MERCOLEDI’ DELLE CENERI (2021)

MERCOLEDÌ DELLE CENERI

p. Carlo m. Curci D. C. D. G.: LA NATURA E LA GRAZIA: Discorsi

Vol. I, Roma-TorinoP. Marietti ed. – 1865

IL PROBLEMA DELLA MORTE

Memento, homo, quia pulvis es, et in  pulverem reverteris.

S. Chiesa.

1. Se da quella polvere, nella quale oggi la Chiesa ci ricorda che tutti dovremo ritornare, levasse il capo uno dei nostri maggiori, che vi tornò non più che un dieci o dodici lustri addietro, io mi avviso, che ei non crederebbe ai suoi occhi dallo stupore, trovando il mondo tanto diverso da quello, che egli, dipartendosi dalla vita, lo avea lasciato. E quale delle cose pubbliche o delle private, in piccolo tempo, non si è cangiata da una Socieià, la quale, compresa dalla febbre dell’innovare, ha riputato meglio tutto ciò che fosse nuovo, e tanto se n’è levata in maggiore superbia, quanto ha potuto farlo con fretta più avventata? Che se quel redivivo, più che alle cose esteriori, potesse guardare nei pensieri della generazione vivente, ahimè! io credo, che in lui la meraviglia cederebbe il luogo alla compassione: tanta è l’alterazione delle idee, e la falsità dei giudizi, che da una scienza sciocca e dissoluta, o, peggio ancora, da non so che oracolo dì pubblica opinione fur messe in voga! Pure in tanta mutazione di cose, in tanto pervertimento d’idee ne è una, alla quale troppo rileverebbe al mondo recare almeno qualche temperamento, e la quale tuttavia, a dispetto di tutte le civiltà adulte e dei progressi umanitari, è restata ferma, invariata, immobile siccome il fato, e non mostra che, per volgere di secoli, possa mai cangiarsi. E questa, Signori miei, è la Morte. Tant’è! quanto a questa tremenda necessità della natura, tutto è rimasto nello stato pristino, primitivo, direi quasi arcaico: i medesimi prenunzi le vanno innanzi nella vecchiezza decrepita, nelle infermità fastidiose, nei subiti accidenti, che colpiscono spesso i più vigorosi e che meno se l’aspettano; le medesime strette angosciosissime dell’agonia l’accompagnano, e le viene appresso la medesima corruzione. Come morì Abele sul limitare del terrestre paradiso, così stanno, or che vi parlo, boccheggiando quelle, parecchie centinaia di uomini, pei quali questo giorno sarà l’estremo, e così morirà l’ultimo degli umani nell’ultimo dei giorni, che sarà rischiarato dal sole. Che se non si è per nulla cangiata la morte, neppure si è cangiato per nulla il terribile problema, che essa acchiude, e che anzi impone, a mal loro grado, ai meno riflessivi, ai più spensierati oggi, come fu nei tempi andati, come sarà nei futuri, la creatura ragionevole, non si potrà mai persuadere, che tutto per lei abbia a finire colla morte; ed una voce imperiosa, più forte di tutte le sofìstiche antiche e moderne, gli dice dentro, che ei non morrà tutto, che anzi colla parte migliore di sé, voglia o non voglia, dovrà essere superstite al sepolcro. Ma allora eccolo condotto, e dico ancora eccolo trascinato per forza a pensare, a riflettere ad un ordine ultramondiale di cose, nel quale, salvo il caso che sia uscito di sentimento, i suoi destini non gli possono essere indifferenti. Or, perciocché la vita presente, come nella futura ha il suo compimento, così da questa deve pigliare le sue norme ed il suo indirizzo; tanto è lungi, che i vivi debbano schivare il pensiero della morte, che per contrario il pensiero della morte è il migliore regolatore, che possano avere della vita. Di qui la santa Chiesa, senza guari curarsi dei nostri millantali progressi, come fece colle azioni semibarbare dei suoi primordi, e poscia coi popoli credenti dei tempi di mezzo, così fa coi superbi figli del secolo decimonono, i quali per avventura ne hanno tanto maggiore il bisogno, quanto più si credono sovrastare agli altri. Essa, spargendo cenere sopra tutti i capi, rammenta al popolo cristiano la sua mortalità; e con ciò, invitandolo a quei pensieri soprannaturali, che sono sì propri del sacro tempo della Quaresima, lo conduce o almeno lo invita e lo stimola a quella santità di vita, che come è la condizione necessaria della nostra salute, così è il fine immediato dei suoi austeri ammaestramenti, e dei santi suoi riti. – Dalla quale usanza, io non mi dipartirò questa mattina; soprattutto perché, pel servigio che intendo rendervi in questi discorsi quaresimali, di cui domani vi esporrò il soggetto, troppo ho uopo, che voi vi risolviate ad attendervi di proposito, piegando l’animo ai gravi e solenni pensieri della vita avvenire. Oh! sì! tregua un tratto, tregua al tumulto dei sensi, al tramestio del mondo ed all’agitarsi ed al battagliare delle passioni! apriamo il cuore alle soavi ispirazioni della grazia; e forse una non piccola vena ne schiuderò alla pietà vostra quest’oggi dimostrandovi, siccome solo il Cristiano può risolvere il gran problema della morte, pigliandone norma a regolare la vita. Che se la natura, condottici a quell’estremo passo, non sa dirci nulla di ciò che esso è, e di ciò, a cui schiude la via, male si arroga il diritto di governare essa sola la vita; e, ad ogni modo, a questo effetto sarà uopo ricorrere a quell’altro ordine d’idee e di cose, dal quale solo si può spiegare la morte. Così la grazia del Divino Spirito assista me in questa faticosa, ma pure a me carissima opera di amministrarvi la divina parola; assista voi, miei amatissimi, la cui pietà e gentilezza già per antica usanza mi è nota, a trarre frutto copioso di benedizione dell’amministrata parola!

2. Voi penserete, che il gran problema della morte riguardi unicamente ciò, che le viene appresso. Pure non è così. La morte rende problematiche le stesse condizioni della vita, e le getta in una incertezza, le colpisce di una inanità, sopra le quali l’intelletto non può quietare, se non ne abbia una spiegazione. Volete vederlo? toccarlo con mano? Venite qua! Eccoci accanto al letto di un moribondo; e perché l’ipotesi sia più calzante, supponiamo un uomo, che abbia consumata la vita ad ammassare ricchezze, giungendo a quella fortuna, da tanti invidiata, e da sì pochi raggiunta, di diventare, come dicono coll’acquolina in bocca i cupidi, milionario; supponiamo un ambizioso (e ce ne sono tanti a’ di nostri!), che per male arti sia salito a grande potenza, e ne sia tuttora investito; supponiamo una donna vana, che abbia abusato i doni di Dio, per dominare cuori non suoi: un più vano letterato o scienziato, che non abbia nella vita mirato ad altro scopo, che di fabbricarsi una grande rinomanza. I circostanti non si sanno schermire da un pensiero importuno; e, benché mondani anch’essi, talvolta lo dicono: «Ecco dunque dove è andata a finire tanta foga di vanità e tanta febbre di cupidigia! E per finire a questa maniera valea bene la spesa di sudare, di trafelare, di logorarsi il cervello e la vita, come questi ha fatto! » Ma, più che i circostanti, ne dev’essere preoccupato e trafitto il morente; e senza saperlo, se è conscio ancora di sé, starà ripetendo seco medesimo ciò, che le Scritture ed i Padri, con ben diverso intendimento, avevano detto: « La vita non fu dunque altro, che un correre alla morte! Tutti quei beni furono sogni di dormenti; e questo morire è uno svegliarmi, che me ne rivela, con subito e sterile riconoscimento, il nulla! Per questa creta passò uno spirito, che non vi resta; ed io mai più non tornerò a vedere i cari luoghi della mia adolescenza e della mia vecchiezza (Psal. CII, 14)! Se così dovea essere, meglio per me saria stato il non esser nato, o l’essere tramutato dalla culla al sepolcro: dormirei ora il mio ferreo sonno coi potenti e coi re della terra, men forse nominato, ma certo meno affaticato di loro! Quare non in vulva mortuus sum, egressus de utero non statim perii ?… Somno meo requiescerem cum regibus et consulibus terræ (Iob. III,11, 14.).» Soprattutto che dire di quel fiero ed amarissimodisinganno, pel disperato convincimento, che dunqueil sospiro naturale alla felicità fu una illusione, fuun ludibrio? A questa maniera una potenza invidiosae malefica ci avrebbe tratti del nulla, per pigliarsi giuocodei nostri dolori, ed alla quale noi non potremmo rendereche una maledizione impotente: che fu la perpetuae bestemmiatrice malinconia dello sventurato Recanatese.Lo so che, con ricorso degno dei ricorrenti,si ricorre alle bestie; ma queste non hanno coscienzadel loro stato; e l’avessero pure, si sentirebbero appagatedall’avere servito all’uomo, che finalmente èil solo loro fine: di che, alla loro maniera, si potrebberoriputare felici. Ma ciò dell’uomo stesso non puòsupporsi, il cui fine deve evidentemente essere qualchecosa migliore di lui; e nel mondo sensibile nulla è, chesia migliore di lui. E ciò è vero perfino dei più miseried abbietti di condizione, nei quali, trovandosi sempreun’anima ragionevole, è inconcepibile, che cosìeccelsa natura, assetata di felicità e di durata, nonabbia avuto altro scopo, che di purgar panni, esempligrazia, di rattoppare calzari, di spazzare camini odi girare ruote, come molto meglio avrebbe potuto farsida un giumento o dal vapore; sicché fatto questo, peralquanti anni, tutto per lei sia finito con questo. Chepensare poi di certe umane creature, che, monche odifettose, neppur questo possono fare, e si consumanotra dolori ignoti ed inesplorati, separate dal mondo, nella solitudine di qualche casolare, o nel fondo deglispedali? Saranno dunque queste state tratte dal nullaniente altro, che per patire? Così è! e fatevene ben persuasi: se non si ricorre alla natura invida e malefica, che ha fatto l’uomo per sbeffeggiarlo delle sue illusioni e dei suoi dolori, dovete concedere, che la morte, fin che si rimane tra i puri termini della natura, rende inesplicabile la stessa vita. E pure il problema è appena cominciato: il forte dimora al di là. Deh! chi può persuadersi, torno a dire, che per l’uomo tutto finisca coll’estremo fiato, strappatogli dal dissolvimento già cominciato del suo organismo? I sofisti medesimi, che lo dicono, non ci credono; ed un’anima immortale non si persuaderà in eterno, per lei non vi essere altro rifugio, che il nulla: la più tremenda catastrofe, che possa incogliere a qualsivoglia cosa che esiste! Sì! La credenza universale di tutti i popoli ed in tutti i tempi; il desiderio innato ed indomabile di una felicità, della quale è indubitato, che di qua non può aversi l’adempimento; il nobile sentimento della giustizia, che tutti vorremmo vedere compiuta, e la quale nel mondo appena è altro, che oppressione dei deboli e prepotenza dei forti ; la nostra intellezione che, remotissima da ogni materia, ci rivela un principio, come nell’operare, così nell’essere indipendente da quella, e quindi franca d’ogni possibile corrompimento; questi, Signori riveriti, sono tali saldissimi fondamenti per la natia immortalità dell’anima umana. che indarno vi diedero di cozzo i materialisti famosi di sessanta secoli; e pensate se vi abbiano a poter far buona prova quattro nebulosità teutoniche solea il gran Tutto panteistico, nel quale lo spirito umano dovrebbe andare a perdere come fumo in aria, o meglio come goccia in Oceano! Ma allora ecco giganteggiarci innanzi un’altra volta il formidabile problema: E come starà, in che attuerà là sua pura operosità intellettiva questo spirito, solitario e nudo nella immensità dello spazio? Potrà conversare coi suoi pari? e con chi e come dovremo pensare che conversi ? Sarà all’oscuro delle cose e delle persone che abbandonò, come queste sono di lui? Ma, più d’ogni altro, c’incalza quella domanda: sarà felice o misero questo spirito nel nuovo stato, e da chi ed a quai titoli gli sarà attribuita l’una o l’altra delle due così diverse condizioni? Io sfido qualunque uomo, che sia in senno, ad avere il coraggio di passare per sopra a questi problemi. Chi lo avesse darebbe manifesto indizio di non essere in senno, come non è la persona, che si professasse indifferente al suo bene ed al suo male. Quella è cosa di tanto momento, che a S. Agostino pareva rilevare ben poco di qual morte s’abbia a finire la vita; e rilevare supremamente di qual vita s’abbia a cominciare a vivere dopo la morte: Non multum curandum est eis, qui necessario morituri sunt, quid accidat, ut  moriantur; sed moriendo quo ire cogantur (De civ. Dei lib. 1, c. 2.). E, comelo stesso santo Dottore, parlando della madre dei settefratelli martiri, ebbe a dire: Non intuebatur quamvitamfinirent, sed quam inchoarent (Ser. 110. De Diversis).

3. E non vi sfugga, di grazia, quell’intuebatur, che importa un ragguardare fermo e sicuro, un intuire per intuito di fede quella vita appunto, che comincia dopo la morte. Perciocché veramente noi Cristiani di quel gran problema abbiamo in pugno sicurissima la soluzione; a tutte quelle domande abbiamo le risposte certe altrettanto che piene; e quasi mi venne detto, che delle cose del mondo di là sappiamo meglio, che quelle del mondo di qua; e certamente le sappiamo con maggiore certezza, e senza pericolo di errore: il che non avviene delle cognizioni forniteci dal senso, dalla ragione o dall’autorità umana. Anzi ciò che conosciamo della vita avvenire, ci vale un tesoro a governare il corso della presente, a vincerne le difficoltà e a districarne anche un poco i garbugli, i quali senza quella sarebbero affatto inestricabili. Per noi dunque (e parlo delle anime sinceramente cristiane), la morte è il sabato aspettatissimo del mercenario, che riceve la giusta retribuzione della settimana più o meno lunga del suo lavoro: Sicut mercenarii dies eius (Iob. XIV, 6); è il termine del faticoso pellegrinaggio e l’arrivo alla patria sospirata; è la corona, che il giusto giudice ci darà per le sostenute lotte terrene: Corona iustitiæ, quam reddet milii Bominus iustus index (II. Tim. IV, 8). E però S. Paolo, parlando in persona di tutti i giusti, diceva animosamente: « Se la casa terrena (vuol dire il corpo, e nel greco è σκήνη (= skene) che significa tenda, come di pellegrini) se la casa terrena di questa nostra abitazione si deve risolvere per morte, noi sappiamo esserci apparecchiato da Dio colassù nel cielo un edifizio, una casa cioè non fatta a mano ed eterna: Scimus quoniam si terrestris domus nostra huius habitationis dissolvatur, quod ædificationem ex Deo habemus, domimi non manufactam, æternam in cœlis (II. Cor. V, l). Vero è che, fitti in questo corpo, gemiamo per naturale ripugnanza  a dovercene separare: Qui sumus in hoc tabernaculo, ingemiscimus, e, piuttosto che spogliarcene, ci piacerebbe di essere conesso il corpo sopravvestiti della gloria: eo quod nolumus expoliari, sed supervestiri (II. Cor. V, 4).» Ma certi, siccome siamo, che lo stesso corpo ci verrà a raggiungere in quella verace patria, la morte, anche per tutto l’uomo, non è finalmente altro, che un sonno. Anzi, come notò il Crisostomo, tanto più leggera del sonno è la morte, quanto che nel sonno le migliori facoltà dell’anima sono impedite; laddove nella morte l’anima colla più nobile parte di sé rimane sciolta, attuosa e liberissima, e solo delle facoltà inferiori le viene temporaneamente impedito l’esercizio. Di qui quel tanto significativo e consolante linguaggio cristiano, secondo il quale la morte è dormizione, i trapassati sono dormienti, ed i sepolcri non sono, che cimiteri, val quanto dire, come suona quella greca voce, dormitori. E questo, che tanto vale ad attenuarci l’apprensione della nostra morte, chi non vede quanto deve eziandio contribuire a disacerbarci il dolore per la perdita dei nostri cari, o parenti od amici, ogni qual volta possiamo avere fiducia, che siano state raccolte le loro anime sotto le grandi ali del perdono di Dio? Certo l’addolorarvi in questi casi è affetto naturale e legittimissimo; e S. Paolo non vi ammonisce già a non contristarvene; ma severamente a non contristarvene, come quei disgraziati, ai quali è mutola ogni speranza, e per quali la tomba ai fiori ed alle lagrime, che vi si spargono, non ha altra risposta, che il dubbio straziante od il nulla: Ut non contristemini sicut et cæteri, qui spem non habent (I . Thessal. IV, 13). Per contrario quella speranza cristiana ardisco dire, che può, come notò S. Agostino, condire di gaudio quel dolore. Contristamur nos in nostrorum mortibus necessitate amittendi, sed cum spe recipiendi; inde contristamur, hinc consolamur; inde infirmitas affìcit, hinc fides refìcit: inde dolet humana conditio, hinc sanat divina promissio (Serm. 32. De, Verb. Ap.). Che se sia parola non dei giusti, ma di quei miseri, i quali dopo una vita empia ed iniqua, o nessuna o quasi nessuna speranza lasciarono di salute; non vi pare, che per questi la morte sia un degno saggio della divina giustizia, che di là gli attende, e di qua un ristoramento dovuto alla pubblica indignazione, ed al pubblico scandalo, quando colle loro malvagità ebbero meritata quella, e destato questo? Oh! Gl’insensati! pigmei ridicoli si credettero, come i giganti della favola, rompere guerra a Giove; ma il Dio dei Cristiani è qualche cosa di più, che il Giove favoloso dei poeti. Egli, per santificazione dei suoi eletti, lasciò loro, per breve ora, lunga sul collo la briglia; e quella, che essi credettero fortuna, fu tremendo loro castigo. Accecati dall’orgoglio, invescati dalla lascivia, trascinati da cupidità insaziate, e, per estremo lor danno, ubriachi del riuscimento, trafficarono sulla fame dei poveri, insidiarono alla innocenza di caste colombe, mentirono, spergiurarono, tradirono per arrampicarsi ad un seggio potente; chi sa? assassinarono popoli e dinastie, spogliarono la Chiesa, e congiurarono adversus Deum et sanctum puerum eius Iesum (Act. IV, 27). Ne esultarono procacemente i malvagi, che n’ebbero spalla e conforto a misfare; ne piansero, se ne angosciarono i buoni, ai quali tardava talora di vederne il fine. Ma aspettate! Dio è paziente, perché Dio è eterno. Compiuto quel novero di delitti, la cui permissione entrava nel disegno della sua Provvidenza, ecco che Egli ne coglie al varco, quando meno sel pensano, gli autori nefandi; ne interrompe coi giorni iniqui i più iniqui consigli, e ve li fiacca, ve li getta a terra, oggimai diventati massa inerte d’imputridite carogne. Allora gli ultimi dei mortali potranno intuonar loro la fiera canzone, che si legge in Isaia: « E tu dunque ancora fosti sfolgorato siccome saremo noi; ed in questo almeno non fosti dissomigliante da quegl’infimi, che conculcasti! Et tu vulneratus es sicut et nos, nostri similis effectus es. La pretesa tua gloria fu trascinata ad oscurarsi nei luoghi bui: Detracta est ad inferos gloria tua; e, caduto il sozzo tuo carcame nell’abbandono della tomba, avrà per letto la tignuola, e per coltrice sepolcrale i vermi: Concidit cadavcr tuum: sub te sternetur tinea, et operimentum tuum erunt vermes (Isa. XIV, 10, 11).»Sicché vedete, Signori miei, che per noi Cristiani,non che sciogliersi il problema della morte, essa neppureè problema. Anzi, se ho a dirvi tutto intero ilmio pensiero, aggiungerò che, sia per rispetto ai buoni,sia per rispetto ai tristi, la morte è quella, che solamenteacchiude la spiegazione della vita; e questa daquella acquista scopo, dignità, valore di cosa che s’infuturanella perpetuità dei suoi effetti, e riceve confortodi giustizia sperata. Che se, nell’ordine fisico, i naturalistentano a determinare, onde mai si derivi nell’uomol’indeclinabile necessità della morte, nel moraleessa medesima diviene una verissima necessità;tanto che, senza la morte, non si potrebbe più nullaintendere della vita. Di qui si fa manifesta quella bellaparola di S. Agostino là, dove disse, che i giusti fanno lorprò della morte che è un male, come i malvagi fannolor danno della legge che è un bene; essendo proprio deiprimi il far medicina del veleno, e dei secondi il volgerein veleno la medicina: Mali male lege utuntur, quamvis lex sit bonum; et boni bene moriuntur, quamvis mors sit malum (De Civ. Dei Ub. 13, cap. 5.).

4. Ma è oggimai tempo di esaminare quale soluzione si dia al problema, o piuttosto ai problemi, che si affollano intorno al cataletto, dagli scredenti, che si professano avversi o certo estranei a quelle idee cristiane, le quali io, sotto molta brevità, testé vi ho esposte. Ora che volete che io vi dica? per cercarne che io abbia fatto con diligenza nei moderni filosofi, non ho trovato nulla, affatto nulla, che valesse la pena di essere preso ad esame. Essi non toccano questo punto, lo schivano a vero studio; e, condottivi alcuna volta dalla necessità del discorso, o lo saltano a piè pari. o se ne sbrigano con qualche frase vaga e insignificante sopra i destini avvenire dell’umanità, ovveramente intorno all’immedesimarsi, che farà lo spirito nell’unica sustanza del gran Tutto. Ma deh! che fa egli cotesto, quanto a satisfare a quel fremito d’indignazione, che tutti sentiamo nel fondo della coscienza, al ripensare, che, parificata ogni cosa per una medesima morte, il più ed il meglio della virtù debba rimanere, non che irremunerato, ma sconosciuto: e debba restare impunito ed inulto il peggio che ebbe il vizio, quando o riuscì ad inorpellarsi per ipocrisia, o poté più procacemente imbaldanzire, perché fortunato? Che fanno quelle frasi vaghe, insignificanti a risolvere almeno quel dubbio: Come mai la natura ci avrebbe inserita nell’animo la brama focosa di una felicità, della quale la morte, in mal punto, ci rivelerebbe essere cosa affatto impossibile a conseguirsi? Come non sarebbe ciò un’illusione? un ludibrio? quasi mi venne detto un tradimento? Gli antichi si accostarono a queste gravi disquisizioni con più coraggio, che non fanno i moderni; e quantunque, nel leggere i Dialoghi di Platone, notantemente il Timeo, le Tuscolane, o i de Finibus di Tullio, non si raccolga gran cosa, e per certi capi le perplessità crescano e si rinserrino; nondimeno è sempre decoroso, per filosofi di professione, non lasciare inesplorato questo campo, che dovrebb’essere l’ultimo termine di ogni sana filosofia. Anche Porfirio, come ricorda S. Agostino, si pose in traccia di una via universale da salvare le anime cercando viam communem salvandarum animarum (De Civ. Dei lib. 10, cap. 32); quantunque 1′ odio, che quel sofista avea giurato al Cristianesmo. non gli consentendo di cercarla in questo, dovette confessare, che né presso gl’Indi, né presso gli Egiziani, né presso i Caldei, né in verun’altra filosofia ne avea trovato alcun seniore. Ma, come dissi, i filosofi moderni non ne trattano, non se ne brigano, pare che neppure conoscano la esistenza e la possibilità di quei problemi; tanto che si direbbe, che il rimorso di una colpevole apostasia gì’impedisca dal pur tentare una materia, dalla quale temono di vedere disfavillare ai loro occhi una luce, la quale essi detestano, e per giusta punizione, forse non vedranno giammai. – Lasciando dunque stare i filosofi, ci dovremmo rivolgere, per pigliar lingua, alla gente del mondo anche colta e saputa. Ma questa, per un altro motivo, né sa, né vuol sapere di siffatte malinconie; ne schiva il pensiero, ne rifugge l’aspetto e, vivendo alla carlona, affogata nelle cure e nelle agitazioni secolaresche, quando a passi di gigante viene loro addosso la morte, più per altrui, che per proprio consiglio, non si oppongono talora, che entri a loro un prete, ad amministrare le così dette consolazioni religiose più ad un mezzo cadavere, che a un moribondo. E tutto è detto, e tutto è finito! Sicché, miei cari, dal mondo e dai suoi seguaci non ci è da spillar qualche cosa che valga intorno a questo gran problema della morie, per contrapporlo a ciò, che ne pensiamo e ne diciamo noi Cristiani. Tuttavolta se nei libri vi è poco o nulla, e nei discorsi secolareschi vi è anche meno quanto ad un tale soggetto; pure nella consuetudine della vita occorrono delle circostanze, nelle quali filosofi e mondani sono quasi obbligati a significare ciò che pensino di quel medesimo soggetto, sopra qualunque altro rilevantissimo. Ed il primo caso è, quando, per affezioni di amicizia e di parentela, ovvero per ragioni di convenienza, si trovano a dovere confortare al duro passo qualcuno che sia presso a morire, od a consolare il dolore di alcun altro, a cui morte abbia di fresco rapito un qualche capo carissimo: supponete un padre, una madre, un figliuolo, un marito, una sposa. Se non fosse che il caso è cotanto mesto, ci sarebbe davvero a ridere nell’udire quella mezza dozzina di voci scucite e incoerenti, che sono tutto il capitale confortatorio, di cui il mondo può valersi messo in cotali strette! Ma se non si può ridere, deh! a cui non farebbe compassione quel sentire uomini, talora gravi ed istruiti, balbettare: falò, necessità della natura, caducità umana; e per somma grazia: costanza nella sventura, ed Ente supremo? Ciò poi è sì miserabile e sguaiato, che in questi casi anche i men Cristiani parlano, o certo vogliono sentir parlare cristianamente; ed è lepido vederli tutto in opera, affine di cacciare morti nel paradiso dei Cristiani certi cotali, che, vivendo, non si curarono neppure di sapere se ci fosse o no un paradiso. Meno goffamente sterili si mostrano gli scredenti, quando si tratta di ornare con pubbliche laudi la memoria di alcun loro trapassato; massime se uomo di qualche levatura. Ma anche qui se non ci dite che queste laudi possono in un qualsiasi modo essere sapute dai laudati e rallegrarneli; se ci dite anzi che di loro non resta nulla, non si vede per qual motivo essi abbiano dovuto tanto affaticarsi per un guiderdone, del quale, non che godimento, non possono avere neppure contezza. Lo so che questa della gloria superstite è forse la più splendida delle umane illusioni; e certo, quando la sia governata accortamente, è la più profittevole al mondo, siccome quella, dalla quale la fatuità dell’uomo mondano è lautamente alimentata è potentemente sostenuta ad imprese ardue, ed a quella segnatamente, che tra tutte è arditissima, di farsi uccidere senza spesso saperne neppure il perché. Ma, se uscite dal giro delle idee cristiane, le quali sole sanno il modo, onde possono pei suoi servi in seno a Dio rinverdire gli allori caduchi della terra, tutte le cicalate necrologiche, più che laude dei trapassati, sono mezzi a gonfiare, la vanità ed a rinfocolare le passioni dei presenti. Ai quali, a’ dì nostri, si sono aggiunti sproni ai fianchi, col potere aspirare, a furia di abbiette iniquità, ad uno di quei monumenti, onde si sta lordando questa povera Italia; il cui vitupero ai suoi rigeneratori non pare compiuto, se non lo tramandano ai posteri col linguaggio dell’arte, e colla saldezza dei bronzi e dei marmi: speriamo che i posteri, per nostro onore, si vorranno pigliare il fastidio di spazzamela. Ma checché sia di ciò, dalle cose discorse mi pare dimostrato ad evidenza, solo il Cristianesimo spiegare il problema della morte, e da questo anzi pigliare lume a rischiarare e governare la vita. Quanto alla incredulità, essa, sia che ne discorra nei libri, sia che ne parli in piana terra, o dall’alto, è stata convinta di non capirne un iota; e le tenebre, dalle quali per lei rimane avvolto tutto ciò che è al di là della tomba, debbono lasciare non meno intenebrato tutto ciò, che di qua si trova. Il perché chi per sua sventura da noi passasse a quella, farebbe il baratto del Cristianesimo, non con un sistema, ma col nulla. Ora, trattandosi dei nostri destini avvenire, dai quali solamente si può pigliare norma sicura a regolare il presente, il nulla è troppo poco; e noi, almeno fino a tanto che l’incredulità non abbia trovato il modo di non farci morire, seguiteremo a pensare cristianamente della morte; e con ciò solo ci troveremo molto acconciamente disposti a riordinare la vita.

5. Si dice nei Salmi, che Iddio si ricorda che noi siamo polvere: Recordatus est quoniam pulvissiimus (Psal. CII, 14), per farci intendere, che questa memoria lo fa inchinevole a commiserazione delle nostre debolezze. Ma indarno lo ricorderebbe Iddio, se lo dimenticassimo noi; stante che la divina pietà esige la nostra corrispondenza ai suoi inviti, e la nostra cooperazione alla sua grazia. E però la S. Chiesa ci ricorda appunto quella nostra indeclinabile caducità, col severo Memento homo quia pulvis es, et in pulverem reverteris, sicura, siccome è, che una siffatta rimembranza è pei Cristiani invito efficacissimo ai gravi pensieri della vita avvenire. Di qui voi vi conformerete alla intenzione dell’amorosa madre, se penserete alla morte, se ne penserete cristianamente: il che importa, come io vi diceva pocanzi, valersi di quel pensiero per rischiararne e regolarne la vita. Ora a ciò fare non vi ha tempo nell’anno più appropriato della santa già cominciata Quaresima. Il sacro digiuno; riverenza alla stess’ora e rammemorazione dei quaranta dì digiunati nel deserto dal Redentore; l’apparecchio alla nostra grande solennità della Pasqua, ed ai giorni mesti della Passione, che le vanno innanzi; il disporvi, che tutti dovete fare al santo precetto pasquale; la divina parola, che scenderà sopra di voi così copiosa, quasi rugiada celeste, a rinfrescare le vostre arsure e a confortare, a consolare le vostre coscienze; chi sa? a scuotere e spoltrire qualche cuore assonnato e anneghittito; la Chiesa medesima col silenzio dei suoi organi, colla grave mestizia dei suoi riti e colla tanto espressiva austerità dei suoi cantici; tutto c’invita e soavemente ci sforza ad entrare in questo sacro tempo-quaresimale con sincera compunzione di cuore, e con ferma risoluzione di ordinare a salute la nostra vita. Deh! miei amatissimi! il tempo è breve, la morte a ciascun di noi si avvicina a gran passi; e come a molti, che qui erano presenti la passata Quaresima, quella fu l’ultima, così sarà questa per molti che sono ora presenti. E potendo ciò avvenire per tutti, non vi pare, che la prudenza dovrebbe persuaderci a giovarcene per l’anima nostra, come se davvero questa dovesse essere l’ultima per ciascuno? Da un’altra parte l’avvenire è chiuso ai nostri occhi; ma non è tanto, che non si vegga torbida l’atmosfera e gravida di tempesta. Or quando pubbliche e private calamità vi dovessero incogliere, non sarebbe bene giovarsi di questo tempo accettevole, di questi giorni di salute, per rinsaldarsi in quella fede ed in quel santo divino timore, che chi sa come e quanto dovrà esservi insidiato! Ed il quale pure potrà essere balsamo alle vostre piaghe e conforto dolcissimo della vostra speranza? E perciocché parte l’indulgenza della Chiesa, parte le sanità debilitate, parte (e perché non dirlo?) la carità rattiepidita han fatto sì, che il digiuno quaresimale siasi ridotto a molto poca cosa, voi fate di supplire a quello, procurando alle anime vostre più largo e più assiduo il nutrimento della divina parola. S. Paolo, fino, dai suoi tempi, esortava a non deserere collectionem, cioè queste sacre riunioni, nelle quali lo Spirito Santo ci parla al cuore; e si lamentava della consuetudine prevaluta in alcuni di allontanarsene: Sicut consuetudinis est quibusdam (Hebr. X, 25). Oh! no! di voi nonsia così. Ponete anzi Ordine alle vostre faccende o domestiche,o esteriori di affari, pubblici e privati permodo, che vi resti il tempo di ascoltare la predica oqui o altrove, o a quest’ora o ad un’altra; ma nonfate mancare questo pascolo di salute alle anime vostre.Già vi dissi, che domani vi esporrò il modo, onde iointendo amministrando; ed ascoltando il soggetto, cheho divisato di trattarvi, vi accorgerete che questa mattinavi abbiamo posto un buon fondamento col solo èssercirinfrescato nella mente il concetto, che, secondola nostra fede, dobbiamo avere della morte. Ma comeio alla fatica di annunziarvi la divina parola aggiungeròle povere mie preghiere, perché essa vi torni fruttuosa;così voi pregate, che dall’alto mi venga quellastessa parola, per ischiudere le labbra con apostolicalibertà: ut detur mihi sermo in aperitione oris mei cum fiducia; sicché io vi possa far noto, il mistero dell’Evangelio, osando parlare come si addice al mio ministero, ed al vostra bisogno: Notum fàcere mysterium Evangelii … ita ut in ipso audeam prout oportet, me loqui (Ephes. VI, 19).

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.