VITA
dell’Angelico Dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (5)
dell’ordine dei predicatori
SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE
Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti
Card. Bessarione, Ad. calumn,
Platonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA
APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.
LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA – FRANCESCO FERRARI, 1923
ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE
31. — La Somma Teologica.
Scongiurato il pericolo, Tommaso restò nella sua cella di Santa Sabina ringraziando il Signore per la quiete che gli aveva conservato; e si sentì obbligato ancor più ad un assiduo lavoro per il bene della Chiesa. Pose allora mano a quell’opera grandiosa, a cui doveva per sempre legare il suo nome: La Somma Teologica. Il lavoro durò circa nove anni, alternato alla composizione di altre varie opere più o meno estese, come i mirabili Commenti sopra Aristotile e molti trattati più o meno lunghi, raccolti sotto il titolo di Quodlibeti, Questioni disputate ed Opuscoli, scritti la maggior parte per rispondere a quesiti che da varie parti gli venivano mossi. – Nel ripensare a così poderoso lavoro e al breve tempo che vi impiegò, non ci fa meraviglia se leggiamo di lui, e troviamo confermato nei Processi, che dettasse talvolta a tre e quattro scrittori ad un tempo, di diverse materie. Ma nulla è impossibile a Dio, che volle in Tommaso stampare una vasta orma del suo infinito potere. – L’idea di San Tommaso nel metter mano alla Somma Teologica non poteva esser più modesta. Volle unire, ei ci dice, come in compendio, nella forma di brevi articoli, quanto da diversi era stato scritto intorno alle dottrine cristiane, e quanto egli stesso aveva scritto più ampiamente in altri luoghi; fare quasi una compilazione a vantaggio degli incipienti e con un metodo ad essi proporzionato; perché molti, dalle troppe questioni che si facevano e dalla mancanza di ordine, restavano confusi ed impediti. Ne sorse invece un capolavoro immenso, il primo e il più complesso insieme di Teologia cattolica, che fosse fino allora comparso, e tale da togliere a chiunque la speranza di superarlo. Pel numero delle questioni risolute da lui in ogni loro parte intorno a Dio e alle opere sue, può chiamarsi una portentosa enciclopedia, mentre per l’ordine meraviglioso e per l’esatta rispondenza delle parti abbiamo il diritto di dirla una sintesi perfetta, a cui nulla manca, né la necessaria chiarezza, né la scrupolosa precisione, né la vigorosa brevità, né la sicurezza assoluta della dottrina. – La Somma Teologica è divisa in tre grandi parti, di cui la seconda, per la vastità della materia, è suddivisa in due. Da Dio uno e trino tutte le creature procedono; gli Angeli e l’uomo sono le più perfette. Degli Angeli quei che peccarono sono in eterno lontani da Dio; l’uomo peccò, ma trovò presso Dio misericordia e grazia per Gesù Cristo, che è lo stesso Dio fatto carne. Chi sta unito a Cristo e si giova dei mezzi da lui stabiliti, salirà al possesso eterno di Dio; chi non vive di Cristo resterà in eterno lontano da Dio. Tale è il concetto semplice e meraviglioso di tutto il lavoro, che in 512 questioni, divise in 2652 articoli, nulla tralascia di quanto spetta alle materie teologiche e morali necessarie a conoscersi dagli studiosi. Le grandi intelligenze, di cui Iddio aveva fatto dono al mondo fino allora, non avevan saputo crear nulla di simile, né alcuno poi, in questa materia, ha potuto o saputo far meglio che tener dietro a lui. – Nessun libro ha avuto dalla Chiesa tante lodi come la Somma, e basti in luogo di tutte il fatto, che nel Concilio di Trento essa venne posta dai Padri in mezzo all’aula insieme alla Sacra Scrittura e ai decreti dei Pontefici, come la guida dottrinale più solida che potessero trovare. Il lavoro fu cominciato nel 1265, quando San Tommaso ebbe evitato il pericolo dell’elezione ad Arcivescovo di Napoli. Lo continuò, salvo alcune interruzioni, fino al 6 dicembre del 1273, e, come vedremo, lo lasciò interrotto. Venne completato dal suo fedele compagno, Fra Reginaldo da Piperno, con un Supplemento, tratto in gran parte dai Commentari del Santo Dottore sui Libri delle sentenze di Pietro Lombardo.
32. — Al Capitolo di Bologna.
Per il Capitolo Generale del 1267 era stato scelto dai Padri il Convento di Bologna. Fu appresa con somma gioia in quella città la notizia, che vi si sarebbe recato, in tale occasione, il celebrato Dottore; e la celebre Università soprattutto si tenne sommamente onorata di riceverlo e di udirlo. – Raccontano gli storici che la venuta di Tommaso in Bologna pose in tutti quei Professori e studenti come un nuovo ardore per lo studio della verità. Le lezioni che vi tenne per varie settimane restarono memorabili; e si sa che Tommaso condiscese volentieri a rispondere a molti quesiti che gli vennero fatti; così si ebbero nuovi e importanti opuscoli che poi furono raccolti. Ma un vero motivo di gioia ebbe Tommaso da quel viaggio, per essersi potuto trovare ad una cerimonia che fu oltremodo cara al suo cuore di figlio di San Domenico. Il 6 di agosto del 1221 il Santo Patriarca, in Bologna, spirava serenamente, tra il pianto dei suoi figli, che, per eseguire la sua volontà, lo avevano sepolto in umile luogo. Ma il 24 maggio del 1233 il suo successore, il Beato Giordano di Sassonia, aveva fatto aprire la tomba ed aveva trovato il cadavere incorrotto ed esalante gratissimo odore; ed aveva ordinato che venisse collocato in una tomba di pietra all’ingresso del coro. Il 3 luglio del seguente anno Gregorio IX proclamò solennemente la santità del grande Fondatore dei Predicatori; e si pensò allora ad una tomba più decorosa. Si dové alle premure del Beato Giovanni da Vercelli, quando fu eletto Provinciale di Lombardia, l’iniziativa del nuovo lavoro; ed eletto, come vedemmo, nel capitolo di Parigi, Generale dell’Ordine, fece decretare dal Capitolo seguente di Montpellier la costruzione di un solenne monumento, come veniva chiamato. Fu posto mano all’opera ; e sapendo che nel 1267 il lavoro sarebbe stato pronto, ottenne dai Padri adunati l’anno innanzi a Treviri che il Capitolo del 67 si tenesse in Bologna. E veramente solenne fu il lavoro che nella primavera della nostra scultura uscì dalle mani dei maestri di Pisa, e specialmente del bravo e dolce Fra Guglielmo, che lavorò per intiero, o almeno in gran parte, le ammirabili storie dello stupendo sarcofago. Aveva preso l’abito di converso nel convento pisano di Santa Caterina, ed aveva soli 26 anni quando si recò a Bologna con Niccola suo maestro, che dai Domenicani aveva avuto la commissione dell’opera; e ben volentieri il Maestro concesse al bravo artista di lavorare attorno alla tomba del Padre diletto. In due anni la bellissima arca fu scolpita, e così la nuova traslazione del corpo del Santo Padre poté essere onorata dalla presenza di tutti i Padri capitolari. Con essi e con quelli accorsi da varie parti, i religiosi raggiunsero il numero di cinquecento. – In questa bella schiera troviamo dei santi, come lo stesso Beato Giovanni da Vercelli, il Beato Giacomo da Varazze, poi Arcivescovo di Genova e il Beato Bartolomeo da Braganza, già Vescovo di Vicenza. Ma era dolce il vedere nella bella schiera spiccare la figura di San Tommaso, il più grande tra i figli di tanto Padre. – Alla festa celebrata nel giorno 5 giugno, solennità di Pentecoste, prese parte il Potestà di Bologna con tutto il suo seguito; e Clemente IV inviò speciali indulgenze. In tale circostanza San Tommaso mostrò il suo cuore di figlio, scrivendo in lode del Santo Patriarca un sermone, ove lo rassomiglia al sole, ministro di generazione delle cose, che le vivifica e nutre, le aumenta e perfeziona, le purifica e le rinnova. – Dopo il Capitolo di Bologna, se ne tornò a Roma sollecitamente, ove continuò nella quiete a lavorare attorno alla Somma.
33. — Al Re di Cipro.
Tra gli scritti che gli storici assegnano al tempo della dimora dell’Angelico Dottore in Bologna è degno di esser ricordato l’opuscolo del Governo dei Principi. Come già alla Duchessa del Brattante aveva il Santo Dottore indirizzato un opuscolo sapientissimo su varie questioni, specialmente sul modo di governare i Giudei, così ad istruzione del giovane Ugo II, Re di Cipro, della nobile dinastia dei Lusignani, cominciò a scrivere in Bologna quel celebre trattato, ove parla delle origini del potere, dei diritti e doveri dei governanti, e dell’esercizio della sovranità. Ma essendo morto, prima della fine di quell’anno 1267, il giovane Re, quel libro rimase incompleto e fu poi terminato dal suo discepolo Fra Tolomeo da Lucca, credesi sopra appunti lasciati dal Maestro. – Nei diciannove capitoli dovuti interamente al Santo Dottore si hanno mirabili documenti della sua alta sapienza. Dalla sorgente stessa del vero essa traeva le sue origini, e ben poteva estendersi anche alla pratica delle cose umane ed alla stessa politica, che non è arte astuta per reggersi sopra un trono od in un seggio qualunque, ma scienza diretta a ben governare gli uomini: e nessuno avrebbe allora pensato che per far godere ai popoli la prosperità materiale fosse espediente il privarli di quei beni dello spirito che la religione soltanto può dare. – Fu certo mirabile cosa il vedere un religioso mendicante che, senza uscire nemmeno di un passo dalla sua condizione, diveniva precettore dei re, e dall’umile sua cella dava lezioni ai potenti della terra. La superiorità morale di quest’uomo si sente dalla stessa nobiltà dello stile. Egli vuole presentare al re cosa che sia degna della reale maestà, e ad un tempo conveniente alla sua professione ed ai suoi doveri. E per farlo, egli chiede l’aiuto a Colui per cui regnano i re e i legislatori determinano le cose secondo giustizia. Parla anzitutto del regio potere in generale, e lo richiama al primitivo concetto dell’ufficio del pastore e del padre, così nobilitato dal Santo Vangelo. Esso gli vien suggerito dalla natura stessa dell’uomo e della società e dallo scopo finale dell’uno e dell’altra: Il pastore cerca il bene del suo gregge e non il comodo proprio, il padre vive pei figli e li provvede del necessario alla vita, regge la famiglia coll’autorità a lui data da Dio; tutti e due amano e vogliono essere amati, obbediti, seguiti. È regime perverso quello di chi cerca il vantaggio proprio e non il bene comune; e se un tal regime risiede in un solo, è tirannia. Esalta il Santo Dottore la superiorità del regime monarchico quando è giusto; perché meglio imita il governo di Dio nell’universo, ed ha ottimi esempi nell’unità dell’anima nell’uomo e del capo nel corpo; ma l’unità del capo, egli dice, vuole il concorso di tutte le membra all’azione, come l’unità dell’anima richiede l’esercizio conveniente delle varie facoltà spirituali e corporali. Così è bella la similitudine della nave, ove sian pure molti uomini nelle varie parti, ed artisti a restaurarla se guasta, ma a governarla non deve starvi che un capo. In quest’armonia tra il diritto di chi comanda e i doveri di chi ubbidisce, il dovere di ben governare e il diritto nei popoli d’esser ben governati, si ha il gaudio della pace, il fiore della giustizia, l’affluenza dei beni, la stabilità del governo. « Quando il regime è giusto, egli dice è bene che esso stia nelle mani di un solo; perché così sarà più forte ». Ma se in chi regge le sorti della città e dello stato manchino le doti e virtù necessarie, né possa ottenersi che le acquisti, allora al cattivo governo di quest’uno sarebbe da preferirsi il governo di più; male minore che ne impedisce uno maggiore; la tirannia è pessima cosa, perché direttamente opposta al virtuoso governo di un solo, che ha chiamato ottimo. Per evitar tanto male, lo stesso monarca dev’esser richiamato a considerare lo stretto dovere che ha di rendersi degno di tenere uno scettro. Né la corona d’oro che gli cinge la fronte egli deve credere che talvolta non sia irta di spine. Per il bene altrui e per osservare debitamente la giustizia non è raro che tocchi al monarca tollerar pene e sacrifici; non è privo di angustie il pastore che vuol governare e difendere il suo gregge, né il padre che dà alla famiglia il frutto dei suoi sudori. A lui darà la religione virtù e fortezza per sacrificarsi quando occorra, pel bene del suo popolo. Ed un altro premio avrà dall’amore dei sudditi; preziosa ricompensa di chi ben governa, invano cercata dal tiranno che non trova chi lo ami, se non per proprio interesse, e finché questo dura. Ma d’altra parte anche ai sudditi conviene rendere men grave il peso a chi governa colla docilità e ubbidienza, ed anche col tollerarne le imperfezioni né sempre esigere l’ottimo, che nelle cose umane non si trova. Così a chi regge è tolto ogni motivo di incrudelire e piegarsi a tirannia. Se questo non si fa, sul popolo stesso ricade il danno, perché sono non di rado un castigo di sudditi indocili gli inetti o cattivi governanti. – Ed è mirabile il vedere con che acume il Santo Dottore tratta di ciò che spetta alle sollecitudini che ha da prendersi tanto il re quanto chi lo aiuta nell’esercizio del suo potere; l’udirlo trattare della necessità di promuovere il benessere dello stato col far prosperare soprattutto l’agricoltura e cercare lo sviluppo dei commerci. In questo punto è notevole come egli preferisca, in vantaggio comune, la ricerca della ricchezza che l’uomo trova nel suolo, e chiama più degna la nazione che ha l’abbondanza delle cose dal territorio proprio ». Non vieta al monarca di cercar ricchezze, onore e fama, e soprattutto la stabilità del suo potere, quando tutto sia rivolto al comune vantaggio che rimane sempre il fine d’ogni onesto regime; così la sua ricchezza e la sua gloria è come un patrimonio di tutti. Fu un vero danno che quest’opera rimanesse incompleta; sebbene in ciò che ci resta siano poste sapientemente le basi a dimostrare il vantaggio che alla società civile possono apportare i principii della morale cristiana.
34. — Ultimo viaggio a Parigi, e ritorno in Italia.
La dimora in Italia del Santo Dottore dové interrompersi un’altra volta per la sua andata a Parigi, ai primi del 1269 pel Capitolo Generale. Fu pregato a voler riprendere nello studio generale di San Giacomo il suo uffizio di Reggente, ed acconsentì. Il Capitolo fu tenuto, come per il solito, nella Pentecoste; e lo presiedé il Padre Giovanni da Vercelli. Sebbene la presenza di San Tommaso in quel Consesso abbia portato senza dubbio qualche vantaggio, e si ricordi in particolare un suo giudizio dottrinale intorno al segreto, pure è da pensarsi che qualche altra grave ragione inducesse. Tommaso a sostener la fatica di questo viaggio. Il Beato Giovanni era entrato in relazione con Clemente IV; e perfettamente si era inteso con lui intorno al gran bisogno della Cristianità in questo momento. Il comune desiderio era la sospirata unione della Chiesa Greca colla Latina, ed insieme il buon esito di una nuova Crociata contro gli infedeli; e il Papa sperava molto dall’Ordine di San Domenico, così diffuso anche in Oriente, e dalla scienza dei suoi Dottori, che avrebbe domato l’orgoglio dei Greci, ostacolo principale alla desiderata unione, che all’opera della Crociata avrebbe recato vantaggi immensi. Con una lettera del 9 giugno del 1267 si era rivolto al Maestro Generale, facendo assegnamento sull’aiuto di tanti bravi difensori della Chiesa, chiamati a riparare la grave rottura che lo scisma aveva fatto nella veste inconsutile di Gesù Cristo; e domandava intanto tre Religiosi per inviarli come suoi Legati all’Imperatore Michele Paleologo. – Non meno intense erano le premure del Santo Re Luigi IX, che non poteva consolarsi d’aver dovuto lasciare nelle mani degli infedeli il Santo Sepolcro di Cristo, e voleva bandire un’altra volta la guerra santa, nonostante i recenti disastri delle armi cristiane. Ottenuto il consenso da Clemente IV, si era anch’egli rivoltò ai Frati Predicatori per aver bravi missionari che bandissero ovunque la nuova crociata. Si sa infatti che per tutto quell’anno 1268 molti religiosi dell’Ordine furon destinati a tale ufficio. – Ma il 29 novembre dello stesso anno Clemente IV, dopo appena tre anni e dieci mesi di pontificato, moriva in Viterbo; e per deplorevoli circostanze l’elezione del successore ebbe un ritardo di due anni e nove mesi, con danno non leggiero per la Chiesa. Nondimeno i predicatori della Crociata continuarono nella loro missione, e il Capitolo di Parigi cercò di giovare alla grande opera, ordinando che si annunziasse la prossima partenza del Re e si raccogliessero offerte e pii legati dai fedeli. Intanto arrivavano orribili notizie dall’Oriente. Antiochia era caduta, Fra Cristiano, già Frate Predicatore, Patriarca di quella sede, era stato assassinato con quattro religiosi, nella sua Cattedrale, dai militi di Saladino; centomila Cristiani erano stati massacrati, molte suore oltraggiate e passate a fil di spada. Questi fatti aumentarono lo zelo del re, che cercò di affrettare la partenza col suo esercito. Ma prima di prendere in San Dionigi la croce e il bordone da pellegrino, ebbe varii colloqui col suo dolce amico San Tommaso. Era l’ultima volta che queste due grandi anime si incontravano su questa terra. Tommaso non doveva più toccare il suolo di Francia; ed il buon re, che il 1° luglio del 1270 partì da Aigues-Mortes, dopo lo sbarco a Cartagine, sotto i dardi di un sole cocente, il 25 agosto, colto dalla peste che distrusse gran parte dell’esercito crociato, spirò fra le braccia dei Frati Predicatori che nel viaggio gli erano stati amorosi compagni. Il suo corpo, recato da una nave a Trapani, traversò poi tutta l’Italia, portato come in trionfo fra le popolazioni commosse. Non mancaron certo le lacrime del suo grande amico San Tommaso d’Aquino. In Parigi Tommaso era da tutti ricercato. Può dirsi che dalla sua cattedra egli dirigesse il pensiero cristiano del suo tempo. Ciò che egli diceva era la dottrina cattolica che lo diceva; e tutti convenivano in questo pensiero. Tacevano le dispute ai piedi della sua cattedra, ogni dubbio svaniva; e la verità si manifestava in tutta la sua limpidezza. Né cessò in questo frattempo di scrivere o dettare; e i suoi sapienti consigli erano ricercati da tutti. Ma la volontà dei superiori lo richiamava a Roma; ed egli se ne tornò con molto rammarico di ognuno, non senza esprimere la sua viva gratitudine e la sincera affezione che conservava verso una città così piena per lui di grate memorie. Non i trionfi della sua dottrina gli tornarono a mente, ma i ricordi dei bravi maestri, dei colleghi e condiscepoli, di tanti alunni, insieme coi quali era salito alle altezze della divinità, di tanti confratelli, che lo avevano amato, e di cui egli aveva ricambiato con tenerezza la devota affezione. Ripassò da Bologna, ove la sua pietà era attratta dal sepolcro ove egli stesso aveva visto porre con tanto onore le ossa del suo caro e venerato Patriarca, di cui era così viva tra quei religiosi e in tutto il popolo la memoria. E forse in quest’occasione accadde il fatto che dobbiamo narrare, ricordato dai biografi, che fé conoscere quanto in lui fosse radicata la virtù dell’obbedienza. Un frate converso, che doveva uscire per la città a far provvisioni, chiese al Padre Priore la consueta benedizione ed il compagno. Il Priore, senz’altro pensare, gli disse che prendesse per socio il primo frate che gli capitava. Sceso il converso, s’imbattè in Fra Tommaso, che non conosceva, e gli riferì le parole del Priore. Tommaso accettò senz’altro; e fu visto tener dietro a stento per le vie di Bologna al frettoloso converso, sebbene stanco, e impedito da certo dolore ad una gamba. Ma per la città alcune persone riconobbero nel religioso zoppicante il celebrato Maestro, ed avvisarono il laico. Figurarsi la meraviglia, le scuse, le proteste del povero frate! Ma Tommaso non fece altro che sorridere; e disse con tutta calma: Son piuttosto io che merito rimprovero; voi avete fatto l’obbedienza, ed io invece non son riuscito a farla come avrei desiderato! Dopo aver pregato e pianto sulla tomba del santo Patriarca, rivalicò l’Appennino e se ne tornò a Roma.
35. — San Tommaso a Napoli.
Sebbene ancora il Santo Dottore fosse nella sua piena maturità ed avesse appena toccato il quarantacinquesimo anno, egli prevedeva la sua rapida scomparsa. La sua vita si faceva sempre più calma, i rapimenti erano più frequenti, una dolcezza inesprimibile, quasi come in dolce parola d’addio, si vedeva in tutti i suoi atti; e i suoi discorsi mostravano come egli si andasse sempre più staccando dalla terra ed anelasse al cielo. Varie città, intanto se lo contendevano a gara. La sua fama era volata tanto alta, che il solo averlo con sé sarebbe parso onore sì grande, da essere ambito più che qualunque altra gloria. Parigi, che ne aveva educato l’ingegno e dove egli aveva rivelato la sua grandezza, lo richiedeva nella sua Università; Bologna, dove egli aveva trovato tanta corrispondenza di stima e di affetto, gli offriva la più generosa ospitalità; Roma, la metropoli del mondo cattolico, lo avrebbe visto volentieri restare a fianco del Pontefice; e Napoli, che, d’altra parte, poteva dirlo suo e dove aveva ricevuto l’abito dell’Ordine, si lagnava che ancora non aveva potuto averlo; e tutte queste città moltiplicarono le loro istanze al Generale dell’Ordine. Il Capitolo Generale, che si tenne nel 1272 a Firenze, ebbe da quasi tutte le Università d’Europa domanda di averlo, almeno per qualche tempo; e sembra quasi che ovunque si prevedesse la sua scomparsa, e tutti desiderassero di udir quella voce prima che tacesse per sempre. La vittoria toccò a Napoli. I Superiori dell’Ordine, consentendo il Pontefice, accolsero le istanze del Re Carlo d’Angiò e Tommaso, dopo aver venerato per l’ultima volta le tombe dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e salutati i suoi confratelli di Santa Sabina, se ne parti per Napoli col suo indivisibile compagno, Fra Reginaldo. Vi giunse alla fine dell’estate del 1272. – La gioia della città fu indescrivibile; fu portato come in trionfo fino alla porta del suo convento; altissimi prelati e personaggi dei più nobili gradi si confondevano colla folla almeno per vederlo o udirlo quando predicava nella Chiesa o dava lezioni dalla cattedra, ma nemmeno l’alito della vanagloria giunse a toccarlo per sì festose accoglienze: all’altezza dell’ingegno che sempre più in lui si rivelava, rispondeva d’altra parte l’umiltà del suo animo riconoscente a Dio di tanta luce che gli aveva infuso, senza attribuir nulla, proprio nulla, a se stesso. A lui era grato starsene ritirato nella sua cella a pregare o a dettare i suoi preziosi volumi. Era giunto allora alla terza parte della Summa Teologica., a quel trattato dell’Incarnazione, che è il più gran monumento che la ragione umana abbia innalzato in omaggio al Verbo di Dio fatto carne. E sia che pregasse, sia che dettasse, egli era sempre come rapito e fisso nella contemplazione del vero: ed altissimi personaggi che in quei momenti si recavano a visitarlo, ne restavano ammirati e non osavano disturbarlo. Non dissimile era la sua predicazione che mai tralasciò. Rimase memoria della quaresima da lui predicata, certo nel 1273, tutta sull’Ave Maria. E così nello scrivere delle cose più alte, come dell’unione ineffabile del Verbo colla natura umana, dei misteri di Gesù Cristo, della sua vita e della sua passione, del divino influsso della sua virtù riparatrice per mezzo dei Sacramenti, delle grandezze della Vergine Madre, se egli, seguendo rigorosamente il suo metodo, e sempre più addentrandosi nei divini segreti, sembrava rattenere gli slanci del cuore, nel pregare davanti agli altari, nel celebrare il divin sacrificio, nel dir le lodi di Dio e della Vergine Madre, raggiungeva un tal grado di fervore, che sembrava non bastare il suo cuore all’influsso che a lui veniva dalla fonte increata della verità e della vita. Durante uno di questi slanci accadde il fatto raccontato da tutti gli storici sulla fede giurata del piissimo religioso Fra Domenico da Caserta, che ebbe la sorte di esserne testimone. Egli lo vide nella cappella di San Niccolò, ov’era solito pregare, sollevato di due cubiti da terra, davanti a un devoto Crocifisso. A un tratto dalle labbra del Divin Redentore uscirono queste parole: Tommaso, tu hai scritto bene di me. Qual premio dunque tu vuoi? E Tommaso: Nient’altro che voi, o Signore! Le sue preghiere da quel momento si fecero ancor più fervide e più abbondanti le lacrime. Nella Compieta secondo il rito domenicano, suol cantarsi per due settimane di quaresima, un responsorio commovente, interrotto da un versetto del Salmo 70°, che dice: Non mi rigettate, o Signore, nel tempo della mia vecchiezza, non mi abbandonate quando le mie forze verranno meno. Il versetto suol cantarsi da un sol religioso a turno; e quando toccò a Tommaso, tutto il suo volto si coprì di pianto. – Tra gli altri rapimenti fu notato quello della domenica di Passione, durante la Santa Messa. Mentre teneva in mano il corpo di Nostro Signore, prima di comunicarsi, ebbe un’estasi assai lunga, che fu avvertita dagli astanti, tra cui erano alcuni ministri del Re, i quali non si stancarono, ma s’infervorarono nella pietà ed attesero fino al termine. Non tralasciò, in questo tempo, le lezioni che tenne sia nella celebre Università ov’era stato discepolo, per le quali gli era stato assegnato da Re Carlo lo stipendio d’un’oncia d’oro al mese, sia nel convento in una vasta aula, ove tuttora si conserva la sua cattedra; e il concorso era immenso. Tra i discepoli che ebbe a Napoli è da ricordarsi Fra Guglielmo di Tocco, che doveva poi scriverne la vita, e lavorare per la sua canonizzazione; e Fra Bartolomeo, detto più comunemente Tolomeo da Lucca, altro suo biografo, che ascoltò talvolta le sue confessioni e che fu poi elevato al vescovado di Torcello. – A dimostrare la sua attività anche in questo tempo e le sue cure indefesse per il profitto dei giovani negli studi sta il fatto di un viaggio, avvenuto certamente tra l’estate e l’autunno di quell’anno 1273, a Viterbo, Perugia, Firenze e fino a Pisa, ove, per incarico del Capitolo tenuto l’anno precedente, stabilì nel celebre convento di Santa Caterina, ove si conserva ancora la sua cattedra, uno studio generale di Teologia. Altri piccoli viaggi egli fece a Salerno; e restò memoria di quello fatto al Castello di San Severino nel Salernitano, ove dimoravano le sue sorelle, Teodora sposata a Ruggero Conte di Marsico, e Maria signora di Marano. E qui avvenne che stando ad orare nella cappella, entrò in un’estasi lunghissima, che fece stare le sorelle in pensiero. Lo stesso Fra Reginaldo che lo aveva accompagnato si meravigliò perché mai l’aveva visto restare immobile e fuori di sé per tanto tempo. Come si fu riavuto, il compagno gli chiese con molta premura che cosa avesse veduto o udito in quel tempo; e Tommaso gli rispose colle parole di San Paolo: Ho visto e udito tali meraviglie, che all’uomo non è possibile raccontarle. Tutto quello che ho scritto non è che paglia, al confronto di quello che Iddio mi ha rivelato. E poi soggiunse: A te, o Reginaldo, manifesto il segreto del cuor mio: il mio insegnamento e la mia vita presto avranno fine. – Da quel giorno, che era il 6 di dicembre del 1273, il Santo Dottore cessò di scrivere. La Somma Teologica rimase interrotta alla fine del trattato della Penitenza, e la parte con cui essa è condotta a termine, chiamata il Supplemento, fu poi tratta, come sopra dicemmo, da altre opere del Santo Dottore da Fra Reginaldo, che gli succedé nella Cattedra di Teologia a Napoli.
36. — A Fossanova.
La scelta di Tebaldo Visconti a successore di Clemente IV fu un indizio del desiderio vivissimo che in tutto il mondo si aveva di vedere ormai terminata la lacrimevole separazione della Chiesa Greca dalla Latina e riunito tutto il popolo cristiano nella grande opera della liberazione del Santo Sepolcro. Egli era infatti uno dei più fervorosi apostoli che mai si fossero recati tra i Cristiani d’Oriente; e ricevuto in Palestina, ove si trovava, il decreto della sua nomina, si mise in viaggio per l’Italia e andò tosto a trovare in Viterbo i Cardinali per trattare subito con loro dei grandi interessi della Cristianità. Una delle cose a cui prima pensò fu di dare a Gerusalemme un buon pastore; e la scelta del nuovo Patriarca cadde su Fra Tommaso Agni da Lentino, che, come vedemmo, aveva già ricevuto nelle proprie mani la pròfessione del giovane Tommaso d’Aquino, ed era stato poi elevato all’arcivescovato di Cosenza. Nessuna idea ebbe per allora Gregorio IX di preparativi guerreschi, che da sé soli a nulla approdavano; molto invece egli sperò da una comune intesa dell’Episcopato cattolico, che lavorasse alla desiderata unione delle due Chiese; e indisse per il 1274 il Concilio Ecumenico da tenersi a Lione. Gli uomini più grandi di quel tempo, insieme coi Vescovi di tutta la cristianità vi furon chiamati; e tra gli altri, il Beato Alberto Magno, il Beato Pietro da Tarantasia. San. Bonaventura e il nostro Santo Dottore, che fu invitato con lettere particolari e incaricato dal Pontefice di recare con sé il suo celebre trattato Contro gli errori dei Greci. – Così ai primi di febbraio del 1274 Tommaso si congedò dai suoi confratelli di Napoli e si mise in viaggio col fedele Fra Reginaldo, sebbene sofferente e assai indebolito, soffermandosi in vari luoghi, dappertutto accolto con festa e caramente ospitato. Stando per via, Fra Reginaldo gli disse che correva voce che il Papa, nel Concilio, lo avrebbe fatto Cardinale con Fra Bonaventura e che sarebbe stato questo un grande onore pei due Ordini! State certo, rispose il Santo, che io non muterò mai lo stato in cui mi trovo. E quanto al mio Ordine, in nessuno stato gli potrei essere utile quanto in quello in cui resterò. Passò per Aquino, e al luogo della sua nascita diè l’ultimo saluto. Il suo pensiero salì anche all’asilo della sua infanzia: e ai piedi di Montecassino ebbe una lettera premurosa dell’Abate Bernardo, che lo invitava a salir lassù, anche perchè i monaci desideravano una sua spiegazione di un passo oscuro dei Morali di San Gregorio. Ma egli si scusò, dicendo d’essere stanco pel viaggio e pei digiuni dell’Ordine. Alcuni monaci allora discesero, ed egli rispose in iscritto colla consueta chiarezza. Entrato nella diocesi di Terracina, si fermò al castello di Maenza, nella vallata del Sacco, ov’era una sua nipote, la Contessa Francesca d’Aquino maritata ad Annibale da Ceccano, che lo trovò molto deperito e gli fece apprestare le più sollecite cure. Ma il male progrediva, e la Contessa chiamò a curarlo un medico, certo Guido da Piperno. La nipote avrebbe voluto trattenerlo, ma Tommaso non volle mettersi in letto fuori d’una casa religiosa, e si trascinò a stento sopra un muletto, entrò nella vallata dell’Amaseno, traversò Prossedi, passò sotto Sonnino e si fermò stanchissimo alla badia cisterciense di Fossanova, fra Terracina e Piperno. Entrando in quella sacra dimora, fu udito ripetere le parole del salmo CXXXI (14), che presso i Domenicani sono in uso nell’ufficiatura dei morti: Questo è il mio riposo nei secoli dei secoli; qui abiterò, perché me lo sono eletto. Gli furono assegnate due cellette presso quelle dell’Abate; in una stava un camino, nell’altra il letto. Le cure che gli ebbero i monaci durante un mese non si potrebbero descrivere. Tutti si tenevano onorati di poterlo servire; e basti il dire che andando a far legna nella foresta per fargli fuoco, vollero sempre portarle sopra le loro spalle, né mai permisero che gli animali portassero sul dorso cose che servivano per il Santo Dottore. La notizia si sparse per tutto. Corse la Contessa Francesca, che volle ogni giorno saper le nuove della malattia; vennero premurosi da Anagni, da Fondi, da Gaeta, ed anche da Napoli e da Roma, molti Domenicani, e ad essi si unirono vari Monaci e Frati Minori per aver notizie e ricever dal Santo qualche ricordo. Egli si sforzava di rispondere a tutti. A un religioso che gli chiese come avrebbe potuto fare a non perder mai la grazia di Dio, rispose: Cerca di vivere, come se in ogni ora tu dovessi morire. Alla nipote premurosa, che gli mandò a dire se gli occorresse nulla, fece rispondere: Non mi manca nulla; e diqui a poco avrò tutto. – Nemmeno una parola di lamento uscì dal suo labbro, e dal suo volto sempre più traspariva la serenità dell’anima. I monaci ne restarono ammirati; e alcuni di loro gli ricordarono che San Bernardo, prima di morire, aveva spiegato a quelli che lo assistevano il Cantico dei Cantici, e lo pregarono a fare altrettanto. Datemi lo spirito di San Bernardo, egli rispose, e anch’io farò lo stesso. Ma insistendo essi, egli dettò un mirabile commento che ancora rimane. Fu questa per Tommaso d’Aquino la più bella preparazione alla morte.Fra Reginaldo non lo abbandonò un momento; e Tommaso gli mostrò tutto il suo affetto lasciandogli i più cari ricordi e aprendosi con lui in confidenze affettuose. Un giorno gli disse: Di tre cose io devo ringraziare il Signore in modo speciale. La prima è di avermi dato un cuore nobile, che non si è lasciato attrarre dalle cose vili della terra. La seconda è di avermi lasciato nell’umiltà e povertà del mio Ordine. La terza è stata quella d’avermi fatto conoscere lo stato felice del mio fratello Rinaldo. Il suo pensiero correva a Rinaldo! A lui che lo aveva già malmenato e condotto alla carcere, a lui che, accordatosi col fratello, gli aveva preparato una spaventosa caduta, la quale avrebbegli tolto, se Dio non fosse corso in suo aiuto, il suo massimo onore e il nome di Angelico, a lui, che sapeva ora accolto nella gloria dal Dio delle misericordie, che tanti falli perdona per un atto generoso, egli andava ora col pensiero, sicuro di trovarlo presto nel cielo.
37. — La morte. Ritratto del Santo.
Sentendosi vicino alla sua fine, Tommaso chiese a Fra Reginaldo di udire la sua confessione generale; e poi domandò la grazia di restar solo, per disporsi a ricevere il Santo Viatico. Volle che lo togliessero dal suo letticciolo e lo ponessero a giacere in terra, sopra la cenere. Furon raccolte le parole che proferì nel momento in cui l’Abate gli presentò la Santa Eucarestia, e gli chiese di fare la consueta Professione di fede: Io ti ricevo, o Dio, prezzo della redenzione dell’anima mia, viatico del mio pellegrinaggio, per amore del quale ho vegliato e studiato, predicato ed insegnato. E tutto quello che ho scritto, io lo sottopongo alla correzione della Santa Chiesa Romana, nella cui obbedienza ora passo da questa vita. Ricevuta poi l’estrema unzione, placidamente spirò la mattina del 7 marzo del 1274, prima che spuntasse il sole, in età, a quanto sembra, di quarantotto anni. – Egli era grande e diritto di persona, ben formato, di corporatura oltre l’ordinaria, di complessione delicata, faccia tendente al bruno. Ebbe la fronte ampia ed elevata, e sul davanti alquanto calva, acuto lo sguardo, ma pieno d’inesprimibile dolcezza. Nei suoi gesti e in tutto il suo portamento mai si vide nulla di incomposto: taceva e meditava quasi sempre; interrogato rispondeva cortesemente e qualche volta con arguzia, ma sempre con semplicità e candore. Chiunque lo vedesse sentivasi stimolato ad abbracciar la virtù. Mai fu visto adirato, né turbato, nemmeno leggermente. Non amò affatto le grandezze di quaggiù, che lusingano l’ambizione, né le ricchezze, che non ci sanno dare la vera felicità. Una volta un compagno gli mostrò da un’altura la città di Parigi e gli domandò se avesse desiderato di esserne padrone; e rispose: Prenderei più volentieri le Omelie del Crisostomo su San Matteo. Come compendio di quanto fu detto e scritto della sua santità e delle grazie a lui concesse, bastino le due promesse che Iddio gli fece: che non sarebbe stato mai vinto dagli allettamenti della carne, né mai avrebbe sentito gli stimoli della vanagloria; basti la testimonianza di Fra Reginaldo, che tante volte lo aveva confessato, e fino sul letto di morte, di non aver trovato in lui se non la coscienza d’un bambino di cinque anni. – Quale fu nella vita tale è negli scritti. La tranquillità del ragionamento non si altera mai; sembra che egli tema degli slanci del cuore nel trattare dei divini misteri. Tutto è misurato nel suo eloquio: una parola di più lo guasterebbe, una di meno vi lascerebbe un vuoto. Contro gli erranti non ha mai parole di rimprovero, mentre li confonde collo splendore della verità. La frase più severa che sia uscita dalla sua penna fu quella che usò contro David de Dinant, quando chiamò stoltissima la sua dottrina, che confondeva Dio colla materia prima! Fu amantissimo del suo Ordine, e preferì a tutti gli onori del mondo il suo povero cappuccio di frate. Vero predicatore, seppe ben distinguere la cattedra dal pergamo; e parlando al popolo, mentre attingeva dalla sorgente stessa della divina eloquenza la sua dottrina, la esponeva con parole semplici e chiare, che egli paragonava alle monete, di cui tutti devon conoscere il valore. Ma ancor meglio che colla predicazione e l’insegnamento, egli parlò colla sua vita; e bene egli disse di se stesso con Sant’Ilario: Riconosco che il dovere principale che lega a Dio la mia vita, è che ogni mia parola ed ogni mio sentimento parli di Dio. E veramente egli sembrò in mezzo agli uomini la più alta espressione della verità. Ed un sincero amore della verità sarebbe stato anche causa della sua morte immatura ed avrebbe dato ad essa il valore di un martirio, se fosse accertato quanto vari storici affermarono, che essa fosse accelerata da un lento veleno fattogli dare da Carlo d’Angiò. Sospettoso e crudele com’era, quel Re avrebbe saputo di una risposta data dal Santo Dottore a chi gli aveva domandato che cosa egli avrebbe detto delle cose sue al Concilio di Lione, se ne fosse stato richiesto: Certamente io dirò la verità. Ed è la verità che spesso fa paura ai potenti.