo denaro; o fors’anche una donna o una fanciulla che ha una mala pratica, e non vuol lasciarla. A qual partito s’appigliano? Eccolo: non dir nulla, e mettersi volontariamente per la via dell’inferno. Amici miei, lasciate che vel dica: siete in un orribile accecamento: chi credete ingannare e a chi volete celare il vostro peccato? Ad un uomo, non già: ma a Dio, che lo conosce assai meglio di voi, e che vi aspetta nell’altra vita per castigarvene, non per un momento solo, ma per tutta l’eternità. Quanti son pur di questo numero! E persone che fan professione di pietà, eppur si lasciano ingannare da queste meschine considerazioni: « Che si penserà di me, se non mi si vedrà accostarmi, secondo il solito, alla Comunione? » Questa considerazione li scompiglia e li fa cadere nel sacrilegio. O mio Dio, e si può poi vivere tranquilli? Ma grazie a Dio, queste anime nere e rotte all’iniquità non sono il maggior numero. Ecco invece la fune per cui il demonio ne trascina di più all’inferno: parlo di quelli che, manifestando i loro peccati, li nascondono pel modo in cui se n’accusano: dopo che si son confessati il sacerdote non li conosce gran che meglio di prima. Chi può enumerare tutti gli artifizi, le astuzie che il demonio loro ispira per trarli a perdizione e ad ingannare il Confessore? Lo vedrete tosto.

Dico: 1° artifizi nel modo d’accusar le loro colpe, al qual fine si serviranno de’ termini più adatti a scemarne la vergogna. Qual preparazione fanno taluni? Non domandano mica a Dio la grazia di conoscer bene i loro peccati; ma si affannano per trovare come potran dirli in maniera di sentirne meno vergogna. Senza quasi accorgersene, li attenuano notevolmente: gl’impeti di collera saranno atti d’impazienza; i discorsi più indecenti, parole un po’ libere; i più vergognosi desideri e le azioni più disoneste, familiarità poco convenienti; le ingiustizie più decise saranno piccoli torti; gli eccessi d’avarizia, attacco un po’ soverchio ai beni della terra. Sicché quando giungerà la morte e Dio farà ad essi vedere i loro peccati quali sono, riconosceranno d’averli confessati solo a mezzo in quasi tutte le loro confessioni. E che seguirà da questo procedere, se non una catena di sacrilegi? O mio Dio, si può pensarvi e non esser più sincero nelle confessioni per avere la bella sorte d’ottenere il perdono?

2° Dico che si mascherano i peccati nelle circostanze, che si ha gran cura di non manifestare, e che spesso inchiudono maggior colpa che le azioni in sé medesime; p. es. una persona, la cui vita è mormorare, censurare continuamente e fors’anche calunniare, s’accuserà d’avere parlato svantaggiosamente del prossimo, ma non dirà se l’ha fatto per superbia, per invidia, per odio, per risentimento; non dirà qual danno ha recato alla sua riputazione. Anzi, qualora le si domandi se quelle parole abbiano recato danno al prossimo, risponde tranquillamente di no, senza avere esaminato il sì o il no. Dite, sì, che avete mormorato, ma non dite se fu contro il vostro pastore o altra persona consacrata a Dio, la cui riputazione è assolutamente necessaria pel bene della religione; non dite che la cosa da voi detta era falsa, cioè era una calunnia; v’accusate, sì, d’aver detto parole contro la religione e contro la modestia, ma non dite che vostra intenzione era di far vacillare la fede di quella giovinetta per indurla a consentire a’ vostri cattivi desideri, dicendole che in quelle cose non v’era alcun male e che non era necessario confessarsene. Una giovinetta dirà d’essersi abbigliata con desiderio di piacere, ma non dirà che sua intenzione era far nascere cattivi pensieri. O mio Dio, non si dovrebbe relegarla nel fondo delle foreste, ove non giunsero mai i raggi del sole? Un padre s’accuserà d’essere stato alla bettola, d’essersi ubbriacato, ma non dirà d’aver dato scandalo a tutta la sua famiglia. Una madre s’accuserà d’aver detto parole contro il prossimo e d’esser andata in collera, ma non dirà che ne furono testimoni i suoi figliuoli e le sue vicine. Un altro s’accuserà d’aver usato o permesso familiarità poco decenti; ma non dirà che aveva intenzione di peccar con quella persona, se avesse potuto indurla al male, e non avesse avuto timor della gente. Un tale dirà d’aver lasciato la Messa in giorno di Domenica, ma non dirà d’averla fatta perdere anche ad altri, o che molti l’han veduto e ne furono scandalizzati: fors’anche i suoi figliuoli o i suoi domestici. V’accusate, sì, d’essere stato alla bettola; ma non dite che fu di Domenica e in tempo della Messa o de’ Vespri; e che avevate intenzione di condurvi altri con voi, se aveste potuto. Seppur dite che per andare all’osteria siete usciti di chiesa, e nel tempo dell’istruzione, facendovi beffe di ciò che diceva il vostro pastore. Vi accusate pure d’aver mangiato carne nei giorni proibiti, ma non dite ch’era a scherno della religione e per disprezzare le sante sue leggi. Dite, sì, d’aver pronunciato parole disoneste; ma non dite d’averlo fatto perché avevate dinanzi una persona pia, per potere screditar la religione e spegnerla nel suo cuore. Dite ancora che lavorate la Domenica; ma non dite ch’è per avarizia e spregiando le proibizioni di Dio e della Chiesa. Vi accusate certo d’aver avuto cattivi pensieri; ma non dite d’avervi dato occasione andando volontariamente in compagnia di persone che sapevate benissimo non metterebbero innanzi se non cattivi discorsi. Dite, sì, di non avere ascoltato nel debito modo la Messa; ma dimenticato di dire che vi avevate dato occasione venendo fino alla porta della chiesa senza prepararvici: fors’anche siete entrato senza fare un atto di contrizione, e di questo non dite verbo; e tuttavia buona parte di queste circostanze taciute possono render sacrileghe le vostre confessioni. Oh! quanti Cristiani dannati per non essersi saputi confessare! Voi vi siete forse accusato di non essere istruito abbastanza; ma non avete detto che ignoravate i misteri principali, ch’è pur necessario conoscere per salvarsi. Non avete detto che non osate chiedere al vostro confessore che v’interroghi per sapere, se siete istruiti quant’è necessario per non dannarvi e per ricevere degnamente i sacramenti; forse non vi avete pensato mai! O mio Dio, quanti Cristiani perduti! – Parlo in terzo luogo dell’alterazione nel tono della voce, che si usa per confessare certi peccati più umilianti, avendo cura di collocarli in tal ordine che il confessore possa udirli senza badarvi. Si confesseranno prima molti peccati piccoli, come: « Padre, m’accuso di non aver preso l’acqua benedetta mattina e sera, d’aver avuto distrazioni nelle preghiere », e altre cose somiglianti; e dopo d’aver così addormentata, quant’è possibile l’attenzione del confessore, a voce un po’ più bassa e con grandissima rapidità si lasciano scivolare abominazioni ed orrori. Insensati, si potrebbe dir loro, qual demonio v’ha sedotto in questo modo e vi ha indotto a tradir così sciaguratamente la verità? Ditemi, fratelli miei, qual motivo può spingervi a mentir così in confessione? Forse il timore che il confessore abbia di voi cattiva opinione? V’ingannate. Sperate forse che peccati confessati così vi siano perdonati? Anche in questo v’ingannate grossolanamente. Ma, ditemi, perché venite a dire al confessore parte de’ vostri peccati con isperanza d’ingannarlo? Sapete pure che non riuscirete mai ad ingannare Iddio, da cui dovete ricevere il perdono. Ditemi: l’assoluzione, che avete carpita, poteste sperare che sia confermata in cielo? Ohimè! fratelli miei, l’accecamento di certi peccatori è tale che osano persuadersi d’avere ottenuto il perdono purché abbiano ottenuto un’assoluzione qualsiasi, abbiano detto o no tutti i loro peccati, abbiano o no ingannato il confessore. Ma ditemi, peccatori accecati, peccatori induriti e venduti all’iniquità, ditemi, foste contenti di un’assoluzione di tal fatta quando usciste dal tribunale della penitenza? Gustaste quella pace e quella dolce consolazione, ch’è ricompensa d’una confessione ben fatta? Non foste invece obbligati, per acquietare i rimorsi della vostra coscienza, a dire in cuor vostro che riparereste un giorno la confessione fatta pur allora? Ma, amico mio, tutto bene considerato, avreste fatto meglio a non confessarvi. Sapete benissimo che tutti i peccati, chel avete confessato così, non vi furono perdonati, per non dir nulla di quelli che avete cercato di nascondere. Non eravate forse colpevoli abbastanza? E a tutti i vostri enormi peccati avete voluto aggiungere un orribile sacrilegio! — Ma, direte, volevo comunicarmi, perché son solito comunicarmi in quel giorno. — V’ingannate: dovete dire che volevate fare un sacrilegio, immergervi sempre più a fondo nell’inferno; forse temevate d’andare in paradiso. Ah! non vi affannate tanto! Avete peccati abbastanza per non andare in cielo ed esser precipitati tra le fiamme. – Ohimè! non dico nulla di tutte le confessioni sacrileghe per difetto di dolore, che, da sole, conducono alla dannazione più gente che tutti gli altri peccati. Spero di parlarvene un giorno o l’altro. Non è vero, amico mio, che sperate di riparare al male che avete fatto? — Sì, mi direte: — Ohimè! tremate, amico mio, temendo che ve ne sia negato il tempo, e non abbiate altra preparazione alla morte che i vostri sacrilegi. Volete sapere qual è la ricompensa di tali profanazioni? Eccola: induramento in vita e disperazione all’ora della morte. Avete ingannato il vostro confessore, ma non Iddio; e Dio vi giudicherà. Che dovete fare, fratelli miei, per isfuggire un male sì spaventoso? Affrettatevi a riparare tutti i difetti delle vostre confessioni passate con un’accusa sincera ed intera. Intendete bene che Dio non vi perdonerà né i peccati nascosti né le vostre confessioni sacrileghe. I peccati taciuti saranno manifestati pubblicamente dinanzi a tutto l’universo; mentre, se li aveste confessati bene, non vi sarebbero rimproverati mai più. Fremete, fratelli miei, pensando all’orrenda disperazione, che vi aspetta all’ora della morte; quando tutti i vostri sacrilegi vi piomberanno sopra per togliervi ogni speranza di perdono. Ricordate l’esempio d’Anania e di sua moglie, che caddero morti ai piedi di S. Pietro per avergli mentito. Ricordate pure la terribile punizione di quella giovinetta riferita da S. Antonino Fratelli miei, tutte queste considerazioni v’inducano a far tutte le vostre confessioni secondo le regole che v’ho tracciato, e sarete sicuri di trovarvi il perdono de’ vostri peccati, la pace dell’anima e al fine de’ vostri giorni la vita eterna. Il che vi desidero.

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XVIII: 9, 10, 11, 12

Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.

[I comandamenti del Signore sono retti, rallégrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adémpie.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.

[Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santífichi i corpi e le ànime dei tuoi servi, onde pòssano degnamente celebrare il sacrifício.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXXIII: 4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te.

[Il pàssero si è trovata una casa, e la tòrtora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli esérciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che àbitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei sécoli dei sécoli.]

Postcommunio

Orémus.

A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes.

[Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA QUALITÀ DELLA CONFESSIONE

[I SERMONI DEL B. GIOVANNI B. M. VIANNEY CURATO D’ARS – Trad. Italiana di G. D’Isengard P. d. M. – vol. IV. Torino, libr. Del Sacro Cuore, 1907]

SULLA QUALITÀ DELLA CONFESSIONE.

Surgam, et ibo ad Patrem meum, et dicam eì: Pater, peccavi in cœlum coram te.

Mi leverò su, e andrò dal Padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro cielo e contro di te.

(S. LUCA XV).

Tal dolore e tal pentimento, fratelli miei, deve produrre nei nostri cuori il pensiero de’ nostri peccati; e su questa via si mise il figliuol prodigo, quando, rientrato in sé medesimo, riconobbe la profonda miseria e i beni perduti separandosi così buon padre. Sì, esclama, mi leverò su, e andrò dal mio buon padre; mi getterò a’ suoi piedi e bagnerò delle mie lacrime: « O padre mio, coperto di peccati e oppresso dalla vergogna, non oso riguardare il cielo, né Voi come padre, poiché vi ho così orribilmente dispregiato; ma sarò troppo lieto, se vorrete pormi nel numero de’ vostri servi ». Bel modello, fratelli miei, per un peccatore, che, mosso dalla grazia, sente l’abisso della sua miseria, e peso de’ suoi peccati e de’ rimorsi che lo divorano. Beato e mille volte beato il peccatore che s’accosta al suo Dio con sentimento di dolore e di fiducia a quelli di questo gran penitente. Sì, fratelli miei, è sicuro di trovar, come lui, tu Dio un padre pieno di bontà e di tenerezza, che volentieri gli rimetterà le sue colpe e gli restituirà tutti i beni che il peccato gli aveva rapito. – Ma di che dunque vi parlerò? Ah! consolatevi: vengo ad annunziarvi la più grande di tutte le felicità. Ah! che dico? Vengo a spiegarvi sotto gli occhi tutte le grandezze della misericordia divina. Ah! povera anima, consolati: mi par d’udirti gridare, come il cieco di Gerico: « Ah! Gesù, figliuolo di David, abbiate pietà di me » (S. Luc. XVIII, 38). Sì, povera anima, tu troverai…. Qual è il mio intendimento? Eccolo, fratelli miei: mostrarvi nel modo più semplice e più familiare, quali disposizioni dovete avere accostandovi al sacramento della penitenza. Son cinque, ed eccole: la nostra confessione, per esser buona e meritarci il perdono de’ nostri peccati, dev’essere: 1° umile; 2° semplice; 3° prudente; 4° intera; 5° sincera. – Se le vostre confessioni sono accompagnate da queste condizioni, siete sicuri del perdono. Vedremo poi in che modo la mancanza di queste condizioni, può rendere sacrileghe le nostre confessioni.

I. — Parlando a Cristiani, fratelli miei, che cercano solo i mezzi di salvare le loro povere anime, non occorre dimostrarvi la divina origine della confessione: basta dirvi che Gesù Cristo medesimo l’ha stabilita, dicendo a’ suoi Apostoli e insieme a’ loro successori: « Ricevete lo Spirito santo: saranno rimessi i peccati a coloro ai quali voi li rimetterete, e saranno ritenuti a coloro a cui li riterrete » (S. Giov. XX, 22, 23); o anche, se volete, quando disse: « Tutto ciò che scioglierete sulla terra, sarà sciolto anche in cielo: e tutto ciò che legherete sulla terra, sarà legato anche in cielo» (Matt. XVIII. 18); parola che ci fa conoscere manifestamente la divina origine e la necessità della confessione. Infatti come si potevano rimettere o ritenere i peccati, s’essi non si facevan conoscere a coloro che hanno questo sublime e mirabile potere? Neppure è necessario farvi intendere i vantaggi della confessione: basta una parola sola, poiché, commesso anche un solo peccato mortale, senza la confessione, non potremo giunger mai alla visione di Dio, e saremo condannati a provare eternamente tutti i rigori della sua collera ed esser maledetti. Seppur vi dirò che la confessione ci fa riacquistare l’amicizia di Dio e ridona all’anima nostra la vita e ci restituisce tutte le opere buone che il peccato aveva fatto morire. Se non sentite tutta la felicità e tutti i vantaggi della confessione, interrogate i demoni, che bruciano nell’inferno, e v’insegneranno a stimarla e a profittarne. Sì, miei fratelli, se chiediamo a tutti i Cristiani dannati, perché siano tra quelle fiamme, tutti ci diranno che causa della loro sciagura è o l’aver dispregiato il sacramento della penitenza, cioè la confessione, o l’esservisi accostati senza le dovute disposizioni. Se da quel luogo d’orrore salite al cielo, e domandate a quelli antichi peccatori, che passarono nelle sregolatezze venti o trent’anni, che cosa abbia procurato ad essi tanta gioia e tanti diletti, tutti vi diranno che il solo sacramento della penitenza valse loro quei beni infiniti. No, miei fratelli, uiuno dubita di verità così consolante per un peccatore, il quale pel peccato ha perduto il suo Dio, ch’egli cioè ha un mezzo sì facile e sì efficace per riacquistare ciò che il peccato gli av0eva rapito ( « Sì, diceva un giorno un medico protestante, voi cattolici siete pur felici! Quando avete qualche cosa che vi pesa … andate a confessarvi, e tosto la pace torna ne’ vostri cuori; io invece, fin dalla mia gioventù, ho il peso d’un peccato da cui non posso liberarmi ». Oh! bella invenzione della misericordia del mio Dio! Sì, miei fratelli, uno de’ grandi vantaggi della confessione è la pace dell’anima. – Nota del Beato). Se domandassi ad un fanciullo: Che cos’è la Confessione? mi risponderebbe semplicemente ch’è l’accusa de’ propri peccati fatta ad un sacerdote approvato per ricevere l’assoluzione, cioè il perdono. — Ma, perché, mi direte, Gesù Cristo volle assoggettarci ad un’accusa così umiliante, che costa tanto al nostro amor proprio? — Amico mio, vi risponderò che appunto per umiliarci Gesù Cristo vi ci ha condannati. È fuor d’ogni dubbio penoso ad un superbo l’andare a dire a un confessore tutto il male che ha fatto, tutto quello ch’ebbe in pensiero di fare, tanti cattivi pensieri, tanti desideri corrotti, tante azioni ingiuste e vergognose che si vorrebbe poter celare a sé medesimo. Ma voi non badate che la superbia è sorgente d’ogni peccato, e che ogni colpa è una superba ribellione della creatura contro il Creatore: è dunque giusto che Dio ci abbia condannato a quest’accusa così umiliante per un superbo. Ma consideriamo quest’umiliazione cogli occhi della fede: è forse cosa penosa cangiare una confusione pubblica ed eterna con una confusione di cinque minuti, quanti ne occorrono per confessare i nostri peccati al ministro di Dio per riacquistare il cielo e l’amicizia del nostro Dio? — Ma perché, chiederete, tanti han sì grande ripugnanza per la confessione, e i più vi si accostano mal disposti? — Ohimè! fratelli miei, perché taluni hanno perduta la fede; altri sono superbi; altri infine non sentono le piaghe della povera anima loro, né le consolazioni che la confessione apparecchia al Cristiano che vi si accosta degnamente. Chi è, miei fratelli, colui che ci comanda di confessare tutti i nostri peccati sotto pena di dannazione eterna? Ohimè! lo sapete pur quanto lo so io: è Gesù Cristo medesimo; e tutti vi sono obbligati, dal santo Padre, all’infimo artigiano. Mio Dio, quale accecamento spregiare e non far caso d’un mezzo sì facile e sì efficace per assicurarsi una infinita felicità, liberandosi dalla più grande delle sciagure ch’è la collera eterna! Ma non è questo, miei fratelli, ciò che vi par più necessario a sapersi, poiché sapete che la confessione è il solo mezzo che ci resta per uscir dal peccato: o confesseremo le nostre colpe, o ci toccherà ardere nell’inferno: si sa che, per gravi, enormi e numerosi che siano i nostri peccati, ne otterremo senza fallo il perdono, se li confessiamo. Ecco che cosa dovete assolutamente sapere: ascoltatemi attentamente.

1° Dico in primo luogo che la confessione dev’essere umile, cioè che dobbiamo nel tribunale della penitenza considerarci come rei dinanzi al giudice, ch’è Dio medesimo: dobbiam da noi accusare i nostri peccati, e non aspettare che il sacerdote ce ne interroghi, conforme all’esempio di David, che diceva: « Sì, mio Dio, da me stesso accuserò al Signore i miei peccati » (Sal. XXXI, 5), e non far come la maggior parte de’ peccatori, che raccontano i loro peccati come una storia indifferente, non mostrano dolore e pentimento d’avere offeso Dio, e par si confessino soltanto per commetter sacrilegi. O mio Dio, si può pensarvi bene e non sentirsi morire d’orrore? Se il confessore si vede costretto a farvi qualche ammonizione, che ferisca un po’ il vostro amor proprio, se v’impone qualche penitenza che vi ripugni, o anche se vi differisce l’assoluzione, guardatevi bene dal mormorare; sottomettetevi umilmente; guardatevi pure dal brontolare, e molto meno disputare con lui, rispondendogli arrogantemente, (come fanno certi peccatori indurati e venduti all’empietà, i quali fors’anche usciron di chiesa incolleriti senza neppur mettersi in ginocchio. Non dimenticate mai che il tribunale della penitenza, ove siede il confessore, è veramente il tribunale di Gesù Cristo; ch’Egli ode la vostra accusa, v’interroga, vi parla e pronunzia la sentenza d’assoluzione. Dico che bisogna accusarci umilmente, cioè non rigettar mai le proprie colpe sugli altri, come fan molti quando vanno a confessarsi, simili ad Adamo, che si scusò gettando la colpa su Eva, ed Eva gettandola sul serpente, invece di confessarsi umilmente colpevoli; dicendo che, se han peccato, non è colpa loro; bisogna fare tutto il contrario. Un uomo facile ad andare in collera, si scuserà dandone carico a sua moglie o ai suoi figliuoli; un ubbriacone darà la colpa alla compagnia che l’ha costretto a bere; un vendicativo attribuirà la causa della sua colpa a un’ingiuria che gli fu fatta; un maledico si scuserà asserendo che dice la pura verità; un uomo che lavora la Domenica getterà la colpa sugli affari urgenti che vanno a male. – Una madre, che fa omettere le preghiere a’ suoi figliuoli si scuserà colla mancanza di tempo. Dite, fratelli miei, vi par questa una confessione umile? Vedete chiaro che non è. « Ponete, di grazia, o mio Dio, diceva il santo re David, una custodia alla mia bocca, perché la malizia del mio cuore non trovi scusa ai miei peccati » (Salm. CXL: 3, 4). Dico dunque che dobbiamo farci conoscere quali siamo, perché la nostra confessione sia buona e capace di farci riacquistare l’amicizia di Dio.

2° Dico che la confessione dev’esser semplice, cioè che dobbiamo evitare tutte le accuse, inutili, gli scrupoli che fan ripetere venti volte la stessa cosa, fan perder tempo al confessore, stancano quei che aspettano per confessarsi e spengono la divozione. Bisogna con una manifestazione sincera farsi conoscere quali si è; bisogna accusar ciò ch’è dubbio come dubbio, ciò ch’è certo come certo; p. es. se diceste di non esservi fermati su cattivi pensieri, mentre dubitate d’esservene dilettati, sarebbe mancar di sincerità, quasi aveste avuto soltanto il pensiero; parimenti dire che la cosa da voi rubata vale solo tanto, credendo che forse valga di più; ovvero dire: « Padre mio, m’accuso d’avere in una delle mie confessioni dimenticato un peccato », mentre l’avevate taciuto per malaugurata vergogna o per negligenza. Queste maniere d’accusa vi farebbero commettere un orribile sacrilegio. Dico pure ch’è mancanza di sincerità l’aspettare che il confessore v’interroghi su certi peccati; se avete avuto intenzione di tacerli, non basterà confessarli, perché il confessore ve ne ha richiesti, ma dovrete aggiungere: « Padre, se non m’aveste interrogato su questo peccato, non ve l’avrei detto ». Se non usaste tale sincerità, la vostra confessione sarebbe nulla e sacrilega. Sfuggite, fratelli miei, sfuggite tutte queste frodi: abbiate il cuor sulle labbra. Potete, sì, ingannare il vostro confessore, ma ricordate bene che non riuscirete ad ingannare Iddio, che vede e conosce meglio di voi i vostri peccati. Se mai il demonio, questo satana maledetto, vi tentasse per farvi nascondere o travisare qualche peccato, riflettete tosto: ma con questo mi renderò più reo che non sono; commetterò un peccato assai più orribile che quello che intendo nascondere, poiché sarà un sacrilegio: posso ben nasconderlo al sacerdote, ma Dio lo conosce meglio di me; prima o poi dovrò pur confessarlo, ovvero dovrò rassegnarmi ad andare nell’inferno ad ardere eternamente. Manifestandolo dovrò (è vero) incontrare una piccola umiliazione; ma che cos’è in confronto di quella confusione pubblica ed eterna? Un infermo, dovete dire, che desidera la guarigione, non teme di scoprire le malattie, anche più vergognose e segrete, per farsi applicare’ il rimedio; ed io temerò di scoprire le piaghe della povera anima mia al mio medico spirituale per poterne guarire? Potrò rimanere in istato di dannazione per tutto il resto della mia vita? Se non avete coraggio di manifestare qualche peccato, dite al sacerdote: « Padre mio, ho un peccato che non oso dirvi: di grazia, aiutatemi ». Sebbene questa disposizione sia imperfetta, tuttavia così riuscirete ad accusarlo, il che è assolutamente necessario.

3° In terzo luogo dico che la confessione dev’essere prudente; il che vuol dire che bisogna accusare i propri peccati con parole oneste; inoltre che non .si devono, senza necessità, far conoscere i peccati altrui. Dico “senza necessità”, perché talora è necessario: ad es., avete avuto la disgrazia di commettere un peccato contro la santa virtù della purità con uno od una de’ vostri parenti: bisogna pur dire questa circostanza senza di che fareste un sacrilegio. Siete in una casa, ov’è una persona, che vi spinge al male: avete pure obbligo di dirlo, perché siete in occasione prossima di peccato. Ma dicendolo dovete attendere ad accusare i peccati vostri non gli altrui.

4° Dico in quarto luogo che la confessione deve essere integra, cioè che si debbono manifestare tutti i propri peccati mortali, la loro specie, il numero e le circostanze necessarie. Dico primieramente la specie: non basta dire in generale che si è peccato assai; ma bisogna dir pure, qual sorta di peccati son quelli di cui ci si accusa, se furto, bugia, impurità o simili. E non basta neppure dir la specie, deve dirsi il numero p. es. se diceste: Padre mio, m’accuso d’aver mancato alla Messa, d’aver rubato, d’aver mormorato, d’aver fatto cose disoneste, non andrebbe bene così: dovete dir pure quante volte avete commessi questi peccati: bisogna anche entrare nei particolari e dir certe circostanze. Forse non capite che cosa sia circostanza: son quelle particolarità che accompagnano il peccato e lo rendono più o meno considerevole o più o meno scusabile. Queste circostanze si traggono: dalla persona che pecca con un’altra, se è parente e in qual grado, se padre o madre, fratello o sorella, se una figlioccia col suo padrino o un figlioccio colla madrina, un cognato colla cognata; 2° dalla qualità o quantità dell’oggetto ch’è materia del peccato; 3° dal motivo che induce al peccato; 4° dal tempo, in cui avete peccato; se era Domenica, e in tempo delle funzioni; 5° dal luogo: se fu in un luogo consacrato alla preghiera, cioè in una chiesa; 6°dal modo in cui si commise il peccato; e finalmente dalle conseguenze del peccato. Vi son pure circostanze che mutano la specie del peccato, cioè a dire costituiscono peccato d’altra natura. P. es. commettere impurità con donna maritata è adulterio; con una parente è incesto; fermarsi sopra un cattivo pensiero, consentire a un cattivo desiderio, dare un cattivo sguardo è peccato contro la castità; ma se ciò accade in chiesa è profanazione del luogo santo, è una specie di sacrilegio. Queste sono circostanze che mutano la specie del peccato. Ve ne sono altre, che, senza cangiarla, l’aggravano assai: p. es. chi commette peccato alla presenza di parecchie persone, o dinanzi a’ propri figliuoli; chi ha bestemmiato il nome di Dio, tenuto discorsi disonesti, fatte maldicenze alla presenza di molte persone, ha fatto maggior peccato che chi commise questi peccati dinanzi a pochi; chi per ore intiere ha fatto discorsi disonesti ha commesso peccato più. grave che chi ha parlato in tal modo per breve tempo. Mormorare per odio è peccato assai più grave, che se si mormorasse per leggerezza. Ubbriacarsi, andare al ballo, al festino, alla bettola in Domenica è maggior peccato che andarvi in giorno feriale, perché questo giorno è in modo particolare consacrato a Dio. Ecco, fratelli miei, le circostanze che debbono dichiararsi, senza di che temete delle vostre confessioni. Ohimè! dove sono i Cristiani che badano a tutte queste cose! Ma, diciam del pari, dove sono quelli che fan buone confessioni? Si vede dal loro modo di vivere. Bisogna pur dire se si è abituati nel peccato, e quanto tempo è durato quell’abito, se i peccati, in cui s’è caduti, si commisero per malizia e con riflessione, e quali conseguenze provennero dal peccato commesso; perché soltanto così possiam farci conoscere. Vedete come si comporta un malato col suo medico? Gli scopre non solo il suo male, ma anche il principio e il progresso della malattia, e usa le parole più chiare. Se il medico non capisce, ripete, non cela, non travisa nulla di ciò che crede necessario per far conoscere il suo male e procurare la propria guarigione. Ecco, fratelli miei, come dobbiamo comportarci col nostro medico spirituale, per metterlo in condizione di conoscer bene le piaghe dell’anima nostra, cioè conoscerci quali ci conosciamo noi dinanzi a Dio. – Dico inoltre che si deve confessare anche il numero. Rammentate che, se non dite il numero dei peccati mortali, le vostre confessioni non valgon nulla; dovete dir quante volte siete caduti nell’istesso peccato, perché ogni volta è una nuova colpa. Se avete commesso un peccato tre volte, e diceste due soltanto, la volta che non accusate farebbe sì che la vostra confessione fosse un sacrilegio, se, come si suppone, si tratta di peccato mortale. Ohimè! Miei fratelli, quanti di quei che sono caduti in colpe di questa fatta, parte bruciano nell’inferno, parte non ripareranno forse mai a quella catena di confessioni e comunioni sacrileghe! Si contenteranno di dire: « Padre mio, m’accuso di aver mormorato, d’aver bestemmiato ». — « Ma quante volte? » chiederà il sacerdote. — « Non molto spesso, ma qualche volta sì ». Ed è questa una confessione integra, fratelli miei? Ohimè! quanti dannati, quante anime riprovate! Sapete, miei fratelli, quand’è lecito dire: « Tante volte all’incirca? » Quando si fa una confessione lunga, e torna impossibile dire nettamente quante volte s’è fatto un peccato: allora ecco che cosa deve farsi: si deve dire quanto tempo durò la cattiva abitudine, e quante volte approssimativamente si cadeva ogni settimana, ogni mese, ogni giorno; dir se l’abito fu per qualche tempo interrotto; e così si potrà avvicinarsi, quant’è possibile, al numero esatto. Se non ostante tutta la diligenza posta nell’esame, avete dimenticato qualche peccato, la confessione sarà buona; basterà che nella prima confessione diciate: « Padre, m’accuso d’avere involontariamente dimenticato il tal peccato nell’ultima confessione »; così sarà unito a quelli che avete accusato. Perciò appunto nell’’accusarci si suol dire: « Padre, m’accuso di questi peccati, e di quei che non ricordo ». Quanto a’ peccati veniali, nei quali si cade così spesso, non si ha obbligo di confessarsene perché questi peccati non ci fan perdere la grazia e l’amicizia di Dio, e si può ottenerne il perdono con altri mezzi, cioè colla contrizione del cuore, col digiuno, coll’elemosina e col santo sacrifizio. Ma il santo Concilio di Trento c’insegna ch’è utilissimo il confessarli. (Sess. XIV, c. 5). Eccone le ragioni: 1° Spesso un peccato, da noi creduto veniale, è mortale agli occhi di Dio; 2° per mezzo del sacramento della penitenza se ne ottiene molto più facilmente il perdono; 3° la confessione dei peccati vernali ci rende più vigilanti su noi medesimi; 4° gli ammonimenti del confessore possono aiutarci molto a correggerci; 5° l’assoluzione che riceviamo ci dà forza per poterli evitare. Ma se ce ne confessiamo, dobbiamo averne pentimento e desiderio d’emendarcene; altrimenti ci esporremmo a commetter sacrilegi. Perciò, conforme al consiglio di S. Francesco di Sales, (quando avete da rimproverarvi soltanto peccati veniali, conviene che al fine della vostra confessione vi accusiate d’un peccato grave della vita passata, dicendo: « Padre, m’accuso d’aver in altro tempo commesso il tal peccato », dicendolo come se non l’avessimo confessato mai, colle circostanze e col numero delle volte, che vi si è caduti. Ecco presso a poco, fratelli miei, quali debbono essere le doti d’una buona confessione. Tocca adesso a voi esaminare se le vostre confessioni passate furono accompagnate da tutte le qualità di cui abbiam parlato. Se vi riconoscete colpevoli, non perdete tempo: torse nel tempo in cui vi ripromettete di ritornare sui vostri passi, non sarete più al mondo, brucerete nell’inferno col rammarico di non aver fatto ciò che potevate far sì bene, mentre eravate ancor sulla terra e avevate all’uopo tutti i mezzi necessari.

II. — Vediamo adesso in poche parole in quanti modi si pecca contro queste disposizioni. Sapete, fratelli miei, (e vi fu insegnato fin da fanciulli) che l’integrità e la sincerità sono qualità assolutamente necessarie per fare una buona confessione, cioè per aver la buona sorte di ricevere il perdono de’ vostri peccati. Il mezzo più sicuro per fare una confessione buona è manifestare i vostri peccati con semplicità dopo d’esservi esaminati bene; poiché un peccato omesso per difetto gravemente colpevole d’esame, quantunque se ne aveste avuto coscienza, l’avreste detto, basterà a render sacrilega la vostra confessione. Eppure, fratelli miei, quanti Cristiani vanno a confessarsi il più delle volte senza neppur pensare alle loro colpe, o almeno vi pensano così leggermente che quando si confessano, se il sacerdote non li esamina, non han nulla da dire. Soprattutto tra quelli che si confessano solo raramente, s’incontrano spesso di tali che non temono di mentire a Dio, celando volontariamente peccati, di cui la coscienza li rimprovera, e dopo una simile confessione osano presentarsi alla sacra Mensa per mangiare, come dice San Paolo, la loro condanna (I XCor. XI, 29). Ma ecco, fratelli miei, chi più facilmente è soggetto a far cattive confessioni: coloro che per qualche tempo hanno adempita fedelmente ai doveri religiosi. Il demonio, che non risparmia nulla per trarli a perdizione, li tenta terribilmente. Se vengono a cadere, sgomentati da una parte per vergogna del loro peccato, dall’altra per timore di farsi conoscere così colpevoli, fanno una fine disgraziata. Usano confessarsi per quella tal festa, e temono d’esser notati se non vi vanno; ma non vorrebbero confessarsi colpevoli. Che cosa fanno? Tacciono il loro peccato e cominciano una catena di sacrilegi, che forse durerà sino alla morte, senza aver forza di romperla un’altra volta. Sarà un tale non disposto a restituire una cosa rubata, a riparare una ingiustizia fatta, a non più ricevere indebitamente interesse dal suo denaro; o fors’anche una donna o una fanciulla che ha una mala pratica, e non vuol lasciarla. A qual partito s’appigliano? Eccolo: non dir nulla, e mettersi volontariamente per la via dell’inferno. Amici miei, lasciate che vel dica: siete in un orribile accecamento: chi credete ingannare e a chi volete celare il vostro peccato? Ad un uomo, non già: ma a Dio, che lo conosce assai meglio di voi, e che vi aspetta nell’altra vita per castigarvene, non per un momento solo, ma per tutta l’eternità. Quanti son pur di questo numero! E persone che fan professione di pietà, eppur si lasciano ingannare da queste meschine considerazioni: « Che si penserà di me, se non mi si vedrà accostarmi, secondo il solito, alla Comunione? » Questa considerazione li scompiglia e li fa cadere nel sacrilegio. O mio Dio, e si può poi vivere tranquilli? Ma grazie aDio, queste anime nere e rotte all’iniquità non sono il maggior numero. Ecco invece la fune per cui il demonio ne trascina di più all’inferno: parlo di quelli che, manifestando i loro peccati, li nascondono pel modo in cui se n’accusano: dopo che si son confessati il sacerdote non li conosce gran che meglio di prima. Chi può enumerare tutti gli artifizi, le astuzie che il demonio loro ispira per trarli a perdizione e ad ingannare il Confessore? Lo vedrete tosto.

Dico: 1° artifizi nel modo d’accusar le loro colpe, al qual fine si serviranno de’ termini più adatti a scemarne la vergogna. Qual preparazione fanno taluni? Non domandano mica a Dio la grazia di conoscer bene i loro peccati; ma si affannano per trovare come potran dirli in maniera di sentirne meno vergogna. Senza quasi accorgersene, li attenuano notevolmente: gl’impeti di collera saranno atti d’impazienza; i discorsi più indecenti, parole un po’ libere; i più vergognosi desideri e le azioni più disoneste, familiarità poco convenienti; le ingiustizie più decise saranno piccoli torti; gli eccessi d’avarizia, attacco un po’ soverchio ai beni della terra. Sicché quando giungerà la morte e Dio farà ad essi vedere i loro peccati quali sono, riconosceranno d’averli confessati solo a mezzo in quasi tutte le loro confessioni. E che seguirà da questo procedere, se non una catena di sacrilegi? O mio Dio, si può pensarvi e non esser più sincero nelle confessioni per avere la bella sorte d’ottenere il perdono?

2° Dico che si mascherano i peccati nelle circostanze, che si ha gran cura di non manifestare, e che spesso inchiudono maggior colpa che le azioni in sé medesime; p. es. una persona, la cui vita è mormorare, censurare continuamente e fors’anche calunniare, s’accuserà d’avere parlato svantaggiosamente del prossimo, ma non dirà se l’ha fatto per superbia, per invidia, per odio, per risentimento; non dirà qual danno ha recato alla sua riputazione. Anzi, qualora le si domandi se quelle parole abbiano recato danno al prossimo, risponde tranquillamente di no, senza avere esaminato il sì o il no. Dite, sì, che avete mormorato, ma non dite se fu contro il vostro pastore o altra persona consacrata a Dio, la cui riputazione è assolutamente necessaria pel bene della religione; non dite che la cosa da voi detta era falsa, cioè era una calunnia; v’accusate, sì, d’aver detto parole contro la religione e contro la modestia, ma non dite che vostra intenzione era di far vacillare la fede di quella giovinetta per indurla a consentire a’ vostri cattivi desideri, dicendole che in quelle cose non v’era alcun male e che non era necessario confessarsene. Una giovinetta dirà d’essersi abbigliata con desiderio di piacere; ma non dirà che sua intenzione era far nascere cattivi pensieri. O mio Dio, non si dovrebbe relegarla nel fondo delle foreste, ove non giunsero mai i raggi del sole? Un padre s’accuserà d’essere stato alla bettola, d’essersi ubbriacato; ma non dirà d’aver dato scandalo a tutta la sua famiglia. Una madre s’accuserà d’aver detto parole contro il prossimo e d’esser andata in collera; ma non dirà che ne furono testimoni i suoi figliuoli e le sue vicine. Un altro s’accuserà d’aver usato o permesso familiarità poco decenti; ma non dirà che aveva intenzione di peccar con quella persona, se avesse potuto indurla al male, e non avesse avuto timor della gente. Un tale dirà d’aver lasciato la Messa in giorno di Domenica, ma non dirà d’averla fatta perdere anche ad altri, o che molti l’han veduto e ne furono scandalizzati: fors’anche i suoi figliuoli o i suoi domestici. V’accusate, sì, d’essere stato alla bettola; ma non dite che fu di Domenica e in tempo della Messa o de’ Vespri; e che avevate intenzione di condurvi altri con voi, se aveste potuto. Seppur dite che per andare all’osteria siete usciti di chiesa, e nel tempo dell’istruzione, facendovi beffe di ciò che diceva il vostro pastore. Vi accusate pure d’aver mangiato carne nei giorni proibiti; ma non dite ch’era a scherno della religione e per disprezzare le sante sue leggi. Dite, sì, d’aver pronunciato parole disoneste; ma non dite d’averlo fatto perché avevate dinanzi una persona pia, per potere screditar la religione e spegnerla nel suo cuore. Dite ancora che lavorate la Domenica; ma non dite ch’è per avarizia e spregiando le proibizioni di Dio e della Chiesa. Vi accusate certo d’aver avuto cattivi pensieri; ma non dite d’avervi dato occasione andando volontariamente in compagnia di persone che sapevate benissimo non metterebbero innanzi se non cattivi discorsi. Dite, sì, di non avere ascoltato nel debito modo la Messa; ma dimenticato di dire che vi avevate dato occasione venendo fino alla porta della chiesa senza prepararvici: fors’anche siete entrato senza fare un atto di contrizione, e di questo non dite verbo; e tuttavia buona parte di queste circostanze taciute possono render sacrileghe le vostre confessioni. Oh! quanti Cristiani dannati per non essersi saputi confessare! Voi vi siete forse accusato di non essere istruito abbastanza; ma non avete detto che ignoravate i misteri principali, ch’è pur necessario conoscere per salvarsi. Non avete detto che non osate chiedere al vostro confessore che v’interroghi per sapere, se siete istruiti quant’è necessario per non dannarvi e per ricevere degnamente i sacramenti; forse non vi avete pensato mai! O mio Dio, quanti Cristiani perduti! – Parlo in terzo luogo dell’alterazione nel tono della voce, che si usa per confessare certi peccati più umilianti, avendo cura di collocarli in tal ordine che il confessore possa udirli senza badarvi. Si confesseranno prima molti peccati piccoli, come: « Padre, m’accuso di non aver preso l’acqua benedetta mattina e sera, d’aver avuto distrazioni nelle preghiere », e altre cose somiglianti; e dopo d’aver così addormentata, quant’è possibile l’attenzione del confessore, a voce un po’ più bassa e con grandissima rapidità si lasciano scivolare abominazioni ed orrori. Insensati, si potrebbe dir loro, qual demonio v’ha sedotto in questo modo e vi ha indotto a tradir così sciaguratamente la verità? Ditemi, fratelli miei, qual motivo può spingervi a mentir così in confessione? Forse il timore che il confessore abbia di voi cattiva opinione? V’ingannate. Sperate forse che peccati confessati così vi siano perdonati? Anche in questo v’ingannate grossolanamente.Ma, ditemi, perché venite a dire al confessore parte de’ vostri peccati con isperanza d’ingannarlo? Sapete pure che non riuscirete mai ad ingannare Iddio, da cui dovete ricevere il perdono. Ditemi: l’assoluzione, che avete carpita, poteste sperare che sia confermata in cielo? Ohimè! fratelli miei, l’accecamento di certi peccatori è tale che osano persuadersi d’avere ottenuto il perdono purché abbiano ottenuto un’assoluzione qualsiasi, abbiano detto o no tutti i loro peccati, abbiano o no ingannato il confessore. Ma ditemi, peccatori accecati, peccatori induriti e venduti all’iniquità, ditemi, foste contenti di un’assoluzione di tal fatta quando usciste dal tribunale della penitenza? Gustaste quella pace e quella dolce consolazione, ch’è ricompensa d’una confessione ben fatta? Non foste invece obbligati, per acquietare i rimorsi della vostra coscienza, a dire in cuor vostro che riparereste un giorno la confessione fatta pur allora? Ma, amico mio, tutto bene considerato, avreste fatto meglio a non confessarvi. Sapete benissimo che tutti i peccati, che avete confessato così, non vi furono perdonati, per non dir nulla di quelli che avete cercato di nascondere. Non eravate forse colpevoli abbastanza? E a tutti i vostri enormi peccati avete voluto aggiungere un orribile sacrilegio! — Ma, direte, voleva comunicarmi, perché son solito comunicarmi in quel giorno. — V’ingannate: dovete dire che volevate fare un sacrilegio, immergervi sempre più a fondo nell’inferno; forse temevate d’andare in paradiso. Ah! non vi affannate tanto! Avete peccati abbastanza per non andare in cielo ed esser precipitati tra le fiamme. – Ohimè! non dico nulla di tutte le confessioni sacrileghe per difetto di dolore, che, da sole, conducono alla dannazione più gente che tutti gli altri peccati. Spero di parlarvene un giorno o l’altro. Non è vero, amico mio, che sperate di riparare al male che avete fatto? — Sì, mi direte: — Ohimè! tremate, amico mio, temendo che ve ne sia negato il tempo, e non abbiate altra preparazione alla morte che i vostri sacrilegi. Volete sapere qual è la ricompensa di tali profanazioni? Eccola: induramento in vita e disperazione all’ora della morte. Avete ingannato il vostro confessore, ma non Iddio; e Dio vi giudicherà. Che dovete fare, fratelli miei, per isfuggire un male sì spaventoso? Affrettatevi a riparare tutti i difetti delle vostre confessioni passate con un’accusa sincera ed intera. Intendete bene che Dio non vi perdonerà né i peccati nascosti né le vostre confessioni sacrileghe. I peccati taciuti saranno manifestati pubblicamente dinanzi a tutto l’universo; mentre, se li aveste confessati bene, non vi sarebbero rimproverati mai più. Fremete, fratelli miei, pensando all’orrenda disperazione, che vi aspetta all’ora della morte; quando tutti i vostri sacrilegi vi piomberanno sopra per togliervi ogni speranza di perdono. Ricordate l’esempio d’Anania e di sua moglie, che caddero morti ai piedi di S. Pietro per avergli mentito. Ricordate pure la terribile punizione di quella giovinetta riferita da S. Antonino Fratelli miei, tutte queste considerazioni v’inducano a far tutte le vostre confessioni secondo le regole che v’ho tracciato, e sarete sicuri di trovarvi il perdono de’ vostri peccati, la pace dell’anima e al fine de’ vostri giorni la vita eterna. Il che vi desidero.

LO SCUDO DELLA FEDE (147)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (16)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE XV.

L’Eucaristia: — La Messa: — La presenza reale di Gesù Cristo: — La Comunione sotto una sola specie, etc.

84. Prot. Pertanto, più non contrasto alla Chiesa Romana-Cattolica la potestà e il diritto di decidere, né la sua infallibilità intorno il vero senso delle Sante Scritture. Ma cionondimeno è d’uopo credere ancora che ella non di rado miseramente cada in grossolani errori; poiché tra le altre ha solennemente deciso, che insegna ed apertamente e semplicemente professa che nel grande Santo Sacramento dell’Eucaristia, dopo la consacrazione del pane e del vino, si contiene veramente, realmente e sostanzialmente sotto le specie di quelle cose sensibili il Signor Nostro Gesù Cristo, vero Dio ed uomo. » (Conc. Trid.- Sess. XIII, cap. I).

E perché nulla manchi a tanto errore, aggiunge che « per mezzo della consacrazione del pane e del vino si fa la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo Nostro Signore, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del Sangue di Lui, la qual conversione appella: Transustanziazione.- » (ivi, cap. IV)

Né a tanto si arresta, ma aggiungendo errori ad errori, professa ed insegna: 1.° che Gesù Cristo si mantiene tutto ed intiero sotto ciascuna delle due specie ugualmente che sotto ambedue prese insieme, ed anche sotto ciascuna parte o particella, per quanto sia piccola, di ciascuna specie, fatta che ne sia la separazione. (Cap. III e can. 3).E quindi, per non so quali suoi motivi, nega ai fedeli laici, contro l’istituzione divina, l’uso del Calice!

2.° Per conseguenza, obbliga tutti i fedeli ad adorare l’Eucaristia con culto divino, e ciò non solo nell’atto della compiuta consacrazione, ed immediata consumazione, ma anche dipoi;onde conserva il Sacramento nelle Chiese, lo porta agli infermi,nelle pubbliche processioni, etc. etc., e sempre lo fa adorare comese vi fosse Gesù Cristo realmente in persona, e per tal modo simacchia della più colpevole idolatria! Finalmente, in vece di farela Santa Cena alla protestante, cioè, sopra una semplice tavola coperta di una tovaglia, come si usa nelle osterie con due o tre fornate, o più, di pane, ed alquanti barili di vino, e del buono, onde eccitare maggior divozione nel popolo’: ella celebra ognigiorno, ed in ogni luogo, una certa funzione che appella -la Santa Messa – nella quale eseguisce, con religioso e dispendiosoapparato, la consacrazione suddetta, e pretende così rinnovare, in modo incruento, lo stesso gran Sacrifizio della Croce! Chi maipuò tacere a tanti delitti, mentre è cosa certissima che quandoGesù disse: « Questo è il mio Corpo, questo è il mio Sangue » intese parlare in senso figurato, spirituale, cioè, che quel pane equel vino da Lui presi in mano erano la figura, il simbolo del suo corpo e del suo sangue; onde il pane e il vino consacrati restanosempre pane e vino com’erano prima della consacrazione. Ma comunquesia, quando mai gli Apostoli han celebrato, o permessosi celebri la Messa? Non è forse questa una sacrilega novità!

85. Bibbia. È scritto: «Erano nella Chiesa di Antiochia de’ Profeti e dei Dottori…. Or mentre essi offerivano al Signore i sacri misteri, etc. » (Act. XIII, 19). Ove qui si dice offerivano al Signore i sacri misteri, nell’originale è detto: – leitourgouton de auton to kurio – il che significa sacrificare al Signore con sacrifizio propriamente detto. Che però nel linguaggio del medesimo originale questo sacrifizio, inteso nel senso cattolico, si appella – leitourghia – Liturghia – che equivale al termine Messa, né porta altro nome che questo. È dunque di fede che al tempo degli Apostoli si offriva un vero e propriamente detto sacrifizio al Signore; ed essendo pur di fede che nella legge di grazia non vi è, né  vi può essere altro Sacrifizio di tal sorta che il Sacrifizio della Croce, rinnovato secondo l’istituzione divina; evidentemente ne segue che ha in tutto ragione la Cattolica Chiesa; poiché si celebrava anche l a Messa nel senso medesimo da essa Chiesa inteso. Ho detto che ha ragione in tutto; poiché la citata divina testimonianza è più che bastante a giustificarla su tutto il resto delle tue accuse, e a condannarti su tutti i punti. – Ma per tua maggiore soddisfazione voglio, quanto al resto, passare alle altre invincibili prove. Ascolta.

86. « E (Gesù) preso il pane, rendé le grazie, e lo spezzò, e lo diede loro, dicendo: Questo è il mio Corpo, il quale è dato per voi: fate questo in memoria dì me! » (Luc. XXII, 19). E preso il calice, rendette le grazie, e lo diede loro, dicendo: Bevete di questo tutti: imperocché Questo è il sangue mio del nuovo testamento, il quale sarà sparso per molti per la remissione dei peccati. » (Matt. XXVI, 27, 28). Queste divine parole sono talmente chiare, precise, categoriche, che è impossibile intenderle in senso figurato. Imperocché dicendo: « è il mio Corpo che è dato per voi: Il Sangue mio che sarà sparso per molti per la remissione dei peccati: apertamente e nel modo più preciso dichiara, che è quel medesimo Corpo, quel medesimo Sangue che va a sacrificare sopra la Croce. – Onde se non vuoi arrivare alla orrenda empietà di asserire che Gesù Cristo sacrificò sulla Croce non già sé stesso, ma del pane, e del vino, e che tal sacrificio, di pane e di vino, ebbe l’infinito valore di soddisfare per l’uomo alla divina giustizia, di redimere il mondo, ti è forza confessare che quelle parole – Questo è il mio Corpo, Questo è il Sangue mio – intender necessariamente, sidebbono non della figura, ma del vero Corpo, del vero sangue diGesù Cristo. Dice ancora Gesù che quel suo Sangue è il sangue del nuovo testamento: e ciò è un’altra prova non meno forte edecisiva dell’antecedente per allontanare ogni idea, ogni pretesto di senso figurato, essendo dogma espresso di fede che il sangue del nuovo testamento, ossia quel sangue col quale fu stabilito econsacrato il Nuovo Testamento, o patto, è il vero e proprio Sangue di Gesù Cristo, come a lungo dichiarò S. Paolo: « Cristo, venendo Pontefice dei beni futuri,… non mediante il sangue deicapri e dei vitelli, ma per mezzo del proprio sangue entrò una volta nel santo…. E per questo egli è mediatore del nuovo testamento, etc. » (Ebr. IX, 11, 18).

87. Che se ne brami ancora prove ulteriori, te le presenta e con molta chiarezza lo stesso Divin Redentore nella promessa da Lui già fatta di questo gran Sacramento. Ascoltalo: « Il pane che Io vi darò è la mia carne per la salute del mondo. » (Giov. VI, 52 e segg.).  Queste parole essendo state intese letteralmente: « Altercavano tra loro i Giudei, dicendo: Come può costui darci a mangiare la sua carne. » Eppure Gesù anziché ritrattarsi, conferma nel modo il più chiaro e assoluto di aver parlato nel senso da loro inteso, dicendo: « In verità vi dico: Se non mangerete la carne del Figliuolo dell’uomo e beverete il suo sangue, non avrete in voi la vita. La mia carne è veramente cibo (nota quel veramente), il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne, e beve il mio sangue sta in me, ed io in Lui. Anche questa mutua unione sarebbe impossibile per mezzo dell’Eucaristia, se questa non contenesse che pane e vino.

Prot. A meraviglia. Ma che Gesù parlasse in senso figurato, se ne è dichiarato apertamente in quelle parole: Fate questo in memoria di me. »

Bibbia. A meraviglia: ma S. Paolo apertamente ti condanna. Egli, pertanto, premettendo che di tal mistero era stato immediatamente istruito dal Redentore, dopo la citata formula della consacrazione: Questo è il mio corpo, etc. – venuto a quelle parole – fate questo in memoria di me – le spiega soggiungendo : « Imperocché ogni qualvolta che mangerete questo pane, e beverete questo calice, annunzierete la morte del Signore per fino a tanto che Egli venga. Per la qual cosa (N. B.) chiunque mangerà questo pane, o berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore. » (I Cor. XI, 23 e segg.). Da ciò è più chiaro che la luce meridiana, che il Sacrifizio della Messa è bensì una memoria, una semplice rappresentanza quanto alla morte di Gesù Cristo, perché in esso Egli realmente non muore, e però dalla Chiesa Cattolica rettamente è appellato Sacrifizio incruento, ma non già è una memoria o figura quanto al resto; poiché in esso è offerto, etc. il Corpo ed il Sangue del Signore, di cui perciò si fa reo chi ne partecipa indegnamente.

Prot. Se tutto ciò è vero, perché quel pane anche dopo la consacrazione è appellato pane?

Bibbia. Dai testi citati del Redentore e di S. Paolo è ben dichiarato in qual senso si dica pane; ma se ciò non ti basta, ascolta anche una volta lo stesso S. Paolo. « Il calice della benedizione, cui benediciamo, non è forse comunicazione del sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse partecipazione del Corpo di Cristo?  » (I Cor. XI, 23 e segg.). Che te ne pare?

88. Avrai poi notato quella riferita sentenza: « Chiunque mangerà questo pane o berrà il calice del Signore indegnamente, si fa reo del Corpo e del Sangue del Signore, » In essa, con quella disgiuntiva – mangerà o berrà – ti dichiara l’Apostolo: 1.° che Gesù Cristo è tutto interamente sotto ciascuna delle due specie; altrimenti non sarebbe reo del suo Corpo e del suo Sangue chi riceve indegnamente Gesù Cristo sotto l’una o l’altra delle due specie soltanto: 2.° che fin d’allora s’introduceva il costume di comunicare i laici sotto una sola specie. Che questa poi fosse la specie del pane, è dichiarato negli Atti Apostolici. « Erano assidui (i fedeli) alle istruzioni degli Apostoli, e alla comunicazione della frazione del pane. » (Act. II, 42). Passiamo adesso alle altre tue accuse.

89. Prot. Avrei ancora da opporre il più forte argomento dei miei seguaci, cioè che il Divin Redentore dopo aver detto: « La mia carne è veramente cibo: » in seguito disse ancora: « Lo Spirito è quello che dà la vita: la carne non giova a niente » (Giov. VI, 64). Dal che credono dedurne il senso figurato di quant’altro disse Gesù circa l’Eucaristia. Ma io me ne astengo, perché in questo per carne s’intende l’umana pravità e viziosità; e, per ispirito, la forza divina, dalla quale gli uomini aiutati sono resi pronti e facili ad abbracciare ed osservare la Religione Cristiana. » (Schleusner. Lexic. N. Test.). Voglio anche risparmiarvi la discussione sulle altre accuse: protestandovi che ormai mi arrendo, e vi soddisfarò su tutti i punti. Ascoltatemi. Le parole di Gesù Cristo, – Questo è il mio Corpo, questo è il mio Sangue: sono talmente chiare che niun Angelo del cielo,niun uomo in terra parlar poteva più chiaro. » (Sclussemberg, presso Herberman , Vindiciæ Bellar. Lib. 3 de Eucharist.).« Vi sono Bibbie ebraiche, greche, latine, tedesche: che eglidunque (Zuinglio) ci mostri una versione, in cui stia scritto: Questo è il segno del mio Corpo. Se nol possono, che tacciano. La Scrittura,… la Scrittura, gridano essi incessantemente; ma ecco la Scrittura che grida a chiare note queste parole: Questo è il mio Corpo: parole che stanno contro di loro. Neppure un fanciullodi sette anni sarebbe per dare a questo testo una diversa interpretazione. » (Lutero: Lettera ai suoi fratelli di Francoforte).

« Gesù Cristo ci dà (nell’Eucaristia) il suo Corpo e il suo Sangue. » (Calvino, nel suo Catechismo: Domen. 33). —

« Nella [sacra] cena è veramente il Corpo di Cristo; affinché sia in cibo salutare alle anime nostre, cioè, le anime nostre sono pasciute colla sostanza del Corpo di Cristo; affinché veramente siamo fatti una stessa cosa con lui …. Non ci vien dunque proposto un vuoto e nudo segno.’ » (ivi, in cap. XXVI di Matt.). –

« Gesù Cristo è veramente offerto e dato a tutti quelli che sono assisi alla sua mensa, sebbene non ne cavino frutto che i soli fedeli: » ((ivi, lib. 4, Instit, cap. 7, §10 e 32) cioè, che sono in grazia.

« In questo consiste l’integrità del Sacramento (cioè della comunione), che il mondo intero non può violare, che la carne eil sangue di Gesù Cristo sono veramente dati tanto agli indegniche ai fedeli, agli eletti. » (Il medes. Ivi, cap. 17, §5 e 32)

« Quando i Cristiani ripetono la Cena che Gesù Cristo fece prima della sua morte, nel modo che Egli la istituì, Egli dà loro veramente a mangiare il suo vero Corpo, e a bere il suo vero Sangue: onde sieno il cibo e la bevanda dell’anima. » (Confess. Augustan. Cap. 17, de cœna).

« L’articolo della Cena così è insegnato nella Confessione di Ausburg; che il vero Corpo e il vero Sangue di Gesù Cristo sono veramente presenti, distribuiti e ricevuti nella Santa Cena, sotto le specie del pane e del vino, e che si riprovano coloro che insegnano il contrario. » (Libr. Concordiæ, p. 728).

« Le parole – Fate questo in memoria di me – significano: ogni qualvolta ciò farete, celebrerete il religioso Convito, abbiate grata memoria di me. » (Gerem. Rosenmuller, op. cit. sopra questo passo).

« Alle specie superstiti (nell’Eucaristia) fu sovente attribuito il nome di pane e di vino, perchè co’ sensi non si distinguono. Così disse Ambrogio: – è talmente efficace la parola, che sieno ciò che erano, ed in altra cosa sieno mutate. Cioè, gli accidenti sono quelli che erano, la sostanza è mutata. Imperocché il medesimo dice: – Dopo la consacrazione si deve credere nient’altro esservi che la carne ed il sangue. » (Leibniz, sist. Theol. P. 226).

« Questo dogma della presenza reale non fu punto inventato dagli uomini, ma è fondato nel Vangelo, e sulle precise inespugnabili parole di Cristo. Dal principio sino a quest’ora esso fu uniformemente creduto e predicato su tutta la terra. I Padri della Chiesa Greca e Latina ne fanno fede. Esso riposa sulla credenza unanime e sulla pratica costante di tutti i secoli. In mancanza di altre prove bastar dovrebbe quella tradizione di tutte le Chiese, per restar fermi nel suaccennato articolo, e respingere i sofismi dei settarii. » (Lutero, Lettera ad Alberto di Prussia).

« Quando si ammette la presenza reale e sostanziale del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo nella Eucaristia, è necessario parimente ammettere che il pane ed il vino subiscono una incomprensibile mutazione in qualche punto determinato di tempo; e la Chiesa Cattolica nient’altro fa che determinar questo punto. Per la stessa ragione essa Chiesa può appoggiarsi alla lettera delle Scritture, perchè in esse si dice: hoc est: e non mai: in hoc. » (Schultess, in Annal. Theolog.).

« Nella Santa Cena evvi realmente e sostanzialmente il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, e ciò per maniere soprumane, e transustanzialmente » (Ammon, Lettere di Rodolfo e Ida, p. 23).

« La pia antichità dichiarò chiaramente abbastanza che il pane si muta nel Corpo di Cristo, e il vino nel Sangue: ad ogni tratto gli antichi riconobbero la – metazakeiosin — che i latini rettamente traducono – Transubstantiatio, transustanziazione – »

. E siccome altrove si fa, così anche qui deve spiegarsi la Scrittura colla tradizione, che la Chiesa fino a noi ha trasmessa. » (Leibnitz, Systm. Theolog., pag. 226).

« È certo che l’antichità ha insegnato che per mezzo della consacrazione si fa mutazione, siccome apparisce dalle parole di Ambrogio, già citate, né mai fu noto agli antichi il nuovo dogma di alcuni – Che vi sia il Corpo di Cristo nel suo momento della percezione; – Imperocché alcuni (degli antichi) non subito consumavano questo sacro cibo, ma lo mandavano ad altri, e seco lo portavano a casa, anzi ne’ viaggi, nei deserti, e questo costume fu per un tempo commendato, sebbene di poi, per causa di maggior riverenza, abrogato. E certamente, o le parole dell’istituzioni, che si pronunziano dal sacerdote, sono false (il che Dio ci guardi di pensare), o è necessario che ciò che è benedetto sia il Corpo di Cristo anche prima che si mangi?» (Il medes.ivi, p. 228 e segg.).

« Non può certamente negarsi che in virtù di concomitanza, si riceva tutto Gesù Cristo sotto l’una, e sotto l’altra delle due specie,come dicono i teologi; imperocché la sua carne non è separata dal sangue. Se poi al presente convenga rendere ai popoli il calice, cioè se preponderino o no le ragioni che tanti Principie nazioni allegarono, non appartiene sicuramente ai privati il definirlo, ma ai Rettori della Chiesa, e massimamente poi al Sommo Pontefice, a cui il Concilio di Trento rimise questo affare. Percerto alla Chiesa è largamente data la potestà di definire anche intorno quelle cose che sono di diritto divino, come è manifestodalla mutazione del Sabato nel giorno di Domenica, dalla permissionedel sangue e del soffogato, dal Canone dei Libri Sacri,dall’abrogazione del Battesimo per immersione, e dagli impedimentidel matrimonio; le quali cose seguono in parte con sicurezza gli stessi protestanti, per la sola autorità della Chiesa, che IN TUTTO IL RESTO DISPREZZANO. » (Il medes. Ivi, p. 254 e segg.).

« Il Corpo del Signore (fatta la divisione) si contiene (tutto) in ciascuna parte, e nelle più piccole particelle del pane celeste. » (Dichiar. Del Parlam. Inglese: 1548).

« L’adorazione del Santissimo Sacramento dell’ Eucaristia, quantunque non sempre sia stata in uso (solennemente), è stata con tutto ciò ricevuta con lodevole pietà. Imperocché i primi Cristiani in tutto ciò che appartiene alla esterna dimostrazione del culto, usavano una cristiana semplicità, che non può sicuramente riprendersi; imperocché nell’ interno dell’anima ardevano di una vera pietà. Essendosi poi a poco a poco raffreddato lo zelo, fu necessario servirsi di segni esteriori, d’istituire riti solenni, i quali ammaestrassero del dovere, e risuscitassero l’ardore, principalmente dove se ne presentasse grande occasione o ragione. Non può facilmente poi esibirsene ai Cristiani veruna maggiore di quella che loro si offre in questo Divin Sacramento, ove Dio stesso a noi mostra la presenza del Corpo a sé unito…. Pertanto, fu al certo dì massima convenienza che istituita ne fosse (in modo solenne) l’adorazione, e rettamente fu stabilito che nel Sacramento dell’Eucaristia collocata fosse la sommità del culto esterno, il che vale anche al culto supremo interno dei Cristiani…. cioè ad infiammare in noi l’amor divino, ad attestare e nutrire la carità. » (Leibnitz, Op. cit., p. 258).

« Appo i Cattolici adunque si adora devotamente Cristo in Sacramento, e l’oggetto di questa adorazione non è altro che il vero eterno Iddio unito in uno sustanzialmente colla sacra sua Umanità, la quale tengono essi per fermo stare ivi presente, tuttoché adombrata dalle specie sacramentali. E dato pure che non estimassero ivi in realtà la presenza di questo Dio, nulladimeno sono eglino tanto lungi da venerare il pane, che in tal caso si riputerebbero idolatri. Il che dà a vedere quanto l’anima in quest’atto sia libera, e lontana da ogni benché minimo senso d’idolatria, e come lo stesso debba dirsi della volontà, che anzi del tutto all’idolatria è opposta e contraria. » (Taylor, Op. La libertà di profetare; Sez. 20, cap. 10). Concludiamo:

« Noi seriamente dichiariamo essere eretici, e alieni dalla Chiesa di Dio gli Zuingliani, e tutti Sacramentarii.3 (Lutero, Thes. 27, cont. Thoelogos Lovaniens, 1545). « — «Satanassoregna talmente in essi che non è in loro potere il dire altro che menzogne. » (Il medes. Epist. Ad Jan Pæ. Bremens.).

IL SACRO CUORE DI GESÙ (40)

IL SACRO CUORE (40)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE SECONDA.

Spiegazioni dottrinali. (3)

X.

ALTRI TRATTI: RICORDO DELLA PASSIONE,

DELLA EUCARISTIA

L’idea della Passione e della Eucaristia nella divozione. — Ragioni.

Infatti il pensiero della passione è intrecciato, molto spesso e intimamente, al culto del sacro Cuore. Lo abbiamo già veduto negli atti e negli scritti di Margherita-Maria (I parte cap. 3). Tutti i documenti confermano la stessa cosa. La Messa Miserebitur ne è tutta penetrata; l’ufficio della festa, lo è quasi altrettanto; le litanie del Cuore ce lo ricordano facendoci invocare il cuore di Gesù come propiziazione per i nostri peccati, come satollato d’obbrobri, come spezzato a causa dei nostri peccati, come fattosi obbediente sino alla morte, come trafitto da una lancia; d’altra parte le litanie della Passione e l’ora santa passata in unione con Gesù nel giardino degli Ulivi erano, per la beata Margherita Maria, due dei principali esercizi della divozione. Ella va, come per istinto, a Gesù che soffre e che muore. Vi si potrebbe vedere una delle delicatezze dell’amore; non è forse quando l’amico soffre, quando è abbandonato, che l’amico gli sta più vicino per tenergli compagnia, a ridirgli il suo amore, rendergli omaggio o prender parte alle sue pene? Vi è qualche cosa di questo, certamente, nell’istinto che spinge i devoti del sacro Cuore verso il giardino degli. Ulivi o verso il Calvario. Ma vi ha pure altra cosa. La loro divozione cerca le tracce dell’amore. E dove brilla maggiormente quest’amore, se non nella passione? Soffrire e morire per colui che si ama è, secondo la testimonianza stessa di Gesù, lo sforzo supremo dell’amore. Essa va dunque alla passione, perché là, più che altrove, ritrova questo Cuore che « si esaurisce e consuma per dimostrare il suo amore ». Per ragioni consimili, la divozione al sacro Cuore, ha stretto rapporto con l’Eucaristia. I postulatori del 1765 sono motto espliciti a questo riguardo (Lettres inédìtes. IV, p. 140 ; riveduto su G. CXXXIII, p. 567). Margherita Maria fu l’amante dell’altare, come lo fu della croce. Tutto il suo desiderio è di fare la santa comunione, tutto il suo appoggio, dice ella, è « il cuore del mio amabile Gesù nel SS.mo Sacramento ». Gesù le domandava la Comunione riparatrice e voleva che facesse la Comunione tutte le volte che avesse potuto, qualunque cosa dovesse accaderle. La divozione ha cominciato sempre per la stessa via. A misura che cresce in un’anima, la spinge ad accostarsi alla santa Comunione sempre più e sempre meglio. La liturgia del sacro Cuore offre le stesse testimonianze; la Messa e l’Ufficio si dividono in parti uguali fra il pensiero della Passione e il pensiero dell’Eucaristia. Il P. C roiset, univa 1’Eucaristia e la Passione nella sua definizione quando diceva: « L’oggetto particolare di questa divozione è l’amore immenso dei Figlio di Dio, che lo ha spinto a offrirsi per noi alla morte e a darsi tutto a noi nel sacramento dell’altare ». Ed è pur questo, che ci ripete la sesta lezione del breviario nel giorno della festa: « Quam caritatem Christi patientis et prò generis humani redemptione morientis, atque in suæ mortis commemorationem instituentìs sacramentum corporis et sanguinis sui, ut fideles sub sanctissimi Cordis symbolo devotius ac ferventius recolant eiusdemque fructus percipiant ». – Veramente come per l’Eucaristia, così per la Passione, la cosa potrebbe ben spiegarsi a prò dei fedeli. È nella Eucaristia che troviamo attualmente il cuore di Gesù ben vicino a noi; è nella Eucaristia che noi ci uniamo a lui. Ma una ragione, anche più obiettiva, di questo stretto rapporto fra l’Eucaristia e la divozione al sacro Cuore si è che l’Eucaristia è, come la Passione, la testimonianza più espressiva dell’amore del sacro Cuore per noi. È così che l’intende il P. Croiset, così che l’intende la Chiesa, come lo provano i testi che abbiamo citato. La Passione e l’Eucaristia, sono i due principali benefici effetti di questo amore che la Chiesa, come Essa stessa spiega, nell’orazione della festa onora nel culto del sacro Cuore: « In sanctissimo Corde gloriantes, precipua in nos caritatis ejus beneficia recolimus ». Si potrebbe domandare se, e perché, il beneficio della Incarnazione, che è stato il mezzo che ci ha dato Gesù medesimo, e che è esclusivamente un effetto di amore (sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenitum daret), non deve esser messo in rapporto speciale nella nostra divozione, insieme con l’Eucaristia e con la Passione. Questo si fa qualche volta e il decreto del 1765, approvando la festa, diceva che per mezzo di questo culto: « si rinnova simbolicamente la memoria dell’amore che aveva indotto il Figlio unico di Dio a prendere la natura umana » (Lettres ìnédites, IX, p. 164; G. CXXXVIII, 608. Vedi più sopra parte la , c. 2, § 3, p. 26 ; c. 3, § I , n. 4). L’inno ai Vespri della festa esprime la medesima idea:’ « Amor coegit te tuum mortale corpus sumere ». Ma questi testi non risolvono definitivamente la questione. La soluzione dipende dalla risposta a un’altra questione che bisogna esaminare per precisare sempre meglio l’idea che dobbiamo farci della divozione al sacro Cuore.

XI.

OGGETTO PRECISO: IL CUORE CHE AMA GLI UOMINI

Qual è l’amore che onoriamo nella divozione al sacro Cuore. — L’amore per gli uomini. — In qual senso l’amore per Iddio.

La questione è tutta qui: Di quale amore intendiamo parlare, quando diciamo che la divozione al sacro Cuore ha per oggetto di onorare sotto la figura del cuore, l’amore di Nostro Signor Gesù Cristo? Ma la questione ha due sensi.Questo amore del sacro Cuore può esser riguardato da partedell’oggetto amato e si può domandarci chi ne è l’oggetto. « È l’amore per Iddio? È l’amore per gli uomini? » Essopuò esser riguardato da parte del soggetto che ama e laquestione sarebbe: Quale è l’amore di Gesù che onoriamoonorando il suo cuore? L’amore suo come uomo o l’amoresuo come Dio? Il suo amore umano o il suo amore divino? Il suo amore creato o il suo amore increato? Quello che lofece pianger su Lazzaro, o quello che dette l’essere a Lazzaro?Alla prima domanda è facile rispondere. L’amore cheonoriamo in questo culto è l’amore che chiede corrispondenzad’amore: « Ecco il cuore che ha tanto amato gli uomini », dicevaGesù alla beata Margherita Maria. Quis non amantem redamet? Quis non redemptus diligat ? … cantiamo nell’innoalle Laudi. Præcipuam in nos caritatis ejus beneficia recolimus, aggiungiamo nell’Orazione. Tutti i testi sono improntatiallo stesso senso, e sarebbe perder tempo volerne accumularequi per provare una tesi che nessuno contrasta. Nonrimane che dare una spiegazione e prevenire una difficoltà.Una spiegazione. L’amore di Gesù per gli uomini, nonva certo disgiunto dall’amore per il Padre suo, ne è anzitutto penetrato, vi prende sorgente e vi ha il suo motivo.Gesù conosceva bene il gran comandamento: « Tu amerai ilSignore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, contutte le forze », e lo praticava come nessuno lo ha mai praticato.E conosceva, del pari, che il secondo comandamentoè simile al primo: « Amerai il prossimo tuo come te stessoper amor di Dio », e lo praticava con la stessa perfezione ideale.Con ciò si viene a dire che l’amore di Gesù per il prossimo,era un amore soprannaturale, un amore ben regolatoe perciò tutto informato all’amore per il Padre suo. Per esseresoprannaturale, per essere regolato, è però meno vivo,meno tenero e, se così posso esprimermi, meno naturale?  Non manca chi stoltamente si rappresenta le cose in questamaniera; si vorrebbe che, per amor degli uomini, si cessassedi amare Dio. Se le delicatezze del cuore dei Santi non bastanoper disingannarli, studino certuni le delicatezze delCuor di Gesù. E ciò per quel che riguarda la spiegazione.Rimane però sempre una difficoltà. Abbiamo detto chetutti i testi si accordano nel riguardare l’amore del sacroCuore come il suo amore per gli uomini, il che è verissimo.Vi sono, nonpertanto, delle eccezioni, almeno apparenti,e ne abbiamo già incontrate sulla nostra via. Nella replicadei postulatori polacchi si dice che il Cuore di Gesù deveessere considerato, in secondo luogo, come il simbolo o lasede naturale di tutte le virtù e di tutte le affezioni internedi Cristo e, in particolare modo, dell’amore immenso che ebbeper il Padre suo e per gli uomini; — imprimisque amoris illius immensi quo Patrem et homines prosecutus est (Replicatio, n. 18, Nilles, t. I, p. 145)). IlP. della Colombière non si esprime altrimenti: « Le principalivirtù che si pretende onorare in lui sono: in primo luogoun amore ardentissimo per Iddio suo Padre » (Oeuvres, t. VI, p. 124. Cf. più sopra: § 7, p. 110 e ss.).Sarebbe facile citare dei testi analoghi, prendendone ancheda coloro che dicono, più espressamente, che la divozioneal sacro Cuore ha per oggetto di onorare l’amore concui Gesù ha amato gli uomini; come per esempio dal P.Croiset o dal P. Galliffet. Ma non sarebbe questo un portarconfusione in tutte le nostre nozioni e definizioni? No. Perché  non dimentichiamo le due maniere che abbiamo segnalateper ben comprendere la divozione al sacro Cuore.Essa è, nel suo oggetto diretto e immediato, la divozione al cuore amante di Gesù, al cuore emblema dell’amore; malo è pure, per una estensione legittima e naturale, la divozioneal divin cuore di Gesù in tutta la sua vita intima, perconseguenza nelle sue virtù e, in special modo, nel suo amoreper Iddio. Come emblema d’amore è il suo amore per noiche Gesù ci scopre, scoprendoci il suo cuore adorabile, ece lo scopre in tutta la sua realtà, come l’ideale della nostravita, non meno che come l’oggetto del nostro amore.Si vede quanto è importante questa distinzione per renderchiare le idee. Forse vi troveremo anche lume per risolverela seconda questione, che è più difficile e dove l’accordodelle opinioni non è così unanime.

XII.

OGGETTO DETERMINATO:

AMORE CREATO E AMORE INCREATO

Qual è l’amore che onoriamo? — L’amore del Verbo

incarnato. — Amore creato e amore increato. — Controversie,

distinzioni e spiegazioni.

Quale è l’amore di Gesù che onoriamo nella divozione al sacro Cuore? È il suo amore creato o il suo amore increato, l’amore con cui ama come uomo, nella sua natura umana, o quello con cui ama come Dio, nella sua natura divina e, per ripetere una espressione chiara e breve, quello che dette l’essere a Lazzaro o quello che pianse su Lazzaro? È una questione questa che, forse, non è stata mai trattata a fondo, sino ad oggi. Non già che essa sia stata ignorata. Molti teologi del sacro Cuore l’hanno, anzi, considerata esplicitamente. Ma non abbiamo ancora una soluzione che s’imponga, e molti opinano che la questione non sia stata ancora sufficientemente discussa anco fra quelli che la risolvono. Tale è l’opinione del P. Vermeersch (L‘objet propre de la dévotion au Sacre Coeur negli Études, 20 gennaio 1906, t. CVI, p. 146-179. Vedi pure Pratìque et doctrìne, 2.a parte, c. I , art. 5, p.399-400).« Quest’articolo, dic’egli, è diretto contro una opinionespeciosa e seducente, che guadagna terreno, ma nella qualenon possiamo a meno di vedere una confusione e un errorebiasimevole. Il favore relativo della quale essa gode non sispiega, ai miei occhi, che per una mancanza di attenzione. »Crediamo servire gl’interessi della divozione al sacro Cuorerichiamando delle serie riflessioni su di una questione che,d’altronde, sappiamo essere studiata in Germania e in Austriae dove preoccupa gli spiriti » (Loco cit, p. 146). Dopo ciò, il P. Vermeersch combatte l’opinione che allarga la divozione al sacro Cuore sino alla carità increata. Senza impegnarci ad accettare le sue conclusioni, seguiamolo nelle sue ricerche. Molti non hanno riguardato la questione in una maniera esplicita. Di qui una prima serie di testi dove si parla, senza altro precisare, del cuore di carne che ha tanto amato gli uomini, dell’immenso amore del Verbo incarnato, rivelantesi in tutta la sua vita, nella sua morte, nel SS.mo Sacramento, ecc. Così fa santa Margherita Maria, così il P. della Colombière, il P. Croiset, il P. Galliffet, i vescovi di Polonia nel loro bel Memoriale; così il cardinale Gerdil, Zaccaria, il P. Roothaan nella sua bella lettera sulla divozione al sacro Cuore, Dalgairns; così, almeno sembra, Franzelin e Ramière (Vedi i testi e le citazioni in VERMEERSCH, loc. cit, p. 178 e seguenti; Pratique, p. 405-427). In questo caso, non si ha in vista l’amore di Dio, come Dio, ma l’amore di Dio fatto uomo. Si vuol dir forse, con ciò, che nel Dio fatto uomo non si riguarda che il suo amore umano? Forse, ma ciò non è giusto. È piuttosto il contrario che si dovrebbe dire, lo vedremo, salvo ad aver ragioni positive per separare quello che lo sguardo della fede non separa ordinariamente. È un fatto che constatiamo, anche in quelli che riguardano direttamente l’amore del cuore di carne, delle espressioni agrandi prospettive in cui l’irradiamento della Persona divina nella natura umana di Gesù illumina tutto e fa sentire che anche nell’ uomo si vede Dio (Avanti di dare una spiegazione più precisa, che verrà data a suo luogo, una parola della B.ta Margherita Maria farà comprendere ciò che qui si vuol dire: « Egli mi fece vedere che l’ardente desiderio che ha d’essere amato…. gli aveva fatto concepire l’idea di manifestare il suo Cuore agli uomini con tutti i tesori che contiene, affinché tutti quelli che vogliono rendergli tutto l’onore, l’amore e la gloria che è in loro potere, siano da lui arricchiti di quei divini tesori del Cuore di Dio che ne è la sorgente…. e che bisognava onorare sotto la figura di quel cuore di carne ». Lettres inédites, IV, p. 142, rivedute su G. CXXXIII, 598. Come potrebbe Margherita Maria non vedere che l’amore umano di Gesù, mentre il Dìo amante le è così presente al pensiero?). – Questo ci conduce a una seconda serie di testi in cui l’amore che onoriamo nella divozione al sacro Cuore è designato in termini tali che sembrano includere l’amor divino del Verbo incarnato. Io non parlo di quelli secondo i quali questo amore è qualificato di divino, poiché tutto è divino in Gesù, anche l’umanità. Ma si parla incessantemente d’amore infinito. Cor Jesu, infinite amans et infinite amandum, come nell’enciclica Annum sacrum, dove Leone XIII ci dice « che nel sacro Cuore vi è il simbolo e l’immagine sensibile della carità infinita di Gesù Cristo: « In sacro corde inest symbolum atque expressa imago infinitæ Jesu Cristi caritatis ». È il linguaggio corrente, che usa continuamente la parola « carità infinita » o altra equivalente (Vedi CH. SAUVÉ, libro citato, t. I, p. 26-28). Queste parole avrebbero un senso, senza dubbio, anche applicate all’amore umano di Gesù. Ma, poiché indicano così chiaramente la Persona divina, perché non vi si porrebbe pur’anco l’amor divino? – Un terzo gruppo di testi stringe la questione ancor più da vicino. Si parla espressamente, a proposito del sacro Cuore, dell’amore creatore, dell’amore che ha motivato l’Incarnazione, ecc. Ma come è possibile non riconoscervi l’amor divino, sia come amore della Persona divina che s’incarna, sia come amore di Dio che opera l’incarnazione e ci dà il sacro Cuore? Più d’una volta questo amore è espressamente designato nei documenti ufficiali. Abbiamo già notato un passo dell’Ufficio, che parla precisamente in questo senso (Il P. VERMEERSCH, loc. cit. p. 171 e 472 risponde che è una espressione poetica e che è in « strofe obbligate al metro ». Cf. Pratique, pag. 428. I teologi quanto, e più, dei poeti, dureranno fatica a comprendere che ci si possa così facilmente sbarazzare da un testo imbarazzante.). Si trova nell’inno del Vespro. Vi si parla dell’amore che ha « costretto Gesù a prendere un corpo mortale ».

Amor coegit te tuus

Mortale corpus sumere.

Quest’amore è subito dopo descritto come « l’artefice che che ha fatto la terra, il mare e gli astri ».

Ille amor almus artifex —

Terræ marisque et siderum.

Si tratta dunque dell’amore increato. Il decreto del 1765, quello che stabiliva la festa, indica come oggetto del culto « l’amore che ha spinto il Figlio unico di Dio a prendere la natura umana ». Si potrebbe, con esegesi sottile, giungere ad eliminare da questo testo l’amore increato? Forse ((2) Cf. VERMEERSCH, loc. cit, p. 178-180. Pratique p. 423-427). Ma è ben più certo che il segretario della Sacra Congregazione dei Riti nel 1821, ci vedeva questo Cuore. « Questa festa, diceva, non ha per oggetto un mistero particolare, di cui la Chiesa non ha fatto menzione a tempo e luogo; è come un riassunto (compendium) delle altre feste in cui si onorano dei misteri speciali; vi si ricorda l’immenso amore che ha spinto il Verbo a incarnarsi per il nostro riscatto e per la nostra salute, a istituire il Sacramento dell’altare, a caricarsi delle nostre colpe, a offrirsi in croce come ostia e sacrificio » (Citato in NILLES, libro I, parte I, c. III, § 5, A., p. 163). – Ma, si dice, il decreto del 1765, come quello del 1821, non è riprodotto nella nuova collezione autentica dei decreti della Sacra Congregazione dei Riti. Qualunque sia la causa di questa omissione — che non ha certo nulla di dottrinale — la Congregazione non rigetta l’idea che esprime, poiché l’ha ripetuta, quasi con le stesse parole, fra i considerando di un decreto recente, 4 aprile 1900. Il decreto ha per oggetto lo Scapolare, ma la festa vi è pur menzionata. E come? Come « una solennità che non ha solo per oggetto di adorare e di glorificare il cuore del Figlio di Dio fatto uomo, ma di rinnovare, simbolicamente la memoria di quel divino amore, che ha spinto il Figlio unico di Dio a prendere la natura umana, ecc., sed etiam symbolice renovatur memoria illius divini amoris quo idem Unigenitus Dei Filius humanam suscepit naturam » (Analecta ecclesiastica, 1900, t. VIII, p. 206). I teologi che si son proposti esplicitamente questa questione fanno generalmente parte all’amore increato. Così il P. Froment. Così, più tardi, Benoit, Tetamo, e Marquez; così Muzzarelli. Gautrelet, Jungmann, Bucceroni, Leroy, Chevalier, Nilles. Terrien, De San, Nix, Billot, Baruteil, Tini, Sauvé (Vedi i testi e le citazioni, parte in VERMEERSCH, loc. cìt. p. 178 e seguito; parte in CH. SAUVÉ, t. I , prefazione p. XVII. Il P. RAMIÈRE che pone la tesi che « l’amore eterno e divino di cui arde N. S. Gesù Cristo non gli è punto estraneo ». Messagger du Cœur de Jesus, 1868, t. XIV, p. 275 e seguenti.). Vi è forse uno, fra questi, che escluda l’amore increato? Qualcuno ne ha l’apparenza, ma, a bene approfondire, si vedrebbe, forse, che esclude soprattutto un amore di Dio che non avrebbe a far nulla col sacro Cuore e col Verbo incarnato. Vi ha, forse, qua e là qualche confusione nelle idee e nelle parole piuttosto che opposizione sostanziale di dottrina. Una cosa pertanto è sicura, ed è, io credo, ammessa da tutti. L’amore che onoriamo direttamente nel culto del sacro Cuore, è l’amore del Verbo incarnato, di Dio fatto uomo. Un amore di Dio, senza contatto con l’umanità di Gesù, non potrebbe essere l’oggetto proprio della divozione. Se l’amore di Dio vi ha dunque la sua parte, bisogna riguardarlo e nella persona del Verbo fatto carne, o in rapporto causale con l’Incarnazione e l’opera Redentrice. – Altra cosa egualmente certa, e che conferma la precedente, si è che, per propriamente parlare, non vi ha divozione al sacro Cuore là dove il cuore di carne non entra per nulla. La devozione al sacro Cuore non potrà dunque raggiungere l’amore di Dio per noi che nella misura in cui quest’amore sarà simbolizzato dal cuore di carne. Fuori di qui potremo onorare l’amore di Dio, dirne meraviglie, ma la divozione al sacro Cuore non vi avrà altra parte che d’aver servito, forse, di opportunità. – Questi sono i principi della soluzione. Vediamo ora a che punto ci conducono. L’amore che onoriamo direttamente nel culto del sacro Cuore è l’amore del Verbo incarnato, di Dio fatto uomo. Gesù è l’Uomo-Dio e i fedeli che vedono Gesù vivente e concreto non separano dai loro omaggi l’uomo da Dio. L’irradiamento della persona divina illumina per loro tutto quello che vedono in Gesù. Anche quando riguardano l’uomo, quando ascoltano le parole che cadono dalla sua bocca, quando compassionano i suoi dolori, non dimenticano che egli è Dio, ed è questo pensiero, sempre presente, che imprime il suo carattere a tutti i loro rapporti con Gesù in quello stesso modo che la realtà sempre attuale dell’unione dà il suo carattere e il suo valore a ciascuno degli atti e delle sofferenze e delle parole di Gesù. Gesù, per loro, è essenzialmente l’Uomo Dio, nell’unità indissolubile dell’unione ipostatica. Il loro amore e la loro fede non possono concepirlo altrimenti. Ma, allora, la divozione al sacro Cuore è necessariamente la divozione all’uomo-Dio; l’amore che vi si onora è, necessariamente, l’amore dell’Uomo-Dio. Ecco quel che deve essere considerato, come certo. In questo senso, almeno è giusto di dire col P. Terrien: Quod Deus coniunxit, homo non separet. Ma, non è forse questo un giuocare con la questione, piuttosto che risolverla? Nessuno, infatti, nega l’unione personale; nessuno pretende che l’amore che i fedeli onorano nella divozione al sacro Cuore, sia un amore puramente umano; è sempre l’amore per Iddio. Ma si pone la questione se è solamente l’amore con cui ci ha amato col suo cuore umano, nella sua natura umana, o se è pure anco l’amore con cui ci ama eternamente nella sua natura divina, con quest’atto semplice d’amore che è la sua essenza infinita. I fedeli, se non m’inganno, non fanno distinzione, quantunque sappiamo distinguere molto bene in Gesù la natura divina e la natura umana, quantunque sappiamo ben riconoscere in lui un amore con cui ci ama come Dio. E il fatto ch’essi non fanno distinzione è in favore della « non distinzione » dei due amori nel loro culto; è Gesù tutto intiero che onorano sotto la figura del suo cuore di carne; tutto il suo amore, sembra, come tutta la sua Persona. Per distinguere, dove essi non distinguono, occorrerebbero delle ragioni, e i Teologi studiano, appunto, se ve ne sono. Si è molto rimproverato alla nostra divozione di favorire il nestorianismo. Pura calunnia dei giansenisti. I teologi del sacro Cuore l’avevano già confutata, e Pio VI ne aveva già reso giustizia (Testo citato più sopra § 2,). Ma, se i fedeli non onorano il sacro Cuore da nestoriani, non bisogna neppur supporre che confondano nel loro culto le nature e le operazioni, o supporre che onorino da eutichiani o da monoteliti. Ma è forse questo il pericolo da temersi, ragionando come facciamo, passando dalla persona all’amore, e concludendo che, poiché l’onore va alla Persona, va pure all’amor divino? I teologi rispondono a nome dei fedeli: non è vero che passiamo, senz’altra considerazione, dalla Persona all’amore. Noi non passiamo ad ammettere dall’unità di Persona la fusione o la confusione di due amori in un solo. Diciamo solamente questo: Pur distinguendo le nature, nell’oggetto della loro divozione, i fedeli vi vedono Gesù tutto intiero, la Persona totale, la persona nelle sue due nature; così si deve dire che la vedono nei suoi due amori, a meno che ragioni speciali non ci facciano constatare che essi hanno in vista un solo di questi due amori: l’amore umano. Si dice. I documenti non parlano che dell’amore creato. Distinguo. Essi non parlano che dei benefìci ove trasparisce pur’anco l’amore creato, ed io sono con loro (salvo per le eccezioni accennate); ma, se essi attribuiscono questi benefici al solo amore creato, aspetto che ne dieno le prove. Vi ha gran differenza, a questo riguardo, fra l’ordine dell’amore e quello dell’azione. È Gesù, nella sua natura umana, che parla, che agisce, che soffre, che istituisce i sacramenti, che rimane dell’Eucaristia; ma ciò non vuol due che abbia parlato, agito, sofferto, e compiuto il resto, sotto l’influenza del suo solo amore creato. Perché non vedere, a meno che ci abbiano ragioni in contrario, l’amore increato compiacersi del pari in queste opere dell’amore creato, dando l’impulso, per così dire, a questo amore creato? Ma, si dirà, « se sì deve ammettere la carità increata, bisogna che occupi il primo posto (VERMEERSCH, loc. cit., p. 164; Pratique, p. 403). Qui ancora distinguo: Se i due amori fossero considerati in loro stessi, lo concedo; se sono contemplati a traverso il cuore di carne, distinguo, ancora: Quando se ne parla esplicitamente sia; se ne potrebbe però dubitare, ma, se non si fa questione esplicitamente, io lo nego. A meno che non si preferisca accordare, ciò che torna lo stesso, che, parlando dell’amore di Cristo, senza averlo in vista né come creato, né come increato, si dà implicitamente il primo posto all’amore increato, poiché si parla di questo amore, tale, come esso è. Non è dunque, neppure per questa via, che dobbiamo cercare la soluzione della questione. Ma « l’amore d’un cuore umano è considerato come umano esso stesso, se non si dice il contrario » (VERMEERSCH, loc. cit, p. 164; Pratique, p. 403).Si potrebbe, forse, esitare a dir sì, quando si tratta di un caso unico come quello dell’Uomo-Dio. Bisogna, nondimeno, dir se si tratta dell’amore, di questo cuore, dell’amore che ha interesse vitale per questo cuore. Ma la questione è precisamente qui: se non si tratta che di questo amore nella divozione al sacro Cuore. Quelli che lo spiegano in special modo per il cuore organo, come fa il P. Galliffet, devono esser portati a riguardare la divozione, come divozione all’amore umano di Gesù. La conclusione, però, non s’impone. Il cardinale Billot, che dice così chiaramente che « il cuore è il simbolo dell’amore, perché né è l’organo », scrive altrove, e con la stessa precisione, che « nel Verbo incarnato il cuore è insieme simbolo e della carità increata che fece discendere il Verbo sulla terra, e della carità creata, che, irrompendo sino dal primo istante della sua concezione, lo condusse sino alla croce (De Verbo incarnato, thesis 38, § 2, p. 348 ; 4-a edizione, Roma 1904). Egli vuol significare, senza dubbio, che il simbolismo, pur avendo il suo fondamento nel rapporto vitale, non vi trova, però, i suoi limiti. Poiché il sacro Cuore non è organo che in rapporto all’amore umano. Altri vi scorgono tutto quel che ha rapporto all’amore e vi ritrovano tutto Dio, quel Dio che, secondo il discepolo diletto, è amore. Ma essi, sono portati a perdere il contatto col cuore reale, col cuore di carne di Gesù. Ma non dimentichiamo che, senza contatto col cuore di carne, non vi ha più divozione al sacro Cuore. Con la nozione al sacro Cuore emblema, si riprende contatto col cuore reale e si riman liberi di far significare all’emblema, non solo l’amore che si ripercuote nell’organo, ma ancora l’amore divino, che non vi ha nessun’ eco diretta. La questione non è risolta interamente però. Non si tratta di ciò che può essere, ma di ciò che è nel pensiero della Chiesa, poiché si tratta della divozione, pubblica e ufficiale della Chiesa, non già d’una divozione privata e che potrebbe essere diversa. Non dimentichiamo neppure che il cuore emblema, come è onorato dalla Chiesa, è nello stesso tempo il cuore organo, il cuore di carne vivente in Gesù e palpitante nel suo petto il ritmo della vita e dell’amore. Quest’ultima menzione non ci obbliga forse a concludere, in mancanza di testi precisi, che nel pensiero della Chiesa la divozione al sacro Cuore è decisamente la divozione all’amore creato, all’amore umano, che solo è l’amore del sacro Cuore, l’amore in cui esso ha sua parte come organo e, insieme, come emblema? Non è forse questa la ragione che domandavamo per aver diritto di limitare all’amore umano nel Cristo l’amore di Dio fatto uomo, amore che dicevamo essere certamente l’oggetto della divozione? (È questo che invoca, sopratutto, il P. VERMEERSCH, Pratique, p. 434).La conclusione non s’impone, mi sembra. Eccone il perché,e sarà questo un dire nello stesso tempo le ragioni cheabbiamo di fargli la sua parte nella divozione all’amore increato.

a) L’amore creato del Cuore di Gesù non riceve, forse, impulso del suo amore increato? Perché, dunque, il cuore, simbolo dell’amore creato, non lo riceverebbe in pari tempo dall’amore increato che pure è unito con un legame così intimo di causalità con l’amore creato? Questo amore increato non si ripercuote direttamente nel cuore di carne; lo ammetto, ma vi si ripercuote producendo quell’eco creata da lui stesso, che è l’amore del cuore di carne, e ciò è bastante perché il cuore di carne me lo ricordi, nel medesimo tempo che mi ricorda l’amore creato.

b) In un senso analogo, io posso riguardare l’amore increato che crea il cuore amante di Gesù. Questo focolare d’amore, da chi è acceso? Chi mi presenta, chi mi dà questo emblema vivente dell’amore? Se Gesù è una manifestazione vivente di Dio nel mondo, come non sarebbe il sacro Cuore la manifestazione vivente dell’amore e dell’amabilità di Dio stesso? Ma, se questo è, l’amore increato ha bene il suo posto nella divozione.

c) Infine, la divozione al sacro Cuore ci conduce naturalmente, come abbiamo veduto, alla persona di Gesù che ci si mostra amabile e amantissimo. Il sacro Cuore è Gesù, Gesù che mi si rivela nella sua natura umana, ma Gesù che nello stesso tempo s’impone alla mia fede come Persona divina; e in questo modo si constata che l’amore increato ha il suo posto nella divozione al sacro Cuore.

[Queste conclusioni sono pur quelle di M. R. DE LA BÉGASSIÈRE, articolo citato, col. 569-570. È probabile, che il P. VERMEERSCH le ammetta pur lui. Egli non ha preteso escludere l’amore increato, inteso così. Vedi Etudes, loc. cit., p. 482; Pratique, p. 430 e 440. Gli Etudes sono ritornati nella questione. Vedi la discussione fra M. VIGNAT e il P . VERMEERSCH; Etudes, 5 Giugno 1906, t. CVII, p. 643-665. M. LEROY si è pronunziato con forza contro il P. VERMEERSCH nella Révue ecclesiastique de Liège, sett. 1906; questi rispose. Ibìd, Nov. 1906, p. 125-148. M. LEROY tornò pure a rispondere. Il P . ALVERY si mette dalla parte del P. VERMEERSCH nella Révue Aqustinienne, 15 Feb. 1907, p. 173-190. Io credo potere e dovere mantenere le mie posizioni].

XIII.

RIASSUNTO.

SGUARDO AL CUORE VIVENTE.

FORMULE.

Che vasto campo si dischiude per il devoto del sacro Cuore! Se la divozione è poco profonda, o poco illuminata, sì perderà, forse, a parlare dell’amore di Dio nel mondo; e il sacro Cuore non vi entrerà per nulla, o vi entrerà solo come sinonimo d’amore; ma se comprende e gusta il sacro Cuore, come esso è, nella sua realtà viva e concreta, e nel suo simbolismo, sì ricco ed espressivo, saprà leggervi tutto Gesù, Gesù che ci ama di un doppio amore, così come è composto di due nature, armoniosamente unite nella Persona divina, in Dio fatto uomo. Guardiamoci bene dal misurare la ricchezza della realtà con la ristrettezza delle nostre formule; cerchiamo, piuttosto, di allargare le nostre formule per renderle meno inadeguate, meno sproporzionate alla ricchezza della realtà. Per questo rimettiamoci dinanzi al cuor di Gesù, vivo e vero, o, se si preferisce, dinanzi a Gesù che ci apre il suo cuore. Studiamo questo cuore in se stesso, ciò che esso è e quel che significa. Così comprenderemo, meglio che analizzando le formule (le quali, per quanto possano essere ammirabili per ampiezza e valore espressivo, sono però sempre inadeguate) ciò che è la divozione al sacro Cuore e qual ne sia l’oggetto proprio. E non pertanto ci abbisognano delle formule. Ecco quelle che riassumono quel che abbiamo detto sull’oggetto della divozione al sacro Cuore. Quest’oggetto è il cuore di carne di Gesù, cuore vivente nel suo petto e palpitante d’amore per gli uomini. È il cuore di carne, simbolo espressivo e vivente di quell’amore che Gesù ha avuto, ed ha ancora, per gli uomini. Così questo cuore ci apparisce, prima di tutto, come avente rapporto d’espressione e di vita con l’amore del Verbo incarnato per noi. È così, soprattutto, che si definisce la divozione al sacro Cuore. Essa è la divozione all’amore di Gesù per noi, all’amore con cui ci ha amato come uomo, e anche, in una certa misura (se le nostre osservazioni su questo soggetto son giuste), all’amore con cui ci ha amato come Dio. Perciò questa divozione si compiace di studiare questo amore liberale e generoso in tutti i suoi benefici e si ferma di preferenza alle sue principali manifestazioni: la passione e l’eucaristia. Ma, rinchiudendosi troppo strettamente in questo simbolismo dell’amore, la divozione rischierebbe, forse, di dimenticare, o di non vedere abbastanza chiaramente questo amore vivente e operoso, e rischierebbe, forse, di perdere il contatto con questo cuore vivo e vero. Ritorna, dunque, al Cuore amante, per vedervi tutto l’intimo di Gesù, le sue virtù e le sue perfezioni, i suoi dolori e l’amor suo. La visione dell’amore ne è più precisa, e le amabilità vi risplendono maggiormente. Di là, per una transizione insensibile e senza perder di vista il cuore di carne, la divozione si rivolge a Quegli che ci mostra il suo cuore amabile e amante, nel cuore che ci presenta, nel cuore che ci mostra e ci offre. La divozione al sacro Cuore è dunque una forma speciale di divozione alla Persona adorabile di Gesù. Abbiamo già potuto travedere quanto sia eccellente e perfetta. Lo vedremo ancor meglio con l’avanzare in questo studio.

STORIA APOLOGETICA DEL PAPATO: Introduzione (2)

STORIA APOLOGETICA DEL PAPATO DA SAN PIETRO A PIO IX

DI

MONS. FÈVRE

Protonotario apostolico

I Papi non hanno bisogno che della verità

(J. DE MAISTRE, “du Pape”, lib. II, Cap. XIII)

TOMO PRIMO

PARIGI – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMBRE, 13 – 1878

INTRODUZIONE – 2 –

IV. Nonostante i suoi benefici, nonostante i suoi trionfi, nonostante le sue virtù, il Papato non ha dovuto solo subire una persecuzione, sempre pronta a cambiare strategia; ha dovuto subire gli insulti dei libelli, e le menzogne della storia. Dall’attacco dei Philosophumena contro Papa San Callisto all’ultimo pamphlet di Sir Gladstone, dagli scritti immondi di Lutero alla Storia dei crimini del Papato di Maurice Lachàtre, c’è contro i Papi una fedele trasmissione di immondezze ed una vile tradizione di calunnia. È vero che la maggior parte di queste composizioni non hanno avuto molto credito, anche nel loro tempo; sono cadute, per la maggior parte, in un oblio dove ricevono poco più che le visite indiscrete di studiosi. Da queste fogne, tuttavia, si è alzata non so quale nuvola che cerca di oscurare il sole della verità e il cui spessore impedisce ancora ai raggi di luce di illuminare diversi paesi. È curioso osservare come è stato ha formato questa nube ed è utile indagare se i nostri apologeti sono stati in grado di dissipare le sue ombre o di allontanare la sua ira. – C’è sempre stata, e sempre ci sarà, una grande e compatta coalizione di tutti gli errori, di tutte le discordie, di tutti gli odi contro la Sede di Pietro, perché lì, e solo lì, c’è il fondamento eterno di ogni verità e di ogni carità, di ogni ordine e giustizia. Per quanto distanti possano essere, « tutti i nemici di Roma sono amici », ha detto il conte de Maistre. Per quindici secoli, tuttavia, il Papa ha governato il mondo ortodosso, senza che si sia sollevato contro la sua autorità sovrana, un partito che abbia avuto la fortuna di durare. Senza dubbio si videro usate tutte le armi della viltà letteraria, i libretti anonimi, la satira pungente, i pettegolezzi storici e le battute taglienti dell’epigramma, ma non causarono danni: la fede e la pietà unanime verso la Santa Sede non permisero di raggiungerla. Fu solo dopo il grande scisma, e soprattutto dal XVI secolo, che i demoni in carne ed ossa apparvero nel mondo per abbaiare, ruggire e gridare contro il capo della Chiesa. Mai prima d’allora l’infernale coorte di apostati aveva potuto presentarsi in un numero così grande; così formarono un partito che crebbe sempre di più e oggi costituisce un esercito. Il primo ad issare lo stendardo della menzogna oltraggiosa fu Lutero. Le sue opere sono un oceano di insulti ed invettive contro i Papi. La sua potente immaginazione, esaltata dall’odio fino al delirio, ha creato mostri prima sconosciuti. Lo scalpello ed il pennello del Callot, del Cranach, dell’Holbein della Riforma hanno dato loro un corpo: la penna degli scribacchini, ha saputo dare a queste immonde caricature una voce analoga. Le immagini impure rimpiazzarono, al capezzale del giovane e della ragazza le immagini di Cristo, della sua divina Madre, dell’Angelo custode e del Papa regnante; i libri pieni di menzogne, bugie, sostituirono, nelle mani intelligenti, i libri della dottrina cattolica e della devozione alla Santa Sede. Così procedeva la riforma: le scale che l’immaginazione e la ragione cristiana offrivano alle anime per salire alle regioni dell’amore, le volgevano ora verso l’abisso nero dove ribollivano tutti gli odi. – L’odio per il Papa fu il primo dogma del protestantesimo; ne è rimasto più o meno l’unico. Il protestantesimo vive ancora su questo odio, laddove non conserva più un’ombra della vita. Gli assurdi dogmi imputati al Vangelo dalle antiche confessioni di fede non esistono più; ma le mal comprese visioni dell’Apocalisse contro l’Anticristo di Roma, contro la grande prostituta vestita di scarlatto, sembrano continuare in eterno. Queste odiose creazioni della penna e del pennello luterano decorano ancora i negozi ed i saloni dei paesi protestanti. Questi sono paesi acquisiti all’odio della Cattedra Apostolica. – Nel XVI secolo, i paesi protestanti erano gli unici nemici di Roma; in compenso, i Paesi Cattolici offrivano il loro amore. Poi apparve un secondo avvelenatore della razza umana, Giansenio. Il vescovo di Ypres aveva composto durante la sua vita un grosso libro, il ci testo aveva lentamente ed insidiosamente composto; l’autore del trattato, come il chimico che maneggia sostanze pericolose, aveva addolcito le sue formule per distillare meglio la sua pozione e temperato le sue miscele per nasconderne il veleno. Sotto le sembianze del grande Agostino, quell’anima sì tenera ed elevata, colma d’amore e di luce, Giansenio doveva offrire alle anime la manna della vera pietà. In realtà, voleva mettere solo odio nei cuori; voleva introdurre l’antropologia malsana di Lutero nella Chiesa sotto il colore della pia riforma, per irritare i cuori cattolici contro Roma e avvelenare tutto fino all’ostia. Ma l’apparenza di fervore ingannò tutti; i primi discepoli di Jansenius risplendevano per una brillantezza pronta e vivida. Li si vedeva nelle posizioni più avanzate tra i difensori della santa Chiesa. Nei loro scritti citavano con rispetto le opere dei Padri; dichiaravano di aderire ai decreti dei Concili, alle costituzioni dei Papi e alle tradizioni cattoliche; e nel difendere i sacri dogmi mostravano una grande preparazione dottrinale. La Chiesa credette che essi l’avrebbero consolata dalle perdite che il protestantesimo le aveva causato. Ma mentre teneva questi figli prediletti vicino al suo cuore, si accorse che alcuni di loro praticavano nella maniera più dissimulata, con un comportamento ed un linguaggio ambiguo. Inoltre, avevano una pretesa particolare nel definirsi cattolici, per quanto negassero questo nome con le loro parole e le azioni. Infine, il Sommo Pontefice li dichiarò eretici; tutta la comunità cattolica si inchinò alla decisione del Vicario di Gesù Cristo. Mentre da ogni angolo del mondo si levava un anatema contro chiunque non volesse ascoltare il successore di Pietro, essi negavano ostinatamente l’esistenza stessa della loro setta. In questo modo presentavano agli spiriti irriflessivi – e questi erano un gran numero – lo scandalo di un dissenso dogmatico che stava apparendo all’interno della Chiesa stessa. Fino alla fine ostinandosi a negare tutto, a eludendo tutto, tergiversando su tutto, si presentarono come dei cattolici oppressi per la loro virtù, e riuscirono solo a suscitare l’odio della Santa Sede nei Paesi Cattolici. Il battaglione di J Giansenio venne a rinforzare quello di Lutero. Questo scandalo ingannò rapidamente gli spiriti; la cancrena che si stava diffondendo nella società europea si sviluppò con una velocità terribile. Dal fiele smorto di Giansenio e dall’odio furioso di Lutero, nacque il cesarismo di Luigi XIV. Lo spirito parlamentare, una specie di protestantesimo applicato alla politica, si era insinuato nel sistema giudiziario, attraverso i libri di diritto partiti dalla Germania, come il vero protestantesimo, per dirla con Mézerai, e giunti tra qualche parola di greco e di ebraico; esso riaccese ovunque le vecchie guerre del sacerdozio e dell’impero. Insoddisfatta di tenere la mano della giustizia, la magistratura si diede la missione di difendere la regalità contro le invasioni della Cattedra apostolica, che era diventata una pericolosa rivale e usurpatrice dei diritti di Cesare. La Regalità, ingannata, lusingata, lasciò fare, quand’anche non ne ebbe parte. Nel 1682, il clero stesso ebbe la debolezza colpevole di afferrare, nonostante gli avvertimenti dei Papi, la catena che gli si lanciava. In tutte le questioni relative alla disciplina, si può dire che il re si era fatto capo della Chiesa; il parlamento si erse a tribunale ecclesiastico. I due battaglioni del gallicanesimo episcopale e parlamentare vennero ad unirsi ai due battaglioni di Lutero e di Giansenio; come loro, anch’essi avevano sulle loro bandiere: Odio per i Papi. – Dalla magistratura nazionale il cancro si propagò alla magistratura internazionale e fu ammesso nel diritto pubblico. I Papi erano stati i geni costituenti del Medioevo; i re, che dicevano di ricevere le loro corone solo da Dio e dalle loro spade, esclusero i Papi dall’ordine politico alla pace di Westfalia. Da allora in poi, la pace dipenderà dall’equilibrio materiale delle potenze poteri; la statica e la dinamica ci riveleranno gli oracoli del progresso. La penna di Lutero, Giansenio, Pithou e Fleury passò nelle mani della diplomazia. Ricordiamo solo per la cronaca l’iniquità, la rivoltante doppiezza, l’insolenza, l’estrema violenza dei dispacci che i corrieri partiti da Versailles, Vienna, Firenze, Napoli, Madrid, Lisbona, andavano a gettare ogni settimana in faccia al Papa. Il vicario di Gesù Cristo, circondato dai ministri di Pombal, di d’Aranda, di Choiseul, di Tanucci, di Leopoldo, di Giuseppe II, ci rappresenta l’Uomo-Dio alla corte di Caifa o al Pretorio; Pio VI a Vienna è Cristo in casa di Erode, con la differenza che la passione di Cristo è durata solo un giorno ed una notte, mentre quella del suo Vicario è durata quasi tre secoli. L’esercito dei nemici della Santa Sede fu aumentato da squadroni di artiglieria e cavalleria. Le dispute della polemica e gli oltraggi della diplomazia non potevano che far disgustare la Religione a chiunque non si appoggiasse all’ancora dell’autorità. Apparve Bayle, Voltaire lo seguì: è l’epoca del pirronismo universale. Ben presto gli archivi dei filosofi divennero nelle mani rivoluzionarie dei pugnali. Una rivoluzione satanica si precipitò sul mondo: è in corso da quasi un secolo; la sua parola d’ordine è ancora: Guerra al Papato! D’ora in poi chi non è un pio figlio della Santa Sede ne è suo nemico: tale è lo stato attuale del mondo.

V. Non si deve credere che la cospirazione anti-pontificia abbia seguito il suo corso incontrastata e reclutato senza alcuna contraddizione le legioni dell’apostasia. Le prime schermaglie iniziarono sul terreno della controversia teologica; i settari, battuti nei dettagli su questo terreno compromettente, si gettarono sul terreno della storia. Prima hanno contestato l’autenticità dei documenti e l’integrità dei testi. I nostri studiosi sono stati costretti a spulciare gli archivi, a collazionare i manoscritti, a controllare i passaggi dubbi frase per frase, e infine a trarre una versione definitiva dalle varianti trovate. Da questa indagine dolorosa, sono nate opere vittoriose. Henri de Valois rivide gli storici greci, Papebrock redasse il Catalogo dei Pontefici Romani, Bianchini diede la sua splendida edizione del Liber fontificalis, Bolland raccolse gli Atti dei Santi, Baronio compose gli Annales ecclésiastiques, e Mabillon creò la Diplomatica. La negazione ostile dava vita a dei capolavori. Quando i testi autentici furono riconosciuti, iniziò la grande battaglia dell’erudizione. Gli atti ed i diritti della Santa Sede furono vendicati e, agli occhi del pubblico colto, furono ottennero una riparazione. Anche in quei tempi funesti, in cui lo spirito di compiacenza e di accecamento portò il nostro clero alle più infelici concessioni, Dio non avrebbe permesso gli errori dei novatori se non per la loro eterno obbrobrio e per la gloria della sua Chiesa. I più grandi dottori facevano giustizia dei fanatici che volevano attribuire alla Francia i sentimenti di alcuni particolari individui; essi hanno vendicato le nostre dottrine, che la malignità voleva oscurare o rendere sospette; ci hanno restituito la purezza della fede e della pietà che sembravamo aver perso. Il cielo doveva benedire le loro opere; doveva suonare l’ora in cui l’opera della frode e della perfidia sarebbe stata confusa. Onore e gloria a questi uomini dotti che hanno preparato con opere ammirevoli l’effetto definitivo di questa epoca fatale. Onore ai Polus, agli Stapleton, ai Sfondrate, Roccaberti, Gonzalez, Bellarmino, Duval, Gharlas, Serri, Soardi, Orsi, Bianchi, Muzzarelli, Marchetti, Gavaloanti, Zaccaria, Litta, Lamennais. La maggior parte di loro ha veramente compreso lo spirito dei francesi, che è quello di essere sovranamente rispettosi verso i romani Pontefici e di difendere le prerogative della Santa Sede con tutti i mezzi che la Provvidenza può offrire. Infine, è stato possibile riconoscere che la Francia aveva in ogni occasione vendicato l’autorità pontificia, o con la penna o con la spada; che aveva difeso i suoi decreti contro gli attacchi dei falsi fratelli; che aveva voluto attaccarsi alla tradizione più pura e universale; che aveva sempre condiviso i sentimenti dei Papi, degli antichi concili e dei più santi Dottori. Gloria a Dio e pace alla Francia! In presenza dei gloriosi monumenti dell’erudizione, non sarebbe più possibile offuscare la reputazione religiosa della Francia con commenti ridicoli o vani sofismi. Tuttavia, questo non si deve nascondere, il trionfo è stato tolto solo nel campo della metafisica, e se, in pratica, abbiamo ottenuto preziose riforme, rimangono ancora non so quali fermenti, quale vecchio lievito che potrebbe facilmente corrompere tutta la massa. Una rivolta lascia sempre tracce formidabili nel cuore di un popolo. Anche le confutazioni più decisive non sono riuscite a raggiungere la Francia in quella zona sensibile che la Scrittura chiama la divisione dell’anima e dello spirito. Roccaberti, arcivescovo di Valencia, che scrisse tre volumi in-folio contro i quattro articoli, fu arrestato alla frontiera; sebbene fosse un Grande Inquisitore di Spagna, un viceré della sua provincia, un teologo di prim’ordine, la polizia trattò il suo libro come il quaderno di uno scolaretto. Il libro di Soardi fu messo al macero, dopo la condanna del parlamento. L’ordine fu così rigorosamente eseguito che l’opera fu conosciuta in Francia solo con la sentenza di condanna; fu ristampata ad Halle nel 1793, ma allora caddero troppe teste per mantenere gli occhi del pubblico su questo lettura. Anche se avessero potuto attraversare le linee doganali, gli scritti dei teologi erano, inoltre, scritti in uno stile ed in una forma inaccessibili alla folla. Per quanto riguarda le confutazioni storiche degli spagnoli, degli italiani e dei tedeschi, che erano eccellenti per i loro Paesi, dovevano potersi conoscere attraverso la traduzione solo quando non potevano più essere rese note con qualche correzione notevole. In breve, l’immenso lavoro diretto contro l’errore anti-pontificio rimase a lungo, per la Francia, una lettera morta. I disconoscimenti dei reali e le condanne dei Papi non erano quasi nemmeno sospettati dal pubblico. Una muraglia cinese difendeva le teste gallicane dall’irradiazione della verità e anche dalla sua ira. Tuttavia, il nostro parlamento, a sua volta protestante, giansenista, ribelle, gallicano e repubblicano, mandò il santo Viatico tra quattro baionette ai ribelli, si impadronì delle nomine dei vescovi e, con il pretesto di difendere i re contro i Papi, consegnò la Francia a Robespierre, Luigi XVI alla ghigliottina. La vittoria era così acquisita, ma e il pregiudizio persisteva. All’inizio di questo secolo, Lamennais fu il primo a rompere con la tradizione dei gallicani, ma non fece che agitare ancor più gli animi e si comportò così male che presto tradì la causa di Roma che voleva far trionfare. Discepoli più illuminati e più pii stavano per scendere nella trincea. C’era quel momento di incertezza negli spiriti quando non si capisce se si voglia andare indietro o avanti. Cosa singolare, in quest’ora di indecisione, un impulso vittorioso venne dal protestantesimo. I protestanti erano stati i primi a diffamare i Papi; i primi, a loro lode, a riabilitarli. Senza altra luce che quella dell’onestà, senza altro motivo che la loro conoscenza, Jean de Muller, Ilerder, Schoell avevano già reso intelligenti testimonianze ai Sovrani Pontefici; ma queste testimonianze portavano ancora il marchio della loro origine ed il carattere della loro data. Altri vennero dopo di loro, più espliciti nelle loro confessioni, perché avevano potuto liberarsi più completamente dai pregiudizi dei settari e brillavano per una più alta intelligenza storica: cito Raumer, Léo, Hock, Voigt, Hurter, Ranke. L’opera di Hurter fu addirittura così compiuta da riportare il suo autore in seno alla Chiesa. Strano spettacolo! Papi vilipesi dai Cattolici e ammirati dai protestanti eruditi in Germania! Il contrasto colpì gli spiriti e cambiò la direzione dei pensieri. Fleury cessò di essere un oracolo, Tillemont non mantenne la sua aureola di studioso, Bossuet e La Luzerne potevano essere contraddetti senza che il contradditore fosse costretto a chiedere pietà. Allora i valorosi paladini, con il più risoluto ardore, sconfissero il gallicanesimo ed il suo fratello gemello, il giansenismo. Il cardinale Gousset li perseguì nel campo della scienza teologica; Dom Guéranger nel campo della liturgia. Tuttavia Montalembert, Veuillot, Parisis, Monnyer de Prilly, Clausel de Montais, portarono la guerra sul terreno mutevole della politica; Affre e Sibour difesero l’indipendenza temporale delle chiese; Donnet e Giraud allargarono il cerchio delle influenze episcopali; Lacordaire, Ravignan, Combalot illustravano, dal pulpito, le tradizioni dell’eloquenza apostolica; Pitra, Migne, Bonnetty, Glaire, Lehir hanno riportato gli spiriti alle fonti pure dell’erudizione; Rohrbacher, Villecourt, Doney, Gerbet, Salinis, Gaume, Ozanam, Blanc, Chavin, Jager, Darras, Christophe e altri venti, hanno ripreso le questioni oscure o controverse della storia. D’ora in poi, non c’è più, in Francia, in nome del gallicanesimo, del giansenismo, del liberalismo e del razionalismo (quattro parole per dire la stessa cosa), una cospirazione contro la verità del diritto pontificio. La rete dell’errore e dell’iniquità è dogmaticamente lacerata; la catena delle tradizioni del Cattolicesimo più puro è riformata con anelli forti. Questa è una di quelle restaurazioni in cui si ammira ciò che le nostre Scritture chiamano così giustamente i colpi di stato del Signore: Mirabilia Dei. – Tuttavia, se abbiamo trionfato con la scienza, dobbiamo completare le nostre riforme pratiche con la restaurazione diocesana del Diritto Pontificio e con la restaurazione degli studi canonici necessari per l’applicazione di questo diritto. Inoltre, bisogna sempre combattere le trame dell’ambizione politica ed i pregiudizi ignoranti della moltitudine: pregiudizi e ambizione, serviti quotidianamente da una stampa prezzolata, le cui batterie devono essere smascherate. Infine, nonostante le riparazioni della scienza, nonostante i tributi resi alla verità, abbiamo davanti agli occhi tutti gli attacchi della persecuzione, vediamo lo spettro di Hohenstauffen risorgere dalla tomba. È quindi necessario riprendere la causa della Santa Sede e dedicare i nostri sforzi esclusivamente alla difesa storica delle prerogative, dei diritti e degli atti della Cattedra di Pietro.

VI. Una ventina di anni fa, si è incontrato un uomo, un umile parroco, che ha scritto, contro i corifei del razionalismo, una difesa storica della Chiesa. Alla caduta dell’impero, si è formata tra noi una scuola che, negando l’intervento divino nella fondazione del Cristianesimo, rifiutando di credere nei miracoli, e quindi nel soprannaturale, aveva rifiutato di vedere nella storia della Chiesa, soprattutto ciò che vi si doveva notare. Uno aveva toccato questioni filosofiche, l’altro questioni letterarie, diversi sulle questioni proprie della storia, spiegando, a volte mediante l’eclettismo, a volte con la teoria delle razze o dell’antagonismo di classe, i grandi eventi, ma, non appena si trattava di religione, si cedeva solo ai moti dell’odio o alla cecità del pregiudizio. Quello che ne è venuto fuori lo sanno tutti. In apparenza, alla Chiesa era stata resa una giustizia scrupolosa; in realtà, i suoi eroi erano stati ignorati e i suoi annali sfigurati. L’apparenza della giustizia aveva sedotto l’opinione pubblica; le iniquità troppo reali minacciavano di passare in giudicato. Eppure la Chiesa ha protestato, purtroppo senza trovare il Davide che doveva colpire alla fronte i nuovi Golia con la sua piccola fionda. Ora un povero sacerdote della diocesi di Bellay, crivellato dallo scherno di diversi suoi confratelli, perseguitato anche dalla disgrazia del suo Vescovo, si pronunciava contro le sentenze dei maestri, e mentre aspettava che l’opinione pubblica più informata ratificasse i suoi giudizi, forniva la prova materiale dell’errore di valutazione. Padre Gorini – e parlo solo di lui – ha dato, ricorrendo alle fonti, una testimonianza irrefutabile contro i mille errori storici dei Gizot, dei Cousin, dei Villemain, dei Thierry, dei Barante, dei Michelet, degli Ampère, dei Martin e di una schiera di altri, che fino ad allora si erano chiamati modestamente i maestri della scienza. – Ciò che Padre Gorini ha fatto contro i razionalisti, per la difesa generale della Chiesa; ciò che Bossuet, con il suo grande genio, aveva innalzato, contro i protestanti, nell’immortalità di un capolavoro, noi abbiamo cercato di fare, per la difesa esclusiva del Papato, contro tutti i nemici e gli avversari che lo hanno attaccato per quattro secoli. Vorremmo prendere, uno dopo l’altro, tutti i fatti della storia, dove protestanti, giansenisti, parlamentari, episcopaliani e pseudo-filosofi si lusingano di convincere il Papato di errore nei suoi giudizi o degli eccessi nelle sue imprese, e mostrare che sono loro ad abusare. Passeremmo allora, secondo le buone pratiche dell’apologetica cristiana, dalla difensiva all’offensiva, prendendo uno per uno gli atti dottrinali, o cosiddetti tali, e gli sconfinamenti speculativi o legislativi degli avversari, per convincerli che c’è eccesso nelle loro imprese perché c’è un difetto nei loro giudizi. Vorremmo presentare una difesa storica della Santa Sede contro i protestanti, come Flaccius Illyricus, Mosheim, Duplessy-Mornay, Malan, Bosf e Puaux; contro i giansenisti, come Duvergier de Hauranne, Quesnel, Ellies Dupin, Fébronius e Scipione Ricci; contro i parlamentari, come Richer, Pilhou, Dupuy, Camus, Portalis, il procuratore Dupin, Isambert, Baroche e Cavour; contro gli episcopali, come Pierre de Marca, Maimbourg, Bossuet, Fleury, Tillemont, La Luzerne, Maret, Dupanloup, Gratry; contro i razionalisti, liberali o cesariani, come Guizol, i Thierry, Michelet, John Russel, Gladstone, Minghetti e Bismarck. – Nell’iscrivere sul noto blasone la croce pontificia, non dimentichiamo che non basta iscrivere la croce sul suo scudo per portare colpi di lancia incantate. Se c’è una somiglianza tra il lavoro di Gorini e il nostro, c’è però una differenza nella scelta del metodo. – Gorini cita i testi in dettaglio e affianca ai testi contemporanei i testi antichi che li distruggono. Così facendo, affonda piacevolmente l’autore che confuta, ma costruisce molto meno di quanto demolisce e, per la solita mancanza di scienza organica, la sua opera cade con le opere che abbatte. Non intendiamo certo togliere nulla al merito personale di Gorini: per la sua modestia, la sua scienza, il suo coraggio e la sua perseveranza nella disgrazia, Gorini è il tipo dell’onore sacerdotale. Ma il suo libro è stato molto più lodato che letto; ha ispirato più stima che convinzione; ha dettato meno risoluzioni di quante ne abbia suscitate. Per noi, senza attribuirci alcun merito di chiaroveggenza, su ogni punto controverso, dopo aver fatto conoscere le rimostranze ed i titoli dell’avversario, non con citazioni, ma con l’esposizione filosofica dell’errore e la sua classificazione metodica, discutiamo poi o confutiamo, con la produzione dei testi, l’autorità dei fatti, o la testimonianza dei maestri. – Non possiamo pretendere di scrivere la storia positiva del Papato; né ci limitiamo ad invertire; vorremmo, respingendo con una mano i falsi titoli o le vane rimostranze elevare la storia critica della monarchia papale. In solitudine, si parla solo con le proprie idee, e se si è esposti ad abbondare troppo nel proprio senso, non si corre il rischio di essere fraintesi per mancanza di spiegazioni. Azzardiamo qualche altra parola, chiedendo pietà. Questo lavoro è stato composto secondo un doppio metodo: metodo di confutazione e metodo di esposizione. – La confutazione diretta e personale rende una domanda accademica un piccolo dramma che suscita facilmente interesse. Si mette l’avversario davanti agli occhi del lettore, si presentano i suoi mezzi di attacco e poi, entrando in lotta con lui, si mostra che le sue armi sono mal temperate o che i suoi colpi sono sbagliati. Il cuore umano gode di queste lotte pacifiche, ed è sempre con gioia che vede il trionfo della verità. Tuttavia, un libro i cui capitoli formassero una successione invariabile di pugilati letterari potrebbe portare, per l’uniformità delle sue battaglie, una certa monotonia. L’uso alternativo del metodo di esposizione risveglia nella mente altri gusti e fornisce altri piaceri. Quando la questione è meno controversa, ci limitiamo quindi a farne conoscere i termini, a determinarne i limiti, gli sviluppi e la soluzione tradizionale. Poi il lettore, uscito dal campo di battaglia, si riposa sulle pacifiche vette della storia. Quando l’attenzione si sposta da una controversia belligerante ad un’esposizione pacifica, se il lavoratore non è troppo al di sotto del suo compito, può risultarne un piacevole interesse. – La maggior parte del materiale di questo libro doveva essere preso dai fatti e dalle autorità. Nel campo chiuso della storia, c’è poco spazio per un autore che polemizzi contro un autore, per un intelletto che si scontri con un altro intelletto; sono gli eventi che entrano in scena e dicono alle parti contendenti: « Voi sostenete che i fatti giustifichino tale e tale accusa o autorizzino tale e tale titolo, questi sono i fatti di cui reclamate gli oracoli, giudicate voi stessi se implicano tali scopi o comportino tali pretese. » Ci è sembrato, tuttavia, che, senza derogare dall’ordine storico, potessimo collocare i fatti in certe categorie, la cui connessione getta un po’ di luce, e abbiamo pensato di poter, per adempiere meglio al nostro programma, invocare, di tanto in tanto, l’autorità dei princìpi, gli insegnamenti delle teorie ortodosse, e la deduzione delle conseguenze legittime. Queste domande, che sono molto difficili da spiegare, si risolvono meglio per implicazione. – Inoltre, ecco lo schema del nostro lavoro:

Nel primo volume, spieghiamo le origini del Papato da San Pietro a Costantino; nel secondo volume, presentiamo le prerogative della sovranità papale, per il comando ed il governo, per il potere legislativo e giudiziario, per il proselitismo dell’apostolato e per l’indipendenza di esercizio per la costituzione del potere temporale;  nel terzo, si studia la relazione dei Papi con le Chiese d’Oriente, da Papa Liberio a Fozio e al Concilio di Firenze; nel quarto, si difende la costituzione pontificia del Medioevo nel suo insieme; nel quinto, riprendiamo in particolare i fatti attribuiti ai Papi del Medioevo, da Papa Zosimo fino al Grande Scisma; nel sesto, studiamo con particolare cura, da Filippo il Bello a Napoleone, le relazioni dei Papi con la Francia; infine, nel settimo ed ultimo volume, parliamo dei Papi dell’epoca moderna, dall’invasione del protestantesimo a Pio IX. – Nella misura in cui il nostro lavoro lo richiede e le circostanze lo permettono, diamo in appendice alcune discussioni incidentali che avrebbero potuto ostacolare il nostro procedere, alcuni documenti di supporto che permetteranno al lettore di giudicare da solo, e alcuni studi in cui determineremo meglio certe questioni di speculazione teologica o di pia pratica. – A volte, molto raramente, per rendere più evidente l’irriverenza dell’accusa, abbiamo citato fianco a fianco le testimonianze concordanti di falsi fratelli e dei nemici dichiarati. Voltaire accanto a Bossuet, Petrucelli della Gattina accanto a Gratry, Janus e Mons. ***: tutte queste persone che, tranne il tono, e parlano la stessa lingua, non costituiscono un confronto istruttivo? Gli empi ci offrono questo vantaggio, di rovinare con la loro presenza tutto ciò che onorano con le loro simpatie. Nel rispondere agli ecclesiastici che si avventurano in queste lotte, specialmente agli avversari onorati della Prelatura, non abbiamo dimenticato ciò che è dovuto alla loro santità e al genio. Il genio non dà un Miglio di indennità; ma, in caso di dissenso, comanda un profondo rispetto per uno scrittore di merito eccezionale. L’olio santo deve attutire i colpi alle teste che sono state unte con esso. Anche nella legittima difesa, bisogna essere generosi con la dovuta moderazione e circondare la necessaria severità con una sorta di seduzione formale in cui la franchezza del rammarico e la sincerità della venerazione servono da passaporto per tutto ciò che si è obbligati a fare intendere.  Ci siamo dunque fatti una legge di moderazione: se, contro la nostra volontà, abbiamo trasgredito i suoi salutari rigori, ritrattiamo in anticipo ogni eccesso verbale. Nel rispondere ai nemici dichiarati, non eravamo obbligati alle stesse moderazioni. Con loro, possiamo avere solo la guerra e applichiamo loro le leggi delle Dodici Tavole. Adversùs hostem, æterna auctoritas esto. Non dimentichiamo certo la saggia massima di San Francesco di Sales: « Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con un barile di aceto »; ricordiamo anche che, quando il lupo è nell’ovile, è atto di carità gridare: Al lupo! I nostri cattolici liberali hanno discreditato la moderazione poiché riservano tutto il loro miele ai nemici della Chiesa e abbeverano con l’aceto i difensori della Cattedra apostolica. « La più grande piaga del XIX secolo – dice Le Catholique di Magonza – è la cortesia. » Queste lunghe spiegazioni non nascondono alcun secondo fine. Non stiamo scrivendo per l’Accademia. Non abbiamo la fortuna di appartenere a questa scuola dotta, che può sostenere ogni affermazione con un testo e giustificare i suoi giudizi con cento testimonianze.  Stiamo scrivendo questo libro in una landa di frontiera, in un paese perso in mezzo alle paludi, lontano dagli studiosi, lontano dalle biblioteche, senza consigli, senza incoraggiamento, senza nulla che possa diminuire le difficoltà del nostro compito. Gli ostacoli crudeli che si sono dovuti superare per raccogliere qualche libro, per scrivere qualche articolo, per pubblicare qualche libro, ci hanno fatto conoscere tutte le disgrazie dell’isolamento e tutti i disagi della miseria. Possiamo con questa esperienza conoscere meglio i problemi dei pii laici e dei coraggiosi sacerdoti sparsi, come noi, per tutta la Francia, con il desiderio e la relativa impossibilità di entrare nelle questioni del tempo. È per loro che abbiamo composto quest’opera: che Dio conceda loro una giusta nozione delle cose e il coraggio che una scienza esatta ispira! Se questo scritto cade per avventura nelle mani dei dotti, non dubitiamo di incorrere nelle loro critiche: non siamo un padrone, ma un mendicante; viviamo di briciole cadute dalle tavole dell’opulenza, o di qualche resto, portato via da splendide festini. – È il momento di concludere. – I frivoli dottori del cattolicesimo liberale si sono accaniti nel far progredire una teoria che promette di far vivere fianco a fianco in dolce fratellanza il nibbio e la tortora, il lupo e l’agnello, la capra e il leone. Invano abbiamo risposto a questi dottori, accecati dalle illusioni del liberalismo, che tutte le concessioni avrebbero avuto come unico risultato quello di mettere la museruola ai cani ed incatenare i pastori; che ogni liberale era largo con il rivoluzionario ed il despota; e che i liberali, una volta divenuto i più forti, avrebbero messo da lato il liberalismo, per schiavizzare i loro liberatori e divorare il gregge di Cristo. Oggi il grido di guerra risuona in tutta Europa. Tutto si agita, tutto ruota intorno alla Cattedra apostolica. Si tratta di sapere se sarà così o no. Pro o contro: non c’è un terzo termine; dobbiamo decidere. Il nemico ha tutte le possibilità di successo: questa è l’ora del coraggio o del tradimento. – In questa guerra contro il Papa, il filosofo si dà alla politica; il repubblicano svizzero e il costituzionalista italiano cospirano con i capi delle vecchie monarchie. Guerra alle dottrine definite e alle pratiche cristiane! – grida Renan, l’accolito apostata come Giuliano -; guerra al vaticanismo!, gridano Lord John Russell e Sir Gladstone, fanatici ingordi dei beni della Chiesa; guerra ai legati della Santa Sede!, strillano i codardi radicali della triste Elvezia; guerra alla mitra ed alla tiara!, esclama Otto de Bismarck. E con queste violenze ingrate, che ipocrisia! Impedire ai Cattolici di praticare liberamente la loro Religione, dicono che è rispettare la coscienza, compiere il dovere morale dell’autorità e difendere le prerogative del potere! Mettere i Vescovi in prigione, vendere i loro mobili all’asta, dicono che è garantire il benessere e la libertà dei popoli! Scassinare chiese e presbiteri, rubare il patrimonio ecclesiastico, aprire le porte all’esilio, riaprire le carceri per i forzati della fede cattolica: tutto ciò, sarebbe beneficio della riforma, grazia della monarchia parlamentare, trionfo delle idee liberali, circospezione evangelica degli Hohenzollem! L’usignolo ( … quello della fiaba di Andersen) è lo scettro del futuro; confische, prigione, esilio, patibolo, sono ormai le forme del progresso! Sotto la copertura di queste ipocrisie, sotto il favore di antichi pregiudizi, tutte le passioni si coalizzano, tutti gli errori si uniscono, e nell’ora presente, sebbene Pio IX, prigioniero, come Papa, in Vaticano, non abbia altra libertà che la denuncia, altra arma che la preghiera, tutti gli erranti sentono di avere tutto da temere da lui, finché non lo abbiano ridotto alla completa inazione (ancora oggi lo temono, temono il Papa – impedito e materialmente prigioniero – Gregorio XVIII, e lo combattono apertamente con eresie e falsità le più vergognose, non solo i soliti nemici, cioè i kazari cabalisti e tutte le sette massoniche e dei protestanti apostati beoti, ma ancor più i settari del novus ordo, a cui si aggiungono i fallibilisti del cavaliere kadosh Lienart e del suo degno “compariello”, i tesisti del falso vescovo domenicano francese, tutti gli adepti delle sette sedevacantiste – eretiche e scismatiche, i mille cani sciolti, liberi lupi rapaci a vario titolo – ndr. -). Mentre gli ex apologeti tacciono, mentre i politici se ne stanno con le mani in mano, mentre i Cattolici liberali intrigano, una bocca impazzita a Ginevra diventa occasione di esilio del dolce Mermillod; dei miserabili preti si intrufolano nelle parrocchie del Giura cattolico; Bismarck assalta tutti gli stabili ecclesiastici della Germania, e cospira con Minghetti per sopprimere praticamente il Papato, aspettando la morte di Pio IX, l’occasione, sperano, per mettere le mani sulla Chiesa di Gesù Cristo (cosa avvenuta nel 1958 con il massonico Conclave-farsa delle marionette di bianco-vestite ed il Conciliabolo rivoluzionario roncallo-montiniano – ndr. -), per consumare, come risultato, la degradazione e la schiavitù della razza umana. Tutti questi politici professano una dottrina per guidare la loro condotta e, in apparenza, motivare i loro attacchi. In altri tempi i persecutori si chiamavano gellicani; il gallicanesimo non era solo un attacco alla supremazia dei Papi; con i suoi pro e contro, con le sue idee particolari su dogma, morale, disciplina e liturgia, presentava, da un lato, una concezione religiosa molto diversa da quella rappresentata dalla Chiesa e dalla tradizione cristiana; d’altra parte, ammettendo la legittimità dei prestiti usurari e l’assoluta indipendenza dei re, tendeva a creare un ordine ben diverso da quello cattolico. Da entrambe le parti, attraverso la corruzione iniziata nella società civile e nell’ordine ecclesiastico, si ritornava alle tradizioni pagane, precipitando verso la rivoluzione. Oggi, le nostre politiche si chiamano radicali, liberali, repubblicane, parlamentari, costituzionali o monarchiche – « questo è, se ci viene passata l’espressione, il titolo per decorare la facciata del negozio ». Sotto denominazioni apparentemente innocue ed anche sedicenti generose, hanno tutti, contro la Chiesa e la Santa Sede, una dottrina comune. Gambetta e Thiers pensano come Gladstone, come Minghetti, come Bismarck: sotto l’apparenza di forme ingannevoli, è nascosta sempre l’ipocrisia violenta e l’oppressione brutale. L’individuo reclama le franchigie che aiutano la corruzione, l’individuo rifiuta le franchigie della virtù; la società vuole certi diritti che si rivolgono tutti alla consacrazione della tirannia e alle latitudini della persecuzione, ma niente che si rivolga a vantaggio della verità e della giustizia cristiana. Ciò che tutti propugnano sotto vari nomi, adornandosi dei colori del benessere e della libertà, difendendo, come dicono, le immunità del potere e le prerogative dello Stato, è l’esclusione sociale della grazia di Gesù Cristo, l’oppressione della coscienza cattolica, la schiavitù della Chiesa, la confusione di tutti i poteri nella mano del principe e, per dirla in breve, il cesaro-papismo. Il cesaro-papismo è il culmine forzato, la cloaca di raccolta di tutti gli errori contemporanei, la loro formulazione dottrinale e la loro applicazione sociale; il principio storico del cesarismo è il libero esame di Lutero e il libero pensiero di Cartesio; il suo primo tentativo di organizzazione è il gallicanesimo di Luigi XIV e Napoleone; il suo attuale promotore, la massoneria; il suo esecutore di opere alte, la rivoluzione demagogica o coronata; il suo ultimo termine, è Cesare sovrano-pontefice, è il potere dio e bestia, è la legge divenuta lo strumento di sterminio del Cattolicesimo, è il grido di guerra: « I Cristiani ai leoni! ». – Dopo aver attraversato il cerchio dell’evoluzione cattolica, la civiltà è tornata al suo punto di partenza: alla guerra contro la Chiesa ed i Pontefici Romani, alla persecuzione dei Cesari. Quello che può venir fuori da questo, per il bene dell’ordine pubblico, lo possiamo imparare dal recente passato. Cento anni fa Luigi XIV poteva vedere i suoi figli sui troni d’Europa dalle profondità della tomba; il gallicanesimo fioriva ovunque all’ombra dei troni borbonici. Dove sono oggi i Borboni del patto di famiglia? L’ultima discendente di Luigi XIV è appena caduta dal trono: era una donna, una regina costituzionale, riconciliata con i nemici della sua famiglia, e, in ogni caso, secondo la teoria parlamentare, non le si poteva rimproverare nulla. Tuttavia, il trono cadde; nonostante questo gallicanesimo, supposto protettore del potere, la Francia, la Spagna, il Portogallo, Napoli e la Toscana cacciarono i Borboni; l’errore che doveva coprire questi principi contro gli sconfinamenti della Santa Sede servì solo a creare loro dei nemici; la civiltà andò addirittura in una direzione contraria agli interessi di questi Stati, e la rivoluzione, che minaccia tutti gli insediamenti umani, minaccia le razze latine con estromissioni ancora maggiori. Il mondo sta attraversando una di quelle terribili crisi da cui può nascere un cambio di stato per la proprietà e la sovranità. Ma questa nascita è laboriosa; le fazioni possono distruggere tutto, le false dottrine possono rovinare completamente questo lavoro meticoloso. A seconda della direzione, questo movimento può rialzare o abbassare tutto. Ciò che manca è la luce degli insegnamenti cattolici, i benefici della Santa Chiesa, la guida sicura della Santa Sede. La Chiesa libera sarebbe venuta in questo povero mondo con un cuore pieno di misericordia e mani piene di grazia, per guarire le sue ferite, per dirigere i suoi sforzi, per regolare le sue aspirazioni. – La rivoluzione dall’alto dà una mano alla rivoluzione dal basso per compromettere tutto; è al deviato che domanda la scienza delle soluzioni giuste e il segreto delle opere progressive. Dei Cattolici stessi, lo dico con dolore, dei cattolici vestiti con la livrea del liberalismo, accettano, in linea di principio, le dottrine della rivoluzione, quello che chiamano il suo buono spirito e le sue felici conquiste, la giustapposizione della Chiesa e dello Stato, il potere costituente e sovrano della società civile. Contro questo Cattolicesimo liberale, è giunto il momento che la Cattedra Apostolica si armi di fulmini. Nel frattempo, dobbiamo affrontare la persecuzione. La persecuzione non può sorprendere né affliggere i Cristiani. Il discepolo non è al di sopra del maestro; anche il martirio è una grazia, e quando Dio permette che le ipocrisie e la violenza della persecuzione si scatenino contro di noi, ci tratta come figli viziati dalla sua Provvidenza. Ma per ottenere la grazia legata alla persecuzione, bisogna lottare. In mezzo alle nuove lotte, dobbiamo ricordare la lunga serie di vecchie vittorie; dobbiamo ricordare le memorie che ci sostengono e i diritti che ci proteggono; dobbiamo essere santi nella nostra fame di rigori ostili, di prigioni e di catene; dobbiamo stare ai piedi della croce, aspettando di salirvi. Anche noi, quando saremo sacrificati, attireremo tutto a noi con il richiamo del sacrificio e il potere invincibile delle immolazioni. – Opponiamo dunque la nostra memoria e i nostri diritti ai nemici ciechi che si coalizzano per schiacciarci. Che questa proclamazione fermi, se ancora c’è tempo, il tradimento di oggi e prepari, in ogni caso, il beneficio delle lotte di domani. Non saremo mai noi a sottrarci alla gara di coraggio. Abbiamo un’istruzione dal cielo che ci anima al coraggio e abbellisce tutto, anche la morte: Confidite, ego vici mundum.

ZELO MASSONICO PER L’ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE

ZELO MASSONICO PER L’ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE

[La Civiltà Cattolica – Anno trigesimo secondo, Serie XI, Vol. VI, Quaderno 743 – Firenze, presso Luigi Mannuelli, libraio, 4 giugno 1881]

I.

Lugubre veramente, sott’ogni rispetto, è sorta fra noi la state di quest’anno. Mentre da una parte l’esecuzione della pena capitale, centro tre soldati omicidi, riscalda le ire di certa gente e fa tener vivo il fuoco artificiale della pietà umanitaria verso gli assassini; dall’altra il eh cholera-morbus, che minaccia l’Italia dal mare e dall’alpe, sbigottisce le menti così, che non si ode parlare se non di casi, di decessi, di quarantene, di lazzaretti, suffumigi, di microbi e di bacilli contagiosi: cose tutte che funestano gli animi e mostrano come Dio serbi sempre in vigore, per la sua giustizia, quella pena di morte, che i protettori degli assassini pretenderebbero dall’umana giustizia abolita per sempre e maledetta. – Or, lasciato da banda il cholera, che preghiamo la celeste Clemenza rimovere dalla nostra Italia, e posta pure da un canto la questione giuridica della pena di morte, la quale non abbisogna di nessun nuovo argomento che la giustifichi, ci piace mostrare più tosto da chi e perché propriamente venga la fittizia agitazione contro questa pena; agitazione che ora ha per effetto di ribattere nelle fantasie l’idea della morte, quando appunto l’umanitarismo sembrerebbe richiedere che più se ne allontanasse.

II.

Per indovinare d’onde venga il chiasso che si seguita a menare contro la triplice esecuzione della pena di morte, avvenuta militarmente in Italia, basta guardare i campioni che la promuovono, ed i giornali loro. Sono in genere adepti della massoneria, ed in ispecie delle sette radicali e socialistiche da essa dipendenti. Il Fascio della democrazia, che di tutte queste è portavoce il più stridulo, se non il più autorevole, dà il tono del linguaggio che tutti più o meno sdegnosamente adoperano. « La vecchia Europa è assetata di sangue; gridava esso dopo le fucilazioni degli ufficiale traditori in Ispagna e dei soldati omicidi in Napoli ed in Palermo; Italia e Spagna sono oggi le prime a dare l’esempio della reazione e dell’efferatezza. » (Num. Del 1° luglio 1884). Per questo foglio, le fucilazioni suddette sono « orribili vendette giudiziarie; » né ci regge l’amino di trascrivere le truculente parole con cui compiange gli esecutori, ed esalta le vittime segnatamente spagnuole, il cui unico delitto, dic’egli, essere stato l’amore e  l’accarezzamento d’una, « bella e fulgida idea, quella della Repubblica. » –  Sia con pace di questi signori: ma quando essi batteron mani le agli eccidii di Ponte Landolfo e di Casalduni ed alla fucilazione degli undicimila e più napolitani, chiamati briganti, perché colle anni in pugno resistevano all’invasione del loro suolo, che altro facevano essi, se non plaudire all’uccisione di vittime, che pur aveano amata un’altra idea, la quale stimavano « bella e fulgida», più ancora di quella della Repubblica? La spietata fucilazione di tante vittime del loro patriottismo non fu efferatezza pe’ nostri settarii: ma quella di tre assassini e di due traditori della bandiera, cui avean giurata fedeltà, è stata « orribile vendetta giudiziaria? » – Ma questa è la logica delle sette, le quali abborriscono dal sangue, finché si tratti del loro o di quel dei loro amici e fratelli, ma vi anelano ansiosamente, quando si tratta di quello degli avversari e de’ nemici loro. Questa gente, così umanitaria, pietosa e schifa della pena di morte, è quasi tutta uscita dalla scuola della famiglia della Giovine Italia del Mazzini. Eppure tanto questo ramo della carboneria massonica non abbominava la pena di morte, che ne’ suoi statuti si leggono i seguenti cinque arciumanitari articoli; i quali troppo si sa come spesso fossero pietosamente eseguiti.

« Art. 30. Coloro che non obbediranno agli ordini della società secreta, o che ne riveleranno il mistero saranno pugnalati senza pietà. Il castigo medesimo è riservato ai traditori.

« Art. 31. Il tribunale secreto pronunzierà la sentenza e designerà uno o due affigliati, per l’immediata sua esecuzione.

« Art. 32. Chiunque ricuserà di eseguire il decreto sarà tenuto in conto di spergiuro, e come tale ucciso su due piedi.

« Art. 33. Se il reo fugge, sarà perseguitato senza posa in ogni luogo, e dovrà esser colpito da una mano invisibile, fosse pure nel seno di sua madre, o nel tabernacolo di Cristo.

« Art 34. Ogni tribunale secreto sarà competente, non solo per giudicare gli adepti colpevoli, ma per far mettere a morte chiunque avrà colpito d’anatema. »

E gente che ha succhiato il latte dal petto di una madre così mite e dolce, ardisce dare nelle smanie contro la pena di morte applicata agli assassini?

III.

Non si creda però che l’odio alla pena di morte, sentenziata ed eseguita fuori dei covi settarii, sia per cosi dire una fisima propria soltanto di alcune speciali congreghe carbonaresche: no, esso è inerente alla Massoneria tutta intera, la quale, sotto specie di filantropia, ovunque può, si studia di farla cancellare dai codici degli Stati, o almeno di farla smettere dalla pratica e andare in disuso. – Già il più essa ha ottenuto, può dirsi in ogni paese civile; cioè che questa pena fosse di diritto e di fatto levata dai codici, per quel che riguarda i detti delitti politici. E in effetto ora, gran mercè della Massoneria, chi suscita una rivoluzione in cui periranno, se occorre, più migliaia di vite umane, non può essere giustiziato da nessun tribunale; tranne il caso nel quale la rivoluzione sia contro la setta, poiché allora la giustizia sommaria si eseguisce senza misericordia. Per tal modo la setta si è assicurata una giuridica impunità, che toglie a’ suoi adepti il timore di tentare ogni enormezza; quantunque debba questa avere per conseguenza l’eccidio di popoli e di nazioni. Dato che un vero delitto rivesta un colore solo di politico, purché non sia a danno della setta, divien per ciò stesso delitto privilegiato. Ma questo non è sufficiente La setta vuole abrogato il diritto legittimo e teorico della pena di morte in tutti gli Stati, per usurparsene essa solo l’uso, quando convenga. E intorno a questa abrogazione, promessa in Italia dalla Massoneria, abbiam davanti agli occhi nostri curiosi documenti, che non sarà inutile mettere sotto quelli dei profani.

IV.

L’anno 1865, alla congrega, divenuta pubblica dopo che Napoleone III, coll’oro e col sangue della Francia, le aveva posta in mano l’Italia, parendo d’essersi bastevolmente assodata, venne in animo di fare una prima prova per conseguire l’abolizione legale della pena di morte: ma insieme con quest’abolizione volle congiungere anche quella degli Ordini religiosi, affinché, mentre si toglieva la libertà di vivere come frati ai frati, guarentisse quella di vivere come assassini agli assassini. – Allora nel Bollettino del Grande Oriente d’Italia si presero a dare incitamenti a tutte le logge, perché si unissero a fare con una fraterna petizione, dolce violenza ai fratelli del Parlamento. – A pagina 114 del fascicolo III e IV del suddetto Bollettino, sotto il titolo Una Petizione, il Grande Oriente comunicava tutte le logge quel che segue: « I principi fondamentali che reggono ed ispirano la famiglia dei Liberi muratori,  i quali vogliono e studiano, armati della solidarietà e della scienza, la redenzione del popolo dalle catene dell’ignoranza (cioè della religione e fede cristiana) dalla cieca soggezione alle tradizioni assolute (cioè al legittimo diritto sociale ed all’autorità pubblica) ed alla miseria che abbrutisce (cioè al rispetto della proprietà altrui) non potevano lasciar indifferenti i fratelli alla alte Controversie, che stavano per aprirsi nel Parlamento italiano sull’abolizione della pena di morte e sulla soppressione delle Corporazioni religiose.Abbiamo sott’occhio parecchie tavole (lettere) di legge, le quali si volgono al Grande Oriente, perché, qual suprema magistratura dell’Ordine, coordini l’azione e gli sforzi di tutti i fratelli, imprima loro quella efficace unità, che è già per sè stessa una mezza vittoria. » Quindi partecipava al mondo massonico d’Italia la lettera della loggia Ferruccio di Pistoia, che dichiarava di « non potere rimanersi muta, ora che l’Italia si agita e si affatica a risolvere due questioni, dalle quali pende tanta parte de’ suoi destini. La soppressione delle Case religiose e l’abolizione della pena di morte vogliono estero la conquista dell’età nostra. Quella è pegno di vita più prospera alla nazione, questa fa tornare l’Italia un’altra volta alla testa dell’incivilimento. » Perciò domandava che « dai templi massonici s’alzasse la voce, a difesa delle due grandi proposte. » – Ov’è da notare di passaggio, che questa cara Massoneria, così ingenua nel beneficare ed innocente di imbrogli politici, faceva dipendere gran parte dei suoi destini nel nostro paese, dall’eccitare alla rapina dei beni de’ Corpi religiosi e dal privar questi della libera loro esistenza, e poi dall’assicurare in ogni caso la vita ai più solenni malfattori, omicidi e ribaldi, che fossero per venir su nell’Italia. Inoltre merita considerazione che, per questa onestissima Massoneria, il rubare i beni agli Ordini religiosi e dare così al popolo un esempio pubblico e legale di socialismo, era un pugno di vita più prospera alla nazione,la quale quanto se ne sia perciò prosperata, lo mostra la recente Inchiesta agraria, messa a stampa per ordine del Governo; ed il dare piena sicurtà a tutti gli assassini, che potrebbero assassinare sempre e chi si fosse e da per tutto, salva la vita, ora un far tornare l’Italia un’altra volta alla testa dell’incivilimento.

V.

Posto ciò, seguita il Bollettino, « il Grande Oriente ed il Gran Consiglio per esso, non aveva bisogno di tali manifestazioni per riconoscere l’unanimità dei fratelli, per chiedere l’abolizione del patibolo e del chiostro (Bell’accoppiamento, degno del tutto del Grande Oriente che lo ha fatto!). Egli crede che tutti i fratelli, in tutte le forme della legge concesse, debbono e sempre adoperarsi, perché cadano istituzioni dei mezzi tempi, istituzioni create dal privilegio e dalla superstiziosa ignoranza (il professare i consigli del Vangelo di Gesù Cristo è superstiziosa ignoranza!) perché siano rotte le catene che ancora inceppano il libero sviluppo dei popoli, (il quale dipende dalla rottura delle catene che inceppano la libera vita degli assassini),perché sia riconosciuta la inviolabilità della vita umana. » – Conseguentemente autorizzava che « si diramasse una petizione, formulata da un fratello, nel modo che segue: Al Parlamento italiano. I sottoscritti cittadini italiani dimandano che piaccia al Parlamento 1° di abolire la pena di morte; 2° di sopprimete tutte le Corporazioni religiose, volgendone i beni a strumento di benessere, e di civiltà (per la borsa dei giudei e dei giudaizzanti, che soli si son goduti il benessere di questa civiltà). – Poscia a pagina 110 si legge la circolare, sottoscritta dal gran cancelliere Mauro Macelli 33 :., a tutte le logge, colla quale il Grande Oriente « consigliava tutti i fratelli ad adoperarsi pel trionfo delle due grandi misure, e tutti i venerabili a diramare la petizione da farsi sottoscrivere, con tutto lo zelo possibile, anche nel mondo profano. » Dal che si deduce il modo che tiene la Massoneria, per formare la così detta opinione pubblica;  e quanto facilmente molte persone da bene, ma dolci di sale, si lascino carrucolare dagli apostoli di una civiltà, che vuole intronizzarsi mediante la rapina e la protezione degli assassini. – La petizione, ideata e caldeggiata dai massoni, non ebbe in tutto l’esito propizio che la setta se ne riprometteva. La Camera, composta di uomini che poco prima si esano promulgati da sé tutti rivoluzionari,  approvò l’abolizione del patibolo; ma il Senato fu contrario e la legge non passò. Allora nella parte ufficiale, si noti bene, nella parte ufficiale, nel fascicolo V-VII del Bollettino si stamparono, alla pagina 145 queste parole. « Liberamente e nei più convenevoli modi la nostra famiglia ha combattuto la pena di morte e gli Ordini monastici. Se la vittoria non ha coronato i suoi voti, non conviene perdersi l’animo. Gli ostacoli surti porranno in maggior evidenza fa necessità di siffatta misura, parte essenziale dell’italiano, o per dire più esattamente, dell’umano progresso. E noi dobbiamo per l’avvenire continuare sulla medesima via. » – Ma poi a pag. 189 il fratel De Poni, allora pezzo grossissimo di questa massoneria da teatro, non esitò a sfogare le ire sue sublimi, con queste parole che sono degne d’esser meditate dai senatori. « I  liberi muratori italiani dichiararono la loro opinione sulla pena di morte, diffusero lo dottrine (sofistiche) che la combattono (a vantaggio unico degli assassini), sostennero l’inviolabilità della vita umana (In prò degli assassini che la possono violare per conto proprio) e la chiesero sanzionata da legge. Il partito nella Camera elettiva (in cui prevalevano i fratelli massoni) fu vinto. Se il carnefice resta in Italia, pel bigottismo e la servile timidità del Senato, non è per questo che puntellato il patibolo: la sanguinosa e orrenda baracca cadrà al primo soffio di vento. Lo stesso possiamo dire delle Corporazioni religiose, che col sacrifizio legale di vittime umane s’hanno parentela strettissima, poiché il nodo che cinge le reni al frate e il capestro del boia non sieno che le estremità d’una medesima corda. » – E con ciò  gli sfoghi officiali ed officiosi della Massoneria italiana, nel suo Bollettino, a tutela degli assassini ed asterminio dei poveri frati, ebbero termine.

VI.

Niuno creda per altro che il rifiuto del Senato di aderire all’umanitaria petizione della setta, nocesse di molto alla vita dei trucidatori di vite umane. Tutt’altro, La pena capitale restò ferma nel codice, por alcuni pochissimi od atrocissimi casi di delitti di sangue: ma la pena, benché applicata con giuridiche sentenze, per non offendere il delicatissimo cuore dei massoni predominanti, ebbe assai rare esecuzioni. Ecco di fatto quel che ci danno le statistiche autentiche. L’anno seguente all’abolizione rigettata dal Senato, e fu il 1866, i tribunali condannarono al supplizio 81 reo, ma nessuno vi fu sottoposto, Noi 1807 si ebbero 75 condannati, ma 7 soli giustiziati. Nel 1868 furon condannati 72, e giustiziati 7. Nel 1869 sopra 111 condanne, 4 se ne mandarono ad effetto. Nel 1870, sopra 102 condannati, Vi fu un unico giustiziato. Nel 1871 si condannarono 121 e si giustiziarono 2 soli rei. Nel 1872 si ebbero condanne 41, giustizie fatte 2. Nel 1873 esecuzioni 5, sopra 72 condanne. Nel 1874, esecuzioni 3, sopra 87 condanne. Gli anni successivi, benché molte sieno state lo sentenze capitali pure non se n’è più eseguita nessuna, fino al giugno e luglio di quest’anno, quando si son fucilati i tre soldati omicidi, non tanto perché omicidi, quanto perché soldati: ed il frutto è stato che l’Italia è salita alla gloria di un primato che non ebbe mai; quello degli assassinio Così, secondo il voto della loggia massonica di Pistoia, più presto che non si fosse potuto sperare l’Italia si è messa a capo di un nuovo incivilimento, che la rende invidiata dalle Pellirosse e dagli Zulù.

VII.

Si domanderà: — Ma qual è la vera e propria ragione di questo zelo della Massoneria, per far abolire la pena di morte?

Rispondiamo che non è certo l’umanità, poiché, o volere o non volere, umano non è il Potere che assicura in ogni peggior caso la vita ai ribaldi, i quali amano lavarsi le mani nel sangue altrui; ma più tosto quello che toglie giustamente la vita agli uccisori degli altri, per difendere così la vita dei cittadini, minacciata sempre dagli omicidi impuniti. – Ma oltre ciò non è l’umanità, che muove la Massoneria a pretendere che si risparmi la vita degli assassini; giacché la setta se si abolisse la pena capitale, la rimetterebbe in vigore, subito che si levassero avversari a tentare di strapparle il predominio che si è usurpato. Fate che scoppiassero insurrezioni contro il suo Governo, che si formassero bande armate per restituire lo Stato, puta caso, al Re di Napoli o al Papa; e vedreste con che furore i fratelli massoni domanderebbero il capo, il cuore, le viscere e il sangue di quei nomici della patria, perché opposti alla tirannia loro. Fate che, perduta la signoria, la setta fosse necessitata di tornare a farsi secreta; e rivedreste i pugnali dei suoi sicari,  insanguinar di nuovo le nostre città, come prima che il Bonaparte calasse dalle Alpi per apportare all’Italia la libertà del suo giogo: con questo di più, che l’umana setta, ai pugnali od alle rivoltelle traditrici, aggiungerebbe il petrolio, la dinamite e la panclastite, tutte dolcezze umanitarie e carezze familiarissime ai buoni fratelli, per farsi rispettare dai profani e dai nemici. Non ci vengano a dire, che essi amano la mitigazione delle pene, perché il popolo più incivilito, come ora è, si rattien facilmente dal delitto con mezzi più soavi. Questo poté esser vero in passato per alcune regioni, e fu vero segnatamente per la Toscana. Ma ora con quale fronte può asserirsi vero per tutta la nostra Italia, nella quale i delitti di sangue crescono ogni anno a tale, che ella supera in ciò tutti i paesi inciviliti dell’Europa? – La civiltà massonica, che da venticinque anni in qua viene ammorbando la Penisola da un capo all’ altro, ben mostra che la sua efficacia non ha atto, se non per viziare e corrompere i popoli sui quali, come tabe cancrenosa, si diffonde. Un paese che conta più di 70,000 condannati al carcere o alla galera, che offre annualmente più di 23,000 minorenni ai tribunali da giudicare, che è ogni anno contaminato da migliaia di assassinamenti, che dà in un anno, qual è stato il 1882, quasi 1400 suicidi, non è né può dirsi paese incivilito: o ci ricordiamo di un ministro di grazia e giustizia della nuova Italia, il quale, parlando appunto della Toscana, il cui codice esclude la pena di morte, diceva necessario introdurvela; perocché la Toscana annessa al regno d’Italia, quindici anni dopo la civiltà novella, non era più la gentile Toscana dei Leopoldi, né primo, né secondo che ignorava quasi il maneggio dello stile o del coltello. – Di fatto l’esperienza prova che la civiltà massonica, compendiata nella sua pedagogia, anticristiana, atea, materialistica, è bensì ottima a fprmare generazioni di sicari e di furfanti, ma inabile a dare cittadini, cui possa competere il nome di galantuomini, nel significato antico e proprio di questa voce.

VIII.

Altre e ben altrimenti maligne sono le ragioni che incitano la setta a far la tenera, per la inviolabilità della vita degli assassini; e son sempre conformi a’ suoi principi d’odio inestinguibile ad ogni sociale potestà: « La grande campagna, scrive ottimamente l’Unione di Bologna, da tempo impresa dalla Massoneria per l’abolizione della pena di morte, ad altro non mira appunto se non che a rendere impossibile nei Principi e nei Sovrani l’esercizio pratico, effettivo, fecondo e salutare sì del diritto di pena, come di quello di grazia in quanto che, posto un limite qualsiasi ad un diritto, questo che è di sua natura indivisibile, così scisso e diviso, intisichisce e muore in tutto il resto. Col negare infatti la pena di morte, si limita e si circoscrive il diritto di punire nella parte sua più imponente, più tremenda, più esemplarmente salutare: in quella parte precisamente che rivela e dimostra l’origine divina e sovrumana di questo grande diritto, onde Dio ha investito i supremi reggitori dei popoli e delle nazioni. « Sfuma a fronte di ciò il massimo sofisma adoperato di continuo dagli abolitori della pena di morte, essendo che non si può dire che l’uomo non è padrone della vita dell’uomo, poiché solo per autorità avuta direttamente da Dio, e perciò dal Padrone assoluto della vita dell’uomo, il Principe può dannare e danna nel capo un delinquente. Ora questo supremo diritto è stato completamente emanato e naturalizzato, e molti Principi e molti Governi, ora in principio ed ora in fatto, hanno lasciato così radicalmente snaturarlo (Num. 13 luglio 1884). » – La setta, che anela a sbandire Iddio da ogni appartenenza sociale, sopra tutto lo vuol fare fuori dell’autorità. Un Re, sia pur costituzionale quanto piace, nel cui nome si condanni un reo alla morte o se liberi per grazia dopo la condanna, è un Re nella cui fronte brilla ancora un raggio di diritto divino. Or questo abbaglia l’occhio della setta, che nel Dio vivo e vero, autore e supremo Signore dell’umana società, riconosce il suo nemico. Si gridi adunque tanto, e tanto si congiuri contro la pena capitale, che si renda impossibile ad un Re, in quanto Re, di farla eseguire per diritto, ed il farla commutare per grazia. Ed in verità, seguita ragionando l’egregio diario bolognese: « Bisogna che s’invochino motivi di ordine al tutto secondario, per coonestare di qualche guisa l’esercizio effettivo di questo supremo diritto, come nel caso delle fucilazioni testò avvenute in Italia,  in cui si ricorse alla necessità di mantenere la disciplina nell’esercito, Ma questa è una vera petizione di principio, che per  nulla giustifica l’eccezione che si reca alla regola assunta di abolire in fatto la pena di morte, giacché il mantenimento della disciplina è un effetto pratico e susseguente alla fucilazione, ma non èe non può essere la ragione sufficiente della pena di morte. Tanto è vero che il soldato insubordinato e ribelle è condannato e fucilato in nome e per ordine del Principe, non mai è condannato e fucilato in nome e per ordine della disciplina, cosa astratta, senza anima e senza corpo, e quindi senza diritto, senza azione e senza forza.» – Con questo si fa chiaro il misterioso perché dello zelo massonico, per abolire nella teorica e nella pratica il ius sanguinis, il  ius gladii, inerente per intrinseca essenza alla suprema Potestà sociale, Ciò intende la Massoneria occulta; e lascia che un’altra Massoneria da strapazzo tenga il campo a rumore, con sciocchi pretesti; i quali non valgono nulla a provare la giustizia dell’adizione di quel diritto, ma valgono molto renderne frustraneo ed esoso l’esercizio.