LO SCUDO DELLA FEDE (138)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (5)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE V.

Il Papa succede nel primato a S. Pietro, per successione di diritto divino.

31. Prof. Ammetto, dunque, perché innegabile, la Supremazia di S. Pietro secondo il senso cattolico, sopra tutta la Chiesa. Il Papismo però passa più oltre. Egli pretende che il suo Papa di Roma succeda per diritto, o istituzione divina nel primato a S. Pietro; il che in verun modo può ammettersi, e perché da un fatto particolare non può dedursi una regola generale, e perché S. Pietro mai è stato a Roma, e perché insomma, se anche vi fosse stato, la successione sarebbe sempre di umano diritto, non divino.

Bibbia. E incontrastabile, che S. Pietro doveva aver successori nel suo Primato, perché il sistema una volta stabilito da Gesù Cristo pel governo visibile della sua Chiesa, durar deve quanto la medesima Chiesa, siccome sta scritto: « Egli [Gesù] altri costituì Apostoli, altri profeti, altri pastori e dottori per lo perfetto adunamento de’ santi, per l’opera del ministero, per la edificazione del Corpo di Cristo: finché ei incontriamo tutti nella unità della fede, e della cognizione del Figliuolo di Dio. » (Efes. IV. 11. 12. 13.). Vale a dire, sino alla fine del mondo. – « Ed ho anche delle altre pecorelle, che non sono di quest’ovile, le quali ancora mi conviene addurre, e ascolteranno la mia voce, e sarà uno solo gregge e un solo pastore. » (Giov. X. 16,)  Anche questo vaticinio non poteva verificarsi durante la vita di S. Pietro; poiché non avrà perfetto compimento che verso la fine del mondo. Che poi per quel solo pastore non debba intendersi soltanto Gesù Cristo, ma anche un altro Capo visibile suo Vicario, e successore di S. Pietro, è cosa evidente da quanto fin qui ho detto a questo proposito, e tu stesso non puoi contradire se ritrattar non vuoi le tue antecedenti dichiarazioni. Che se brami conoscere in modo più chiaro e preciso questa gran verità, ascolta ancora S. Paolo. « In un solo spirito tutti noi siamo stati battezzati per essere un solo Corpo, o Giudei, o Gentili, o servi, o liberi…. Le membra sono molte, uno il corpo ;… E non può dire l’occhio alla mano: non ho bisogno dell’opera tua: e similmente il capo a’ piedi, non siete necessari, per me.1 » (I Cor. XII, 13 e segg.). Ecco dunque un Capo di tutto il corpo della Chiesa ben diverso da Gesù Cristo, perché è tale che non può dire a’ piedi, cioè neppure agli infimi membri, non siete neeessarj per me, non ho bisogno di voi.

2.° È incontrastabile che il Primato di S. Pietro passa ai successori tal quale egli lo ha ricevuto; ed essendo esso infallibilmente di diritto divino, perché istituito e conferito da Gesù Cristo, anche i successori lo hanno interamente di divino diritto, ossia non lo hanno, e non lo riconoscono che unicamente da Gesù Cristo. Il luogo scelto da S. Pietro per sede di esso Primato (supposto non ne abbia avuto comando da Dio) è certamente di umano diritto, ma non così la successione in chi succede nella Sede di Pietro, ovunque questa sia stabilita; perché tal successione è infallibilmente di diritto divino. Che poi S. Pietro non sia stato a Roma, e quindi il Papa non sia suo successore, come ti è noto?

32. Prot. S. Paolo scrivendo ai Romani non saluta S. Pietro, il che non avrebbe omesso di fare se fosse stato Pietro il Vescovo di Roma.

Bibbia. Meschinissima prova, perché non è che negativa. Infatti lo stesso S. Paolo scrivendo agli Ebrei non saluta S . Giacomo, scrivendo agli Efesini non saluta Timoteo: oserai dire perciò che il primo non fosse Vescovo di Gerusalemme, ed il secondo di Efeso? Ma poi, ascolta: « Dopo queste cose uscito (S. Paolo) di Atene venne a Corinto: e trovato un certo Giudeo per nome Aquila, nativo di Ponto, il quale era venuto di fresco dall’ Italia; … essendo che Claudio aveva ordinato che partissero da Roma tutti i Giudei, etc. » (Act. XVIII, 1,2). Dunque aveva dovuto partire anche S. Pietro. Ora chi ti assicura che quando S. Paolo scrisse a’ Romani, S. Pietro fosse già ritornato, o non piuttosto fosse tuttora assente, e perciò abbia lasciato di salutarlo?

Prot. Voi con tal modo di dire supponete che sia stato a Roma! Con quali prove?

Bibbia. Così scrive S. Pietro: « Vi saluta la Chiesa che è in Babilonia con voi eletti etc. » (I. di Pietr. v. 13. Nei frammenti agrari (romani) intitolati a Fausto, e Valerio VV PP, pp. p. 307, ediz. Di Vil. Goes, cosi sta scritto: « Circa urbem Babylonis Romæ maritimum fiet, etc. ». E a p. 266. « Contra urbis Babylonis Romam maritimi limites fient etc. » Dal che è manifesto che Roma anche presso i Romani aveva il saprannome di Babilonia). Ora essendo fuor di dubbio che gli Apostoli per Babilonia intendevano Roma pagana, come è chiaro dall’Apocalisse, Cap. XII. – è parimente fuor di dubbio che S. Pietro scrisse quella Lettera in Roma. A quella ne fece succedere un’altra, nella quale dice: « Essendo io certo che ben presto il mio tabernacolo ha da esser posto giù, secondo quello che lo stesso Signor nostro Gesù Cristo mi ha significato etc. » (II. Piet. I, 14) Onde è chiaro che S. Pietro non solamente è stato in Roma, ma che ivi è morto; e quindi che il Papa di Roma è il vero suo successore. Che se ancor non vuoi credere, dimmi almeno: chi è stato il primo fondatore della Chiesa di Roma?

33. Prot. È stato S. Paolo, e non altri. (Così, molti protestanti)

Bibbia. Oh! questa è bella !!! … S. Paolo nel principio della sua lettera ai Romani così dice loro: « Or io voglio, o fratelli, che non siavi ignoto come spesso feci proposito di venire da voi, per far qualche frutto anche tra voi, come tra le genti, ma sono stato sino a quest’ora impedito » Dunque prima che S. Paolo andasse a Roma, già era fondata e fioriva la Chiesa alla quale egli scrive: come, dunque, poteva averla fondata prima di esservi stato?

34. Prot. Tengo anch’io come voi; imperocché: « Se non vi fosse altra ragione che questa, aver, cioè, voluto Iddio render duratura la sua Chiesa visibile, ne seguirebbe per conseguente che cotesta Chiesa debba avere sulla terra un governo ecclesiastico universale. Per la qual cosa, se avvi realmente una Chiesa visibile, se esiste un governo ecclesiastico, il cui potere si estenda dall’uno all’altro punto della terra, è bene a ragione che questo governo si trovi in qualche luogo. Ora pare certissimo che Roma sopra tutte le altre città abbia questo vantaggio di esser la più atta a custodire nelle sue mura il Capo, e, a così dire, anche la fonte dell’intero governo della Chiesa Cristiana. » (Jac. Andreæ; Rationes a Deo petitæ: p. 24)

« La tradizione ci insegna, che Dio, per conservare la sua Chiesa nell’unità, ha stabilito una Cattedra, ed un’autorità superiore che vegli a mantenerla, la quale è quella della Chiesa di Roma (5 Nicole; Instruction X. sur le Symbole: § 10)

« Ben’è noto a ciascuno quella grande ed immortale idea che presenta la pietra angolare su cui ferma le sue basi il Papato. L’unione che si avvera tra ‘l cielo e la terra, le sensibili cose come mezzi, e le soprumane come fine: le sensibili, ad onore di Dio, le invisibili a gloria dell’uomo – sebbene tutto sia principalmente ordinato a gloria di Dio). Cotesta idea si poteva bene a ragione considerare come la leva dell’obbedienza dei popoli al sacerdozio, come l’idea fondamentale di Cristo medesimo, siccome quella per cui oggi non altrimenti che nel tempo che fu, si mantiene salda l’unità dell’antica Chiesa. Lungi da questo principio unificativo, essa sarebbe stata divisa ed infranta in un numero di sette e di partiti senza fine, tra i quali poi con grande difficoltà, se pure impossibile cosa non fosse, si sarebbe a mala pena trovato lo Spirito di Cristo. » (G. Chr. R. Maltei), Il potere e la dignità del principe: Heidelberga, 1843, p. 283).

« Siccome vi sono de’ Vescovi che presiedono a più Chiese, cosi il Romano Pontefice presiede a tutti i Vescovi. Non vi è uomo prudente a mio credere, che riprovi questa economica polizia. Laonde per ciò che spetta a questo articolo, della superiorità pontificia, non vi è contrasto. » (Melantone, lib. Epistolar. theologicar., Epist. 74, p. 244). « La Chiesa è un corpo, dunque molte singole parti la debbono comporre, e il Vescovo di Roma è quegli che ne ha la presidenza, e ne è il Capo. Il che si fonda sul modello di quel principato posseduto da Pietro sugli altri Apostoli, PER DIVINA ISTITUZIONE. Qual rimedio migliore contro gli scismi che l’unità in un solo che presegga? L’esperienza stessa lo ha dimostrato, quand’anche Cristo medesimo non l’avesse detto. Chi poi sarà tra i Cristiani che negherà essere stato S. Pietro tra i Romani? » (Ugo Grotius, Ad Consultationem Cassandri, 1642, p. 51.).

35.  « Le istorie ci insegnano che per due singolari ragioni la Chiesa Romana è sempre stata in fama e in gloria singolare. Primieramente perché essa mette capo in Roma ov’era la sede dell’impero, e poi, che è più, perché è stata fondata da Pietro e Paolo Apostoli Principi. » (A. Dreierus, De primate Petri, 1035, Thes. I .). « Tutte le storie affermano che Pietro è stato il primo Papa di Roma. » (Lutero, presso Tavardent, in notis ad Cap. 2, lib.. 3 S. Irenei), — « La presenza di Pietro in Roma è un fatto pieno di storica certezza. » (Bertholdt, Istruzione istorico-critica del V. e del N. Testamento, part. 5. p 2090.).

 « In forza di ciò più non contrasto che Pietro sia venuto, e sia morto in Roma.1 » (7 Calvino, libr. 4. Inst. Cap. 6, § 15).

« Pietro e Paolo godono un santissimo riposo in Roma, ove sono sepolti in pace. » (Berder, imiei pensieri sulla filosofia del genere umano, T. 3, p. 162) Non vi è nell’antica storia evento alcuno tanto incontrastabile per l’appoggio di dotti testimoni antichi e tanto tra sé consenzienti, quanto il fatto della venuta di S. Pietro in Roma.1 »(Schroch, Storia della Chiesa cristiana; part. 2, p. 155).

« Se tutto questo si vuol negare, gettiamo al fuoco ogni storia, e combattiamo qualunque verità; poiché né l’una, né l’altra varranno più a nulla. » (Rasnage, Annales eccl. Polit. Ad an. 62)

« Sarebbe indizio di somma stoltezza, e segno di non essere sano d’intelletto, il voler negare che Pietro abbia fermata la sua stanza in Roma, edificata quivi la Chiesa, e glorificata coll’effusione del suo sangue. » (G, Cave, Del Cristianesimo primitivo: cap. 5. )

« Che se alcuni protestanti, specialmente Spanhem, hanno voluto negare, ad esempio di certi avversari de’ Pontificii del medio evo, che S. Pietro sia mai stato in Roma, ciò fatto hanno per polemica di fazione. » (Gieseler, Manuale della Storia Ecclesiastica: T. I ed. 2, p. 89). Insomma

« La Chiesa Romana non solamente è Cattolica, ma inoltre è Capo della Chiesa Cattolica, e ben lo dimostra S. Girolamo in una sua Epistola diretta a S. Damaso. Non vi è chi lo ponga in dubbio. » ( Ugone Grozio, Append. Epist. 679).

IL SACRO CUORE DI GESÙ (37)

IL SACRO CUORE DI GESÙ

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE PRIMA

CAPITOLO IV.

LE PROMESSE

Circola una piccola raccolta delle promesse fatte dalla beata Margherita Maria, in favore dei devoti del sacro Cuore e di tutti quelli che propagheranno questa divozione (Nel 1882 un cattolico americano fece tradurre questa raccolta in circa 200 lingue, e la fece stampare su di una graziosa immagine del sacro Cuore, che sparse con profusione in tutte le parti del mondo).

1. Io darò loro tutte le grazie necessarie al loro stato.

2. Io metterò la pace nelle loro famiglie.

3. Io li consolerò in tutte le loro afflizioni.

4. Io sarò il loro sicuro rifugio in vita e specialmetnte in morte.

5. Io spanderò le più abbondanti benedizioni sopra tutte le loro imprese.

6. I peccatori troveranno nel mio Cuore la fonte e l’oceano infinito della misericordia.

7. Le anime tiepide diverranno fervorose.

8. Le anime fervorose s’innalzeranno rapidamente a una grande perfezione.

9. Io benedirò perfino le case ove l’immagine del mio sacro Cuore sarà esposta e onorata.

10. Io darò ai sacerdoti il dono dì commuovere i cuori più induriti.

11. Le persone che propagheranno questa divozione avranno il loro nome scritto nel mio Cuore e non ne sarà mai cancellato (A queste undici promesse si comincia a unire, da qualche anno, quella che riguarda la comunione dei nove primi venerdì consecutivi, detta « la grande promessa »).

Quando e da chi fu fatta questa raccolta? Non saprei dirlo. Non se ne trova traccia nel Croiset, nel Gallifet, nel Nicollet o in altri. Queste promesse, pertanto, rispondono esattamente al pensiero della beata e alle sue parole. Non sono, però, tratte  testualmente dai suoi scritti e, una, la più precisa, se non la più importante, non vi si trova affatto. Bisogna dunque tornare ai testi della beata. Diremo in seguito qualche parola della « grande promessa ».

PROMESSE DIVERSE

Promesse speciali e promesse generali. Il linguaggio della beata. Testi precisi, soprattutto dal 1685.

I testi sono sì abbondanti che bisogna fare una scelta. Ve ne sono che riguardano persone o circostanze particolari. – Tutte le persone che parteciperanno alle vedute della beata, che le fanno del bene, che lavorano a propagare la sua cara divozione, sono oggetto di favori speciali, avuti o promessi con sicurezza. Prima di tutti, la Madre de Saumaise, la madre Greyfìé, suor Giovanna Maddalena Joly, il P. Croiset, ecc…. Di questi favori però non abbiamo nulla di particolare a dir qui, e ci limiteremo a parlare delle promesse generali, che si riferiscono alla divozione. Il linguaggio della beata sembra aver seguito su questo soggetto, una gradazione di sicurezza e di precisione. Sino dal principio, Gesù le ha fatto comprendere che spanderebbe le effusioni della sua grazia su tutti quelli che si interesserebbero a questa amabile divozione. Non è che a datare dal 1685 o dal 1686, che le promesse divengono più precise e più sicure. – La beata varia anche nella sua maniera di esprimersi. Ora ella parla, per così dire, in suo nome; ora in nome di Nostro Signore. Ciò dipende, in parte, dalle persone a cui son dirette le sue lettere. Quando esse non sono al corrente delle sue intime comunicazioni con Nostro Signore, è più riservata. Ma si direbbe che, qualche volta, ella dica ciò che ha nello spirito, senza avere specialmente in vista qualche promessa distinta di Nostro Signore.

(Si vede questo anche in una lettera alla Madre de Saumaise, 17 febbraio 1687. Con lei non ha da nascondere nulla. Nostro Signore « vuole che le parli alla buona, a cuore aperto, come una figlia con la sua buona Madre ». E, non pertanto, si riscontra nella sua parola come una fusione di due influenze; delle idee che le vengono, e dei lumi che riceve: « Ecco quel che mi viene in mente, a proposito del nostro Istituto: che il nostro Padre, San Francesco … abbia chiesto un sostegno … e che il sacro Cuore di Gesù gli è stato accordato. Ed è per l’intercessione della santa Vergine che egli ha ottenuto questo potente protettore. Quelle che si metteranno sotto questa amabile protezione, parteciperanno abbondantemente al tesoro delle sue grazie santificanti. Mi sembra di essermi fatta comprendere. Veda, mia cara Madre, come il mio miserabile cuore le svela semplicemente i suoi pensieri, per i quali però le chiedo il segreto, perché io non desidero che si dia qualche credito ai miei pensieri, né a quel che dico, che non è né rivelazione, né visione ». Lettera XIV (XV), t. II, p. 107 (143); G. XXXV, 295, CXI, 473. E chiaro, d’altra parte, che queste cose non si possono sapere che per mezzo di comunicazioni soprannaturali, e ci vengono presentate come tali sia qui (« mi sembra essermi fatta comprendere ») sia in molti altri luoghi. Vedere per esempio, la lettera XLV (XLV), t. II, p. 87 O24); G. LI, 324).

Che ella però parli in suo nome, o in nome di Gesù, la beata non fluisce di rivelare i vantaggi della sua cara divozione. Ma noi studiamo particolarmente le promesse; ed ecco, a questo proposito, qualche passaggio caratteristico. Ella scrive alla Madre de Saumaise, il 24 agosto 1685. Egli (il sacro Cuore) le (a lei stessa) ha fatto conoscere, di nuovo, la gran compiacenza che prende nell’essere onorato dalle sue creature e le sembra che Egli le promettesse che tutti quelli che sarebbero consacrati a questo sacro Cuore, non perirebbero e che, siccome Egli è la sorgente d’ogni benedizione, così le spanderebbe, con abbondanza, in tutti i luoghi dove fosse esposta l’immagine di questo amabile Cuore, per esservi amato e onorato. Così riunirebbe le famiglie divise, proteggerebbe quelle che si trovassero in qualche necessità, spanderebbe l’unzione della sua ardente carità in quelle comunità dove fosse onorata la sua divina immagine; e ne allontanerebbe i colpi della giusta collera di Dio, ritornandole nella sua grazia, quando ne fossero decadute; e che, finalmente, accorderebbe una grazia speciale di santificazione, di salute, alla prima persona che gli procurasse la gioia di far fare questa santa immagine » (Lettera XXXII (XXXIII), t. Il, p. 64 (101); G. XXXVI. 296). – Si trova cosa analoga in una lettera alla Madre Greytié, in un estratto citato dalle Contemporaines (Lettera XXXII (XXXIV), t. II, p. (250) ; 68 (105) ; cf. t. I , p, 221; G. XXXVII, 299; cf. t. I, p. 367. 2). E così pure in un altra lettera alla stessa, nel gennaio 1686. « Mi sembra che Egli mi abbia latto vedere che molti nomi vi erano scritti, (nel sacro Cuore) a causa del desiderio che hanno di vederlo onorato; e che, per questo, non permetterà che ne siano cancellati (Lettera XXXIV (XXXV), t. II, p. 70 (107); G. XL, 303. Ella aggiunge subito: « Però Egli non mi dice che i suoi amici non avranno nulla da soffrire; perché vuole che facciano consistere la loro maggior felicità a gustare le sue amarezze ». Si vede che ella non dimentica la via cristiana e perfetta.). – Ma in nessuna altra parte la beata è più esplicita che nelle sue lettere al P. Croiset. Il 10 agosto 1689, dopo avergli parlato « del gran numero di anime che questa divozione ritrarrà dalla via della perdizione, per rimetterle in quella della salute, aggiunge: « È quello che gli dà un così ardente desiderio d’esser conosciuto, amato e onorato dagli uomini, nel cuore dei quali brama ardentemente di stabilire, per questo mezzo, l’impero del puro amore, sì che promette grandi ricompense a tutti quelli che s’impegneranno a farvelo regnare…. Io mi vorrei struggere in rendimenti di grazie e in riconoscenza verso quel divin Cuore, per le grazie grandi che ci ha fatto volendo servirsi di noi per aiutarlo a farlo conoscere, amare e onorare; a ciò Egli ha annesso dei beni infiniti per tutti coloro che vi s’impiegheranno con tutto il loro potere, seguendo le sue ispirazioni. Egli rivela questo desiderio (d’esser conosciuto, amato ed onorato dagli uomini) come sì eccessivo, che promette a tutti coloro che si daranno e consacreranno a lui, per dargli questo gusto di rendergli e procurargli tutto l’amore, l’onore e la gloria che sarà in loro potere…. che non periranno mai, e che Egli sarebbe loro un asilo sicuro, contro tutte le insidie dei loro nemici, ma soprattutto nell’ora della morte, in cui li riceverebbe amorosamente nel suo divin Cuore, assicurando la loro salute, prendendosi cura di santificarli e di (farli) tanto grandi davanti il suo eterno Padre, quanto impegno metterebbero nel dilatare il regno del suo amore nei cuori; e che, come Egli è sorgente d’ogni benedizione, così ne spanderà abbondantemente in tutti quei luoghi dove verrebbe onorata l’immagine di questo sacro Cuore, perché il suo amore lo sollecita a distribuire il tesoro inesauribile delle sue grazie santificanti e salutari, nelle anime di buona volontà, cercando i cuori vuoti per riempirli con la soave unzione della sua ardente carità, per consumarli e trasformarli interamente in lui. Egli vuole spiriti umili e sottomessi, senz’altra curiosità che di compiere il piacer suo. Di più Egli con questo mezzo riunirebbe le famiglie che fossero divise, e proteggerebbe quelle che fossero in necessità; e spanderebbe la soave unzione della sua carità in tutte le comunità religiose, dove fosse onorato, e che si mettessero sotto la sua particolare protezione, ne terrebbe tutti i cuori uniti per non farne che un sol cuore col suo e distoglierebbe da loro la folgore della divina giustizia, restituendoli alla grazia, quando ne fossero decaduti… ». – Oh! Se mi fosse permesso di manifestare le ricchezze infinite che sono nascoste in questo prezioso tesoro, e di cui arricchisce e fa godere i suoi amici fedeli! Se potessimo comprenderlo, non ci risparmieremmo in nulla, per procurargli la gioia che Egli desidera con (tanto) ardore » (Lettres inédites, II, p. 87-91 ; riveduto su G. CXXXI, 526, 529).

– Qualcuna di queste promesse sono per gli zelatori; ma altre sono per tutti, e l’insieme mostra che ciascuno ha la sua parte in tutte, secondo la misura della sua divozione. – La beata vi ritorna nella sua lettera del 15 settembre 1689. Ella riguarda questa divozione come uno dei mezzi di cui questo divin Cuore vuol servirsi per « ritrarre un gran numero di anime dalla perdizione, distruggendo in esse l’impero di satana, per rimetterle, con le sue grazie, nella via della salute eterna, come mi sembra averlo Egli promesso alla sua indegna schiava; facendole vedere questa divozione, come uno degli ultimi sforzi del suo amore per gli uomini, affinché, manifestando loro, in un quadro particolare, il suo divin Cuore, trafitto d’amore per la loro salute, potesse assicurare la loro salvezza, non lasciando perir niente di tutto quello che gli sarebbe consacrato, per il gran desiderio che Egli ha d’essere conosciuto, amato e onorato dalle sue creature, affine di soddisfare, in qualche modo, l’ardente desiderio che ha il suo amore di espandersi, distribuendo loro, con abbondanza, le sue grazie santificanti e salutari; e sarà loro un asilo sicuro nell’ora della morte, per riceverle e difenderle dai loro nemici. Ma per questo, bisogna vivere in conformità delle sue sante massime ». Questo è per tutti. – Vediamo ora quello che riguarda gli zelatori. « Per coloro che s’impiegano a farlo conoscere e amare, oh! se potessi, se mi fosse permesso di esprimere quello che mi è stato dato a conoscere, delle ricompense che riceveranno da questo adorabile Cuore, direste, come me, che sono ben felici quelli che Egli impiegherà per l’esecuzione dei suoi disegni…. E la ragione, per cui non mi è permesso parlare delle ricompense che Egli promette a coloro di cui si servirà per questa santa opera, è perché lavorino, senza altro interesse che quello della sua gloria e in vista del suo amore (Lettres inédites, III, p. 117-118; riveduto su G. CXXXII, 540-547). – E un po’ più lungi : « Non vi è nulla di più dolce né di più soave, e insieme di più forte ed efficace, che la soave unzione dell’ardente carità di questo amabile Cuore, per convertire le anime più indurite e penetrare nei cuori più insensibili, per mezzo della parola dei predicatori e suoi fedeli amici, che Egli renderà come una spada ardente che farà liquefare, nell’amor suo, i cuori più agghiacciati »  (Lettres inédites, III, p. 128; riveduto su G. 553.). – E vi ritorna pure sotto altra forma.

« Questo divin Cuore è una sorgente perenne, ove sono tre canali che scorrono incessantemente: il primo di misericordia per i peccatori, sui quali si diffonde lo spirito di contrizione e di penitenza; il secondo di carità, e si estende a soccorrere tutti i miserabili, che si trovano in qualche necessità: e particolarmente per quelli che tendono alla perfezione, che vi troveranno, per la mediazione dei santi Angeli, di che vincere gli ostacoli; dal terzo scorrono l’amore e la luce per gli amici perfetti, che Egli vuole unire a sé, per comunicar loro la sua scienza e le sue massime, affinché si consacrino interamente a procurargli gloria, ciascuno a modo suo e la Santissima Vergine sarà la speciale protettrice di questi, per farli giungere alla perfezione (Lettres inédites. Ili, p. 129-130. riveduto su G. 554). – L’insieme di queste promesse non è così bene espresso in nessuna parte come in un frammento di lettera della beata a un Padre Gesuita, forse al P. Croiset. « Perché non posso io raccontare tutto quello che so di questa amabile devozione e scoprire a tutta la terra i tesori di grazie che Gesù Cristo racchiude in questo Cuore adorabile e che intende spandere su tutti quelli che la praticheranno!… I tesori di grazie e di benedizioni che questo sacro Cuore racchiude sono infiniti. Io non so che vi sia nessun altro esercizio di divozione, nella vita spirituale, che sia più efficace, per innalzare, in poco tempo, un’anima alla più alta perfezione e per farle gustare le vere dolcezze, che si trovano nel servizio di Gesù Cristo  ». – « Sì, lo dico con sicurezza, se si sapesse quanto questa divozione è gradita a Gesù Cristo, non si troverebbe un solo Cristiano, per quanto poco amore avesse per questo amabile Salvatore, che non la praticasse subito. Fate di tutto perché le persone religiose, in particolar modo, l’abbraccino; esse ne riceveranno tanto aiuto, che non abbisognerà altro mezzo, per ristabilire il primo fervore e la più esatta regolarità, nelle Comunità le men ben regolate, e per portare al colmo della perfezione quelle che vivono nella più esatta osservanza ». – « In quanto alle persone secolari, troveranno in questa amabile divozione tutti i soccorsi necessari al loro stato, vale a dire, la pace nelle loro famiglie, il sollievo nel loro lavoro, le benedizioni del Cielo in tutte le loro imprese, la consolazione nelle loro miserie; è proprio in questo sacro Cuore che troveranno un luogo di rifugio durante tutta la loro vita, e principalmente all’ora della morte. Ah! come è dolce morire dopo avere avuto una tenera e costante divozione al sacro Cuore di Gesù Cristo! ». – « Il mio divin Maestro mi ha fatto conoscere che coloro che lavorano alla salute delle anime, lavoreranno con successo e conosceranno l’arte di commuovere i cuori più induriti, purché abbiano una tenera divozione al suo sacro Cuore, e s’impegnino a ispirarla e stabilirla in ogni dove ». « Infine, è molto visibile che non vi è nessuno al mondo che non riceva ogni sorta di soccorso dal cielo, se ha per Gesù Cristo un amore veramente riconoscente, come si è quello che gli si dimostra, con la divozione al suo sacro Cuore » (Il testo è tolto dal Croiset, Abrégé, p. 57. Cf. Lettera CXXXI1 (CXXXIV), t. II, p. 285 (334). Contemporaìnes, t. I , p. 289 (317) ; G. CXLI, 622. Fra questi testi si riscontra qualche variante d’espressione).

II.

LA GRANDE PROMESSA (*)

Testo — Importanza — Carattere unico.

(*) Si veda : A. Hamon, Le exte de la grande promesse du Sacre Cœur negli Etudes, 20 giugno 1903, t. XCV, p. 854; X. M. LE BACHELET, La grande promesse du Sacre Cœur, ibid,, 5 agosto 1901, t. LXXXVIII, p. 385, con bibliografia; A. VERMEERSCH, La grande promesse du Sacre Cceur, Paris, 1903 (in Pratique et Doctrine de la Dévotion au Sacre Cceur de Jesus, Tournai, 2 a parte, c. 3, p. 555-594); A. Boidinhon, Les neuf premiers vendredis, nella Revue du clergé, -1903, t. XXXVI, p. 113; R. DE LA BÉGASSIÈRE, nell’articolo Coeur de Jesus ; X, nel Dictionnaire apologétique, Jangey-d’Alès, t, I, col. 582-583, Paris, 1909. Il R. P. DOMENICO GALEAZZI, S. I . ha consacrato alla questione un volume considerevole : De præcìpuo e promissis SS. Cordis Jesu, seu de novem communionibus. Dissertatio historica et theologica, Roma, 1910, 237 pagine in 12. Cf. Étudès, 5 gennaio 1911, t. 126, p. 108-110 (articolo del R. P. LE BACHELET, il quale, a mio parere, non tien più le posizioni prese negli Études, 5 agosto 1901, t. 88, p. 385, posizioni attaccate dal P. VERMEERSCH, Etudes, 5 giugno 1903, t. 95. p. 593 ; la dottrina del P. VERMEERSCH è la nostra). Più recentemente: La grande promesse du Cceur de Jesus, del P. GARCIA ESTÉBANEZ, S. J., studio storico, teologico e pratico. Tradotto dallo spagnolo, da un religioso dei Certosini, Paris, 1913.)

Rimane ancora una promessa che non abbiamo incontrata sin qui, sotto la penna della beata: « La grande promessa ». Se ne parla poco nei primi trattati sul sacro Cuore (Non l’ho veduto né nel CROISET, né nel GALLIFFET. Les Contemporaìnes ne fanno menzione; lo stesso, LANGEUT e NICOLLET), e non è che i n questi ultimi tempi che ha fissato, in modo speciale, l’attenzione dei teologi. Si direbbe che si aveva paura di parlarne, sia per non dar presa agli avversari, sia per non incoraggiare una sicurezza presuntuosa. Infatti, sarebbe scandalosa, per chi non crede all’amore; ma ben la comprendono tutti coloro che hanno compreso il sacro Cuore. Si trova in una lettera alla Madre de Saumaise, di data incerta. (Le editrici dicono: maggio 1688.) Non ne abbiamo più l’autografo, e la copia ha dovuto subire qualche ritocco, però solamente grammaticale. Ecco il testo pubblicato:

« Un giorno di venerdì, nel tempo della santa Comunione, Egli disse queste parole colla sua indegna schiava, se ella non s’inganna: Io ti prometto, nella eccessiva misericordia del mio Cuore, che il suo amore onnipotente accorderà, a tutti quelli che faranno la santa Comunione per nove primi venerdì del mese, consecutivi, la grazia finale della penitenza; essi non morranno nella mia disgrazia, né senza ricevere i sacramenti, e il mio divin Cuore si farà loro asilo sicuro nell’ultimo momento.  »

(Lettera LXXXII (LXXXIII), t. I I , p. 159 (195); G. LXXXVII, 397. Le Contemporaìnes dicono « eccesso di misericordia, invece di eccessiva misericordia »: nove primi venerdì d’ogni mese di seguito; la grazia della penitenza finale, non morranno nella mia disgrazia; egli si farà loro asilo sicuro, in quell’ultima ora. I , p. 291 (318); riveduto su G. 277, p. 261. Differenze, come si vede, puramente grammaticali. A. HAMON ha trovato, in un manoscritto gentilmente comunicato da DECHELETTE, il sapiente archeologo ucciso dal nemico or sono pochi mesi) un testo che sembra essere il testo stesso della beata. Non differisce, dal testo pubblicato, che in cose insignificanti. Il testo dunque, in sostanza, è sicurissimo). La promessa è assoluta, supponendo, solo evidentemente, le comunioni ben fatte e secondo le intenzioni del sacro Cuore. Ciò che vien promesso, non è la perseveranza nel bene, durante tutta la vita, e neppure (ciò risulta dal contesto, più che dal testo medesimo) la recezione degli ultimi sacramenti in ogni ipotesi; ma bensì la perseveranza finale, che implica la penitenza e gli ultimi sacramenti, nella misura necessaria. La promessa riguarda più direttamente i peccatori che le anime pie, e non fa che precisare, fissandola a una pratica determinata di divozione al sacro Cuore, ciò che la beata ha ripetuto, mille volte in generale, che i devoti del sacro Cuore, cioè, non periranno. – Si trovano, negli scritti della beata, delle promesse che hanno una certa analogia con la grande promessa, in favore di altre pratiche.

(Ecco secondo Le Contemporaines quelle che più vi si avvicinano: « Un giorno dell’Annunziazione, Nostro Signore mi fece conoscere che io dovevo onorare i suoi abbassamenti, con 24 Verbum caro, per onorare le ore che rimase nel seno verginale della sua santa Madre, promettendomi che quelli che vi fossero fedeli non morirebbero senza ricevere il frutto della sua incarnazione, per mezzo dei SS.mi » Sacramenti ». Vie et Oeuvres. t. 1, pag. 114 (143); G. n. III, p. 115. – Un altra pratica è pure raccomandata: « Egli mi disse, amorosamente, esser suo desiderio che ogni venerdì io lo adorassi per 33 volte sull’albero della croce, che è il trono della sua misericordia, prostrandomi umilmente ai suoi piedi e cercando di mettermi nella disposizione in cui era la SS.ma Vergine nel tempo della passione, offrendo tutto questo all’eterno Padre, con le sofferenze del suo divin Figlio per chiedergli la conversione dei peccatori induriti. In quanto a coloro che si manterranno fedeli a questa pratica Egli sarà loro favorevole nel punto della morte. » Vie et Oeuvres, t. I, p. 69 (100) ; G. n. 115 p. 116; ef. t. II, p. 154.). – Ma vi sono sempre delle differenze, di cui ecco la principale: negli altri casi niente indica che la grazia sia annessa a una pratica che venga fatta. Si potrebbe fare delle serie osservazioni consimili, a proposito di promesse di tal genere, che si trovano altrove; in santa Geltrude, per esempio. La conclusione sarà sempre, se non m’inganno, che la « grande promessa » è qualcosa di unico. Chi non vede, d’altronde, che non vi è qui un incoraggiamento a fare il male, ma una grazia ammirabile e un grande aiuto per fare il bene? Gesù non dice che salverà quelli che continueranno a peccare; ma che darà una grazia efficace per non peccare, una grazia onnipotente, per uscire, infine, dal peccato (2).

 (2) Ben inteso, l’asserzione della beata non ha qui, più che altrove, valore assoluto; ma garantisce, visto la sincerità del testimone, l’esperienza psicologica di una santa anima; e poiché abbiamo delle solide ragioni per credere alla missione soprannaturale della beata, possiamo concludere che queste stesse ragioni militano per la realtà della promessa. L’autorità della Chiesa, non è impegnata direttamente nella questione. Pertanto dal fatto che la Chiesa ha beatificato Margherita Maria e che presto la canonizzerà; dal fatto che l’esame dei suoi scritti non ha arrestato il processo canonico e che le autorità ecclesiastiche lasciano predicare « la grande promessa » ; dal fatto, infine, che la santità della beata implica praticamente la realtà della sua missione, si può dedurre legittimamente: 1° che nel pensiero della Chiesa una tal promessa non ha nulla di contrario alla fede o ai costumi; 2° che non è imprudente o temerario di credervi e di farvi appello per spingere alla pratica dei nove venerdì. – L’obiezione, tratta dal Concilio di Trento, sulla incertezza della salute eterna, non ha appiglio nel caso presente e neppur quella che vi si potrebbe trovare un incoraggiamento a peccare. Non vi è dunque ragione per attenuare il senso della promessa, come ha fatto qualche teologo che, spiegandola, ha quasi reso nullo il suo vero senso.

IL SACRO CUORE (38)

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (18)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (18)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) – BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

APPENDICI

APPENDICE I .

(Dagli Atti del Concilio Vaticano)

SCHEMA di costituzione del Catechismo piccolo secondo le correzioni ammesse dalla Congregazione generale.

PIO VESCOVO SERVO DE SERVI DI DIO A PERPETUO RICORDO DEL FATTO CON APPROVAZIONE DEL SACRO CONCILIO

Compilazione e uso di un unico catechismo piccolo per tutta la Chiesa.

L’amorosa madre Chiesa, istruita dall’insegnamento e dall’esempio del suo sposo Gesù Cristo Salvator nostro, dedicò sempre straordinaria cura e diligenza ai fanciulli acciocché, nutriti col latte della celeste sapienza, fossero per tempo educati alla pietà in ogni sua manifestazione. Perciò il sacrosanto Sinodo di Trento non solamente incaricò i Vescovi di provvedere che ai fanciulli s’insegnassero con cura le nozioni fondamentali della fede e l’obbedienza tanto a Dio quanto ai genitori, (Sess. XXIV, c. 4, de Reform.) ma si assunse di più il compito di preparare un formulario e un metodo fisso per istruire il popolo cristiano già fin dai primi rudimenti della fede; perché lo seguissero in ogni diocesi coloro, che avessero mandato di legittimo pastore e maestro (id. id., c. 7, de Reform.; Catech. Rom. in Præf.). Siccome non poté essere compilato dallo stesso Santo Sinodo, questa Sede Apostolica, conformandosi a un voto di quello (id., XXV, Decret. De Indice librorum, Catechismo etc.), lo condusse felicemente al desiderato termine col pubblicare il « Catechismo per i parroci ». E non si contentò; ma, pel desiderio di rispondere più perfettamente all’intenzione de’ Padri tridentini, approvò anche, nell’intento che sempre poi fosse osservato un unico e ugual metodo nell’insegnare ed apprendere la dottrina cristiana, un piccolo catechismo, composto, per suo incarico, dal Ven. Card. Bellarmino; e lo raccomandò assai caldamente a tutti gli Ordinarii, ai parroci e agli altri, cui spetta il detto insegnamento (Clem. VIII, Brev. Pastoralis, 15 luglio 1598; Bened. XIV, Constit. Etsi minime, 7 febbr. 1742). Poiché si sa che non piccoli inconvenienti oggi derivano dal numero enorme de’ piccoli catechismi nelle diverse Provincie e Diocesi, Noi, coll’approvazione del Sacro Concilio, tenendo sott’occhio anzitutto il detto catechismo del Ven. Card. Bellarmino, poi anche quelli più diffusi tra il popolo cristiano, provvederemo che di Nostra autorità ne sia compilato uno nuovo in lingua latina, affinché tutti si servano di esso, togliendo di mezzo per l’avvenire le varietà de’ piccoli catechismi (In questo schema non è fatta menzione del piccolo catechismo, per quelli che, a norma del Decreto Quam singulari di Pio Pp. X, devono essere ammessi per la prima volta alla s. Comunione. Prima di tal decreto non si ammettevano d’ordinario i fanciulli alla prima Comunione, se non in età più avanzata secondo le varie usanze locali e, per prepararli convenientemente, s’adoperava il catechismo del Bellarmino, oppure altri somiglianti. Ma, dopo la pubblicazione del Decreto di Pio X, catechismi di tal sorta, com’è stato detto nel Proemio, servono per i fanciulli che, fatta la prima Comunione, continuano nello studio della dottrina cristiana, non per quelli, che — a norma del citato Decreto — sono ammessi per la prima volta alla santa Comunione.). A loro volta, nelle singole Provincie, i Patriarchi o gli Arcivescovi, udito prima il parere dei loro Suffraganei, consultati poi anche gli altri Arcivescovi della stessa regione e lingua, cureranno che quel testo sia fedelmente tradotto in lingua volgare. Ma in facoltà de’ Vescovi, purché sia sempre tenuto in uso il piccolo catechismo per la prima istruzione de’ fedeli, senza giunte di sorta, resterà il compilare più ampie lezioni di catechismo per maggior istruzione de’ fedeli e difesa contro errori, che eventualmente infestano i loro paesi. Però se vorranno pubblicare queste lezioni, non a parte, ma unitamente al testo del catechismo suddetto, ordiniamo che appunto il testo da noi prescritto apparisca da tali lezioni nettamente distinto.

(A questo scopo è pienamente idoneo il terzo nostro catechismo composto per gli adulti e per le persone colte; in esso difatti sono esposte più diffusamente le verità della dottrina cristiana. Da esso fu ricavato, senza mutar sillaba, il secondo catechismo de’ fanciulli, sicché, se vogliono col tempo formarsi miglior cognizione della dottrina cristiana, se la possano procurare più facilmente coll’uso del catechismo maggiore; lasciando facoltà agli Ordinari di svolgere più ampiamente, conforme ai vari bisogni locali, taluni punti della dottrina e di completarli coll’aggiunta di altri, come si spiega meglio nel Proemio.). – Finalmente raccomandiamo assai assai, come spesso fecero i nostri Predecessori, a quelli, che hanno incarico d’insegnare, l’uso del ricordato Catechismo ai parroci; perché poco gioverebbe che i fedeli mandassero a mente le formule del catechismo, se nel comprenderle non fossero guidati dalla viva voce del maestro, ognuno in proporzione della sua capacità; e a questo proposito è di somma importanza, che unico sia il modo d’insegnar la fede e comune la norma e la prescrizione di educare il popolo cristiano a tutte le pratiche di pietà (Catech. Rom. in Præf.).

APPENDICE II

DECRETO della S. Congregazione de’ Sacramenti circa l’età per ammettere alla prima Comunione eucarìstica.

Le pagine del Vangelo attestano splendidamente di quanto amore Cristo amò i piccoli quaggiù; difatti era sua delizia star con essi, soleva metter loro la mano sul capo, abbracciarli, benedirli. E si sdegnò del fatto che fossero allontanati da’ suoi discepoli, che rimproverò con queste severe parole: Lasciate che i pargoli vengano a me e non allontanateli, perché di essi è il regno di Dio (Marc, X, 13, 14, 16). – E quanto facesse conto della loro innocenza e candore di spirito, ben dimostrò quando, chiamato a sé un fanciullo, disse a’ discepoli: In verità vi dico, non entrerete nel regno de’ cieli, se non vi farete fanciulli. Chi dunque si fa umile come questo fanciullo, è più grande nel regno de’ cieli. E chi accoglierà in mio Nome un fanciullo come questo, è come se accogliesse me (Matt., XVIII, 3). Ciò ricordando, la Chiesa Cattolica, fin da’ suoi primordii, si diede premura di condurre a Cristo i fanciulli per mezzo della Comunione eucaristica, che costumò amministrare ad essi, anche lattanti; e ciò faceva, com’era prescritto in quasi tutti gli antichi libri rituali, fino al secolo XIII, in occasione del battesimo, e tal costume in taluni luoghi durò molto tempo; presso i Greci e gli Orientali dura anche al presente. E per evitare il pericolo che, specialmente i lattanti, rimettessero il pane eucaristico, fu costume a principio di amministrar loro l’Eucaristia soltanto sotto la specie del vino. E non solamente in occasione del battesimo, ma spesse volte anche di poi erano i bimbi rifocillati col cibo divino. Difatti come in talune chiese vi fu l’usanza di somministrare l’Eucaristia, subito dopo il Clero, ai bimbi, così altrove a loro si davano i frammenti residui alla Comunione degli adulti. – Più tardi nella Chiesa latina questa pratica andò in disuso e non più si ammisero alla sacra mensa i bambini, se non avevano un barlume almeno di raziocinio e una qualche nozione dell’Augusto Sacramento. Ora questa nuova disciplina, già fatta propria da taluni Sinodi particolari, fu confermata con solenne sanzione dal Concilio ecumenico Lateranense IV, dell’anno 1215, colla promulgazione del celebre canone XXI, dov’è prescritta la Confessione sacramentale e la sacra Comunione per i fedeli, che abbiano raggiunto l’età della ragione, con queste parole: « Ogni fedele dell’uno e dell’altro sesso, giunto agli anni della discrezione, confessi schiettamente da solo tutti i suoi peccati, almeno una volta l’anno, al proprio sacerdote e abbia cura, a norma delle sue forze, di sodisfare la penitenza ingiuntagli, ricevendo con divozione almeno in tempo di Pasqua il sacramento dell’Eucaristia, salvo che, per consiglio del proprio sacerdote, giudichi di astenersene durante qualche tempo e per motivo ragionevole ». – Il Concilio di Trento (Sess. XXI, de Communione, c. 4), senza riprovare affatto l’antica disciplina di somministrare l’Eucaristia ai bimbi, confermò il decreto Laterano e pronunciò la scomunica contro chi la pensi al contrario : « Sia scomunicato chi dirà che tutti e singoli i fedeli di Cristo, dell’uno e dell’altro sesso, non sono obbligati, giunti che siano agli anni della discrezione, di comunicarsi ogni anno, al meno a Pasqua, secondo il precetto di santa madre Chiesa » (Sess. XIII, de Eucaristia, c. 8, can. 9). Dunque, in forza del citato decreto Laterano, che vige tuttora, i fedeli di Cristo, appena giunti agli anni della discrezione, son obbligati d’accostarsi, almeno una volta l’anno, ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Ma nel calcolare quest’età della ragione, ossia della discrezione, col tempo s’introdussero non pochi errori e deplorevoli abusi. Chi ritenne di assegnare un’età della discrezione per il Sacramento della Penitenza e una differente per ricevere l’Eucaristia; e per la Penitenza età della discrezione giudicarono fosse quella, nella quale si è in grado di distinguere il bene dal male e perciò di commettere peccato; mentre che per l’Eucaristia si richiedeva più matura età, quando cioè si può avere più ampia conoscenza delle cose di fede e più matura preparazione. – Così, secondo le varie usanze locali e opinioni, fu stabilita, per ricevere la prima Comunione, qui l’età di dieci o dodici anni, là di quattordici o anche più, interdicendo frattanto la Comunione eucaristica ai fanciulli e a’ giovinetti minori dell’età prescritta. Questo costume, in forza del quale, col pretesto di salvar il decoro dell’augusto Sacramento, se ne tengon lontano i fedeli, fu cagione di molti inconvenienti e danni. Difatti avveniva che l’innocenza de’ fanciulli, tenuta lontano dall’amplesso di Cristo, non era alimentata da nessun succo di vita interiore; e ne veniva di conseguenza che, privata del più forte aiuto, la gioventù, circondata da tante insidie, perduta l’innocenza, precipitava ne’ vizi ancor prima d’aver gustato i sacri misteri. E sebbene sia vero che alla prima Comunione si premette un’istruzione più diligente e una più accurata Confessione sacramentale, benché purtroppo non dappertutto; tuttavia è dolorosa sempre la perdita della prima innocenza, che, col ricevere in età più tenera l’Eucaristia, forse poteva evitarsi. E non è meno da riprovare il costume diffuso in parecchi luoghi di proibire ai fanciulli, non ancor ammessi alla mensa eucaristica, la confessione sacramentale, oppure di non impartir loro l’assoluzione. Così accade che rimangano per lungo tempo e con gran pericolo nel laccio di peccati fors’anche gravi. E c’è di peggio. In taluni luoghi ai fanciulli, non ancor ammessi alla prima Comunione, si proibisce il Viatico, persino in pericolo urgente di morire, e così, morti e seppelliti col rito de’ bambini, non fruiscono de’ suffragi della Chiesa. Tali danni cagionano coloro, che insistono eccessivamente sulla necessità di preparazione straordinaria alla prima Comunione, non badando che tale precauzione scaturisce dagli errori giansenistici, che sostengono la santissima Eucaristia debba essere un premio, non una medicina per la fragilità umana. Certamente il Sinodo di Trento pensava l’opposto quando insegnò ch’essa è « contravveleno, grazie al quale ci liberiamo dalle colpe d’ogni giorno e ci preserviamo da’ peccati mortali » (Sess. XIII, de Eueharistia, c. 2); e questa dottrina fu di fresco dalla S. Congregazione del Concilio più severamente inculcata con decreto del 26 dicembre 1905, che apre a tutti, adulti e giovinetti, la porta della Comunione quotidiana, imponendo solamente due condizioni, lo stato di grazia e la retta intenzione della volontà. – E davvero non pare che ci sia motivo giusto, mentre in antico si porgevano ai bimbi anche lattanti i residui delle sacre specie, di esigere adesso una straordinaria preparazione da fanciulletti, che per gran fortuna vivono in istato di candore e innocenza originaria e hanno grandissimo bisogno, date le molte insidie e i pericoli odierni, di quel mistico cibo. Gli abusi, da noi lamentati, provengono dal fatto di non saper giustamente precisare qual sia l’età della discrezione, assegnandone una per la Penitenza, un’altra per l’Eucaristia. Invece il Concilio Laterano, poiché prescrive congiuntamente l’obbligo della Confessione e della Comunione, richiede un’unica e identica età per l’uno e l’altro Sacramento. Dunque, se per la Confessione si ritiene età della discrezione quella, nella quale si è in grado di distinguere il bene dal male, vale a dire si giunge a un certo uso della ragione, anche per la Comunione deve dirsi età della discrezione quella, nella quale si è in grado di distinguere il pane eucaristico dal pane comune, cioè di nuovo quando il fanciullo ha conseguito l’uso della ragione. E non diversamente intesero la cosa i principali interpreti del Concilio Laterano e i contemporanei. È noto infatti dalla storia della Chiesa che molti Sinodi e decreti vescovili, già fin dal secolo XII, cioè poco dopo il Concilio Laterano, ammisero alla prima Comunione i fanciulli di sette anni: e c’è di più una testimonianza di somma autorità, quella del Dottor d’Aquino, di cui leggiamo: « Quando ormai i fanciulli cominciano ad avere un qualche uso della ragione, sicché siano in grado di concepir devozione per questo Sacramento (l’Eucaristia), allora si può a essi conferire questo Sacramento » (Summ. Theol., III part., q. 80, a. 9, ad 3.). E il Ledesma spiega: «Affermo, per consenso universale, che si deve concedere l’Eucaristia a tutti quelli che hanno l’uso della ragione, per quanto precocemente l’abbiano quest’uso, sia pure che quel fanciullo conosca tuttora in confuso quel che fa » (2  (2 ) Istruzione per quei che debbono la prima volta ammettersi alla S. Comunione. Appendix XIII. p. 88.). Il Vasquez spiega quel passo medesimo così: « Una volta che il fanciullo è giunto a quest’uso della ragione, subito, per lo stesso diritto divino, è obbligato in modo che la Chiesa non lo può affatto liberare » (P. II, De Sacr. Euchar., n. 63). Così pure insegna S. Antonino, che scrive: «Ma quando (il fanciullo) è capace di dolo, cioè quando può commetter peccato mortale, allora è obbligato al precetto della Confessione e, per conseguenza, della Comunione » (P. III, tit. 14, c. 2, § 5), Anche il Concilio di Trento costringe a questa conclusione. Nella Sess. XXI, c. 4 ricorda che « i bambini ancor privi dell’uso di ragione non sono stretti da nessun obbligo alla Comunione sacramentale dell’Eucaristia »; e l’unica ragione assegnata è che non possono far peccato: « In verità — dice — non possono a quell’età perdere l’acquistata grazia di figli di Dio ». Dunque da qui si capisce il pensiero del Concilio che i fanciulli son tenuti dal bisogno e dall’obbligo della Comunione allorché posson perdere, col peccato, la grazia. E concordano con questi concetti le parole del Concilio Romano, celebrato da Benedetto XIII, il quale insegna che l’obbligo di ricevere l’Eucaristia comincia « dopo che i fanciulli e le fanciulle son giunti all’età della discrezione, cioè quella, nella quale son capaci di distinguere questo cibo sacramentale, che altro non è se non il vero corpo di Gesù Cristo, dal pane comune e profano; e sono in grado di accostarvisi colla dovuta divozione e riverenza (Istruzione per quei che debbono la prima volta ammettersi alla S. Comunione. Appendice XIII, p. 11). Orbene, il Catechismo Romano dice: « Nessuno, meglio del padre e del sacerdote, al quale confessano i peccati, può stabilire in qual’età sieno da concedersi a’ fanciulli i sacri misteri. A quelli spetta per l’appunto indagare e interrogare i fanciulli se hanno acquistato una qualche cognizione e possiedono il gusto di questo mirabile Sacramento » (P. II, De Sacr. Euchar., n. 63.). Insomma si deduce che l’età della discrezione per la Comunione è quella, nella quale il fanciullo sa distinguere il pane eucaristico dal pane comune e corporale in modo da poter presentarsi all’altare devotamente. Dunque non si esige una perfetta cognizione delle cose di .fede, poiché bastano alcuni elementi, cioè una qualche cognizione: né il pieno uso di ragione, poiché basta un uso iniziale, cioè un qualche uso di ragione. Perciò merita biasimo il differire, in questo caso, la Comunione e il fissare un’età troppo avanzata per riceverla; tutto ciò la Sede Apostolica spesse volte ha condannato. Per es., Pio Papa IX di f. m., con una lettera del Card. Antonelli ai Vescovi di Francia in data 12 marzo 1866, riprovò severamente l’uso invalso in certe diocesi di protrarre la prima Comunione a età troppo avanzata e, per di più, prestabilita. Dal canto suo la Sacra Congregazione del Concilio il 15 marzo 1851 corresse un capitolo del Concilio Provinciale di Rouen, nel quale si proibiva di ammettere i fanciulli alla Comunione prima dei dodici anni. E così s’è espressa questa sacra Congregazione per la disciplina de’ Sacramenti in una causa di Strasburgo del 25 marzo 1910: trattandosi se potevano essere ammessi alla Comunione giovinetti di dodici o di quattordici anni, rispose che « fanciulli e fanciulle, giunti agli anni della discrezione o all’uso della ragione, si devono ammettere alla sacra mensa ». – Dopo avere maturamente considerato tutto ciò, questo Sacro Dicastero per la disciplina de’ Sacramenti, nell’adunanza generale del 15 luglio 1910, decise di stabilire, affinché i suddetti abusi vengano del tutto rimossi e i fanciulli s’uniscano a Gesù Cristo fin dai teneri anni e ne vivano la vita e vi trovino protezione contro i pericoli della corruzione, la norma che segue per la prima Comunione de’ fanciulli, norma da osservarsi dappertutto:

I. – L’età della discrezione sia per la Confessione sia per la Comunione è quella, nella quale il fanciullo comincia a ragionare, cioè verso il settimo anno, tanto al di sopra quanto al disotto. Da questo tempo comincia l’obbligo di sodisfare ad ambedue i precetti della Confessione e della Comunione.

II- Per la prima Confessione e la prima Comunione non è necessaria la piena e perfetta conoscenza della dottrina cristiana. Però il fanciullo dovrà poi, gradualmente, imparare tutto il catechismo secondo la sua capacità.

III. – La conoscenza della religione richiesta in un fanciullo, affinché si prepari come conviene alla prima Comunione, è tale ch’egli capisca, secondo la sua intelligenza, i misteri di fede necessari per necessità di mezzo e che distingua tra pane eucaristico e pane comune e corporale, sicché s’accosti alla Ss. Eucaristia colla devozione, che comporta l’età stessa di lui.

IV. – L’obbligo del precetto di confessarsi e comunicarsi, che pesa sul fanciullo, ricade principalmente su coloro, che devono averne cura, cioè  sui genitori, sul confessore, sugl’istruttori e sul parroco. Spetta poi al padre, o a chi ne fa le veci, e al confessore, secondo il Catechismo Romano, ammettere il fanciullo alla prima Comunione.

V. – Si diano premura i parroci di preparare e far la Comunione generale de’ fanciulli uno o più volte l’anno e di ammettervi non soltanto i novellini, ma pure gli altri, che, col consenso de’ genitori o del confessore, come s’è detto sopra, già per la prima volta hanno ricevuta la Comunione. Per gli uni e per gli altri sien premessi alcuni giorni d’istruzione e di preparazione.

VI. – Deve aver ogni sollecitudine, chi ha cura dei fanciulli, che dopo la prima Comunione i medesimi fanciulli s’accostino spesso alla S. Mensa e, se possibile, anche ogni giorno, come desiderano Gesù Cristo e la madre Chiesa, e che ciò facciano con quella divozione dell’anima, che comporta l’età. Anche rammenti chi ha tal cura il gravissimo dovere, cui è tenuto, di provvedere che i fanciulli stessi continuino a intervenire alle pubbliche lezioni di catechismo, o almeno suppliscano in altro modo all’istruzione religiosa de’ medesimi.

VII. – Si deve riprovare assolutamente l’usanza di non ammettere alla Confessione, o di non assolvere mai i fanciulli, quando son giunti all’uso della ragione. A tal fine gli Ordinarli locali curino di togliere radicalmente questo abuso, ricorrendo anche ai provvedimenti suggeriti dal diritto.

VIII. – È deplorevolissimo l’abuso di non somministrare il Viatico e l’Estrema Unzione ai fanciulli dopo l’uso della ragione e di seppellirli col rito de’ bambini. Gli Ordinarli locali procedano severamente contro coloro, che continuino in questo abuso.

Il S.mo Signor Nostro Pio Papa X , nell’udienza del sei corrente mese, approvò tutte queste deliberazioni prese dai Padri Cardinali di questa Sacra Congregazione e ordinò che il presente decreto sia pubblicato e promulgato. Comandò inoltre agli Ordinarii di portare a conoscenza il decreto medesimo, non soltanto de’ parroci e del clero, ma anche del popolo, a cui volle che sia letto ciascun anno durante il tempo del precetto pasquale, in lingua vernacola. Di più i medesimi Ordinari dovranno riferire alla S. Sede, ogni quinquennio, insieme con tutte l’altre informazioni della diocesi, anche dell’osservanza di questo decreto. – Non ostante qualsiasi disposizione in contrario. Dato in Roma, dalla residenza di questa stessa Congregazione il giorno 7 del mese di Agosto dell’anno 1910.

D. CARD. FERRATA, Prefetto.

F . Giustini, Segretario.

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (19)

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (50)- LA VERA E LA FALSA FEDE -V-

LA GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA -50-

LA VERA E LA FALSA FEDE –IV.-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

§ VII. – Bello spettacolo che presenta la Chiesa cattolica! mantenendo essa sola nella loro purezza tutte le cristiane verità in faccia a tutte le sette degli eretici, che non hanno insegnalo che errori. Fuori della vera Chiesa non si trovano verità pure e semplici. Gli eretici, anche in quelle che han conservate, vi han mescolato l’errore; e colla vera fede han perduto persino il vero linguaggio delle cose divine. Il discepolo della fede è l’allievo della ragione.

A fronte però di queste orribili devastazioni di tutte le verità rivelate, di tutte le credenze dell’umanità, di tutti i sentimenti della natura, che la ragione, gelosa di comandar sola nell’impero dell’intelligenza, ha ammassate da circa due mila anni nel mondo cristiano: a fronte di tanti errori, di tanti delirj, di tante assurdità, di tante stravaganze sognate dall’orgoglio e spacciate con un sì imperturbabile sangue freddo dalle cattedre di pestilenza dell’eresie; a fronte delle dottrine turpi, licenziose, libertine, degradanti, omicide, inventate e predicate dalle passioni per iscancellar dalla terra, coll’ultima traccia del vero, l’ultimo avanzo di giustizia, di probità, di pudore: quanto è bello per noi il mirare il magnifico edificio della verità cattolica ergere immobile e sicura la maestosa sua fronte sulla pietra che lo stesso Gesù Cristo gli ha dato per fondamento nella persona di S. Pietro e de’ suoi successori (Matth. XVI), cui ha commesso il deposito di una fede indefettibile (Luc. XXII); ed ha costituiti maestri ed interpreti infallibili della verità! Quanto è bello, in faccia alle migliaja di sette che si son chiamate o si chiamano cristiane, il mirare la sola Chiesa Cattolica conservare pure ed intatte, senza mescolanza di errore, sine erroris miscela, tutte le verità primitive del genere umano e tutte le verità del Cristianesimo, senza che la malizia umana possa mai corrompere la sorgente divina da cui scorrono nel giardino della Chiesa a rinfrescare le nostre intelligenze, a confortare e ricercare il nostro cuore! Quanto è bello il vederla insegnare con tutte le verità tutte le virtù! poiché come nulla nei suoi dommi sente l’errore, così nulla nelle sue leggi favorisce il vizio: ma come in essa tutto è vero, così tutto è santo e tutto tende a reprimere le passioni, a sollevar levar l’uomo alla virtù più perfetta. Questo pregio singolare ed unico della Chiesa Cattolica è stato finalmente conosciuto, con un sentimento di santa invidia, anche dalla più dotta scuola delle chiese protestanti. Mentre noi andiamo scrivendo queste pagine, risuona altamente per tutta l’Europa l’importante confessione che la forza della verità ha strappata dal cuore dei più famosi professori dell’università protestante di Oxford, il più fermo baluardo della chiesa anglicana, che, per la bocca del dottor Newman, han detto: « la Chiesa romana è la sola che ha conservate intatte le dottrine del Cristianesimo. » Oh bell’omaggio degli stessi maestri dell’errore renduto alla sola Religione di verità, e che mentre è di un augurio prezioso per loro, indicandone il facile e non lontano ritorno, è ancora un argomento di gran consolazione per noi! O anime veramente cattoliche, che sentite il pregio della vera fede, perché in essa solamente si trovan le vere consolazioni del tempo e le legittime speranze dell’eternità, aprite il cuore alla riconoscenza verso Iddio che, avendovi fatto nascere in questa Chiesa, unica depositaria del vero, vi ci ha conservato. Miseri noi! che saremmo noi fuori di questa Chiesa ed estranei al suo insegnamento? Che sapremmo noi di Dio e dell’uomo, se non fossimo cristiani? Che cosa ce ne potrebbe dire di vero, di sicuro la filosofia pagana, se noi non avessimo altra scuola che la sua per sapere che cosa siam noi, a che siam venuti in questo mondo, chi è il Dio che ha diritto alla nostra servitù, al nostro amore? Che cosa ce ne potrebbe dire essa, che, dopo aver impiegati dieci secoli a decifrar questi enimmi, ed aver promesso al mondo di scoprire la vera sapienza, ai tempi di S. Paolo non avea ancora, dopo tante ricerche, trovato che l’errorr, il dubbio e la stoltezza? Sapientiam quærunt, et stulti facti sunt. – Senza la scuola della Chiesa, che sapremmo noi di vero e di sicuro intorno alla Trinità, a Gesù Cripto, alla sua Religione? Quello che ne han saputo gli eretici, che, sdegnando il cattolico insegnamento, hanno coi proprj lumi interpretato la Scrittura. Ma a quale scuola andremmo noi? A quella di Lutero o a quella di Calvino? Consulteremmo i puritani o gli anglicani? i quaccheri o i metodisti? i riformatori o gli evangelici? gli scismatici d’Occidente o le servili sette dell’Oriente? i libertini inglesi o i panteisti francesi? Dove troveremmo noi meschini la verità che è una. che tutte le sette si arrogano, e perciò stesso provano che non è in alcuna di loro? Vi sono è vero delle nozioni di Dio, della Trinità, di Gesù Cristo in tutte le sette che si dicono cristiane. Ma come le più belle piante, trasportate in cattivo terreno e sotto un clima malsano, presto degenerano e si disseccano; così le stesse verità cattoliche, trapiantate, sul terreno limaccioso e palustre, esposte all’alito pestilenziale dell’eresia, si sono presto alterate e corrotte. Sicché quelle stesse verità che gli eretici han rubate a noi, han portato via nel separarsi da noi, non le conservano e non le credono come noi. Tante sono le idee erronee che vi mescolano, le false conseguenze che ne deducono, le detestabili applicazioni che ne fanno! – Come un insetto velenoso, passando sopra d’un vaghissimo fiore, lo appesta, e ne altera l’odore e la natia bellezza; così l’eresia altera e guasta tutte le verità che discute, tutte le virtù che raccomanda. Svolgete i libri dei teologi dell’eresia; considerate come parlano dei dommi, che pur dicono di aver comuni con noi: è impossibile, coll’ajuto di questi libri, il formarsi un’idea chiara e precisa di quello che si deve credere intorno ai più grandi misteri della Religione cristiana. I termini ne sono sì vaghi, le frasi si tortuose, le espressioni si ambigue, i sensi sì varj. le esposizioni sì oscure e sì incoerenti, che la teologia protestante intorno ai misteri sembra fatta per imbrogliare la mente, confonderla o disgustarla della fede nei cristiani misteri. No, un teologo protestante, un eretico, richiesto a rispondere sopra una verità cristiana, non mai ne darà un’idea chiara e precisa che possa farne conoscere 1’errore contrario. Quando Osìandro, vivente ancora Lutero, pubblicò la sua orribile dottrina intorno alla giustificazione, quattordici chiese ereticali, fondate da Lutero medesimo, trattarono Osiandro da eretico. Ma volendo far conoscere in che la dottrina di Osiandro era erronea e stabilire intorno a questo domma la verità cattolica stessa materia: ciò che, lungi dal definire la questione, non servì che ad imbrogliarla di più; il perché le quattordici chiese che pretesero di combattere Osiandro e trattarlo come un eretico, non intendendosi più fra di loro, si divisero tosto in quattordici sette diverse e, trattandosi l’una e l’altra da eretica, presero a combattersi anche fra loro. – Al contrario, appena la vera Chiesa, nel concilio di Trento, parlò su questo stesso argomento, essa lo fece con tanta precisione, con tanta uniformità, con tanta chiarezza, che la verità cattolica intorno al domma della giustificazione brillò di nuova luce agli occhi dei veri fedeli, e tutti gli errori contrarj furono scoperti, confutati e distrutti. Ma non è dato all’errore il parlare il linguaggio schietto, sincero, chiaro e sicuro della verità. Come chi vive lontano dalla propria patria finisce col perderne ancora il natio linguaggio; così gli eretici, coll’essere usciti dalla Chiesa, la vera patria dei fedeli qui in terra, ne han perduto il linguaggio, e non sanno più parlare cattolicamente delle stesse cattoliche verità che han ritenute. Ma, ripetiamolo ancora: in faccia a questa impotenza degli eretici di parlare la verità, quanto è bello il vedere nella Chiesa Cattolica i dotti e i teologi proporre, dimostrare tutti i dommi rivelati con una precisione di linguaggio, con una esattezza di espressione, con una uniformità di senso, che è impossibile il non riconoscervi alla prima lettura la cattolica verità così pura e scevra di errore come fu da Dio stesso rivelata! che anzi è ancora più bello il sentire i laici stessi, le donne, i giovanetti, tanto solo che siano stati istruiti nel catechismo, formati alla scuola della predicazione cattolica e delle cattoliche letture, il sentirli, dico, enunciare idee giuste, chiare, precise intorno alla trinità di Dio, all’incarnazione del Verbo, al numero ed alla efficacia dei sacramenti, all’estensione ed alla forza della legge divina, alla pratica ed ai pregi della vera virtù, all’origine, alla condizione dell’uomo, allo stato dell’anima nella vita presente e nella vita futura! Che cosa diviene la scienza orgogliosa del teologo protestante, a che vale la sua pretesa erudizione biblica, scienza solo negativa, scienza di confusione e d’incertezza, in faccia alla fede umile, ma positiva: chiara, certa, precisa di un vero figlio della Chiesa? Messi a confronto, questi due allievi, l’uno della scuola dell’inquisizione umana, l’altro della rivelazione divina, l’uno non sa che negare, mentre l’altro afferma; l’uno discorre, l’altro crede. E perché il parlare la verità non è dato all’erudizione, ma alla fede; 1’uno, con tutta la sua dottrina, balbetta da fanciullo; l’altro, coll’ajuto della sua fede, parla da uomo; e la vera scienza si trova in fondo dalla parte dov’è la verità.

§ VII – Si passa a discorrere del quarto ed ultimo carattere dell’insegnamento della fede, la sua certezza. I agi, istruiti alla scuola della rivelazione divina, conobbero i più grandi misteri non solo senza errore, ma ancora senza dubbiezza. Prove della fermezza e della costanza della loro fede.

Il quarto ed ultimo carattere dell’insegnamento della vera fede, del quale ci rimane ora a trattare, si è, secondo la dottrina di S. Tomaso, d’ingerire negli animi una somma fiducia ed una somma certezza delle cose che s’imparano a questa scuola divina, e di essere perciò non solo, come si è veduto, esente di errore e veridico, ma ancora fermo e costante da escludere ogni incertezza, ogni dubbio,  FIXA CERTAMINE, ABSQUE DUBITATIONE ET ERRORE. – Or questo suo magnifico carattere, questo privilegio meraviglioso, questa efficacia tutta divina spiegò l’insegnamento della fede la prima volta che da Dio stesso fu messo in opera coi gentili nella persona dei Magi. Questi fortunatissimi uomini, perché istruiti appunto per via di rivelazione e di fede, non solo conobbero, non solo crederono nella loro integrità, nella loro purezza, le più grandi verità, i più sublimi misteri, ma ebbero altresì di ciò che crederono e di ciò che conobbero una certezza piena, assoluta e perfetta. Tutto ciò chiaramente deducesi dalla confidenza, dalla vivezza, dalla generosità, dalla costanza e dalla tranquilla sicurezza della lor fede. Qualcosa difatti, se non una persuasione, un convincimento profondo, poté da prima ispirare a tre uomini, di professione filosofi, di condizione monarchi, tanto coraggio e tanta fiducia da abbandonare senza indugio i loro regni, i loro popoli, le loro patrie, le loro famiglie, le loro ricchezze, i loro agi, le loro delizie, ed intraprendere nel cuore dell’inverno, in contrade straniere e nemiche, un difficile e disastroso viaggio, di cui era indefinita la lunghezza, perché ne era il termine ignoto? Imperciocché, veduta appena la stella, docili e pronti alla voce del prodigio e molto più all’interior movimento della grazia, eccoli mettersi in cammino come all’azzardo, giacché sul principio non sapevano se la stella che loro avea fatto da apostolo, lor servirebbe ancora di guida; ma pure con una ferma credenza che era veramente nato il Messia, e con una fiducia inalterabile che lo avrebbero in fine trovato. Ma non abbiamo noi bisogno di argomentare la fermezza della fede de’ Magi, mentre Iddio stesso ce l’ha fatta conoscere, mettendola ad una prova difficile e delicata. Appena essi metton piede nelle contrade della Giudea, ecco tutto ad un tratto scomparire al loro sguardo la stella miracolosa che era stata fino allora guida si fedele e motivo di tanta consolazione nel loro cammino. Ora, altri uomini che i Magi, al vedersi all’improvviso abbandonati dal segno celeste in lontano paese, senza sapere se dovevano battere a destra o volgere a sinistra, se andare innanzi, o ritornare addietro, si sarebbero perduti di animo, si sarebbero stimati illusi, avrebbero accusato sé stessi dicendo: « Oh stoltezza che è stata la nostra! Come mai, re e filosofi, abbiamo potuto con tanta precipitanza cedere ad un’illusione ottica, prendere uno scherzo di luce, un fenomeno naturale per un portento celeste, ed uno scaldamento di fantasia per una rivelazione divina? Che re? che Messia? che Dio è quello di cui ci siamo impegnati di andare in cerca? Eccoci, dopo avere in tredici giorni coi nostri dromedarj percorsa la distanza di mille miglia, e sostenuti i disagi di un penoso cammino a traverso i deserti, eccoci in un paese straniero, nei dominj di un re barbaro, senza scorta, senza guida, senza difesa. Ah! siamo stati troppo insensati e troppo ciechi. Ea trista comparsa che faremo nel ritornare fra i nostri popoli, senza avere raggiunto lo scopo del nostro viaggio, e le secrete beffe dei saggi con cui vi saremo accolti, non ci puniranno mai abbastanza della nostra leggerezza e della nostra imprudenza. » – Cosi avrebbero, senza dubbio, giudicato e parlato uomini in cui la fede nella nascita del Messia non fosse stata fermissima. Ma i Magi non giudicarono, non parlarono così. Col cessare di balenare ai loro occhi la stella, non è un solo istante scossa la loro fede. Non vedono più il segno, ma non perciò credono men di pria il suo significato. Una volta che han conosciuto Gesù Cristo, più nol dimenticano. Quanto più si vedono abbandonati tanto confidan di più; e quanto più si sentono desolati, tanto più amano. Non temono di essersi ingannati sulla natura della stella e sullo scopo della sua apparizione; non dubitano un sol momento che divina fu la luce che aveva illuminata la loro mente, e divine pur le voci che avevano sentite nel loro cuore. Non si accusano di leggerezza nell’aver fatta, senza bastevoli indizj, una mossa sì straordinaria e sì solenne. Non si scoraggiano, non si pentono, non danno addietro, non rimangono un solo istante incerti sul partito da prendere; ma pieni di confidenza entrano in Gerusalemme e pubblicano per tutte le vie come certissima la nascita del Messia, e cercano e chieggono, con una pia importunità a quanti incontrano, il luogo ove poterlo trovare: Venerunt Hierosolymam dicentes: Ubi est qui natus est rex Judæorum? Oh belle parole! oh confessione preziosa, che annunzia una fede non men viva che ferma e immobile! Non dicono già: « Secondo i nostri calcoli ci sembra che dovrebbe esser nato il Messia. La stella che abbiamo veduto ci è parsa esser quella che Balaam nostro antenato ha predetto che doveva spuntar col Messia ed indicarne il nascimento. « Ma coll’accento di una persuasione intera e perfetta dicono: » Il Messia è nato: Natus est rex Judæorum. La stella che abbiamo veduta è certamente la sua, vidimus stellam ejus: e lo scopo della nostra venuta non è già di chiarirci coi proprj occhi della verità del mistero, ma di rendergli omaggio e di adorare il Dio che è nato uomo per la salute degli uomini: Natus est rex Judaorum, et venimus adorare eum. O Giudei, non vi cerchiamo noi adunque se sia o no veramente nato questo Salvatore divino. Noi lo sappiamo di certo. Intorno a ciò la nostra fede non ci ha ingannati. Miracolosa veramente è stata la stella che abbiam veduta, divina veramente è stata la rivelazione che abbiam avuta: Vìdimus stellam ejus, natus est. Ma la stella che ce ne ha manifestata la nascita non ci ha però indicato il luogo dove ritrovarlo.Questo luogo vogliamo solo da voi conoscerlo qual sia. Perciò siamo venuti tra voi. Voi avete tra le mani le Scritture,gli oracoli, le profezie che parlan di lui, non potete ignorare quest’angolo fortunato della terra in cui è nato il Re del cielo. Voi lo sapete con certezza, voi soli potete istruircene; e noi non possiamo conoscerlo se non da voi. Deh ditecelo per pietà, dov’è? dove è esso mai? ubi est? ubi est? Deh. un indizio che cel discopra, una parola che ce lo mostri, un segno che ce lo additi! Noi siamo premurosi, se nol sapete,di offrirgli, coi donativi che gli abbiamo recati, tutti noi stessi. Il cuore ci balza in seno di santa impazienza di darci a Lui per suoi servi e suoi adoratori; « venimus (cum muneribus) adorare eum. ». Ma la fede dei Magi quanto è ferma e viva, tanto è generosa:ed oh il bel coraggio che loro ispira! Imperciocché dove mai levan essi la voce e predicano la nascita del Re de’ Giudei: natus est rex Judæorum? In Gerusalemme, nella metropoli stessa della Giudea, sotto gli occhi di Erode, che perla via degli intrighi i più tenebrosi e dei più grandi delitti si era usurpata col titolo l’autorità di re dei Giudei. Dire dunque, in tal luogo ed in faccia ad un tal re: «Dov’è ilRe dei Giudei che è nato? » poteva sembrare lo stesso che dire:« Colui che qui regna, non è di questo popolo il legittimo re. Noi sappiamo che è nato il Re legittimo dei Giudei, e cerchiamo sapere dov’è, pronti a riconoscerlo ed adorarlo. » Ora ci voleva egli di più per risvegliar le paure, per accendere. il furore della politica usurpatrice dei regni, assai più furibonda e crudele dello stesso fanatismo di religione? Come mai adunque, dice l’Imperfetto, tenere un siffatto linguaggio? Non sanno i Magi chi è Erode che regna in quella contrada?Non intendono che chi ha immolato il proprio fratello all’ambizione del regno non la perdonerebbe ad uomini estranei, nell’impegno di conservarlo? Sono re essi stessi:non conoscono adunque la legge conservatrice della pace e dell’ordine di ogni impero, che chiunque, vivente ancora il re d’uno stato, si mette a proclamare e si protesta prontoa riconoscere un altro re dello stato medesimo è punito dell’ultimo supplizio, come complice e ministro di un tiranno? Sì, uomini in cui il vanto della sapienza è in proporzione della nobiltà della nascita, dell’elevatezza del rango, sanno ed intendono tutto ciò molto bene. Si sono pure accorti che questa novella della nascita di un nuovo re, portata da essi re forestieri, venuti con gran pompa da remote contrade, eda essi pubblicata nella città regina con un tuono di tanta asseveranza e di tanta certezza, ha messo in timore Erode e la città tutta in iscompiglio: Turbatus est Herodes et omnis Hyerosolima cum illo. Veggono bene il pericolo che il coraggio e la franchezza del loro parlare può attirar sopra di loro dalla parte di un monarca geloso e crudele, di un sinedrio invidioso,di una città tumultuante e inquieta. Intendono bene che, stranieri, soli, senza forza, senza eserciti, entrati di già nella città capitale, si sono essi stessi messi a discrezione di un re che nella sua brutalità non conobbe mai discrezione,e che nulla avrebbe potuto garantirli dal furore di colui di cui, colla libertà del loro parlare, parevano accusare l’ingiustizia, l’usurpazione, la tirannia. Ma i Magi intendono altresì che Iddio non per altro gli ha condotti in Gerusalemme se non perché vi pubblichino la nascita del Messia e, gentili che sono, facciano da predicatori ai Giudei. Sentono di avere una missione da Dio. e tutti i pericoli che possono lor venire dagli uomini non li arrestano dal compirla. Intenti a secondare i disegni del Re del cielo, la loro fede dimenticai riguardi suggeriti dalla politica verso un re della terra.Tema e si agiti quanto e come vuole Erode e gli abitanti di Gerosolima. divenuti pei loro vizj un popolo degno di un tal monarca: i Magi non temono né la gelosia del tiranno usurpatore, né la malignità degli scribi, né  il furore del popolo.La solitudine in cui si trovano non li disanima, la presenza del pericolo non li conturba, il timor della morte non li arresta; e non cessano di ripetere per le pubbliche vie la nascita del nuovo re de’ Giudei; non ristanno dal chiedere, dall’insistere che lor si dica dove trovarlo, per poterlo riconoscere ed adorare: Dicentes, Ubi est rex Judæorum? venimus adorare. Oh fede generosa, fede magnanima,fede sublime! non hanno ancora veduto questo re Messia, e già lo confessano! non sanno ancora bene di Lui, e son pronti a morire per Lui! non ne sono ancora discepoli, e se ne fanno i primi apostoli, i primi evangelisti; felici se la crudeltà del tiranno vorrà farne altresì i primi martiri! Trionfatrice dei pericoli, la fede dei Magi si tenne ferma all’urto ancora più potente degli scandali. Noi considereremo a parte nella seguente lettura il delitto e l’infame condotta de’ Giudei in questa circostanza solenne. Per ora ci giova osservare che il loro iniquo procedere fu una terribile pietra d’inciampo alla fede dei Magi. Imperciocché, dopo di aver loro indicato il luogo della nascita del Messia, la sinagoga giudaica non si diede alcun pensiero di cercarlo, di rendergli omaggio, come ne aveva il dovere; essa che non esisteva. che per Lui, per prepararne le vie , per sperimentarne la prima i beneficj, come era stata la prima a riceverne le promesse. Quale scandalo adunque per questi poveri gentili l’indifferenza che mostran pel Messia i suoi stessi Giudei! Quale scandalo per questi stranieri la noncuranza che pel Messia mostrò lo stesso suo popolo! Quale scandalo per questi laici il disprezzo che pel Messia mostrarono i suoi sacerdoti! Parea che a tal vista i Magi avessero dovuto dire fra loro: « Come può mai essere veramente il Messia, il rede’ Giudei colui di cui andiamo in cerca, se i Giudei stessi,che da tanti secoli lo attendono, non fanno alcuna attenzione alle parole con cui ne abbiamo, loro annunziato la nascita, e nessun si muove, nessun si dà pensiero di verificarla? Essi ci han detto il luogo in cui il Messia deve nascere secondo le profezie. Come sanno il luogo, così ancora sanno senza dubbio il tempo di questo nascimento. Poiché dunque punto non badano alle nostre parole, bisogna dire ch’essi non credono venuto il tempo in cui il Messia deve nascere, e che quello di cui noi cerchiamo, non è altrimenti il Messia. E poi è possibile che il Messia, il Re de’ Giudei, come si è rivelato a noi stranieri e gentili, non si sia prima rivelato a’ suoi Giudei, cui è stato promesso? Eppure qui nessuno Sa nulla di un nascimento che deve cangiare la condizione di tutto un popolo, ed il primo avviso vi si riceve da noi. Possibile che noi, idolatri, intendiamo i misteri del vero Dio meglio di coloro che ne sono i soli adoratori veraci, che ne hanno in deposito le profezie e gli oracoli, e ne sono legittimi interpreti? Non è più facile il credere che noi ci siamo lasciati illudere dal fenomeno della stella di quello che i Giudei si siano ingannati intorno al mistero del Messia di cui trovami solamente fra loro i veri sacerdoti e i veri profeti?Ma no; i Magi la discorron ben altrimenti, e nel Giudeo che addita loro i l luogo della nascita del Messia senza darsi alcuna premura di ritrovarlo egli stesso, e che resta volontariamente nelle tenebre nel momento che presenta agli altri la luce, in questo Giudeo, dico, i Magi distinguono il sacerdote dall’uomo; il sacerdote depositario della rivelazione divina dall’uomo soggetto alle passioni umane; il sacerdote che parla sotto la ispirazione celeste dall’uomoche opera sotto l’influenza infernale; il sacerdote organo dello Spirito Santo che per la bocca di lui manifesta la verità che illumina, dall’uomo organo del demonio che per la di lui condona presenta uno scandalo che seduce. Ascoltano adunque docili ciò che loro si dice, ma non si lasciano punto scuotere da ciò che alla loro presenza si fa. Praticano ciò che odono, e non badano a quel che vedono. Profittano della preziosa lezione che ascoltano, ma non si fermano all’esempio funesto che ricevono. La parola del Giudeo li illumina, ma la sua condotta non li perverte. Lasciano il Giudeo occupato a leggere curiosamente la Scrittura, e si affrettano di andare a tributare al Dio della Scrittura un’adorazione umile e fedele. E questo scandalo, il maggiore di quanti iMagi ne hanno finora ricevuto, lungi dal render loro sospetta la rivelazione della stella, ve li conferma: lungi dal far vacillare la loro fede bambina, la corrobora; lungi dallo spegnere il loro fervore, lo accende. Oh forza, oh efficacia della certezza che la fede ispira! Finalmente, l’ultimo effetto e l’ultima prova insieme della certezza della fede dei Magi si è la calma, la pace perfetta con cui vi si riposano. Una sola cosa rimaneva loro a sapere: il luogo della nascita del Messia; e questa sola domandano: Ubi est qui natus est? Sul rimanente delle verità sante, dei sublimi misteri che sono stati ben rivelati, la loro mente è perfettamente tranquilla, il loro cuore è sicuro. Perciò non muovono dubbj, non raddoppiano interrogazioni, non intavolano dispute, non istanno ad argomentar coi Giudei, e. discutere con Erode, ma si abbandonano con una immensa fiducia alle manifestazioni ineffabili che Dio si è degnato loro di fare certissimi che tutto ciò che essi sanno, tutto ciò che essi credono, è vero. Ricevuta adunque la sola risposta, il solo oracolo che erano venuti a cercare in Gerosolima, abbandonano senza indugio questa città infedele in preda al suo accecamento ed al suo orgoglio, e si avviano a Betlemme,senza alcuna sollecitudine, senza alcun dubbio sull’esito fortunato del loro viaggio: Qui cum audissent regem abierunt.Ma se la fede dei Magi non ha più bisogno di ammaestramenti,di lezioni, di guide per ritrovare Gesù Cristo, e perciò essi non le cercano, non le domandano; il loro cuore però puro e retto ben è degno di ricevere dalla bontà di Dio consolazione e conforto. Ecco dunque, usciti appena da Gerusalemme, mostrarsi loro più brillante di pria la stella miracolosa che li avea guidati nella Giudea. Rei vederla, iloro cuori balzarono di una tenerissima gioja. L’espressione dell’evangelista indica un’allegrezza immensa, un trasporto,un eccesso di allegrezza: Videntes stellam gavisi sunt gaudio magno valde. Li precede la stella; ed essi, pieni di sorpresa,di fiducia e di amore, l’ammirano e la lodano, la vagheggiano e la seguono: ed essa li illumina e li consola, li guida e li sostiene, stella antecedebat eos e fa loro sentire che sono presso alla meta del loro cammino, all’oggetto de’ santi loro trasporti. Affrettano adunque il passo, raddoppiano gli sforzi; e tale si è il piacere che si ripromettono di ritrovarsi. nell’abitazione ed alla presenza del Salvatore che son venuti di sì lontano a cercare, tale la gioja di cui questa speranza li colma che quasi più non distinguono tra l’essere di già alla grotta e l’andarvi: Gavisi sunt gaudio magno valde.

§ IX. –  Magi crederono con certezza, perché la loro fede ebbe per fondamento: 1.° l’autorità divina; 2.° una rivelazione uniforme; 3.° il soccorso della grazia. Questi stessi tre motivi di credere trova il Cattolico nell’insegnamento della Chiesa, che lo rendono certissimo nella sua fede. Bel prodigio che la grazia della fede opera nel vero cattolico, la cui credenza, a somiglianza di quella dei Magi, è ferma nelle sue prove e vivissima nei suoi trasporti. L’uomo carnale, il freddo razionalista non intendono nulla di questo prodigio. Lo deridono, ma saranno un giorno derisi essi stessi.

Ma non ha nulla di strano tanta certezza nei Magi, che si manifesta con una fede si confidente, sì viva, sì generosa, sì costante, sì tranquilla e sì lieta. I Magi da prima riconobbero la voce e la parola di Dio tanto nella luce della stella che parlò ai loro occhi quanto nel discorso della sinagoga che parlò alle loro orecchie. In tutte e due queste testimonianze, tutte e due miracolose (giacché non era meno miracolosa l’esistenza della sinagoga, sola posseditrice del vero in mezzo alle tenebre degli errori del mondo spirituale, di quello che l’apparizione della stella nella oscurità della notte del mondo corporeo), in tutte e due, dico, queste testimonianze venerarono una autorità divina che a nome di Dio lor parlava di Dio. Credettero adunque a Dio ed alla sua parola; e la parola di Dio, infallibilmente verace, cattiva l’intelletto che illumina, ingerisce una fiducia ed una somma certezza. In secondo luogo essi ricevettero una rivelazione uniforme: giacché come tutti videro egualmente il prodigio della stella ed udirono egualmente l’oracolo della sinagoga, così egualmente intendettero l’uno e l’altro linguaggio, gli diedero il medesimo senso, lo crederono al medesimo modo, presero le stesse risoluzioni, si assoggettarono agli stessi sacrifici, alle stesse pratiche; c sebbene fossero essi filosofi, ed i pastori ignoranti, pure in Betlemme si trovarono a credere le stesse verità, ed in uno stesso luogo si trovarono riuniti nello stesso spirito e nella stessa fede. Or quest’accordo meraviglioso e perfetto, onde i Magi ed i pastori, di patria, di linguaggio, d’ingegno, di costumi e di religione diversi, tutti in un punto si trovarono della stessa opinione e dello stesso sentimento sulle verità che avevano conosciute, toglieva a ciascuno in particolare qualunque dubbio o timore che i suoi sensi, la sua fantasia, o il suo giudizio avesse potuto ingannarlo, e Io rendeva certo che ciò che aveva conosciuto era la verità. Così la fede comune ed uniforme di tutti corroborava la fede di ciascuno in particolare; e ciascuno in particolare si sentiva ancora più forte e credeva ancora colla fede di tutti. Terzo finalmente, come si è più volte notato nel corso di questo libro, i Magi, all’apparire del segno, ne chiesero la spiegazione non alla umana scienza, ma all’illustrazione divina. Lo stesso amoroso Signore, da cui l’umile preghiera è sicura di ottenere ancora più che non chiede non contento di averli per diverse guise illuminati colla sua luce, li rendette ancora certi colla sua grazia; e nel dare alla loro mente la cognizione dei suoi misteri, ne diede loro ancora nel cuore la fede, la fede teologica, la fede divina. – Ora questi stessi Ire motivi che rendettero certi i Magi nella lor fede son quelli che rendono il Cattolico certissimo nella sua. Poiché come il Cattolico ha comune coi Magi la stessa fede, così ne ha con essi comuni i motivi e gli ajutì. E Iddio, nell’avere stabilita la fede dei Magi su questi fondamenti, volle fin d’allora figurare, predire ed indicare le fondamenta della credenza cattolica, dell’insegnamento della vera fede. – Infatti il Cattolico, nel credere che fa alla Chiesa, crede primieramente ad una autorità divina che Dio stesso ha fatta depositaria delle sue dottrine ed ha incaricata d’insegnarle. La Chiesa non foggia altrimenti a suo capriccio i dommi da credere, né i doveri da praticare; ma ci ripete esattamente quello che Dio le ha rivelato. Il Dio che pose la sua divina parola sulla bocca profana e sacrilega di un Balaam, un indovino impostore; che ve la conservò santa e pura, e ne la fece uscire sincera ed intatta; molto più conserva pura e santa la sua parola nella bocca del suo legittimo vicario e nel corpo dei pastori ch’esso ha stabiliti pel governo della sua Chiesa (Act. 22) ed ha rivestiti di un carattere sacro ed augusto, come sono auguste e sante le funzioni cui li destina. – Che cosa infatti, ci attesta mai la storia del cattolico insegnamento? Ci attesta che dalla bocca di uomini d’indole, d’ingegno, di studi, di costumi, di nazione diversi, che per diciannove secoli si sono succeduti sulla cattedra di S. Pietro e sulle sedi delle chiese particolari, e che uniti al lor capo, han parlato ai popoli per istruirli nella scienza di Dio, non è caduta mai alcuna parola profana ed erronea, ma al contrario da essi tutte le verità han ricevuto la loro spiegazione, la loro conferma, tutte le virtù il loro incoraggiamento, tutti gli errori la loro censura, tutti i vizj la loro condanna. Or questo fatto unico, che uomini soggetti ai moti delle passioni, agli allucinamenti della ragione, come tutti gli altri, non abbiano in tanti secoli, in mezzo all’urlo di tante dottrine, insegnalo mai nulla di contrario alla virtù ed alla verità; questo prodigio del Dio redentore, che conserva sempre pura la fede nella sua Chiesa, assai più grande, agli occhi di chi sa comprenderlo, del prodigio onde il Dio creatore conserva sempre viva la luce nell’universo, è una prova visibile e palpabile che l’autorità della Chiesa insegnante è divina. Credere adunque all’insegnamento della Chiesa Cattolica non è credere all’uomo, ma allo stesso Dio, che parla in questa Chiesa, e di cui questa Chiesa non è che l’ineffabile interprete e l’organo fedele. Quel beato fanciullo cristiano adunque di cui parlano le ecclesiastiche istorie, che, nulla spaventato dalle minacce di essere arso vivo nello stesso rogo in cui viva già sotto ai suoi occhi ardeva la sua propria madre, mostrossi come un prodigio di sapienza insieme e di coraggio; poiché confessò costantemente da una parte Gesù Cristo per vero Dio, e dall’altra, interrogato dal tiranno come sapesse che Gesù Cristo era Dio, franco rispose: « Io lo so perché me lo ha detto mia madre, a mia madre lo ha detto la Chiesa, alla Chiesa lo ha detto lo stesso Iddio. » Or ecco dove si risolve in fine la fede cattolica: io credo in Dio e per Iddio: io credo a Dio sulla testimonianze della stessa sua parola infinita, manifestatami per l’organo di una autorità infallibile; e la verità di Dio è l’ultimo motivo della mia fede. – Ora Iddio è verità infinita, e però degno di una fede infinita, come è degno di un infinito amore, essendo bene infinito. Ma finito, come io sono, non essendo capace di cosa alcuna infinita, faccio ciò che mi è possibile; gli rendo ciò che solo è in mia facoltà di rendergli e di che la sua bontà è paga a segno che non esige nulla di più dalla mia debolezza; lo credo al di sopra di tutte le verità, come lo amo al di sopra di tutti i beni. Presto una fede somma alla sua parola; come una somma ubbidienza alla sua legge; cioè una fede che mi fa credere il simbolo al di sopra di tutto ciò che vi è di più certo; ed una ubbidienza che mi fa amare il decalogo al di sopra di tutto ciò che è più degno di amore. In secondo luogo, credere all’insegnamento della Chiesa è credere ad un insegnamento uniforme, costante, invariabile. – Come Cattolico, io so che la mia fede è precisamente la stessa di quella che per quattromila anni fu professata in figura e in aspettazione da tutti i patriarchi, da tutti gli uomini del mondo antico, veri adoratori del Dio vero, da Adamo, cui fu la prima volta rivelata, sino a Gesù Cristo, che questa stessa rivelazione si degnò di rinnovare, di perfezionare, di compiere; che la mia fede è precisamente la stessa di quella che dalla venuta di Gesù Cristo nel mondo, per circa duemila anni, han sempre tenuta e insegnata tutti i pontefici, tutti i concilj, tutti i santissimi Padri, tutti i dottori, tutti i Vescovi, tutti i sacerdoti, tutti i fedeli che sono vissuti e sono morti nel grembo, della vera Chiesa; che se io potessi interrogare le loro ceneri, ed essi mi potessero rispondere, io vedrei attestata e confermata la mia fede da centinaja di migliaja di milioni di testimoni, quanti sono tutti coloro che han professata la fede cattolica e si sono riposati in seno alle sue dolci speranze; ed essi tutti mi assicurerebbero che io non credo né più né meno di quello che han creduto essi stessi, e di quello che per duemila anni si è creduto da tutti, in tutti i tempi e in tutti i luoghi: Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus. – E gran cosa! Nessun protestante, come più innanzi vedrassi, è sicuro che quello che esso crede sia da altri allo stesso modo creduto. Ma io, come Cattolico, so ancora che quello che io credo, così appunto come lo credo io, lo credono altresì duecento milioni di Cattolici sparsi sulla superficie del pianeta. Sono essi di patria, di nazione, d’indole, di costumi, d’ingegno e di linguaggio diversi: pure io so di certo che essi, in comune ed in particolare, professano precisamente i medesimi dommi e la medesima legge che professo io stesso. Io so, che nella Chiesa cattolica, quello che insegna un Vescovo lo insegnano ancora tutti i Vescovi; quello che predica un sacerdote lo predicano tutti i sacerdoti: quello che un Cristiano professa di credere lo credono e lo professano al modo istesso tutti gli altri Cristiani, perché tutti hanno studiato alla medesima scuola. Divisi essi in tanti popoli e nazioni diverse, separati da sì enormi distanze di terra e di mare, credon tutti precisamente lo stesso. Dall’orto e dall’occaso, dal settentrione come dal mezzogiorno, da tutti i punti dello spazio come in tutti i momenti del tempo dal seno dell’ immensa comunione CATTOLICA O UNIVERSALE si solleva verso il ciclo lo stesso omaggio degl’intelletti che ripetono in diverse lingue lo stesso simbolo, come si offre da tutti, in diversi riti, lo stesso ed unico sacrificio. Pertanto, portando il mio pensiero nel passato, rivolgendolo al presente, so di certo che quello che credo io è stato sempre così creduto e così ancora si crede. Come il soldato in battaglia è coraggioso e forte non solo per la sua privata forza e pel suo privato coraggio, ma ancora pel coraggio e per la forza dell’esercito di cui fa parte, ossia per la forza del tutto; così come Cattolico, io credo, non solo per la grazia della fede che ho ricevuta io stesso, ma ancora per la grazia della fede sparsa nel cuore di tutti gli altri fedeli. Credo colla fede di tutta la Chiesa di cui sono figliuolo. Ciò è a dire che la fede di sessanta secoli, di moltissime migliaia di milioni di uomini, la fede di tutta la terra, la fede della Chiesa passata e presente cui appartengono li riunisce nella mia mente, e la solleva: nel mio cuore, e lo ingrandisce; aggiunge alla forza della parte quella del tutto; corrobora sempre più il mio assenso, e lo colloca sopra una base di una infinita certezza e lo conferma e lo sostiene e lo nobilita e lo perfeziona. – Finalmente, Dio è fedele, provvido e pietoso; non abbandona alla sua natia miseria l’uomo che cerca di elevarsi a Lui, di unirsi a Lui per mezzo di una fede e di un amore soprannaturale e perfetto. Si piega verso dell’uomo con bontà, gli stende dal cielo una mano amorosa, e come fortifica il nostro cuore disposto ad amarlo, così solleva il nostro intelletto desideroso di riconoscerlo. Grande al certo e sorprendente si è lo sforzo dell’intelligenza umana! che a verità soprannaturali, misteriose, profonde, incomprensibili, che non si vedono, presta un assenso più vigoroso, più intimo, più costante, più perfetto di quello che è possibile di prestare alle verità naturali le più semplici, le più ovvie, le più facili ad intendersi e che si vedono. Ma come può essere altrimenti? subito che l’insegnamento della vera fede, che produce il miracolo di un assenso sì meraviglioso. sì appoggia ad una autorità divina. Dio stesso, si fortifica dall’uniformità dell’assenso della Chiesa universale, e, quello che è più si sostiene per un soccorso, gratuito si. ma soprannaturale e divino. Sicché il prodigio di un intelletto debole che crede alla parola infinita al di sopra di ogni altra verità è l’effetto della grazia e dell’abito della fede divina; come il prodigio di un cuore sì corrotto che ama la infinita bontà al di sopra di tutti i beni è l’effetto della grazia o dell’abito della divina carità, grazie ed abiti che nel Battesimo si ricevono. È dunque Dio, onde l’uomo, secondo una frase del Profeta, si solleva come ad un cuore alto, così ad un’alta intelligenza, sino a Dio stesso; affine che questo Dio, per quest’atto della sua potenza e del suo amore, sia sempre meglio conosciuto e glorificato: Accedet homo ad cor altum, et exaltabitur Deus (Psal. LXIII). E se l’uomo crede con tanta disinvoltura, come fanno i veri fedeli, misteri cotanto superiori all’intelligenza umana; come, se pratica con tanta felicità, alla maniera dei veri giusti, virtù cotanto superiori all’umana debolezza, ciò accade perché è corroborato da una forza tutta divina e perché è forte, direi quasi della stessa forza di Dio ed amante del suo medesimo amore. – Fondata però la certezza cattolica sulle stesse basi di quella dei Magi, eccola produrre i medesimi effetti e manifestarsi per gli stessi prodigi di una fede somma, viva, generosa. costante e tranquilla. – Mirate il vero Cattolico: allevato egli alla scuola della rivelazione, di cui Gesù Cristo è l’autore, e depositaria ed interprete la Chiesa, è più certo della verità di ciò che crede che della verità di ciò che sente, di ciò che tocca, di ciò che vede. La testimonianza della Chiesa non solo esclude ogni dubbio dal suo animo, sine dubitatione, ma vi produce una certezza fermissima, immutabile intorno alle verità rivelate, fixa certitudine; una certezza mille volte più piena, più completa, più perfetta di quella che vi produce la testimonianza dei proprj sensi intorno alle cose sensibili, la testimonianza del proprio intelletto intorno ai primi principj delle cose intellettuali, la testimonianza dell’intimo senso intorno ai fatti interni. Nessun dubbio seriamente tale, che lasci l’anima nella tema che l’opposto di ciò che crede possa esser vero, si solleva mai dal fondo della sua ragione. Il vero Cattolico erede in Dio, come il vero giusto lo ama: con tutto il proposito di un cuore fedele, ex toto corde; con tutta l’energia di un’anima generosa, ex tota anima; con tutta la pienezza di un assenso di un intelletto soggiogato dalla forza dell’evidenza, ex tota mente; con tutte le forze che è possibile riunire per prestare un’adesione somma, intima, profonda e perfetta, ex totis viribus. Direbbesi in certo modo che la fede, per l’anima veramente fedele, perde le sue tenebre misteriose. Quello che crede per effetto della grazia, lo tiene per così certo e reale come quello che potrebbe Dio fargli vedere per un raggio anticipato della sua gloria. – Narrasi di S. Enrico imperatore che, invitato a vagheggiar Gesù apparso in forma di bambino al di sopra di una ostia consacrata, ricusò di andarvi, dicendo che la sua fede non aveva bisogno di questa sensibile testimonianza per credere alla presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia, e che la fede di questo miracolo non avrebbe in lui accresciuta una fede incapace di accrescimento. Or questi sentimenti generosi, queste nobili disposizioni del cuore di sì santo personaggio, esprimono presso a poco i sentimenti e le disposizioni del cuore dei veri figli della Chiesa. Hanno essi tale certezza della verità di ciò che credono che non ne possono avere una maggiore, e che la grazia può bensì accrescere e perfezionare la loro fede, ma gli esterni argomenti non possono aggiungervi nulla di più; e perciò vi prestano tutta l’adesione, lutto l’assenso di che sono capaci: Absque dubitatione, fixa certitudine. Alcune volte Iddio, per accrescere il merito e purificar la virtù degli uomini veramente fedeli, permette che soffrano orribili tentazioni contro la fede. Questa luce divina, come la stella dei Magi e pel medesimo fine, si ecclissa, si nasconde, non brilla più del suo usato splendore nelle loro menti, non appresta l’usato conforto ai loro cuori. In preda a mille dubbi, a mille agitazioni, a mille incertezze, in cui non sanno abbastanza distinguere tra il soffrire la tentazione e l’acconsentirvi, tra il combatterla e il soccombervi, sembra loro di aver poco meno che perduta la fede, di essere stati abbandonati da Dio, come i Magi al vedersi abbandonati dalla stella. Ma queste tentazioni e questi dubbj siccome sono senza colpa, così sono per lo più senza pericolo. La luce della fede si è allora occultata sotto del moggio (Matth. V.), si è riconcentrata nel fondo della loro anima, si è nascosta, ma non si è estinta. Non la veggono essi più, non la sentono; eppure è la sua forza che li sostiene, è il suo calore che li infervora. Gli assalti del tentatore, simili a quelli che un nemico impotente dà agli esterni ridotti di una fortezza, e che lasciano la cittadella in sicuro, gli assalti del tentatore, dico, rimangono al di fuori del recinto del loro cuore: e la pena che sentono nel provarli, e gli sforzi che raddoppiano per respingerli, e la preghiera e l’ajuto celeste che implorano per trionfarne, mentre sono una prova della fermezza della loro fede, l’accrescono, la fortificano e la perfezionano; giacche come lo ha detto Gesù Cristo a S. Paolo, la virtù in mezzo ai pericoli del combattimento si fortifica. si perfeziona e trionfa: Nam virtus in infirmitate perficitur  (II Cor. XII). E difatti, oh come allora è più umile lo spirito, il cuore più raccolto, la preghiera più fervente! Ed è una cosa veramente ammirabile per chi ha occasion di osservarla e lume per intenderla il vedere queste anime veramente cristiane, in mezzo alle angustie, alle pene, ai timori del loro cuore, lungi dal cercare nei trastulli del mondo un compenso o un sollievo, distaccarsene ancor di vantaggio; e quanto sono più desolate di spirito, tanto più abborrire le lusinghe della carne, attaccarsi di più alla pratica del bene in un tempo che sembra fatto per disgustamele, e per quella strada, onde parrebbe che dovessero allontanarsi da Dio, stringersi sempre più a Dio, e mostrarsi quanto più desolate, tanto più fervorose e fedeli. La ragione di ciò si è, perché queste anime non desiderano già, ma temono che la fede, che loro è si cara, possa loro divenire sospetta. Paventano adunque perché amano; e le loro grandi paure e le loro grandi agitazioni sono grandi atti di amore; e l’amore di Dio è ciò che solleva ed unisce di più l’anima a Dio. Il filosofo profano, vero animale di gloria, che si applaudisce nel secreto del suo orgoglio di saper tutto, e non sa poi nulla di ciò che più è necessario a sapersi, il freddo razionalista, l’inetto sofista, elle non sa che cosa sia credere e perciò ignora ancora che cosa sia amare; costoro non intendono nemmeno i termini di questo linguaggio di fede: mollo meno intendono il fenomeno, il mistero di un’anima interiore che ama di più la sua fede e vi si fortifica; Dio che ne è l’autore, e vi si abbandona, a misura che vede questa fede più combattuta nella sua mente, e questo Dio più severo e che par che più si allontani dal suo cuore. Non intendono né il prodigio di una fede, tormento insieme e delizia dell’anima in cui risiede: né l’eroismo della stessa anima che questo stato medesimo di tanta ambascia preferisce a tutto ciò che il mondo può offrirle di più piacevole e di più lusinghiero. Ma che cosa la carne ha mai capito e potrà mai capire giammai dei secreti dello spirito, e l’orgoglio delle meraviglie della fede? – Mentre però è fermissimo nella sua adesione e nelle sue prove, la fede dell’anima veramente cristiana è ancora vivissima ne’ suoi trasporti. Quello che crede misterioso e lontano par che lo vegga chiaro e presente, come quello che spera pare che lo possegga. Entrate in una chiesa cattolica nel tempo dell’adorazione delle quarant’ore; mirate la calca di gente di tutte le età, di tutte le condizioni, di tutti i sessi, e perciò sì varia agli occhi degli uomini, e di cui frattanto la professione della medesima fede forma un sol cuore innanzi a Dio. Consideratene la compostezza nel portamento, il raccoglimento profondo, l’atteggiamento devoto; uditene le fervide preci, i colloqui confidenti, le aspirazioni amorose, i santi trasporti: e resterete indeciso se costoro credono al gran mistero che adorano o non piuttosto lo veggano; se essi s’intertengono col Dio nascosto sotto il velo del sacramento, o col Dio svelato nella sua gloria; se questo sia il mistero di fede per eccellenza, o non piuttosto quello della visione; e se questo mistero fa esercitare eroicamente o piuttosto mirabilmente corrobori ed avvivi la loro fede. Certo, che, se Gesù Cristo, invece di essere nell’Eucaristia velato sotto le specie del pane allo sguardo corporeo, e noto solo all’occhio della mente illuminato dalla fede, si trovasse assiso sull’altare in una maniera visibile e manifesta; il raccoglimento ed insieme la famigliarità, la confidenza e il rispetto, l’amore e la tenerezza del suo popolo a stento potrebbero essere maggiori. – La stessa vivezza di fede si scorge nei veri Cattolici rispetto agli altri misteri della religione. Ne parlano non come di cose misteriose, lontane e celesti, ma come di cose chiare, manifeste, visibili e presenti sopra la terra. Quindi quel linguaggio ammirabile proprio dei veri Cattolici, in cui Dio e i suoi attributi, Gesù Cristo e i suoi misteri, la Vergine e i santi, gii angioli e la loro protezione, i dommi del paradiso, del purgatorio, dell’inferno, ritornano in ogni istante: linguaggio in cui chi lo sa intendere ravvisa tradotta e manifestata al di fuori nella sua integrità e nella sua purezza la fede del cuore; ma una fede facile, spontanea, sicura, disinvolta, passata, dirò così, in natura; ma sì viva che s’avvicina gli Oggetti lontani, che toglie quasi il loro velo ai misteri, e considera come presenti, visibili, popolari, comuni, terrestri, i più grandi segreti del cielo. Oh grande, oh prodigioso effetto della certezza della fede Cattolica, degno dell’ammirazione del vero filosofo! Ma in questo ancora gli uomini che pensan col ventre o vivon di orgoglio non intendono nulla. E perché  non l’intendono e disperano d’intenderlo, si appigliano all’insensato e comodo partito di deriderlo; chiamano imbecillità, superstizione uno dei più certi miracoli dello spirito di fede; ed attribuiscono alla debolezza dell’uomo ciò che è l’opera della potenza di Dio. Ma che importa a noi ciò che essi dicono? Sappiamo noi ciò che crediamo, e come lo crediamo; ed un giorno la nostra semplicità, al presente derisa, comparirà quello che è veramente, sublime sapienza; ed al contrario, la sapienza orgogliosa dei nostri censori sarà ridotta al silenzio e data all’universo in ispettacolo di obbrobrio; convinta rea di volontaria follia, di profonda impostura, e come tale tremendamente punita!

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (17)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (17)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) – BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO XI.

Dei peccati attuali ossia personali (*).

(*) Circa il peccato originale, vedi sopra le D. 59 e segg.

D. 562. Chiunque, non ostante la grazia che Dio sempre concede per la salvezza, trasgredisce la sua legge, che cosa fa?

R. Chiunque, non ostante la grazia che Dio sempre concede per la salvezza, scientemente e liberamente trasgredisce la sua legge, commette un peccato attuale, ossia personale.

D. 563. Che cos’è dunque il peccato attuale?

R. Il peccato attuale è una trasgressione della legge di Dio, scientemente e liberamente commessa.

(Questa nozione del peccato rimane vera non solo quando il peccato vada contro un comandamento divino, ma anche quando vada contro un comandamento umano, perché è sempre Dio quello che comunica il potere – ogni potere vien da Dio – ed esige l’osservanza dei comandamenti emanati dai legittimi superiori – ubbidite a quelli che vi soprastanno).

D. 564. In quanti modi si può commettere il peccato attuale?

R. Si può commettere il peccato attuale col pensiero, con la parola, e con l’opera, e questa o ponendola od omettendola; si può ancora commetterlo o contro Dio, o contro noi stessi, o contro il prossimo, secondo che la legge violata riguardi direttamente Dio, noi stessi o il prossimo.

D. 565. Che cosa viene a prodursi dalla ripetizione del medesimo peccato attuale?

R. Dalla ripetizione del medesimo peccato attuale viene a prodursi un abito, per cui siamo inclinati a male operare; tale abito vien detto vizio.

D. 566. Come si divide il peccato attuale?

R. Il peccato attuale si divide in mortale e veniale (S. Gerol.: Adv. Jovinian., I I , 30; S. Cesar. d’Arles, Sermo XIV, 2).

D. 567. Che cos’è il peccato mortale?

R. Il peccato mortale è una trasgressione alla legge, scientemente e liberamente commessa con la coscienza di un obbligo grave.

D. 568. Perché tale peccato vien detto mortale?

R. Tale peccato vien detto mortale perché distoglie l’anima dal suo ultimo fine; la priva della sua vita soprannaturale, che è la grazia santificante; la rende meritevole della morte eterna nell’inferno; rende inefficaci i meriti acquisiti, a tal segno che non hanno più valore ai fini della salvezza, fintanto che non rivivano per via della grazia ricuperata; ed infine impedisce le opere meritorie della vita eterna.

(Ezech., XVIII, 24; XXXIII, 13; Paolo: I ad Cor., VI, 9, 10; XIII, 1-3. — Sii pronto, o Cristiano, a perdere tutti i beni della terra, ad andare incontro a qualunque sia male, compresa la morte, piuttosto che di macchiarti di un peccato mortale, l’unico, vero e grande male dell’uomo, offesa infinita fatta a Dio, mostruosa ingratitudine verso di Lui, temerità inaudita e rovina per sé stessa irreparabile dell’anima tua. Di fronte alla incalzante tentazione, pensa all’infernale voragine nel cui abisso verresti da te stesso a precipitarti peccando mortalmente; pensa a Gesù Crocifisso di cui stai per calpestare il sangue e le piaghe. Tieni sempre fissa in mente la parola dell’Eccli., XXI, 2: « Fuggi il peccato come se vedessi un serpente »).

D. 569. Che cos’è il peccato veniale?

R. Il peccato veniale è una trasgressione della legge, scientemente e liberamente commessa con la coscienza di un obbligo leggero.

(Rispetto alla materia, il peccato mortale può definirsi: la trasgressione (scientemente e liberamente commessa) di una legge che gravemente obbliga, cioè la cui materia è grave;

il peccato veniale: la trasgressione di una legge che leggermente obbliga, cioè la cui materia è leggera;

per sapere, poi, se la materia della legge è grave o leggera, bisogna di tal giudizio chiedere il criterio alla Rivelazione, all’autorità dei Santi Padri, alle dichiarazioni della Chiesa, all’opinione comune dei Dottori; ma su questo punto i fedeli potranno attenersi al giudizio di un prudente confessore. Qualora, poi, si venisse a commettere un peccato, a ragione della materia, mortale, ma con l’erronea coscienza di un obbligo lieve, quel peccato sarà veniale; sarà, viceversa, mortale un peccato che, veniale a ragione della materia, vien però commesso con la coscienza (erronea) di un obbligo grave. Da ciò segue che le definizioni qui presentate del peccato, sia mortale che veniale, sono sempre vere).

D. 570. Perché tale peccato vien detto veniale?

R. Tale peccato vien detto veniale perché, non distogliendo esso l’anima dal suo ultimo fine, né producendo la morte spirituale, più facilmente può ottenere il perdono, anche senza la confessione sacramentale, e costituisce dell’anima una specie d’infermità che per la sua stessa natura più facilmente può venir guarita (Pio V, prop. 20 fra quelle condannate del Bajo, 1 ott. 1567. — Da ciò segue che il semplice ripetersi o moltiplicarsi dei peccati veniali non può mai da solo costituire peccato mortale; qualora però col ripetersi dei peccati lievi, venisse ad assommarsi una materia grave, allora ne conseguirebbe, sì, il peccato mortale, ma non a ragione del ripetersi dei veniali, ma unicamente a ragione della materia grave, tale divenuta con l’assommarsi della lieve.).

D. 571. Quali sono i principali effetti del peccato veniale?

R. I principali effetti del peccato veniale sono i seguenti: esso diminuisce il fervore della carità, dispone l’anima al peccato mortale, e rende l’uomo meritevole della pena temporale da scontarsi in questa vita o nell’altra.

D. 572. I peccati sia mortali sia veniali sono tutti uguali fra loro?

R. I peccati sia mortali sia veniali non sono uguali fra loro, ma allo stesso modo che i peccati veniali sono gli uni più lievi degli altri, così i peccati mortali sono gli uni degli altri più gravi (Giov., XIX, 11; S. Tom., l a 2æ, q. 73, a. 2).

D. 573. Quali sono i peccati mortali gravissimi per la loro intima natura?

R. I peccati mortali, gravissimi per la loro intima natura, son quelli direttamente commessi contro Dio.

D. 574. Quali sono i peccati contro lo Spirito Santo?

R. I peccati contro lo Spirito Santo sono :

1° il disperare della salvezza;

2° il presumere di poter conseguire la salvezza senza meriti;

3° l’impugnare una verità per tale riconosciuta;

4° il portare invidia al bene spirituale di un altro;

5° l’ostinarsi nei peccati;

6° l’impenitenza finale.

(Matt., XII, 31, 32; Marco, III, 28, 29; Luca, XII, 10. —

Circa il primo e il secondo peccato, v. le D. 527, 528. Commette il terzo peccato colui il quale, riconosciuta la verità della fede, ciò nonostante la nega, pur di abbandonarsi al peccato con maggior libertà. Commette il quarto colui il quale della sua invidia fa oggetto, non solo la persona del fratello, ma la stessa grazia di Dio crescente nel mondo. Commette il quinto colui che fermamente si propone di rimaner attaccato alla colpa. Commette il sesto colui che fermamente si propone di non pentirsi. — S. Tom., 2a 2ae, q. 14, a. 1, 2).

D. 575. Perché si chiamano codesti, peccati contro lo Spirito Santo?

R . Si chiamano codesti, peccati contro lo Spirito Santo, perché il peccatore, con malizia intenzionale, rimuove da sé quanto potrebbe trattenerlo dal peccare, disprezzando precisamente quella grazia che allo Spirito Santo si suole attribuire in maniera speciale, come alla fonte di ogni bene (S. Pietro Canisio: De peccatis in Spiritum Sanctum, n. I; S. Tom., 1. C.).

D. 576. Quali sono quei peccati contro il prossimo che gridano verso Dio?

R. I peccati contro il prossimo, che gridano verso Dio sono:

1° l’omicidio volontario;

2° il peccato carnale contro natura;

3° l’oppressione dei poveri;

4° il defraudare gli operai della mercede loro dovuta

(Gen, IV, 10; XVIII, 20; Esod., XXII, 23, 27; Deut., XXIV, 15; Giac., V, 4).

D. 577. Perché si dice che tali peccati gridano verso Dio?

R. Si dice che tali peccati gridano verso Dio, perché più degli altri portano manifesto il segno della malvagità, e più altamente chiamano sui loro autori l’ira e la vendetta divina (Paolo: ad Rom., I, 28-32; XII, 1-6; la ad Cor., III, 16-17; V, 11; VI, 9, 10; ad Galat., V, 19-2; la ad Tim., VI, 9, 10; 2a ad Tim., III, 2-5; S. Pietro Canisio: De peccatis in cælum

clamantibus, 1. c.).

D. 578. Quali sono i peccati capitali?

R. I peccati capitali sono:

1° la superbia;

2° l’avarizia;

3° la lussuria;

4° l’ira;

5° la gola;

6″ l’invidia;

7° l’accidia.

D. 579. Perché questi peccati si chiamano capitali?

R. Questi peccati si chiamano capitali, perché sono come la fonte e la radice degli altri peccati e vizi.

(S. Tom., l a 2ae, q. 84, a. 3, 4. Così la superbia (disordinato desiderio della propria eccellenza) è fonte e radice della presunzione, ambizione, vanagloria, iattanza….;

l’avarizia (disordinato desiderio dei beni temporali), all’indurimento del cuore verso i bisognosi, del furto, della frode, dell’inganno….;

l’ira (disordinato desiderio della vendetta), all’indignazione, contumelia, bestemmia, imprecazione, delle risse, dell’omicidio….;

la gola (disordinato desiderio del cibo e della bevanda), dell’ebetismo, della loquacità, della scurrilità….; l’invidia (tristezza del bene altrui in quanto impedisce la propria eccellenza), dell’odio, della detrazione, della calunnia, del godere per l’avversità, e dell’affliggersi per le prosperità del prossimo….;

l’accidia (tristezza pel bene spirituale a cagion della fatica che esso importa), del fastidio delle cose spirituali, della trascuranza di gravi doveri, della tristezza per la divina amicizia Per quanto riguardo la lussuria, cfr. la dom. 228, not. 1° e la dom. 229, nota 1°).

D. 580. Quali virtù si oppongono ai peccati capitali?

R. Ai peccati capitali si oppongono rispettivamente:

1° l’umiltà;

2° la liberalità;

3° la castità;

4° la mansuetudine;

5° l’astinenza;

6° la gioia per il bene del prossimo;

7° la diligenza.

D. 581. Dobbiamo noi fuggire oltre il peccato, anche le occasioni di peccare?

R. Oltre il peccato, dobbiamo fuggire, nella misura del possibile, anche le occasioni prossime di peccare, quelle, cioè, in cui l’uomo si espone al grave pericolo di peccare: infatti, chi ama il pericolo in esso perirà.

D. 582. Può accaderci di dover rendere conto a Dio dei peccati altrui?

R. Può accaderci di dover rendere conto a Dio dei peccati altrui se e in quanto, o ne siamo stati la causa col comando, il consiglio oppure il consenso, o non li abbiamo impediti, pur potendo e dovendo impedirli.

CAPO XII.

Dei Novissimi.

D. 583. Che cosa ci addita Iddio nella sacra Scrittura come mezzo efficacissimo d’evitare i peccati?

R. Dio, nella Sacra Scrittura, ci addita come mezzo efficacissimo d’evitare i peccati, la considerazione dei Novissimi, e ciò fa ammonendoci con queste parole: « In ogni opera tua abbi presenti i tuoi Novissimi, e in eterno non peccherai » (Eccli. III, 27).

D. 584. Che cosa s’intende con la parola Novissimi?

R. Con la parola Novissimi s’intende tutto ciò che agli uomini accade in fine della loro vita, cioè la morte, il giudizio, l’Inferno, il Paradiso; senonché dopo il giudizio e prima del Paradiso può aversi il Purgatorio.

D. 585. Quali punti soprattutto dobbiamo meditare nel riferirci alla morte?

R. Nel riferirci alla morte dobbiamo meditarla soprattutto come pena del peccato, come quell’istante dal quale dipende l’eternità, in modo che dopo la morte non v’è più alcun tempo a penitenza o a merito, e infine come quell’evento di cui sono incerte l’ora e le circostanze (Gen., II, 17; III, 19; Eccli., XIV., 12, 13; XLI, 1-3; Matt., XXIV, 42-44; Luca, XII, 39, 40; Paolo: ad Rom., V, 12; VI, 23; la ad Thess., V, 2; ad Hebr., IX, 27; Conc. di Tr., sess. V De peccato originali, can. 1).

D. 586. Che cosa succede in primo luogo all’anima immediatamente dopo la morte?

R. Immediatamente dopo la morte l’anima deve presentarsi al tribunale di Cristo per subirvi il giudizio particolare (Eccli., XI, 28; Paolo: ad Rom., XIV, 10; ad Hebr., 19, 27; Bened. VII: Const. Benedictus Deus, 29 genn. 1336; S. Agost.: De anima, II, 8. — Dell’universale giudizio trattano la  D. 112 e le segg.).

D. 587. Circa quali cose vien giudicata l’anima nel giudizio particolare?

R. Nel giudizio particolare l’anima vien giudicata circa ogni cosa senza eccezione, vale a dire circa i pensieri, le parole, le opere e le omissioni; e tale giudizio verrà confermato nel giudizio universale come in una esteriore manifestazione (Matt., X, 26; XII, 36; Paolo: la ad Cor., IV, 5.).

D. 588. Quale sarà dopo il giudizio particolare la sorte dell’anima?

R. Dopo il giudizio particolare, o l’anima, per il peccato mortale, è priva della grazia, e allora verrà condannata alle pene dell’Inferno; o è in istato di grazia, fino ad esser libera da qualunque peccato veniale e da qualunque debito di pena temporale, e allora viene senz’altro assunta alla gloria del Paradiso; finalmente se essa è in istato di grazia, ma non senza qualche peccato veniale o qualche debito ancora da scontare di pena temporale, allora viene trattenuta nel Purgatorio fino a quando non abbia pienamente soddisfatto alla divina giustizia (II Macc, XII, 46; Luca, XVI, 22; XXIII, 43; Paolo: 2a ad Cor., V, 1-3; Conc. di Fir.: Decr. prò Græcis; S. Giov. Damasc.: De fide ortodoxa, IV, 27.).

D. 589. Quale sarà nell’Inferno la sorte dei dannati?

R. Nell’Inferno, chiamato nelle sacre Lettere anche abisso o geenna, vengono tormentati da pene eterne i demoni, e in una con essi gli uomini dannati, nell’anima sola prima del giudizio universale, nell’anima e nel corpo dopo quel giudizio medesimo (Matt., VIII, 12; XIII, 42; XXIV, 51; XXV, 30, 41, 46; Luca, XIII, 27, 28; XVI, 22, 24, 28; Paolo: 2″ ad Thess., I , 9; Apoc, XIV, 9-11; Conc. Lat., IV, c. I; Conc. di Fir., 1. C.; Vigilius Papa: Adv. Originem, can. 9; Bened. XII, 1. e; Pio IX: Epist. ad Arch. et Epis. Italiæ, 10 ag. 1863).

D. 590. Quali sono le pene con le quali vengono tormentati i dannati nell’Inferno?

R. Le pene con le quali vengono tormentati i dannati nell’Inferno, sono:

1° la pena del danno, vale a dire la perpetua privazione della visione beatifica di Dio;

2° la pena del senso, vale a dire un fuoco reale che tormenta senza consumare, le tenebre, il rimorso e l’angoscia della coscienza, nonché la società dei demoni e degli altri dannati (Matt., III, 12; XIII, 42; XVIII, 8; XXIV, 51; XXV, 30, 41, 46; Luca, XIII, 28; XVI, 24, 28; Apoc, XXI, 8; Cat. p. parr., p. I , c. VIII, n. 9, 10).

D. 591. Le pene dei dannati sono per tutti le medesime?

R. La pena del danno è per tutti la medesima; le a tre pene dei dannati non sono per tutti le medesime, ma diverse secondo il numero e la gravità dei peccati (Conc. di Fir., 1. c.; S. Greg. M.: Dialog., IV, 43; S. Agost.: De fide, ope et caritate, 3).

D. 592. Qual sorte sarà quella dell’anima nel Purgatorio?

R. L’anima sconta nel Purgatorio le pene temporali dovute per i peccati e di cui non ha ancora del tutto pagato il debito nella vita presente, e ciò fino a quando non abbia pienamente sodisfatto alla divina giustizia e non sia in grado di essere ammessa nel Paradiso (II Macc, XII, 43-46; Matt., XII, 32; Paolo: la ad Cor., III, 12-15; Conc. II di Lione: Prof, fidei Mich. Pai.; Conc. di Fir., 1. c.; Conc. di Tr., sess. XXV, Decr. de Purgat.; Bened. XII, 1. c.; Leone X: prop. 37-40 inter damnatas Martini Luteri, 15 giug. 1520; Pio IV: Profess. fidei trid.; S. Greg. M.: Dial, IV, 39).

D. 593. Con quali pene vien punita l’anima nel Purgatorio?

R. L’anima vien punita nel Purgatorio con la pena del danno e con quella del senso, vale a dire con la temporanea privazione della visione beatifica e con altre pene gravi.

D. 594. Le pene delle anime nel Purgatorio sono uguali per tutti?

R. Le pene delle anime nel Purgatorio non sono uguali per tutti, ma implicano gradi differenti di acerbità e di durata a seconda del peccato veniale e del debito della pena temporale da scontarsi dai singoli; inoltre i suffragi di cui quelle anime sono l’oggetto, possono quelle stesse pene abbreviare e mitigare.

D. 595. Cesserà il Purgatorio dopo il giudizio universale?

R. Dopo il giudizio universale il Purgatorio cesserà; e le anime tutte che vi rimanevano trattenute, compiuta nei modi da Dio stabiliti la loro soddisfazione, verranno accolte nel Paradiso (Matt., XXV, 31-34, 41, 46; Giov., V, 29; S. Agost.: De civitate Dei, XXI, 13, 16).

D. 596. Quale sarà la sorte dei giusti in Paradiso?

R. Nel Paradiso le anime dei giusti, senza il corpo prima del giudizio universale, insieme al corpo dopo quel medesimo giudizio, godono in eterno la beatifica visione di Dio, e in una con questa ogni sorta di bene, senza alcuna mescolanza o timore di male, nella società del Signor nostro Gesù Cristo, della beata Vergine Maria e degli altri beati.

(Sap., III, 7, 8; V, 5, 16, 17; Is., XLIX, 10; LX, 18-22; Matt., XIII, 43; XIX, 28, 29; XXV, 34, 46; Luca, XVI, 22; XXII, 29, 30; Giov., XVII, 24; Paolo: la ad Cor., II, 9; XV, 41 e segg.; 2a ad Cor., XII, 4; l a di Pietro, I, 4; V, 4: Apoc, VII, 9, 16, 17; XXI, 1-4, 10-14; XXII, 1-5; Conc. Lat. IV, 1. c.; Conc. di Vienna: Contra errores Beguard. et Beguin.; Bened. XII e Conc di Fir., 11. ce; Cat. p. parr., p. I, c. XIII, n. 4 e segg.).

D. 597. Tutti i beati nel Paradiso godono in misura uguale dell’eterna beatitudine?

R. I beati nel Paradiso non godono tutti in misura uguale dell’eterna beatitudine, ma gli uni più perfettamente degli altri.

(Conc. di Fir., 1. e ; Conc. di Tr., sess. XVI, De justif., can. 32; S. Greg. M.: Moralia, IV, 70; Aphraate: Demonstrationes, XXII, 19; S. Efrem.: Hymni et sermones, 11; S. Gerol.: Adversus Jovinianum, II, 32, 34; Adversus libros Rufini, I, 23; S. Agost.: Sermo 87, 4, 6; In Joan. Evang., LXVII, 2.)

D. 598. Qual è la ragione di codesta differenza?

R. La ragione di codesta differenza è la seguente: i beati raggiungono la visione beatifica di Dio mediante il lume della gloria, lume che da Dio viene infuso, agli Angeli secondo la rispettiva dignità e grazia, agli uomini secondo i rispettivi meriti, in modo però che tutti, anche se disugualmente partecipi della gloria, sieno compiutamente felici e beati.

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (18)