VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (5)

VITA
dell’Angelico Dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (5)


dell’ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti
Card.
Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA – FRANCESCO FERRARI, 1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

31. — La Somma Teologica.

Scongiurato il pericolo, Tommaso restò nella sua cella di Santa Sabina ringraziando il Signore per la quiete che gli aveva conservato; e si sentì obbligato ancor più ad un assiduo lavoro per il bene della Chiesa. Pose allora mano a quell’opera grandiosa, a cui doveva per sempre legare il suo nome: La Somma Teologica. Il lavoro durò circa nove anni, alternato alla composizione di altre varie opere più o meno estese, come i mirabili Commenti sopra Aristotile e molti trattati più o meno lunghi, raccolti sotto il titolo di Quodlibeti, Questioni disputate ed Opuscoli, scritti la maggior parte per rispondere a quesiti che da varie parti gli venivano mossi. – Nel ripensare a così poderoso lavoro e al breve tempo che vi impiegò, non ci fa meraviglia se leggiamo di lui, e troviamo confermato nei Processi, che dettasse talvolta a tre e quattro scrittori ad un tempo, di diverse materie. Ma nulla è impossibile a Dio, che volle in Tommaso stampare una vasta orma del suo infinito potere. – L’idea di San Tommaso nel metter mano alla Somma Teologica non poteva esser più modesta. Volle unire, ei ci dice, come in compendio, nella forma di brevi articoli, quanto da diversi era stato scritto intorno alle dottrine cristiane, e quanto egli stesso aveva scritto più ampiamente in altri luoghi; fare quasi una compilazione a vantaggio degli incipienti e con un metodo ad essi proporzionato; perché molti, dalle troppe questioni che si facevano e dalla mancanza di ordine, restavano confusi ed impediti. Ne sorse invece un capolavoro immenso, il primo e il più complesso insieme di Teologia cattolica, che fosse fino allora comparso, e tale da togliere a chiunque la speranza di superarlo. Pel numero delle questioni risolute da lui in ogni loro parte intorno a Dio e alle opere sue, può chiamarsi una portentosa enciclopedia, mentre per l’ordine meraviglioso e per l’esatta rispondenza delle parti abbiamo il diritto di dirla una sintesi perfetta, a cui nulla manca, né la necessaria chiarezza, né la scrupolosa precisione, né la vigorosa brevità, né la sicurezza assoluta della dottrina. – La Somma Teologica è divisa in tre grandi parti, di cui la seconda, per la vastità della materia, è suddivisa in due. Da Dio uno e trino tutte le creature procedono; gli Angeli e l’uomo sono le più perfette. Degli Angeli quei che peccarono sono in eterno lontani da Dio; l’uomo peccò, ma trovò presso Dio misericordia e grazia per Gesù Cristo, che è lo stesso Dio fatto carne. Chi sta unito a Cristo e si giova dei mezzi da lui stabiliti, salirà al possesso eterno di Dio; chi non vive di Cristo resterà in eterno lontano da Dio. Tale è il concetto semplice e meraviglioso di tutto il lavoro, che in 512 questioni, divise in 2652 articoli, nulla tralascia di quanto spetta alle materie teologiche e morali necessarie a conoscersi dagli studiosi. Le grandi intelligenze, di cui Iddio aveva fatto dono al mondo fino allora, non avevan saputo crear nulla di simile, né alcuno poi, in questa materia, ha potuto o saputo far meglio che tener dietro a lui. – Nessun libro ha avuto dalla Chiesa tante lodi come la Somma, e basti in luogo di tutte il fatto, che nel Concilio di Trento essa venne posta dai Padri in mezzo all’aula insieme alla Sacra Scrittura e ai decreti dei Pontefici, come la guida dottrinale più solida che potessero trovare. Il lavoro fu cominciato nel 1265, quando San Tommaso ebbe evitato il pericolo dell’elezione ad Arcivescovo di Napoli. Lo continuò, salvo alcune interruzioni, fino al 6 dicembre del 1273, e, come vedremo, lo lasciò interrotto. Venne completato dal suo fedele compagno, Fra Reginaldo da Piperno, con un Supplemento, tratto in gran parte dai Commentari del Santo Dottore sui Libri delle sentenze di Pietro Lombardo.

32. — Al Capitolo di Bologna.

Per il Capitolo Generale del 1267 era stato scelto dai Padri il Convento di Bologna. Fu appresa con somma gioia in quella città la notizia, che vi si sarebbe recato, in tale occasione, il celebrato Dottore; e la celebre Università soprattutto si tenne sommamente onorata di riceverlo e di udirlo. – Raccontano gli storici che la venuta di Tommaso in Bologna pose in tutti quei Professori e studenti come un nuovo ardore per lo studio della verità. Le lezioni che vi tenne per varie settimane restarono memorabili; e si sa che Tommaso condiscese volentieri a rispondere a molti quesiti che gli vennero fatti; così si ebbero nuovi e importanti opuscoli che poi furono raccolti. Ma un vero motivo di gioia ebbe Tommaso da quel viaggio, per essersi potuto trovare ad una cerimonia che fu oltremodo cara al suo cuore di figlio di San Domenico. Il 6 di agosto del 1221 il Santo Patriarca, in Bologna, spirava serenamente, tra il pianto dei suoi figli, che, per eseguire la sua volontà, lo avevano sepolto in umile luogo. Ma il 24 maggio del 1233 il suo successore, il Beato Giordano di Sassonia, aveva fatto aprire la tomba ed aveva trovato il cadavere incorrotto ed esalante gratissimo odore; ed aveva ordinato che venisse collocato in una tomba di pietra all’ingresso del coro. Il 3 luglio del seguente anno Gregorio IX proclamò solennemente la santità del grande Fondatore dei Predicatori; e si pensò allora ad una tomba più decorosa. Si dové alle premure del Beato Giovanni da Vercelli, quando fu eletto Provinciale di Lombardia, l’iniziativa del nuovo lavoro; ed eletto, come vedemmo, nel capitolo di Parigi, Generale dell’Ordine, fece decretare dal Capitolo seguente di Montpellier la costruzione di un solenne monumento, come veniva chiamato. Fu posto mano all’opera ; e sapendo che nel 1267 il lavoro sarebbe stato pronto, ottenne dai Padri adunati l’anno innanzi a Treviri che il Capitolo del 67 si tenesse in Bologna. E veramente solenne fu il lavoro che nella primavera della nostra scultura uscì dalle mani dei maestri di Pisa, e specialmente del bravo e dolce Fra Guglielmo, che lavorò per intiero, o almeno in gran parte, le ammirabili storie dello stupendo sarcofago. Aveva preso l’abito di converso nel convento pisano di Santa Caterina, ed aveva soli 26 anni quando si recò a Bologna con Niccola suo maestro, che dai Domenicani aveva avuto la commissione dell’opera; e ben volentieri il Maestro concesse al bravo artista di lavorare attorno alla tomba del Padre diletto. In due anni la bellissima arca fu scolpita, e così la nuova traslazione del corpo del Santo Padre poté essere onorata dalla presenza di tutti i Padri capitolari. Con essi e con quelli accorsi da varie parti, i religiosi raggiunsero il numero di cinquecento. – In questa bella schiera troviamo dei santi, come lo stesso Beato Giovanni da Vercelli, il Beato Giacomo da Varazze, poi Arcivescovo di Genova e il Beato Bartolomeo da Braganza, già Vescovo di Vicenza. Ma era dolce il vedere nella bella schiera spiccare la figura di San Tommaso, il più grande tra i figli di tanto Padre. – Alla festa celebrata nel giorno 5 giugno, solennità di Pentecoste, prese parte il Potestà di Bologna con tutto il suo seguito; e Clemente IV inviò speciali indulgenze. In tale circostanza San Tommaso mostrò il suo cuore di figlio, scrivendo in lode del Santo Patriarca un sermone, ove lo rassomiglia al sole, ministro di generazione delle cose, che le vivifica e nutre, le aumenta e perfeziona, le purifica e le rinnova. – Dopo il Capitolo di Bologna, se ne tornò a Roma sollecitamente, ove continuò nella quiete a lavorare attorno alla Somma.

33. — Al Re di Cipro.

Tra gli scritti che gli storici assegnano al tempo della dimora dell’Angelico Dottore in Bologna è degno di esser ricordato l’opuscolo del Governo dei Principi. Come già alla Duchessa del Brattante aveva il Santo Dottore indirizzato un opuscolo sapientissimo su varie questioni, specialmente sul modo di governare i Giudei, così ad istruzione del giovane Ugo II, Re di Cipro, della nobile dinastia dei Lusignani, cominciò a scrivere in Bologna quel celebre trattato, ove parla delle origini del potere, dei diritti e doveri dei governanti, e dell’esercizio della sovranità. Ma essendo morto, prima della fine di quell’anno 1267, il giovane Re, quel libro rimase incompleto e fu poi terminato dal suo discepolo Fra Tolomeo da Lucca, credesi sopra appunti lasciati dal Maestro. – Nei diciannove capitoli dovuti interamente al Santo Dottore si hanno mirabili documenti della sua alta sapienza. Dalla sorgente stessa del vero essa traeva le sue origini, e ben poteva estendersi anche alla pratica delle cose umane ed alla stessa politica, che non è arte astuta per reggersi sopra un trono od in un seggio qualunque, ma scienza diretta a ben governare gli uomini: e nessuno avrebbe allora pensato che per far godere ai popoli la prosperità materiale fosse espediente il privarli di quei beni dello spirito che la religione soltanto può dare. – Fu certo mirabile cosa il vedere un religioso mendicante che, senza uscire nemmeno di un passo dalla sua condizione, diveniva precettore dei re, e dall’umile sua cella dava lezioni ai potenti della terra. La superiorità morale di quest’uomo si sente dalla stessa nobiltà dello stile. Egli vuole presentare al re cosa che sia degna della reale maestà, e ad un tempo conveniente alla sua professione ed ai suoi doveri. E per farlo, egli chiede l’aiuto a Colui per cui regnano i re e i legislatori determinano le cose secondo giustizia. Parla anzitutto del regio potere in generale, e lo richiama al primitivo concetto dell’ufficio del pastore e del padre, così nobilitato dal Santo Vangelo. Esso gli vien suggerito dalla natura stessa dell’uomo e della società e dallo scopo finale dell’uno e dell’altra: Il pastore cerca il bene del suo gregge e non il comodo proprio, il padre vive pei figli e li provvede del necessario alla vita, regge la famiglia coll’autorità a lui data da Dio; tutti e due amano e vogliono essere amati, obbediti, seguiti. È regime perverso quello di chi cerca il vantaggio proprio e non il bene comune; e se un tal regime risiede in un solo, è tirannia. Esalta il Santo Dottore la superiorità del regime monarchico quando è giusto; perché meglio imita il governo di Dio nell’universo, ed ha ottimi esempi nell’unità dell’anima nell’uomo e del capo nel corpo; ma l’unità del capo, egli dice, vuole il concorso di tutte le membra all’azione, come l’unità dell’anima richiede l’esercizio conveniente delle varie facoltà spirituali e corporali. Così è bella la similitudine della nave, ove sian pure molti uomini nelle varie parti, ed artisti a restaurarla se guasta, ma a governarla non deve starvi che un capo. In quest’armonia tra il diritto di chi comanda e i doveri di chi ubbidisce, il dovere di ben governare e il diritto nei popoli d’esser ben governati, si ha il gaudio della pace, il fiore della giustizia, l’affluenza dei beni, la stabilità del governo. « Quando il regime è giusto, egli dice è bene che esso stia nelle mani di un solo; perché  così sarà più forte ». Ma se in chi regge le sorti della città e dello stato manchino le doti e virtù necessarie, né possa ottenersi che le acquisti, allora al cattivo governo di quest’uno sarebbe da preferirsi il governo di più; male minore che ne impedisce uno maggiore; la tirannia è pessima cosa, perché direttamente opposta al virtuoso governo di un solo, che ha chiamato ottimo. Per evitar tanto male, lo stesso monarca dev’esser richiamato a considerare lo stretto dovere che ha di rendersi degno di tenere uno scettro. Né la corona d’oro che gli cinge la fronte egli deve credere che talvolta non sia irta di spine. Per il bene altrui e per osservare debitamente la giustizia non è raro che tocchi al monarca tollerar pene e sacrifici; non è privo di angustie il pastore che vuol governare e difendere il suo gregge, né il padre che dà alla famiglia il frutto dei suoi sudori. A lui darà la religione virtù e fortezza per sacrificarsi quando occorra, pel bene del suo popolo. Ed un altro premio avrà dall’amore dei sudditi; preziosa ricompensa di chi ben governa, invano cercata dal tiranno che non trova chi lo ami, se non per proprio interesse, e finché questo dura. Ma d’altra parte anche ai sudditi conviene rendere men grave il peso a chi governa colla docilità e ubbidienza, ed anche col tollerarne le imperfezioni né sempre esigere l’ottimo, che nelle cose umane non si trova. Così a chi regge è tolto ogni motivo di incrudelire e piegarsi a tirannia. Se questo non si fa, sul popolo stesso ricade il danno, perché sono non di rado un castigo di sudditi indocili gli inetti o cattivi governanti. – Ed è mirabile il vedere con che acume il Santo Dottore tratta di ciò che spetta alle sollecitudini che ha da prendersi tanto il re quanto chi lo aiuta nell’esercizio del suo potere; l’udirlo trattare della necessità di promuovere il benessere dello stato col far prosperare soprattutto l’agricoltura e cercare lo sviluppo dei commerci. In questo punto è notevole come egli preferisca, in vantaggio comune, la ricerca della ricchezza che l’uomo trova nel suolo, e chiama più degna la nazione che ha l’abbondanza delle cose dal territorio proprio ». Non vieta al monarca di cercar ricchezze, onore e fama, e soprattutto la stabilità del suo potere, quando tutto sia rivolto al comune vantaggio che rimane sempre il fine d’ogni onesto regime; così la sua ricchezza e la sua gloria è come un patrimonio di tutti. Fu un vero danno che quest’opera rimanesse incompleta; sebbene in ciò che ci resta siano poste sapientemente le basi a dimostrare il vantaggio che alla società civile possono apportare i principii della morale cristiana.

34. — Ultimo viaggio a Parigi, e ritorno in Italia.

La dimora in Italia del Santo Dottore dové interrompersi un’altra volta per la sua andata a Parigi, ai primi del 1269 pel Capitolo Generale. Fu pregato a voler riprendere nello studio generale di San Giacomo il suo uffizio di Reggente, ed acconsentì. Il Capitolo fu tenuto, come per il solito, nella Pentecoste; e lo presiedé il Padre Giovanni da Vercelli. Sebbene la presenza di San Tommaso in quel Consesso abbia portato senza dubbio qualche vantaggio, e si ricordi in particolare un suo giudizio dottrinale intorno al segreto, pure è da pensarsi che qualche altra grave ragione inducesse. Tommaso a sostener la fatica di questo viaggio. Il Beato Giovanni era entrato in relazione con Clemente IV; e perfettamente si era inteso con lui intorno al gran bisogno della Cristianità in questo momento. Il comune desiderio era la sospirata unione della Chiesa Greca colla Latina, ed insieme il buon esito di una nuova Crociata contro gli infedeli; e il Papa sperava molto dall’Ordine di San Domenico, così diffuso anche in Oriente, e dalla scienza dei suoi Dottori, che avrebbe domato l’orgoglio dei Greci, ostacolo principale alla desiderata unione, che all’opera della Crociata avrebbe recato vantaggi immensi. Con una lettera del 9 giugno del 1267 si era rivolto al Maestro Generale, facendo assegnamento sull’aiuto di tanti bravi difensori della Chiesa, chiamati a riparare la grave rottura che lo scisma aveva fatto nella veste inconsutile di Gesù Cristo; e domandava intanto tre Religiosi per inviarli come suoi Legati all’Imperatore Michele Paleologo. – Non meno intense erano le premure del Santo Re Luigi IX, che non poteva consolarsi d’aver dovuto lasciare nelle mani degli infedeli il Santo Sepolcro di Cristo, e voleva bandire un’altra volta la guerra santa, nonostante i recenti disastri delle armi cristiane. Ottenuto il consenso da Clemente IV, si era anch’egli rivoltò ai Frati Predicatori per aver bravi missionari che bandissero ovunque la nuova crociata. Si sa infatti che per tutto quell’anno 1268 molti religiosi dell’Ordine furon destinati a tale ufficio. – Ma il 29 novembre dello stesso anno Clemente IV, dopo appena tre anni e dieci mesi di pontificato, moriva in Viterbo; e per deplorevoli circostanze l’elezione del successore ebbe un ritardo di due anni e nove mesi, con danno non leggiero per la Chiesa. Nondimeno i predicatori della Crociata continuarono nella loro missione, e il Capitolo di Parigi cercò di giovare alla grande opera, ordinando che si annunziasse la prossima partenza del Re e si raccogliessero offerte e pii legati dai fedeli. Intanto arrivavano orribili notizie dall’Oriente. Antiochia era caduta, Fra Cristiano, già Frate Predicatore, Patriarca di quella sede, era stato assassinato con quattro religiosi, nella sua Cattedrale, dai militi di Saladino; centomila Cristiani erano stati massacrati, molte suore oltraggiate e passate a fil di spada. Questi fatti aumentarono lo zelo del re, che cercò di affrettare la partenza col suo esercito. Ma prima di prendere in San Dionigi la croce e il bordone da pellegrino, ebbe varii colloqui col suo dolce amico San Tommaso. Era l’ultima volta che queste due grandi anime si incontravano su questa terra. Tommaso non doveva più toccare il suolo di Francia; ed il buon re, che il 1° luglio del 1270 partì da Aigues-Mortes, dopo lo sbarco a Cartagine, sotto i dardi di un sole cocente, il 25 agosto, colto dalla peste che distrusse gran parte dell’esercito crociato, spirò fra le braccia dei Frati Predicatori che nel viaggio gli erano stati amorosi compagni. Il suo corpo, recato da una nave a Trapani, traversò poi tutta l’Italia, portato come in trionfo fra le popolazioni commosse. Non mancaron certo le lacrime del suo grande amico San Tommaso d’Aquino. In Parigi Tommaso era da tutti ricercato. Può dirsi che dalla sua cattedra egli dirigesse il pensiero cristiano del suo tempo. Ciò che egli diceva era la dottrina cattolica che lo diceva; e tutti convenivano in questo pensiero. Tacevano le dispute ai piedi della sua cattedra, ogni dubbio svaniva; e la verità si manifestava in tutta la sua limpidezza. Né cessò in questo frattempo di scrivere o dettare; e i suoi sapienti consigli erano ricercati da tutti. Ma la volontà dei superiori lo richiamava a Roma; ed egli se ne tornò con molto rammarico di ognuno, non senza esprimere la sua viva gratitudine e la sincera affezione che conservava verso una città così piena per lui di grate memorie. Non i trionfi della sua dottrina gli tornarono a mente, ma i ricordi dei bravi maestri, dei colleghi e condiscepoli, di tanti alunni, insieme coi quali era salito alle altezze della divinità, di tanti confratelli, che lo avevano amato, e di cui egli aveva ricambiato con tenerezza la devota affezione. Ripassò da Bologna, ove la sua pietà era attratta dal sepolcro ove egli stesso aveva visto porre con tanto onore le ossa del suo caro e venerato Patriarca, di cui era così viva tra quei religiosi e in tutto il popolo la memoria. E forse in quest’occasione accadde il fatto che dobbiamo narrare, ricordato dai biografi, che fé conoscere quanto in lui fosse radicata la virtù dell’obbedienza. Un frate converso, che doveva uscire per la città a far provvisioni, chiese al Padre Priore la consueta benedizione ed il compagno. Il Priore, senz’altro pensare, gli disse che prendesse per socio il primo frate che gli capitava. Sceso il converso, s’imbattè in Fra Tommaso, che non conosceva, e gli riferì le parole del Priore. Tommaso accettò senz’altro; e fu visto tener dietro a stento per le vie di Bologna al frettoloso converso, sebbene stanco, e impedito da certo dolore ad una gamba. Ma per la città alcune persone riconobbero nel religioso zoppicante il celebrato Maestro, ed avvisarono il laico. Figurarsi la meraviglia, le scuse, le proteste del povero frate! Ma Tommaso non fece altro che sorridere; e disse con tutta calma: Son piuttosto io che merito rimprovero; voi avete fatto l’obbedienza, ed io invece non son riuscito a farla come avrei desiderato! Dopo aver pregato e pianto sulla tomba del santo Patriarca, rivalicò l’Appennino e se ne tornò a Roma.

35. — San Tommaso a Napoli.

Sebbene ancora il Santo Dottore fosse nella sua piena maturità ed avesse appena toccato il quarantacinquesimo anno, egli prevedeva la sua rapida scomparsa. La sua vita si faceva sempre più calma, i rapimenti erano più frequenti, una dolcezza inesprimibile, quasi come in dolce parola d’addio, si vedeva in tutti i suoi atti; e i suoi discorsi mostravano come egli si andasse sempre più staccando dalla terra ed anelasse al cielo. Varie città, intanto se lo contendevano a gara. La sua fama era volata tanto alta, che il solo averlo con sé sarebbe parso onore sì grande, da essere ambito più che qualunque altra gloria. Parigi, che ne aveva educato l’ingegno e dove egli aveva rivelato la sua grandezza, lo richiedeva nella sua Università; Bologna, dove egli aveva trovato tanta corrispondenza di stima e di affetto, gli offriva la più generosa ospitalità; Roma, la metropoli del mondo cattolico, lo avrebbe visto volentieri restare a fianco del Pontefice; e Napoli, che, d’altra parte, poteva dirlo suo e dove aveva ricevuto l’abito dell’Ordine, si lagnava che ancora non aveva potuto averlo; e tutte queste città moltiplicarono le loro istanze al Generale dell’Ordine. Il Capitolo Generale, che si tenne nel 1272 a Firenze, ebbe da quasi tutte le Università d’Europa domanda di averlo, almeno per qualche tempo; e sembra quasi che ovunque si prevedesse la sua scomparsa, e tutti desiderassero di udir quella voce prima che tacesse per sempre. La vittoria toccò a Napoli. I Superiori dell’Ordine, consentendo il Pontefice, accolsero le istanze del Re Carlo d’Angiò e Tommaso, dopo aver venerato per l’ultima volta le tombe dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e salutati i suoi confratelli di Santa Sabina, se ne parti per Napoli col suo indivisibile compagno, Fra Reginaldo. Vi giunse alla fine dell’estate del 1272. – La gioia della città fu indescrivibile; fu portato come in trionfo fino alla porta del suo convento; altissimi prelati e personaggi dei più nobili gradi si confondevano colla folla almeno per  vederlo o udirlo quando predicava nella Chiesa o dava lezioni dalla cattedra, ma nemmeno l’alito della vanagloria giunse a toccarlo per sì festose accoglienze: all’altezza dell’ingegno che sempre più in lui si rivelava, rispondeva d’altra parte l’umiltà del suo animo riconoscente a Dio di tanta luce che gli aveva infuso, senza attribuir nulla, proprio nulla, a se stesso. A lui era grato starsene ritirato nella sua cella a pregare o a dettare i suoi preziosi volumi. Era giunto allora alla terza parte della Summa Teologica., a quel trattato dell’Incarnazione, che è il più gran monumento che la ragione umana abbia innalzato in omaggio al Verbo di Dio fatto carne. E sia che pregasse, sia che dettasse, egli era sempre come rapito e fisso nella contemplazione del vero: ed altissimi personaggi che in quei momenti si recavano a visitarlo, ne restavano ammirati e non osavano disturbarlo. Non dissimile era la sua predicazione che mai tralasciò. Rimase memoria della quaresima da lui predicata, certo nel 1273, tutta sull’Ave Maria. E così nello scrivere delle cose più alte, come dell’unione ineffabile del Verbo colla natura umana, dei misteri di Gesù Cristo, della sua vita e della sua passione, del divino influsso della sua virtù riparatrice per mezzo dei Sacramenti, delle grandezze della Vergine Madre, se egli, seguendo rigorosamente il suo metodo, e sempre più addentrandosi nei divini segreti, sembrava rattenere gli slanci del cuore, nel pregare davanti agli altari, nel celebrare il divin sacrificio, nel dir le lodi di Dio e della Vergine Madre, raggiungeva un tal grado di fervore, che sembrava non bastare il suo cuore all’influsso che a lui veniva dalla fonte increata della verità e della vita. Durante uno di questi slanci accadde il fatto raccontato da tutti gli storici sulla fede giurata del piissimo religioso Fra Domenico da Caserta, che ebbe la sorte di esserne testimone. Egli lo vide nella cappella di San Niccolò, ov’era solito pregare, sollevato di due cubiti da terra, davanti a un devoto Crocifisso. A un tratto dalle labbra del Divin Redentore uscirono queste parole: Tommaso, tu hai scritto bene di me. Qual premio dunque tu vuoi? E Tommaso: Nient’altro che voi, o Signore! Le sue preghiere da quel momento si fecero ancor più fervide e più abbondanti le lacrime. Nella Compieta secondo il rito domenicano, suol cantarsi per due settimane di quaresima, un responsorio commovente, interrotto da un versetto del Salmo 70°, che dice: Non mi rigettate, o Signore, nel tempo della mia vecchiezza, non mi abbandonate quando le mie forze verranno meno. Il versetto suol cantarsi da un sol religioso a turno; e quando toccò a Tommaso, tutto il suo volto si coprì di pianto. – Tra gli altri rapimenti fu notato quello della domenica di Passione, durante la Santa Messa. Mentre teneva in mano il corpo di Nostro Signore, prima di comunicarsi, ebbe un’estasi assai lunga, che fu avvertita dagli astanti, tra cui erano alcuni ministri del Re, i quali non si stancarono, ma s’infervorarono nella pietà ed attesero fino al termine. Non tralasciò, in questo tempo, le lezioni che tenne sia nella celebre Università ov’era stato discepolo, per le quali gli era stato assegnato da Re Carlo lo stipendio d’un’oncia d’oro al mese, sia nel convento in una vasta aula, ove tuttora si conserva la sua cattedra; e il concorso era immenso. Tra i discepoli che ebbe a Napoli è da ricordarsi Fra Guglielmo di Tocco, che doveva poi scriverne la vita, e lavorare per la sua canonizzazione; e Fra Bartolomeo, detto più comunemente Tolomeo da Lucca, altro suo biografo, che ascoltò talvolta le sue confessioni e che fu poi elevato al vescovado di Torcello. – A dimostrare la sua attività anche in questo tempo e le sue cure indefesse per il profitto dei giovani negli studi sta il fatto di un viaggio, avvenuto certamente tra l’estate e l’autunno di quell’anno 1273, a Viterbo, Perugia, Firenze e fino a Pisa, ove, per incarico del Capitolo tenuto l’anno precedente, stabilì nel celebre convento di Santa Caterina, ove si conserva ancora la sua cattedra, uno studio generale di Teologia. Altri piccoli viaggi egli fece a Salerno; e restò memoria di quello fatto al Castello di San Severino nel Salernitano, ove dimoravano le sue sorelle, Teodora sposata a Ruggero Conte di Marsico, e Maria signora di Marano. E qui avvenne che stando ad orare nella cappella, entrò in un’estasi lunghissima, che fece stare le sorelle in pensiero. Lo stesso Fra Reginaldo che lo aveva accompagnato si meravigliò perché mai l’aveva visto restare immobile e fuori di sé per tanto tempo. Come si fu riavuto, il compagno gli chiese con molta premura che cosa avesse veduto o udito in quel tempo; e Tommaso gli rispose colle parole di San Paolo: Ho visto e udito tali meraviglie, che all’uomo non è possibile raccontarle. Tutto quello che ho scritto non è che paglia, al confronto di quello che Iddio mi ha rivelato. E poi soggiunse: A te, o Reginaldo, manifesto il segreto del cuor mio: il mio insegnamento e la mia vita presto avranno fine. – Da quel giorno, che era il 6 di dicembre del 1273, il Santo Dottore cessò di scrivere. La Somma Teologica rimase interrotta alla fine del trattato della Penitenza, e la parte con cui essa è condotta a termine, chiamata il Supplemento, fu poi tratta, come sopra dicemmo, da altre opere del Santo Dottore da Fra Reginaldo, che gli succedé nella Cattedra di Teologia a Napoli.

36. — A Fossanova.

La scelta di Tebaldo Visconti a successore di Clemente IV fu un indizio del desiderio vivissimo che in tutto il mondo si aveva di vedere ormai terminata la lacrimevole separazione della Chiesa Greca dalla Latina e riunito tutto il popolo cristiano nella grande opera della liberazione del Santo Sepolcro. Egli era infatti uno dei più fervorosi apostoli che mai si fossero recati tra i Cristiani d’Oriente; e ricevuto in Palestina, ove si trovava, il decreto della sua nomina, si mise in viaggio per l’Italia e andò tosto a trovare in Viterbo i Cardinali per trattare subito con loro dei grandi interessi della Cristianità. Una delle cose a cui prima pensò fu di dare a Gerusalemme un buon pastore; e la scelta del nuovo Patriarca cadde su Fra Tommaso Agni da Lentino, che, come vedemmo, aveva già ricevuto nelle proprie mani la pròfessione del giovane Tommaso d’Aquino, ed era stato poi elevato all’arcivescovato di Cosenza. Nessuna idea ebbe per allora Gregorio IX di preparativi guerreschi, che da sé soli a nulla approdavano; molto invece egli sperò da una comune intesa dell’Episcopato cattolico, che lavorasse alla desiderata unione delle due Chiese; e indisse per il 1274 il Concilio Ecumenico da tenersi a Lione. Gli uomini più grandi di quel tempo, insieme coi Vescovi di tutta la cristianità vi furon chiamati; e tra gli altri, il Beato Alberto Magno, il Beato Pietro da Tarantasia. San. Bonaventura e il nostro Santo Dottore, che fu invitato con lettere particolari e incaricato dal Pontefice di recare con sé il suo celebre trattato Contro gli errori dei Greci. – Così ai primi di febbraio del 1274 Tommaso si congedò dai suoi confratelli di Napoli e si mise in viaggio col fedele Fra Reginaldo, sebbene sofferente e assai indebolito, soffermandosi in vari luoghi, dappertutto accolto con festa e caramente ospitato. Stando per via, Fra Reginaldo gli disse che correva voce che il Papa, nel Concilio, lo avrebbe fatto Cardinale con Fra Bonaventura e che sarebbe stato questo un grande onore pei due Ordini! State certo, rispose il Santo, che io non muterò mai lo stato in cui mi trovo. E quanto al mio Ordine, in nessuno stato gli potrei essere utile quanto in quello in cui resterò. Passò per Aquino, e al luogo della sua nascita diè l’ultimo saluto. Il suo pensiero salì anche all’asilo della sua infanzia: e ai piedi di Montecassino ebbe una lettera premurosa dell’Abate Bernardo, che lo invitava a salir lassù, anche perchè i monaci desideravano una sua spiegazione di un passo oscuro dei Morali di San Gregorio. Ma egli si scusò, dicendo d’essere stanco pel viaggio e pei digiuni dell’Ordine. Alcuni monaci allora discesero, ed egli rispose in iscritto colla consueta chiarezza. Entrato nella diocesi di Terracina, si fermò al castello di Maenza, nella vallata del Sacco, ov’era una sua nipote, la Contessa Francesca d’Aquino maritata ad Annibale da Ceccano, che lo trovò molto deperito e gli fece apprestare le più sollecite cure. Ma il male progrediva, e la Contessa chiamò a curarlo un medico, certo Guido da Piperno. La nipote avrebbe voluto trattenerlo, ma Tommaso non volle mettersi in letto fuori d’una casa religiosa, e si trascinò a stento sopra un muletto, entrò nella vallata dell’Amaseno, traversò Prossedi, passò sotto Sonnino e si fermò stanchissimo alla badia cisterciense di Fossanova, fra Terracina e Piperno. Entrando in quella sacra dimora, fu udito ripetere le parole del salmo CXXXI (14), che presso i Domenicani sono in uso nell’ufficiatura dei morti: Questo è il mio riposo nei secoli dei secoli; qui abiterò, perché me lo sono eletto. Gli furono assegnate due cellette presso quelle dell’Abate; in una stava un camino, nell’altra il letto. Le cure che gli ebbero i monaci durante un mese non si potrebbero descrivere. Tutti si tenevano onorati di poterlo servire; e basti il dire che andando a far legna nella foresta per fargli fuoco, vollero sempre portarle sopra le loro spalle, né mai permisero che gli animali portassero sul dorso cose che servivano per il Santo Dottore. La notizia si sparse per tutto. Corse la Contessa Francesca, che volle ogni giorno saper le nuove della malattia; vennero premurosi da Anagni, da Fondi, da Gaeta, ed anche da Napoli e da Roma, molti Domenicani, e ad essi si unirono vari Monaci e Frati Minori per aver notizie e ricever dal Santo qualche ricordo. Egli si sforzava di rispondere a tutti. A un religioso che gli chiese come avrebbe potuto fare a non perder mai la grazia di Dio, rispose: Cerca di vivere, come se in ogni ora tu dovessi morire. Alla nipote premurosa, che gli mandò a dire se gli occorresse nulla, fece rispondere: Non mi manca nulla; e diqui a poco avrò tutto. – Nemmeno una parola di lamento uscì dal suo labbro, e dal suo volto sempre più traspariva la serenità dell’anima. I monaci ne restarono ammirati; e alcuni di loro gli ricordarono che San Bernardo, prima di morire, aveva spiegato a quelli che lo assistevano il Cantico dei Cantici, e lo pregarono a fare altrettanto. Datemi lo spirito di San Bernardo, egli rispose, e anch’io farò lo stesso. Ma insistendo essi, egli dettò un mirabile commento che ancora rimane. Fu questa per Tommaso d’Aquino la più bella preparazione alla morte.Fra Reginaldo non lo abbandonò un momento; e Tommaso gli mostrò tutto il suo affetto lasciandogli i più cari ricordi e aprendosi con lui in confidenze affettuose. Un giorno gli disse: Di tre cose io devo ringraziare il Signore in modo speciale. La prima è di avermi dato un cuore nobile, che non si è lasciato attrarre dalle cose vili della terra. La seconda è di avermi lasciato nell’umiltà e povertà del mio Ordine. La terza è stata quella d’avermi fatto conoscere lo stato felice del mio fratello Rinaldo. Il suo pensiero correva a Rinaldo! A lui che lo aveva già malmenato e condotto alla carcere, a lui che, accordatosi col fratello, gli aveva preparato una spaventosa caduta, la quale avrebbegli tolto, se Dio non fosse corso in suo aiuto, il suo massimo onore e il nome di Angelico, a lui, che sapeva ora accolto nella gloria dal Dio delle misericordie, che tanti falli perdona per un atto generoso, egli andava ora col pensiero, sicuro di trovarlo presto nel cielo.

37. — La morte. Ritratto del Santo.

Sentendosi vicino alla sua fine, Tommaso chiese a Fra Reginaldo di udire la sua confessione generale; e poi domandò la grazia di restar solo, per disporsi a ricevere il Santo Viatico. Volle che lo togliessero dal suo letticciolo e lo ponessero a giacere in terra, sopra la cenere. Furon raccolte le parole che proferì nel momento in cui l’Abate gli presentò la Santa Eucarestia, e gli chiese di fare la consueta Professione di fede: Io ti ricevo, o Dio, prezzo della redenzione dell’anima mia, viatico del mio pellegrinaggio, per amore del quale ho vegliato e studiato, predicato ed insegnato. E tutto quello che ho scritto, io lo sottopongo alla correzione della Santa Chiesa Romana, nella cui obbedienza ora passo da questa vita. Ricevuta poi l’estrema unzione, placidamente spirò la mattina del 7 marzo del 1274, prima che spuntasse il sole, in età, a quanto sembra, di quarantotto anni. – Egli era grande e diritto di persona, ben formato, di corporatura oltre l’ordinaria, di complessione delicata, faccia tendente al bruno. Ebbe la fronte ampia ed elevata, e sul davanti alquanto calva, acuto lo sguardo, ma pieno d’inesprimibile dolcezza. Nei suoi gesti e in tutto il suo portamento mai si vide nulla di incomposto: taceva e meditava quasi sempre; interrogato rispondeva cortesemente e qualche volta con arguzia, ma sempre con semplicità e candore. Chiunque lo vedesse sentivasi stimolato ad abbracciar la virtù. Mai fu visto adirato, né turbato, nemmeno leggermente. Non amò affatto le grandezze di quaggiù, che lusingano l’ambizione, né le ricchezze, che non ci sanno dare la vera felicità. Una volta un compagno gli mostrò da un’altura la città di Parigi e gli domandò se avesse desiderato di esserne padrone; e rispose: Prenderei più volentieri le Omelie del Crisostomo su San Matteo. Come compendio di quanto fu detto e scritto della sua santità e delle grazie a lui concesse, bastino le due promesse che Iddio gli fece: che non sarebbe stato mai vinto dagli allettamenti della carne, né mai avrebbe sentito gli stimoli della vanagloria; basti la testimonianza di Fra Reginaldo, che tante volte lo aveva confessato, e fino sul letto di morte, di non aver trovato in lui se non la coscienza d’un bambino di cinque anni. – Quale fu nella vita tale è negli scritti. La tranquillità del ragionamento non si altera mai; sembra che egli tema degli slanci del cuore nel trattare dei divini misteri. Tutto è misurato nel suo eloquio: una parola di più lo guasterebbe, una di meno vi lascerebbe un vuoto. Contro gli erranti non ha mai parole di rimprovero, mentre li confonde collo splendore della verità. La frase più severa che sia uscita dalla sua penna fu quella che usò contro David de Dinant, quando chiamò stoltissima la sua dottrina, che confondeva Dio colla materia prima! Fu amantissimo del suo Ordine, e preferì a tutti gli onori del mondo il suo povero cappuccio di frate. Vero predicatore, seppe ben distinguere la cattedra dal pergamo; e parlando al popolo, mentre attingeva dalla sorgente stessa della divina eloquenza la sua dottrina, la esponeva con parole semplici e chiare, che egli paragonava alle monete, di cui tutti devon conoscere il valore. Ma ancor meglio che colla predicazione e l’insegnamento, egli parlò colla sua vita; e bene egli disse di se stesso con Sant’Ilario: Riconosco che il dovere principale che lega a Dio la mia vita, è che ogni mia parola ed ogni mio sentimento parli di Dio. E veramente egli sembrò in mezzo agli uomini la più alta espressione della verità. Ed un sincero amore della verità sarebbe stato anche causa della sua morte immatura ed avrebbe dato ad essa il valore di un martirio, se fosse accertato quanto vari storici affermarono, che essa fosse accelerata da un lento veleno fattogli dare da Carlo d’Angiò. Sospettoso e crudele com’era, quel Re avrebbe saputo di una risposta data dal Santo Dottore a chi gli aveva domandato che cosa egli avrebbe detto delle cose sue al Concilio di Lione, se ne fosse stato richiesto: Certamente io dirò la verità. Ed è la verità che spesso fa paura ai potenti.

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (6)

UN PAPA È STATO ELETTO

26 OTTOBRE 1958: fumata BIANCA dalla Cappella Sistina.

UN PAPA È STATO ELETTO!!

[di P. S. D.]

Quella lunghissima fumata bianca del conclave del 1958!

            “Il fumo è bianco…non c’è alcun dubbio. Un Papa è stato eletto!” annunciò solennemente Radio Vaticana al termine del Conclave del 1958, quando centinaia di migliaia di persone erano incollate agli schermi o erano con gli occhi fissati verso il comignolo del camino da cui sarebbe uscita la fumata che avrebbe sancito l’elezione del nuovo Papa.

            Erano periodi molto difficili, con le due superpotenze che si fronteggiavano l’un l’altra nello scacchiere politico internazionale e con pressioni che da più parti e sempre più forti intralciavano le scelte del Papa in Vaticano.

            Era la fine di un’epoca e, con riferimento alla nomenclatura adottata da San Malachia nella sua Profezia sui Papi, al Pastor Angelicus, come lui aveva indicato Pio XII, il Papa il cui Pontificato aveva caratterizzato un lungo periodo di crisi per la pace mondiale, doveva far seguito un altro Pastor, quel Pastor et Nauta che la storia, quella che da sempre scrivono i vincitori del periodo, ci ha presentato come un Cardinale vestito di rosso fra decine di altri porporati, ma che i tempi odierni fanno sempre più chiaramente indicare come il vero successore di Pietro destinato a succedere a Pio XII.

            Dopo la morte di Papa Pacelli, avvenuta il 9 ottobre 1958, fu osservato un novendiato di pausa, al termine del quale ebbe luogo il Conclave in cui si apprestava ad essere eletto l’altro Pastor del secolo, quello caratterizzato dal più grave conflitto della storia: la guerra contro la Cristianità, che si stava preparando a vincere la più grande battaglia fra quelle che le era stato consentito di vincere.

            A raccogliere lo scettro del Pastor Angelicus doveva essere un altro Pastore delle greggi, quello che più di chiunque altro era in continuità con Pio XII: Giuseppe Siri, che lo stesso Papa Pacelli aveva indicato come Suo Successore. E a questo Successore San Malachia di Armagh aveva dato lo stesso nome conferito a Pio XII, Pastor, a cui aveva fatto seguire anche la parola Nauta, “marinaio”.

            Ed al Conclave per la designazione del successore del Pastor Angelicus avvenne un fatto inaudito, senza precedenti: due giorni dopo l’inizio del Conclave si sollevò dal camino allestito in Vaticano un fumo denso ed inequivocabilmente bianco, che continuò ad essere emesso verso il cielo per lunghi minuti in tutta la sua nitidezza: ben cinque minuti. Cinque minuti in cui una moltitudine di fedeli ebbe modo di vedere con i propri occhi quell’avvenimento così chiaro nel suo significato e così insolito nella sua imponenza e nella sua durata.

Chi ancora oggi osserva la fumata bianca del 1958 sul web non può che restare sbalordito davanti a quel fumo così candido e denso che sale a lungo verso il cielo, quasi una colonna fitta e impenetrabile che offre una suggestione fuori dal comune e veramente molto forte.

            Poco prima del Conclave del 1958, alcuni giornali dell’epoca avevano riportato le modalità dell’emissione del fumo bianco dal camino del Vaticano con un dettaglio che potremmo definire sospetto, quasi avessero voluto porre preventivamente l’accento sulle possibili spiegazioni delle anomalie che si sarebbero potute verificare di lì a pochi giorni in fase di fumata.

            All’interno di un dettagliato articolo sul Conclave che sarebbe stato indetto di lì a pochi giorni, in corrispondenza di una foto che mostra l’angolo della Cappella Sistina con la stufa già approntata per bruciare le schede dopo le votazioni, un giornale di larga diffusione pubblicato il 23 ottobre del 1958 riportava testualmente:

“Prima di ogni scrutinio, le schede vengono controllate per vedere se corrispondono al numero dei presenti (e in caso contrario vengono subito distrutte). Infine, gli scrutatori procedono alla lettura del risultato e al bruciamento delle schede. Se la votazione ha dato la maggioranza dei due terzi più uno, nella stufa della cappella viene bruciata paglia secca: la fumata bianca che ne deriva annuncerà al popolo, all’esterno, che un nuovo Papa è succeduto a Pietro. (…) Nel caso invece che lo scrutinio sia stato negativo, le schede bruciate con paglia umida daranno il fumo nero del risultato nullo.”

Pertanto, a produrre il fumo bianco o il fumo nero sono le schede bruciate e la paglia.

Nel caso del conclave in cui sia stato eletto un Papa si aggiunge paglia secca, mentre, nel caso in cui non vi sia un nuovo Pontefice, si aggiunge paglia umida, che brucia producendo un fumo di colore nero.

Sia la carta che la paglia sono combustibili: sia la prima che la seconda sono composte da cellulosa, sostanza che si presta ad essere bruciata, ma c’è in esse qualcosa che le rende differenti, in quanto a comportamento nei confronti del fuoco. Mentre la carta è formata da fibre cellulosiche che sono state purificate (la carta riciclata, oltre ad essere un’acquisizione relativamente recente, non è sicuramente quella che viene impiegata in sede di Conclave, e meno che meno in quello del 1958), la paglia reca altre sostanze oltre alla cellulosa (pigmenti, elementi chimici che sono contenuti nei pigmenti stessi, impurità di vario genere, interstizi fra i nodi che fanno da camera di combustione, ecc.). Il risultato è che il fumo derivante dall’abbruciamento della carta è più chiaro di quello derivante dall’abbruciamento della paglia, e probabilmente non solo: il fatto che la carta sia costituita da materiale cellulosico “puro” fa sì che il fumo derivante dalla bruciatura della carta sia più denso di quello derivante dalla fiamma appiccata alla paglia.

Il caratteristico colore intenso delle bruciature delle stoppie è visibile da lontano, e chiunque può rendersi conto del fatto che tale fumo non è mai bianco candido; inoltre, a meno che non siano vaste superfici a bruciare, esso non tende a formare una coltre densa, impenetrabile.

Nel caso della carta, invece, la cellulosa è strettamente appressata e la fiamma che vi viene appiccata si approvvigiona di una fonte di combustibile ingente, compatta.

A seconda che, in sede di Conclave, si voglia produrre un colore bianco o nero della fumata, il passaggio del periodico del 1958 che ho riportato sopra è chiaro: non si agisce sulla carta, ma si agisce sulla paglia, o meglio sulla quantità di umidità contenuta in essa.

Per l’altro parametro, ossia alla durata della fumata, esso è direttamente proporzionale alla quantità di combustibile che viene bruciato, ossia alla quantità della carta e della paglia. Non ha senso aggiungere molta paglia – che farebbe probabilmente un colore differente da quel bianco candido che è visibile nella fumata del 1958 -: quello che si vuole bruciare non è la paglia, ma le schede; e, se la paglia trova un giusto impiego, inumidita, nel conferire il colore scuro al fumo della “fumata nera”, non altrettanto si può dire per la fumata bianca, per ottenere la quale è sufficiente bruciare le carte delle schede.

Per le considerazioni fatte prima, quel colore bianco della fumata dipende probabilmente, in primo luogo, dalla carta, da cui dipendono pure in gran parte, probabilmente, il maggior chiarore e la maggiore densità del fumo. Con pochi dubbi, quindi, nella fumata del conclave del 1958 quella consistenza così densa dipese dalla carta, e quella sua durata così prolungata dalla quantità di combustibile (i numerosi fogli di carta che dovevano essere bruciati) impiegato.

Queste le supposizioni, che non c’è motivo di ritenere infondate.

Prendiamole per buone: come mai fu bruciata tanta carta in occasione di quel Conclave e non in altri? Nel corso di un Conclave non dovrebbe essere pressappoco sempre la stessa, in base al numero dei cardinali elettori – che si presume non debbano variare di moltissimo – la quantità di carta che viene bruciata?

Ci viene in aiuto ancora l’articolista del pezzo comparso su un periodico del 1958, che si cura di precisare:

Al termine del conclave tutto sarà bruciato: ogni cardinale è tenuto a dare alle fiamme anche i più insignificanti foglietti che gli siano serviti a prendere appunti o magari a tracciare ghirigori nell’attesa.

Ecco, quindi, chiarito l’arcano: al termine del Conclave del 1958, come al termine di tutti gli altri Conclavi, non furono bruciate solo le schede, ma anche qualsiasi foglio su cui era stata trascritta qualsiasi cosa, anche la più infima e irrilevante.

Considerata la durata e la densità della fumata levatasi al termine del Conclave, durato solo due giorni, del 1958, è lecito chiedersi quanta sia stata la quantità di carta che sia stata bruciata, e la risposta è: ingente! Ci si può chiedere a questo punto a cosa fosse servita tutta quella carta, e per rispondere a questa legittima domanda faccio riferimento all’articolo “Gregorio XVII: l’incredibile storia” pubblicato su questo sito ed a sviluppare i concetti contenuti in esso.

È infatti ben più che presumibile che fossero stati fatti circolare fra i Cardinali elettori dei fogli contenenti le “istruzioni” da seguire nel corso del Conclave per avere in contraccambio dei vantaggi speciali – leciti e soprattutto, molto probabilmente, illeciti – nel caso in cui tali richieste fossero state esaudite, o, al contrario, vendette la cui portata è difficile da immaginare, nel caso in cui tali richieste non fossero state esaudite.

Ci furono, con tutta evidenza, “cose” che furono fatte leggere a tutti e che portarono alla rinuncia forzata – cioè alla violenta “cacciata” – o impeditio secondo C. J. C. – del Papa (… dopo avergli fatto però accettare l’elezione), ed imposto il silenzio a tutti gli altri … il tutto supportato da abbondante materiale cartaceo “scottante” che doveva scomparire rapidamente senza lasciare tracce ad eventuali “curiosi” sospettosi od a posteri complottisti …

È possibile che fosse stato messo in preventivo che fosse Siri ad uscire Papa da quel Conclave, o forse ciò era stato addirittura favorito dagli stessi personaggi che volevano cambiare l’ordine costituito: in questo modo si sarebbe avuto il Papa vero la cui presenza permettesse al mondo di andare avanti (e, fra le altre cose, che potessero essere sviluppati e condotti a termine i progetti di dissoluzione della Chiesa “visibile”).

Comunque sia, le istruzioni di quello che sarebbe dovuto succedere dopo la prima fumata bianca erano state probabilmente date nel corso di quel Conclave, ed è questo, a mio avviso, l’unico elemento che permetta di spiegare come mai fu bruciata, unica volta nel corso del Papato, tanta carta da dare luogo ad una fumata così densa e bianca durata ben cinque minuti.

La combustione fu fatta durare fino a suo completamento: non doveva restare traccia, nessun residuo incombusto da cui si potesse capire anche la minima parte di ciò che era avvenuto, e così tutta la massa cartacea contenente istruzioni, promesse, minacce forse, chissà, anche simboli esoterici, fu lasciata nella stufa fino alla sua combustione completa, a dare quel fumo così bianco ed intenso ed impenetrabilmente denso che tante persone ebbero modo di vedere stazionare a lungo nell’aria, direttamente o attraverso il mezzo televisivo.

Quando poi si fu sicuri che il fuoco avesse distrutto ogni traccia, allora e solo allora fu gettata nella stufa della paglia inumidita: bisognava dare al mondo un segnale non chiaro, non preciso, non netto: che il Papa era stato eletto, cioè no, che si era trattato di un errore di valutazione e che il fumo uscito dalla Cappella Sistina in realtà era nero, come ebbe a dire la stessa Radio Vaticana poco tempo dopo il suo annuncio così categorico dell’elezione del Papa.

***

Pochi giorni dopo, all’ ”Habemus Papam” che sarebbe seguito nel corso dello stesso Conclave (benché questo fosse in realtà terminato due giorni prima), una coltre scura non si limitò ad uscire dalla Cappella Sistina, ma piombò, come dicono le cronache, su tutta Roma.

Il 28 ottobre 1958 il Cardinale protodiacono Nicola Canali pronunciò dalla loggia centrale della basilica vaticana quelle fatidiche parole indicando il nome prescelto da Angelo Roncalli, il quale aveva adottato lo stesso nome di Baldassarre Cossa, l’antipapa che aveva convocato un concilio eretico pochi anni dopo la sua non-elezione.

Come narrano le cronache, in quello stesso giorno di ottobre del 1958 l’oscurità calò di botto su Roma, benché fossero appena le 18,05 ed il sole in quel giorno dell’anno tramonti nella Capitale alle 18,13 (per lasciare dopo di sé circa mezz’ora di chiarore soffuso).

L’ora era giunta: quel nero che era uscito appena due giorni prima dalla stufa della Cappella Sistina in pochissimo tempo aveva coperto il Vaticano e la città in cui esso era situato, e da lì si preparava ad invadere tutto il mondo.

GREGORIO XVII: L’INCREDIBILE STORIA

LA SITUAZIONE (3)

LA SITUAZIONE (3):

DOLORI, PERICOLI, DOVERI E CONSOLAZIONI DEI CATTOLICI DEI TEMPI PRESENTI

OPERA DI MONSIGNORE G. G. GAUME PROTONOTARIO APOSTOLICO

Custos, quid nocte?

Sentinella: che è della notte?

ROMA tipografia Tiberina – 1861

Lettera Terza

Caro Amico

Come innanzi ho detto, io ritorno sulle parole tante rimarchevoli e sì poco attese di Pio IX. Queste parole, registrate in un atto solenne, non sono dette a caso. Noi vedremo che esse hanno un senso preciso, e molto più profondo che non sembra al primo colpo d’occhio. Esse sono un tratto di luce gittato sino nelle profondità del mistero d’iniquità che si appella Questione romana. – Il S. Padre col pronunziarle ha strappato l’ultima maschera alla rivoluzione. D’ora innanzi non è più permesso ad alcuno di prendere abbaglio sull’intima natura e sullo scopo finale del movimento che trascina il mondo. Dunque Pio IX ed il suo Vicario avvertono i Cattolici, che satana continua oggigiorno con un successo spaventevole gli sforzi che non mai ha cessato di fare da diciotto secoli in qua per rientrare in Roma, e rifarla capitale della Città del male; e che lo scopo della rivoluzione è di sostituire Roma pagana a Roma cristiana, e sì ricondurre il mondo al paganesimo. Ma che! è mai ciò possibile, e chi mai ha udito parlare di tal cosa? Il nostro secolo invero, così perfettamente estraneo che è a tutto quello che dovrebbe sapere, non mancherà di prendere le parole del Santo Padre per esagerazione e per figura rettorica. Voi stesso, caro amico, sarete forse meravigliato in intendere che il Vicario di Gesù Cristo esponendo all’Europa il programma della Rivoluzione si fa l’eco di tutta la tradizione. – I Padri della Chiesa più illustri, i teologi più rinomati, gl’interpreti della Scrittura meglio autorevoli hanno già espresso il pensiero del Pontefice. Di più, sono di accordo in affermare che satana riuscirà nel suo intento; di modo che la Chiesa diverrà, come ha cominciato, ad una lotta gigantesca, e Roma, diventata di bel nuovo pagana, ne sarà il centro ed il focolare. Che questo giorno si avvicini, io qui non cerco. Quello che io voglio dire si è che il tentativo attuale è un passo in avanti verso questo scopo, ed anche il più singolare che si conosca. Sotto tale rispetto, esso è uno degli avvenimenti più gravi che possano intrattenere lo spirito umano; ed io son sollecito di fissare la vostra opinione. Ma non comportando i limiti di una lettera tutte le testimonianze che vi sono di una tradizione tanto antica quant’è il Cristianesimo1 (Voi le troverete in Suarez, De Àntichisto, Lib. V. cap.VIII.et IX; in Bosio, De signis Ecclesiæ, Lib. XXIV. c. VI; in Cornelio a Lapide in cap. XVII e XVIII Apocal.; in Bellarmino De Sum. Pontif. Lib. III. c. XIII; in Malvenda de Anlich. Lib. IV. c. V; in Baronio Annal. ann. 58. etc. etc.), vogliate contentarvi di una fedele analisi. » Dietro dall’insegnamento degli Apostoli, dice la voce dei secoli, verrà un giorno, in cui satana pieno di rabbia contro Gesù Cristo ed i Cristiani, riconquisterà il terreno che ha perduto, assoderà il suo regno, e lo distenderà molto lungi. Allora egli si gitterà sopra Roma; perciocché essa è la sua rivale, dimora e Sede dei Pontefici. Egli se ne renderà padrone, caccerà il Vicario di Gesù Cristo, perseguiterà i veri fedeli, e scannerà i religiosi ed i sacerdoti (Certum et communi Patrum traditione, quæ   nobis eliam apostolica visa est, constare diximus. Suarez De Antich. Lib.V. c. 9. n. 14. – Odio babebit Romani, et c um ea pugnabit, eamque desolavit et incendet. Bellarm. de Summ. Pont. Lib. III. cap. 3.) » Roma, pagana sotto Nerone e sotto gli altri imperatori fino a Costantino, fu la vera Babilonia, la capitale della Città del male (2° Veram Babylonem fuisse primam Romam, et veram Romam fuissesecundam Babylonem. S. Aug. De Civ. Dei. L. XVIII. c. 2.). Sotto Costantino divenuta cristiana e pia, cessò di essere Babilonia, e cominciòessere la capitale della Città del bene, Città santa e fedele, Sionne prediletta di Dio, colonna della. fede, madre della pietà, maestra della santità. Verso la fine della sua esistenza essa abbandonerà la fede, la pietà, Gesù Cristo, il Sommo Pontefice; essa tornerà a divenire pagana, Babilonia, la capitale della Città del male (Deserens fidem, pietatem, Christum, Pontificem, rursum fiet Babylon. Corn. a Lap. in c. XVII. Apocal.) » Dio il permetterà, affinché noi distinguessimo la città dalla Chiesa, Roma dalla cattedra di Pietro; e ancora perché i Romani imparassero che né al loro merito, né alla maestà della loro città sono essi debitori dell’insigne onore di possedere la Santa Sede e la metropoli di tutto il mondo cattolico. » Questo lugubre destino di Roma non è per nulla contrario alle promesse fatte alla Chiesa ed alla Sede Apostolica. L’una e l’altra persevereranno sempre nella fede e nel possesso della cattedra di Pietro. Collocata in un luogo o in un altro, questa cattedra non perirà, come non perirà la fede che ne deriva. Sarà ella sempre la stessa. La Chiesa durerà sempre visibile, fosse anche obbligata a fuggire in sulle montagne, ed a nascondersi in gran parte nelle caverne e nei deserti. (Non est contra promissiones factas Ecclesiæ et Sedi Apostolicæ de perseverantia in fide, et in Cathedra Petri, quod Roma illo modo destruatur, quia cathedra nunquam defìciet, nec fides ejus, sive in hoc, sive in illo loco consistat; ubique enim eadem erit, semperque Ecclesia visibilis durabit, etiam si vi persecutionis cogatur ad montes fugere, vel in locis occultis magna ex parte se abscondere. Suarez ibid. c. VII). « Anziché nuocere alla Chiesa, questa rivoluzione aumenterà la sua gloria: che Roma cristiana non fu veramente gloriosa, se non quando Roma pagana, assetata di sangue, la perseguitava colla maggior rabbia. E di certo non si mostrò mai di maggiore costanza e di virtù più eroiche sfolgorante. Onde farà lo stesso, allorché Roma sarà di nuovo divenuta pagana. La gloria del Vicario di Gesù Cristo e dei veri fedeli che resteranno nel suo seno, brillerà d’uno splendore molto più vivo, che se Roma fosse sempre rimasta cristiana e pia ». – Tutto questo, mio caro, amico, presuppone un fatto a cui nessuno badava due anni fa, cioè che Roma tornerà a divenire la città capo di un potente impero essenzialmente ostile alla Chiesa; che essa racquisterà il suo antico splendore pagano, e con le sue corruttele ripiglierà il suo dispotico andamento. Or tutte codeste strane cose la tradizione le conobbe. « Roma ritornerà al suo splendore pagano, ed alla idolatria. (Romanam urbem tunc redituram ad pristinam suam gloriam pariter et idololatriam. Corn. a Lapide. Ibid. Ad paganismum rediens, Christum et Christianos, ac maxime Pontificem persequetur, expellet vel occidet. Id.). Pagana, spoglierà il Romano Pontefice delsuo potere temporale, anzi lo caccerà via. E rivestita dellasua primiera potenza, essa se ne servirà in perseguitarei Santi con più furore, ed immolare i martiricon più crudeltà che non fecero i primi Cesari » . (Sanctos persequetur acerbius, et martyriis crudeliorìbus afficiet, quam sub imperatoribus ethnicis passi fueriut. – Malvend. ubi supra.). Per tal quale simiglianza di caso che non so contenermi dal farvi notare, Pio IX per contrassegnare le promesse della presente rivoluzione, adopera gli stessi termini di cui gli antichi Dottori si sono serviti a segnalarne il compimento. Hanno essi detto sono già molti secoli: a Roma ritornerà al suo antico splendore, alle sue ricchezze, alla sua potenza, alla sua gloria, regina e padrona del mondo » (Romam ad pristinum splendorem, opes, vires et pompam redituram; sicut olim fuit regina orbis et domina mondi. Corn. a Lapide in Apocal. cap. XIII. v. 7.) – Pio IX dice oggidì: « Per alienare lo spirito degli Italiani dalla Religione cattolica, i nemici della Chiesa non arrossiscono di affermare e di gridare dappertutto che la Chiesa Romana é l’ostacolo che si infraoppone alla gloria d’Italia, alla sua grandezza, alla sua prosperità, e l’impedisce d’acquistare di nuovo il primiero splendore dei tempi antichi, cioè dei tempi pagani ». (Ecclesiæ hostes . . . ad Italorum animos a fide catbolica abalienandos asserere etiam et quaquaversus ciamitare non erabescunt, catbolicam religionem Italæ gentis gloriæ, magnitudini, et prosperitati adversari … quo Italia pristinum veterum temporum, idest ethnicorum, splendorem iterum acquirere possit. Encycl. ubi supra.). La tradizione aggiunge: « Inebriata della sua novella gloria Roma dirà: Io ho cacciato il mio sposo, e non sono vedova: io son piena di popolo. Il mio re è partito: ma io son meno, anzi sono d’assai meglio regina: tutti a me ubbidiscono, io non ubbidisco ad alcuno, sedeo regina ». – In verità, mio caro amico, tale linguaggio, antico di più secoli, non vi pare egli singolare? Non è quel desso che noi udiamo tutti i giorni? I così detti emancipatori di Roma e dell’Italia non hanno essi incessantemente sulle labbra che Roma è schiava; che, banditone il Papa, la città eterna si tornerà libera fatta regina come già altra volta? Non dicono essi alla medesima: Rallegrati dei gloriosi destini che noi ti promettiamo! Siamo noi oggi i tuoi soldati, perché domani vogliamo essere tuoi figli e tuoi cittadini. Se combattiamo, ciò è per renderti la tua antica maestà, l’antico Campidoglio, i tuoi antichi trionfi: È per fare di te la splendida città capitale di un grande impero. » (Parole di Cavour al parlamento di Torino il dì 11 Ottobre 1860.). La Città dei Papi divenuta di nuovo la Città dei Cesari; tale è dunque il supremo destino di Roma, e l’ultimo trionfo di satana. Or come si compirà quest’apostasia mille volte annunziala? Al certo con chiarezza sovrumana la tradizione già vide il cammino che menerà Roma a questo termine fatale. « La trasformazione di Roma cristiana in Roma pagana non si farà tutta ad un tratto. I Romani degli ultimi tempi faranno lor passi e i marmi e il porfido. Ch’ei faranno consistere la loro gloria negli splendidi edifici, nei templi di idoli, nelle statue di oro e di argento, nelle pietre preziose rappresentanti Venere, Cupido, e le altre abbominevoli divinità dell’antico paganesimo. Ei ameranno i giuochi, gli spettacoli, tutte quelle cose, per le quali gli antichi Romani corruppero i popoli e li tirarono al culto dei falsi Dei ». « Ei si avvezzeranno a riguardare con orgoglio i delitti dei loro antenati: ne faranno soggetto delle loro lodi: onde ambizione loro sarà il contraffare i fatti di Cesare, di Pompeo, di Trajano. Vorranno emularli, e risuscitare la loro gloria, non meno che tutta la vana grandezza di Roma antica. Essi invocheranno i sonori nomi dei Catoni: parleranno di grandezza, di potenza, di libertà: fumi Romani, onde già vediamo che molti si pascono ». (Etiamnum aliquos priscis hisce Romanorum fumis pasci et gloriari videmus. Corn, a lap. ibid.v. 17.). – « Preparati in tal guisa i Romani da gran tempo, che ne avverrà? Ecco che sarà, tenendo sempre dietro ai detti dei Padri, e dei dottori, che tanto predissero: « I confidenti di satana, gli atei, pervertiranno le alte classi fra i Romani. Ei faranno risplendere ai loro sguardi tutta la gloria antica dei loro avi: ei li ecciteranno a riconquistarla, ed a restaurare il culto degli Dei, ai quali l’impero dovette la sua magnificenza. Ei li attireranno alla voluttà, ed alla indipendenza, affin di menarli all’ateismo, come si è bene avverato molte volte in altri paesi. E per non citarne che un esempio, una città non meno santa, non meno provvidenziale che Roma, Gerusalemme fu pagana sotto i Cananei, fedele sotto i Giudei, cristiana sotto gli Apostoli, pagana di nuovo sotto i Romani, maomettana sotto i Saraceni. – « In punizione della sua apostasia, Roma perirà. E Dio permetterà questa grande rovina per vendicare il sangue degli antichi e dei nuovi martiri, di cui Roma sarà abbeverata. I Romani saranno dunque puniti più severamente degli altri, poiché avranno più gravemente peccato. Discendenti degli antichi persecutori, ed abitanti della medesima Città, diverranno essi partecipi alle iniquità dei loro antenati, intesi che sono ad imitarli, ed a rendere a Roma la gloria, lo splendore e la potenza di cui essa si godette sotto il paganesimo ». (Quocirca Deus in iis majorum peccata puniet: quia illis, propter approbationem et imitationem, majorum peccata imputabuntur …eo quod illis placebunt sederà majorum, eaque aemulari volent, ut Romæ pristinum sub gentilisino splendorem, pompam, et imperiuua restituant. Idem, ibid.).  – Gli uomini che fanno questo parlare sono i più grandi nomi della Storia cristiana. E si chiamano Tertulliano, Lattanzio, Cirillo , Crisostomo, Ambrogio, Girolamo, Agostino, Vittorino, Ecumenio, Cassiodoro, Sisto da Siena, Baronio, Bellarmino, Suarez, Cornelio a Lapide, Bosio, ed altri venti, et alios viginti. Devoti fino al sacrifizio del sangue a Roma ed alla Chiesa, nessun altro affetto quello infuori della verità li ha indotti a predire umiliazioni e calamità che essi deplorano nel tempo stesso che le annunziano. Le loro opere, accolte con rispetto come sorgente di vera dottrina, figurano le fiaccole che il passato ha posto in mano al presente per illuminare l’avvenire. Che altro rimane, se non che inchinarsi davanti a tanto grave testimonianza? Ben dappoco sarebbe la ragione che non vedesse sin là.

Tutto vostro ecc.

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (4)

VITA
dell’Angelico Dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (4)


dell’ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti.
Card. Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA FRANCESCO FERRARI 1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

23. — Ritorno in Italia.

A Santa Sabina.

Il 25 Maggio del 1261 moriva Alessandro IV in Viterbo, ove si trovava allora il Patriarca di Gerusalemme, già Arcidiacono di Liegi e poi Vescovo di Verdun Giacomo Pantaleone, venuto per chiedere alla corte papale protezione in favore dei poveri Cristiani di Palestina. A lui si rivolse il pensiero dei Cardinali nel Conclave; ed eletto Pontefice, prese il nome di Urbano IV. – Uno dei primi pensieri del novello Papa fu di giovarsi della dottrina di Tommaso d’Aquino, che in breve aveva acquistato sì alta fama tra i dotti e che egli stesso aveva conosciuto in Francia al tempo della celebre lotta contro i religiosi, nella quale il savio Arcidiacono si era schierato tra i loro difensori. Lo volle presso di sé, e gli comandò di venire in Italia, respingendo ogni domanda che faceva con insistenza l’Università di Parigi per ritenere il suo Dottore. Ai primi del 1261, Tommaso dové sospendere le sue lezioni cedendo la sua cattedra a un suo illustre discepolo, Fra Annibale di Molaria, e mettersi in viaggio per l’Italia. Andò per diritta via ad Orvieto, ove si trovava il Pontefice, lietissimo di aver vicino a se l’uomo più dotto del tempo suo, che gli sarebbe stato di potente aiuto per attuare, a benefizio della Chiesa, quelle idee che occupavano tutta la sua mente. – D’altra parte i superiori della Provincia Romana, andarono lieti di riavere questo loro alunno, a cui senza indugio affidarono la cattedra di teologia nel celebre convento di Santa Sabina sull’Aventino. Lassù, ove si era rifugiato giovanetto, fuggito da Napoli e perseguitato dai parenti per aver preferito agli agi della vita del mondo la povertà dell’abito domenicano, tornava ora pieno di gloria, ma cresciuto nel basso sentire di sé dopo diciassette anni; e vi trovava più che altrove la pace, nel silenzio, nei colloqui con Dio e nelle care memorie del suo venerato Patriarca. – Il Convento di Santa Sabina, che già era stato sotto Onorio III palazzo pontificale, presso la Chiesa gloriosa che lo stesso Pontefice aveva dato all’Ordine, era il centro, a quel tempo, della Provincia Romana, a cui Tommaso apparteneva per esser figlio dei Convento di Napoli, estendendosi allora la vasta Provincia domenicana all’Etruria, all’Umbria, al Lazio e a tutta l’Italia inferiore. Così a lui poté affidare il P. Troiano del Regno, allora Provinciale, l’istruzione dei giovani studenti in quel glorioso convento. Questo periodo di dodici anni, durato fino alla morte, e interrotto, come vedremo, dalle sue gite a Londra, a Bologna e a Parigi pei Capitoli Generali, dobbiamo chiamarlo, nella vita del Santo Dottore, il più fecondo, se pensiamo al molteplice e arduo lavoro a cui egli si diede, oltre al soddisfare ai delicati incarichi a lui affidati dal Papa. Le pratiche religiose, a cui fu sempre fedelissimo, le orazioni lunghe e ferventi, da lui alternate alla predicazione quasi continua della parola di Dio ed alla fatica dell’insegnamento, non gli impedirono di meditare e scrivere opere meravigliose, che formano ora l’ammirazione del mondo. Basti ricordare la Somma contro i Gentili, la Catena d’oro e soprattutto la Somma Teologica. Ma questa vita gloriosa doveva tosto abbellirsi di una nuova e splendidissima luce: e a nessun altro che al Dottore Angelico aveva riservato la Provvidenza questa purissima gloria.

24. — Il Dottore e Poeta eucaristico.

A Tommaso d’Aquino che Urbano IV, stando in Orvieto, fece venire a sé, manifestò un suo pensiero. Disse che essendo egli più di venti anni addietro, Arcidiacono di Liegi, aveva conosciuto nel convento di Mont-Carillon una serafica vergine, chiamata Giuliana, che professava la regola di Sant’Agostino, devotissima della Santa Eucaristia. Questa suora, fino dai suoi primi anni, ogni volta che orava, aveva una visione misteriosa: le sembrava vedere una luna piena, ma da un lato un po’ mancante; e chiestone a Dio con fervide preghiere il significato, aveva inteso che la luna significava la Chiesa, e il difetto che si vedeva era la mancanza in lei di una festa speciale del Santissimo Sacramento. Dopo molte esitazioni, ella aveva manifestato la cosa ad un canonico di Liegi, che l’aveva poi riferita a lui Arcidiacono e ad altri Dottori, tra i quali era il Domenicano Fra Ugo di San Caro, allora Provinciale di Francia, che là si trovava per la visita canonica ai conventi del suo Ordine. – Ma non eran mancate le critiche più acerbe contro la novità voluta dalla suora. Però quei sapienti si erano mostrati favorevoli in gran parte, specialmente il Domenicano; sicché il Vescovo, che era Roberto di Torota, aveva pensato nel 1246 di istituire nella sua diocesi la festa desiderata, ma fu prevenuto dalla morte. Quello che egli non aveva potuto fare, lo fece sei anni dopo lo stesso Fra Ugo da San Caro, che eletto Cardinale e Legato della Santa Sede in quelle regioni, istituì in Liegi, e per quanto si estendeva la sua legazione, la nuova festa, fissando per essa il giovedì dopo l’Ottava della Pentecoste. Egli stesso con gran solennità la celebrò in Liegi stessa nella cattedrale di San Martino. Ma le ostilità furon riprese con maggior furore dopo la partenza del Cardinale. La Beata Giuliana fu presa specialmente di mira e cacciata dal suo convento: e il 5 Aprile del 1258 erasene volata al cielo. Ma prima di morire, aveva fatto partecipe una povera reclusa, chiamata Èva, sua amica, ripiena dello spirito di Dio, dei suoi dolori e delle sue speranze. Aggiungeva il Pontefice come a lui, che era tuttora Arcidiacono, e soleva inviarle delle elemosine, aveva potuto la povera Èva far pervenire i suoi lamenti e ne aveva avuto conforto. Ed ora che la Provvidenza avevalo elevato sul più alto trono del mondo, voleva ad ogni modo che i voti di quelle candide anime fossero esauditi. – Egli ben sapeva che collo spirito della Beata Giuliana, la quale aveva ormai deposto il corpo nel suo sepolcro, e con quello della reclusa superstite, che gemeva nella sua povera grotta, tante e tante anime avevan comuni i desideri ed i voti; e tra queste anime era certamente quella del gran Dottore d’Aquino. – Tommaso non esitò un istante ad approvare il pensiero del Pontefice; e vide in tutto quel fatto l’opera di Dio. E pregato da lui di metter subito mano alla composizione del nuovo ufficio liturgico e della messa per la grande solennità, umilmente accettò. Quell’ufficio rimane; ed è un vero capolavoro di poesia e di scienza teologica. Possiamo dire che la mente ed il cuore del Dottore Angelico si rivelano a noi in quelle antifone, in quegli inni e in quei canti, in mirabile modo. E veramente conveniva che un Dottore, a cui la Chiesa avrebbe poi dato il nome di Angelico per la sua purissima vita e la celeste dottrina, ponesse sul labbro di lei le sue parole per celebrar la virtù e grandezza di quel dono, che è chiamato Pane degli Angeli. Come premio pel suo lavoro ebbe Tommaso da Urbano IV un prezioso dono, che fu ad un tempo un graziosissimo simbolo: una colomba d’argento. V’è chi aggiunge che Urbano volesse anche nominarlo cardinale, ma che non riuscisse a vincere le sue più vive resistenze. – La bella festa del Sacramento fu instituita il 2 Agosto del 1264 ed estesa a tutta la Chiesa. Con vari prodigi Iddio stesso aveva manifestato in varie parti che il tempo in cui sarebbesi tra gli uomini maggiormente glorificato il mistero di amore era vicino; specialmente nel celebre miracolo di Bolsena, avvenuto appunto in quei giorni. Un sacerdote alemanno, nel celebrarvi la santa Messa, ebbe fortissimi dubbi sulla presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia. Ma quando fu al momento di dovere spezzar l’Ostia che teneva nelle mani, egli vide uscirne vivo sangue in copia, sì che il corporale ne fu in varie parti macchiato. Lo stesso Urbano IV recò ad Orvieto colle proprie mani quel sacro corporale, che divenne insigne reliquia. Ad esso non solo la mirabile custodia d’argento e di gemme lavorata da Ugolino da Siena, ma la cattedrale stupenda, che sorse in quella città, sarebbe rimasta solenne monumento. Intanto il decreto del 2 Agosto veniva pubblicato per tutte le diocesi, e destava nel popolo cristiano il più vivo entusiasmo. – La sollecitudine per il bene della Chiesa universale non aveva cancellato nella mente del Pontefice sommo il ricordo della povera reclusa di Liegi. A lei egli mandò con una sua lettera una copia tanto del decreto quanto del nuovo ufficio composto da San Tommaso. Meraviglioso esempio in faccia al mondo, che così spesso tra il grande ed il piccolo, tra gli alti intelletti e le menti degli umili innalza muri di divisione!

25. — La Somma contro i Gentili.

Un altro grande pensiero del Pontefice Urbano IV era la conversione di tanti poveri infedeli, a molti dei quali mancava il benefizio di una parola apostolica, che togliesse dalla loro mente i pregiudizi e li guidasse per sicura via alla verità. Egli aveva visto coi propri occhi quante anime si perdevano per questa funesta ignoranza e il poco frutto, o piuttosto il danno che si faceva a tanti popoli d’Oriente andando contro di loro colle armi e con mire ambiziose piuttosto che colla parola di pace e colla buona novella del Vangelo. Nei missionarii che si recavano nelle terre dei Saraceni e dei Giudei e in mezzo ad altre nazioni separate dalla Chiesa, due cose essenzialissime spesso mancavano: la conoscenza delle lingue ed una sufficiente istruzione religiosa per catechizzare quelle genti. E spesso si trattava non di ammaestrare turbe di neofiti nelle verità della fede, ma di piegare intelletti traviati da un falso cristianesimo, e specialmente quelli che si davan per dotti, in cui da secoli si eran fatte strada le più assurde dottrine. – L’Ordine di San Domenico aveva un uomo che viveva di questa idea: un dotto spagnolo, il Padre Raimondo da Pennafort, che la Chiesa avrebbe poi iscritto nel catalogo dei Santi. Egli che aveva fatto per varii anni, prima di entrare nell’Ordine, la vita di missionario, di 46 anni aveva vestito l’abito, e nel 1238 era stato eletto Maestro Generale, succedendo al Beato Giordano di Sassonia. Una forte debolezza a lui sopravvenuta, dopo soli due anni, lo aveva costretto a lasciar quella carica; ma poi, riacquistate le forze, erasi dato ad una vita laboriosissima dedicata soprattutto alla conversione degli infedeli. Presso i Generali dell’Ordine a lui succeduti, e specialmente presso Fra Giovanni Teutonico, aveva fatto premure per la fondazione di varie scuole di arabo e di caldeo in alcuni Conventi dell’Ordine, e sollecitato l’invio di alcuni frati spagnoli a Tunisi e nella Murcia, allo scopo di apprender quelle lingue. Essi avevan portato con sé il testo autentico della Bibbia, con cui si erano studiati di palesar gli errori di cui eran piene le versioni falsate dei dottori arabi. All’opera di evangelizzazione già aveva cercato Fra Raimondo di unire quella della carità più eroica, colla fondazione dell’Ordine della Mercede per la redenzione degli schiavi, che imponeva ai suoi membri di restare in pegno nelle mani degli infedeli per ottener la liberazione dei cristiani fatti prigionieri. – Il Capitolo Generale di Parigi del 1256 si era reso conto di questa necessità, ed aveva encomiato l’opera intrapresa dal generoso Fra Raimondo. Ma non bastò. Egli vide quanto sarebbe stata necessaria per una soda educazione dei missionari, sia di quelli che in Spagna vivevano a contatto cogli Arabi che l’avevano invasa, sia di quelli che per cagione delle crociate si trovavano allora in Oriente, ed erano anche provocati a difficili dispute, un’opera che facesse conoscere le verità divine a cui può giungere l’umana ragione e insieme confutasse tutti gli errori e le superstizioni dei nemici della fede, fossero essi Ebrei, o Maomettani, o semplicemente Pagani; e mettere in mano all’Apostolo di Cristo valide armi per combatterli; e pensò che nessuno avrebbe meglio di Tommaso d’Aquino compiuto un tale lavoro. Al desiderio di Fra Raimondo si aggiunse quello del Pontefice e la volontà del Capo dell’Ordine; e San Tommaso pose mano al poderoso lavoro. – Così si ebbe la celebre Somma contro i Gentili, che egli cominciò a scrivere, a quanto pare, in Parigi e a cui pose termine in Roma nel 1261 dopo l’esaltazione di Urbano IV, e che così bene corrispondeva ai generosi intenti del grande Pontefice. San Raimondo l’ebbe come un dono a lui venuto dal cielo. Le verità naturali a cui l’uomo può giungere colla ragione e per la via delle creature, e quelle che, pur essendo contenute nei limiti della facoltà intellettiva, ci vengono insegnate dalla fede che sovviene alla debolezza nostra, sono da Tommaso illuminate con tal forza di ragionamento, che più oltre non è dato salire ad umano intelletto. E quanto alle verità superiori, che i Cristiani ritengono per fede, a lui basta mostrare che contro di esse nulla può opporre la ragione umana, e che sono invece con essa in mirabile armonia. Tutto ciò che dai sistemi filosofici dei vari tempi, dalla negazione giudaica e dalle false dottrine degli eretici, specialmente dalle sottigliezze degli Arabi e dalla perfidia dei Manichei viene opposto contro di loro, non è che vano sofisma o gratuita negazione. – Con quest’opera meravigliosa, tradotta’ subito in greco, in arabo ed in siriaco, a cui solo fanno riscontro i famosi libri della città di Dio di Sant’Agostino, non solo S. Tommaso giovò allo scopo voluto da S. Raimondo e meritò l’ammirazione del Pontefice, ma fu utile a tutti i tempi, restando essa guida sicura ai forti intelletti per giungere ad una chiara visione della cattolica verità e per conoscere i solidi fondamenti su cui essa è basata.

26. — La Catena d’oro.

Un altro lavoro appartenente a questo periodo, è la Catena d’oro. Fu la posterità che diede questo bel titolo alla preziosissima opera che S. Tommaso compose sui quattro Vangeli per espresso comando, come egli dice, del Vicario di Gesù Cristo, a cui egli dedicò la prima parte, cioè il Vangelo di S. Matteo, e che dopo la morte del Papa, avvenuta solo due anni dopo l’elezione, egli condusse a termine. L’incarico di distendere un commento completo del Santo Vangelo riunendo insieme le molte testimonianze dei Padri Greci e Latini aveva pensato il Pontefice di affidarlo ai due grandi Dottori S. Tommaso e S. Bonaventura, che, dividendosi l’arduo e lungo lavoro, lo avrebbero condotto a termine con maggior sollecitudine. Ma S. Bonaventura, allora Generale del suo Ordine, si scusò; e il lavoro rimase al solo Tommaso. Nella Catena d’oro il testo sacro viene a noi attraverso la mente dei suoi più grandi conoscitori, quali furono i Santi Padri, i Dottori della Chiesa e gli antichi interpreti, di cui vengono riportate, quasi sempre a lettera, le testimonianze, così bene accordate, da farne come un concerto di voci solenni. Ventidue Padri e scrittori Greci e venti Latini, appartenenti a dodici secoli, cioè tutto il fiore dei commenti fino allora conosciuti, noi lo abbiamo in quest’unico libro, che, oltre al procurarci un risparmio immenso di tempo e di studio, ci presenta il testo sacro in una mirabile e divina unità, e ne espone lucidamente tanto il senso letterale quanto lo spirituale o mistico, con quell’autorità che tutta la Chiesa riconosce in tali espositori. Sono essi soli che parlano; S. Tommaso tace; ma la luce di quell’intelletto angelico rifulge in ogni pagina del libro, ed è essa che congiunge gli anelli della preziosa catena. – I biografi videro quasi un miracolo nel fatto che, con tanta penuria di codici quale eravi in quel tempo, potesse S. Tommaso unire insieme tante testimonianze; e dicono che, percorrendo per vari monasteri, facesse suo molto materiale colla sua prodigiosa memoria. Comunque sia, e tenuto conto anche del ricco contributo di cui poté far tesoro, stando specialmente a fianco del Pontefice, il lavoro meritò l’ammirazione di tutti i dotti al tempo suo e le lodi di tutta la posterità. Scrivendo al Cardinale Annibaldo, a cui, dopo la morte di Urbano, dedicò i tre volumi dei Vangeli di S. Marco, di S. Luca e di S. Giovanni, S. Tommaso dice di aver durato in questo lavoro molta fatica e di avervi posto uno studio amoroso. Questo studio è principalmente nella scelta dei testi, dai quali sono tolte via le sottili e inutili questioni e che sono stati messi ingegnosamente a raffronto, prendendone veramente il fiore. In tal modo le più belle pagine di S. Giovanni Crisostomo, di Sant’Agostino, di S. Gregorio, di Sant’Ambrogio, di Tertulliano, di Origene, così calde, così ricche di vera eloquenza, illustrano nel più mirabile modo la parola divina del Vangelo.

27. — Prodigi e celesti favori.

Colla preziosa opera della Catena d’oro sono da ricordarsi altri dotti commenti della Sacra Scrittura, come quelli sui libri di Giobbe e d’Isaia, sui primi cinquanta salmi, sui Vangeli di San Matteo e di San Giovanni e sulle quattordici Epistole di San Paolo; minuta analisi del pensiero del grande Apostolo delle Genti, che riesce una perfetta esposizione di tutta la dottrina cattolica. – Fu concesso da Dio al nostro Santo uno specialissimo lume per entrare nei secreti del testo sacro, che egli sempre interpretò dopo lunghe orazioni, alle quali aggiungeva il digiuno quando si presentavano a lui speciali difficoltà. Lo vedevano spesso in chiesa starsene lunghe ore col capo appoggiato al Tabernacolo, ove si conservava la Santa Eucaristia. E in quei momenti ripeteva le parole di Sant’Agostino: « Possa io ottenere l’aiuto da te, fonte dei lumi; e mentre batto alla tua porta, mi sia rivelato il segreto dei tuoi sermoni. » – Ricordano i processi un fatto attestato dal fedele compagno di Tommaso, Fra Reginaldo. Era andato il Santo al suo notturno riposo; e Fra Reginaldo, che dormiva nella cella accanto, si destò al rumore di alcune voci che si udivano in quella di Tommaso. Poco dopo, il Santo lo chiamò dicendo: Portatemi il lume e la carta, ove abbiamo scritto sopra Isaia. Il frate obbedì, e scrisse quanto il Santo Dottore gli venne dettando. Era la spiegazione di un passo difficilissimo del Profeta. Com’ebbe terminato di scrivere, Fra Reginaldo si gettò in ginocchio presso il letto del Santo, e lo scongiurò a dirgli con chi avesse parlato: « Non mi partirò di qui, »esclamava, finché non me lo avrete detto! Alfine il Santo condiscese, c disse che gli erano apparsi i Santi Apostoli Pietro e Paolo e gli avevano spiegato il difficile passo, Ma insieme gli impose di non far parola della cosa a nessuno prima della sua morte. – Altri prodigi confermarono la santità della sua vita e dei suoi insegnamenti. Uno di essi accadde nella Basilica Vaticana ove predicò una quaresima. Nel Venerdì Santo parlò dei dolori del Redentore con tanta devozione che mosse tutti al pianto. E nella Pasqua vi fu gran concorso; ed egli esortò tutti ad esultare nel Signore e celebrare la sua resurrezione. Nell’uscir dalla Chiesa, una donna che pativa un flusso di sangue, avvicinatasi a lui tutta piena di fede, gli toccò il lembo della cappa e rimase d’un tratto sanata. – Un altro prodigio avvenne nel castello della Molara, nelle colline Tu- sculane, ove San Tommaso fu un giorno invitato dal Cardinale Riccardo di Sant’Angelo. Vi andò col suo amato Fra Reginaldo, che si ammalò gravemente e si mise in letto con altissima febbre; sicché era quasi disperato dai medici. Tommaso aveva una specialissima devozione verso la Vergine e Martire Romana Sant’Agnese, e ne teneva continuamente appesa al collo una piccola reliquia. Se la tolse e l’accostò al petto del povero Fra Reginaldo, che si alzò subito dal letto perfettamente guarito. Tommaso, attribuendo tutto all’intercessione della beata verginella, mostrò desiderio che ogni anno se ne facesse la festa nel convento, ove si trovava, con letizia speciale. Tra gli altri favori celesti che gli furon concessi furono le rivelazioni che egli ebbe intorno ai suoi due fratelli Landolfo e Rinaldo. Di Landolfo, allorché morì, seppe che era andato in purgatorio, e ne sollecitò con ardenti preghiere la liberazione, e che Rinaldo, il quale, come vedremo, per una santa e nobile causa aveva dato la vita, toltagli dai sicari di Federico II, era salito alla gloria celeste. E gli fu mostrato un libro, ove il nome di Rinaldo era scritto a caratteri d’oro ed azzurro. Allo stesso modo fu accertato dell’eterna salute della sua sorella Marotta, Badessa del monastero di Santa Maria di Capua, ov’era vissuta in santità di vita e che alcuni anni innanzi era morta.

28. — I due Rabbini.

Stando a Roma, Tommaso fu di nuovo invitato dal Cardinale Riccardo al detto castello della Molara, perché passasse in sua compagnia la festa del Santo Natale. Vi andò, e trovò che stavano presso il Cardinale due Rabbini, padre e figlio, uomini ricchi e di forte ingegno, molto conosciuti in Roma. Al Santo Dottore disse molto famigliarmente il Cardinale: Fra Tommaso, dite qualcuna delle vostre buone parole a questi Ebrei indurati. E il Santo: Dirò quel che potrò, purché mi vogliano ascoltare. Entrarono in discorso; ed era bello udir questi Ebrei esaltare, in tono di vittoria, la loro religione, come la più antica del genere umano, la custode fedele della divina rivelazione, l’erede delle più sante promesse, e specialmente di quella a loro fatta da Dio, del dominio su tutti i popoli della terra con l’assicurazione di un’eterna durata. Chi avesse udito quei vanti, avrebbe forse crollato il capo e pensato ad opporre altre grandezze da parte della nostra fede; ma Tommaso tutto approvò, e si unì ai suoi interlocutori in quegli elogi. Anzi, continuando, mostrò che quelle grandezze avrebbero potuto conservarsi e avrebbe dovuto compiersi quel grande destino, né mai interrompersi tradizioni così gloriose. E con la profonda cognizione che aveva delle Sacre Scritture, mostrò come tanti simboli sarebbero ora senza alcun significato, tante predizioni non si sarebbero verificate, se non si fosse ammesso quanto i Cristiani ritengono di Gesù Cristo e della sua Chiesa; il solo regno spirituale veduto dai Profeti, che avrebbe esteso i suoi domini fino ai confini della terra. – I due Rabbini rimasero stupiti, ma non si diedero per vinti. Allora la parola del Santo Dottore divenne più accesa; e veramente usciva da un cuore pieno di desiderio della salute di quelle anime, anch’esse redente da Cristo; e parlava di Cristo, solo erede delle promesse di Abramo, di Isacco, di David e di tutti i Patriarchi e Profeti, di Cristo, a cui i dolori e le pene non tolsero nulla della sua divina grandezza, anzi aumentarono la sua virtù riparatrice dei nostri falli, consolatrice dei nostri cuori. E il suo volto manifestava l’interno desiderio, e già da esso traspariva la letizia per la conquista che egli era per fare di queste due anime. – Si separarono quella sera: i Rabbini ridotti al silenzio, erano ancora ostinati. Tommaso non andò al consueto riposo: ma si trattenne per tutta la notte in devota preghiera. Era appunto la notte del Santo Natale: il suo Dio doveva in quei cuori versare la sua luce; Tommaso chiedeva questa grazia al suo Dio, che era disceso nel mondo fra il canto degli Angeli a recar la vera pace. Riferiscon gli storici dal processo, che il Santo Dottore, devoto com’era di quell’ineffabile mistero, era solito ogni anno, nella festa di Natale, aver qualche visione del Santo Bambino e della sua divina Madre ed ottener qualche grazia da lui desiderata; e che quest’anno la grazia che chiese fu la conversione di queste due anime. – I Rabbini passarono la notte nella più viva agitazione. Alzatisi innanzi giorno, si recarono come per istinto nella cappella del castello, e udirono la voce di due che cantavano. Erano Fra Tommaso e Fra Reginaldo, che avevano intuonato il Te Deum, A quella voce erano accorsi i cappellani e familiari del Cardinale, e il Cardinale stesso, sebbene incomodato dalla podagra, si fece portare nella chiesa. Finito il canto, che gli stessi accorsi avevano compiuto, i due Ebrei si prostrarono davanti al Santo colle lacrime agli occhi. Non avevano altre ragioni da opporre, né ebbero altro da domandare se non la grazia del santo Battesimo. – Nel giorno stesso, che era la Solennità del Natale, furono battezzati con gran letizia del Cardinale e gran festa in tutto il palazzo, e vi presero parte molti nobili venuti da Roma, dove presto fu divulgata la cosa con grande ammirazione di tutti.

29. — Al Capitolo di Londra.

Fra Umberto de Romanis, il venerando uomo che aveva per nove anni governato l’Ordine domenicano con sapienza e fortezza e ne aveva difesi validamente i diritti, e veduta la crescente prosperità ed anche indovinata la futura grandezza e gli alti destini a cui Iddio lo chiamava, specialmente col concedere ad esso un uomo come il Dottore d’Aquino, aveva passato il sessantesimo anno, ed era risolutamente deciso di rinunziare al suo ufficio nel prossimo Capitolo che doveva tenersi a Londra. Egli pensò che l’arduo peso poteva bene esser sostenuto da più giovani spalle, e che a lui era utile tornare alla condizione di umile suddito ed alla vita di orazione e di ritiro nella pace della sua cella. Varie infermità, del resto, lo avevano visitato di quando in quando, e ne avevano allentato l’attività mirabile. – La città di Londra era stata scelta nel Capitolo tenuto in Bologna nella Pentecoste del 1262; e San Tommaso era stato eletto Definitore della Provincia Romana. Ai Padri capitolari che non potevano opporre ragioni assolute di impossibilità, non era permesso dispensarsi; e Tommaso considerò come un sacro dovere l’intervenirvi, sebbene il lunghissimo viaggio costasse a lui assai tempo e molto disagio. Partì da Roma alla fine dello stesso anno 1262 con alcuni compagni. Ci fu conservata  la cara memoria della sosta che fece nel celebre convento di Sant’Eustorgio in Milano, ove il Beato Giovanni da Vercelli, allora Provinciale, aveva istituito una scuola di logica. Ma la pietà di Tommaso eravi attratta soprattutto dalle memorie del gran martire suo confratello, San Pietro da Verona. – Questo eroe della fede, dieci anni innanzi, era caduto vittima dell’odio dei Manichei nella foresta di Barlassina, tra Como e Milano, e morendo aveva scritto la parola Credo nel terreno col dito intriso nel proprio sangue. Non ancora spirato l’anno da quella morte gloriosa, Innocenzo IV lo aveva ascritto nel catalogo dei Santi ed alla sua tomba erano continui i miracoli e le grazie. – Dinanzi a quelle sacre reliquie si prostrò il Santo Dottore, che volle lasciarvi il prezioso ricordo di otto versi, che furono poi incisi sulla tomba. In essi è esaltato lo spirito apostolico del difensore di Cristo e del popolo fedele, caduto sotto il ferro dei Catari, e vien resa testimonianza dei prodigi che Cristo compiva a gloria di lui ed a vantaggio della fede. – Dinanzi ai Padri Capitolari il Beato Umberto, dopo di avere esattamente reso conto del suo governo, domandò umilmente d’esser prosciolto dall’ufficio. Invano si opposero i Padri, che sapevano essere egli specchio di pietà, amato da tutti e venerato, zelante al sommo del bene dell’Ordine. Ma furon così vive le sue istanze, che essi pensaron meglio di non contristarlo ed appagarono il suo desiderio. Trattavasi però della nomina di un successore, alla quale molti, in verità, non erano preparati. Ed era affare di molta importanza, in quel momento specialmente, la scelta del novello Generale, e cosa assai ardua dare un degno erede al Beato Umberto. Fu molto opportuno il consiglio suggerito dal Santo Dottore d’Aquino. Con altri Capitolari egli pensò doversi dare ai Padri un anno di tempo per tale scelta; e propose frattanto l’elezione di un Vicario. E forse si deve a lui se, per il bene dell’Ordine, accettò quell’incarico il suo caro condiscepolo sopra ricordato, Fra Pietro da Tarantasia, allora Provinciale di Francia, uomo santissimo, che avrebbe saputo in quell’intervallo, con prudenza e forza, calcare le orme del beato Umberto, per poi tornare alla sua cattedra di Parigi e agli altri ministeri che lo tenevano legato. Quel consiglio fu di somma utilità, perché da un lato si provvide assai bene al bisogno del momento; dall’altro poté poi scegliersi un uomo veramente degno di quell’altissima carica. Infatti, spirato l’anno, i voti dei Padri capitolari si raccolsero sul nome del Beato Giovanni da Vercelli, che fu veramente l’uomo della Provvidenza, eletto a conservare la famiglia domenicana nelle sue tradizioni gloriose ed avviarla ai nuovi destini in difficili tempi. – A Fra Pietro da Tarantasia era riservata una più gloriosa carriera, che, come vedemmo, lo condusse al più alto soglio della terra. Terminato il Capitolo di Londra, il Santo Dottore riprese il suo viaggio per l’Italia.

30. — La rinunzia all’Arcivescovato di Napoli.

Tornato in Italia, ebbe Tommaso assai presto il dolore di perdere un amico ed un padre, il Pontefice Urbano IV. A lui succede, col nome di Clemente IV, il Cardinale Vescovo di Sabina, Guido Fulcodi, di Linguadoca, che sembrò avere ereditato da Papa Urbano i sentimenti di stima e di affezione sincera verso il nostro grande Dottore, a cui però, col pensiero di premiarne i meriti, procurò le angustie più vive. – Era rimasto vacante l’Arcivescovato di Napoli; e il novello Pontefice giudicò che a nessuno meglio che a Tommaso d’Aquino poteva affidar quella sede. I Napoletani, giustamente orgogliosi di lui, desideravano unanimi quella nomina; e il Pontefice, in segno di predilezione verso il Santo, aveva pensato di aggiungere alle rendite dell’Arcivescovato quelle del Monastero di San Pietro ad Aram. In questa decisione era compreso anche un nobile intento, secondo il suo parere: quello, cioè, di dare il modo a Tommaso di rialzare la famiglia d’Aquino, assai decaduta per le vicende politiche di quei tempi. Federigo II imperatore, divenuto crudele e ribellatosi alla Chiesa, era stato scomunicato da Gregorio IX nel 1239. Allora molti Signori d’Italia lo abbandonarono, né vollero prender più parte alle sue guerre ingiuste. Furon tra questi i Conti d’Aquino, fratelli di San Tommaso, Landolfo e Rinaldo, che si unirono ai Conti di Sora, fattisi difensori del Papa. Per vendicarsi di loro, Federigo II nel 1250 fece smantellare la città di Aquino e privò la illustre famiglia di tutti i suoi beni. E non bastò; perché Rinaldo fu ucciso a tradimento e Landolfo mandato in esilio. Ma Tommaso, che già sotto Urbano IV, a quanto sembra, aveva saputo sottrarsi all’onore della porpora, poté evitare anche il nuovo pericolo. Tutto ormai era disposto per l’elezione, ed egli ancora nulla sapeva. Ma quando la cosa gli giunse all’orecchio, rimase così colpito, che più non si sarebbe addolorato per una grave sventura che gli fosse ad un tratto piombata addosso. Il motivo d’aiutare i parenti non valse: quanto a loro egli aveva altre idee: se la Provvidenza avesse voluto ricondurli a prospera condizione, non sarebbero a lei mancati i mezzi; ma le rendite della Chiesa, egli pensava, non dovevano servire a questo. Tra il desiderio del Santo di voler restare nell’umiltà del suo abito religioso e il volere del Papa di esaltarlo ad ogni costo, la lotta si continuò alquanto; e Tommaso tutto sperò dalle preghiere che giorno e notte rivolse a Dio in quei momenti. Alfine il Pontefice depose quel pensiero, con grande allegrezza del Santo Dottore. – Quanto alla famiglia d’Aquino Iddio provvide a suo tempo, perché da Carlo d’Angiò, eletto dopo cinque anni re delle Due Sicilie, essa fu restituita nel pieno godimento di tutti i suoi beni. Napoli non ebbe in Tommaso il suo Arcivescovo. Ma se lo avesse avuto, dobbiamo certo pensare che l’attività scientifica di Tommaso, in altri ministeri occupato, si sarebbe troncata, e forse la Chiesa non avrebbe avuto da lui la Somma Teologica.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO (ANCHE CON GREMBIULINO E CAZZUOLA, SQUADRA E COMPASSO): S. S. PIO IX – “EXORTÆ IN ISTA”

Ancora una volta il Santo Padre è costretto ad occuparsi della setta massonica (tentacolo della piovra demoniaca), infiltrata nelle fila di pii cattolici di alcune comunità brasiliane. La sinagoga di satana massonica aveva già da tempo iniziata l’opera di infiltrazione nella Chiesa onde abbattere i principali pilastri: la Dottrina soprannaturale e la Gerarchia divinamente costituita, mirando soprattutto al Sommo Pontefice romano. I risultati apparentemente sembrano aver dato loro ragione, dal momento che hanno estromesso ed impedito il Vicario di Cristo dalla sua Cattedra inserendovi una serie di usurpanti antipapi-burattini che hanno devastato e devastano tuttora la vigna di Dio. Ma l’uomo-Dio non si è lasciato distruggere la sua Chiesa, generata dal suo costato aperto sulla croce, e proprio quando sembrerà essere morta e chiusa nel sepolcro – come apparirà dopo la prossima imminente proclamazione della Religione unica mondiale, monoteista-luciferina governata dall’anticristo, il falso Messia della tribù di Dan – la ricostituira’ più gloriosa e regale che mai. Si tratterà di resistere alla feroce persecuzione dei nemici di Dio, mascherata da ignobile farsa sanitaria, ed attendere l’arrivo improvviso (non per il piccolo gregge) del Signore Giudice universale che brucerà con il soffio della sua bocca tutti gli adepti del “drago infame e maledetto” e dei falsi profeti modernisti del colle romano… E là sarà pianto e stridor di denti in eterno.

EXORTÆ IN ISTA

LETTERA

Ai Vescovi del Brasile riguardo alla Massoneria.

1. I disordini originati in questa giurisdizione negli anni passati da persone che, pur essendo seguaci della setta massonica, si sono infiltrate nelle comunità di pii Cristiani, hanno portato a voi, venerabili fratelli, soprattutto nelle diocesi di Olinda e Belém do Pará, grave tormento, oltre che grande inquietudine per noi. – Del resto, non si poteva rimanere indifferenti al fatto che la peste letale di quella setta si fosse diffusa fino a riuscire a corrompere le suddette comunità, e, di conseguenza, le istituzioni disposte a rafforzare il sincero spirito di fede e di pietà che, dopo la diffusione della funesta zizzania, precipitarono in una condizione miserabile. Noi, dunque, tenendo presente il nostro dovere apostolico e sotto l’impulso della carità paterna con cui seguiamo questa parte del gregge di Dio, considerammo nostro dovere affrontare questo male senza esitazione e con la lettera del 29 maggio 1873 facemmo sentire la nostra voce a te, venerabile fratello di Olinda, contro questa deplorevole perversione infiltrata nelle comunità cristiane, osservando tuttavia, un criterio di indulgenza e clemenza verso coloro che avevano aderito alla setta massonica perché ingannati o illusi, sospendendo temporaneamente le restrizioni delle censure in cui erano incorsi, volendo che si avvalessero così della nostra benignità per esecrare i loro errori e abbandonare – condannandole – le associazioni alle quali avevano aderito. – Ti abbiamo incaricato, venerabile fratello di Olinda, di sopprimere e dichiarare soppresse quelle comunità se, dopo quel periodo di tempo, non fossero state ricomposte e di ricostituirle integralmente con le modalità che avevano in origine, inserendo cioè nuovi membri immuni da ogni contaminazione con la massoneria. Noi, invece, volendo mettere in guardia – come è nostro dovere – tutti i fedeli contro l’astuzia e l’inganno dei membri delle sette, nella Lettera Enciclica del 21 novembre 1873, indirizzata ai Vescovi di tutta la Cattolicità, richiamammo chiaramente alla memoria dei fedeli in quella occasione, le disposizioni pontificie emanate contro le società corrotte di coloro che aderiscono alle sette, e proclamammo che nelle costituzioni erano colpite non solo le associazioni massoniche stabilite in Europa, ma anche tutte quelle in America e nelle altre regioni del mondo.

2. Non possiamo, poi, non meravigliarci grandemente del fatto, che, essendo stati sospesi, sulla nostra autorità e con decisioni che puntavano alla salvezza dei peccatori, gli interdetti ai quali in queste regioni erano state sottoposte alcune Chiese e comunità, composte per la maggior parte da seguaci della massoneria, si è preso lo spunto per diffondere tra il popolo la convinzione che la società massonica presente in queste regioni era esclusa dalle condanne delle regioni apostoliche, e, quindi, che le persone che aderivano alla setta potevano tranquillamente prendere parte alla comunità dei pii Cristiani. Tuttavia, quanto queste opinioni siano lontane dalla verità e dal nostro modo di sentire è chiaramente dimostrato sia dagli atti che abbiamo appena ricordato, sia dalla lettera scritta al serenissimo imperatore di queste regioni il 9 febbraio 1875, nella quale, pur assicurando che l’interdetto imposto ad alcune delle chiese di queste diocesi sarebbe stato revocato se voi, venerabili fratelli, ingiustamente tenuti in prigione a Para e Olinda, fosse stati liberati; abbiamo aggiunto, però, una riserva ed una condizione precisa, cioè che i seguaci della massoneria fossero rimossi dalle cariche che occupavano nelle comunità. E questa condotta suggerita dalla nostra prudenza non aveva e non poteva avere altro scopo che quello di offrire al governatore imperiale l’opportunità, una volta che i desideri dell’imperatore fossero stati esauditi da parte nostra e la pace degli animi fosse stata ristabilita, di riportare le pie comunità alla loro precedente condizione rimuovendo la confusione causata dalla massoneria, e allo stesso tempo di far sì che gli uomini della setta condannata, mossi dalla nostra clemenza nei loro confronti, cercassero di sottrarsi alla via della perdizione. – Affinché in una questione così grave come questa non ci sia alcun dubbio, né alcuna possibilità di inganno, non trascuriamo di dichiarare ancora una volta in questa occasione che tutte le società massoniche – sia di queste regioni, sia di altre che, per parte di molti, hanno ingannato o indotto all’inganno, dicendosi interessati solo all’utilità ed al progresso sociale, nonché alla pratica del mutuo soccorso – sono proscritte e colpite dalle costituzioni e dalle condanne apostoliche, e che coloro che si sono infelicemente iscritti alle stesse sette incorrono per questo nella più grave scomunica – specialissimamente riservata al Romano Pontefice. – Con non minore sollecitudine raccomandiamo al vostro zelo che in queste regioni la dottrina religiosa sia diligentemente trasmessa al popolo cristiano con la proclamazione della parola di Dio e con insegnamenti appropriati. Sapete, dopo tutto, quanta utilità deriva al gregge di Cristo se il ministero è ben esercitato, e quanto danno viene fatto se viene trascurato.

 3. Ma oltre agli argomenti qui trattati, siamo costretti a deplorare l’abuso di potere da parte di coloro che presiedono le suddette comunità, i quali, come abbiamo già detto, annullando tutto a loro discrezione, pretendono di attribuirsi la legittima autorità sui beni e sulle persone sacre e sulle cose spirituali, cosicché gli stessi ecclesiastici e parroci sono completamente soggetti ai loro poteri nello svolgimento dei compiti del loro ministero. Tale comportamento è contrario non solo alla legge ecclesiastica, ma anche all’ordine costituito da Cristo Signore nella sua Chiesa. Dopo tutto, i laici non sono stati posti a capo del governo ecclesiastico, ma per la loro utilità e salvezza devono essere soggetti ai legittimi pastori, la loro funzione è quella di offrirsi come assistenti del clero in situazioni particolari, e non devono interferire in quelle cose affidate da Cristo ai sacri pastori. Per questo motivo riteniamo urgente che gli statuti delle suddette comunità siano redatti secondo il giusto ordine, e che quanto è fuori ordine e incoerente in qualsiasi aspetto sia perfettamente conforme alle regole della Chiesa e della disciplina canonica. Per raggiungere questo scopo, Venerabili Fratelli, in vista degli scambi che avvengono tra le comunità e il potere civile in ciò che riguarda la loro costituzione e ordinamento nelle cose temporali, abbiamo già concesso al nostro Cardinale Segretario di Stato i dovuti mandati per agire con il governo imperiale, cercando di unire con lui gli sforzi utili per ottenere i risultati desiderati. Confidiamo che l’autorità civile unisca il suo sollecito interesse al nostro; perciò chiediamo a Dio, da cui viene ogni bene, con tutte le nostre forze, di degnarsi di accompagnare e sostenere con la sua grazia questa iniziativa di tranquillizzazione della religione e della società civile. Anche voi, Venerabili Fratelli, unite le vostre preghiere alle nostre, affinché questi desideri si realizzino, e come pegno del nostro sincero amore, ricevete la benedizione apostolica, che impartiamo, con il cuore nel Signore, a voi, al clero e ai fedeli affidati alla cura di ciascuno di voi.

Roma, dato a San Pietro, il 20 aprile 1876, XXX del Nostro Pontificato.

PAPA PIO IX

DOMENICA QUARTA DI QUARESIMA (2021)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Croce in Gerusalemme.

Semidoppio; Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei o rosacei.

In questa settimana la Chiesa, nell’Ufficio divino, legge la storia di Mosè (Le lezioni del 1° Notturno e i responsori della Domenica e della settimana sono presi dal libro dell’Esodo. È un riassunto di quanto si leggeva anticamente). La riassumono due idee. Da una parte Mosè libera il popolo di Dio (2a lezione della Domenica) dalla cattività dell’Egitto e gli fa passare il mar Rosso (Idem 4° e 5° Respons.). Dall’altra egli lo nutre con la manna nel deserto (2° respons. di martedì.); gli annunzia che Dio gli invierà « il Profeta » che è il Messia; gli dà la legge del Sinai (6° e 7° respons. della Domenica) e lo conduce verso la terra promessa ove scorrono latte e miele (2° e 3° respons. di lunedì. –  Nelle catacombe troviamo rappresentata l’Eucaristia per mezzo di un bicchiere di latte o di miele, intorno al quale volano delle api simbolizzanti le anime). Là un giorno sarà costruita Gerusalemme (Com.) e il suo Tempio, fatto ad immagine del Tabernacolo nel deserto, là le tribù di Israele saliranno per cantare ciò che Dio ha fatto per il suo popolo (Intr., Grad., Com.). « Lascia andare il mio popolo perché mi onori nel deserto », aveva detto Dio, per mezzo di Mose, a Faraone. La Messa di oggi mostra la realizzazione di queste figure. Il vero Mosè, difatti è Cristo, che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato (id.) e ci ha fatto passare attraverso le acque del Battesimo; che ci nutre della sua Eucaristia, della quale ne è figura la moltiplicazione dei pani (Vang.), e che ci fa entrare nella vera Gerusalemme, cioè nella Chiesa, figura dei Cielo ove noi canteremo per sempre « il cantico di Mosè e dell’Agnello » (Apocalisse), per ringraziare il Signore della sua bontà infinita a nostro riguardo. E dunque naturale che in questo giorno la Stazione si tenga in Roma a Santa Croce in Gerusalemme. Sant’Elena, madre di Costantino, che abitava sul Celio una casa conosciuta coi nome di casa Sessoriana, trasformò questa casa in un santuario per riporvi le insigni reliquie della S. Croce: e questo santuario rappresenta, in qualche modo, Gerusalemme a Roma. Così l’Introito, il Communio e il Tratto parlano di Gerusalemme che S. Paolo paragona nell’Epistola al Monte Sinai. Là il popolo cristiano canterà in mezzo alla gioia « Lætare » (Intr., Epist.) per la vittoria ottenuta da Gesù sulla Croce a Gerusalemme, e sarà evocato il ricordo della Gerusalemme celeste le cui porte ci sono state riaperte da Gesù con la sua morte. Questa è la ragione per cui in altri tempi si benediceva in questa chiesa e in questo giorno una rosa, la regina dei fiori, perché così la ricordano le formule della benedizione; — uso consacrato dall’iconografia cristiana — essendo il cielo rappresentato da un giardino fiorito. Per questa benedizione si usano paramenti rosacei e così tutti i sacerdoti possono oggi celebrare coi paramenti di questo colore. Questo uso da questa Domenica è passato alla 3a di Avvento, che è la Domenica Gaudete « Rallegratevi » e che nel mezzo dell’Avvento, viene ad eccitarci con una santa allegrezza a proseguire coraggiosamente la nostra laboriosa preparazione alla venuta di Gesù (Il diacono si riveste della dalmatica e il suddiacono della tunica, segni di gioia. L’organo fa sentire la sua voce armoniosa e l’altare è ornato di fiori.). A sua volta la Domenica Lætare (Rallegratevi) è una tappa in mezzo all’osservanza quaresimale. « Rallegriamoci, esultiamo di gioia », ci dice l’Introito, perché morti al peccato con Gesù durante la Quaresima, presto risusciteremo con Lui mediante la Confessione e la Comunione pasquale. Per questa ragione il Vangelo parla nello stesso tempo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, simbolo dell’Eucaristia, e del Battesimo, che si riceveva una volta proprio nel tempo di Pasqua, e l’Epistola fa allusione alla nostra liberazione per mezzo del sacramento del Battesimo (altre volte ricevuto dai catecumeni a Pasqua). E se noi abbiamo avuto la sventura di offendere Dio gravemente, la Confessione pasquale, ci darà la liberazione. Così l’Epistola ci ricorda, con l’allegoria di Sara e di Agar, che Gesù Cristo ci ha liberati dalla schiavitù del peccato.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Is LXVI: 10 et 11

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI: 1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV: 22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

“Fratelli: Sta scritto che Àbramo ebbe due figli, uno dalla schiava, e uno dalla libera. Ma quello della schiava nacque secondo la carne, quello della libera, invece, in virtù della promessa. Le quali cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono le due alleanze. L’una del monte Sinai, che genera schiavi, e questa è Agar. Il Sinai, infatti, è un monte dell’Arabia, che corrisponde alla Gerusalemme presente, la quale è schiava coi suoi figli. Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera, ed è la nostra madre. In vero sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorisci; prorompi in grida di gioia, tu che sei ignara di doglie, poiché i figli della derelitta son più numerosi che quelli di colei che ha marito. Quanto a noi, fratelli, siamo, come Isacco, figli della promessa. E come allora chi era nato secondo la carne, perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. Ma che dice la Scrittura? Scaccia la schiava e il suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede col figlio della libera. Perciò, noi, o fratelli, non siamo figli della schiava, ma della libera, in virtù di quella libertà con cui Cristo ci ha affrancati” .

LA SCHIAVITÙ DELLA LEGGE E LA LIBERTA’ DI GESÙ CRISTO.

p. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Bihil obstat sac. P. de Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch.)

Colla Epistola di questa domenica noi tocchiamo, fratelli, un punto fondamentale nella dottrina di San Paolo, non oserei dire famigliarissimo oggi ai nostri Cristiani. La ragione è, in parte nelle mutate condizioni religiose dell’età nostra di fronte a quella che fu davvero l’età di San Paolo. Fervevano allora le dispute fra i Giudei e i Cristiani, quelli attaccati alla loro legge, la legge di Mosè e questi fieri della Religione nuova, la Religione del Vangelo di Cristo. La Legge era la sintesi del giudaismo, di quella che oggi chiamiamo la Sinagoga; essa abbracciava tutto l’insieme, per allora, poderoso di aiuti che per secoli e millenni la religione dei Patriarchi e dei Profeti fornì agli ebrei per portarli a Dio. Per allora, ho detto: perché noi sappiamo che quella economia religiosa era un’economia passeggera, transeunte. Un altro ordine di cose doveva inaugurare Iddio nella pienezza dei tempi. Infatti, quando venne N. S. Gesù, e parlò Lui il Verbo suo nuovo, e operò e patì, allora l’umanità accettò il Vangelo, sentì la povertà (relativa) del precedente regime; come chi riesce ad andare oggi in automobile sente la povertà (relativa) delle vecchie carrozze, anche le più veloci e famose. In Paolo questo sentimento fu acutissimo, quasi spasmodico. Aveva respirata con orgoglio l’atmosfera della legge negli anni del suo bollente nazionalismo religioso; dalla chiusa torre della legge aveva guardato con orgoglio il resto dell’umanità, si era irritato fino alla crudeltà quando degli Israeliti come lui, avevano cominciato a parlare di un’altra cosa che non era più la legge e che la superava e si proponeva di sostituirla. E un bel giorno egli Paolo, fece la esperienza di quella novità che aveva fino allora odiata e bestemmiata. – Amò Gesù, ne accettò il Vangelo, la novella buona: buona e nuova. L’accettò con tutta la sua anima. E fu un senso di liberazione. Non la liberazione da un appoggio, che ti fa cadere più in basso; no; liberazione, invece, da un peso, la vera liberazione che ti fa ascendere più in alto, dal mondo della luce, pura e fredda, la sua anima era passata nel mondo del calore. Il mondo della luce era la legge. Proprio così. – La legge, qualunque essa sia, divina od umana, religiosa e civile, ti fa vedere la strada: ecco tutto. Non ti aiuta a percorrerla. In questo la legge somiglia alla filosofia, antica e moderna, anche le filosofia morale ci fa vedere il bene ed il male, ma l’anima ripete col vecchio sapiente: vedo il meglio e l’approvo’ come tale con la mente, seguo il peggio con la mia volontà. Mancano le forze, l’energia. Gesù ha portato questo al mondo: l’energia che si chiama amore, carità. Il bene non pesa più. Il giogo, senza cessare di essere severo, anzi essendolo diventato anche di più, si è alleggerito. Gesù aveva detto: Il mio giogo è soave, il peso ne è più leggero… in confronto, si intende, del vecchio giogo legale. Lo aveva detto Gesù e lo ripete sotto altra forma e lo corrobora con ragionamenti adatti a quei Farisei con i quali Egli discuteva: sottili, sofistici, disquisitori ai quali Paolo tiene testa bravamente. E noi dobbiamo riprendere questo insegnamento di libertà non per liberarci dalla Legge morale, ma per sentirci liberi dalla legge per liberarci dalla perfidia, non per amare me né la legge Divina, ma per amarla di più, per osservarla più generosamente e più liberamente. È  la libertà vera dei figli di Dio.

Graduale

Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis.

[V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus

Ps. CXXIV: 1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem.

[Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum.

[V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI: 1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilææ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

 “In quel tempo Gesù se ne andò di là dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade; e seguivalo una gran turba, perché vedeva i miracoli fatti da lui a pro dei malati. Salì pertanto Gesù sopra un monte, e ivi si pose a sedere co’ suoi discepoli. Ed era vicina la Pasqua, solennità de’ Giudei. Avendo adunque Gesù alzati gli occhi e veduto come una gran turba veniva da lui, disse a Filippo: dove compreremo pane per cibar questa gente? Lo che Egli diceva per far prova di lui; imperocché egli sapeva quello che era per fare. Risposegli Filippo: Duecento denari di pane non bastano per costoro, a darne un piccolo pezzo per uno. Dissegli uno de’ suoi discepoli, Andrea, fratello di Simone Pietro: Evvi un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che è questo per tanta gente? Ma Gesù disse: Fate che costoro si mettano a sedere. Era quivi molta l’erba. Si misero pertanto a sedere in numero di circa cinquemila. Prese adunque Gesù i pani, e rese le grazie, li distribuì a coloro che sedevano; e il simile dei pesci, finché ne vollero. E saziati che furono, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. Ed essi li raccolsero, ed empirono dodici canestri di frammenti dei cinque pani di orzo, che erano avanzati a coloro che avevano mangiato. Coloro pertanto, veduto il miracolo fatto da Gesù, dissero: Questo è veramente quel profeta che doveva venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che erano per venire a prenderlo per forza per farlo loro re, si fuggì di bel nuovo da sé solo sul monte”.

OMELIA

[DISCORSI DI SAN G. B. M. VIANNEY CURATO D’ARS,

VOL. II, Ed. Marietti, Torino-Roma, 1933]

RITARDO DELLA CONVERSIONE

Ego vado et quæretis me, et in peccato vestro moriemini

Io vado e mi cercherete, ma morrete nel vostro peccato

 (S. Jean, VIII, 21)

Sì, Fratelli miei, è per noi grande miseria e umiliazione, l’essere stati concepiti col peccato originale, perché nasciamo figli di maledizione; è senza dubbio miseria ancor più grande vivere nel peccato: ma morirvi è il colmo d’ogni sventura. E vero, F . M., noi non abbiamo potuto evitare di contrarre il primo peccato, che è il peccato di Adamo; ma possiamo facilmente sfuggire quello in cui cadiamo volontariamente; o dopo esservi caduti possiamo, colla grazia di Dio, ritrarcene. Ma possibile che noi vogliamo restare in uno stato che ci espone a così grandi sventure per l’eternità? Chi di noi, F. M., non tremerà, sentendo dire da Gesù medesimo che un giorno il peccatore lo cercherà, ma non lo troverà, e morrà nel suo peccato? Lascio pensare a voi in quale stato riposi colui, che vive tranquillo nel peccato, mentre la morte è così sicura, e ne è invece tanto incerto il momento. Lo Spirito Santo ha detto dunque giustamente che gli empi camminano affatto fuor di strada, che i loro cuori sono accecati, che le loro menti sono avvolte di tenebre le più fitte, e che la loro malizia ha finito per ingannarli e rovinarli (Sap. V. 6).Hanno rimandato il loro ritorno a Dio ad un tempo che non sarà loro concesso; hanno sperato di fare una buona morte, pur vivendo nel peccato; ma si sono ingannati, perché la loro morte sarà pessima al cospetto di Dio. Ecco precisamente qual è, F. M., la condotta della maggior parte dei Cristiani ai nostri giorni. Essi vivono nel peccato sperando sempre di fare una buona morte e si cullano nel pensiero che lasceranno la colpa, faranno penitenza, e ripareranno, prima di comparire al giudizio, le colpe commesse. – Ma il demonio li ha ingannati: essi non usciranno dal loro peccato che per essere precipitati nell’inferno.

Per meglio farvi intendere l’accecamento del peccatore vi mostrerò:

1° Che più ritardiamo ad uscire dal peccato ed a tornare a Dio, più ci mettiamo a pericolo di morirvi; perché, se volete saperne la ragione, riesce più difficile rompere le nostre cattive abitudini;

2° Che ad ogni grazia che disprezziamo, Dio si allontana da noi; noi diventiamo più deboli, mentre il demonio prende su di noi maggior dominio. Da ciò ne concludo che più noi restiamo nel peccato e più ci mettiamo a pericolo di non convertirci mai.

I. — Parlare della morte sciagurata di un peccatore, che spira nel peccato, a Cristiani, i quali hanno assaporato tante volte la gioia di amare un Dio così buono e conoscono, coi lumi della fede, la grandezza de’ beni che Gesù Cristo prepara a quelli che serberanno l’anima loro libera dal peccato! Questo discorso dovrebbe tenersi a pagani, che non conoscono Dio, né la ricompensa da lui promessa a’ suoi figli. O mio Dio, quanto è cieco l’uomo che perde tanti beni e s’attira tanta copia di mali restando nel peccato! Se io domandassi ad un fanciullo: « Perché Iddio ti ha creato e ti conserva ? » mi risponderebbe: « Per conoscerlo, amarlo, servirlo e andarlo a godere nell’altra vita. » Ma se io gli dicessi: « Perché i Cristiani non fanno quello che devono por meritare il cielo? » — « Perché, mi soggiungerebbe, hanno dimenticato i beni del cielo e credono di trovare la loro felicità nelle cose create. » Il demonio li ha ingannati e ancora li ingannerà: vivono nell’accecamento e v i morranno, quantunque nutrano speranza di staccarsi, un giorno, dal peccato. Ditemi, M. F., non si vedono ogni dì persone che vivono nel peccato, disprezzano tutte le grazie che Dio loro manda: buoni pensieri, buoni desideri, rimorsi di coscienza, buoni esempi, e la divina parola? Sperando sempre che Dio li accoglierà, quando vorranno far ritorno a Lui, costoro, ciechi, non vedono che il demonio intanto prepara ad essi un posto nell’inferno. Funesto accecamento! Quanti Cristiani esso ha piombati nell’inferno, e quanti ancora ne farà piombare sino alla fine del mondo! E poi questa considerazione deve far tremare un peccatore che vive nella colpa e spera di uscirne. Difatti, voi non siete così poco istruiti da non sapere che un solo peccato mortale, se si viene a morire senz’averlo confessato e senz’averne ottenuto il perdono, basta a dannarci l’anima per sempre. Per questo Gesù Cristo ci ha detto di stare sempre pronti, perché ci farà uscir da questo mondo quando meno vi penseremo, e che se non abbandoniamo il peccato prima ch’esso ci abbandoni, ci punirà senza misericordia. O mio Dio! è possibile vivere in uno stato che ci mette a rischio, ad ogni momento, di precipitare nell’abisso dell’inferno? Se questa riflessione, o F. M., non è capace di scuotervi, ascoltatemi un istante, o piuttosto aprite il Vangelo, e vedrete, se potete vivere tranquilli nel peccato, come fate. – Sì, M. F., tutto annunzia che se non vi affrettate ad uscire dal peccato, perirete: gli oracoli, le minacce, le similitudini, le figure, le parabole, gli esempi, tutto vi dice che, o non potrete o non vorrete più convertirvi. Udite Gesù Cristo che di sua bocca grida al peccatore: « Camminate fino a che la luce della fede brilla dinanzi a voi » (Jov. XII, 35) per timore di uscire di strada per sempre, se disprezzate questa guida. E in un altro luogo dice: « Vegliate, vegliate continuamente » (Marc. XIII, 83) perché il nemico della vostra salute lavora alla vostra rovina. E pregate, pregate senza interruzione per attirare su di voi gli aiuti del cielo, poiché i vostri nemici sono molto astuti e molto potenti. A che posseder tanto, dice ancora, e vivere occupati delle cose temporali e dei vostri piaceri, se tra poco avrete abbandonato ogni cosa? Ma nulla, o M. F., è più spaventoso che la minaccia fatta da Gesù Cristo ai peccatori quando dice loro che se non ritornano a Lui, allorché Egli offre loro la sua grazia, verrà giorno in cui lo cercheranno e gli domanderanno misericordia, ma alla sua volta li disprezzerà; e per timore che le loro lagrime e le lor preghiere lo commuovano si chiuderà le orecchie e sfuggirà da loro. O mio Dio, quale sventura l’essere abbandonati da voi! Ah! M. F., possiamo noi pensarvi e non morirne di dolore? Sì, M. F., se voi siete insensibili a questa parola, siete già perduti. Ah! povera anima, piangi anticipatamente i tormenti che ti si apparecchiano nell’altra vita! Andiamo innanzi, F . M., ascoltiamo Gesù Cristo medesimo e vedremo, se possiamo dirci al sicuro vivendo nel peccato. « Sì, Egli dice, come di notte il ladro, viene e cerca di cogliere il padrone di casa nel momento in cui dorme più profondamente (Matth. XXIV, 43), » così verrà la morte a troncare il filo della vita colpevole del peccatore; verrà nel momento appunto in cui egli avrà la coscienza carica di peccati ed avrà preso la bella risoluzione di staccarsene, senza poi averlo fatto. In un altro luogo ci dice che la nostra vita passa « colla stessa rapidità del lampo che guizza da oriente ad occidente » (Matt. XXIV, 27); così noi vediamo oggi il peccatore pieno di vita e di sanità, colla mente ripiena di mille progetti; e domani le lagrime dei suoi annunzieranno che non è più di questo mondo, che ne è uscito senza sapere perché vi fosse e per qual fine. Questo insensato visse cieco e morì com’era vissuto. – Gesù Cristo ci dice ancora che la morte è l’eco della vita, per dimostrarci che chi vive in peccato è quasi sicuro di morirvi, salvo un miracolo della grazia. Questa è cosa tanto vera che si legge nella storia d’un uomo che aveva fatto del denaro il suo dio e che essendo caduto gravemente infermo, si fece portare un cassetto pieno d’oro per avere il piacere di contarlo, e quando non ne ebbe più la forza v’immerse la mano finché morì. Un altro a cui il confessore presentò  il crocifisso per eccitarlo a contrizione delle sue colpe, uscì a dire: « Se questo crocifisso fosse d’oro, costerebbe tanto. » Ah! no, F. M., il cuore del peccatore non abbandona il peccato così facilmente come si crede. « Vita di peccatore, morte da riprovato. » Che vuol insegnarci, F . M., Gesù Cristo, colla parabola delle vergini prudenti e delle vergini stolte, di cui le une furono così bene accolte, perché entrarono collo sposo, e le altre invece trovarono chiusa la porta? Voleva insegnarci quale fosse la condotta della gente del mondo: le vergini prudenti rappresentano i buoni Cristiani che si tengono sempre preparati a comparire dinanzi a Dio, in qualunque momento Egli li chiami; le vergini stolte sono la figura dei cattivi Cristiani, che credono di aver sempre tempo per prepararsi alla morte e convertirsi, uscir dal peccato e fare opere buone. In questo modo passano la vita; la morte arriva, ma essi non hanno fatto che male e nulla di bene. La morte li colpisce, Gesù Cristo li chiama al suo tribunale per domandare ad essi conto della loro vita; vorrebbero, è vero, mettere un po’ di ordine nella loro coscienza, si affannano, tentano di lasciare il peccato, ma sciaguratamente non ne hanno né il tempo, né la volontà, e fors’anche la grazia necessaria. Quando domandano a Dio di aver pietà di loro e di usare misericordia, Dio risponde che non li conosce, e chiude loro la porta, cioè li precipita nell’inferno. Ecco, M. F., la sorte di un gran numero di peccatori che vivono così tranquilli nel peccato. – Ah! povera anima, quanto sei infelice, dovendo abitare in questo corpo che con tanto furore ti trascina all’inferno. Ah! amico mio, perché vuoi perdere questa povera anima? Che male t’ha fatto per condannarla a tanta sciagura? O mio Dio, quanto è mai cieco l’uomo! – F. M., nella condotta di Esaù, noi abbiamo il vero ritratto di un uomo che si perde vendendo la propria felicità per un piatto di lenticchie. Per qualche tempo Esaù visse quasi insensibile alla sua perdita « (Gen. XXV, 34) non pensava che a divertirsi e a darsi ai piaceri, tuttavia giunse il momento in cui si ricordò del fallo commesso e rientrò in sé medesimo; ma più vi pensava e più scopriva la gravità del suo accecamento. Desolatissimo della sua sventura, cerca, se gli è possibile, di rimediarvi, adopera preghiere, lagrime, singhiozzi, per tentar di commuovere il cuore del padre, ma troppo tardi; il padre ha dato ad un altro la sua benedizione, le preghiere di Esaù non sono prese in considerazione e le sue sollecitazioni non trovano ascolto. Può ben affannarsi, conviene che si rassegni a rimanere nella miseria e a morirvi. Ecco precisamente, F. M., ciò che accade ogni giorno al peccatore. Egli vende Dio, l’anima e il posto in cielo per meno di un piatto di lenticchie, cioè per un piacere momentaneo, per un pensiero di odio, di vendetta, per uno sguardo o un atto disonesto sopra se stesso o sopra altri, per un pugno di terra, per un bicchiere di vino. Oh! anima che sei tanto bella, in cambio di quali cose vili sei ceduta! Vediamo poi che questi peccatori vivono durante qualche tempo così tranquilli e così in pace, almeno apparentemente, come se in tutto il corso della loro vita non avessero fatto che opere buone. Gli uni pensano ai loro piaceri, gli altri ai beni di questa terra; ma, simili ad Esaù, viene il momento in cui riconoscono il loro errore e vorrebbero porvi rimedio; ma troppo tardi. Gemono, versano lagrime, scongiurano il Signore di restituire loro i beni che hanno venduto, cioè il cielo; ma il Signore fa con essi quello che fece il padre di Esaù, dice loro che ha dato a un altro il loro posto. Ah! quel povero peccatore ha un bel gridare e domandare misericordia; bisogna che si rassegni a rimanere nella miseria e precipitare nell’inferno. O mio Dio, quanto è disgraziata la morte del peccatore agli occhi del Signore! – Ah! quanti fanno come l’infelice Sisara, che una donna perfida addormentò dandogli da bere un po’ di latte, e mentre dormiva repentinamente lo uccise, senza dargli tempo di piangere il suo accecamento nell’essersi fidato di quella sleale (Jud. IV). Allo stesso modo, quanti peccatori la morte rapisce repentinamente senza dar loro tempo di piangere il proprio accecamento d’essere rimasti nel peccato. Quanti altri fanno come l’empio Antioco, riconoscono i loro delitti, li piangono e supplicano misericordia senza poter nulla ottenere, e chiedendo misericordia precipitano nell’inferno. È questa, F. M., la fine dei peccatori che differiscono la loro conversione. Senza dubbio nessuno di noi, o cari, vorrebbe fare una morte cattiva, e abbiamo ragione, ma ciò che mi angustia è il vedervi vivere nel peccato ed esporvi così audacemente al pericolo di morirvi. Non sono soltanto io che ve lo dico, ma è Gesù Cristo medesimo che ve lo assicura. Non è vero, che voi pensate: lasciamo dire il prete, e tiriamo innanzi per la nostra strada? — Sapete, che cosa vi avverrà, se lasciate dire il prete? — E che volete che ci accada? — Eccovelo: voi sarete dannato. — Spero di no, pensate voi, vi è tempo per tutto. — Miei cari, forse avremo tempo di piangere e di soffrire, ma non lo avremo di convertirci. E per dimostrarvelo voglio narrarvi un terribile esempio. Si racconta nella storia che un uomo di vita allegra, che aveva vissuto per lungo tempo nei disordini, tardi convertitosi, per qualche tempo perseverò; ma poi ricadde, e non pensava più a tornare a Dio. I suoi amici lo pregavano continuamente, ma egli non faceva conto di quanto gli si diceva. In quel tempo fu annunciato che tra breve sarebbesi dato un corso di esercizi spirituali. Si credette quella una circostanza opportuna per indurre quel peccatore a profittare dell’occasione, che Dio gli dava di rientrare nel cammino della salute. Dopo molte preghiere e insistenze fattegli dagli amici, dopo molte resistenze e rifiuti da parte sua, acconsentì e diede parola di partecipare cogli altri agli esercizi. Ma che cosa avvenne, o F. M.? O giudizi di Dio, come siete impenetrabili e terribili! Proprio la mattina, in cui era aspettato e nella quale dovevano cominciarsi gli esercizi, fu annunciato che quell’uomo era stato trovato morto in casa sua; senza che nessuno si accorgesse, senza soccorsi, senza Sacramenti. Comprendete una buona volta, F. M., che cosa sia restarsene nel peccato, colla speranza d’uscirne un giorno? Ah! M. F., noi abusiamo del tempo, mentre l’abbiamo, disprezziamo le grazie mentre il buon Dio ce le offre; ma spesso Iddio ce le toglie, per punirci, quando vorremmo profittarne. Se adesso non pensiamo a far bene, forse, quando vorremo, non lo potremo. Voi pensate, nevvero, che un giorno vi confesserete, abbandonerete il peccato e farete penitenza? — Sì, è ben questa la mia intenzione. — È la intenzione vostra, ma io vi dirò che cosa sarete e che sarà di voi. Al presente voi siete in peccato, questo non me lo negate, nevvero? Ebbene dopo la vostra morte sarete dannato. — Ma, e che ne sapete voi? — Se non lo sapessi non ve lo direi. D’altra parte vi proverò che, vivendo nel peccato, pur conservando la speranza di abbandonarlo, non lo farete mai, quand’anche lo bramaste con tutto l’animo; e comprenderete che cosa sia il non curarci del tempo e delle grazie che Dio ora ci offre. Si racconta nella storia il caso di un forestiere che passando per Donzenac (il forestiere era un lorenese ed esercitava la professione di libraio) si rivolse ad un sacerdote perché ne ascoltasse la confessione; ma il sacerdote, non so perché, vi si rifiutò. Di là andò in una città che si chiama Brives, e presentatosi al procuratore del re gli disse: « Signore, io vi prego di mettermi in carcere, perché mi sono venduto al diavolo qualche tempo fa ed ho sempre sentito dire che egli non ha alcun potere su quelli che sono tra le mani della giustizia. » — « Mio caro, gli rispose il procuratore del re, voi non sapete che cosa sia essere tra le mani della giustizia; se vi si cade una volta, non se ne esce poi, quando si vuole. » — « Non importa, signore, fatemi imprigionare. » — Il procuratore lo credette matto, e pensò che, mettendolo in prigione, si sarebbe attirato gli scherni di tutti; anzi che non valeva la pena di spendere parole con lui. Vide passare per via un sacerdote, che conosceva, lo chiamò e gli disse: « Reverendo, di grazia, abbiate cura dell’anima di quest’uomo. » — E a lui: « Mio caro, andate con questo buon prete e fate tutto quello che vi dirà. „ — Il sacerdote, dopo che gli ebbe parlato, credette anch’egli come il procuratore del re, che avesse la mente sconvolta e lo pregò di rivolgersi altrove, perché egli non poteva addossarsi il peso della sua direzione. Quel disgraziato, non sapendo che cosa fare, andò in due conventi a chiedere un religioso sacerdote, che volesse usargli la carità di ascoltarlo in confessione. Presso di uno gli si disse che i Padri erano già ritirati nelle loro celle, dovendo alzarsi a mezzanotte; quando ebbe bussato alla porta dell’altro ebbe la fortuna di parlare con un padre, ma questi rimandò ogni cosa al giorno dopo. Ma quel povero sventurato si mise a piangere, dicendo: « Se non avete compassione di me, io sono rovinato; mi sono venduto al diavolo, e l’ora mia giunge stanotte. » — « Andate, amico mio, gli rispose il padre, e raccomandatevi alla Ss. Vergine; » gli diede una corona del Rosario e lo licenziò. Mentre passava per la piazza e piangeva per non aver trovato un confessore fra tanti religiosi sacerdoti che erano in quei conventi; vide parecchi abitanti che conversavano insieme, e domandò se alcuno di loro avesse la cortesia di dargli alloggio. Un macellaio gli rispose che volentieri gli usava questa gentilezza. Condottolo a casa sua, quel disgraziato gli narrò come aveva avuto la sventura di vendersi al diavolo, che egli sperava di aver tempo di confessarsi, lasciare il peccato e far penitenza; ma che nessun sacerdote aveva voluto confessarlo. Il macellaio trovò che era cosa ben strana la poca cura di quei preti. —- « Ah! signore, vedo bene che Dio l’ha permesso per punirmi del tempo e delle grazie di cui ho abusato. » — « Mio caro, gli disse il macellaio, ciò non ostante, bisogna pur ricorrere a Dio. » — « Ah! signore, io sono rovinato, questa notte il demonio deve uccidermi, e portar via la mia anima. » — Il macellaio, a quanto pare, non andò a dormire per vedere se quell’uomo aveva perduto il ben dell’intelletto o se pur diceva il vero. Difatti verso mezzanotte udì un orrendo fracasso e grida spaventose, come di due persone di cui l’una strangolasse l’altra. Accorse il macellaio e vide il demonio che trascinava verso il cortile quell’infelice. Egli fuggì e si chiuse in casa. Il giorno dopo, quell’uomo fu trovato appeso come un vitello a un chiodo della beccheria. Il demonio gli aveva strappato un pezzo del mantello e con esso l’aveva strangolato e appeso. Vedete, M. F.. che rimandando la nostra conversione, ci esponiamo al pericolo di non convertirci mai. Non è forse vero che, quando eravate malato avete chiamato un prete per confessarvi? Durante la vostra malattia non avete voi detto che è troppo grande cecità aspettare la morte per amare Dio, e che, se Egli vi restituiva la salute, avreste fatto meglio che per il passato, e che sareste stato più accorto? Ma, cari miei, non siete persuasi che il vostro pentimento non viene da Dio, né dal dolore delle vostre colpe, ma soltanto dal timor dell’inferno? Fate come Antioco, il quale piangeva i castighi, che gli attiravano i suoi peccati; ma il suo cuore non era mutato. Carissimi, Dio vi ha restituito la sanità che avete implorato con tanto ardore, promettendogli che avreste fatto meglio. Ditemi, dopo ricuperata la sanità, avete messo giudizio? Avete offeso meno Iddio? Vi siete corretti di qualche difetto? Andate con maggior frequenza ai Sacramenti? Volete che vi dica ciò che siete diventati? Eccolo: prima della vostra malattia vi confessavate ancora, di tanto in tanto, ma, da quando Dio vi ha restituita la salute, a mala pena fate Pasqua. E quanti fra coloro che mi ascoltano appartengono a questa categoria. Ma non prendetevi troppo fastidio, vedrete che alla prima malattia Dio vi farà uscire da questo mondo, o, per essere più chiaro, vi precipiterà nell’inferno. Ora potete concludere finalmente, io penso, che restando nel peccato, non ostante la speranza di abbandonarlo un giorno, voi vi fate giuoco di Dio. Ma per farvi capire ancor meglio che voi scherzate presumendo che Dio vi perdonerà quando voi gli domanderete il perdono, voglio citarvi un esempio che sopra ogni altro conviene al nostro argomento. – Si racconta di un tale che era grandemente buono. Aveva un servitore che non lasciava mai passare occasione di offendere il suo padrone, e suo maggior diletto era di farlo quando molti erano presenti. Gli rubò parecchie cose di gran valore, gli sedusse una sua figliuola, e alla fine fuggì di casa temendo di essere arrestato. Passato qualche tempo andò a trovare un sacerdote che sapeva molto stimato dal suo padrone. Il sacerdote si assunse l’incarico di pregare il padrone perché volesse perdonare le colpe di quel domestico. Quel signore, pieno di bontà rispose: « Farò come desiderate, ma voglio però che mi dia qualche soddisfazione; altrimenti sarebbe come dar mano libera a tutti gli scellerati. » Il sacerdote, pieno di gioia, va dal domestico e gli dice: « Il vostro padrone ha avuto la carità di perdonarvi; ma vuole, com’è giusto, una piccola soddisfazione. » E il domestico a lui: « E quale soddisfazione vuole, e in che tempo? » Il sacerdote gli soggiunse: « Andate subito in casa sua e prostratevi dinanzi a lui col capo scoperto. » — « Ah! il mio padrone esige tanto onore! per conto mio sono disposto soltanto a domandargli scusa; egli vuole che io faccia questo in casa sua e a capo scoperto, ed io invece voglio farlo nella mia stanza e adagiato sul mio sofà. Egli desidera che io lo faccia subito; la mia intenzione invece è quella di farlo fra dieci anni, quando, forse, sarò vicino a morire. » Che pensate, F. M., e che ne dite di questo domestico? Quale consiglio voi avreste dato a quel signore? Non gli avreste detto: « Il vostro domestico, signore, è uno sciagurato; merita di esser cacciato in fondo a un carcere e di uscirne solo per essere mandato sulla forca. » Ebbene, F . M., vedete voi in questo esempio il vostro modo di comportarvi con Dio? Non è forse vero che adoperate con Lui lo stesso linguaggio quando dite che vi è tempo ancora, che non c’è premura, che non siete ancora morto? Ah! quanti poveri peccatori sono accecati sullo stato dell’anima loro, e sperano di fare ciò, che diventerà loro impossibile, quando crederanno tempo di farlo!… – Ma andiamo innanzi, e vedremo che più voi differite di uscire dal peccato e più vi mettete nell’impossibilità di uscirne. Non è forse vero che qualche tempo fa la divina parola vi toccava il cuore, vi faceva pensare e che parecchie volte avevate risoluto di lasciare il peccato e di darvi a Dio? Non è forse vero che il pensiero del giudizio di Dio e dell’inferno vi ha fatto piangere, e che ora tutto ciò non vi commuove punto, né vi fa fare alcuna riflessione? Perché questo, o F. M.? Ah! perché  il cuore è indurito e Dio vi abbandona; sicché più restate nel peccato e più Dio s’allontana  da voi, e più non sentite il danno della vostra perdizione. Ah! se foste morti alla prima malattia, almeno non dovreste essere così profondamente immersi nell’inferno! — Ma se volessi ora tornare a Dio, Egli mi riceverebbe volentieri ancora! — Su questo proposito non vi dico niente. Se non avete ancora messo il colmo ai peccati, che Dio ha stabilito di perdonarvi; se non avete ancora calpestate le grazie che egli decretava di elargirvi, fatelo pure: ma se la misura dei peccati e delle grazie è piena, tutto è perduto per voi; avrete un bel fare le più belle risoluzioni. D’altra parte, l’insegnamento pratico dovete raccoglierlo dall’esempio che ho narrato poc’anzi. Ah! mio Dio, è possibile pensare a ciò seriamente e non fare quanto è in nostro potere per tentare se Dio voglia ancora avere pietà di noi? — Ma, penserete, forse, in cuor vostro, dobbiamo dunque abbandonarci alla disperazione? — Ah! miei cari, vorrei condurvi a due dita dalla disperazione, perché, colpiti dall’orribile stato in cui siete, usiate dei mezzi che Dio vi offre, anche in questo momento, per uscirne. — Ma, direte forse, quanti si sono convertiti sul letto di morte; il buon ladrone è tornato a Dio proprio qualche ora prima di morire. — Il buon ladrone, anzitutto, F. M., non aveva mai conosciuto Iddio. Appena lo conobbe, si diede a Lui; e poi, esso è l’unico esempio che la S. Scrittura ci fornisce per non farci interamente disperare in quel momento. — Ma vi sono pure molti altri che si sono convertiti, quantunque avessero vissuto a lungo nel peccato. — Badate bene, credo che vi inganniate: dovete dire che molti si sono pentiti, ma quanto all’essersi convertiti è un’altra cosa. Questo precisamente farete anche voi; e l’avete già fatto nelle vostre malattie; voi avete fatto chiamare un prete, perché eravate impressionati di sentirvi male. Ebbene, non ostante il vostro pentimento, vi siete convertiti? Tutt’altro, siete divenuti più ostinati. Ah! M. F., tutti questi pentimenti valgono ben poca cosa. Saul s’è pur pentito, poiché ha pianto i suoi peccati (I Reg. XV, 24-30); tuttavia è dannato; Caino s’è pentito, poiché, dopo avere ucciso suo fratello (La Genesi nulla dice circa il pentimento di Caino; al contrario riferisce queste sue parole di disperazione: « La mia iniquità è troppo grande per meritare d’essere perdonata. » Gen. IV, 13), ha levato al cielo grida strazianti; eppure è all’inferno. Giuda si è pentito anch’egli, poiché andò a restituire il prezzo del tradimento; ma poi si è impiccato (S. Matt. XXVII,3). Se ora mi chiedete dove tutti questi pentimenti hanno condotto quei peccatori, vi risponderò: all’inferno. Verrò sempre alla mia conclusione che se vivete nel peccato, morirete nel peccato e sarete dannati; ma spero di no, voi non arriverete fino a questo punto. – In terzo luogo, proseguendo, vi dimostrerò che voi non avete nulla, nel vostro modo di vivere, che vi dia qualche sicurezza; al contrario tutto deve spaventarvi, come vedrete.

1° Sapete che da voi stessi non potete uscire dal peccato, siete perfettamente convinti che è necessario l’aiuto della grazia di Dio, poiché S. Paolo ci insegna che « senza la grazia di Dio non siamo neppur capaci di fare un sol pensiero (II Cor. III, 5). » Sapete altresì che il perdono potete ottenerlo soltanto da Dio. Approfondite bene, o M. F., queste due riflessioni e vedrete che siete ciechi, o, per parlare più francamente, che siete perduti se non uscite prontamente dal vostro peccato. Ma, ditemi, forse conculcando le grazie di Dio potete sperare d’aver maggior forza per rompere le catene delle cattive abitudini? O non è vero invece il contrario? Più andate innanzi e più meritate che Dio si ritiri da voi e vi abbandoni. Da ciò io concludo che, più voi tardate a ritornare a Dio e più vi mettete in pericolo di non convertirvi mai. Ho detto che da Dio soltanto possiamo ottenere il perdono. Ebbene, ditemi, forse moltiplicando i vostri peccati sperate che Dio debba più facilmente perdonarvi? Lasciate che ve lo dica, voi siete cieco; vivete in peccato per poi morirvi ed essere dannato. Ecco, dove vi condurrà la vostra maniera di pregare e di vivere: « Vita di peccatore, morte da riprovato. » Ma per meglio farvelo intendere, portiamoci col pensiero a quel momento, che è l’ultimo della vita.

II. — So benissimo che voi avete risoluto di fare una buona morte, convertirvi e abbandonare il peccato. Accostiamoci dunque al letto di un moribondo: vi troveremo steso un uomo, che in tutta la sua vita ha fatto quello che fate voi: ha vissuto nel peccato, ma sempre colla speranza di staccarsene prima di morire. Esaminatelo bene, osservate attentamente il suo pentimento, la sua conversione, la sua morte. Poi pensate quel che siete adesso e vedrete ciò che sarete un giorno. Non allontaniamoci, F. M., dal letto di questo moribondo finché non sia fissata per sempre la sua sorte. Anch’egli s’è ripromesso sempre pur vivendo nel peccato e nei piaceri, di fare una buona morte, di riparare a tutto il male che aveva fatto durante tutta la sua vita. Imprimetevelo bene nel cuore, per non dimenticarlo mai, e aver continuamente dinanzi agli occhi quale sarà la vostra sorte. – Vi dirò anzitutto che durante tutta la sua vita fu trattenuto da ostacoli, che gli parevano insormontabili. Primo fra tutti, pensare di non poter lasciare le abitudini cattive; in secondo luogo, credere di non avere forza o grazia sufficiente. Egli capiva benissimo, quantunque si trovasse in peccato, quanto costi e come sia difficile fare una buona confessione e rimediare ad una vita che fu tutta una catena di colpe orrende. Ma il tempo prosegue rapido il suo corso, esso ormai stringe; bisogna cominciare a fare ciò che non si volle far mai, scendere in quel cuore che è un abisso di vergogne, simile ad un cespuglio irto di spine così orribili che non si sa da qual parte pigliarlo e si finisce col lasciarlo stare. Di quando in quando perde la conoscenza, pure non vuol morire in quello stato, vuol convertirsi, cioè lasciare il peccato prima di morire. So bene che morrà, ma quanto al convertirsi non gli credo affatto: bisognerebbe che facesse ora quello che doveva fare quando era sano. Nell’impossibilità di farlo, colle lagrime agli occhi, fa le stesse promesse che fece ogni volta che si vide vicino a morire; ma Dio non ascolterà più queste menzogne e queste falsità. Bisognerebbe perciò distruggere il peccato, il quale ha approfondito talmente le sue radici che egli non ha più la forza di svellerlo; avrebbe bisogno di una grazia straordinaria, ma Dio, in pena del disprezzo in cui tenne quelle che gli aveva largito durante la sua vita, gliela nega, e gli volge le spalle per non vederlo, si tura le orecchie per non lasciarsi commuovere dalle sue grida e dai suoi singhiozzi. Deve morire, e la conversione diventa sempre più impossibile; perde la conoscenza, delira, risponde una cosa per l’altra. Il sacerdote si lamenta; bisognava chiamarlo un giorno prima; quel malato non ha cognizione abbastanza e non può confessarsi. Reverendo vi ingannate, egli ha tutta la cognizione che deve avere prima di morire; se foste venuto ieri per confessarlo Dio gli avrebbe tolto egualmente la conoscenza; è rimasto nel peccato calpestando il tempo e le grazie che Dio gli aveva date e, come vuole la divina giustizia, deve morire nel peccato. Abbiate un po’ di pazienza e non tarderete a vederlo trascinato nell’inferno dai demoni, ai quali durante la sua vita ha così bene obbedito; non torcete lo sguardo da lui e lo vedrete esalare all’inferno l’anima sua dannata. Ma prima di questo terribile momento consideriamo, o M. F., il suo agitarsi, domandategli se vuole confessarsi, se è dolente di aver offeso Iddio, e vi farà segno di sì; vorrebbe confessarsi, ma non lo può. Bisogna morire; e niente conversione, niente conoscenza! Accostatevi, vedete quel vecchio peccatore indurito, che ha disprezzato ogni cosa, che si è beffato di tutto, e credeva che dopo morto tutto fosse finito per lui. Vedete quel giovane libertino, che quindici giorni or sono faceva risonare le osterie delle più infami canzonacce; vedete quella giovane mondana portata sulle ali della vanità, che credeva di non mai arrestarsi, e morire. O mio Dio, bisogna morire! Quale mutazione! bisogna morire e andare dannata. Vedete quegli occhi invetrati, che annunciano vicinissima la morte: il morente vede tutti in gran faccende, che lo osservano e piangono. Mi conoscete? gli chiedono. A mala pena apre gli occhi spaventati, che mettono terrore a tutti quelli che lo circondano, e lo guardano tremanti, a capo chino. Uscite di là, lasciatelo morire come è vissuto. No, m’inganno, venite, F. M., che da tanti anni rimandate ad altro tempo la vostra conversione. Vedete le sue labbra fredde e tremanti che non possono più muoversi e gli annunziano che deve morire e andare dannato. Amico mio, lasciate un momento quell’osteria, venite e osservate quelle guance pallide e livide, quei capelli bagnati dal sudore della morte. Osservate i capelli che gli si drizzano sul capo. Pare che provi già gli orrori della morte. Ah! per lui tutto è finito, bisogna morire e andar dannato. Venite, sorella mia, lasciate per un momento quel suonatore e quel ballo; venite e vedrete che cosa sarete un giorno. – Vedete quei demoni che lo circondano e lo gettano nella disperazione? Vedete quelle orribili convulsioni? No, M. F., non vi è più speranza. Quell’anima deve uscire dal proprio corpo; o mio Dio, dove andrà? Ah! sua dimora sarà l’inferno! No, no, M. F., un momento; gli restano ancora alcuni minuti di vita per abbracciare con uno sguardo tutta la sua sciagura. Vedete s’avvicina la sua fine… gli astanti e il sacerdote si mettono in ginocchio per tentare se Dio vuol avere pietà di quella povera anima. « Anima cristiana, gli dice il sacerdote, parti da questo mondo. » E dove volete che vada, poiché ha vissuto solo pel mondo, ed ha pensato soltanto al mondo? E poi, a giudicare dal modo con cui è vissuta, credeva di non doverne uscire mai. Voi le augurate il cielo, ma essa neppure lo conosce. Vi sbagliate, ditele piuttosto: « Uscite da questo mondo, anima colpevole, e andate a bruciare fra i tormenti; poiché per questo solo avete lavorato durante tutta la vita. » — « Anima cristiana, le dice il sacerdote, andate a riposarvi nella celeste Gerusalemme. » E che? voi mandate in quella bella città un’anima coperta di peccati, il cui numero è maggiore di quello delle ore di sua vita? un’anima la cui vita fu una catena di impurità, volete collocarla in compagnia degli Angeli, in compagnia di Gesù Cristo che è la purezza in persona? Quale orrore, quale abbominazione! Mandatela all’inferno, poiché quello è il luogo che le è fissato. « Mio Dio – continua il sacerdote – Creatore di tutte le cose, riconoscete quest’anima che è opera delle vostre mani. » E che, voi osate presentare a Dio come opera sua, un’anima che è un cumulo d’iniquità, un’anima che è tutta putridume? cessate, di rivolgervi al cielo, volgete gli sguardi all’abisso, e vedete i demoni che anelano di averla in lor possesso: gettate loro quest’anima dannata, poiché essa non ha lavorato che per loro. « Mio Dio, forse aggiungerà ancora il sacerdote, accogliete quest’anima, che vi ama come Creatore e Salvatore. » Essa ama Iddio? E dove ne sono i segni? Dove sono le sue preghiere ben fatte, le sue buone confessioni, le sue fervorose comunioni? O meglio diciamo dove sono le sue Pasque? Tacete, udite il demonio, il quale grida che quell’anima gli appartiene, che s’è data a lui da lungo tempo. Hanno fatto il cambio: egli le ha dato denaro, modo di vendicarsi, le ha procurato occasioni di soddisfare i suoi infami desideri; no, no, non gli parlate più del cielo. Del resto essa non vuol saperne; preferisce andar a bruciare negli abissi e coperta d’iniquità, che di andare in cielo, alla presenza di un Dio sì puro. Fermiamoci ora un momento prima che il demonio si impadronisca di questo riprovato. Egli ha conoscenza sol quanto gli basta per scorgere gli orrori del passato, del presente e dell’avvenire, che sono altrettanti torrenti dell’ira di Dio, che gli si rovesciano sopra per compire la sua disperazione. Dio permette che a quell’infelice, il quale tutto ha disprezzato, si affaccino in quell’istante al pensiero tutti i mezzi che Egli gli offriva per salvarsi l’anima: vede che aveva bisogno di tutto quello che Dio gli aveva messo innanzi, e che non gli ha giovato a nulla. Dio permette che in quel momento egli ricordi, ad uno ad uno, tutti i buoni pensieri che durante la vita gli ha mandato; e comprende quanto grande fu la sua cecità di non salvarsi. O mio Dio, quale disperazione in quel momento vedendo che poteva così facilmente salvarsi, e invece s’è dannato. Poi il presente e l’avvenire completeranno la sua disperazione. Egli è ben persuaso che fra pochi minuti sarà all’inferno, per non uscirne mai più… Il sacerdote vedendo che per la confessione non v’è più nulla a fare, gli presenta il crocifisso per eccitarlo a dolore e a confidenza, dicendogli: « Amico mio, ecco il vostro Dio, morto per redimervi; abbiate fiducia nella sua misericordia che è infinita. » — Ma non vedete che voi non fate che accrescere la sua disperazione? Vi pare?… Un Dio coronato di spine fra le mani di una creatura leggera e mondana, che durante tutta la sua vita non ha cercato che di abbigliarsi e di piacere al mondo? Un Dio spoglio di tutto, perfino degli abiti, fra le mani di un avaro? quale orrore!… Un Dio coperto di piaghe fra le mani di un impudico? Un Dio che muore per i suoi nemici fra le mani di un vendicativo? Ma si può mai pensare a una cosa simile e non morirne di orrore? Oh! no, no, non gli presentate più questo Dio inchiodato su di una croce, tutto è finito per lui, la sua dannazione è sicura. Ah! morire e andar dannato, dopo aver avuto tanti mezzi per salvarsi! O mio Dio, quale rabbia, durante tutta l’eternità, per questo cristiano! F. M., ascoltatelo dare il suo triste addio. Quel povero disgraziato vede i suoi parenti e amici staccarsi da lui, lasciarlo e dire piangendo: « È fatta: muore. » Invano egli si sforza di prendere da loro congedo: « Addio, papà, mamma,… figli miei, addio!… Ahimè! non ha ancora esalato l’estremo respiro e già si vede separato da tutti, nessuno l’ascolta più… Ahimè! muoio e sono dannato Ah! siate più assennati di me! Dovevate, gli si dice, far bene durante la vostra vita ! — Oh ! triste consolazione. Ma non sono questi addii che lo amareggiano maggiormente; sapeva bene che un giorno abbandonerebbe tutto questo. E, prima di precipitare nell’inferno alza gli occhi moribondi al cielo, che non sarà suo per sempre, e dice: Addio, bel paradiso, lieta dimora che ho perduto per sì poca cosa; addio, bella compagnia degli Angeli; addio, mio buon Angelo custode che Dio m’aveva dato perché m’aiutasse a salvarmi; malgrado le vostre cure io mi sono dannato; addio, Vergine santa, mia tenera madre, se avessi voluto implorare il vostro soccorso, mi avreste ottenuto il perdono! Addio, Gesù, Figliuolo di Dio, voi avete patito tanto per salvarmi, ed io mi sono perduto, pur essendo nato in una religione così consolante e così facile a osservarsi; addio, mio pastore, vi ho recato tanti dispiaceri disprezzando voi e tutto ciò che il vostro zelo vi suggeriva per farmi intendere che vivendo come vivevo non potevo salvarmi, addio, addio per sempre… Ah! quelli che sono sulla terra possono almeno sfuggire la disgrazia che è toccata a me; ma per me tutto è finito: non più Dio, non più cielo, non più felicità! Piangerò sempre, sempre starò nei tormenti, senza speranza che venga la fine! … O mio Dio, quanto è terribile la vostra giustizia. O eternità quante lacrime fai versare, quante grida strappi… a me che ho vissuto sperando sempre di lasciare un giorno il peccato e convertirmi. Ma la morte mi ha sorpreso e non ho avuto il tempo! O fratel mio, dice S. Girolamo, vorrai tu rimanere nel peccato, ora che temi di morirvi? Un giorno, ci narra questo gran santo, chiamato per andar a visitare un povero moribondo, vedendolo tutto angustiato, gli domanda che cosa lo conturbasse tanto:  Ah! Padre mio, sono dannato. » E così dicendo esalò l’ultimo respiro. Quale terribile sorte è quella di un peccatore che visse nel peccato! Quanti il demonio ne ha trascinati all’inferno colla lusinga che un giorno si sarebbero convertiti! F. M., quale risoluzione prenderete dunque, voi, che non fate né preghiere, né confessioni, e non avete neppure il pensiero di convertirvi? Ma è possibile restare in uno stato, che ad ogni momento ci mette al pericolo di cadere nell’inferno?… O mio Dio, dateci la fede che ci faccia conoscere, quale grave sventura sia il dannarsi e ci renda impossibile rimanercene nel peccato. – Questa è la felicità che v’auguro.

CREDO …

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps CXXXIV: 3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra.

[Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine.

[Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quæsumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SUL RITARDO DELLA COINVERSIONE.

RITARDO DELLA CONVERSIONE

(Discorsi di San G. B. M. VIANNEY CURATO D’ARS – vol.II, IV Ed. Marietti ed. Torino- Roma, 1933)

Ego vado et quæretis me, et in peccato vestro moriemini

Io vado e mi cercherete, ma morrete nel vostro peccato

 (S. Jean, VIII, 21)

Sì, Fratelli miei, è per noi grande miseria e umiliazione, l’essere stati concepiti col peccato originale, perché nasciamo figli di maledizione; è senza dubbio miseria ancor più grande vivere nel peccato: ma morirvi è il colmo d’ogni sventura. E vero, F . M., noi non abbiamo potuto evitare di contrarre il primo peccato, che è il peccato di Adamo; ma possiamo facilmente sfuggire quello in cui cadiamo volontariamente; o dopo esservi caduti possiamo, colla grazia di Dio, ritrarcene. Ma possibile che noi vogliamo restare in uno stato che ci espone a così grandi sventure per l’eternità? Chi di noi, F . M., non tremerà, sentendo dire da Gesù medesimo che un giorno il peccatore lo cercherà, ma non lo troverà, e morrà nel suo peccato? Lascio pensare a voi in quale stato riposi colui, che vive tranquillo nel peccato, mentre la morte è così sicura, e ne è invece tanto incerto il momento. Lo Spirito Santo ha detto dunque giustamente che gli empi camminano affatto fuor di strada, che i loro cuori sono accecati, che le loro menti sono avvolte di tenebre le più fitte, e che la loro malizia ha finito per ingannarli e rovinarli (Sap. V. 6).Hanno rimandato il loro ritorno a Dio ad un tempo che non sarà loro concesso; hanno sperato di fare una buona morte, pur vivendo nel peccato; ma si sono ingannati, perché la loro morte sarà pessima al cospetto di Dio. Ecco precisamente qual è, F. M., la condotta della maggior parte dei Cristiani ai nostri giorni. Essi vivono nel peccato sperando sempre di fare una buona morte e si cullano nel pensiero che lasceranno la colpa, faranno penitenza, e ripareranno, prima di comparire al giudizio, le colpe commesse. – Ma il demonio li ha ingannati: essi non usciranno dal loro peccato che per essere precipitati nell’inferno. Per meglio farvi intendere l’accecamento del peccatore vi mostrerò:

1° Che più ritardiamo ad uscire dal peccato ed a tornare a Dio, più ci mettiamo a pericolo di morirvi; perché, se volete saperne la ragione, riesce più difficile rompere le nostre cattive abitudini;

2° Che ad ogni grazia che disprezziamo, Dio si allontana da noi; noi diventiamo più deboli, mentre il demonio prende su di noi maggior dominio. Da ciò ne concludo che più noi restiamo nel peccato e più ci mettiamo a pericolo di non convertirci mai.

I. — Parlare della morte sciagurata di un peccatore, che spira nel peccato, a Cristiani, i quali hanno assaporato tante volte la gioia di amare un Dio così buono e conoscono, coi lumi della fede, la grandezza de’ beni che Gesù Cristo prepara a quelli che serberanno l’anima loro libera dal peccato! Questo discorso dovrebbe tenersi a pagani, che non conoscono Dio, né la ricompensa da lui promessa a’ suoi figli. O mio Dio, quanto è cieco l’uomo che perde tanti beni e s’attira tanta copia di mali restando nel peccato! So io domandassi ad un fanciullo: « Perché Iddio ti ha creato e ti conserva ? » mi risponderebbe: « Per conoscerlo, amarlo, servirlo e andarlo a godere nell’altra vita. » Ma se io gli dicessi: « Perché i Cristiani non fanno quello che devono por meritare il cielo? » — « Perché, mi soggiungerebbe, hanno dimenticato i beni del cielo e credono di trovare la loro felicità nelle cose create. » Il demonio li ha ingannati e ancora li ingannerà: vivono nell’accecamento e v i morranno, quantunque nutrano speranza di staccarsi, un giorno, dal peccato. Ditemi, M. F., non si vedono ogni dì persone che vivono nel peccato, disprezzano tutte le grazie che Dio loro manda: buoni pensieri, buoni desideri, rimorsi di coscienza, buoni esempi, e la divina parola? Sperando sempre che Dio li accoglierà, quando vorranno far ritorno a lui, costoro, ciechi, non vedono che il demonio intanto prepara ad essi un posto nell’inferno. Funesto accecamento! Quanti Cristiani esso ha piombati nell’inferno, e quanti ancora ne farà piombare sino alla fine del mondo! E poi questa considerazione deve far tremare un peccatore che vive nella colpa e spera di uscirne. Difatti, voi non siete così poco istruiti da non sapere che un solo peccato mortale, se si viene a morire senz’averlo confessato e senz’averne ottenuto il perdono, basta a dannarci l’anima per sempre. Per questo Gesù Cristo ci ha detto di stare sempre pronti, perché ci farà uscir da questo mondo quando meno vi penseremo, e che se non abbandoniamo il peccato prima ch’esso ci abbandoni, ci punirà senza misericordia. O mio Dio! è possibile vivere in uno stato che ci mette a rischio, ad ogni momento, di precipitare nell’abisso dell’inferno? Se questa riflessione, o F. M., non è capace di scuotervi, ascoltatemi un istante, o piuttosto aprite il Vangelo, e vedrete, se potete vivere tranquilli nel peccato, come fate. – Sì, M. F., tutto annunzia che se non vi affrettate ad uscire dal peccato, perirete: gli oracoli, le minacce, le similitudini, le figure, le parabole, gli esempi, tutto vi dice che, o non potrete o non vorrete più convertirvi. Udite Gesù Cristo che di sua bocca grida al peccatore: « Camminate fino a che la luce della fede brilla dinanzi a voi » (Jov. XII, 35) per timore di uscire di strada per sempre, se disprezzate questa guida. E in un altro luogo dice: « Vegliate, vegliate continuamente » (Marc. XIII, 83) perché il nemico della vostra salute lavora alla vostra rovina. E pregate, pregate senza interruzione per attirare su di voi gli aiuti del cielo, poiché i vostri nemici sono molto astuti e molto potenti. A che posseder tanto, dice ancora, e vivere occupati delle cose temporali e dei vostri piaceri, se tra poco avrete abbandonato ogni cosa? Ma nulla, o M. F., è più spaventoso che la minaccia fatta da Gesù Cristo ai peccatori quando dice loro che se non ritornano a Lui, allorché Egli offre loro la sua grazia, verrà giorno in cui lo cercheranno e gli domanderanno misericordia, ma alla sua volta li disprezzerà ; e per timore che le loro lagrime e le lor preghiere lo commuovano si chiuderà le orecchie e sfuggirà da loro. O mio Dio, quale sventura l’essere abbandonati da voi! Ah! M. F., possiamo noi pensarvi e non morirne di dolore? Sì, M. F., se voi siete insensibili a questa parola, siete già perduti. Ah! povera anima, piangi anticipatamente i tormenti che ti si apparecchiano nell’altra vita! Andiamo innanzi, F . M., ascoltiamo Gesù Cristo medesimo e vedremo, se possiamo dirci al sicuro vivendo nel peccato. « Sì, Egli dice, come di notte il ladro, viene e cerca di cogliere il padrone di casa nel momento in cui dorme più profondamente (MAtth. XXIV, 43), » così verrà la morte a troncare il filo della vita colpevole del peccatore; verrà nel momento appunto in cui egli avrà la coscienza carica di peccati ed avrà preso la bella risoluzione di staccarsene, senza poi averlo fatto. In un altro luogo ci dice che la nostra vita passa « colla stessa rapidità del lampo che guizza da oriente ad occidente » (Matt. XXIV, 27); così noi vediamo oggi il peccatore pieno di vita e di sanità, colla mente ripiena di mille progetti; e domani le lagrime dei suoi annunzieranno che non è più di questo mondo, che ne è uscito senza sapere perché vi fosse e per qual fine. Questo insensato visse cieco e morì com’era vissuto. – Gesù Cristo oi dice ancora che la morte è l’eco della vita, per dimostrarci che chi vive in peccato è quasi sicuro di morirvi, salvo un miracolo della grazia. Questa è cosa tanto vera che si legge nella storia d’un uomo che aveva fatto del denaro il suo dio e che essendo caduto gravemente infermo, si fece portare un cassetto pieno d’oro per avere il piacere di contarlo, e quando non ne ebbe più la forza v’immerse la mano finche morì. Un altro a cui il confessore presentò  il crocifisso per eccitarlo a contrizione delle sue colpe, uscì a dire: « Se questo crocifisso fosse d’oro, costerebbe tanto. » Ah! no, F. M., il cuore del peccatore non abbandona il peccato così facilmente come si crede. « Vita di peccatore, morte da riprovato. » Che vuol insegnarci, F . M., Gesù Cristo, colla parabola delle vergini prudenti e delle vergini stolte, di cui le une furono così bene accolte, perché entrarono collo sposo, e le altre invece trovarono chiusa la porta? Voleva insegnarci quale fosse la condotta della gente del mondo: le vergini prudenti rappresentano i buoni Cristiani che si tengono sempre preparati a comparire dinanzi a Dio, in qualunque momento Egli li chiami; le vergini stolte sono la figura dei cattivi Cristiani, che credono di aver sempre tempo per prepararsi alla morte e convertirsi, uscir dal peccato e fare opere buone. In questo modo passano la vita; la morte arriva, ma essi non hanno fatto che male e nulla di bene. La morte li colpisce, Gesù Cristo li chiama al suo tribunale per domandare ad essi conto della loro vita; vorrebbero, è vero, mettere un po’ di ordine nella loro coscienza, si affannano, tentano di lasciare il peccato, ma sciaguratamente non ne hanno né il tempo, né la volontà, e fors’anche la grazia necessaria. Quando domandano a Dio di aver pietà di loro e di usare misericordia, Dio risponde che non li conosce, e chiude loro la porta, cioè li precipita nell’inferno. Ecco, M. F., la sorte di un gran numero di peccatori che vivono così tranquilli nel peccato. – Ah! povera anima, quanto sei infelice, dovendo abitare in questo corpo che con tanto furore ti trascina all’inferno. Ah! amico mio, perché vuoi perdere questa povera anima? Che male t’ha fatto per condannarla a tanta sciagura? O mio Dio, quanto è mai cieco l’uomo! – F. M., nella condotta di Esaù, noi abbiamo il vero ritratto di un uomo che si perde vendendo la propria felicità per un piatto di lenti. Per qualche tempo Esaù visse quasi insensibile alla sua perdita « (Gen. XXV, 34) non pensava che a divertirsi e a darsi ai piaceri, tuttavia giunse il momento in cui si ricordò del fallo commesso e rientrò in sé medesimo; ma più vi pensava o più scopriva la gravità del suo accecamento. Desolatissimo della sua sventura, cerca, se gli è possibile, di rimediarvi, adopera preghiere, lagrime, singhiozzi, per tentar di commuovere il cuore del padre, ma troppo tardi; il padre ha dato ad un altro la sua benedizione, le preghiere di Esaù non sono prese in considerazione e le sue sollecitazioni non trovano ascolto. Può ben affannarsi, conviene che si rassegni a rimanere nella miseria e a morirvi. Ecco precisamente, F . M., ciò che accade ogni giorno al peccatore. Egli vende Dio, l’anima e il posto in cielo per meno di un piatto di lenticchie, cioè per un piacere momentaneo, per un pensiero di odio, di vendetta, per uno sguardo o un atto disonesto sopra se stesso o sopra altri, per un pugno di terra, per un bicchiere di vino. Oh! anima che sei tanto bella, in cambio di quali cose vili sei ceduta! Vediamo poi che questi peccatori vivono durante qualche tempo così tranquilli e così in pace, almeno apparentemente, come se in tutto il corso della loro vita non avessero fatto che opere buone. Gli uni pensano ai loro piaceri, gli altri ai beni di questa terra; ma, simili ad Esaù, viene il momento in cui riconoscono il loro errore e vorrebbero porvi rimedio; ma troppo tardi. Gemono, versano lagrime, scongiurano il Signore di restituire loro i beni che hanno venduto, cioè il cielo; ma il Signore fa con essi quello che fece il padre di Esaù, dice loro che ha dato a un altro il loro posto. Ah! quel povero peccatore ha un bel gridare e domandare misericordia; bisogna che si rassegni a rimanere nella miseria e precipitare nell’inferno. O mio Dio, quanto è disgraziata la morte del peccatore agli occhi del Signore! – Ah! quanti fanno come l’infelice Sisara, che una donna perfida addormentò dandogli da bere un po’ di latte, e mentre dormiva repentinamente lo uccise, senza dargli tempo di piangere il suo accecamento nell’essersi fidato di quella sleale (Jud. IV). Allo stesso modo, quanti peccatori la morte rapisce repentinamente senza dar loro tempo di piangere il proprio accecamento d’essere rimasti nel peccato. Quanti altri fanno come l’empio Antioco, riconoscono i loro delitti, li piangono e supplicano misericordia senza poter nulla ottenere, e chiedendo misericordia precipitano nell’inferno. È questa, F. M., la fine dei peccatori che differiscono la loro conversione. Senza dubbio nessuno di noi, o cari, vorrebbe fare una morte cattiva, e abbiamo ragione, ma ciò che mi angustia è il vedervi vivere nel peccato ed esporvi così audacemente al pericolo di morirvi. Non sono soltanto io che ve lo dico, ma è Gesù Cristo medesimo che ve lo assicura. Non è vero, che voi pensate: lasciamo dire il prete, e tiriamo innanzi per la nostra strada? — Sapete, che cosa vi avverrà, se lasciate dire il prete? — E che volete che ci accada? — Eccovelo: voi sarete dannato. — Spero di no, pensate voi, vi è tempo per tutto. — Miei cari, forse avremo tempo di piangere e di soffrire, ma non lo avremo di convertirci. E per dimostrarvelo voglio narrarvi un terribile esempio. Si racconta nella storia che un uomo di vita allegra, che aveva vissuto per lungo tempo nei disordini, tardi convertitosi, per qualche tempo perseverò; ma poi ricadde, e non pensava più a tornare a Dio. I suoi amici lo pregavano continuamente, ma egli non faceva conto di quanto gli si diceva. In quel tempo fu annunciato che tra breve sarebbesi dato un corso di esercizi spirituali. Si credette quella una circostanza opportuna per indurre quel peccatore a profittare dell’occasione, che Dio gli dava di rientrare nel cammino della salute. Dopo molte preghiere e insistenze fattegli dagli amici, dopo molte resistenze e rifiuti da parte sua, acconsentì e diede parola di partecipare cogli altri agli esercizi. Ma che cosa avvenne, o F. M.? O giudizi di Dio, come siete impenetrabili e terribili! Proprio la mattina, in cui era aspettato e nella quale dovevano cominciarsi gli esercizi, fu annunciato che quell’uomo era stato trovato morto in casa sua; senza che nessuno si accorgesse, senza soccorsi, senza Sacramenti. Comprendete una buona volta, F. M., che cosa sia restarsene nel peccato, colla speranza d’uscirne un giorno? Ah! M. F., noi abusiamo del tempo, mentre l’abbiamo, disprezziamo le grazie mentre il buon Dio ce le offre; ma spesso Iddio ce le toglie, per punirci, quando vorremmo profittarne. Se adesso non pensiamo a far bene, forse, quando vorremo, non lo potremo. Voi pensate, nevvero, che un giorno vi confesserete, abbandonerete il peccato e farete penitenza? — Sì, è ben questa la mia intenzione. — È la intenzione vostra, ma io vi dirò che cosa sarete e che sarà di voi. Al presente voi siete in peccato, questo non me lo negate, nevvero? Ebbene dopo la vostra morte sarete dannato. — Ma, e che ne sapete voi? — Se non lo sapessi non ve lo direi. D’altra parte vi proverò che, vivendo nel peccato, pur conservando la speranza di abbandonarlo, non lo farete mai, quand’anche lo bramaste con tutto l’animo; e comprenderete che cosa sia il non curarci del tempo e delle grazie che Dio ora ci offre. Si racconta nella storia il caso di un forestiere che passando per Donzenac (il forestiere era un lorenese ed esercitava la professione di libraio) si rivolse ad un sacerdote perché ne ascoltasse la confessione; ma il sacerdote, non so perché, vi si rifiutò. Di là andò in una città che si chiama Brives, e presentatosi al procuratore del re gli disse: « Signore, io vi prego di mettermi in carcere, perché mi sono venduto al diavolo qualche tempo fa ed ho sempre sentito dire che egli non ha alcun potere su quelli che sono tra le mani della giustizia. » — « Mio caro, gli rispose il procuratore del re, voi non sapete che cosa sia essere tra le mani della giustizia; se vi si cade una volta, non se ne esce poi, quando si vuole. » — « Non importa, signore, fatemi imprigionare. » — Il procuratore lo credette matto, e pensò che, mettendolo in prigione, si sarebbe attirato gli scherni di tutti; anzi che non valeva la pena di spendere parole con lui. Vide passare per via un sacerdote, che conosceva, lo chiamò e gli disse: « Reverendo, di grazia, abbiate cura dell’anima di quest’uomo. » — E a lui: « Mio caro, andate con questo buon prete e fate tutto quello che vi dirà. „ — Il sacerdote, dopo che gli ebbe parlato, credette anch’egli come il procuratore del re, che avesse la mente sconvolta e lo pregò di rivolgersi altrove, perché egli non poteva addossarsi il peso della sua direzione. Quel disgraziato, non sapendo che cosa fare, andò in due conventi a chiedere un religioso sacerdote, che volesse usargli la carità di ascoltarlo in confessione. Presso di uno gli si disse che i Padri erano già ritirati nelle loro celle, dovendo alzarsi a mezzanotte; quando ebbe bussato alla porta dell’altro ebbe la fortuna di parlare con un padre, ma questi rimandò ogni cosa al giorno dopo. Ma quel povero sventurato si mise a piangere, dicendo: « Se non avete compassione di me, io sono rovinato; mi sono venduto al diavolo, e l’ora mia giunge stanotte. » — « Andate, amico mio, gli rispose il padre, e raccomandatevi alla Ss. Vergine; » gli diede una corona del Rosario e lo licenziò. Mentre passava per la piazza e piangeva per non aver trovato un confessore fra tanti religiosi sacerdoti che erano in quei conventi; vide parecchi abitanti che conversavano insieme, e domandò se alcuno di loro avesse la cortesia di dargli alloggio. Un macellaio gli rispose che volentieri gli usava questa gentilezza. Condottolo a casa sua, quel disgraziato gli narrò come aveva avuto la sventura di vendersi al diavolo, che egli sperava di aver tempo di confessarsi, lasciare il peccato e far penitenza; ma che nessun sacerdote aveva voluto confessarlo. Il macellaio trovò che era cosa ben strana la poca cura di quei preti. —- « Ah! signore, vedo bene che Dio l’ha permesso per punirmi del tempo e delle grazie di cui ho abusato. » — « Mio caro, gli disse il macellaio, ciò non ostante, bisogna pur ricorrere a Dio. » — « Ah! signore, io sono rovinato, questa notte il demonio deve uccidermi, e portar via la mia anima. » — Il macellaio, a quanto pare, non andò a dormire per vedere se quell’uomo aveva perduto il ben dell’intelletto o se pur diceva il vero. Difatti verso mezzanotte udì un orrendo fracasso e grida spaventose, come di due persone di cui l’una strangolasse l’altra. Accorse il macellaio e vide il demonio che trascinava verso il cortile quell’infelice. Egli fuggì e si chiuse in casa. Il giorno dopo, quell’uomo fu trovato appeso come un vitello a un chiodo della beccheria. Il demonio gli aveva strappato un pezzo del mantello e con esso l’aveva strangolato e appeso. Vedete, M. F.. che rimandando la nostra riversione, ci esponiamo al pericolo di non convertirci mai. Non è forse vero che, quando eravate malato avete chiamato un prete per confessarvi? Durante la vostra malattia non avete voi detto che è troppo grande cecità aspettare la morte per amare Dio, e che, se Egli vi restituiva la salute, avreste fatto meglio che per il passato, e che sareste stato più accorto? Ma, cari miei, non siete persuasi che il vostro pentimento non viene da Dio, né dal dolore delle vostre colpe, ma soltanto dal timor dell’inferno? Fate come Antioco, il quale piangeva i castighi, che gli attiravano i suoi peccati; ma il suo cuore non era mutato. Carissimi, Dio vi ha restituito la sanità che avete implorato con tanto ardore, promettendogli che avreste fatto meglio. Ditemi, dopo ricuperata la sanità, avete messo giudizio? Avete offeso meno Iddio? Vi siete corretti di qualche difetto? Andate con maggior frequenza ai Sacramenti? Volete che vi dica ciò che siete diventati? Eccolo: prima della vostra malattia vi confessavate ancora, di tanto in tanto, ma, da quando Dio vi ha restituita la salute, a mala pena fate Pasqua. E quanti fra coloro che mi ascoltano appartengono a questa categoria. Ma non prendetevi troppo fastidio, vedrete che alla prima malattia Dio vi farà uscire da questo mondo, o, per essere più chiaro, vi precipiterà nell’inferno. Ora potete concludere finalmente, io penso, che restando nel peccato, non ostante la speranza di abbandonarlo un giorno, voi vi fate giuoco di Dio. Ma per farvi capire ancor meglio che voi scherzate presumendo che Dio vi perdonerà quando voi gli domanderete il perdono, voglio citarvi un esempio che sopra ogni altro conviene al nostro argomento. – Si racconta di un tale che era grandemente buono. Aveva un servitore che non lasciava mai passare occasione di offendere il suo padrone, e suo maggior diletto era di farlo quando molti erano presenti. Gli rubò parecchie cose di gran valore, gli sedusse una sua figliuola, e alla fine fuggì di casa temendo di essere arrestato. Passato qualche tempo andò a trovare un sacerdote che sapeva molto stimato dal suo padrone. Il sacerdote si assunse l’incarico di pregare il padrone perché volesse perdonare le colpe di quel domestico. Quel signore, pieno di bontà rispose: « Farò come desiderate, ma voglio però che mi dia qualche soddisfazione; altrimenti sarebbe come dar mano libera a tutti gli scellerati. » Il sacerdote, pieno di gioia, va dal domestico e gli dice: « Il vostro padrone ha avuto la carità di perdonarvi; ma vuole, com’è giusto, una piccola soddisfazione. » E il domestico a lui: « E quale soddisfazione vuole, e in che tempo? » Il sacerdote gli soggiunse: « Andate subito in casa sua e prostratevi dinanzi a lui col capo scoperto. » — « Ah! il mio padrone esige tanto onore! per conto mio sono disposto soltanto a domandargli scusa; egli vuole che io faccia questo in casa sua e a capo scoperto, ed io invece voglio farlo nella mia stanza e adagiato sul mio sofà. Egli desidera che io lo faccia subito; la mia intenzione invece è quella di farlo fra dieci anni, quando, forse, sarò vicino a morire. » Che pensate, F. M., e che ne dite di questo domestico? Quale consiglio voi avreste dato a quel signore? Non gli avreste detto: « Il vostro domestico, signore, è uno sciagurato; merita di esser cacciato in fondo a un carcere e di uscirne solo per essere mandato sulla forca. » Ebbene, F . M., vedete voi in questo esempio il vostro modo di comportarvi con Dio? Non è forse vero che adoperate con Lui lo stesso linguaggio quando dite che vi è tempo ancora, che non c’è premura, che non siete ancora morto? Ah! quanti poveri peccatori sono accecati sullo stato dell’anima loro, e sperano di fare ciò, che diventerà loro impossibile, quando crederanno tempo di farlo!… – Ma andiamo innanzi, e vedremo che più voi differite di uscire dal peccato e più vi mettete nell’impossibilità di uscirne. Non è forse vero che qualche tempo fa la divina parola vi toccava il cuore, vi faceva pensare e che parecchie volte avevate risoluto di lasciare il peccato e di darvi a Dio? Non è forse vero che il pensiero del giudizio di Dio e dell’inferno vi ha fatto piangere, e che ora tutto ciò non vi commuove punto, né vi fa fare alcuna riflessione? Perché questo, o F. M.? Ah! perché  il cuore è indurito e Dio vi abbandona; sicché più restate nel peccato e più Dio s’allontana  da voi, e più non sentite il danno della vostra perdizione. Ah! se foste morti alla prima malattia, almeno non dovreste essere così profondamente immersi nell’inferno! — Ma se volessi ora tornare a Dio, Egli mi riceverebbe volentieri ancora! — Su questo proposito non vi dico niente. Se non avete ancora messo il colmo ai peccati, che Dio ha stabilito di perdonarvi; se non avete ancora calpestate le grazie che egli decretava di elargirvi, fatelo pure: ma se la misura dei peccati e delle grazie è piena, tutto è perduto per voi; avrete un bel fare le più belle risoluzioni D’altra parte, l’insegnamento pratico dovete raccoglierlo dall’esempio che ho narrato poc’anzi. Ah! mio Dio, è possibile pensare a ciò seriamente e non fare quanto è in nostro potere per tentare se Dio voglia ancora avere pietà di noi? — Ma, penserete, forse, in cuor vostro, dobbiamo dunque abbandonarci alla disperazione? — Ah! miei cari, vorrei condurvi a due dita dalla disperazione, perché, colpiti dall’orribile stato in cui siete, usiate dei mezzi che Dio vi offre, anche in questo momento, per uscirne. — Ma, direte forse, quanti si sono convertiti sul letto di morte; il buon ladrone è tornato a Dio proprio qualche ora prima di morire. — Il buon ladrone, anzitutto, F. M., non aveva mai conosciuto Iddio. Appena lo conobbe, si diede a Lui; e poi, esso è l’unico esempio che la S. Scrittura ci fornisce per non farci interamente disperare in quel momento. — Ma vi sono pure molti altri che si sono convertiti, quantunque avessero vissuto a lungo nel peccato. — Badate bene, credo che vi inganniate: dovete dire che molti si sono pentiti, ma quanto all’essersi convertiti è un’altra cosa. Questo precisamente farete anche voi; e l’avete già fatto nelle vostre malattie; voi avete fatto chiamare un prete, perché eravate impressionati di sentirvi male. Ebbene, non ostante il vostro pentimento, vi siete convertiti? Tutt’altro, siete divenuti più ostinati. Ah! M. F., tutti questi pentimenti valgono ben poca cosa. Saul s’è pur pentito, poiché ha pianto i suoi peccati (I Reg. XV, 24-30); tuttavia è dannato; Caino s’è pentito, poiché, dopo avere ucciso suo fratello (La Genesi nulla dice circa il pentimento di Caino; al contrario riferisce queste sue parole di disperazione: « La mia iniquità è troppo grande per meritare d’essere perdonata. » Gen. IV, 13), ha levato al cielo grida strazianti; eppure è all’inferno. Giuda si è pentito anch’egli, poiché andò a restituire il prezzo del tradimento; ma poi si è impiccato (S. Matt. XXVII,3) . Se ora mi chiedete dove tutti questi pentimenti hanno condotto quei peccatori, vi risponderò: all’inferno. Verrò sempre alla mia conclusione che se vivete nel peccato, morirete nel peccato e sarete dannati; ma spero di no, voi non arriverete fino a questo punto. – In terzo luogo, proseguendo, vi dimostrerò che voi non avete nulla, nel vostro modo di vivere, che vi dia qualche sicurezza; al contrario tutto deve spaventarvi, come vedrete.

1° Sapete che da voi stessi non potete uscire dal peccato, siete perfettamente convinti che è necessario l’aiuto della grazia di Dio, poiché S. Paolo ci insegna che « senza la grazia di Dio non siamo neppur capaci di fare un sol pensiero (II Cor. III, 5). » Sapete altresì che il perdono potete ottenerlo soltanto da Dio. Approfondite bene, o M. F., queste due riflessioni e vedrete che siete ciechi, o, per parlare più francamente, che siete perduti se non uscite prontamente dal vostro peccato. Ma, ditemi, forse conculcando le grazie di Dio potete sperare d’aver maggior forza per rompere le catene delle cattive abitudini? O non è vero invece il contrario? Più andate innanzi e più meritate che Dio si ritiri da voi e vi abbandoni. Da ciò io concludo che, più voi tardate a ritornare a Dio e più vi mettete in pericolo di non convertirvi mai. Ho detto che da Dio soltanto possiamo ottenere il perdono. Ebbene, ditemi, forse moltiplicando i vostri peccati sperate che Dio debba più facilmente perdonarvi? Lasciate che ve lo dica, voi siete cieco; vivete in peccato per poi morirvi ed essere dannato. Ecco, dove vi condurrà la vostra maniera di pregare e di vivere: « Vita di peccatore, morte da riprovato. » Ma per meglio farvelo intendere, portiamoci col pensiero a quel momento, che è l’ultimo della vita.

II. — So benissimo che voi avete risoluto di fare una buona morte, convertirvi e abbandonare il peccato. Accostiamoci dunque al letto di un moribondo: vi troveremo steso un uomo, che in tutta la sua vita ha fatto quello che fate voi. ha vissuto nel peccato, ma sempre colla speranza di staccarsene prima di morire. Esaminatelo bene, osservate attentamente il suo pentimento, la sua conversione, la sua morte. Poi pensate quel che siete adesso e vedrete ciò che sarete un giorno. Non allontaniamoci, F. M., dal letto di questo moribondo finché non sia fissata per sempre la sua sorte. Anch’egli s’è ripromesso sempre pur vivendo nel peccato e nei piaceri, di fare una buona morte, di riparare a tutto il male che aveva fatto durante tutta la sua vita. Imprimetevelo bene nel cuore, per non dimenticarlo mai, e aver continuamente dinanzi agli occhi quale sarà la vostra sorte. – Vi dirò anzitutto che durante tutta la sua vita fu trattenuto da ostacoli, che gli parevano insormontabili. Primo fra tutti, pensare di non poter lasciare le abitudini cattive; in secondo luogo, credere di non avere forza o grazia sufficiente. Egli capiva benissimo, quantunque si trovasse in peccato, quanto costi e come sia difficile fare una buona confessione e rimediare ad una vita che fu tutta una catena di colpe orrende. Ma il tempo prosegue rapido il suo corso, esso ormai stringe; bisogna cominciare a fare ciò che non si volle far mai, scendere in quel cuore che è un abisso di vergogne, simile ad un cespuglio irto di spine così orribili che non si sa da qual parte pigliarlo e si finisce col lasciarlo stare. Di quando in quando perde la conoscenza, pure non vuol morire in quello stato, vuol convertirsi, cioè lasciare il peccato prima di morire. So bene che morrà, ma quanto al convertirsi non gli credo affatto: bisognerebbe che facesse ora quello che doveva fare quando era sano. Nell’impossibilità di farlo, colle lagrime agli occhi, fa le stesse promesse che fece ogni volta che si vide vicino a morire; ma Dio non ascolterà più queste menzogne e queste falsità. Bisognerebbe perciò distruggere il peccato, il quale ha approfondito talmente le sue radici che egli non ha più la forza di svellerlo; avrebbe bisogno di una grazia straordinaria, ma Dio, in pena del disprezzo in cui tenne quelle che gli aveva largito durante la sua vita, gliela nega, e gli volge le spalle per non vederlo, si tura le orecchie per non lasciarsi commuovere dalle sue grida e dai suoi singhiozzi. Deve morire, e la conversione diventa sempre più impossibile; perde la conoscenza, delira, risponde una cosa per l’altra. Il sacerdote si lamenta; bisognava chiamarlo un giorno prima; quel malato non ha cognizione abbastanza e non può confessarsi. Reverendo vi ingannate, egli ha tutta la cognizione che deve avere prima di morire; se foste venuto ieri per confessarlo Dio gli avrebbe tolto egualmente la conoscenza; è rimasto nel peccato calpestando il tempo e le grazie che Dio gli aveva date e, come vuole la divina giustizia, deve morire nel peccato. Abbiate un po’ di pazienza e non tarderete a vederlo trascinato nell’inferno dai demoni, ai quali durante la sua vita ha così bene obbedito; non torcete lo sguardo da lui e lo vedrete esalare all’inferno l’anima sua dannata. Ma prima di questo terribile momento consideriamo, o M. F., il suo agitarsi, domandategli se vuole confessarsi, se è dolente di aver offeso Iddio, e vi farà segno di sì; vorrebbe confessarsi, ma non lo può. Bisogna morire; e niente conversione, niente conoscenza! Accostatevi, vedete quel vecchio peccatore indurito, che ha disprezzato ogni cosa, che si è beffato di tutto, e credeva che dopo morto tutto fosse finito per lui. Vedete quel giovane libertino, che quindici giorni or sono faceva risonare le osterie delle più infami canzonacce; vedete quella giovane mondana portata sulle ali della vanità, che credeva di non mai arrestarsi, e morire. O mio Dio, bisogna morire! Quale mutazione! bisogna morire e andare dannata. Vedete quegli occhi invetrati, che annunciano vicinissima la morte: il morente vede tutti in gran faccende, che lo osservano e piangono. Mi conoscete? gli chiedono. A mala pena apre gli occhi spaventati, che mettono terrore a tutti quelli che lo circondano, e lo guardano tremanti, a capo chino. Uscite di là, lasciatelo morire come è vissuto. No, m’inganno, venite, F. M., che da tanti anni rimandate ad altro tempo la vostra conversione. Vedete le sue labbra fredde e tremanti che non possono più muoversi e gli annunziano che deve morire e andare dannato. Amico mio, lasciate un momento quell’osteria, venite e osservate quelle guance pallide e li vide, quei capelli bagnati dal sudore della morte. Osservate i capelli che gli si drizzano sul capo. Pare che provi già gli orrori della morte. Ah! per lui tutto è finito, bisogna morire e andar dannato. Venite, sorella mia, lasciate per un momento quel suonatore e quel ballo; venite e vedrete che cosa sarete un giorno. – Vedete quei demoni che lo circondano e lo gettano nella disperazione? Vedete quelle orribili convulsioni? No, M. F., non vi è più speranza. Quell’anima deve uscire dal proprio corpo; o mio Dio, dove andrà? Ah! sua dimora sarà l’inferno! No, no, M. F., un momento; gli restano ancora alcuni minuti di vita per abbracciare con uno sguardo tutta la sua sciagura. Vedete s’avvicina la sua fine… gli astanti e il sacerdote si mettono in ginocchio per tentare se Dio vuoi avere pietà di quella povera anima. « Anima cristiana, gli dice il sacerdote, parti da questo mondo. » E dove volete che vada, poiché ha vissuto solo pel mondo, ed ha pensato soltanto al mondo? E poi, a giudicare dal modo con cui è vissuta, credeva di non doverne uscire mai. Voi le augurate il cielo, ma essa neppure lo conosce. Vi sbagliate, ditele piuttosto: « Uscite da questo mondo, anima colpevole, e andate a bruciare fra i tormenti; poiché per questo solo avete lavorato durante tutta la vita. » — « Anima cristiana, le dice il sacerdote, andate a riposarvi nella celeste Gerusalemme. » E che? voi mandate in quella bella città un’anima coperta di peccati, il cui numero è maggiore di quello delle ore di sua vita? un’anima la cui vita fu una catena di impurità, volete collocarla in compagnia degli angeli, in compagnia di Gesù Cristo che è la purezza in persona? Quale orrore, quale abbominazione! Mandatela all’inferno, poiché quello è il luogo che le è fissato. « Mio Dio – continua il sacerdote – Creatore di tutte le cose, riconoscete quest’anima che è opera delle vostre mani. » E che, voi osate presentare a Dio come opera sua, un’anima che è un cumulo d’iniquità, un’anima che è tutta putridume? cessate, di rivolgervi al cielo, volgete gli sguardi all’abisso, e vedete i demoni che anelano di averla in lor possesso: gettate loro quest’anima dannata, poiché essa non ha lavorato che per loro. « Mio Dio, forse aggiungerà ancora il sacerdote, accogliete quest’anima, che vi ama come Creatore e Salvatore. » Essa ama Iddio? E dove ne sono i segni? Dove sono le sue preghiere ben fatte, le sue buone confessioni, le sue fervorose comunioni? O meglio diciamo dove sono le sue Pasque? Tacete, udite il demonio, il quale grida che quell’anima gli appartiene, che s’è data a lui da lungo tempo. Hanno fatto il cambio: egli le ha dato denaro, modo di vendicarsi, le ha procurato occasioni di soddisfare i suoi infami desideri; no, no, non gli parlate più del cielo. Del resto essa non vuol saperne; preferisce andar a bruciare negli abissi e coperta d’iniquità, che di andare in cielo, alla presenza di un Dio sì puro. Fermiamoci ora un momento prima che il demonio si impadronisca di questo riprovato. Egli ha conoscenza sol quanto gli basta per scorgere gli orrori del passato, del presente e dell’avvenire, che sono altrettanti torrenti dell’ira di Dio, che gli si rovesciano sopra per compire la sua disperazione. Dio permette che a quell’infelice, il quale tutto ha disprezzato, si affaccino in quell’istante al pensiero tutti i mezzi che egli gli offriva per salvarsi l’anima: vede che aveva bisogno di tutto quello che Dio gli aveva messo innanzi, e che non gli ha giovato a nulla. Dio permette che in quel momento egli ricordi, ad uno ad uno, tutti i buoni pensieri che durante la vita gli ha mandato; e comprende quanto grande fu la sua cecità di non salvarsi. O mio Dio, quale disperazione in quel momento vedendo che poteva così facilmente salvarsi, e invece s’è dannato. Poi il presente e l’avvenire completeranno la sua disperazione. Egli è ben persuaso che fra pochi minuti sarà all’inferno, per non uscirne mai più… Il sacerdote vedendo che per la confessione non v’è più nulla a fare, gli presenta il crocifisso per eccitarlo a dolore e a confidenza, dicendogli: « Amico mio, ecco il vostro Dio, morto per redimervi; abbiate fiducia nella sua misericordia che è infinita. » — Ma non vedete che voi non fate che accrescere la sua disperazione? Vi pare?… Un Dio coronato di spine fra le mani di una creatura leggera e mondana, che durante tutta la sua vita non ha cercato che di abbigliarsi e di piacere al mondo? Un Dio spoglio di tutto, perfino degli abiti, fra le mani di un avaro? quale orrore!… Un Dio coperto di piaghe fra le mani di un impudico? Un Dio che muore per i suoi nemici fra le mani di un vendicativo? Ma si può mai pensare a una cosa simile e non morirne di orrore? Oh! no, no, non gli presentate più questo Dio inchiodato su di una croce, tutto è finito per lui, la sua dannazione è sicura. Ah! morire e andar dannato, dopo aver avuto tanti mezzi per salvarsi! O mio Dio, quale rabbia, durante tutta l’eternità, per questo cristiano! F. M., ascoltatelo dare il suo triste addio. Quel povero disgraziato vede i suoi parenti e amici staccarsi da lui, lasciarlo e dire piangendo: « È fatta: muore. » Invano egli si sforza di prendere da loro congedo: « Addio, papà, mamma,… figli miei, addio!… Ahimè! non ha ancora esalato l’estremo respiro e già si vede separato da tutti, nessuno l’ascolta più… Ahimè! muoio e sono dannato Ah! siate più assennati di me! Dovevate, gli si dice, far bene durante la vostra vita ! — Oh ! triste consolazione. Ma non sono questi addii che lo amareggiano maggiormente; sapeva bene che un giorno abbandonerebbe tutto questo. E prima di precipitare nell’inferno alza gli occhi moribondi al cielo, che non sarà suo per sempre, e dice: Addio, bel paradiso, lieta dimora che ho perduto per sì poca cosa; addio, bella compagnia degli Angeli; addio, mio buon Angelo custode che Dio m’aveva dato perché m’aiutasse a salvarmi; malgrado le vostre cure io mi sono dannato; addio, Vergine santa, mia tenera madre, se avessi voluto implorare il vostro soccorso, mi avreste ottenuto il perdono! Addio, Gesù, Figliuolo di Dio, voi avete patito tanto per salvarmi, ed io mi sono perduto, pur essendo nato in una religione così consolante e così facile a osservarsi; addio, mio pastore, vi ho recato tanti dispiaceri disprezzando voi e tutto ciò che il vostro zelo vi suggeriva per farmi intendere che vivendo come vivevo non potevo salvarmi, addio, addio per sempre… Ah! quelli che sono sulla terra possono almeno sfuggire la disgrazia che è toccata a me; ma per me tutto è finito: non più Dio, non più cielo, non più felicità! Piangerò sempre, sempre starò nei tormenti, senza speranza che venga la fine! … O mio Dio, quanto è terribile la vostra giustizia. O eternità quante lacrime fai versare, quante grida strappi… a me che ho vissuto sperando sempre di lasciare un giorno il peccato e convertirmi. Ma la morte mi ha sorpreso e non ho avuto il tempo! O fratel mio, dice S. Girolamo, vorrai tu rimanere nel peccato, ora che temi di morirvi? Un giorno, ci narra questo gran santo, chiamato per andar a visitare un povero moribondo, vedendolo tutto angustiato, gli domandai che cosa lo conturbasse tanto:  Ah! Padre mio, sono dannato. » E così dicendo esalò l’ultimo respiro. Quale terribile sorte è quella di un peccatore che visse nel peccato! Quanti il demonio ne ha trascinati all’inferno colla lusinga che un giorno si sarebbero convertiti! F. M., quale risoluzione prenderete dunque, voi, che non fate né preghiere, né confessioni, e non avete neppure il pensiero di convertirvi? Ma è possibile restare in uno stato, che ad ogni momento ci mette al pericolo di cadere nell’inferno?… O mio Dio, dateci la fede che ci faccia conoscere, quale grave sventura sia il dannarsi e ci renda impossibile rimanercene nel peccato. – Questa è la felicità che v’auguro.

LO SCUDO DELLA FEDE (148)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (17)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE XVI.

La Madonna, Vergine e Madre di Dio.

90. Prot. Debbo dunque cedere alla Chiesa Cattolica anche sul dogma dell’Eucaristia; ma non cederò certamente ai suoi eccessi di fanatismo per la Madonna. Non sapete a quali eccessi su questo punto è arrivata? Essa crede ed insegna, qual dogma di fede, che la Madonna è Vergine e Madre di Dio!!! La prima asserzione è una falsità: la seconda è una bestemmia ereticale; perché fa di una donna una specie di divinità? Io più rettamente credo ed insegno che la Madonna non è che una donna come tutte le altre, niente di più.

Bibbia. È scritto « Per questo il Signore darà egli stesso a voi un segno: Ecco che una Vergine concepirà e partorirà un figliuolo, e il nome di Lui sarà detto Emmanuel. (Isa.  VII, 14  – « Un Angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe figliuolo di Davide, non temere di prendere Maria tua consorte; imperocché ciò che in essa è stato concepito dallo Spirito Santo…. Tutto questo seguì, affinché si adempisse quanto era stato detto dal Signore per mezzo del Profeta, che dice: Ecco che la Vergine sarà gravida, e partorirà un figliuolo, e lo chiameranno per nome Emmanuel: che interpretato significa Dio con noi. » (Matt. VII, 14)

« L’Angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe, e gli disse: Levati, prendi il bambino e la sua madre. » (ivi, II, 13)

« E avvenne che appena Elisabetta udì il saluto di Maria…. esclamò ad alta voce, e disse:… E donde a me questo, che la Madre del mio Signore venga da me? » (Luc. I, 41 e segg.). Ora osserva ben questi testi. Nel primo, dice Isaia che il Signore farà un prodigio, e questo sarà che una vergine concepirà e partorirà vergine, il cui figlio si chiamerà Emmanuel. Nel secondo, dice il Vangelo che tal vaticinio si è adempito in Maria, e che l’Emmanuel da lei concepito e partorito, è Dio. Nel terzo è detto in modo più chiaro che Maria è la Madre di questo Dio: – prendi il bambino e la madre di Lui. – Nel quarto poi per togliere ogni pretesto a chiunque negar volesse, per via di distinzioni, la divina Maternità, apertamente si dice che Maria è la Madre del Signore. Quando dunque asseriscono con tanta chiarezza le Sante Scritture che Maria è Madre Vergine di Dio, oserai tu negarlo? Che se ciò comprender non puoi, non per questo ti è lecito contraddire alla parola di Dio. Iddio ha parlato; abbassa la superba fronte: è d’uopo credere, non contraddire.

Prot. « Se per quel segno che Dio stesso costituisce, in Isaia, alla casa non peritura di Davide, non s’intende un parto miracoloso, nessuno dirà cosa sia che in questa profezia tenga il luogo, e la vece di segno. È cosa giusta il credere che il Profeta usi questa voce nel senso stesso che usata l’aveva nel versetto undecimo ove manifestamente si prende per un segno prodigioso, non memoriale o verbale, o qualunque altro. Dove sarebbe poi il segno prodigioso, il miracolo, se dicendo gravida una fanciulla, cessa questa di esser vergine? » (Rosenniuller. Op. cit. sopra questo passo). Dunque intendiamoci.

« Che Maria era vergine quando somministrò al mondo colui che doveva esserne il Redentore, questo è chiarissimo nella Scrittura. Se poi sia stata vergine anche dopo sì felice parto, non è un articolo di fede. Mi spiego: Credo contro la di lei perpetua verginità. La credo, ma non come un articolo di fede necessario alla salute. » (Giac. Ricettino pastore di Coira: Apologia della Chiesa Riformata, Coira, 1700, p. 231).

Bibbia. Considerata l’altissima dignità di Maria, per aver ragione di non credere, come articolo di fede, che Ella restò sempre vergine, ti sarebbe d’uopo che la Scrittura, o per lo meno la costante tradizione, ciò ti attestasse con tanta chiarezza, con quanta ti attesta la di Lei prodigiosa verginità. Ora la Scrittura non ne fa parola, e la tradizione apertamente ti condanna, se è vero, come mi hai ietto, che la Chiesa ha dichiarato articolo di fede la perpetua verginità di Maria.

Prot. È scritto: « Taluno gli disse (a Gesù): tua Madre e i tuoi fratelli sono fuori, e cercano di te.» (Matt. XII, 47). Dunque la Madonnaebbe altri figliuoli dopo Gesù Cristo, e forse anche più di unmarito. (Così molti protestanti)

Bibbia. È scritto: « Partì dunque Abramo…. e prese seco Lot figliuolo di suo fratello…. Disse Abramo a Lot: di grazia non sia altercazione tra me e te:… imperocché noi siamo fratelli » (Gen. XII, 5). Da ciò ben vedi che nulla prova il testo da te citato; perché presso gli Ebrei si appellavan fratelli anche gli stretti congiunti. Quanto poi al caso nostro, è scritto: « Molti restavano ammirati dal suo sapere (di Gesù), e dicevano: Non è egli costui quel legnaiolo … fratello di Giacomo, e di Giuseppe, e di Giuda, e di Simone? » (Marc. VI, 2, 3). Ma vicino alla croce di Gesù stavano la sua Madre, e la sorella di sua Madre, Maria di Cleofa. » (Giov. XIX, 25)« Ma Gesù, mandata fuori una gran voce, spirò…. Ed eranvi ancora delle donne, che stavano da lungi a vedere: tra le quali era Maria Maddalena, e Maria Madre di Giacomo il minore e di Giuseppe. » (Marc. XV, 37, 40). – Hai ben capito? Nel primo testo ti dichiara S. Marco chi erano quelli che appellati erano fratelli del Signore, cioè Giacomo, Giuseppe, Giuda (il Taddeo) e Simone. Nel secondo, ti dice S. Giovanni che tra le donne presenti alla passione di Gesù, vi era Maria di Cleofa sorella della Madonna. Nel terzo lo stesso S. Marco, menzionando questa Maria di Cleofa, presente alla passione, ti fa sapere che ella era la Madre di Giacomo e di Giuseppe, e per conseguenza, anche degli altri due Giuda e Simone; poiché erano loro fratelli. Erano dunque appellati fratelli di Gesù nel senso medesimo in cui Lot è appellato fratello di Abramo.

91. Prot. Se conoscer volete i veri miei sentimenti su tutto questo affare; udite come ne parlo co’miei seguaci. « È vero che il Curato (cattolico) mescola qualche cosa dell’invocazione della Vergine?» (Ferri Paolo, Catechismo: p. 102).

« Questa preghiera divota alla Vergine, era piuttosto etc. » (Il medes. Ivi, p. 103)

L’invocazione o l’adorazione della Vergine Maria, etc. » (Il parlamento Inglese, Confessione di fede del 1678).

« Non dica più il Crisostomo che la Vergine Madre di Dio sia più onorata dei Cherubini, etc.» (Lutero, Serm de die Natali Virg Mar.)

« Egli è di te e de’ tuoi pari che canta la Madre di Dio: Il Signore ha deposto i potenti, ed esaltati i piccoli. » (Tom. Munzer. Lettera al Condè di Mansfted).

« Allorché si fa festa pel nascimento del Signor nostro…. il cuore dell’uomo troverà sempremai una contentezza ineffabile, come tra le braccia della Madre di Dio.1 » (Isidoro conte di Locliem, Fogli di Lotos, 1817, T 1. p. 183).

« Là (in Paradiso) voi vedrete un Abel, un Enoch,… un Isaia con la Vergine Madre di Dio. » (Zuinglio, Christi fidei clara expositio, 1530, p. 17). –

Ecco dunque che, quando impegnato non sono co’ miei avversari Papisti nelle dispute, parlando della Madonna l’appello sempre non meno che essi – la Vergine Madre di Dio. – Il che non farei, singolarmente nei miei Catechismi e Confessioni di fede, se non ne fossi persuaso.

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (3)

VITA
dell’Angelico Dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (3)


dell’ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti
Card.
Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA
FRANCESCO FERRARI
1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

18. — La difesa dei religiosi.

Guglielmo di Sant’Amore era uomo irrequieto e fantastico. Sebbene gli fossero mostrati con ogni evidenza i suoi torti, e quasi tutti i Vescovi e lo stesso Re Io avessero riprovato, si ostinò nei suoi errori, e neppure lo mosse una nuova Bolla di Alessandro IV del 18 giugno 1255, in cui venivano a lui ed ai suoi compagni minacciate le pene più severe della Chiesa. Comparve allora un opuscolo anonimo, di cui lo stesso Guglielmo fu poi riconosciuto autore, intitolato: Dei pericoli degli ultimi tempi. L’autore protesta di non essere animato se non dal desiderio del bene, e di dovere, per questo, additare alle anime uno dei più gravi pericoli che minacciava la Chiesa. Ed afferma che la comparsa nel mondo degli Ordini mendicanti non era che la venuta dei falsi profeti predetta da San Paolo, esser sola finzione la loro virtù, pompa vana la scienza, utile a poco il loro apostolato, vana ostentazione la loro povertà, inganno e menzogna le loro penitenze. Se a un tal danno non si fosse posto sollecitamente un rimedio, se non fossero proscritti come infesti alla Chiesa e alla Società questi uomini nuovi, altri gravi pericoli, egli diceva, avrebbe dovuto temere l’intera umanità. Sarebbe stato dovere della Chiesa disperdere per sempre queste istituzioni inutili e dannose, prima tollerate, ma poi approvate per deplorevole errore; perché i loro membri non erano che figli di satana, messi dell’Anticristo. – In verità le accuse di Maestro Guglielmo furono dai più giudicate tosto appassionate e false, specialmente nei punti ov’egli attaccava la natura e lo scopo delle due sante istituzioni, non nominate da lui, ma descritte con esatte particolarità. Ma purtroppo alcune accuse, che avevano una certa apparenza di vero, acquistarono credito, come quella del danno che veniva al clero secolare dall’attività dei frati, ed altre a cui forse avevan dato occasione alcuni membri dei due Ordini, che, nel calore della disputa, non avevano saputo conservare quella serenità e quella calma, di cui Tommaso dava si splendido esempio. Il libro fu inviato dal Re San Luigi a Roma per chiederne la condanna; e là si recaron di nuovo lo stesso Guglielmo di Sant’Amore con altri tre dottori dell’Università; mentre dal loro canto vi accorsero in propria difesa alcuni religiosi Domenicani e Francescani. Frattanto il Pontefice diede il libro in esame a quattro Cardinali, fra i quali era il Domenicano Ugo di San Caro, che manifestò al Beato Umberto Generale dell’Ordine il desiderio che intervenisse nella lotta anche Tommaso d’Aquino, da lui creduto l’uomo più adatto per ribattere accuse così maligne, mentre la sua vita, d’altra parte, ne era la confutazione più aperta. Era l’anno 1256; e Fra Tommaso per la prima volta tornava in Italia. La fama lo aveva precorso; ed Alessandro IV già ne aveva parlato con alte lodi scrivendo il dì 11 marzo di quel medesimo anno al Cancelliere dell’Università di Parigi; e chiamandolo illustre per nobiltà di natali non meno che per onestà di costumi, aveva affermato che nella sua mente aveva accolto, col divino aiuto, un tesoro di scienza nelle lettere sacre, e desiderava perciò che gli venisse conferito il grado di Dottore nella celebre Università, sebbene non avesse l’età prescritta dagli statuti, che esigevano trentacinque anni. Venne Fra Tommaso in Italia col caro Maestro Alberto Magno e il Generale dell’Ordine Beato Umberto; e fu lieto di avere per compagno San Bonaventura, il suo fedele amico, condotto da Fra Giovanni da Parma Generale dei Minori. Si trattava di un pericolo comune; e i campioni dei due Ordini dovevano sostenere insieme la lotta. – Il Pontefice dimorava allora in Anagni. Come là fu giunto, il Beato Umberto radunò nel convento dell’Ordine il Capitolo, e in presenza dei religiosi diede ordine a Tommaso, anche in nome del Vicario stesso di Gesù Cristo, di stendere una confutazione dell’infame libello del Maestro Guglielmo. Tommaso obbedì senz’altro; e dopo aver rivolto a Dio fervorose preghiere, si mise al lavoro, e scrisse quella difesa, che ancora rimane, ove son messi al nudo tutti i sofismi dell’astuto scrittore, che vien confutato vittoriosamente. Allo scritto unì la parola: e in un giorno stabilito tenne dinanzi al Papa un sermone così chiaro e stringente sull’argomento, che il Papa col sacro Collegio applaudì calorosamente. Il libro ad una voce fu giudicato contrario alla fede, dannoso alla pietà cristiana, ingiurioso alla Chiesa e sorgente di scandalo pei fedeli; e i deputati dell’Università doverono umiliarsi a sottoscrivere la propria condanna. Ma Guglielmo di Sant’Amore perseverò nella sua ostinazione, e fu perciò degradato ed escluso dall’Università, mentre gli altri tre dottori doverono ascoltare nella Cattedrale d’Anagni la lettura del decreto, che condannava il libro ad essere arso pubblicamente alla presenza del Papa. – Il trattato di San Tommaso scritto in tale occasione e che ha per titolo: Contro coloro che impugnano lo stato religioso, è uno dei più celebri che ci abbia lasciato il santo Dottore. Alla consueta solidità delle ragioni egli aggiunge in queste pagine quella potenza e calore di stile che nasce dall’intima persuasione della bontà della causa che difende e dal desiderio di mettere in salvo da ogni attacco presente e futuro l’umano diritto ad una vita di ritiro e di studio, d’innocenza e di bontà, consigliata dal Vangelo e congiunta coll’attività apostolica. Opera che molto utilmente può leggersi anche ai dì nostri, mentre da varie parti le accuse contro gli Ordini religiosi si sono rinnovate, sebbene i fatti più luminosi le smentiscano continuamente.

19- — Ritorno in Francia, e tempesta di mare.

Chiesta umilmente la benedizione al Sommo Pontefice, Tommaso, in compagnia del Padre Generale e del Beato Alberto, si rimise in viaggio per la Francia e giunto a Civitavecchia prese la via del mare. Si crede che in questo viaggio accadesse la furiosa tempesta, di cui gli storici conservarono il ricordo. – Era partito il naviglio con vento propizio, e veleggiava per le acque del Tirreno verso i lidi di Provenza, quando il cielo si fé oscuro, il vento impetuoso, la pioggia violentissima, sicché la nave era in serio pericolo. Il capitano sbigottito temeva da un momento all’altro che la nave si rovesciasse od andasse ad urtare in certi scogli che si trovano appunto in quel tratto di mare, ove la burrasca li aveva colti; e tutti i passeggeri si raccomandavano a Dio con altissime grida. In quei terribili momenti Tommaso nulla perdé della sua calma consueta, e restò assorto per tutto quel tempo in devota preghiera. Come Dio volle, i flutti si abbonirono e, cessata la procella, tornò favorevole il vento, che condusse la nave al porto di Marsiglia. La calma tornata nel mare per le preghiere di Tommaso fu come un preludio della pace che man mano si venne a ristabilire negli animi tanto per la volontà risoluta del Pontefice e la santa accortezza del Re San Luigi, quanto per la luce che l’intelletto di San Tommaso aveva apportato nell’ardua questione.

20. — Il Dottorato.

Conferma di questa pace e quasi pegno di riconciliazione dei dottori dell’Università coi religiosi già calunniati ed esclusi, fu la decisione che essa prese di concedere il supremo grado del dottorato ai due santi religiosi Tommaso e Bonaventura. Tommaso aveva oltrepassato di poco il trentesimo anno, ma era ben lieto di avergli accordata l’opportuna dispensa Alessandro IV, che aveva già avuto nella famosa disputa un sì bel saggio della sua dottrina. Così dal grado di Baccelliere, col quale aveva continuato il suo insegnamento esponendo i celebri libri di Pier Lombardo in mirabili lezioni che rimangono tra i suoi scritti, salì a quello del Dottorato. Ma per la sua modestia e profondissima umiltà fu una gran prova per lui il dovere accettare quel grado; e solo per obbedienza consentì ad esser chiamato maestro, mentre nell’insegnare e nel predicare aveva sempre cercato di porre in luce la dottrina e nascondere se stesso; e ai propri occhi egli appariva immeritevole di qualunque onore. Molto diversamente invece la pensavano gli altri. Egli si rivolse a Dio colla preghiera; e rapito in estasi, vide comparire davanti a sé un bel vecchio, a cui egli espose tutte le sue esitazioni. Non temere, gli rispose il vecchio, e tieni come volere di Dio il comando dei tuoi superiori. E intanto gli suggerì il testo da esporre nel cosiddetto Principio, o prolusione, da recitarsi in presenza di tutta l’Università nell’atto di ricevere il Magistero. Era il versetto del salmo centesimo terzo: Tu dai luoghi superiori innaffi i monti: e dei frutti, che sono opera tua, sarà saziata la terra. Quel sermone fu tenuto dal Santo il 23 ottobre 1257, e tutti lo udirono meravigliati. Esso tuttora ci rimane; ed oltre ad essere un documento mirabile della scienza del novello Dottore, è un chiaro saggio della sua umiltà, e un grande presagio, come Giovanni XXII lo giudicò nella celebre Bolla con cui decretava a lui gli onori degli altari. Poiché in Tommaso stesso sì adempì, a benefìcio della Chiesa, quanto dice il Reale Profeta: riceverono la sua celeste sapienza le grandi intelligenze, paragonate ai monti, irrigati da alte sorgenti; mentre la santità di lui, come acqua ristoratrice della terra, che rende atta a produrre frutti copiosi, è di somma edificazione a tutto il popolo di Dio.

21. — San Luigi Re di Francia.

Della elevazione di San Tommaso al grado del dottorato andò lieto soprattutto il santo Re Luigi, che ebbe sempre per lui una specialissima predilezione. Eran due anime grandi, che appena si furon conosciute, si compresero e si amarono, e, possiamo anche dire, lavorarono insieme per il bene della società e della Chiesa. Lietissimo San Luigi d’avere nella sua Università il celebrato Maestro, ebbe occasione più volte di ammirarne la profonda e vasta dottrina. Ben presto si strinse con lui in familiarità cortese, prese a consultarlo intorno a quanto egli intendeva di fare a benefizio della religione e dello stato, e sempre si attenne ai suoi prudenti consigli. E spesso eran cose ardue e del tutto estranee alle occupazioni dei religiosi; ma Tommaso, certo illuminato dallo spirito di Dio, portava nelle questioni come una luce superiore e rispondeva ai dubbi e quesiti del re colla massima sapienza e sicurezza. Sebbene di rado Tommaso si recasse alla corte, qualche volta accettò gl’inviti del Re, e gli occorse anche di restare a pranzo con lui. Ma era cosa mirabile per tutti quei che sedevano a mensa il vederlo assorto in Dio anche in quel tempo, ed affatto estraneo a quello che si faceva o si diceva dai commensali. – Ci conservarono gli storici il ricordo d’un fatto, accaduto appunto quando Tommaso ebbe occasione una volta di sedere a pranzo col Re. Sa ognuno quanto fosse allora occupato il pensiero della Chiesa e dei principi cristiani per le minacce dell’eresia manichea, più volte abbattuta, ma non vinta; e che sotto diversi titoli tentava pullulare di nuovo. San Tommaso che stava allora scrivendo la celebre Somma contro i Gentili, pensava a trovare le ragioni più convincenti per confutare il famoso errore dei due principi del sommo bene e del sommo male, che rinnovava la fatale dottrina del dualismo pagano. In quei pensieri egli s’immerse anche nel momento della mensa; quando a un tratto egli batté un pugno sulla tavola, ed esclamò: È finita pei Manichei! Possiamo figurarci lo stupore dei commensali! Il Priore dei Domenicani, che lo aveva accompagnato, lo avvertì tirandolo per la cappa; ed egli, come riscosso da un sonno, chiese perdono al Re della sua distrazione, dicendo che in quel momento credeva di stare nella sua cella e non alla mensa del Re. Ma questi volle che subito fosse chiamato uno scrittore, il quale subito raccolse, dalla bocca di Tommaso, l’argomento da lui trovato, semplice e luminoso, contro i Manichei. — Se il male, in quanto male, non esiste perché assenza di bene e di entità, il sommo male è somma assenza di entità: è il nulla. E così il preteso dio dei Manichei, che essi chiamano il sommo male, non è che il nulla. – Conservò San Luigi, finché visse, la preziosa amicizia dell’Angelico Dottore, e fu lieto di rivederlo e trattenersi a lungo con lui nel 1270, prima di partire per il suo viaggio, ove trovò, com’è noto, la morte. L’impresa d’Oriente era in cima di tutti i suoi pensieri: e possiam bene immaginare come agli slanci di quel cuore generoso aggiungesse fervore la parola mite, ma calda del nostro Santo, a cui stava così a cuore, come a tutte le anime grandi di quell’età, il trionfo della Chiesa sulla barbarie, annidata presso il sepolcro di Cristo. Da quel momento essi non si rividero più in terra, per ritrovarsi presto nel cielo, ove lo figurò in dolce colloquio, presso il trono della Vergine, il Beato Angelico.

22. — L’ordinamento degli studi domenicani.

L’Ordine di San Domenico ebbe fino dai primordii, e per volontà del suo grande Istitutore, un carattere dottrinale. La sua missione si compendiò nel dare largamente alle anime, per mezzo della parola, il frutto della contemplazione, la verità, meditata ed amata. Ebbero perciò sempre cura i Superiori Domenicani di raccomandare ai religiosi lo studio ; e lo stesso San Domenico diede ai suoi figli un luminoso esempio, quando volle egli stesso, coi primi che gli si unirono, sebbene già ricco di sapere, assistere talora alle lezioni di Maestro Alessandro. Ad essi, tornato una volta da Roma dopo il celebre colloquio col Papa Onorio III, tracciava in due parole la vita che dovevano condurre : Studiare e predicare. I primi conventi furono edificati presso le più celebri università, o altri luoghi di studi ; e questo anche giovò perchè accorressero a domandar l’abito dell’Ordine gli scolari più eletti, desiderosi di darsi tutti al ministero apostolico, ed anche maestri già celebrati nel secolo o insigni luminari del clero. Varie deliberazioni erano state prese intorno agli studi nei Capitoli Generali che si tenevano ogni anno per la festa di Pentecoste ; e specialmente sotto i tre Generali Beato Giordano di Sassonia, San Raimondo da Pennafort e Fra Giovanni Teutonico, erano state fissate alcune norme intorno all’insegnamento nei conventi, tra le quali non fu la meno importante quella dell’erezione di varie cattedre di lingue orientali. La fondazione ordinata nel i348 dei quattro grandi centri di studio che venivano ad aggiungersi a quello più antico di Parigi e ai quali dovevano inviarsi gli studenti migliori da ogni parte d’Europa, ci manifesta la somma premura che l’Ordine si prendeva per la prosperità degli studi, e per l’unità e serietà dell’insegnamento. – Non esisteva però ancora un ordinamento scolastico comune ed uniforme nei conventi domenicani, sia intorno alla durata dei corsi, sia intorno ai doveri particolari dei lettori e degli studenti : e ci piace vedere come a stabilire tutto questo portasse il suo valido contributo San Tommaso d’Aquino. Nel 1259 fu convocato il Capitolo Generale a Valenciennes nell’ Hainaut, che dopo la fondazione dell’Ordine era il trentesimo ottavo ; e vi furono chiamati cinque dottori domenicani, tra i quali, come vedemmo, il Beato Alberto Magno, Fra Pietro da Tarantasia, e San Tommaso. Generale dell’Ordine era tuttora il Beato Umberto de Romanis, scflecito non meno della disciplina religiosa che dello studio, in cui vedeva per l’Ordine la sorgente d’una prosperità vitale. Nello studio (egli diceva) sta tutto il vigore dell’Ordine, come nell’ anima il vigore del corpo. Sotto questo abilissimo capo, le ordinazioni sugli studi domenicani dovevano prendere la loro forma definitiva. Nel celebre Capitolo molte ordinazioni, prese qua- e là nei varii Capitoli provinciali, vennero discusse ed approvate; e si aggiunsero altri nuovi provvedimenti, che, dopo quasi sette secoli, sono ancora in vigore nelle loro parti fondamentali; prova la più evidente della sapienza che li ispirò. Nè poteva esser diversamente, se pensiamo che in quel venerando consenso splendeva la luce dell’intelletto di Tommaso. Mentre ai discepoli viene imposto lo studio come un sacro dovere e la religiosa disciplina, il silenzio soprattutto, vien suggerita come mezzo per conservare il necessario raccoglimento, ai Superiori son date norme precise per la scelta dei lettori abili all’insegnamento e lodevoli per bontà di vita, e si stabilisce che le Provincie che ne fossero mancanti vengano aiutate dalle altre. Così son dati precisi incarichi ai Visitatori, i quali debbano riferire ai Capitoli provinciali i difetti che troveranno nell’applicazione dei varii decreti, e stabilire le pene ai trasgressori. Aiuto più valido ancora avrebbe poi dato Tommaso all’avanzamento degli studi domenicani, quando la sua dottrina, accettata solennemente da tutto l’Ordine e strenuamente difesa, avrebbe procurato ad esso la lode di una meravigliosa unità dottrinale, a sommo vantaggio della Chiesa Cattolica.

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (4)

LA SITUAZIONE (2)

LA SITUAZIONE (2):

DOLORI, PERICOLI, DOVERI E CONSOLAZIONI DEI CATTOLICI DEI TEMPI PRESENTI.

OPERA DI MONSIGNORE G. G. GAUME PROTONOTARIO APOSTOLICO

Custos, quid nocte?

Sentinella: che è della notte?

ROMA tipografia Tiberina – 1861

Lettera Seconda

Caro Amico.

Vi ho promesso dirvi la ragione per la quale la rivoluzione deve voler Roma ad ogni costo. Già l’ultima frase della mia lettera deve avervelo fatto presentire. Ora mi spiegherò più chiaramente. Sarebbe puerile il voler ciò negare. Non si fa guerra al potere temporale della Chiesa, se non per colpire il suo potere spirituale. Si crede con ragione che di quanto progressivamente si indebolirà quest’ultimo, altrettanto si ritrarrà di vantaggio; checiò vuol dire l’emancipazione dell’umanità, o a darne la vera espressione, l’autocrazia dei re e dei popoli. – Qui i fatti parlano più eloquentedmente delle parole. Forse che la rivoluzione mette in moto tutte le sue forze pubbliche e segrete, a fine di ottenere le poche leghe di territorio, di cui si compone lo Stato Pontificio? Forse che l’equilibrio europeo sarà minacciato perché il Successore del pescatore di Galilea avrà un angolo di terra indipendente per ristorare la sua barca e riposarvi la sua testa incanutita dagli anni? Come gl’Italiani medesimi non si avveggono che sono tratti in inganno, e che il loro progetto di unificazione è un’utopia? Voler unificare l’Italia senza la Chiesa, è lo stesso che intraprendere la soluzione di un problema insolubile. Non vi sono se non due cose, le quali uniscono; Dio nel Cielo, e la Chiesa sulla terra. Pretendere di unire senza questi due elementi di unità, e contro questi due elementi di unità, è perfettamente un voler realizzare l’assurdo. Invece dell’unificazione, gl’Italiani, popolazioni di origine differente e di razze antipatiche, realizzeranno la divisione e l’anarchia, seguite dalla rovina del loro paese, o dal dispotismo brutale. Questo sarà, come nei bei giorni di altra volta, l’unità nella schiavitù e nella miseria. – Motivare la guerra contro Roma sulla libertà e sulla felicità da procurare ai sudditi pontifici, è una dolorosa burla. La condotta di coloro che se la permettono è la smentita solenne delle loro parole. Perché dunque questa persistenza a volere spogliare il Papa del suo temporale? Quale forza sconosciuta spinge il mondo a non indietreggiare, per conseguir questo scopo, innanzi ad alcuna manovra per quanto vergognosa e colpevole essa possa essere? Chi vuol dare una seria spiegazione di questo fenomeno altrimenti inesplicabile, deve ricorrere al gran mistero della Storia. – Il mondo si divide in due città nemiche; la città del bene, e la Città del male. Formata dall’origine dei secoli, la città di satana si va sviluppando per tutta la durata dell’antico paganesimo. Il suo centro è successivamente or Ninive, ora Babilonia. Finalmente Roma, regina del mondo, diviene la sua capitale. (S. Agostino De Civitate Dei, Lib. XV. cap. 5.). Di là, come dall’alto della sua cittadella, il Principe del secolo, princeps hujus sæculi, regna da Sovrano. Di là partono gli ordini, che fanno tremare i popoli fino all’estremità della terra; le armate che li saccheggiano; I proconsoli che li spogliano e li opprimono; gli scandali che li degradano; gli editti di proscrizione che per tre secoli abbeverano di sangue cristiano le città e le campagne dell’Oriente e dell’Occidente. Muta di terrore davanti a questa gigantesca potenza, l’umanità non rifina dal darle le sue adorazioni, il suo oro, ed il suo sangue. Intanto i destini della città eterna non sono compiuti. Profondità dei consigli di Dio su questa Città Misteriosa! È necessario che Roma diventi la capitale di un altro impero non meno potente e più esteso del primo. Un altro Dio dovrà regnare sul Campidoglio; altri Re dovranno abitare i suoi palagi; altre armate sottometterle i popoli; altri proconsoli governare le sue Provincie; altre leggi dirigere il genere umano, sotto  qualunque clima egli abiti. Per lungo tempo il mondo illuminato dal sole della verità mediante questa novella Roma, liberato per opera di lei dai ferri della schiavitù, le pagherà con entusiasmo un giusto tributo di riconoscenza e di fedeltà. – Malgrado questa benefica rivoluzione, la rimembranza della Roma pagana, della sua grande unità materiale, delle sue libertà menzognere, e dei suoi ingannevoli splendori, allo stesso modo che il veleno originale, non perirà più nel cuore dell’uomo. Satana manterrà vivo di generazione in generazione il pensiero di risuscitare il suo impero. Agli occhi dei figli di Eva egli metterà sempre in prospetto le antiche glorie del suo regno. Mediante insolenti comparazioni, egli oserà mettere le sue creazioni a confronto delle creazioni del Cristianesimo, e troppo spesso saprà far dare la preferenza alle prime sulle seconde. Le sue istituzioni, le sue arti, le sue ricchezze, i suoi pretesi grandi uomini, i suoi splendidi trionfi, e soprattutto la fascinante apoteosi della volontà umana, diverranno a un gran numero un doppio oggetto di ammirazione e di rincrescimento. Sotto un nome, o sotto un altro, risuscitare quest’ordine di cose, e se si può, far di Roma la capitale di un nuovo impero anticristiano, di cui l’Italia rimenata all’unità politica, sarà come altra volta l’orgoglioso municipio: tale è, o che si vegga, o che non si vegga, l’idea formidabile nascosta in fondo a ciò che si agita sotto gli occhi nostri. Di questa tendenza diabolica, segnalata già da molto tempo da qualcuno, e divenuta oggigiorno palpabile, abbondano le prove: due qui basteranno. Il 28 Giugno di quest’anno, il Cardinal Vicario diceva nel suo Editto all’occasione della festa del Principe degli Apostoli: « Il trionfo di S. Pietro sulla città di Roma ha eccitato una tale rabbia presso il demonio, che egli non ha cessato mai né di attaccare la S. Sede colla guerra la più accanita, né di voler ricondurre Roma agli errori ed alle barbarie antiche. Senza rammentare i suoi sforzi nei secoli passati, non siamo stati noi stessi, e non siamo tuttavia testimoni di quelli chde esso dirige contro la barca di Pietro?» Nella sua Enciclica degli 8 Dicembre 1849 Pio IX, vittima la prima volta della rivoluzione, lo ha detto ancora più esplicitamente. « La rivoluzione, Egli dice, è inspirata dallo stesso satana. Il suo scopo è di distruggere da capo a fondo l’edifizio del Cristianesimo, e di ricostituire sulle sue rovine l’ordine sociale del paganesimo. Il suo gran mezzo è di far brillare agli occhi degl’Italiani le glorie di Roma pagana, affine di rendere odiosa Roma cristiana, come quella che è l’ostacolo che impedisce l’Italia di riconquistare il primiero splendore dei tempi antichi, cioè dei tempi pagani: quo Italia pristinum veterum temporum, idest Ethnicorum, splendorem iterum acquirere possit ». Così parla la più grande Autorità che sia mai sulla terra. Questo linguaggio dell’augusto Pontefice è di troppo rimarchevole; onde non mi tengo contento a solamente citarlo; anzi vi ritornerò sopra nella prossima lettera: ed oggi mi limito a solo cavarne alcune conclusioni. Ricondurre il mondo al paganesimo; è questo l’ultimo motto della rivoluzione. L’oracolo della verità alzandone il velo, aureamente ha parlato. Il grande ostacolo a questo progetto infernale, diabolici eorum consilii, agli occhi della rivoluzione, è il potere temporale della S. Sede. Essa non s’inganna. Il Papa-Re è la sovranità visibile di G. Cristo sul mondo, è la indipendenza della Chiesa e della verità. – La Chiesa essendo oggidì spogliata dappertutto del diritto sovrano di proprietà, questa sovranità visibile scomparisce colla perdita dello Stato Romano. Non potendo andare più lungi, ecco quello che vuole la rivoluzione. Ecco perché il dominio di S. Pietro è così avidamente desiderato, perché Roma torna a diventare l’arena del combattimento; perché finalmente noi vediamo quello che il mondo non ha mai visto, cioè il Vicario di Gesù Cristo minacciato nella sua capitale medesima da centomila scomunicati con grande applauso di tutti i cittadini della Città del male sparsi nel mondo intero. – Presa Roma, satana torna a diventare il principe di questo mondo. Perchè? Perché l’ultimo ostacolo sociale alla di lui potenza, ed all’autorità dei suoi luogotenenti viene a scomparire. Creare un mondo, in cui, come in altri tempi, Gesù Cristo, il Re dei Re, sarà come se non fosse; un mondo, in cui il potere umano senza alcun sindacato, avrà sotto la sua mano la Chiesa e tutti gl’interessi spirituali; tale è il suo scopo. Col Papa-Re questo scopo non può realizzarsi. Voi ciò comprenderete facilmente. – Il Papa, rappresentante di Dio medesimo fra gli uomini, è il depositario e l’interprete incorruttibile della legge eterna di giustizia e di libertà; il muro di bronzo insormontabile ad ogni sorta di dispotismo; il pontefice immutabile che solo può dire con un’autorità sovrana ai re oppressori ed ai popoli ribelli: NON LICET, ciò non è permesso; e fin con pericolo della sua vita è obbligato a ciò dire, e questo appunto ha detto fedelmente di generazione in generazione da diciotto secoli a questa parte. Or il Papa-Re è il Papa materialmente indipendente; è il Papa inviolabile. Il Papa inviolabile è il Papa libero di dire tutta la verità, e di scagliare l’anatema contro gli spogliatori ed i despoti, qualunque sia l’altezza della loro statura. La rivoluzione, che sotto la maschera della libertà e dell’eguaglianza non è che lo spogliamento ed il dispotismo vivente, non può sopportare la sovranità pontificale. La sua esistenza è per lei una questione di vita o di morte. Essa sente a meraviglia che vi ha in quella una forza, la sola che si oppone ad un’altra forza, di cui essa oggi vuole il trionfo e domani l’apoteosi. Essa dunque dirige tutti i suoi attacchi contro questa forza del Pontefice-Re, perché essa sola impedisce, come impedirà sempre i moderni Cesari di scolpire sul loro diadema la divisa dei loro predecessori di altri tempi capace d’abbrutire gli uomini: IMPERATORE E SOMMO PONTEFICE, Imperator et Summus Ponlifex. – Che i pretesi adoratori della libertà se l’abbiano per detto. I loro attentati contro la Sovranità pontificale li conducono (e noi tutti con essi) al dispotismo il più minaccevole che sia mai stato nel mondo. Quando il Papa non sarà più Re, i Re saranno Papi. Tutta la libertà riservata ai popoli che avranno crocifisso Gesù Cristo nella persona del suo rappresentante, sarà di ripetere, sotto le strette mortali della schiavitù, il motto funebre dei gladiatori: Cesare, coloro che vanno a morte ti salutano: Cæsar, morituri te salutant! Se vogliamo renderci veramente ragione della situazione, ecco, mio caro amico, quello che bisogna vedere; il resto, come voi dite, è pei miopi.

Tutto vostro etc.

LA SITUAZIONE (3)