DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2020)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Questa Domenica negli anni in cui la Pasqua cade il 24, o il 25 Aprile si anticipa al Sabato (rispettiv. 19, 20 Nov.) con tutti i privilegi della Domenica occorrente, cioè Gioria, Credo, Prefazii della Trinità e Ite Missa est per lasciar luogo rispettivamente nei giorni 20, 21 Novembre alla Domenica ultima dopo Pentecoste. Il tempo dopo Pentecoste è simbolo del lungo pellegrinaggio della Chiesa verso il cielo; le ultime Domeniche ne descrivono profeticamente le ultime tappe. In quest’epoca si leggono nel Breviario gli scritti dei grandi e dei piccoli profeti, che annunziano quello che accadrà alla fine del mondo. Quando i Caldei ebbero condotti gli Ebrei in cattività a Babilonia, Geremia percorse le rovine di Gerusalemme, ripetendo le sue Lamentazioni « Guarda, Signore, poiché è caduta nella desolazione la città che una volta’ era piena di ricchezza, la padrona delle nazioni è assisa nella tristezza. Essa amaramente piange durante la notte e le sue lagrime scorrono sulle sue gote » (3° Responsorio, 1a Dom. Nov.; Antit. del Magnificat, 2a Dom.). E profetizzò il doppio avvento del Messia che restaurerà tutte le cose. « Il Signore ha riscattato il suo popolo e lo ha liberato; e verranno ed esulteranno sul monte Sion e si rallegreranno dei beni del Signore» (1° Responsorio, lunedì 2a settimana). Fra i prigionieri condotti a Babilonia si trovava un sacerdote detto Ezechiele. Egli aveva annunziato la cattività che stava per ricadere su Israele: « Ora la fine è su di te e manderò contro di te il mio furore; e ti giudicherò secondo la tua vita e non avrò pietà » (1a Lezione, Mercoledì, 1a settimana). E nell’esilio egli profetizzò: « Le nostre iniquità e i nostri peccati sono sopra di noi; come dunque possiamo vivere? Ma il Signore ha detto: Non voglio la morte dell’empio, ma che egli si tolga dalla cattiva strada e viva. – Distoglietevi dalle vostre male vie e non morrete » (3a lezione, Lunedì 2a settimana). Dio mostrò al profeta in una visione, il futuro su di un’alta montagna e gli indicò il culto perfetto che Egli attendeva dal suo popolo quando lo condurrebbe verso i colli eterni di Sionne (7a lezione Venerdì 2a settimana). Daniele, che era pure tra i prigionieri di Babilonia, spiegò il sogno di Nabucodonosor, dicendo che la piccola pietra che, dopo aver fatto cadere la statua d’oro, d’argento, di ferro e di argilla, diventò una grande montagna, è figura di Cristo, il regno del quale, consumerà tutti gli altri regni e sussisterà eternamente (Lunedì 3° settimana). – Le guarigioni e le risurrezioni corporali, compiute dal Signore, sono la figura della nostra liberazione e della nostra risurrezione futura: Da tutte le parti ricondurrò i prigionieri » dice Geremia nell’Introito «Tu hai fatto cessare la cattività di Giacobbe» aggiunge il Versetto dell’Introito «Signore, tu ci hai liberato da coloro che ci odiavano » continua il Graduale. « Dal fondo dell’esilio le nazioni hanno infatti gridato verso il Signore, supplicandolo di ascoltare la loro preghiera » spiegano l’Alleluia e l’Offertorio e, come in Dio vi è un’abbondante redenzione, egli riscatterà il suo popolo da tutte le sue iniquità » (stesso Salmo, vers. 7 e 8). Preghiamo dunque con fiducia, poiché se Gesù risuscitò la figlia di Giairo e guarì l’emorroissa, ciò fu fatto secondo la parola del Signore: « Tutto quello che domanderete, lo riceverete ».

Quale terrore quando il giudice verrà ad esaminare rigorosamente ognuno! dice la Sequenza dei Defunti. La tromba squillerà fra le tombe e convocherà tutti gli uomini davanti al Cristo. La morte e la natura resteranno interdette quando la creatura risorgerà per rispondere al giudizio divino. Allorché l’eterno Giudice siederà sul suo seggio, tutto quello che è nascosto sarà palesato e nulla resterà impunito. Giusto Giudice, nella tua clemenza accordami grazia e perdono prima del giorno del rendiconto». Nelle ultime parole dell’Epistola odierna, l’Apostolo allude al libro di vita ove sono scritti i nomi dei Cristiani che la loro condotta esemplare rende degni della vita eterna.

Gesù resuscita la figlia di Giairo con la stessa facilità con la quale noi svegliamo una persona che dorme. Così la sua divin virtù resusciterà i nostri corpi l’ultimo giorno.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Jer XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.

[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio

Orémus.
Absólve, quǽsumus, Dómine, tuórum delícta populórum: ut a peccatórum néxibus, quæ pro nostra fraglitáte contráximus, tua benignitáte liberémur.

[Perdona, o Signore, Te ne preghiamo, i delitti del tuo popolo: affinché dai vincoli del peccato, contratti per lo nostra fragilità, siamo liberati per la tua misericordia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses.
Phil III: 17-21; IV: 1-3

Fratres: Imitatóres mei estóte, et observáte eos, qui ita ámbulant, sicut habétis formam nostram. Multi enim ámbulant, quos sæpe dicébam vobis – nunc autem et flens dico – inimícos Crucis Christi: quorum finis intéritus: quorum Deus venter est: et glória in confusióne ipsórum, qui terréna sápiunt. Nostra autem conversátio in cœlis est: unde etiam Salvatórem exspectámus, Dóminum nostrum Jesum Christum, qui reformábit corpus humilitátis nostræ, configurátum córpori claritátis suæ, secúndum operatiónem, qua étiam possit subjícere sibi ómnia. Itaque, fratres mei caríssimi et desideratíssimi, gáudium meum et coróna mea: sic state in Dómino, caríssimi. Evódiam rogo et Sýntychen déprecor idípsum sápere in Dómino. Etiam rogo et te, germáne compar, ádjuva illas, quæ mecum laboravérunt in Evangélio cum Cleménte et céteris adjutóribus meis, quorum nómina sunt in libro vitæ.

(“Fratelli: Siate miei imitatori, e ponete mente a coloro che si diportano secondo il modello che avete in noi. Poiché ci sono molti dei quali spesse volte vi ho parlato; e adesso vene parlo con lacrime, i quali si diportano da nemici della croce di Cristo: la loro fine è la perdizione; il loro Dio è il ventre: si vantano in ciò che forma la loro confusione, e non han gusto che per le cose terrene. Noi, invece, siamo cittadini del cielo, da dove pure aspettiamo, come Salvatore, il nostro Signor Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro miserabile corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso; per quella potenza che ha di poter anche assoggettare a sé ogni cosa. Pertanto, miei fratelli carissimi e desideratissimi, mio gaudio e mia corona, continuate a star così fermi nel Signore, o amatissimi. Prego Evodia ed esorto Sintiche ad avere gli stessi sentimenti nel Signore. E prego anche te, fedel compagno, di venir loro in aiuto: esse hanno combattuto con me per il Vangelo, insieme con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita”.).

OMELIA I

LA MORTIFICAZIONE CRISTIANA

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

S. Paolo, prima di chiudere la lettera ai Pilippesi, li esorta a conseguire la perfezione cristiana. Per raggiungere questo ideale, cerchino di imitare lui e quelli che vivono seguendo il suo esempio; e non badino a quei Cristiani che tengono una condotta affatto contraria alla mortificazione, che ci è predicata dalla croce di Gesù Cristo. Non si dimentichino, che la fine di costoro è la morte eterna. Noi dobbiamo tenere tutt’altro contegno. Centro dei nostri pensieri e dei nostri affetti è il cielo: là dev’essere la nostra vita. Di là aspettiamo Gesù Cristo, che verrà a renderci perfettamente beati, trasformando il nostro vile corpo sul modello del suo corpo glorioso. – Stiamo, dunque, uniti fortemente a Dio. Raccomanda poi la concordia tra Evodia e Sintiche, e prega un suo collaboratore d’aiutarle a questo scopo. – La mortificazione, che ci è predicata dalla croce di Cristo:

1°) è propria dei Cristiani che voglion praticar la virtù,

2°) Non esser nemici della croce,

3°) Non scambiare l’esilio con la patria.

1.

Fratelli: Siate miei imitatori e ponete mente a coloro che si diportano secondo il modello che avete in noi.

Questo invito di S. Paolo era molto importante per i Filippesi, perché non mancavano esempi di cattivi Cristiani, i quali facevano loro Dio il ventre, e si vantavano in ciò che formava la loro confusione, col condurre una vita sontuosa e lussuriosa. L’avvertimento vale anche per tutti noi. Ci sono tanti Cristiani, che al solo pensiero di condurre una vita mortificata, come era quella di S. Paolo e dei suoi seguaci, si spaventano. Non è più comoda la vita di coloro, che mangiano e bevono lautamente, e si godono tutti i piaceri? Sarà una vita più comoda; ma poco cristiana. Niente è più discorde dalla vita cristiana che consumare il tempo nei banchetti, o nel dolce far nulla, e godersi i piaceri. – Gesù Cristo da coloro che vogliono essere suoi seguaci chiede qualche cosa di diverso. A chi vuol portare il suo nome, ed essere suo discepolo chiede la mortificazione. E S. Paolo ci dice molto chiaramente di che mortificazione si tratta : « Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne coi vizi e con le concupiscenze » (Gal. V, 24). Non è questa la mortificazione che, in alcune circostanze e per certi motivi, ammette anche il mondo: mortificare gli eccessi della gola quando potrebbero essere nocivi: ma finché non sono nocivi, passino: mortificare la sensualità quando ne va di mezzo la salute; reprimere l’ira e soffocare i sentimenti di vendetta, quando ci possono portare ad azioni che incorrono nel codice, ecc. La mortifìcazione cristiana è assai più estesa e parte da motivi ben più nobili. Il Cristiano deve percorre la via delle virtù: la mortificazione gli serve per togliere gli ostacoli, che cercano di impedirgli questo cammino, come insegna Gesù Cristo: «Se il tuo occhio destro ti scandalizza, devi cavartelo e gettarlo lontano da te; è molto meglio che perisca un solo tuo membro, piuttosto che venga buttato nella Gehenna l’intero tuo corpo. E se la tua mano destra ti scandalizza, tagliala e gettala via; è meglio per te perdere un solo membro che esser buttato nella Gehenna con tutto il tuo corpo» (Matt. V, 29-30). – Base delle virtù è l’umiltà. Ma la pratica dell’umiltà non è altro che la mortificazione dell’amor proprio, della suscettibilità, della boria ecc. Chi vuol esser generoso verso i poveri deve mortificare la brama delle ricchezze. Chi vuol essere casto deve mortificare i propri occhi, le proprie orecchie, la propria carne. Non si può esser pazienti, senza reprimere i moti d’ira, di sdegno, di ribellione, che ci assalgono per un’ingiuria ricevuta, una contrarietà, una disgrazia. Non si può perdonare ai nemici senza combattere lo spirito di risentimento e di vendetta. Non si può lavorar seriamente al servizio di Dio, senza vincere l’accidia. Le passioni cercano di aver il dominio sulla volontà; il seguace di Gesù Cristo mortifica le passioni per poter sottometterle alla volontà. Chi non sa domare un focoso puledro sarà da lui sbattuto a terra, calpestato, trascinato. Trattandosi delle pretese della nostra corrotta natura, o calpestarle o lasciarsi da esse calpestare. Non potremo mai essere virtuosi senza calpestare i vizi opposti alle virtù. Perciò è assolutamente necessaria al Cristiano la mortificazione, con la quale « s’indice la guerra ai vizi, s’aumenta il progresso d’ogni virtù » (S. Leone M. Serm. 40, 2).

2.

Di quei cattivi Cristiani che conducevano una vita larga, la quale era di scandalo agli altri, dice S. Paolo che si diportano da nemici della croce di Cristo: « poiché se amassero la croce, procurerebbero di condurre una vita crocifissa » (S. Giov. Crisost. In Epist. ad Philipp. Hom, 13, 1). – Gesù Cristo per espiare i nostri peccati mortifica la propria volontà. « Padre mio, — dice incominciando la passione — se è possibile, passi da me questo calice! Tuttavia, non come voglio Io, ma come vuoi Tu» (Matth. XXVI, 39). Fa il sacrificio del suo onore. Tutto sopporta: contraddizioni, ingiurie, calunnie. Il suo corpo è assoggettato alle veglie, ai digiuni, alle fatiche continue dell’apostolato, alle privazioni. Egli può dire: « Le volpi hanno delle tane, e gli uccelli dell’aria hanno dei nidi, ma il Figliuolo dell’uomo non ha dove posare il capo » (Matth. VIII, 20). Alla fine è percosso, ferito, trafitto sopra una croce, Da quel momento la croce è il simbolo dell’espiazione, delle privazioni, del sacrificio, delle rinunce. Ora, chi non sa imporsi un limite nel mangiare e nel bere; chi non sa moderare la sua gola, chi non sa allontanare i suoi sensi da ciò che potrebbe essere materia di peccato, è necessariamente nemico della croce. Chi non sa reggere i moti dell’animo, dominandolo nei turbamenti, negli impeti dell’ira, nella brama di sovrastare agli altri, nella tristezza pel bene altrui, nella contentezza per l’altrui male, è necessariamente nemico della croce. Chi non sa sottoporre la propria volontà alla volontà di Dio, è nemico della croce. – I santi compresero molto bene l’importanza di questa crocifissione corporale e spirituale. Chi fugge dalla croce, fugge la via della salute. Ed essi che ci tenevano tanto alla eterna salute propria e a quella del prossimo, si stimavano felici di poter imitare Gesù Cristo nelle opere di mortificazione interna ed esterna; di poter, per mezzo della mortificazione, raffinarsi nella virtù, espiare le proprie colpe e quelle di tanti infelici, che si dimenticano di essere seguaci di Gesù Cristo. – La vita dei gaudenti anziché far loro invidia, era motivo di grande pena. L’apostolo, parlando di costoro, dice: ve ne parlo con lacrime. La croce di Cristo è loro offerta come mezzo di salvezza, ed essi la rigettano. Che diremmo di uno che, caduto in un burrone, rifiuta di attaccarsi alla corda che gli viene calata; che, travolto dalle onde, respinge la mano che tenta di afferrarlo; investito dalle fiamme, si divincola dalle braccia che l’hanno raccolto per portarlo in salvo? La carne con le sue concupiscenze, il nostro interno con tutte le sue debolezze ci investono, ci travolgono, ci portano alla morte spirituale: la croce delle mortificazioni può liberarcene, e noi la respingiamo. «Si accettano volentieri croci d’oro e d’argento; ma le altre ordinariamente si disprezzano», diceva Santa Maria Maddalena Postel (Mons. Arsenio Maria Legoux. Vita di S. Maria Maddalena Postel. Tradotta dal francese. Roma 1925).  La croce della mortificazione è una delle più disprezzate. Le anime buone hanno ben ragione di piangere, come S. Paolo, sullo stato di coloro che pospongono la croce ai godimenti.

3.

Noi siamo cittadini del cielo. Quaggiù non siamo in casa nostra, siamo esiliati in una valle di lacrime. Il godimento pieno che renderà pago il nostro cuore e felice tutto il nostro essere l’avremo in cielo. Non dobbiam dimenticarci che quaggiù non è il luogo dei godimenti, ma il luogo in cui si meritano i godimenti. Chi si dimentica di questo, non pensa a contrastare e a combattere le tendenze della corrotta natura, e alla fine si accorgerà di aver operato da stolto. Quelli che odiano la mortificazione in questa vita, non faranno mai passaggio dall’esilio alla patria celeste: la loro fine è la perdizione. «Ogni cosa ha il suo tempo stabilito» (Eccles. III, 1). Per i Cristiani il tempo dell’esilio terreno è il tempo stabilito per la propria santificazione, che non si acquista senza una mortificazione continua. Quindi, come osserva S. Agostino, « la nostra occupazione in questa vita è questa: dar morte con lo spirito alle azioni della carne, che dobbiamo affliggere, indebolire, frenare, mortificare» (Serm. 156, 2). Vi è «tempo di guerra e tempo di pace» (Eccles. III, 8). Il tempo del nostro esilio terreno è tempo di guerra continua contro la concupiscenza. Guerra che S. Bernardo chiama « una specie di martirio… più mite di quello in cui vengono tagliate le membra, quanto all’orrore; ma più molesto quanto alla durata » (In Cant. Serm. 30, 11). È una durata che ha termine; è una durata brevissima, se la paragoniamo alla durata della vita celeste; ma la nostra condizione, fin che la vita dura rimane la medesima: una lotta molesta contro le nostre cattive inclinazioni. – Mortificare il proprio corpo, non vuol dire renderlo infelice; tutt’altro. Vuol dire impedirgli la sorte destinata ai corpi dei gaudenti, i quali «fioriscono nel secolo, disseccano nel giudizio, e, dissecati, sono gettati nel fuoco eterno» (S. Agostino. En. in Ps. LIII, 3.). S. Paolo, dopo tanto lavoro per la gloria di Dio e la salvezza delle anime dichiara: «Affliggo il mio corpo e lo riduco in servitù, perché non avvenga che dopo aver predicato agli altri, io stesso sia reprobo» (I Cor. IX, 27). – Mortificare il proprio corpo vuol dire prepararlo a essere circonfuso di splendore e di gloria quando verrà il nostro Signor Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro miserabile corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso. Questo però avverrà quando l’esilio terreno sarà finito per noi e per tutti i viventi. Finché siamo quaggiù, nostra cura dev’essere questa, di crocifiggere la carne con le sue concupiscenze. Quando gli Ebrei, nell’Egitto, crebbero di numero e di forza, Faraone ne ebbe paura. «Ecco — dice ai suoi — che il popolo dei figli d’Israele è numeroso e più forte di noi. Venite, opprimiamolo con saggezza, affinché non si moltiplichi più». E quando Mosè e Aronne, in nome del Signore, gli chiesero che lasciasse libero il popolo ebreo, risponde: «E quanto si moltiplicherà se date loro qualche sollievo dai lavori?» E dispone di non lasciare, agli Ebrei neppur un momento di respiro (Es. I, 9-10, V, 5 e segg.). È quello che dobbiamo far noi in questa vita: mortificare con saggezza le azioni della carne, perché non prendano il sopravvento; mortificarle sempre appena si manifestano, non lasciando loro un momento di respiro.

 Graduale

Ps XLIII: 8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.

[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]


In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. Allelúja, allelúja.

[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno..]

Alleluja

Allelúia, allelúia

Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt IX: XVIII, 18-26
In illo témpore: Loquénte Jesu ad turbas, ecce, princeps unus accéssit et adorábat eum, dicens: Dómine, fília mea modo defúncta est: sed veni, impóne manum tuam super eam, et vivet. Et surgens Jesus sequebátur eum et discípuli ejus. Et ecce múlier, quæ sánguinis fluxum patiebátur duódecim annis, accéssit retro et tétigit fímbriam vestiménti ejus. Dicébat enim intra se: Si tetígero tantum vestiméntum ejus, salva ero. At Jesus convérsus et videns eam, dixit: Confíde, fília, fides tua te salvam fecit. Et salva facta est múlier ex illa hora. Et cum venísset Jesus in domum príncipis, et vidísset tibícines et turbam tumultuántem, dicebat: Recédite: non est enim mórtua puélla, sed dormit. Et deridébant eum. Et cum ejécta esset turba, intrávit et ténuit manum ejus. Et surréxit puélla. Et éxiit fama hæc in univérsam terram illam.

“In quel tempo, mentre Gesù parlava alle turbe, ecco che uno de’ principali se gli accostò, e lo adorava, dicendo: Signore, or ora la mia figliuola è morta; ma vieni, imponi la tua mano sopra di essa, e vivrà. E Gesù alzatosi, gli andò dietro co’ suoi discepoli. Quand’ecco una donna, la quale da dodici anni pativa una perdita di sangue, se gli accostò per di dietro, e toccò il lembo della sua veste. Imperocché diceva dentro di sé: Soltanto che io tocchi la sua veste, sarò guarita. Ma Gesù rivoltosi e miratala, le disse: Sta di buon animo, o figlia; la tua fede ti ha salvata. E da quel punto la donna fu liberata. Ed essendo Gesù arrivato alla casa di quel principale, e avendo veduto i trombetti e una turba di gente, che faceva molto strepito, diceva: Ritiratevi; perché la fanciulla non è morta, ma dorme. Ed essi si burlavano di lui. Quando poi fu messa fuori la gente, egli entrò, e la prese per una mano. E la fanciulla si alzò. E se ne di volgo la fama per tutto quel paese”

OMELIA II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra l’impurità.

Mulier quæ sanguinis fluxum patiebatar duodecim annis, accessit retro, et tetigit fimbriam vestimenti eius.

Degno era veramente di compassione lo stato di questa donna, fratelli miei, poiché già da anni dodici era essa da pericolosa malattia afflitta. Ma quanto fu grande ed efficace la sua confidenza per ottenere ciò che domandava! Persuasa del potere di quest’uomo-Dio sopra le malattie del corpo, non credette ella che fosse necessario d’indirizzare a Lui, come agli altri, la sua preghiera; o che Egli imponesse le mani su di essa , come quel capo della Sinagoga (di cui si parla nello stesso Vangelo) lo pregava di fare sulla sua figliuola che poco prima era morta. Purché ella possa attraversare la folla da cui Gesù Cristo è attorniato e toccar solamente il lembo delle sue vestimenta, ella crede che sarà guarita. Quindi prova ella quel che possa presso di un Dio sommamente benefico una viva ed umile confidenza. Essa riceve la guarigione della sua malattia e merita per la sua fede gli elogi di Gesù Cristo medesimo. Donna, abbi confidenza; la tua fede ti ha risanata: Confide, fides tua le salvam fecit. – La malattia di questa donna, che la caricava di confusione a cagion dell’impurità legale che portava seco, ce ne rappresenta, fratelli miei, una molto più ignominiosa che infetta un gran numero d’anime nel seno di una religione che non soffre impurità alcuna. Voi comprendete senza dubbio questo soggetto che io non oso quasi spiegarvi; poiché egli è un peccato che il grande Apostolo ci proibisce di nominare; eh! piacesse a Dio che non fossi obbligato di parlarne, poiché non si può farlo senza tema di offendere le orecchie caste, ed imbrattare l’immaginazione col racconto di cose, cui non si dovrebbe giammai pensare. Io serberei volentieri il silenzio sopra una materia sì critica, se il mio ministero non mi obbligasse a destarvi orrore di un mostro che fa tante stragi, di un male i cui progressi sono sì estesi e che precipita un sì gran numero d’anime nell’inferno. – Facciamo dunque tutti i nostri sforzi per rimediare ad una malattia così contagiosa com’è il vizio dell’impurità. Per riuscirvi, bisogna farvene conoscere la cagione e temere gli effetti: da un canto voi vedrete quanto è facile il cadervi; e dall’altro quanto è funesto l’esservi involto. Quali sono le cagioni del peccato d’impurità; primo punto. Quali ne sono gli effetti; secondo punto. Egli è facile commetterlo; bisogna dunque usare molta precauzione per non cadervi: egli è un gran male averlo commesso; bisogna usare dei rimedi necessari per guarirsene. Questo è il frutto che mi propongo di farvi raccogliere da questa istruzione. Domandiamo a Dio che purifichi le nostre labbra, come fece altre volte quelle di un profeta, affinché nulla ci sfugga che offender possa il pudore e la santità del nostro ministero.

I. Punto. L’impurità è un peccato sì detestabile e sì indegno d’un Cristiano che non possiamo non istupirci al vedere uomini che lo trattano di bagattella, di debolezza degna di perdono, e che sotto questo falso pretesto si abbandonano ciecamente a questa infame passione. Se fossero pagani, idolatri che tenessero un simil linguaggio, ciò recherebbe meno sorpresa; ma che uomini i quali fanno professione d’una religione così pura e così santa riguardino il peccato d’impurità come una cosa indifferente, un passatempo o al più al più una fragilità scusabile, si è ciò che non si può comprendere. Come dunque? Non sanno essi forse o non debbono sapere che lo stesso Dio, lo stesso legislatore che loro proibisce la bestemmia, l’omicidio, l’ingiustizia, proibisce loro altresì l’impurità? Quelli sono peccati perché azioni vietate dalla legge di Dio. Dio non ha forse ancora espressamente vietato all’uomo di commettere qualunque impurità con questo precetto del decalogo. Non mæchabris, voi non farete alcun’azione contraria alla purità! E certamente, se la lussuria non fosse un peccato grave di sua natura, l’Apostolo s. Paolo escluderebbe forse dal regno del cielo i fornicatori, gl’impudici, come gli ubbriaconi, gli avari e altri peccatori di questa specie? Sappiate dunque, fratelli miei, diceva quel grande Apostolo; che ogni fornicatore, ogni impudico non avrà parte alcuna nel regno di Dio: Omnis fornicator aut immundus non habet hæreditatem in regno Dei (Eph. V). Ma siccome io parlo a Cristiani istrutti e persuasi della loro Religione, non mi fermo di più a provar loro che l’impurità è una trasgressione della legge del Signore; per preservarli dalla sua contagione, io mi rivolgo solamente a scoprir loro le velenose sorgenti da cui questo vizio prende la sua origine e come s’introduce nell’anima. Tre principali ne osservo, cioè il difetto di vigilanza sopra se stesso e sopra i suoi sentimenti, la facilità di esporsi all’occasione e l’ozio. – Dico primieramente il difetto di vigilanza sopra se stesso; formati naturalmente sensibili, portati per conseguenza verso gli oggetti che commuovono ed allettano, i nostri sensi sono come i canali per dove essi s’insinuano e fanno impressione sulla nostr’anima. Sono, secondo l’espressione dello Spirito Santo, le finestre per le quali la morte entra nelle nostre case: chiunque per conseguenza non veglia continuamente sopra i suoi sensi, chiunque dà loro una piena libertà di trattenersi indifferentemente in ciò che può soddisfarli, deve aspettarsi di risentire i colpi mortali dei piaceri che gli sono vietati, e di vedere il forte armato comandargli da padrone ed assoggettarlo alla più vergognosa schiavitù. Ed in vero, fratelli miei, donde è venuta la caduta dei grandi personaggi di cui le sacre storie ci fanno la triste descrizione se non da difetto di vigilanza sopra se stessi, da una troppa grande libertà che diedero ai loro sensi? Dina figliuola di Giacobbe ebbe la curiosità di vedere le donne di Sichem, ma quanto pagò caro un sì imprudente passo! Ella fu rapita per forza e divenne la triste vittima della passione d’uno straniero. Qual fu la cagione della caduta di Davide, quell’uomo secondo il cuore di Dio, quel re sì perfetto? uno sguardo che gettò sopra Betsabea moglie di Uria; invece di volger altrove i suoi occhi da quell’oggetto, egli s’invaghì della bellezza di lei, e cedendo all’impeto di sua passione, si rendette adultero e omicida. Ma senza cercare esempi stranieri, quanti non ne fornisce la quotidiana esperienza forse in un gran numero di coloro che mi ascoltano? L’infame peccato d’impurità fa alla bella prima orrore da se stesso ad un’anima pura ed innocente: essa lo riguarda come un mostro, come uno scoglio fatale alla salute: niuno s’immerge ad un tratto in disordini che la Religione e la ragione egualmente condannano: sinché uno sta in guardia e veglia sopra i suoi sensi, è invincibile agli assalti del nemico. Ma l’avidità di vedere senza precauzione tutto ciò che si presenta, di ascoltare tutto ciò che si dice, addomestica insensibilmente l’anima con quel demonio famigliare, che, per avere un libero accesso presso di essa, la tenta con le attrattive degli oggetti che le presenta: uno sguardo di compiacenza, una canzone udita con piacere, una parola poco onesta profferita lasciano nell’anima impressioni di cui ella ha molta pena a disfarsi; si occupa di un’idea che l’ha rapita, e sebbene il corpo non sia ancora imbrattato, l’anima ha di già ricevuto il colpo della morte dal consenso che ha dato ad un malvagio pensiero, dal reo desiderio che ha concepito; e bentosto dai pensieri e dai desideri si viene alle azioni e si cade nei più grandi misfatti. – Tali sono i funesti effetti che produce l’impurità, allorché si permette ai sensi di andar vagando sopra oggetti d’ogni sorta; in tal guisa il veleno fatale della libidine s’insinua in un’anima e ne indebolisce affatto le forze. Ne abbiamo una trista, ma molto sensibile immagine in ciò che avvenne al tempo di Gerosolima allorché i Romani la stringevano d’assedio; un tizzone acceso che un soldato nemico gettò contro quel tempio, vi cagionò un sì grande incendio che fu impossibile estinguerlo: quel ricco e superbo edificio, l’opera di tutti i re, il più bel monumento che si fosse innalzato alla gloria di Dio, fu consumato e ridotto in cenere. Così una scintilla di fuoco impuro che s’impadronisce delle facoltà dell’uomo, vi cagiona il più strano disordine che immaginare si possa: Ecce quantus ignis quam magnam sylvam incendit (Jac. III). Quell’anima, che era il tempio di Dio, ornata della grazia e dei doni dello Spirito Santo, perde tutta la sua bellezza e diventa la schiava del demonio. Che sciagura! Confessatelo, fratelli miei, con altrettanto dolore che confusione, non riconoscete voi qui la cagione delle vostre cadute? Se voi entrate in una esatta discussione del malvagio uso che avete fatto dei vostri sensi, quali rimproveri non avrete a farvi su questo soggetto? Quanti riguardi fermati sopra oggetti che non eravi in alcun modo permesso di desiderare? Il che ha bastato per rendervi colpevole avanti a Dio, poiché questi sguardi sono stati volontari: mentre chiunque, dice Gesù Cristo, getta gli occhi sopra una donna con malvagi desideri, ha di già commesso l’adulterio nel suo cuore. I vostri occhi non hanno forse anche servito, per così dire, di messaggeri al vostro cuore impuro per manifestare i vostri sentimenti all’idolo di vostra passione? Non è forse ancora per la lettura di qualche malvagio libro che il veleno è entrato nella vostr’anima? Mentre se i libri in cui regna lo spirito d’irreligione indeboliscono la fede in coloro che li leggono, si può dire che niente è di maggior pregiudizio all’innocenza dei costumi che quei libercoli infami, in cui la licenza e lo sregolamento si mostrano alla scoperta. Quante canzoni disoneste, quante parole equivoche non si odono mai tutt’i giorni nelle profane compagnie? Quei discorsi osceni, quei racconti tanto più pericolosi quanto che il veleno vi è più sensibilmente e destramente insinuato, formano oggidì il diletto delle conversazioni: coloro che li fanno sono i meglio accolti nelle compagnie; ognuno si compiace nell’ascoltarli e ben presto impara a parlare come essi, perché ognuno crede poter fare come gli altri. Ah quanto sarebbe a desiderare per una parte de’ miei uditori che non avessero giammai intesi certi discorsi, che lor hanno insegnato ciò che avrebbero dovuto sempre ignorare! I loro costumi sarebbero più puri, la loro condotta più regolata, la loro vita più felice. Il gusto che produce pur troppo sovente l’intemperanza e l’ubbriachezza, serve anche d’incentivo all’impurità. Effettivamente una carne nutrita con delicatezza diventa ribella allo spirito e lo strascina seco nel peccato; l’uso smoderato dei liquori potenti non può accrescere il calor naturale senza recar pregiudizio all’anima; la ragione ne è perturbata, ed in questo stato, incapace di mettere un freno alle passioni, è forse da stupire che ne seguiti i traviamenti? Ed è forse per questa ragione che il grande Apostolo, indirizzando la parola ai primi Cristiani, proibiva loro espressamente gli eccessi: Nolite inebriari vino, in quo est luxuria (Eph.5). Nulla vi dirò io qui, fratelli miei, di quei peccati che si commettono col senso del tatto, che sono le azioni peccaminose vietate dal sesto comandamento: la santità del luogo di cui siamo non mi permette di entrare in una narrazione che offenderebbe le orecchie caste. Ma sotto il nome di queste azioni peccaminose io debbo dirvi che bisogna comprendere certe libertà reciproche le quali non hanno per principio che un amor profano e per fine che un oggetto carnale. Libertà che si trattano da scherzi, da giuochi, da passatempo, da segni d’amicizia, ma che sono veri peccati mortali, i quali divengono più gravi secondo la qualità delle persone, le circostanze del luogo e le conseguenze che seco portano; circostanze di cui dovete accusarvi nel tribunale della penitenza, voi principalmente che siete impegnati nel matrimonio, mentre questo stato è per molti un’occasione di peccato e di perdizione, allorché non sanno contenersi nei limiti della castità coniugale. – La seconda cagione dell’impurità sono le occasioni a cui ci esponiamo. Se l’occasione del peccato è un allettamento per commetterlo, ciò accade particolarmente nel genere di peccato di cui parliamo. Infatti, se questo peccato s’insinua per mezzo dei sensi nel tempo eziandio che gli oggetti sono lontani, che sarà poi quando le circostanze contribuiscano a ravvicinarli? Quindi l’occasione è sempre stata lo scoglio più fatale alla castità. Chi avrebbe Creduto che Salomone, il più savio degli uomini, quel re sì pieno dello Spirito di Dio, che aveva fatte grandi cose per la sua gloria, si fosse dimenticato di se stesso sino ad immergersi nei disordini di questo peccato vergognoso, ed in appresso nelle tenebre dell’idolatria? Or quale ne fu la cagione? Il commercio che ebbe con donne idolatre, che depravarono il suo cuore e gli fecero incensare i loro idoli, dopo essersi rendute esse medesime le vittime della sua passione. Donde vengono tante dissolutezze nella gioventù, tante infedeltà nel matrimonio, se non dai commerci illeciti che si sono mantenuti con persone che non si dovevan mirare o tenere in casa, dalle case sospette che si sono frequentate, dalle visite che si sono rendute o ricevute, dai regali che si sono fatti o accettati, dalle lettere che si sono scritte; mentre tutto questo è compreso sotto il nome di occasioni di peccato, perché tutte queste cose portano al peccato e sono, come dice s. Girolamo, gl’indizi d’una castità moribonda: Morituræ castitatis indicia. Io chiamo ancora occasioni del peccato impuro quelle unioni, quelle veglie, che si fanno in certe case le quali servono di ritiro al libertinaggio, ove Dio è più offeso in una sola notte che non è glorificato da tutte le anime sante che sono sopra la terra, ove la purità è macchiata da mille discorsi indecenti che vi si tengono, dagli oggetti che vi si veggono, e dove i pericoli ed i lacci sono tanto più fatali alla virtù, quanto che le tenebre e la segretezza danno maggior baldanza per commettere il male. – Chiamo occasioni di peccato quei divertimenti, quegli spettacoli in cui le passioni sono rappresentate coi loro più valevoli ad ammollire il cuore; quei balli, quelle danze ove la castità fa ordinariamente naufragio per gli sguardi lascivi che si gettano sopra oggetti pericolosi, o per lo meno per li malvagi desideri, per li pensieri disonesti che vi si formano, e che si fan nascere nel cuore degli altri. Non è forse qui dove le persone di diverso sesso cercano di piacere, di amare e di farsi amare? Non è forse qui dove le passioni, eccitate dai ragionamenti, dalle danze, dal suono degli strumenti, si sfogano senza ritegno e s’immergono negli ultimi eccessi? Oso affermare che è moralmente impossibile alla persona più virtuosa di uscire da quelle combriccole cosi innocente come vi è entrata, e non voglio alcun’altra prova di quel che dico fuor la testimonianza che rendere ne possono quegli e quelle che vi si sono ritrovati. Che diremo noi degli abiti immodesti, degli abbellimenti studiati, di cui le persone del minor sesso si adornano per darsi in spettacolo al mondo, per piacere a coloro che le veggono? Esse sono doppiamente colpevoli, e nell’intenzione che hanno, e nel fine che pur troppo ottengono. – Finalmente io chiamo occasion di peccato quelle conferenze ancora che sembrano innocenti tra persone che hanno di mira il matrimonio; conferenze peccaminose, ove, sotto pretesto di conoscersi, di farsi amare, si oltrepassano i limiti dell’onestà e della modestia: possono vedersi, ma si deve farlo onestamente, raramente ed alla presenza di un padre, di una madre, che debbono vegliare sulla lor condotta. Quando essi fuggono la loro compagnia, quando si cercano le tenebre, quando si veggono tra essi ad ore indebite, non si separano d’ordinario senza peccato. Ma oimè! questa morale non piace a molti, e sovente i padri e le madri favoreggiano pur troppo il libertinaggio dei loro figliuoli; sotto pretesto di far loro trovare un collocamento, danno ad essi la libertà di andare ove loro piace, la notte come il giorno, di frequentare chi loro torna a grado. Conviene poi stupirsi se vi sono tanti disordini nella gioventù, se il libertinaggio e l’impurità fanno tanto progresso nel mondo, poiché si trovano tante occasioni che inducono a questo peccato, cui l’uomo è già così propenso di sua natura, e mentre al difetto di vigilanza sopra se stesso si aggiunge la temeraria facilità di esporsi alle occasioni di commetterlo? – L’ozio gli dà ancora un nuovo impulso. Infatti, se l’ozio, al dire della Scrittura, è l’origine dei vizi, lo è parimente dell’impurità. Simile a quelle acque le quali non avendo alcun corso si corrompono e spargono lontano la contagione di cui sono infette, l’anima che marcisce nell’ozio, esposta in questo stato allo avvelenato soffio dello spirito impuro, vede oscurare tutta la sua bellezza, e perisce finalmente bevendo un veleno che la lusinga: simile ancora ad una piazza senza difesa, che rimane presa al primo assalto che le si dà, il cuore snervato dall’ozio lascia allo spirito tentatore un adito facile; e poco prevenuto contro le astuzie del nemico, diventa ben tosto schiavo. Ne chiamo in testimonio l’esperienza di quelle persone disoccupate, la cui vita si passa in non far nulla; a quanti malvagi pensieri non è la mente loro soggetta? Quanti movimenti sregolati non si sollevano nel loro cuore? Egli è una casa vuota ove il demonio d’impurità trova ben presto da alloggiare. In qual tempo, fratelli miei, siete voi più sovente tentati dallo spirito maligno? In qual tempo avete voi più sovente ceduto alle sue tentazioni? Confessate essere stato in quei giorni in cui, non essendo occupati né dal lavoro né da opere di pietà, vi siete renduti per la vostra inazione accessibili a tutti i colpi del vostro nemico. Confessiamo dunque, fratelli miei, che, sebbene violenta sia l’inclinazione dell’uomo per i piaceri carnali, sebbene potente sia il demonio per trascinarlo al male, l’uomo non sarebbe giammai vinto, se si tenesse in guardia, se vegliasse sopra i suoi sentimenti, se fuggisse l’occasione e l’ozio, che sono le sorgenti fatali dell’impurità. Ma il difetto di vigilanza e di occupazione, la temerità nella condotta, ecco le cagioni ordinarie di questo vizio abbominevole; questo è ciò che lo rende sì comune nel mondo che non àvvene alcuno, dice s. Gregorio, che perda più gli uomini. Questo peccato è una delle cause del piccolo numero degli eletti; perché è certo, secondo l’Apostolo, che niuno di coloro che vi sono soggetti entrerà mai nel regno dei cieli: or un’infinità di persone si lascia signoreggiare da questa passione; i giovani ed i vecchi, i ricchi ed i poveri, coloro che sono liberi e coloro che sono legati in matrimonio; questo peccato è ancora tanto più pernicioso alla salute, quanto che non soffre parvità di materia, come molti altri; tutto vi è mortale, da che vi si dà un intero consenso; benché non fosse che ad un solo pensiero contrario alla purità, non si richiede di più per esser dannato; a più forte ragione bisogna dir ciò dei desideri, delle parole, delle azioni: qual precauzione non si deve dunque prendere per preservarsene? Per indurvi a prendere queste precauzioni, vediamo i tristi effetti di questo peccato.

II. Punto. Per darvi, fratelli miei, qualche idea dei funesti effetti che trascina seco il peccato di cui ragioniamo, io potrei alla bella prima rappresentarvi i terribili castighi con cui Dio l’ha punito anche in questa vita. Sin dal principio del mondo tutta la terra non fu inondata da un diluvio universale se non per estinguere i fuochi impuri, che la concupiscenza aveva accesi nel cuore degli uomini. Cinque grandi città furono ridotte in cenere dal fuoco del cielo, perché esse erano tutte imbrattate dalle infami libidini dei loro abitanti. Più lungi voi vedete ventiquattromila Istraeliti trucidati d’ordine di Dio per essersi abbandonati ai disordini di questa infame passione; io passo sotto silenzio molti altri esempi, di cui fanno menzione i libri santi. Aggiungerei soltanto in confermazione della verità che questo peccato vergognoso è diametralmente opposto agli interessi più essenziali dell’uomo. Non si richiede molto tempo per provare ciò, una fatale esperienza ce lo fa pur troppo vedere; l’obbrobrio, la confusione, l’infamia sono la porzione dei voluttuosi; benché distinti siano essi d’altra parte nel mondo, tosto che sono notati con questa macchia, divengono l’oggetto del dispregio non solo delle persone dabbene, ma dei libertini ancora, i quali sebbene soggetti a questo vizio, non lasciano però di biasimarlo negli altri. La riputazione meglio stabilita non può sostenersi contro un’accusa formata in questo articolo. – Che dirò della perdita dei beni, dalla sanità, della vita medesima, che questo peccato strascina seco? Mentre di che non è capace un uomo soggetto a questa passione? Fa d’uopo consumarsi in folli spese per contentarla ed avere accesso presso dell’idolo cui ha prodigalizzato le sue adorazioni a spese della coscienza, a spese della fedeltà che deve ad una consorte? Egli risparmia su tutto il restante per sacrificar tutto alla sua inclinazione; la famiglia mancherà di tutto e sarà anche sovente la trista vittima dei furori di lui. Fa d’uopo esporre la santità a veglie che lo indeboliscono, a malattie vergognose che accorciano i suoi giorni, la sua vita a pericoli che la minacciano, ed a mille altri mali che passo sotto silenzio. Nulla v’è che non soffra e cui non si esponga per soddisfare una passione ostinata, che lo abbrucia, che lo fa miseramente ed inutilmente languire; sovente egli e frustato nella sua aspettazione, non ha per ricompensa delle sue ricerche che delle infedeltà che lo sconcertano; teme sempre di essere soppiantato da un rivale: se arriva a soddisfare la sua passione, quel preteso piacere non è seguito che da pungenti affanni, da amarezze, da rimorsi di coscienza, da tormenti. Vi dirò di più che questa passione produce le disunioni, i divorzi che sono lo scandalo della religione, le gelosie, gli odi, i duelli, gli omicidi e nulla vi dico, di cui non siensi veduti e non si veggano ancora dei tristi esempi nella città e nelle campagne, nelle provincie e nei regni: ella porta dappertutto la discordia, il disordine e la desolazione. Ma io mi fermo a farvi conoscere i mali infiniti che essa particolarmente cagiona nell’anima di colui che ne è signoreggiato; questi mali sono l’accecamento dello spirito, la durezza del cuore, che lo conducono all’impenitenza finale e alla riprovazione eterna. È proprio del peccato di accecare colui che lo commette, perché esso estingue i lumi della ragione e della fede: infatti in un uomo ragionevole lo spirito deve dominare sulla carne; ma nel voluttuoso si è la carne che domina sullo spirito, che gli comanda, che lo assoggetta al suo impero. Questo spirito, involto nella materia, non vede più quel che fa; egli perde, per cosi dire, l’attività, che è suo attributo essenziale, perché è divenuto affatto terrestre ed animale; noi ci rendiamo ordinariamente simili a quel che amiamo, dice s. Agostino. Quindi in quanti mancamenti egli non cade? A quali traviamenti non è egli esposto? Più non opera che come le bestie, anzi ancora peggio di esse, perché servesi del poco di lume che gli resta per far cose che le bestie medesime non fanno: Comparatus est iumentis insipientibus et simìlis factus est illis (Ps. XLVIII). Convien egli stupirsi se l’anima sensuale perde i lumi della fede? L’uomo animale non può concepire le cose di Dio, dice l’Apostolo: Animalis homo non percipit ea quae sunt spirìtus Dei (1 Cor.2). La legge insegna a quest’anima che essa è creata ad immagine di Dio, che è riscattata col prezzo del suo sangue, che è divenuta per mezzo del battesimo il tempio dello Spirito Santo: qual motivi capaci di ritenere il disonesto! Ma egli non fa attenzione alcuna a tutto questo; egli perde dì vista titoli onde è onorato: di figliuolo di Dio si rende vile schiavo del demonio, prostituisce le sue membra che sono incorporate con quelle di Gesù Cristo; profana vergognosamente il tempio augusto ove lo Spirito Santo ha fatta la sua dimora, per farne una cloaca di iniquità. Quale indegnità! Quale accecamento! L’impudico porta sì lungi il suo accecamento che vorrebbe far credere il suo peccato una cosa indifferente ed anche permessa; egli mette tutto in opera per persuaderlo agli altri, a fine di fare più facilmente soccombere alla sua passione le vittime che vuol sacrificare: si può egli diventare più stupido? E non bisogna forse aver perduto ogni coscienza di doveri e di religione? L’uomo schiavo di questo peccato non ha dunque più sentimento della religione che professa, perché la passione che l’acceca ricopre la sua anima di tenebre che estinguono in lui il lume della fede. Non è forse ancora di questa avvelenata sorgente che si sono veduti nascere gli errori che hanno desolata la Chiesa? Essa è che ha prodotti e produce tuttavia i deisti, gli atei, che non hanno lo spirito guasto in materia di credenza se non perché il loro cuore è dalla lussuria corrotto. Non rigettano essi la religione se non perché ella molesta ed incomoda le loro passioni?Perché mai vediamo noi al giorno d’oggi tanti libertini ragionare, disputare sulle verità del Cristianesimo, combatterle e contraddirle, trattare i nostri santi misteri, gli articoli di nostra fede da favole, da racconti fatti a piacere per intimorire gli spiriti deboli? Se noi risaliamo all’origine dei loro pretesi dubbi, delle loro indiscrete critiche, noi la troveremo in un cuor guasto, il quale vorrebbe che non vi fosse religione alcuna, alcun sacramento, alcuna parola di Dio, alcun Dio vendicatore de’ misfatti, a fine di abbandonarvisi con maggior libertà. Vediamo noi forse che coloro i quali sono schiavi della impurità siano persone ben regolate, assidue all’orazione e alla frequenza de’ sacramenti? No, senza dubbio; se danno qualche segno esteriore di religione si è per salvare le apparenze, per conservarsi una riputazione che loro è necessaria nel mondo, per avere un impiego, per arrivare ad uno stabilimento. Ma se noi li conoscessimo a fondo, vedremmo che il loro spirito è così lontano dalla verità, come il loro cuore dall’innocenza, e che il demonio impuro, da cui sono posseduti, li acceca e li perverte. Non bisogna punto stupirsi se cadono nella durezza di cuore, che è come una conseguenza necessaria dell’accecamento dello spirito. Che cosa è un peccatore ostinato? È un uomo, dice s. Bernardo, che non è tocco dalla compunzione, né intenerito dalla pietà, né attirato dalle promesse, né intimorito dalle minacce: che è insensibile alle correzioni, indocile alle ammonizioni; è un uomo cui l’orazione, la parola di Dio, i Sacramenti e tutti i mezzi di salute che la Religione fornisce, sono inutili. Tale è lo stato deplorabile di un peccatore immerso nel pantano degli osceni piaceri. Questo peccatore non è mosso né dalla bellezza delle ricompense che Dio promette alle anime caste, né dal rigore de’ castighi che riserba agli impudichi. Il fuoco dell’inferno, che sarà il supplizio particolare del voluttuoso, benché terribile gli si rappresenti, non oppone che un riparo insufficiente agl’impeti della passione che lo trasporta. Le altre verità della religione non fanno impression maggiore su di lui. Così la parola di Dio, sebbene potente sia essa stata e lo sia ancora per convertire i peccatori, nulla serve spesso ad un impudico. Egli l’ascolta senza essere colpito né convertito; egli è sordo a tutte le correzioni che gli si fanno; non vuole ascoltare né gli avvisi d’un pastore né le salutevoli ammonizioni che amici caritatevoli gli faranno per trarlo dai suoi disordini; basta solo parlargliene per incorrere la sua disgrazia; si è una piaga che non vuole si tocchi o di cui non si può intraprendere la guarigione che con circospezioni difficili a praticare. Che cosa sarà dunque capace di ricondurre l’impuro al suo dovere? L’orazione? Ma egli punto non prega, o se prega, è sempre lo stesso: perché? Perché non prega con desiderio sincero di essere esaudito; durante l’orazione egli è occupato dell’oggetto che l’ha sedotto; come Agostino peccatore, egli chiede a Dio di spezzare legami che non vuol rompere e che non si romperanno senza di lui. I sacramenti, che sono i gran mezzi di salute che Gesù Cristo ci ha lasciati, non avranno essi forse la virtù di guarirlo? Si, senza dubbio, se vi si accostasse con sante disposizioni; ma l’impudico si allontana dai sacramenti, perché non vuol raffrenare una tirannica propensione; o se egli vi si accosta, invece di trovare la vita in quelle sorgenti di grazie, vi ritrova un fatal veleno che accresce il suo male per la profanazione che ne fa, e questo per due ragioni, che vi prego di ben osservare: si è che ordinariamente l’impudico che s’accosta ai sacramenti, e massime a quello della Penitenza, o non dichiara il suo peccato o non ha un fermo proponimento di correggersi. No, fratelli miei, non evvi alcun peccato che altri sia più tentato di celare nel tribunale della Penitenza e che si celi effettivamente più spesso del peccato d’impurità, perché porta un carattere d’infamia che non si osa manifestare. Ne chiama in testimonio la vostra esperienza: voi che gemete ancora su tante confessioni sacrileghe, qual è la cagione dei vostri rammarichi, se non una trista vergogna che per l’addietro vi fece celare qualcheduno di quei peccati che sono l’obbrobrio della religione e la perdizione del colpevole? Un’altra ragione che rende le confessioni dell’impudico nulle e sacrileghe si è che, supponendo in lui coraggio bastante per dichiarare il peccato, non ha poi un fermo proponimento di correggersi. Io trovo la prova di questa verità nelle frequenti sue ricadute. Infatti non v’è peccato alcuno il cui abito sia sì difficile a correggere. Un voluttuoso non cerca forse incessantemente l’occasione di soddisfare la sua passione? Non contento di averle sacrificata una infelice vittima che egli ha guadagnata con le sue sollecitazioni, fa nuovi tentativi; e se la conquista gli sfugge, trova ben il mezzo di farne delle altre. Se non può riuscire ne’ suoi disegni, egli non è meno colpevole per i cattivi desideri cui il suo cuore s’abbandona. – Quelle persone che per avere un’assoluzione han rotto per qualche tempo i loro malvagi commerci, annoiate d’una separazione che le fa languire, palesano subito il vizio della loro risoluzione, rinnovando ben tosto la catena fatale che le rendeva schiave l’una dell’altra. Ah! quanto è mai raro, trovare peccatori di questa sorte che si convertano sinceramente, sia a cagion della malvagia inclinazione che li predomina ed a cui hanno molta pena a resistere, sia a motivo dei violenti assalti che il nemico della salute dà a coloro che gli hanno aperto l’ingresso del loro cuore. Il che Gesù Cristo ci fa conoscere nel Vangelo quando dice che lo spirito immondo non abbandona un’anima che signoreggia a modo suo, che ha disegno di ritornarvi e di regnarvi allora con un impeto più assoluto, perché tosto che vi è rientrato, lo stato del peccatore diventa peggior di prima; Fiunt novissima hominis ilius peiora prioribus, cioè la sua conversione diventa più difficile per le frequenti ricadute cui il suo abito la espone: queste ricadute lo conducono all’ostinazione, l’ostinazione all’impenitenza, e l’impenitenza alla riprovazione. Ecco fratelli miei, ciò che ha fatto sempre riguardare questo peccato come un grande ostacolo alla salute; ecco ciò che deve destarne in voi un sommo orrore, indurvi a fare tutti i vostri sforzi per non soccombervi e ad usare tutti i rimedi più efficaci per guarirne, se vi siete soggetti. Mentre a Dio non piaccia ch’io pretenda rimandare i peccatori di questo carattere senza speranza di guarigione e di salute! Ma bisogna per questo metter in pratica i mezzi che sono per proporvi terminando questo discorso.

Pratiche. Per guarir un male, bisogna andar alla sorgente; il peccato d’impurità viene ordinariamente da un difetto di violenza sopra se stesso, dalle occasioni cui uno si espone e dall’ozio. Bisogna dunque vegliare sopra i vostri sensi, fuggir le occasioni ed occuparvi. Vegliate sopra i vostri occhi per allontanarli dagli oggetti capaci di fare malvage impressioni sopra i vostri cuori: Averte oculos meos ne videant vanitatem. Se i vostri occhi sono colpiti dalle ingannatrici lusinghe di una caduca bellezza, per disgustarvene pensate allo stato orribile cui sarà essa dalla morte ridotta, quando diverrà il pascolo dei vermi: questo pensiero vi preserverà dal veleno della libidine. Non leggete giammai libri capaci di darvi la minima idea contraria alla virtù della purità; se voi ne avete qualcheduno, gettatelo al più presto nel fuoco. Non date giammai orecchio alle canzoni profane, ai discorsi lascivi; guardatevi ancora di più dal proferire nei vostri discorsi parola che offenda la modestia, siate esatti su questo punto sino allo scrupolo: fuggite sopra tutto le occasioni pericolose alla castità, mentre se voi mancate di prudenza a questo riguardo, ogni altra precauzione sarà inutile. Occupatevi altresì secondo il vostro stato; ed il demonio, confuso di vedersi forzato sino nell’ultimo trinceramento, non mancherà di abbandonare una piazza che da tutte le parti gli oppone una egual resistenza. Accostatevi sovente ai sacramenti, abbiate ricorso all’orazione, che è un mezzo eccellente per ottenere la continenza; è quello di cui servivasi il grande Apostolo per respingere lo stimolo di satanasso che lo agitava: Ter Dominum rogavi. Mortificate le vostre passioni con l’astinenza e non siate del numero di coloro di cui parla la Scrittura, che facendo del loro ventre un Dio, alimentano con la loro dissolutezza il fuoco impuro che li divora; resistete fortemente al primo pensiero del male con qualche elevazione del vostro cuore a Dio; ditegli con un sentimento di dolore di vedervi esposti a tante occasioni di dispiacergli: Allontanate dalla mia mente, o mio Dio, questo malvagio pensiero. Abbracciate in spirito la croce di Gesù Cristo, tenetevi ad essa attaccati sino che la calma succeda alla tempesta; ogni qualvolta il nemico della salute si sforzerà di farvi cadere nelle sue reti, munitevi del pensiero e della rimembranza del vostro ultimo fine. Come! vorrò io, direte voi allora, per un piacere d’un momento, bruciare durante tutta l’eternità? Se il ritratto dell’ inferno che vi formerete nella vostra immaginazione non è spaventevole abbastanza per allontanare la tentazione, provate a toccar un momento il fuoco di quaggiù e domandate a voi medesimi, come faceva un santo solitario in simili tentazioni: Come potrò io soffrire un fuoco eterno, che sarà il supplizio del mio peccato, io che non posso soffrire un momento un fuoco dipinto? No, no, non voglio comprare ad un sì gran prezzo una soddisfazione passeggera di cui non avrò che una trista rimembranza. Piuttosto morire che imbrattar l’anima mia della minima macchia. Perseverate in questa risoluzione, poiché voi sarete molto risarciti del sacrificio dei piaceri che farete sulla terra dai torrenti di delizie di cui sarete inondati nel cielo. Così sia.

Credo… 

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta

Pro nostræ servitútis augménto sacrifícium tibi, Dómine, laudis offérimus: ut, quod imméritis contulísti, propítius exsequáris.

[Ad incremento del nostro servizio, Ti offriamo, o Signore, questo sacrificio di lode: affinché, ciò che conferisti a noi immeritevoli, Ti degni, propizio, di condurlo a perfezione.]

Comunione spirituale

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, omnípotens Deus: ut, quos divína tríbuis participatióne gaudére, humánis non sinas subjacére perículis.

(Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché a coloro ai quali concedi di godere di una divina partecipazione, non permetta di soggiacere agli umani pericoli.)

Preghiere leonine

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

Ordinario della Messa

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

In quest’epoca le letture dell’Officiatura sono spesso tolte dal Libro dei Maccabei. Giuda Maccabeo, avendo udito quanto potenti fossero i Romani e come avessero sottomesso dei paesi assai lontani ed obbligato tanti re a pagar loro un tributo annuale, e d’altra parte sapendo che essi solevano acconsentire a quanto veniva loro chiesto e che avevano stretto amicizia con tutti coloro che con essi si erano alleati, mandò a Roma alcuni messi per fare amicizia ed alleanza con loro. Il Senato romano accolse favorevolmente la loro domanda e rinnovò più tardi questo trattato di pace con Gionata, e poi con Simeone che succedettero a Giuda Maccabeo, loro fratello. Ma ben presto la guerra civile sconvolse questo piccolo regno, poiché dei fratelli si disputarono tra di loro la corona. Uno di questi credette fare una mossa abile chiamando i Romani in aiuto; essi vennero infatti e nel 63 Pompeo prese Gerusalemme. Roma non soleva mai rendere quello che le sue armi avevano conquistato e la Palestina divenne quindi e restò una provincia romana. Il Senato nominò Erode re degli Ebrei ed egli, per compiacere costoro, fece ingrandire il Tempio di Gerusalemme e fu in questo terzo tempio che il Redentore fece più tardi il suo ingresso trionfale. Da quel momento il popolo di Dio dovette pagare un tributo all’imperatore romano ed è a ciò che allude il Vangelo di oggi. Questo episodio avvenne in uno degli ultimi giorni della vita di Gesù. Con una risposta piena di sapienza divina, il Maestro confuse i suoi nemici, che erano più che mai accaniti per perderlo. L’obbligo di pagare un tributo a Cesare era tanto più odioso agli Ebrei in quanto contrastava allo spirito di dominio universale che Israele era convinto di aver ricevuto con la promessa. Quelli che dicevano che si doveva pagarlo, avevano contro di loro l’opinione pubblica, quelli che dicevano che non si dovesse farlo incorrevano nell’ira dell’autorità romana imperante e degli Ebrei che erano a questa favorevoli e che si chiamavano erodiani. I farisei pensavano dunque che forzare Gesù a rispondere a questo dilemma voleva sicuramente dire perderlo, sia davanti al popolo, sia davanti ai Romani, e che tanto dagli uni come dagli altri avrebbero potuto farlo arrestare. Per essere sicuri di riuscirvi gli mandarono una deputazione di Giudei che appartenevano ai due partiti, « alcuni dei loro discepoli con degli erodiani », dice S. Matteo. Questi uomini, per ottenere una risposta, cominciarono col dire a Gesù che sapevano come egli dicesse sempre la verità e non fosse accettatore di persone; poi gli tesero un tranello: « È permesso o no pagare il tributo a Cesare?». Gesù, conoscendo la loro malizia, disse loro: « Ipocriti, perché mi tentate?» Poi, sfuggendo loro destramente, domandò che gli mostrassero la moneta del tributo, per forzarli, come sempre faceva in queste circostanze, a rispondere essi stessi alla loro domanda. Infatti, quando gli Ebrei gli ebbero presentato un danaro che serviva per pagare il tributo: « Di chi è questa effigie e questa iscrizione? » chiese loro. «Di Cesare», risposero quelli. Bisognava infatti per pagare il tributo, cambiare prima la moneta nazionale in quella che portava l’effigie dell’imperatore romano. Con questo scambio gli Ebrei venivano ad ammettere di essere sotto la dominazione di Cesare, poiché una moneta non ha valore in un paese se non porta l’effigie del suo sovrano. Acquistando dunque quel denaro con l’impronta di Cesare, riconoscevano essere egli il signore del loro paese, al quale essi avevano l’intenzione di pagare il tributo. « Rendete dunque a Cesare — disse loro Gesù — quello che è di Cesare ». Ma allora il Maestro, diventando ad un tratto il giudice dei suoi interlocutori interdetti, aggiunse: « Rendete a Dio quello Che è di Dio ». Ciò vuol dire: che appartenendo l’anima umana a Dio, che l’ha fatta a propria immagine, tutte le facoltà di quest’anima devono far ritorno a Lui, pagando il tributo di adorazione e di obbedienza. « Noi siamo la moneta di Dio, coniata con la sua effigie, dice S. Agostino. E Dio esige il suo denaro, come Cesare il proprio » (In JOANN.). « Diamo a Cesare la moneta che porta l’impronta sua, aggiunge S. Girolamo,, poiché non possiamo fare diversamente, ma diamoci anche spontaneamente, volontariamente e liberamente a Dio, poiché l’anima nostra porta l’immagine sfolgorante di Dio e non quella più o meno maestosa di un imperatore ». (In MATT.). – «Questa immagine, che è l’anima nostra, dice ancora Bossuet, passerà un giorno di nuovo per le mani c davanti agli occhi di Gesù Cristo. Egli dirà ancora una volta guardandoci: Di chi è quest’immagine e quest’iscrizione? E l’anima risponderà: Di Dio. È per Lui ch’eravamo stati fatti: dovevamo portare l’immagine di Dio, che il Battesimo aveva riparato, poiché questo è il suo effetto e il suo carattere. Ma che cosa è diventata questa immagine divina che dovevamo portare? Essa doveva essere nella tua ragione, o anima cristiana! e tu l’hai annegata nell’ebbrezza; tu l’hai sommersa nell’amore dei piaceri; tu l’hai data in mano all’ambizione; l’hai resa prigioniera dell’oro, il che è un’idolatria; l’hai sacrificata al tuo ventre, di cui hai fatto un dio; ne hai fatto un idolo della vanagloria; invece di lodare e benedire Iddio notte e giorno, essa si è lodata e ammirata da sé. In verità, in verità, dirà il Signore, non vi conosco; voi non siete opera mia, non vedo più in voi quello che vi ho messo. Avete voluto fare a modo vostro, siete l’opera del piacere e dell’ambizione; siete l’opera del diavolo di cui avete seguito le opere, di cui, imitandolo, vi siete fatto un padre. Andate con lui, che vi conosce e di cui avete seguito le suggestioni; andate al fuoco eterno che per lui è stato preparato. O giusto giudice! dove sarò io allora? mi riconoscerò io stesso, dopo che il mio Creatore non mi avrà riconosciuto? » (Medit. sur l’Èvangile, 39e jour) In questo modo dobbiamo interpretare il Vangelo, in questa Domenica, che è una delle ultime dell’anno ecclesiastico e che segna per la Chiesa gli ultimi tempi del mondo. Infatti, a due riprese, l’Epistola parla dell’Avvento di Gesù, che è vicino. S. Paolo prega Dio che ha cominciato il bene nelle anime di compierlo fino al giorno del Cristo Gesù », poiché è da Lui che viene la perseveranza finale. E l’Apostolo invoca appunto questa grazia: che « la nostra carità abbondi vieppiù in cognizione e discernimento, affinché siamo puri e senza rimproveri nel giorno di Gesù Cristo » (Epistola). In questo terribile momento, infatti se il Signore tiene conto delle nostre iniquità, chi potrà sussistere davanti a Lui? (Introito). « Ma il Signore è il sostegno e il protettore di coloro che sperano in Lui » (Alleluia), poiché « la misericordia si trova nel Dio d’Israele» (Intr., Segret.). E noi risentiremo gli effetti di questa misericordia se saremo noi stessi misericordiosi verso il prossimo.« Come bello è soave è per i fratelli essere uniti! » dice il Graduale. E dobbiamo esserlo soprattutto nella preghiera, all’ora del pericolo,poiché se gridiamo verso il Signore, Egli ci esaudirà » (Com.). E la preghiera eminentemente sociale e fraterna, alla quale Dio è più specialmente propizio, è la pregherà della Chiesa, sua sposa,che Egli ascolta ed esaudisce come fece il re Assuero, allorché, come ricorda l’Offertorio, la sua sposa Ester si rivolse a Lui per salvare dalla morte il popolo di Dio (v. 19a Domenica dopo Pentecoste).

Il dono della perseveranza nel bene ci viene da Dio. San Paolodomanda a Dio di accordarlo ai Filippesi, che gli sono semprestati uniti nelle sue sofferenze e nelle sue fatiche apostoliche eche egli ama, come Cristo Gesù stesso li ama. La loro caritàdunque cresca continuamente, affinché il giorno dell’avvento diGesù, colmi di buone opere, rendano gloria a Dio.

«Se noi siamo attaccati ai beni che dipendono da Cesare, dice S. Ilario, non possiamo lamentarci dell’obbligo di rendere a Cesare quello che è di Cesare; ma dobbiamo anche rendere a Dio quello che gli appartiene in proprio, cioè consacrargli il nostro corpo, l’anima nostra, la nostra volontà» (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps. CXXIX: 3-4

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Ps CXXIX: 1-2

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: O Signore, esaudisci la mia supplica.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Oratio

Orémus.

Deus, refúgium nostrum et virtus: adésto piis Ecclésiæ tuæ précibus, auctor ipse pietátis, et præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.

[Dio, nostro rifugio e nostra forza, ascolta favorevolmente le umili preghiere della tua Chiesa, Tu che sei l’autore stesso di ogni pietà, e fa che quanto con fede domandiamo, lo conseguiamo nella realtà.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses

Phil I: 6-11

“Fratres: Confídimus in Dómino Jesu, quia, qui cœpit in vobis opus bonum, perfíciet usque in diem Christi Jesu. Sicut est mihi justum hoc sentíre pro ómnibus vobis: eo quod hábeam vos in corde, et in vínculis meis, etin defensióne, et confirmatióne Evangélii, sócios gáudii mei omnes vos esse. Testis enim mihi est Deus, quómodo cúpiam omnes vos in viscéribus Jesu Christi. Et hoc oro, ut cáritas vestra magis ac magis abúndet in sciéntia et in omni sensu: ut probétis potióra, ut sitis sincéri et sine offénsa in diem Christi, repléti fructu justítiæ per Jesum Christum, in glóriam et laudem Dei”.

(“Fratelli: Abbiam fiducia nel Signore Gesù, che colui il quale ha cominciato in voi l’opera buona la condurrà a termine fino al giorno di Cristo Gesù. Ed è ben giusto ch’io nutra questi sentimenti per voi tutti; poiché io vi porto in cuore, partecipi come siete del mio gaudio, e nelle mie catene, e nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Mi è, infatti, testimonio Dio come ami voi tutti nelle viscere di Gesù Cristo. E questa è la mia preghiera: che il vostro amore vada crescendo di più in più in cognizione e in ogni discernimento, si da distinguere il meglio, affinché siate puri e incensurati per il giorno di Cristo, ripieni di frutti di giustizia, mediante Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”).

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

LA PROPAGAZIONE DELLA FEDE

I Filippesi, fin dai primi giorni della loro conversione coadiuvarono S. Paolo a propagare il Vangelo, mettendolo in grado, con i loro aiuti, di poter diffonderlo con maggiore facilità. Ora l’Apostolo mostra la sua riconoscenza, ringraziando Dio, e pregandolo di concedere il dono della perseveranza in questa cooperazione, e soprattutto il dono della propria santificazione ai cari Filippesi, sempre fedelmente a lui uniti nelle sofferenze, e nei lavori dell’apostolato. Egli prega che la loro carità progredisca continuamente, e che pervengano tutti alla piena conoscenza della verità e al pieno discernimento di ciò che devono fare; così che al giorno del giudizio vengano trovati irreprensibili, ricolmi di buone opere che ridondino a gloria di Dio. Noi posiamo imitare lo zelo dimostrato dai Filippesi nella propagazione del Vangelo, favorendo l’Opera della Propagazione delle fede.

1. E’ un’opera buona,

2. Voluta, dal nostro dovere e dal nostro interesse.

3. Si favorisce con opere e con preghiere.

1.

S. Paolo chiama opera buona lo zelo dimostrato dai Filippesi nella causa della propagazione del Vangelo. Nessuno vorrà mettere in dubbio questa affermazione. È un’opera buona che deve stare a cuore anche ai fedeli dei nostri giorni. – Gesù Cristo ha comandato ai discepoli, che andassero a portare il suo Vangelo in tutte le parti della terra, facendolo pervenire a ogni creatura, nessuna esclusa. I discepoli si misero all’opera; ma non poterono compierla, e non la compirono neppure i loro successori. Ancora due terzi degli uomini sono ignari del Vangelo. L’opera della Chiesa prosegue ancora, e proseguirà sempre, finché il Vangelo non sia pervenuto a ogni creatura. È un’opera voluta da Dio; è l’opera di Dio; è la missione ufficiale da lui affidata alla sua Chiesa. Gesù Cristo è il Buon Pastore. Il suo gregge dev’essere formato di tutte le nazioni della terra. Ma non tutti sono entrati nel suo ovile, non tutti provano la dolcezza di chi si trova sotto la sua guida e ascolta la sua voce. «Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche quelle bisogna che io conduca; e daranno ascolto alla mia voce, e si farà un solo ovile e un solo pastore » (Giov. X, 16). L’opera della Propagazione della Fede procura appunto l’adempimento di questo voto di Gesù Cristo. Va dovunque in cerca di pecorelle da condurre all’ovile dell’unico pastore, ove saranno guidati dalla sua voce, e saziati dall’abbondanza delle sue grazie. – Gesù Cristo è la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo; ma gli infedeli questa luce non l’hanno ancora ricevuta. Essi vanno brancolando tutt’ora nelle tenebre dell’errore. Per le anime degli infedeli, come per le anime nostre, Gesù Cristo ha versato il suo sangue. Quelle anime sono proprietà sua, ma intanto sono escluse dal suo regno. Esse sono create per la felicità eterna, ma sono fuori della via che ve li conduce. Dio, nella sua sapienza e potenza, potrebbe certamente estendere in un lampo il suo regno a tutti gli uomini; ma Egli nei suoi imperscrutabili disegni ha stabilito, che il suo regno venga propagato gradatamente, tra contrasti, per mezzo degli uomini. – Per mezzo della predicazione degli uomini si accoglie la fede. Per mezzo degli uomini si amministra il Battesimo che introduce nella Chiesa. Per mezzo degli uomini, nel sacramento della Penitenza, si vien dichiarati sciolti dalla colpa. In una parola, la salvezza delle anime si procura per mezzo del ministero degli uomini. Si può dare opera più commendevole, di quella che aiuta gli operai del Signore a salvare le anime? No! «Nulla è paragonabile all’anima, neppure il mondo intero. Perciò, se tu distribuissi ai poveri ricchezze immense, non faresti tanto, quanto colui che converte un’anima sola» (S. Giov. Cris. In Ep. 1 ad Cor. Hom. 3, 5).

2.

S. Paolo assicura ai Filippesi: io vi porto nel cuore, partecipi come siete del mio gaudio. Quasi invidiamo la sorte dei Filippesi, che avevano parte al gaudio e ai meriti dell’Apostolo nella propagazione del Vangelo. Partecipare al gaudio e ai meriti di quanti lavorano per la propagazione e il consolidamento della Fede dev’essere premura di tutti quelli che conoscono il proprio dovere e il proprio vantaggio.Noi ci rivolgiamo frequentemente a Dio con la invocazione «Venga il tuo regno». Questa invocazione importa certamente, da parte nostra, l’impegno di far quanto ci è possibile, perché la domanda sia esaudita. Se noi, potendo fare qualche cosa per l’avvento e la dilatazione di questo regno, rimaniamo inerti, siamo dei burloni. Per noi varrebbe l’osservazione che, a proposito della fede senza le opere, fa San Giacomo: «Se un fratello e una sorella sono ignudi e mancanti del pane quotidiano, e uno di voi dica loro : — Andate in pace, riscaldatevi, e satollatevi —, senza dar loro il necessario alla vita a che giova cotesto?» (II, 15-16). – A ogni passo del Vangelo ci è inculcata la carità del prossimo. Nessun dubbio che l’obbligo della carità non devi limitarsi al corpo. Si deve, anzi, dare la preferenza a ciò, che, perduto, non si può più riacquistare, a ciò che, acquistato, porta con sè beni incalcolabili. Nessun bene è certamente paragonabile all’anima. Ce l’assicura Gesù Cristo stesso: «Che darà l’uomo in cambio dell’anima sua?» (Matt, XVI, 26). Aiutando i missionari avremo ottima occasione di compiere il nostro dovere della carità verso il prossimo in ciò che maggiormente gli è necessario, nel salvar l’anima. Il Salvatore, dando istruzioni ai discepoli sulla loro missione di predicatori del Vangelo, aggiunge: «Chiunque avrà dato da bere un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi più piccoli, solo a titolo di discepolo: in verità vi dico non perderà la sua ricompensa» (Matt. X, 42). Chi non dovrebbe essere invogliato dalla grandezza di un premio tale? Ricevere il premio dell’apostolo che si porta a propagare il Vangelo tra gli infedeli? «Invero, quando egli predica, e tu cerchi di coadiuvarlo e favorirlo, le sue corone sono anche le tue (S. Giov. Crisost. In Epist. ad Philipp. Hom. 1, 2). I Santi, pregavano essi, e chiedevano le preghiere anche degli altri. Noi non abbiam sicuramente minor bisogno di preghiera che. i santi. Favorendo lo sviluppo delle missioni, impegniamo la preghiera di animi riconoscenti. I novelli convertiti, pregheranno per i loro benefattori, per quanti hanno cooperato alla loro conversione, quando gusteranno la felicità d’essere entrati nel grembo della Chiesa cattolica: pregheranno per i loro benefattori, quando andranno a godere la vita eterna. Le preghiere ardenti dei neofiti devono avere molto efficacia, se S. Paolo domanda continuamente preghiere a quelli che ha convertito alla fede.

3.

I Filippesi coadiuvarono l’Apostolo nella difesa e nel consolidamento del Vangelo, condividendo con lui travagli e sofferenze. Perciò dice loro ehe sono partecipi, e nelle… catene, e nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Per interessarsi praticamente delle missioni occorrono sacrificio e preghiera. Gesù Cristo, ai discepoli che devono predicar la fede, dice senza ambagi: «Ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi… E sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (Matth. X, 16 … 22). E i discepoli partirono indifesi come pecore, furono perseguitati, messi a morte. E il sacrificio conquistava le anime. L’Apostolo fa notare ai Filippesi che la sua prigionia a Roma, con tutte le relative conseguenze, contribuiva a far conoscere maggiormente il Vangelo (Fil. I, 12-13). I successori degli Apostoli e dei primi discepoli che continuano a conquistare il mondo a Gesù Cristo, non camminano per altra via che quella dei sacrifici. Abbandonano patria, ricchezze, parenti, amici, forse uno splendido avvenire; si portano indifesi, tra popoli barbari con la previsione di ogni privazione e di grandi difficoltà, non osservati dal gran mondo, anzi, considerati come disillusi, spiriti poveri. Essi non si scoraggiano: il crocifisso, che fu loro consegnato alla partenza, ricorda in che modo fu compiuta la redenzione del genere umano. – Anche noi dobbiamo sottoporci a qualche sacrificio, a qualche privazione. Quando Mons. Comboni, già vescovo, riparte da Verona per l’Africa con missionari e catechisti, è accompagnato alla stazione dal vecchio padre. Il figlio chiede la benedizione al padre, e il padre al figlio, Vescovo. E nell’abbracciarlo esclama: « Mio Dio, non ho che un figlio, e a Voi lo dono di cuore; ma se ne avessi anche molti, tutti li consacrerei a Voi per la vostra gloria e per la salvezza delle anime da Voi redente ». E il Vescovo a sua volta: «Mio Dio, lascio mio padre, forse per non vederlo più… ma ne lascerei cento, se potessi averne tanti, per servir voi mio Padre Celeste, e fare la vostra volontà». E salì in treno e pianse (M. Grancelli — Mons. Daniele Comboni – Verona 1823). Davanti a queste eroiche rinunce che cosa sono le piccole rinunce che noi dovremmo fare per soccorrere i missionari? Essi si privano di tutto, sarà troppo per noi privarci di qualche divertimento, di qualche spesa superflua per concorrere alla salvezza delle anime? Quanti danari in lusso, in divertimenti, in baldorie, che potrebbero essere spesi in aiuto degli Apostoli! Dopo tanti secoli par fatto per i nostri giorni il lamento di S. Leone Magno : «Mi vergogno a dirlo, ma non si può tacere: si spende più per i demoni che per gli Apostoli» (Serm. 84, 1). I vecchi missionari sono concordi nell’insegnare ai novelli operai del campo evangelico, che i pagani vengono alla fede più per la preghiera che per la predicazione. La cosa, del resto, è molto spiegabile. Chi piega i cuori è Dio. Egli si serve dell’opera del missionario, che dissoda, pianta, irriga, ma i frutti non si hanno senza il concorso della sua grazia. All’elemosina, alle piccole privazioni, alle rinunce che ci rendono possibile l’aiuto materiale, aggiungiamo la preghiera. Non potrai sopportare il digiuno, non potrai dormire per terra, non potrai ritirarti nella solitudine; potrai, però, sempre pregare. Se non si potesse pregar da tutti, il Signore non avrebbe imposto a tutti l’obbligo di pregare. E quel Signore che ha fatto obbligo di pregare ha anche detto: «pregate il padrone della messe che mandi operai nella sua vigna» (Matt. IX, 38). Preghiera necessaria, perché comandata da Dio, preghiera urgente perché « molta è la messe di Cristo e gli operai sono pochi e con difficoltà si trova chi aiuti » (S. Ambr. Epist. 4, 7, ad Fel.). Che un giorno non ci assalga il rimorso di aver lasciate perire delle anime, che potevano essere salvate con il nostro concorso! Ci conforti, invece, all’avvicinarsi dell’ultima ora, la voce dei pagani convertiti che ci ricorderanno: La tua elemosina e la tua preghiera ci hanno sottratti al regno di satana, ci hanno introdotti nella casa del Signore; ci hanno procurato un bene immenso. Il Signore ti sarà benigno: chi fa bene, bene aspetti.

Graduale

  Ps CXXXII: 1-2

Ecce, quam bonum et quam jucúndum, habitáre fratres in unum!

[Oh, come è bello, com’è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme!]

V. Sicut unguéntum in cápite, quod descéndit in barbam, barbam Aaron.

[È come l’unguento versato sul capo, che scende alla barba, la barba di Aronne. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXIII: 11

Qui timent Dóminum sperent in eo: adjútor et protéctor eórum est. Allelúja.

[Quelli che temono il Signore sperino in Lui: Egli è loro protettore e loro rifugio. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt XXII: 15-21

In illo témpore: Abeúntes pharisæi consílium iniérunt, ut cáperent Jesum in sermóne. Et mittunt ei discípulos suos cum Herodiánis, dicéntes: Magíster, scimus, quia verax es et viam Dei in veritáte doces, et non est tibi cura de áliquo: non enim réspicis persónam hóminum: dic ergo nobis, quid tibi vidétur, licet censum dare Caesari, an non? Cógnita autem Jesus nequítia eórum, ait: Quid me tentátis, hypócritæ? Osténdite mihi numísma census. At illi obtulérunt ei denárium. Et ait illis Jesus: Cujus est imágo hæc et superscríptio? Dicunt ei: Caesaris. Tunc ait illis: Réddite ergo, quæ sunt Caesaris, Caesari; et, quæ sunt Dei, Deo.

( “In quel tempo, i Farisei ritiratisi, tennero consiglio per coglierlo in parole. E mandano da lui i loro discepoli con degli Erodiani, i quali dissero: Maestro, noi sappiamo che tu sei verace, e insegni la via di Dio secondo la verità, senza badare a chicchessia; imperocché non guardi in faccia gli uomini. Spiegaci adunque il tuo parere: È egli lecito, o no, di pagare il tributo a Cesare? Ma Gesù conoscendo la loro malizia, disse: Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo. Ed essi gli presentarono un danaro. E Gesù disse loro: Di chi è questa immagine e questa iscrizione? Gli risposero: Di Cesare. Allora egli disse loro: Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”).

OMELIA II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la restituzione.

Reddite quæ sunt Caesaris Cæsari, et quæ sunt Dei Deo.

Ammiriamo, fratelli miei, la risposta piena di saviezza che Gesù Cristo fa nell’odierno vangelo alla domanda dei Farisei sull’obbligo di pagar il tributo a Cesare: Questa nazione perfida ed in credula aveva tentato più volte di sorprendere Gesù Cristo nei suoi discorsi e nelle sue azioni, affine di trovarvi motivi di condannarlo; ma l’eterna sapienza li aveva sempre confusi. Fanno essi tuttavia in quest’oggi un nuovo tentativo, e gli propongono una questione tanto più fraudolenta, quanto che in qualunque modo egli la decida, deve cadere nulle insidie. Se risponde che si deve pagare il tributo a Cesare, egli si dichiara nemico della nazione giudaica, che si pretendeva esente. Se Gesù Cristo risponde che non si deve pagare questo tributo, egli va contro gl’interessi dell’imperatore e si fa credere un sedizioso. Che farà dunque egli in sì delicata congiuntura? Senza dichiararsi contro il popolo, insegna loro quel che devesi ai principi della terra. Perché tentarmi, ipocriti, loro disse? Recate una moneta e ditemi di chi è la figura e l’iscrizione? Di Cesare, risposero essi. Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare, ed a Dio quel che è di Dio: Reddite ergo quæ sunt Cæsaris Cæsari, et quae sunt Dei Deo. Io mi servo quest’oggi dei termini della domanda e della risposta che Gesù Cristo fece ai Giudei, per proporvi e decidere una questione sulla quale assaissimo importa che voi siate istruiti. A chi appartiene quella roba, quel danaro che possedete? Cuìus est imago hæc? Se li avete acquistati con legittimo titolo, se è retaggio dei vostri antenati o fruttodello vostre fatiche, con conservate quel che la provvidenza vi ha dato; ma se questi, beni son frutto di rapino, se vi riconoscete qualche cosa che non sia vostra, se avete cagionato qualche danno ad altri, rendete a Cesare ciò che odi Cesare, restituite quella roba mal acquistata, risarcite quel danno che avete recato: Reddite, etc. Di già, fratelli miei, voi comprendete su di che voglio ragionarvi; sull’obbligo di restituire, obbligo dei più importanti, obbligo di una vasta estensione, che nulladimeno è molto male osservato: obbligo importante, voi lo vedrete per i motivi che v’inducono a compirlo; obbligo d’una vasta estensione a cagion del gran numero d’ingiustizie che si commettono nel mondo; obbligo molto male osservato, voi lo vedrete per le regole che seguir si debbono per adempierlo. Per rinchiudere in poche parole tutto il mio disegno: quanto è grande l’obbligo di restituire? Primo punto. Quanti sono incaricati di quest’obbligo? Secondo punto. Come dobbiamo adempierlo? Terzo punto.

I. Punto. La restituzione è un atto di giustizia con cui si rimette il prossimo in possesso di una cosa che gli è stata tolta, o col quale si ripara il danno che gli è stato cagionato. Basta essere rischiarato dal lume della ragione per essere convinto dell’obbligo di restituire la roba altrui, e di riparare il torto che gli è stato fatto. Che c’insegna infatti questa retta ragione? Che non bisogna fare ad altri quel che non vorremmo fosse fatto a noi. Or noi non vorremmo che altri s’impadronisse ingiustamente dei nostri beni, che ci portasse danno in quello che ci appartiene; noi ci lamentiamo quando altri ci fa qualche torto; quei medesimi che ne fanno agli altri sono i primi a condannare coloro che non sono gli autori. Si è dunque con altrettanto d’equità che di sapienza che Dio ha fatto un comandamento espresso di non rubare: Non furtum facies. Poiché dall’osservanza di questo comandamento dipende il buon ordine delle vita, e perché, se fosse permesso d’impadronirsi indifferentemente dell’altrui, nulla sarebbe in sicuro, tutto l’universo sarebbe nel disordine; ciascuno, secondo le naturale avidità che ha sì per la roba, spoglierebbe arditamente il suo vicino di quel che avesse legittimamente acquistato o per successione dei suoi antenati o con un penoso lavoro; i più poltroni ed i più arditi sarebbero i più felici. Or se v’è un comandamento che ci proibisce d’impadronirsi dell’altrui, àvvene per conseguenza uno che ci prescrive di restituirlo, o per meglio dire, la medesima legge che ci proibisce il furto, ci comanda di ripararlo con la restituzione; mentre non restituire allorché abbiamo rubato si è fare torto al prossimo, si è continuare l’azione vietata dal comandamento: Non furtum facies. V’è dunque obbligo di restituire quando abbiamo dell’ altrui o quando abbiamo fatto qualche ingiustizia: obbligo fondato sul diritto naturale e sulla necessità della nostra eterna salute, che ne dipende: obbligo dei più indispensabili e che non soffre scusa di sorta. – Ella è una verità incontrastabile della nostra santa religione che non si può andar salvo senz’aver ottenuto il perdono del suo peccato, perché nulla d’imbrattato può entrare nel cielo. Or il peccato non vien rimesso, dice s. Agostino, se non restituisce quel che si è rubato: Non remiltitur peccatum, nisi restituatur ablatum. Il cielo non è pei ladri, dice l’Apostolo s. Paolo; chiunque è carico dell’altrui non entrerà giammai in quel felice soggiorno se non l’abbia restituito. Qualunque bene faceste voi d’altronde, qualunque virtù praticaste; se avete qualche restituzione a fare, cui manchiate per colpa vostra, tutte le vostre buone opere, tutte le vostre virtù a nulla vi serviranno. Passate pure la maggior parte di vostra vita nell’orazione, castigate il vostro corpo con le mortificazioni più austere, fate limosine abbondanti, soffrite anche il martirio come i difensori della fede; se voi morite senza aver soddisfatto a qualche restituzione di cui siete incaricati, le fiamme eterne dell’inferno saranno la vostra porzione. E perché mai? Perché avete mancato ad un punto essenziale che Dio domandava da voi, che era di adempiere a riguardo del prossimo i doveri della giustizia, doveri sì stretti che nulla può dispensacene. I Sacramenti medesimi, qualunque virtù abbiano per santificare e salvare gli uomini, non saranno giammai per voi strumenti di salute sinché non avrete soddisfatto all’obbligo di restituire. Voi potete ottenere il perdono dei vostri peccati in virtù del potere che i sacerdoti han ricevuto di assolvere i peccatori; ma il potere di questi sacerdoti non si estende a liberarvi dai doveri di giustizia a riguardo del prossimo. Quando essi vi rimettono i vostri peccati lo fanno a condizione che ripariate quelle ingiustizie: qualunque contrizione ne abbiate voi concepita ella non è accetta a Dio, se non se in quanto rinchiude il proponimento di soddisfare al prossimo, se voi gli avete fatto qualche danno. Intendete voi questo linguaggio, ingiusti usurpatori dell’altrui? Si è il linguaggio del vangelo di Gesù Cristo. Se voi nol credete, rinuncia alla religione; egli è inutile che vi accostate ai sacramenti, che frequentiate i santi misteri, che vi frammischiate tra i Cristiani e che facciate professione di esserlo, perché il Cristianesimo non soffre veruna ingiustizia, il paganesimo stesso le condanna. Ma se voi credete ciò che la religione v’insegna su questo articolo, voi siete insensati a perdere la vostr’anima, che vale più che tutti i beni del mondo, per beni che non porterete con voi; siete ciechi a perdere una felicità eterna e a precipitarvi in un abisso di miserie, per non voler rilasciare un danaro, un bene che non vi appartiene. Or perdere la vostr’anima o perdere quel bene; o restituire o esser condannato. Or non è forse meglio esser povero e miserabile per qualche tempo, e felice durante l’eternità, che rendersi eternamente infelice per aver posseduto qualche tempo dei beni di cui non resterà che una trista rimembranza? Perdete dunque piuttosto tutto il vostro danaro, dice s. Agostino, che perdere la vostr’anima: Perde pecuniam, ne perdas animam. Tale è la conseguenza, fratelli miei, che voi dovete tirare dai principi che abbiamo ora stabiliti. Io non dubito che voi non siate interamente interamente convinti di quest’obbligo; ma si tratta di ridurlo in pratica. Condanniamo il furto negli altri e sovente siamo colpevoli noi stessi d’ingiustizie cui non pensiamo a rimediare. Siamo eloquenti a provar l’obbligo di riparar il torto che ci è stato fatto; ma non siamo più fedeli a compiere questo dovere e riguardo degli altri. Quanti pochi vi ha che facciansi giustizia su questo punto! Si ode parlare di furti, di rapine, di ladronecci: non vi lamentate voi medesimi tutti i giorni dei danni che vi si fanno? Ma si ode forse parlar di restituzione? Ne chiamo in testimonio coloro tra voi cui è stato recato pregiudizio. Ne avete voi molti che vi abbiano soddisfatto su questo punto? Donde vien dunque, fratelli miei, che si fanno poche restituzioni? S’ignora forse l’obbligo di farle? No senza dubbio: ma una perversa avidità per li beni del mondo sembra dare dei diritti su quello che uno non possiede; si vogliono ricchezze, e per questo non sa egli metter limiti a’ suoi desideri, ed usa tutti i mezzi possibili di accumularne; sieno poi giusti o ingiusti questi mezzi, poco importa, purché si venga destramente a capo dei propri disegni e si risparmi la vergogna di esser tenuto per ladro, purché si schivino i castighi con cui la giustizia degli uomini punisce questo peccato, non si bada più che tanto a rendersi colpevole avanti a Dio; e dacché una volta taluno si è impadronito dell’altrui e l’ha per qualche tempo posseduto, lo riguarda come suo proprio; il reo attacco che ha per esso fa che non possa risolversi a rilasciarlo, trova delle difficoltà per restituirlo, si accieca, si fa una falsa coscienza o soffoca i rimorsi che prova su questo soggetto; sopra vani pretesti egli si dispensa dal restituire; or è un possesso che egli riguarda come un giusto titolo, or un bisogno che ha di quei beni per aiutare la famiglia che teme impoverisca, talora il disonore onde si ricoprirebbe confessandosi colpevole d’ingiustizia colla riparazione che ne farebbe; finalmente l’impossibilità in cui crede essere di adempier quest’obbligo. Tali sono, fratelli miei, i sotterfugi dell’ingiustizia, le vane scuse che si allegano per esentarsi dalla restituzione, all’ombra delle quali si crede taluno in sicurezza della salute; ma pretesti e scuse frivole che non prevarranno giammai alla stretta legge della restituzione. – Non nego che il possesso dell’altrui e l’impossibilità possano dispensare dalla restituzione. Ma qual possesso? Egli dee essere un possesso di buona fede, ed ancora dee avere il tempo prescritto dalle leggi: un possesso di malvagia fede, per quanto lungo possa essere, non sarà giammai un titolo per ritenere l’altrui. Similmente un’impossibilità assoluta sospende la restituzione sinché essa dura, e non già quando cessi, e si venga in istato di risarcire il danno che siasi recato. Ma nella maggior parte di coloro che non restituiscono l’impossibilità che allegano a farlo è un’impossibilità chimerica, la quale non sussiste che nella fantasia. Io ho bisogno, dice taluno, di quella roba per vivere, non posso restituirla senza privarmi del necessario, diverrò povero, rovinerò la mia famiglia. Ma quegli cui voi avete tolta quella roba non ne ha forse egual bisogno di voi? È forse giusto che ne sia privo egli piuttosto che voi, che vi conserviate in una condizione agiata a sue spese? se la condizione cui siete innalzati è il frutto delle vostre ingiustizie, fa d’uopo abbandonarla; se non lo è, convien risparmiare e diminuir le spese per restituire quel che non v’appartiene. Voi temete, mi dite, d’impoverire e di rovinar la vostra famiglia; ma avete voi diritto di vivere a vostro agio e di nutrire la vostra famiglia con ciò che non è vostro? Amate voi meglio esser ricchi in questo mondo e lasciar ricchi eredi, per esser infelici nell’altro, che viver poveri e non lasciare pingui eredità ai vostri figliuoli, per salvar l’anima vostra? In mezzo alle fiamme dell’inferno, ove alla vostra morte sarete condannati, sareste voi molto consolati dalla rimembranza dei beni che avrete posseduto sulla terra, e dei ricchi eredi che profitteranno delle vostre ingiustizie, rimembranza di cui non vi resterà che la pena e i castighi? Che v’impedisce di fare le debite restituzioni e conservare il vostro onore, usando dei mezzi che la prudenza v’ispirerà per render al prossimo quel che gli appartiene? Se non potete far subito la restituzione intera, procurate almeno e con i risparmi’ e con il lavoro di soddisfare poco a poco; prendete una via d’accomodamento, se si può, purché la frode e la violenza non v’abbiano alcuna parte, perché la cessione in tal caso accordata, non essendo libera, non vi sgraverebbe punto dall’obbligo che avete. Vediamo ora chi sono gli obbligati a restituire.

II. Punto. Io non prenderò qui, fratelli miei, a fare un racconto esatto di tutte le ingiustizie che si commettono nel mondo; necessari sarebbero più discorsi per farle conoscere. Quel che può dirsi in generale si è che l’ingiustizia regna quasi in tutte le condizioni della vita. Non è solamente nelle foreste e sulle strade che abitano gli uomini rapaci: se ne trovano quasi in tutte le società del mondo; ve ne sono nelle campagne, nelle città; si commettono del furti nei luoghi pubblici e nelle case dei privati; l’ingiustizia e l’adulterio, come diceva altre volte un profeta, si sono sparsi come un diluvio sulla superficie della terra: Furtum et adulterium inundaverunt (Osea IV). Per convincervene con una descrizione tal quale i limiti d’un discorso me la permettono, bisogna distinguere coi teologi tre principi donde nasce l’obbligo di restituire. Siamo obbligati a restituire: o a cagione dell’altrui che possediamo, o a motivo dell’ingiusta usurpazione che ne abbiamo fatta, o per lo danno che abbiamo cagionato.

1°. Siamo obbligati alla restituzione a cagion dell’altrui che possediamo, sia che lo possediamo con mala fede sia che lo possediamo con buona fede. Il possessore di buona fede, cioè colui che possiede l’altrui roba credendo essere sua propria, è obbligato alla restituzione quando riconosce che quella non gli appartiene, che il suo possesso non ha durato il tempo prescritto dalle leggi per esser legittimo o non ha perduto quella roba durante la sua buona fede. Voi avete comprata una cosa rubata da uno che ne credete il padrone, e venendo a riconoscerne il padrone legittimo, siete obbligati a restituirgliela: voi avete ricevuto dai vostri padri beni che riconoscete mal acquistati; bisogna restituirli a chi appartengono, o se non potete scoprire il padrone, potete impiegarli secondo la sua presunta intenzione. Ora vi ha forse di quelli che vogliono spogliarsi di quello che hanno acquistato con buona fede, quando riconoscono che appartiene ad un altro? Perché, dicono essi, mi priverò io di una cosa che non ho acquistato con ingiustizia? Tocca a coloro che han fatto l’ingiuria a ripararla, io non ne ho fatto ad alcuno, poiché era in buona fede. No, voi non avete fatta alcun’ingiustizia nell’acquisto, ma tosto che riconoscete che la roba appartiene ad un altro fate un’ingiustizia ritenendola; siete obbligati di restituirla. Oimè! quanti vediamo noi al giorno d’oggi innalzati ad un’alta fortuna, di cui si potrebbe trovare l’origine nell’ingiustizia e nella malvagia fede di coloro che hanno lasciati loro quei beni; principalmente quando sono fortune assai rapide. Perciocché egli è ben difficile, dice lo Spirito Santo, arricchirsi in poco tempo e conservare la innocenza. Qui festinat ditari non erit innocens (Prov. XXVIII) . Non si diventa ordinariamente ricco in poco tempo che per avere o usurpato destramente l’altrui o esatto da una professione diritti che non erano dovuti; per avere esercitati certi impieghi nei quali si è trovato il segreto di fare guadagni eccessivi; per avere profittato della miseria altrui, come fanno certi uomini avidi, che ammassando tutte le derrate di un paese, vi cagionano orribili carestie e con questo obbligano gli altri a comperarle da essi a prezzi esorbitanti; il che è espressamente vietato dallo Spirito Santo, che minaccia della sua maledizione questa razza d’uomini: Qui abscondit frumenta, maledictus (Prov. XI). Io rimando dunque al tribunale della coscienza questi pretesi possessori di buona fede di certi beni, che sono stati da essi o dai loro padri accumulati in poco tempo, per esaminare avanti a Dio se le loro ricchezze fossero per avventura spoglie altrui, i frutti dell’usura, la sostanza della vedova, del povero e del pupillo; e se non vi riconoscono un possesso legittimo, li rendano, li restituiscano, altrimenti niuna salute per essi. – Veniamo ai possessori di malvagia fede, cioè a coloro che ritengono l’altrui con piena cognizione e contro la testimonianza della propria coscienza. Quanti che si ostinano su di questo! Sanno pur essi che la roba che posseggono non appartiene loro, e non possono risolversi a restituirla; bisogna che il padrone legittimo faccia dei passi e s’affanni, che li chiami avanti ai tribunali; bisogna che, suo malgrado, susciti una lite, che faccia dei viaggi, delle spese per ritirar il suo dalle mani d’un possessore ingiusto e farsi pagare da un malvagio debitore. Imperciocché quanti ve ne ha di questa sorta i quali non pensano in niuno modo a soddisfare un creditore se non venga loro domandato, e non siano obbligati per le vie del rigore! Quanti ricchi che mantengonsi in lusso alle spese d’un mercante, che vivono sul credito di coloro che somministrano loro gli alimenti, e non possono averne per pagamento che rifiuti, o al più al più delle promesse, le quali non si effettuano che più tardi che si può; mentre d’altra parte essi a nulla perdonano di ciò che può appagare la sensualità e la vanità! Quanti che procurano di nascondere una parte dei loro debiti, che non hanno difficoltà, quando possono, di frustrare dei loro diritti coloro cui sono legittimamente dovuti, perché altri non s’accorga della loro ingiustizia! Ah! fratèlli miei, investigate ben bene su di ciò il fondo del vostro cuore ed esaminate se avete sempre pagato esattamente quel che dovevate, se non avete ingannato, occultato, usati rigiri per godere di ciò che non vi appartiene. Qual è l’uomo irreprensibile su questo punto? Quis est hic, et laudabimus eum (Eccli. XXXI)? Non si ascolta che troppo spesso la voce della cupidigia più tosto che quella della giustizia, ed è ciò che cagiona tanta malvagia fede tra gli uomini, che rende l’ingiustizia sì comune, e sì rara la restituzione non solamente dei possessori dell’altrui, ma ancora degl’ingiusti usurpatori: il che si chiama furto o latrocinio. Sotto il nome di furto olatrocinio non bisogna solamente comprendere quelle azioni ingiuste con cui taluno si impadronisce dell’altrui, come fanno i ladri; ma convien intendere ogni sorta d’ingiustizia che fassi al prossimo, tutti i mezzi che si adoprano, tutti gli artifici, tutte le astuzie, tutte le frodi che s’impiegano per appropriarsi l’altrui. Or quante ingiustizie non si fanno nel mondo, nelle campagne, nelle città, nelle case! Ingiustizie nelle campagne, dove si veggono uomini d’una avidità insaziabile che non possono contentarsi nei limiti dei loro poderi, che li ingrandiscono, sia innovandosi su i loro vicini, sia trasportando i termini che li separano al di là del loro punto fisso. I più destri usano dell’ inganno, i più forti della violenza per ottenere un fondo che eccita la loro avidità e che desiderano unire al loro a qualunque siasi prezzo. Voi ne vedete altri che hanno il segreto di fare abbondanti raccolte senz’avere né seminato né lavorato; che nutrono i loro animali sui fondi altrui: non vi lamentate voi sovente del danno che vi si fa in questi differenti casi?Ma ve l’hanno forse risarcito? – Ingiustizie nelle campagne e nelle città tra le persone di commercio, che ingannano vendendo con falsi pesi, con false misure, o cattive merci od oltre al prezzo ragionevole; che comprano a vil prezzo, o a cagione dell’ignoranza d’ un venditore odel bisogno che egli ha di vendere. Quanti monopoli! Quante società in cui uno carica gli altri di tutta la perdita, riservando per sé tutto il profitto! Quante usure, facendo pagar più caro perché si vende a credito! Quante ingiustizie nei contratti per le falsità che vi s’inseriscono, sia nelle date, sia con altre clausole pregiudiziali ad una parte interessata! Tali sono quelli in cui, per toglierle ogni mezzo di ritirare un fondo venduto, si esprime con una somma più considerabile di quella con cui è stato comprato, e che nulladimeno si prende quando l’altro vuole usare dei suoi diritti. – Ingiustizie nei tribunali, dove si vedono litiganti suscitare, senza fondamento, delle liti per ottenere con il favore d’una giudiziale sentenza ciò che loro non è dovuto.- E Come questo? Perché essi sanno inventare raggiri e cavillazioni che i loro competitori non hanno prevedute; perché sono molto potenti in danaro ed in credito per opprimere quelli che non possono loro opporre che una debole resistenza. Così accade sovente che un povero Nabot perde l’eredità de’ suoi padri, invidiatagli dal ricco Acab, a cui è obbligato di cederla, o per una sentenza ingiusta o per un accomodamento irragionevole, che la parte più debole accetta senza esitare, per mettersi al coperto dalle vessazioni ancora più funeste. Sentenze ingiuste, accomodamenti forzati, di cui l’usurpatore si fa un titolo legittimo, ma che non lo giustificano avanti a Dio, il quale conosce l’iniquità del suo procedere. – Si è ancora avanti ai tribunali della giustizia che si vedono comparire falsi testimoni, i quali guadagnati col danaro o ritenuti dal timore tradiscono la verità, affermano la menzogna e portano all’innocente i colpi più funesti. Si è avanti a questi tribunali che sostenere si vedono cause inique, in cui sono state impegnate le parti mal a proposito: dove le buone ragioni soccombono sotto il peso delle raccomandazioni, o pure sono ritardate da una molteplicità di scritture, di nuove istanze, che s’inventano per arricchirsi a costo d’una parte che soffre, che si opprime di spese o a cui si fanno pagare diritti che non sono dovuti, e che so io? E che non direi ancora, se il tempo me lo permettesse? – Ingiustizia nelle case dei privati, dove si vedono i padri di famiglia consumare in bagordi ed in giuochi beni di cui essi non hanno che l’amministrazione; altri che obbligano con violenza le mogli a ceder le loro pretensioni; si veggono delle mogli che dissipano in folli spese beni che loro non appartengono, dei figliuoli che rubano ai padri e alle madri, che prendono nella comune eredità tutto ciò che credono poter servire a contentare la loro vanità, a somministrare ai loro piaceri. Qui io veggo padroni che non pagano i salari dei loro servitori, che li fanno soffrire con ingiuste dilazioni, che ritengono o in tutto o in parte lo stipendio agli operai, peccato enorme che grida vendetta al cielo contro coloro che sene rendono colpevoli: Ecce merces operariorum clamat, et clamor eorum in aures Domini introivit (Jac. V). Là scorgo servi che rubano ai loro padroni sotto pretesto che non sono sufficientemente pagati; operai che non lavorano fedelmente o per difetto del tempo che dovrebbero impiegar nel lavoro, o per la cattiva qualità della materia che v’impiegano, o pure che mettono troppo tempo a fare quel che potrebbe esser fatto più presto, o finalmente che inducono a fare spese inutili coloro che li impiegano al lavoro. – Possiamo dunque dire con tutta verità, fratelli miei, che vi sono ben molti colpevoli d’ingiustizia ed obbligati alla restituzione per li furti e latrocini che si commettono nei diversi stati delta vita. Ma vi è un terzo titolo di restituzione: il danno che si reca al prossimo. – Si può cagionar danno al prossimo direttamente o indirettamente, cioè per sé stesso o per mezzo altrui; per sé stesso, distruggendo il bene che egli ha, o impedendogli ingiustamente d’ acquistare quel che non ha. Gli si cagiona del danno per mezzo d’altrui quando s’induce qualcheduno a fargliene, e allorché non s’impedisce quando vi è obbligo. Non fa bisogno, fratelli miei, né il tempo lo permette, di far conoscere le diverse ingiustizie che si commettono cagionando del danno al prossimo nei suoi beni. Coloro che sono colpevoli in questo punto lo conoscono abbastanza da sé. Io parlo solamente di quella che regna nella comunità, nella distribuzione delle imposizioni edei pubblici carichi. Coloro che vi si sono preposti per farle caricano gli uni più che gli altri, senza consultare le proporzioni dei beni. Quante trame per far cadere i voti di un impiego onoroso sopra alcuni oincapaci di sostenerlo oche non sono ancora obbligati di accettarlo! Quindi il torto fatto alla comunità o a coloro che sono incaricati di si fatti impieghi ordinariamente pregiudiziali; quindi l’obbligo di restituire; ma chi pensa a farle? Si porta ancora del danno al prossimo impedendogli per vie ingiuste di acquistare un bene che non aveva e che poteva lecitamente procurarsi, attraversando con frode e con violenza un disegno che gli era favorevole. – Voi allontanate una persona ben intenzionata a riguardo di un’altra dal farle del bene, diffamandola appresso di essa servendovi di qualche mezzo ingannevole o violento per impedire la buona volontà del benefattore; con le vostre maldicenze e calunnie voi impedite a quel giovane o a quella figliuola di trovar un partito, a quel servo una condizione, a quell’operaio un posto: voi diffamate quel mercante nel suo negozio con le false accuse che contro di lui intentate. Siete obbligati di rifarli dei danni: ma chi vi pensa? Diventiamo finalmente colpevoli d’ingiustizia ed obbligati alla restituzione quando cooperiamo all’altrui danno. Or gli uni vi cooperano in una maniera positiva, gli altri in una maniera negativa. I primi sono coloro che raccomandano, che consigliano, che consentono, che favoreggiano le ingiustizie o approvando o dando asilo a quelli che le commettono. Gli altri sono coloro che non le impediscono, che non le manifestano, allorché sono a ciò per dovere obbligati. Nella prima classe io comprendo i padri e la madri, i padroni e le padrone, tutti coloro che hanno qualche autorità, e che se ne servono per cagionare del danno al prossimo col mezzo di quelli che loro sono soggetti, sono obbligati a ripararlo, come se fossero la causa principale: di modo che se non possono restituire quelli che hanno loro ubbidito, sono essi tenuti a riferirli del danno. – Or quanti vi sono padri e madri, padroni, superiori, che inducono i loro figliuoli, i loro servi, i loro inferiori a rubare ciò che non oserebbero togliere per essi, o per lo meno, che, vedendoli recare del danno, non si servono della loro autorità per impedirlo! Quanti si trovano altresì cattivi consiglieri che sollecitano gli altri a nuocere al prossimo, l’inducono a liti inique, insegnano a questi le misure che possono prendere per riuscire in un’ingiusta intrapresa, indicano a quelli il luogo per cui uno deve passare, gli strumenti di cui può servirsi per un furto che esso medita! Quanti che, con le adulazioni e lodi che danno a coloro che han fatto malvage azioni, di bel nuovo ve li inducono! Quanti che coi rimproveri che fanno al nemico di un altro della sua debolezza e timidità, lo portano a vendicarsi, a cagionargli del danno! Si pensa forse a risarcire i danni che sono la conseguenza dei cattivi consigli? No senza dubbio , si lascia quest’obbligo a coloro che li hanno eseguiti, e si dimentica d’esser gravati del peso medesimo. – Lo stesso si deve dire di coloro che danno asilo ai ladri, che custodiscono o comprano le cose rubate, come accade sovente, dai figliuoli di famiglia e dai servi, i quali non prenderebbero sì facilmente, se non trovassero chi il riceve in casa loro o per comprare quello che fan preso o per loro somministrare l’occasione di spendere. Invano, per scusarsi, diranno che se non avessero comprato essi, altri l’avrebbero fatto, oppure che quei figliuoli avrebbero fatte altrove le medesime spese. Non si può giustificare una malvagia azione con l’altrui esempio. Cessiamo forse d’ esser omicidi, perché senza di noi un altro avrebbe commesso quel delitto? No senza dubbio! Vedete la conseguenza nel suo principio. Rinchiudiamo ancora nell’obbligo di restituire coloro che partecipano all’altrui ingiustizia o dando soccorso o profittando dei latrocini. Finalmente quelli che sono incaricati per dovere d’invigilare alla conservazione degli altrui beni, hanno obbligo di restituire, se, vedendo che si reca del danno, non dicono cosa alcuna, non si oppongono, o non manifestano i danneggiatori quando li conoscono; tali sono coloro che coprono impieghi, uffizi che li obbligano alla conservazione delle cose degli altri, o che ricevono stipendi per questo motivo. Ma oimè! fratelli miei, quanti ve ne ha che adempiono il loro dovere? Quanti al contrario ricevono doppia ricompensa, e da coloro cui si fa un danno che dovrebbero impedire, e da quelli che lo fanno, per non opporvisi! Non ho io avuto ragione, fratelli miei, di dire e le ingiustizie sono molto comuni nel mondo? Che non è solamente sulle strade e nelle foreste che si commette il furto , ma che questo peccato regna in quasi tutti gli stati della vita? Contuttociò quanto è comune l’ingiustizia, altrettanto rara è la restituzione. Bisogna forse stupirsi se il numero dei reprobi è così grande, poiché non si può entrare nel cielo con l’altrui, e moltissimi non possono risolversi a lasciarlo quando lo posseggono? Non siate, fratelli miei, di questo numero infelice; se riconoscete nei vostri beni qualche cosa che non vi appartenga, rendetela al più presto; se avete recato qualche danno, risarcitelo senza differire: perdete tutto quel che avete nel mondo, e conservate un’anima che è costata il sangue d’un Dio; rinunciate ai beni transitori per acquistare gli eterni beni del cielo. Abbiam veduto l’obbligo di restituire, vediamone le regole ed il modo di farlo.

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Esth XIV: 12; 13

Recordáre mei, Dómine, omni potentátui dóminans: et da sermónem rectum in os meum, ut pláceant verba mea in conspéctu príncipis. [Ricòrdati di me, o Signore, Tu che dòmini ogni potestà: e metti sulle mie labbra un linguaggio retto, affinché le mie parole siano gradite al cospetto del príncipe.]

Secreta

Da, miséricors Deus: ut hæc salutáris oblátio et a própriis nos reátibus indesinénter expédiat, et ab ómnibus tueátur advérsis.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XVI: 6

Ego clamávi, quóniam exaudísti me, Deus: inclína aurem tuam et exáudi verba mea.

[Ho gridato verso di Te, a ché Tu mi esaudisca, o Dio: porgi il tuo orecchio ed esaudisci le mie parole. ]

Postcommunio

Orémus.

Súmpsimus, Dómine, sacri dona mystérii, humíliter deprecántes: ut, quæ in tui commemoratiónem nos fácere præcepísti, in nostræ profíciant infirmitátis auxílium.

[Ricevuti, o Signore, i doni di questo sacro mistero, umilmente Ti supplichiamo: affinché ciò che comandasti di compiere in memoria di Te, torni di aiuto alla nostra debolezza.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (134)

LO SCUDO DELLA FEDE (134)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccuno Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (1)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA – 1861

A’ MIEI FRATELLI ITALIANI.

Italiani Fratelli! una grande insidia vi è tesa! Già da parecchi anni una moltitudine di scaltri emissarii del Protestantismo vanno di continuo aggirandosi intorno a voi per cogliervi nei loro lacci. Italiani Fratelli! non si tratta di meno che di strappare dai vostri cuori la Santa Cristiana Fede, di stirpare dalla nostra deliziosa Italia la sua gloria più bella, il suo più magnifico e prezioso tesoro, la Cattolica Religione, e a lei sostituire le sinagoghe dei loro errori. Italiani Fratelli! non solo i nostri più avveduti, ma persino alcuni dei loro correligionari di retto cuore e sincero, non lasciano di seriamente avvertirci che il loro scopo primario è tutt’altro che l’aumento della falsa lor religione; che questa non è che un pretesto, un mezzo di cui voglion servirsi per acquistar partitanti tra noi, e quindi aver modo di attaccar brighe co’ nostri,… sotto pretesto di protezione, finché arrivino a farsi nostri duri padroni, a dominar da dispotici il nostro ameno paese! – Infatti, il vedere che tanto tra noi si affaticano, e spendono tanto per acquistar de’ proseliti: che tanta carità ostentano pei nostri poveri, mentre nei loro paesi sono indifferentissimi, e non pochi chi tutto increduli in fatto di religione, ed hanno pei loro poveri un cuore di tigre: il vedere che arruolano per proseliti, e con tanto dispendio, ogni sorta di ribaldaglia, increduli, discoli, oziosi. falliti, le donnacce di mondo, gli avanzi di galera e simili, nulla loro importando che diventino buoni cristiani, né tampoco onestuomini, ma solo contentandosi di far gente; il veder finalmente la smania grande che hanno…. certuni di fermare il piede sulla nostra terra, le brutte mene che a tale oggetto non cessano di adoperare, il grande impegno di proteggere ad ogni costo questi loro emissarii; ci induce necessariamente e credere che qui gatta ci cova, che non senza fondamento sono i nostri sospetti. – Essendo poi questi garbati propagatori di Protestantismo ben consapevoli che non è dalla parte loro la verità, per ottenere l’iniquo intento evitano scaltramente le dimissioni colle persone illuminate e capaci di turar loro la bocca, e presentano agli altri la loro corretta Bibbia allettandoli pur col denaro a prenderla e leggerla: inondino in pari tempo ogni luogo con un diluvio di libercolacci, che posson dirsi compendii dell’errore, dell’impudenza, della malignità e della menzogna; né cessano di spargere per ogni dove, e far gridare ai loro complici ogni sorta di vituperii contro il Vicario di Gesù-Cristo ed il Clero cattolico, onde alienare per tal modo i semplici e i deboli dalla Cattolica Fede. Quanto essi spacciano a voce e in iscritto fu già le mille volte dai Cattolici vittoriosamente confidato: ma tutti ciò non conoscono, e molti essendo incapaci di discernere il vero dal falso, restano colti nelle tramate insidie. Affine pertanto di turar la bocca a questi emissarii e illuminare gli incauti, ho composto la presente Operetta, la quale sarà nelle mani di questi un’arma potente contro le dicerie ed imposture di quelli. Imperocché nella sua prima parte discusse restano quelle materie di dogma e disciplina della Cattolica Chiesa, le quali singolarmente sono da essi prese di mira, e giudicata è la nostra e la loro credenza con la sola autorità della Bibbia, a cui con  tanto sussiego sempre si appettano, e dei primari autori, i protestanti antichi e moderni, compresi i loro medesimi Fondatori. La seconda parte presenta un genuino prospetto del Cattolicismo e del Protestantesimo: chi sia il Papa: presso di chi sia la vera santa Scrittura: chi ne siano i corruttori: chi gli ingannatori de’ popoli: qual delle due sia la Chiesa bottega: qual sia la vera Chiesa di Gesù-Cristo, e quale quella dell’Anticristo, con altre cose di sommo rilievo. – Avrei potuto addurre in prova della nostra causa e a condanna del Protestantismo molte altre sentenze e della Santa Scrittura e di stimatissimi autori protestanti: ma per non rendere questa Operetta troppo voluminosa, ho dovuto ristringermi (non senza mio dispiacere) a citarne quelle soltanto che bastar potevano abbondantemente al mio scopo. – Dispiacerà forse a taluno in questa Operetta la lunghezza dei periodi o degli argomenti come poco conveniente al metodo dialogico; ma spero sapranno perdonarmi, quando avvertiranno: 1.” Che, sebbene qui si proceda a forma di dialogo, non è rigorosamente parlando vero dialogo, ma piuttosto controversia, dibattimento, in cui ciascuna delle parti è in diritto di esaurire le proprie ragioni senza esserne interrotta, come praticar si vede nel sistema giudiziario e parlamentare: 2.” Che far non potevo diversamente senza grave danno della verità, perché attenendomi alla brevità dialogica, dopo aver recata in ciascun luogo una o al più due sentenze della Santa Scrittura, o dei protestanti, avrei dovuto (come ognun vede) omettere assolutamente tutte le altre, le quali, non riguardando che la medesima cosa e sotto il medesimo aspetto, non mi restava più luogo a citarle. – Del resto, qualunque sia il merito di questa Operetta, sono certo almeno che riunite vi sono tali e tante incontrastabili prove della verità della Cattolica Fede e della falsità del Protestantismo, che molto giovar potranno non solo a confermare in quella i vacillanti Cattolici, ma a renderne ancora convinti que’ moltissimi protestanti che con puro cuore e retta intenzione vanno in traccia della verità.

PRIMA PARTE.

L’Appello del Protestantismo alla Bibbia contro la Cattolica Chiesa.

DISCUSSIONE I.

L’ indefettibilità della Cristiana Chiesa.

.- 1. Protestantismo. OSanta Bibbia! Io sono il Protestantismo, vostro fedele seguace, poiché fo professione di non riconoscere altra Norma, altro Maestro che voi. A voi dunque mi appello contro li errori, contro le inique sentenze del Papismo, detto con altro nome, Cattolicismo e Chiesa Romano-Cattolica, il quale mi condanna come setta eretica, etc. etc. perché riprovo i suoi diabolici errori! Sì li riprovo e detesto; e primieramente riprovo in ogni modo e detesto che egli si dica l’antica vera Chiesa di Gesù-Cristo: essendo fuor d’ogni dubbio che questa, sino dal tempo della Passione del Redentore, perdé la fede e cessò quindi di esistere, né tornò a vivere che colla mia Santa Riforma.1 Onde « sotto il Papato il Cielo era chiuso, né mai uomo alcuno vi si è salvato; imperocché chiunque approva la religione dei Papisti è necessariamente e per sempre perduto nell’altra vita. » Lutero, Op. ediz. Vulch. T. X, p. 2541).

Bibbia. È scritto: « Stava vicino alla croce di Gesù la sua » Madre e la sorella di sua Madre. Maria di Cleofa, e Maria Maddalena. E avendo Gesù veduto la Madre, e il discepolo da lui amato, etc… Dopo di ciò Giuseppe d’Arimatea (discepolo di Gesù …. ) pregò Pilato per prendere il Corpo di Gesù…. Venne anche Nicodemo ‘quegli che la prima volta andò da Gesù di notte)! portando di una mistura di mirra e di aloe quasi cento libbre etc. » (Giov. XIX, v. 25, 26, 38, 39) E Gesù…. spirò…. E tutti i conoscenti di Gesù stavano alla lontana, come anche le donne che lo avevan seguito dalla Galilea, osservando tali cose. » « Partì dunque Pietro e quell’altro discepolo, e andarono al monumento. » (Luc. XXIII 46, 49). Hai bene inteso? Dir non potrai certamente che tutte queste persone avessero perduta la fede nel tempo della Passione, e che non formassero in quell’epoca la più eletta parte della Chiesa Cristiana; né dir potrai che perduta l’avessero gli altri credenti; poiché di essi non si fa parola.

Protestantismo. È scritto: « E allora disse loro Gesù (agli Apòstoli): tutti voi patirete scandalo per me in questa notte…. Gesù gli disse (a Pietro): in verità ti dico che in questa notte,prima che il gallo canti, mi negherai tre volte…. Ma (Pietro) negò dinanzi a tutti…. Egli negò di nuovo, etc. »« Apparve (Gesù) agli undici mentre erano a mensa, e rinfacciò ad essi la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano. prestato fede a quelli che l’avevan veduto risuscitato (Marc. XVI14).Tutti questi non avevan forse perduta la fede?

Bibbia. No certamente, perché per la loro fede, e singolarmente per quella di Pietro, già pregato aveva il Redentore, le cui preghiere restar non potevano senza effetto. « Cosi parlò Gesù: e alzati gli occhi al cielo, disse: Padre, è giunto il tempo, glorifica il tuo Figliuolo…. Per essi io prego…. Padre santo, custodisci nel nome tuo quelli che a me hai consegnati, affinché siano una sola cosa con noi. » (Giov. XVII. 1, 9, 11) Disse di più il Signore: Simone, Simone…. Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno. » (Luc. XXII 31, 32). – È scritto ancora: « E allora i suoi discepoli abbandonatolo, tutti fuggirono…. Pietro però lo seguitò da lungi sino dentro il cortile del Sommo Sacerdote. » (Marc. XIV50) « Ma egli (Pietro) negò, dicendo, etc… E il Signore voltatosi mirò Pietro, e Pietro si ricordò della parola dettagli dal Signore: Prima che il gallo canti mi negherai tre volte. E Pietro usci fuori e pianse amaramente » (Luc. XXII, 57, 61, 62) – Da tutto questo è chiaro che lo scandalo patito dagli Apostoli sia la loro fuga, come anche la triplice negazione di Pietro non furono in modo alcuno un effetto di mancanza di fede, ma solo timore, di umana fragilità. Gli riprese poi tutti d’incredulità ma unicamente per rapporto alla sua risurrezione; per la qual cosa non può dirsi che peccato avessero contro la fede, poiché tale articolo non lo avevano ancor conosciuto, siccome è scritto: « Allora pertanto entrò anche l’altro discepolo, che era arrivato il primo al monumento, e vide e credette: imperocché non avevano per anco compreso dalla Scrittura com’Egli doveva risuscitare  da morte » (Giov. XX, 8, 9) Quindi gli riprese non perché non avessero creduto in lui, ma bensì a quelli che lo avevan veduto risuscitato. Finalmente supposto ancora che tutti questi avessero perduta la fede, non ne seguirebbe per questo che perita fosse tutta la Chiesa: poiché essi né erano tutta la Chiesa, né tampoco la maggior parte di essa.

2. Protestantismo. Se non perì la Chiesa in quel tempo certo almeno che ella perì assolutamente nel secolo secondo (Priestley), oppure nel terzo, (Gibbon) oppure nel quarto, (Blondel presso Moore) oppure nel quinto, (Gibbon, D’Aubigne) oppure nel sesto, (Ospiniano) oppure nel settimo (Newman, Palmer) oppure nell’ottavo ( Pastor Claudio verso Bossuet), oppure nel nono (Newman, Palmer).

Bibbia: Questi tuoi tanti oppure, oppure sono una prova più forte per convincerti di turpe contradizione, e di mala fede, il peggio si è che in ciò tu sostieni una grande eresia, contraddicendo al Divin Redentore, il quale ha solennemente promesso chela sua Chiesa non sarebbe mai venuta a mancare. Ecco le sue parole …« E io dico a te che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei » (Matt. XVI, 18); « Ecco che io sono con voi per tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli » (Matt. XXVIII, 20) E S. Paolo dice : «  Chiesa di Dio vivo (è) colonna e sostegno della verità. » ( I Tim. III, 15; Ps. XLVII; Isa. IX, 7; LXI, 1,8; Mich. IV 7; Luc. I, 13; IV, 18)

3. Prot. È scritto: « Quando verrà il Figliuolo dell’ uomo, credete voi che troverà fede sopra la terra? » (Luc. XVIII, 8). « Non vi lasciate sì presto smuovere…. quasi imminente sia il dì del Signore …  imperocché (ciò non sarà) se prima non sia/seguita la ribellione, e non sia manifestato l’uomo del peccato (II Tess. II, 12). Qui è chiaramente predetto, che verso la fine del mondo perirà totalmente la Chiesa. Onde ben vedete che quella divina promessa ha sicuramente le sue buone eccezioni.

Bibbia. Parlando del medesimo tempo, dice ancora il Redentore che « Falsi Cristi e falsi profeti faranno miracoli grandi e grandi prodigi, da far che sieno ingannati, se fosse possibile, anche gli stessi eletti. Ma saranno accorciati que’ giorni in grazia degli eletti. » (Matt. XXIV, 22, 24). Oltre a ciò, riguardo al medesimo tempo, sta scritto: Vidi un Angelo che…. gridò ad alta voce ai quattro Angeli, ai quali fu data commissione di far del male alla terra e al mare, dicendo: Non fate male alla terra e al mare, né alle piante sino a tanto che abbiamo segnati nella fronte i servi del nostro Dio. E udii il numero dei segnati, cento quaranta quattro mila segnati di tutte le tribù dei figliuoli d’Israele…. Dopo di questo vidi una turba grande, che nessuno poteva numerare di tutte le genti e tribù, etc. » (Apoc. VII, 2 e segg.) Dunque neppure allora sì perderà la fede, non perirà la Chiesa; giacché un’immensa moltitudine si manterrà costantemente fedele. Pertanto il primo testo da te citato non deve intendersi che tutti perderanno la fede, ma che molti non avranno una fede viva pel raffreddamento della carità; ed il secondo, che la ribellione sarà di molti, non già di tutti. Ciò dichiara lo stesso Divin Redentore, dicendo: « Sorgeranno molti falsi profeti e sedurranno molta gente…. E poiché sarà abbondata l’iniquità, raffredderassi la carità di molti » (Matt. XXIV, 11, 12).

4. Prot. Stringenti sono le vostre ragioni, nè vi è da opporsi, imperocché: «Avendo Gesù-Cristo detto a S. Pietro, ed io dico a te che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa;facilmente si vede che Cristo con queste parole promette alla sua Chiesa la forza di non perire. » (Rosenmuller) « Il senso pertanto di queste parole di Gesù-Cristo è che niuna forza nemica, anche potentissima e massima, mai potrà rovesciare, o distruggere la sua Chiesa. (Kuinoel) « Se da noi s’immagina che tutti i Pastori della Chiesa abbiano potuto errare ed ingannare tutti i fedeli; come si potrebbe difendere la parola di Gesù Cristo, il quale ha promesso a’ suoi Apostoli, ed in persona diessi ai lor successori, di esser sempre con loro? Promessa che in tal caso non sarebbe verìdica: poiché gli Apostoli viver non potevano sì lungo tempo (sino alla consumazione de’ secoli), se in esse non  fossero alati compresi i successori dei medesimi Apostoli. » (Dr. Bull angl.). « Secondo il sentimento dei Padri, non vi ha dubbio che insieme ai segni ci vengano poste innanzi eziandio le cose stesse, ma in una guisa tatto oltre natura, o soprumana. Coloro che aderiscono ai protestanti (ed è questa l’opinione mia), come fuori d’intelletto pel furore di disputare, pure conoscono troppo bene gli insegnamenti dell’antica Chiesa, e come in oggi continui la Chiesa Cattolica. Se non che fanno le viste di non intender nulla, per aver agio di ordire a loro posta e mettere in ordine le fila di qualche cosa per coloro che si addanno e si acconciano più facilmente co’ sensi del corpo che con quelli dell’anima. » (Grozio). Concludo confessando che « Nel Papato vi hanno verità di salute. anzi tutte le verità di salute che abbiamo ereditate: poiché egli è nel Papato che noi troveremo le vere Scritture, il vero Battesimo, il vero Sacramento dell’altare, le vere chiavi che rimettono  i peccati, la vera predicazione, il vero catechismo, che contiene l’orazione Domenicale, gli articoli della fede, ed aggiungo, il vero Cristianesimo » (Lutero, Op. Germ.) Ecco quanto vi confesso di credere, né perciò punto mi contradico sostenendo le mie prime asserzioni.

IL SACRO CUORE DI GESÙ (36)

IL SACRO CUORE

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ (36)-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE PRIMA

CAPITOLO III.

PRATICHE DELLA DEVOZIONE AL SACRO CUORE

La beata ci presenta la divozione al sacro Cuore, come un insieme di pratiche determinate, ma la pratica va, per lei, molto al di là di queste pratiche. Nei suoi scritti, come nella sua vita, la sua cara divozione è l’anima di tutto, è uno spirito di amore che penetra e domina tutto. La divozione al sacro Cuore, come ella l’intende, è una formula ammirabile di vita cristiana e perfetta; tutta di Gesù, tutta in Gesù, tutta per Gesù. È l’amore di Gesù che invade l’anima, in tutti i suoi pensieri, i suoi affetti e le sue azioni, per modo che non siamo più noi che viviamo, ma è Gesù Cristo che vive in noi. Tutto ciò si rileva da ogni pagina della beata; non si ha che leggere i suoi scritti, per rendersene conto. Cominceremo col passare in rivista le pie pratiche che ci vengono da lei suggerite; poi accenneremo qualche testo, per mostrare come essa intende la divozione al sacro Cuore.

(Su queste pratiche, si hanno ampi particolari nel: Le règne du Sacre Cceur, t. II. Il tomo III, studia quali sono, secondo Margherita Maria « le virtù domandate dal sacro Cuore a tutti i suoi servi »; il tomo IV studia « le virtù particolari richieste ai Cristiani e ai religiosi » come pure le « diverse divozioni che hanno rapporto al sacro Cuore »).

PRATICHE DELLA DIVOZIONE AL SACRO CUORE

1.

LE PRATICHE

– 1. Immagine. 2. Consacrazione. — 3. Ammenda onorevole. 4. Comunione e divozione verso l’Eucaristia. — 5. Ora santa in unione a Gesù sofferente. 6. Divozione alla santa Vergine. 7. Le anime del purgatorio. 8. Pratiche diverse.

Le pratiche della divozione al sacro Cuore sono, presso a poco, quelle che la beata ha messo in vigore, sia quelle che essa ha approvato e fatto sue proprie e che proponevano, nei loro libri e taccuini, la Madre de Soudeilles, suor Joly, il P. Croiset. Qualcuna le è stata chiesta direttamente da Nostro Signore; altre sono state scelte da lei medesima, siccome molto grate al sacro Cuore; altre ancora ella s’ingegna di trovare, per mettere sempre più in rilievo la sua cara divozione. Qualcuna, fra queste, sono andate in disuso, o quasi.

(Quella, per esempio, dei biglietti che hanno da una parte delle invocazioni al sacro Cuore e dall’altra all’Immacolata Concezione, che si bagnano nell’acqua e s’inghiottiscono a digiuno. Lettera LXXXII (LXXXIIl), t. II, p. 159 (196); G. LXXXIII, 397. La beata parla di guarigione miracolosa, dovuta a questa pratica. Loc. cit. Cf. Lettera LIII (LIV), t. II, p. 104 (141); G. LIX, 344).

Altre sono rimaste, (la consacrazione, l’ammenda onorevole, ecc.), e varie che non si presentavano che in germe hanno preso sviluppo. Tali sono gli uffici, l’apostolato della preghiera, ecc.

1. L’immagine.

L’immagine occupa un gran posto nelle visioni di Margherita Maria, nei desideri e nelle promesse del sacro Cuore. Si capisce, perciò, che occupi pure un gran posto nelle preoccupazioni e nella corrispondenza della beata. Per lei è come un mezzo di propagare la sua cara devozione e una pratica speciale di questa stessa divozione, pratica desiderata da Gesù e alla quale egli ha promesso di annettere molte grazie. Così ella ne vuole ad ogni costo. E quanto si dà da fare per sollecitarne l’esecuzione, come l’aspettativa le sembra lunga! E come è felice quando i suoi desideri sono alfine esauditi e con qual gioia ne fa larga distribuzione! (Vedi nella Vie et Ocuvres, l’indice analitico alla chiamata: Images et tableax. Siccome l’indice è omesso da Mons. GAUTHIER, ecco qualche indicazione della sua edizione delle lettere, t. II, Lettere XL, XLII. XLV. XLVII, LI, LII. LIII (con la nota), LVI, LX,LXVI.). Non ha avuto essa forse le più consolanti promesse del sacro Cuore per coloro che porteranno su di se queste care immagini? Non ha forse avuto la sicurezza di benedizioni speciali, per le case ove saranno esposte e onorate? Gesù non ha forse detto che le vuole in un posto d’onore, anche nel palazzo dei re e sul vessillo di Francia? Nelle visioni della beata ora è il Cuore solo che si mostra, ora Gesù le apparisce mostrandole il Cuore. Nelle prime immagini che furono fatte non si ritrova mai la persona adorabile di Nostro Signore (Ciò dipende, torse, dal fatto che è più tacile disegnare l’immagine del cuore solo); il cuore solo vi è rappresentato. Esso ha la forma convenzionale a cui la divozione alle cinque piaghe aveva ormai abituato. Il carattere simbolico della rappresentazione, è indicato in vari modi; con le fiamme, coi « laghi d’amore », con la corona di spine e la croce, con la parola charitas. Le immagini che fece stampare la Madre Greyfìé, per farne dono alla beata e alle sue novizie, sembrano essere state la riproduzione, allora in uso, delle cinque piaghe (Cf.: Vie et Oeuvres, t. I , p. 223 (452); G. n. 242, pag. 220). Si sa che questa rappresentazione aggruppava tutto intorno al cuore ferito e in questo modo si aveva, per così dire, l’immagine del sacro Cuore, prima che assumesse il suo vero significato. Fu una delle preparazioni provvidenziali alla divozione.

2. La consacrazione.

Per questa deve intendersi due cose: un atto di consacrazione, che si fa e si rinnova, secondo le occasioni, e un dono completo di sé al sacro Cuore, affine di non viver più che per Lui, per i suoi interessi e per l’amor suo. Su questo punto abbiamo dei testi della beata. Eccone alcuni: « Egli mi chiese, dopo la santa Comunione, di rinnovargli il sacrifizio che già gli avevo fatto della mia libertà e di tutto il mio essere, ciò che feci con tutto il cuore » (Mémoire, t. II, p. 321 (374) ; G. n. 48, p. 65). – Qualche volta la donazione è chiesta sotto forme speciali. È la vittima che deve offrirsi per i peccatori, o per la comunità, o per le anime del Purgatorio. Si sa la celebre scena in cui ella dové espiare per la comunità: « Io ti vogli dare il mio cuore, ma prima devi farti vittima d’immolazione per essa » (Mémoire, in Vie et Oeuvres, t. II, p. 338 (395). Riveduto su G. n. 72, p. 84). La donazione su testamento è più originale: « Una volta il mio divino sacrificatore mi chiese di fare un testamento, scritto in suo favore, ossia una donazione intera e senza riserva, com’io gli avevo già fatto di viva voce, di tutto quello ch’io potrei fare o soffrire e di tutte le preghiere e beni spirituali che si farebbero per me sia in vita che dopo la mia morte. Volle ancora che io chiedessi alla mia superiora che volesse fare da notaio a quest’atto, impegnandosi di pagarla solidalmente. La mia superiora accettò di farlo » (Mémoire Atitographe in: Vie et Oeuvres, t. II, p. 348 (406) ; G. n. 84, p. 95).

Quest’atto ci è stato conservato nelle Contemporaines (Vie et Oeuvres, t. I, p. 128 (159) ; G. n. 191, p. 172: cf. G. Ecrits de la Mère Greyfié, n. 50, p. 408: « Viva Gesù nel cuore della sua sposa, Suor Margherita, per la quale e in virtù del potere che Dio mi da su di lei, offro, dedico e consacro, puramente, inviolabilmente al sacro Cuore dell’adorabile Gesù tutto il bene che ella potrà fare durante la vita e quello che verrà fatto per lei, dopo la sua morte; affinché la volontà di questo divin Cuore ne disponga secondo il suo beneplacito e in favore di chiunque a lui piacerà, sì vivo che trapassato. Suor Margherita Maria protesta che si spoglia volonterosamente di tutto, eccettuata la volontà di stare continuamente unita al divin Cuore del suo Gesù e di amarlo puramente per Lui stesso. In fede di che, ella ed io, firmiamo questo scritto, fatto l’ultimo giorno di dicembre 1638. Suor Pierina Rosalia Greyfié, attualmente superiora e della quale suor Margherita Maria implorerà tutti i giorni la conversione da quel Cuore divino e adorabile, insieme alla grazia della perseveranza finale ». La stessa Margherita Maria ci dice come fece la sua firma: « Io la segnai sul mio cuore con un temperino, col quale scrissi il sacro nome di Gesù, come il mio divin Maestro voleva e come segno ancora qui: suor Margherita Maria, discepola del divin Cuore dell’adorabile Gesù ».) ed è in data del 31 dicembre 1678. Nostro Signore, in compenso, la costituì erede dei tesori dei sacro Cuore con un atto che essa scrisse col suo proprio sangue, come lo leggeva nel cuore del Divin Maestro. Abbiamo anche quest’atto (Vie et Oeuvres, t. I, p. 119 (159): G. n. 192, p. 173. Cf. Lettres inédites, Lettera I V , p. 145; G. CXXXI1I, 511-572, et CROISET, Abrégé, p. 48-49. Ecco quest’atto come lo danno le Contemporaines: « Io ti costituisco erede del mio Cuore e di tutti i suoi tesori,per il tempo e per l’eternità, permettendoti di usarne secondo il tuo desiderio, io ti prometto che non mancherai di soccorso che quando il mio Cuore mancherà di potenza. Tu ne sarai sempre discepola prediletta, oggetto del suo beneplacito, olocausto dei suoi desideri e Lui solo sarà l’oggetto di tutti i tuoi desideri e riparerà e supplirà ai tuoi diletti, e ti aiuterà a soddisfare ai tuoi obblighi. » La beata ci dice (loc cit.) che Nostro Signore la faceva scrivere col di lei sangue a misura che le dettava. Ella ne scriveva così al P. CROISET. « Egli mi fece leggere (nel suo Cuore) e poi scrivere quello che vi aveva già scritto per me. Eccone qualche riga, con un testamento fatto in mio favore. » Le due formule han riscontro in quanto al senso, ma alcune espressioni sono del tutto diverse: Ciò che vi ha di ricercato e di dubbio nell’atto riportato qui sopra è spiegato nella lettera in termini chiari e naturali. Ciò sia detto per quelli che studiano la mistica e la psicologia). – La beata chiedeva questa consacrazione a tutti gli amici del sacro Cuore, il P. de la Colombière la fece, dicono, sino dal 21 giugno 1675 e la rinnovava frequentemente (Contemporaines, t. I, p. 94 (124): G. n. 153, p. 138 ; CROISET, La dévotion au Sacre Coeur, 3.» parte, c. 4 : Offrande, p. 179: Cf. 1°. parte, c. 2, p. 10). La prima festa del sacro Cuore, celebrata a Paray dalle novizie della beata il 20 luglio 1685, per Santa Margherita, ebbe per punto principale la consacrazione: « Ella ci lesse un atto di consacrazione, che aveva composto in onore del divin Cuore…., e c’invitò a scrivere ciascuna il nostro atto di consacrazione, promettendoci di aggiungervi una  qualche parola di suo pugno, a seconda delle nostre disposizioni » (Contemporaines, t. I, p. 207 (237); G. u). Ci sono state conservate una o due delle consacrazioni della beata e non vi ha chi non ne abbia veduta una stampata o in fac-simile. La beata l’aveva unita a una lettera diretta alla madre di Soudeilles, il 15 settembre 1686; e ne aveva pur mandato copia, con qualche parola cambiata, a Suor de la Barge. Le editrici del 1867 l’hanno riprodotta, ma confondendo i due testi (Lettera XLVIII (XLIX), t. II, p. 92 (129); Lettera XLIX, 238, p. 215, t. II, p. 98 (135); G. LIII, 328, LIV, 332). Si hanno ambedue gli autografi:

(Ecco la copia di uno dei fac-simili dell’autografo della Madre di Soudeilles riprodotto esattamente, meno l’ortografia e le abbreviazioni. « Io N. N. offro e consacro al sacro Cuore di Nostro Signor Gesù Cristo la mia persona e la mia vita, le mie azioni, pene e sofferenze, per non più servirmi di parte alcuna dal mio essere, che per amarlo, amarlo, e glorificarlo. E’ mia volontà irrevocabile d’essere tutta sua e di far tutto per amor suo, rinunziando con tutto il cuore a tutto quello che potrebbe dispiacergli. Io vi prendo dunque, o sacro Cuore, per l’unico oggetto dell’amor mio, il protettore della mia vita, la sicurezza della mia salute, il rimedio della mia incostanza, il riparatore di tutte le mie mancanze, il mio asilo sicuro per l’ora della mia morte. Siate dunque, o Cuore di bontà, siate la mia giustificazione presso Dio Padre e distogliete da me i colpi della sua giusta collera. O Cuore d’amore! Io ripongo in voi tutta la mia confidenza; temo tutto dalla mia debolezza, ma tutto spero dalla vostra bontà. Consumate dunque in me tutto quello che potrebbe resistervi o dispiacervi! Che il vostro amore si addentri così profondamente nel mio cuore, che non possa dimenticarvi mai più, ne essere separata da voi. Vi scongiuro, per tutta la vostra bontà, che il mio nome sia inscritto in voi, poiché voglio far consistere tutta la mia felicità, nel vivere e morire come vostra schiava ». Dal facsimile riportato in testa alle Elévatìons sur le Cceur de Jesus, del Padre F. DOYOTTE, Parigi, 1873). È questa, senza dubbio, la « piccola consacrazione », come ella la chiama, che avrebbe voluto vedere inserita nel libro del P. Croiset: « Le dirò solamente d’inserirvi la piccola consacrazione, perché, venendo da Lui, Egli non desidererebbe, se non m’inganno, che venisse omessa » (Lettres inédìtes, Lettera X, p. 209; G. CXXXÌX, 617). Questo desiderio non fu realizzato. Si ha, è vero nel libro del P. Croiset una consacrazione al sacro Cuore, che sembra esser piaciuta alla beata. « Io non credo, scrive, che vi sia da cambiar cosa alcuna (al libro), né la consacrazione, né l’ammenda onorevole » (Lettres inédites, Lettera X, p. 209; G. CXXXIX, 617). Ma non è già « la piccola consacrazione » che ella avrebbe voluto vedervi. Parla, altrove, di una formula più lunga, per una consacrazione generale (Lettera XXXVI ((XXXVII), t. II . p. 74 (111); G. XI.II, 307, ù. a. X, p. 209 ; G. ibìd.) e possiamo supporre che sia la formula dei livret autografo (Vedi nella Vie et Oeuvres, t. II, p. 477 (539); G. 780.). Non si tratterebbe, forse, di quella che fu letta alla prima festa dei sacro Cuore, il 20 luglio 1675? Nella sua insistenza per ottenere questa consacrazione al sacro Cuore, la beata ci rivela, nello stesso tempo, il suo modo d’intenderla. Ella scrive alla Madre de Saumaise il 10 agosto 1684; « Bisogna cominciare sul serio a non più vivere che per Lui e in Lui. È per questo, mia carissima Madre, che ella farebbe, mi sembra, cosa gratissima al sacro Cuore di Nostro Signore, se gli facesse un intero sacrificio suo, un venerdì dopo la santa Comunione, protestando di non volersene più servire ad altr’uso che a quello del suo puro amore, procurandogli tutto l’onore e la gloria che sarà in suo potere. Non le ne dico di più, perché mi sembra che ella abbia già fatto tutto questo; ma io credo che Egli si compiacerà, se lo ripeterà di frequente e lo praticherà fedelmente onde perfezionare la sua corona » (Lettera XXV (XXVI), t. II, p. 50 (87); G. XXVII, 277. 11. a.). La beata vi ritorna nelle sua lettera del 24 agosto 1685, designando il primo venerdì del mese come giorno propizio a ciò (Lettera XXXVII (XXXVIII), t. II, p. 65 (102); G. XXXVI, 297). È ancora più pressante ed esplicita in una lettera alla Madre de Soudeilles, il 3 novembre 1684: « Se Ella desidera vivere unicamente per Lui e giungere alla perfezione che Egli vuole da lei, bisogna che faccia al sacro Cuore un intero sacrificio di sé e di tutto quello che dipende da lei senza riserva alcuna e per non volere più altra cosa che ciò che vuole questo amabile Cuore, e non più amare che attraverso i di Lui affetti, e non agire che secondo i suoi lumi, e non intraprendere mai nulla senza prima implorare il suo soccorso ed aiuto; dando a lui gloria di tutto, ringraziandolo così nei cattivi successi delle nostre intraprese, come nei buoni, rimanendo sempre contente, senza turbarci di nulla. Infatti deve ben bastarci che questo Cuore disino sia soddisfatto e glorificato ed amato. Se ella, Madre mia, desidera di essere nel numero delle sue amiche, le offrirà questo sacrificio di se stessa, un primo venerdì del mese, dopo la Comunione che farà a questa intenzione, e si consacrerà tutta a Lui per rendergli e procurargli tutto l’amore, l’onore e la gloria che sarà in suo potere; e tutto questo nel modo che le ispirerà. Dopo ai che non si riguarderà più che come appartenente e dipendente dall’adorabile Cuore di Nostro Signor Gesù Cristo, a lui avendo ricorso in tutte le sue necessita e stabilendovi la sua fissa dimora più che potrà. Egli riparerà tutto quello che potrebbe trovarsi d’imperfetto nelle sue azioni e santificherà le buone, se sarà fedele ad unirsi a tutti i suoi disegni su di lei, che son grandi, e che gli procureranno molta gloria, per mezzo suo, se lo lascerà fare Tutta sua nell’amore del sacro Cuore, che unisce e trasforma i nostri in Lui, per il tempo e per l’eternità» (Lettera XXVI (XXVII), t. II. p. 52 (89). L’autografo era a Moulins ; fu inviato il 2 giugno 1789 a DB RESCON, vicario generale di Oloron. Ora è perduto. Vedi: GAUTHEY, XVIII, 278, n). – Leggendo questo, si comprende ciò che la beata scrive a suo fratello: « Mi sembra che non vi sia più breve cammino, per arrivare alla perfezione, né mezzo più sicuro, che di consacrarsi a questo divin Cuore » (Lettera LIII (LIV), t. II, p. 104 (141); G . LIX, 314).

3. L’ammenda onorevole.

Occupa questa un gran posto nella divozione al sacro Cuore. E doveva esser così, poiché è una divozione di riparazione per l’amore oltraggiato. E’ così, del resto, che Nostro Signore la propone nella grande apparizione. Egli chiede che il giorno della futura festa, si onori il suo Cuore, « facendo la Comunione, facendogli pure riparazione d’onore, con una ammenda onorevole, per riparare le indegnità ricevute, mentre stava esposto sugli altari » (Mémoire, t. II, p. 355 (414); G. n. 92, p. 102). Queste parole bastano a illustrare ciò che è l’ammenda onorevole e il suo scopo. Come la consacrazione, essa è un atto preciso, determinato; è come una tendenza generale dell’anima devota, gelosa dell’onore di colui che ama. Questo spirito di riparazione invade tutta la vita della beata e si ritrova in tutti i suoi scritti. Nel Petit livret, scritto di suo proprio pugno, si trova una formula di ammenda onorevole (Vìe et Oeuvres, t. II, p, 473 (534); G. 771). Fu senza dubbio, composta da lei stessa. Fra le pratiche che ella raccomandava alle sue novizie, si trova la seguente: « Farete trentatrè comunioni spirituali, e una sacramentale, per fare ammenda onorevole al sacro Cuore di Gesù Cristo e implorare da Lui misericordia per tutte le cattive comunioni che si fanno e sono state fatte da noi e dai cattivi Cristiani » (Écrits divers, t. II, p. 468 (530) ; G. p. 733). Monsignor Languet assicura essere della beata l’ammenda onorevole che si trova nel libro del P. Croiset (Terza parte, c. 4. Ammenda onorevole, p. 174). Ma ciò non è probabile, perché, secondo ogni apparenza, è quella stessa che la beata approvava, nella sua lettera del 21 agosto 1690: « Il tutto, scriveva essa, è così perfettamente di suo gusto (del sacro Cuore), che io non credo dovevasi cambiar nulla, né la consacrazione né l’ammenda onorevole » (Lettres inédites, X, p. 209; G. CXXXIX, 617).

4. La comunione e la divozione all’ Eucaristia. —

Una delle pratiche che Gesù chiede a Margherita Maria, è di « fare la santa comunione quanto più spesso potrà ». E sia nella sua vita, come nei suoi scritti, la divozione ai SS. Sacramento è strettamente unita a quella del sacro Cuore. Davanti al SS. Sacramento ella è favorita delle principali rivelazioni; soprattutto all’altare ella vede Gesù oltraggiato; all’ altare gli fa ammenda onorevole e gli offre i suoi omaggi e le sue riparazioni. Si sa quante lunghe ore ella passasse dinanzi al SS. Sacramento, immobile, in estasi, o quasi. Uno dei desideri più cari al suo cuore è quello di consumarsi come un cero ardente, dinnanzi al santuario (C’est ma plus grande envie d’y consommer ma vie, Comme un cierge allume, Devant mon Bien-Aimé. (il mio più grande desiderio è consumare la mia vita come un c’ero acceso, davanti al mio diletto) Cantico al Sacro Cuore, t. II, p. 514 (575); G. 841). La Comunione è una delle sue migliori attrazioni, è una delle pratiche che raccomanda più insistentemente; ed è subito dopo la Comunione che vuole si faccia la consacrazione al sacro Cuore. Molti degli esercizi che la beata fa e raccomanda, io onore del sacro Cuore, si riferiscono all’Eucaristia. Non si stanca di proporre alle sue novizie le pratiche per onorare le diverse vite di Gesù nel Santo Sacramento, dove le due devozioni si collegano e si uniscono strettamente. (Vie et Oeuvres, t. II, p. 465 (527) ; G. 730).

5. Ora santa e unione a Gesù sofferente. — Si può dire della Passione quasi lo stesso che della Eucaristia; è una divozione che la beata riguarda come inseparabile dalla divozione al sacro Cuore. Sarebbe troppo lungo di rilevarne tutti i rapporti; basterà ricordarne qualcuno. L’ora santa, che Gesù aveva chiesto a Margherita Maria, come già sappiamo (Vedi più sopra, c. 2, § 3, pag. 25), non è altra cosa che un esercizio di unione con Gesù che soffre. La beata passava, in questa unione, la notte dal giovedì al venerdì santo, dinanzi al SS. Sacramento, tutte le volte che le era permesso. La Madre Greyfié ci descrive così una di queste notti: « Ella usciva da una lunga malattia…. Nondimeno, mi venne a chiedere come una grande grazia, il permesso di vegliare dinnanzi al SS. Sacramento. Io non giudicavo possibile che potesse farlo, ma per darle qualche consolazione, acconsentii che rimanesse nel coro dalle otto sino a dopo la processione della città (Questa processione arrivava alla Visitazione circa le 10 di sera). Accettò la mia prima offerta e con molta dolcezza e umiltà mi pregò di prolungarle questo tempo. Io le concessi la notte, ed ella non mancò di prendere il suo posto in coro alle otto e mezzo…. ; vi stette sin d’allora in ginocchio, con le mani giunte, senza punto appoggiarsi, senza fare alcun moviménto, come se fosse stata una statua, sino all’indomani all’ora di Prima, in cui riprese il suo posto nel coro. Quando ella venne a rendermi conto delle sue disposizioni in tutto questo tempo, mi disse che Nostro Signore le avevo fatto la grazia di renderla partecipe della sua agonia nel giardino degli Ulivi e che aveva sofferto tanto da sembrarle ad un tratto che l’anima le si separasse dal corpo » (Contemporaines, t. I, p. 158 (187) ; riveduto su G. Écrits de M. Greifié, n. 12, pag. 358). L’immagine del sacro Cuore, che le fu mostrata in una apparizione (corona di spine, ferita, croce), è tutta impregnata della idea della Passione. Fra le grandi grazie che ricevé da Gesù nel suo ritiro per la professione, « sorvegliando un’asina col suo asinello, nel giardino », essa annovera la conoscenza che le dette « del mistero della sua santa morte e passione ». « Ma, aggiunge, sarebbe un compito soverchiamente difficile il descriverlo ». Così non ne dice che una parola. « Ciò mi ha dato un amore sì grande per la croce, che non posso vìvere un momento senza soffrire; ma soffrire in silenzio, senza consolazione, sollievo o compatimento, e morire con questo sovrano dell’anima mia, oppressa sotto la croce di ogni sorta d’obbrobri, di umiliazioni, di dimenticanze e disprezzo » (Mémoire, t. II, p. 323 (376); G. n. 50, p. 66).  Gli scritti della beata, infatti, ci danno l’impressione di una vita strettamente unita con Gesù sofferente, senza altra gioia che la gioia stessa di « soffrire amando ». Si conosce la famosa visione nella quale Nostro Signore le presentò un doppio quadro; questo di una vita tutta pace e consolazione, e quello di una vita interamente crocefissa, e come Egli stesso scelse per lei la seconda (Ibid, t. II, P . 333 (389); G, n. 66, p. 78). Ella scriveva al P. Croiset, il 15 settembre 1689: « Io non posso vivere un sol momento senza soffrire, e il mio più dolce alimento è la croce…. Oh! Che felicità poter partecipare quaggiù alle angosce, alle amarezze e agli abbandoni del sacro Cuore! » (Lettres inédites, III, p. 119; G. CXXXII, 547). Una pratica che aveva imparata da Nostro Signore, per il tempo del giubileo, le fu sempre cara; consisteva nell’offrire all’Eterno Padre le ampie soddisfazioni che Egli rese alla Sua giustizia sull’albero della croce, pregandolo a rendere efficace il suo sangue prezioso per tutte le anime peccatrici (Contemporaines, t. I, p. 160 (189); G. n. 95, p. 106). E a questa univa la beata molte altre pratiche, in cui il sacro Cuore e la Passione non formavano, per così dire, che un solo oggetto di divozione.

6. Divozione alla Santa Vergine.

Vi sarebbe molto da dire su questo soggetto. Ma la parte della santa Vergine nella divozione al sacro Cuore non è diversa, secondo la nostra beata, da quella che le perviene in ogni vita cristiana. Se le relazioni fra la santa Vergine e Margherita Maria sono ammirabili, non è tanto perché Margherita Maria è stata la discepola e l’evangelista del sacro Cuore, quanto perché è stata una gran santa dei tempi moderni, e perché Dio le ha fatto esperimentare, nella sua propria vita, ciò che Maria opera segretamente in ogni anima che si santifica. Qualche tratto, nondimeno, merita di esser notato. – Si sa come, sino dalla sua infanzia, Nostro Signore, che voleva farla tutta sua, la confidò alla SS. Vergine: « Io ti affidai, le diss’Egli, alla, mia Santa Madre, affinché ella ti lavorasse  secondo i miei disegni » (Mémoire, t. II, p. 304 (356); G. n. 22, p. 46). Maria fu per lei « una buona Madre », ed ella fu una figlia per Maria, parlandole « come alla sua buona Madre ». Fu per essere la « figlia della santa Vergine » che scelse di entrare alla Visitazione; e fu Maria che la preparò alla sua missione di apostolo del sacro Cuore. Un giorno ella vide il suo cuore, molto piccolo, fra i cuori di Gesù e di Maria, e « i tre non ne formavano che uno ». « Era, dic’ella, il giorno della festa del Cuore della santissima Vergine » (Contemporaines, t. I , p. 91 (122); G. t. II, p. 164). Si vede, da queste rivelazioni, che Maria interviene per disarmare il sacro Cuore, irritato, e ottenere le sue buone grazie (Ibid, t. I, p. 266 (293); G. t. II, p. 170). Ed è pure la Madre di Dio che interviene affinché il sacro Cuore sia affidato, come un deposito alla Visitazione. « Venite, figlie mie, avvicinatevi, perché io voglio farvi depositarie di questo tesoro prezioso » (Visione del 2 luglio — Lettera LXXXV (LXXXVI) ; t. Il p. 167 (201); G. XXCX, 405). – A sua volta, Margherita Maria non separava Maria da Gesù. Una delle sue lettere termina con la promessa delia più tenera affezione « nei sacri Cuori di Gesù e di Maria » (Lettera IX, t. II, p. 16 (49); riveduta su G. IX, 241). Non solo ella onora e fa onorare la SS. Vergine, perché « non potremmo far cosa più gradita a Dio, che onorare la sua santa Madre » (Avis, LUI (LIX), t. II, p. 441 (502); G. LIX, 737), ma perché, come dice a una sua novizia, « se è in tutto una vera figlia di santa Maria », Maria la. « renderà una perfetta discepola del sacro Cuore » (Avis, XIV, t. II, p. 388 (440) ; G. XXII, 670). E, per contro, assicura quelli che vogliono essere « i perfetti amici » del sacro Cuore, che la santa Vergine sarà la loro « speciale protettrice, per farli arrivare a quella vita perfetta » (Lettres inèdites, III, p. 130; G. CXXXIII, 554). Così, Ella vuole che ci si unisca « di cuore e di spirito «La SS. ma Vergine, per rendere omaggio al Verbo incarnato, adorandolo e amandolo in silenzio con lei ». Ella vide il sacro Cuore in atto di offrire i suoi sacrifizi all’Eterno Padre « sull’altare del cuore della madre sua »; e prega, e vuol che si preghi « il divin Cuor di Gesù, vivente nel cuore di Maria, di vivere e regnare in tutti i cuori » (Lettres inèdites, m. p. 130; G. CXXXII, 554). Di più, ella desidera che la Mediatrice del sacro Cuore, « chieda alla santa Vergine di interporre tutto il suo merito affinché Egli (il sacro Cuore) faccia sentire gli effetti del suo’ potere a tutti coloro che a Lui si rivolgeranno » (Avis, L1V (LV). t. II. p. 441 (502); G. LXX, 749). Ella stessa imparò da Nostro Signore a tenersi accanto alla Croce « con le stesse disposizióni che animavano la santa Vergine »; ad ascoltare la Messa in unione a queste disposizioni ; a fare la santa Comunione, offrendo al sacro Cuore « le sue disposizioni nel momento dell’Incarnazione, cercando di penetrarvi i l più possibile, domandandolo per la sua intercessione, e ripetendo con lei: « ecco la serva del Signore » (Lettera XLIV (XLV), t. II, p. 86 (123) ; G- L. 323), e finalmente, a fare la sua orazione offrendo « le disposizioni che animavano la Vergine santa nella sua presentazione al tempio » (Contemporaines, t. I, p. 6 9 (100); G. n. 115-116, p. 116). Da ciò si comprende come la santa chiedesse al P. Croiset d’inserire nel suo libro del sacro Cuore « le litanie del sacro Cuore della SS.ma Vergine » (Lettres inèdites, t. II, p. 99; G. CXXXI, 534). Ella torna ad insistere un mese dopo, il 15 settembre 1689, (Lettres inèdites, t. III, p. 123; G. CXXXII, 550) e in un’altra lettera del 16 maggio gli ricorda questa sua raccomandazione: « Non dimenticate le litanie della SS.m a Vergine, nostra buona Madre » (Lettres inèdites, IX, p. 200 ; G. CXXXVIII, 613). Per la beata la divozione a Maria e al cuore di Maria è inseparabile dalla divozione a Gesù e al cuore di Gesù.

7. Pregare e soffrire per le anime del Purgatorio.

L’amore del sacro Cuore accompagna le anime al loro uscir dalla vita, quando hanno bisogno di purificarsi nell’altra. Così vediamo Margherita Maria, tutta animata dalla compassione del divin Cuore per le « sue amiche sofferenti », farsi vittima per loro e attingere nei tesori del sacro Cuore per sollevarle. La prima festa del sacro Cuore a Paray fu impiegata, per la maggior parte, in loro favore. Le Contemporaines ci dicono infatti « che ella desiderò che il resto della giornata fosse impiegato a pregare per le anime del Purgatorio e condusse le sue novizie al nostro piccolo cimitero, ove fece dir loro gran quantità di preghiere per suffragarle » (Vie et Oeuvres, t. I, p. 209 (239) ; G. n. 238, p. 21S). PI scrive pure alia Madre de Saumaise : « Il sacro Cuore di Gesù abbandona spesso la sua miserabile vittima alle anime del Purgatorio, affinché soddisfaccia per loro alla divina giustizia. È allora eh’ io soffro quasi la loro stessa pena, non trovando riposo né il giorno né di notte » (Lettera LXXXVII (LXXXVIII), t. II, p. 178 (215); G. XCII. 416). La beata parla spesso di questo purgatorio dell’anima sua e di ciò che soffriva in tali circostanze. In compenso però Gesù non sapeva rifiutar nulla alla sua diletta, e le sue pratiche, in onore del sacro Cuore, avevano una speciale efficacia per sollevare le anime purganti. E’ ciò che le faceva scrivere alla Madre de Saumaise. « Se sapeste con quale ardore queste povere anime invocano questo nuovo rimedio, che ha forza sovrana per sollevarle! È così che esse chiamano la divozione al sacro Cuore, e particolarmente le Messe dette in onor suo » (Lettera LXXXV (LXXXVI), t. II, p. 170 (207) ; G. XC, 408). Con le Messe, ella chiede delle Comunioni, degli atti di virtù in amore del sacro Cuore e in spirito di riparazione, degli atti di unione al sacro Cuore, per soddisfare a Dio Padre con i meriti di questo Cuore divino. Scrive alla Madre de Saumaise : « Il soccorso che io le domando è di accordarmi nove pratiche ogni giorno, da oggi, sino all’Ascensione: quattro di carità e cinque di umiltà, per onorare, con le prime, l’ardente carità del sacro Cuore di Gesù, e riparare, con le altre, le umiliazioni principali che subì nella sua Passione » (1). Nelle sua « sfida » per l’ottava dei defunti ella assegnava alle sue novizie un metodo ben regolato che è insieme santificante per loro e utile alle povere anime. « Ecco, diceva ella, la maniera che mi sembra più conforme ai desideri del sacro Cuore di Gesù, per soddisfare, il più fedelmente alla promessa che avete fatta, in favore delle sante anime che soffrono nel Purgatorio. In primo luogo « penetrerete, come al solito, nel sacro Cuore, offrendogli tutto quello che direte e penserete ». Seguono diversi atti per i diversi momenti della giornata. Da tale ora alla tal’altra, « cinque atti di purità d’intenzione, con cinque atti di adorazione, unita con quella che Egli rende al Padre suo, nel santissimo Sacramento dell’altare, da offrirsi a Dio, per soddisfare alla sua giustizia, compensandolo, con la purezza del sacro Cuore, per la mancanza di purezza d’intenzione di quelle povere anime ». Così per tutto il giorno, sempre in unione con Gesù: pratica del silenzio, in unione con « quello di Gesù nel santo Sacramento; « pratica di carità » in unione con l’ardentecarità del sacro Cuore. per compensare le mancanze di quelle povere anime; « pratiche di umiltà, in unione dell’umiltà di quel Cuore divino, sempre per pagare coi suoi meriti, i debiti di quelle povere afflitte ». Esorta poi le sue novizie a fare, « alla sera, un. piccolo giro per il Purgatorio, in compagnia del sacro Cuore, consacrando a Lui tutto quello che avrete fatto nel giorno, pregandolo di volerne applicare il merito a quelle sante anime penanti. E queste pregherete, in pari tempo, a volere interporre il loro credito, per ottenervi la grazia di vivere e di morire nell’amore e fedeltà al sacro Cuore di Nostro Signor Gesù Cristo, corrispondendo ai suoi desideri su di noi, senza resistenza alcuna » ((ì) Avis, t. Ili (LIV), t. II, p. 440 (501); G. LIX, 735. Per maggiori particolari vedere l’opuscolo composto da una Ausiliatrice del Purgatorio. Le sacre Coeur, la B. Marguerite Marie et les àmes du Purgatoire, Paris, s. d.).

8. Pratiche diverse. —

Dagli scritti della beata, si possono rilevare diverse altre pratiche (Litanie, Piccolo Ufficio, etc.). Qualcuna di esse ha molta analogia con varie pratiche che hanno preso di poi grande sviluppo. I diversi Offici da disimpegnare in onore del sacro Cuore, discepolo, servo, adoratore, amico, mediatore, riparatore, zelatore, ecc., cominciano già a esserci rivelati dalla beata. Ella scrive alla madre Greyfié, parlandole di una suora. « Egli (il sacro Cuore, le ha assegnato il suo ufficio, costituendola sua Mediatrice…. e desidera che presso di lei si trovi una suora che gli renda il medesimo servizio; ma vuole che sia tirata a sorte. Egli vuole avere ancora una Riparatrice, e in quanto a lei, Madre mia, avrà l’ufficio di offrire a questo amabile Cuore, tutto il bene che verrà fatto in onor suo. (Lettera XLIV (XLV,. II, p. 86 (123); G. L. 323). – In una lettera al Padre Croiset ella chiede che si stabilisca una associazione di questa divozione (del sacro Cuore), i cui associati parteciperebbero al bene spirituale gli uni degli altri. È l’ideale dell’apostolato della preghiera e della Guardia d’onore. La beata vorrebbe pure stabilire una particolare unione e divozione ai santi Angeli, « che sono più particolarmente destinati ad amarlo (il sacro Cuore), onorarlo e servirlo nel divin Sacramento d’amore, affinché essendo uniti e associati a loro, supplissero per noi alla sua divina presenza, tanto per rendergli i nostri omaggi, quanto per amarlo per noi e per tutti quelli che non lo amano e per riparare le irriverenze che commettiamo alla sua santa presenza » (Lettres inèdites, II, p. 100; riveduto su G. CXXXI, 535). Questa unione con gli Angeli è stata realizzata negli Uffici.

II.

LO SPIRITO DELLA DIVOZIONE

L’amore, con ciò che ha di più vivo, tenero, generoso, zelante e pratico.

(Les Demeures dans le sacre Camr, t. II’, p. 469 (531); G. LC, 725: e « La manière d’ honorer les diverses vies de Notre Seigneur au Saint-Sacrement », t. II, p. 465 (527) ; G. LXII, 730.)

Considerando queste pratiche diverse, non crediamo già che la divozione al sacro Cuore, come la intende la beata, non consista che in questo. E’ più e meglio. La sua sostanza, consiste in una vita di unione con questo cuore amante, per sentire quello che ei sente, volere ciò che egli vuole, amare ciò che egli ama ; e per piacere a Dio, appropriandosi i suoi sentimenti e i suoi meriti, a Lui offrendoli, in una vita, infine, tutta d’amore e di riparazione amorosa (Vedi la « sfida » alle Novizie per prepararsi alla festa del sacro Cuore nel 1685. E’ troppo lungo riportarla qui per intero, ma eccone alcuni tratti: « Svegliandovi, entrerete nel sacro Cuore, consacrandogli corpo, anima, cuore e tutto quello che siete, per non più servirvene che per la sua gloria e il suo amore. « Quando andrete all’orazione, avrete cura di unirla a quella che Egli fa per voi, nel SS.mo Sacramento. « Quando direte l’ufficio, vi unirete alle lodi che Egli dà a Dio suo Padre, in questo divin Sacramento. « Per ascoltare la santa Messa, vi unirete alle intenzioni di questo amabile Cuore, pregandolo a volervene applicare il merito a seconda dei suoi adorabili disegni su di voi ». « Così l’intera giornata, coi suoi differenti esercizi e occupazioni, è tutta orientata verso il sacro Cuore nel SS.mo Sacramento. Le stesse mancanze sono utilizzate. Quando avrete commessa una qualche colpa, andrete a prendere nel suo divin Cuore la virtù contraria alla vostra colpa, per offrirla all’eterno Padre », etc. Avis. L (LI); p. 434 (495); G. LIII, 717). – Nelle pratiche, qualunque sieno, la beata non vede che un esercizio, di amore. Amare il divin Cuore che ci ama tanto e che ha sete d’esser riamato, rendergli amor per amore, ecco quàl è, per lei, il fondo della divozione al sacro Cuore. Così, per la beata, tutto è racchiuso in questa reciprocità d’amore; « Gesù, nel suo amore per noi, ha sete d’esser riamato » (Vedi Lettres inèdites, VI, p. 180 ; G. CXXXV, 600). L’anima che ha ben compreso questo, non vive più che per amarlo e farlo amare. Questo amore prenderà tutte le forme, impiegherà tutti i mezzi: pregherà, agirà, soffrirà sopratutto. Ma tutto si trasformerà in amore.

(E’ la lezione che N. S. si degnò dare alla sua serva, dopo il suo voto di perfezione, 31 ottobre 1686. Dopo avere scritto la lunga lista delle sue risoluzioni, la beata ebbe paura. “Nella moltitudine di tutte queste cose io mi sono sentita vinta da un si gran timore di non esservi fedele, che non avevo il coraggio di obbligarmi ». N. S. la rassicurò, dicendole nel più intimo del cuore: « Di che cosa temi, poiché Io rispondo per te?…. L’unità del mio puro amore ti terrà luogo d’attenzione nella moltiplicità di tutte queste cose». Contemporaines, t. I, p. 252 (280); G. n. 253, p. 238). E così, per mezzo dell’amore, l’anima devota del sacro Cuore, farà vivere Gesù in lei. La sua vita sarà la vita di Gesù. La beata scrive alla Madre de Soudeilles, il 15 settembre 1686: « Infine io desidero che siano tutte del sacro Cuore di Nostro Signor Gesù Cristo, per non più vivere che della sua vita, non amare che per il puro amor suo, non agire e soffrire che secondo le sue sante intenzioni, lasciandolo operar in noi e per, noi e come più gli piace (Lettera, X L VIII (XLIX), t. Il, p. 95 (132); riveduto su G. LIII, 331). Parlando un giorno di sé stessa al P. Croiset, (lettera 14 aprile 1489) essa dice: « Ebbi altra volta tre desideri così ardenti, da poterli riguardare siccome tre tiranni, che mi facevano soffrire un continuo martirio, senza darmi tregua. Bramo di amare il mio Dio, di soffrire e di morire in questo amore ». Ora, però, Margherita Maria è arrivata a non poter più volere o desiderare cosa alcuna. « lo vorrei affliggermene, qualche volta, continua, ma non lo posso: non appartenendo più a me stessa, non ho più nessun volere o libertà su di me. Ed ecco il pensiero che mi consola. È che il sacro Cuore di Nostro Signor Gesù Cristo, opererà tutto questo per me. Se lo lascio fare, Egli amerà e vorrà in mia vece, e supplirà a tutte le mie impotenze e imperfezioni ». E il 10 agosto: « Io sacrificherei tutto, senza riserva, poiché il mio cuore non sentendosi più suscettibile, mi sembra, che, degli interessi di questo divin Cuore, non mi preoccupo più in qual maniera mi tratti, da che mi usò la misericordia di consacrarmi Egli stesso alla sua gloria e al suo onore. Mi basti che Egli sia soddisfatto. Che m’innalzi o mi abbassi, che mi consoli o mi affligga, sono ugualmente contenta del contento suo…. Purché infine io possa amarlo, non voglio altro » (Lettres inèdites, II (autografo) p. 91; riveduto su G. CXXXI, 529). Le pagine di questo genere, non si contano nella sua corrispondenza. Un lungo passaggio di una delle sue lettere, ci mostrerà meglio che dei brevi estratti, ciò che è in lei e ciò che opera in lei la divozione al sacro Cuore. Ella scrive a Suor de la Barge, verso la fine d’ottobre 1689. « È dunque questa volta, cara amica, che dobbiamo consumarci tutte, senza eccezione, né remissione, in questa ardente fornace del sacro Cuore del nostro adorabile Maestro, da cui non bisogna mai uscire. Dopo avere annientato il nostro cuore di corruzione in quelle divine fiamme del puro amore, bisogna formarcene un nuovo che ci faccia vivere, ormai, di una vita tutta nuova, con un cuore nuovo, che abbia pensieri e affetti nuovi e che produca opere di purezza e fervore in tutte le nostre azioni. Vale a dire, che non si tratti più di noi stesse, ma che questo divin Cuore sia talmente sostituito al nostro, che lui solo agisca in noi e per noi; che la sua santa volontà annienti talmente la nostra, sì che possa agire assolutamente, senza incontrar resistenza da parte nostra. Infine, che i suoi affetti, pensieri e desideri, prendano il posto dei nostri, ma soprattutto i l suo amore, per modo che ami sé stesso in noi e per noi. Così se quest’amabile Cuore sarà il nostro tutto in ogni cosa, potremo dire con san Paolo che non viviamo più noi, ma è lui chi vive in ‘noi…. Mi sembra che non dobbiamo più respirare che fiamme del puro amore, amore crocifiggente e interamente sacrificato, per una immolazione di noi stesse alla divina volontà, affinché si compia perfettamente in noi; contentandoci, per parte nostra, di amarlo e lasciarlo fare, sia che ci abbassi o c’innalzi, che ci consoli o ci affligga; tutto deve esserci indifferente…. Purché Egli si contenti, ciò deve bastarci ». « Amiamolo, dunque, quest’unico amore delle anime nostre, poiché Egli ci ha amato il primo e ci ama ancora con tanto ardore, che ne abbrucia continuamente nel santissimo Sacramento. Non ‘ci bisogna altra cosa, per farci sante, che amare questo Santo dei santi. Chi potrà dunque impedirci di esserlo, poiché non abbiamo dei cuori che per amare, e dei corpi per soffrire? (Lettere (VIII -autografa-, t. II, p. 227 (275); riveduto.su G. CX, 467). La beata termina quest’inno all’amore, con questa specie di strofa ritmica, che narra i vantaggi dell’amore per arrivare alla perfezione: « Non vi ha che il suo amore che ci faccia fare tutto quello che gli piace; non vi ha che questo perfetto amore che ce lo faccia fare in quel modo che gli piace; non può esservi che questo amore perfetto, che ci faccia fare ogni cosa quando gli piace ».

IL SACRO CUORE (37)

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (10)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (10)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO. IV.

Del Decalogo

SEZIONE 2A. — Dei rimanenti comandamenti del Decalogo, che si riferiscono a noi stessi e al prossimo.

Art. 4. — DEL QUARTO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D. 207. Che cosa comanda Iddio nel quarto comandamento del Decalogo: Onora tuo padre e tua madre?

R . Nel quarto comandamento del Decalogo: Onora tuo padre e tua madre, Dio comanda che ai genitori e a coloro che ne fanno le veci venga reso l’onore dovuto; dal quale onore sono poi inseparabili, l’amore, l’obbedienza e l’ossequio (Esod, XX, 12; Deut, V, 16; XXVIII, 16; Eccli.,  VII, 29-30; Paolo: ad Eph., VI, 1-3; ad Coloss., III, 20. — Il Catechismo dei parroci, p. III, c. V, n. 7: « Onorare vuol dire aver di qualcuno onorevole concetto, e far grandissimo conto di tutto quanto possa riguardarlo. Da tale onore sono inseparabili questi altri doveri: l’amore, il rispetto, l’obbedienza e l’ossequio »).

D. 208 . Ai nostri genitori dobbiamo noi soltanto rendere onore?

R . Ai nostri genitori noi non dobbiamo soltanto rendere onore, ma dobbiamo ancora aiutarli, specie nelle loro necessità spirituali e temporali.

D. 209. Che sorta di premio promette Iddio ai figli che rendono onore ai genitori?

R . Ai figli che rendono onore ai genitori Dio promette la sua benedizione, e, qualora lo giudichi espediente all’anima, una lunga vita (Deut., V, 16; Eccli, III, 2-18; Paolo: ad Eph., VI, 1-3; Cat. p. parr, p. III, c. V, n. 17-19).

D. 210. Questo comandamento si limita forse a tracciare i doveri dei figli verso i genitori?

R. Questo comandamento non si limita a tracciare i doveri dei figli verso i genitori, ma traccia indirettamente anche quelli dei coniugi, sia mutui che verso i figli, come pure i mutui diritti e doveri tanto dei sudditi e dei superiori, quanto degli operai e dei padroni (Solo la Chiesa di Cristo può mantenere pace e concordia fra le diverse classi in cui gli uomini si dividono; la diversità, infatti, delle classi sociali non mira a renderle nemiche nell’odio, ma strette invece dal vincolo di un mutuo amore e soccorso, come si conviene a fratelli in Cristo. Questi e molti altri principi insegna ed inculca Leone XIII nella sua Encicl. Rerum Novarum, del 15 maggio 1891).

D. 211. Quali sono i doveri dei coniugi fra loro?

R . I doveri dei coniugi fra loro sono: l’amore, l’aiuto, la fedeltà vicendevoli; dovere della moglie verso il marito: l’ubbidienza (Paolo: I. ad Cor., XI, 3; ad Eph., V, 23-33; ad Coloss., III, 18-19; ad Tit., II, 4-5;» di Pietro, III, 1; Cod. Dir. Can., can. 1033, § 28).

D. 212 . Quali sono i doveri dei genitori verso i figli?

R . In forza dello stesso diritto naturale i doveri dei genitori verso i figli sono: prender cura della loro retta educazione, soprattutto religiosa e morale, e similmente provvedere secondo le proprie forze al loro bene temporale (Eccli., VII, 25-27; XXX, 1-3; Paolo: ad Eph., VI, 4; ad Coloss., III, 21; Cod. Dir. Can., can. 1131; Catech. p. parr, p. III, c. V, n. 21. — La disciplina religiosa e morale, venendo per lo più a basarsi sull’istruzione catechistica, ne consegue che strettissimo dovere dei genitori è quello di far debitamente istruire i propri figli nel Catechismo. Più che a tutti ciò spetta alla madre, la quale, fin dai primi passi, deve man mano insegnare ai suoi bambini i primi rudimenti del Catechismo. Che se le circostanze costringessero i genitori a delegare ad altri l’educazione dei figli, ricordino essi il loro dovere santissimo e l’obbligo di scegliere tali istituti e precettori che siano idonei a far le loro veci nell’espletare così nobile missione. Né trascurino di esercitare un diligente controllo sull’educazione religiosa e morale impartita ai loro figli; e qualora la riscontrino manchevole, ne colmino le lacune, e qualora positivamente difettosa, non esitino ad affidare i figli a migliori educatori.).

D . 213. Oltre che ai genitori, a chi compete il diritto e il dovere di prender cura della retta educazione della gioventù?

R . Il diritto e il dovere di prender cura della retta educazione della gioventù, compete, oltre che ai genitori, anche allo Stato, in quanto supplisce per il bene della comunità dove non bastino i genitori; a un titolo ben più alto compete alla Chiesa, in quanto l’incarico affidato dallo stesso Nostro Signore Gesù Cristo le impone di ammaestrare tutte le genti e di guidarle alla santificazione soprannaturale fino alla vita eterna. (Pio XI: Encicl. Divini illius Magistri, 31 dic. 1929).

D. 214 . Quali sono i doveri dei sudditi verso i loro legittimi superiori?

R . Ai loro legittimi superiori, sia ecclesiastici, sia civili, i sudditi debbono riverenza ed ubbidienza con un sentimento analogo a quella pietà che i figli debbono ai genitori (Paolo: ad Rom., XIII, 1-7; I. a ad Tim., II, 1-3; ad Hebr., XIII, 17; 1.» di Pietro, II, 13-18; Leone XIII: Encicl. Immortale Dei, 1 nov. 1885).

D. 215 . Quali sono i superiori ecclesiastici cui è dovuta non solo riverenza, ma anche ubbidienza?

R . I superiori ecclesiastici cui è dovuta non solo riverenza, ma anche ubbidienza a norma dei sacri canoni, sono: il Romano Pontefice, il proprio Vescovo od altro Prelato investito di ecclesiastica giurisdizione, e il proprio parroco nell’esercizio del ministero parrocchiale.

D. 216 . Perché all’autorità civile è dovuta riverenza e ubbidienza?

R . Alla legittima autorità civile, qualunque sia la persona che ne risulti investita, è dovuta riverenza ed ubbidienza, perché, non meno della società, essa si origina dalla natura e, quindi, dallo stesso Dio, autore della natura (Sap, VI, 4; Prov, VIII, 15; Paolo: ad Rom., XIII, 1, 2.: « Non vi è potere se non da Dio : orbene, quei poteri che sono, sono stati ordinati da Dio. Chi dunque resiste al potere, resiste all’ordine di Dio; e quelli che resistono cagionano a se stessi la dannazione ». Leone XIII: cit. Encicl. Immortale Dei, n. 6, 7, 11; S. Giov., Cris, In Epist. ad Rom., XXXIII, 1).

D. 217. A che cosa son tenuti i superiori riguardo ai propri sudditi?

R. I superiori, ognuno secondo la natura delle proprie funzioni, debbono aver cura dei propri sudditi e dar loro in tutto il buon esempio, atteso che ne dovranno render ragione non agli uomini soltanto, ma a Dio medesimo (Paolo: ad Hebr., XIII, 11; ad Tim., I V , 12).

D. 218. A che cosa son tenuti gli operai verso i loro padroni?

R. Verso i loro padroni gli operai son tenuti: a integralmente e fedelmente rendere quanto liberamente ed equamente venne pattuito, a non arrecar danni alle cose, a non offendere la persona dei padroni, ad astenersi dalla violenza quand’anche si trattasse di difendere le proprie ragioni, a non suscitar mai sedizioni e a non immischiarsi con criminali mestatori (Paolo: ad Eph., VI, 5-8; ad Coloss., III, 22-25; ad Tit., II, 9-10; la di Pietro II, 18; Leone XIII: Encicl. Rerum Novarum, 15 mag. 1891; Cat. p. parr, p. III, c. VIII, n. 9).

D. 219. Quali sono i doveri dei padroni verso i loro operai?

R. I padroni debbono cordialmente amare i loro operai, come fratelli in Cristo, debbono retribuirli con la dovuta mercede, aver cura di farli attendere alle pratiche di pietà durante un idoneo spazio di tempo, a nessun patto frastornarli dalla vita domestica e dall’amore dell’economia, infine non imporre loro fatiche che, o nuocciano alla salute o superino le forze, o non si confacciano all’età e al sesso (Paolo: ad Eph., VI, 9; ad Coloss., IV, 1; Giac, V, 4; Cod. D. C , can. 1524. — « Più di un elemento va considerato prima di poter stabilire su basi di equità la misura della mercede; ma in linea generale ricordino i ricchi e padroni che né divino né umano diritto li autorizzano a schiacciare bisognosi e miserabili al fine di procurare il proprio utile, né a realizzar guadagni sfruttando l’altrui povertà. Defraudare, poi, un uomo, chiunque esso sia, della mercede dovutagli, costituisce un delitto gravissimo che chiama a gran voce l’ira e la vendetta del Cielo: La mercede degli operai…. da voi defraudata, ecco che grida; e il grido loro ha colpito l’orecchio del Signore degli eserciti. (Giac, V, 4). I ricchi infine si guardino religiosamente dal danneggiare in checché sia i risparmi dei proletari, insidiandoli con la violenza, l’inganno o le arti usuraie: e tanto più se ne guardino che quei meschini poco e male valgono a difendersi contro le ingiustizie altrui e la propria impotenza, e che la loro sostanza quanto più piccola, tanto più va rispettata »; Leone XIII: cit. Encicl. Rerum novarum).

D. 220. Quand’è che dobbiamo non ubbidire ai genitori e agli altri superiori?

R. Dobbiamo non ubbidire ai genitori e agli altri superiori, quando s’imponga il precetto di un’autorità maggiore della loro, se, per esempio, venissero ad esigere alcunché di contrario ai comandamenti di Dio o della Chiesa (Matt, X, 37; Luca, XIV, 26; Atti, V, 29: «Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini » ; Leone XIII: Enc. Quod apostolici muneris, 28 dic. 1878; S. Tom, 2a 2æ, q. 104, a. 5).

D. 221. Quand’è che agli stessi possiamo non ubbidire?

R. Agli stessi possiamo non ubbidire quando il loro ordine abbia per oggetto cosa in cui non siamo sudditi, per esempio: un ordine circa la scelta di uno stato nella vita. (Nella scelta del genere di vita è indubbio che sia in potere ed arbitrio dei singoli di scegliere l’una o l’altra di queste due cose: o abbracciare il consiglio di Cristo circa la verginità, o legarsi col vincolo matrimoniale ». Leone XIII: cit. Enc. Rerum Novarum).

Art. 2, — DEL QUINTO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 222 . Che cosa proibisce Dio nel quinto comandamento del Decalogo: Non ammazzare?

R . Nel quinto comandamento del Decalogo: Non ammazzare, Dio proibisce di arrecare al prossimo la morte o altro danno del corpo o dell’anima, come pure di cooperarvi (Esod, XX, 13; Deut, V, 17; Matt, V, 21, 22, 43-47; XVIII, 6-9. — Ne consegue che anche l’aborto procurato vien proibito da questo stesso Comandamento. — Ma tutte le leggi e tutti i codici consentono di respingere la forza con la forza contro un ingiusto aggressore, salva però quella moderazione che deve accompagnare ogni giusta difesa).

D . 223. In qual modo si arreca un danno all’anima?

R. Si arreca un danno all’anima con lo scandalo, vale a dire con parole od azioni meno rette, tali da offrire al prossimo occasione di rovina spirituale (S. Tom, 2a 2æ, q. 43, a. 1.).

D. 224. A che cosa è tenuto chi arrecò un danno alla persona del prossimo?

R. Chi arrecò un danno alla persona del prossimo è tenuto, per quanto può, a riparare il danno arrecato.

D. 225. Con questo comandamento proibisce Dio anche il suicidio?

R. Con questo comandamento Dio proibisce anche il suicidio, atteso che, non meno dell’omicidio, esso va contro la giustizia col ledere i diritti di Dio sulla vita umana, e contro la carità che dobbiamo a noi stessi come agli altri, e toglie al colpevole il tempo stesso di pentirsi (Cod. Dir. Can., can. 1240, § 1, n. 3, e can. 2350, § 2; S. Tom., 2a 2æ, q. 64, a. 5).

D. 226 . Questo comandamento vieta pure il duello?

R. Questo comandamento vieta pure i l duello, per qualunque ragione venga deliberato di privata autorità, perché il duello riveste la malizia e dell’omicidio e del suicidio (Aless. VII: Prop. 2 Inter damnatas, 24 sett. 1665; Leone XIII: Epist. Pastoralis officii, 22 sett. 1891; Cod. Dir. Can., can. 1240, § 1, n. 4, e can.. 2351).

D. 227. Solo queste azioni vengono proibite dal presente comandamento?

R. Dal presente comandamento vengono proibite non solo queste azioni, ma anche le vendette private, le ire, gli odi, le invidie, gli alterchi, gli oltraggi, tutte cose che facilmente provocano le sopradette azioni (Matt., V, 21, 22; la di Giov, III, 15).

Art. 3. — DEL SESTO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D. 228. Che cosa proibisce Dio nel sesto comandamento del Decalogo: Non fornicare?

R. Nel sesto comandamento del Decalogo: Non fornicare, Dio proibisce, non solo l’infedeltà nel matrimonio, ma anche qualsiasi altro peccato esterno contro la castità, e quanto può indurre al peccato d’impurità (Esod, XX, 14; Deut, V, 18; Matt,, V, 27, 28; Paolo: ad Rom., I , 26, 27; I.a ad Cor., V, 9 e segg.; VI, 9, 10, 13 e segg, ad Eph., V, 3-7; l. a ad Thess., IV, 4; I. a ad Tim., I, 9,10; ad Hebr., XIII, 4. Il peccato contro la castità deriva dall’incontinenza o lussuria, che così si definisce: il disordinato desiderio od uso di una soddisfazione venerea; e direttamente voluta, espressamente cercata e compiuta con piena deliberazione, è sempre peccato mortale. Col sesto comandamento del Decalogo è proibito l’esterno peccato di lussuria; col nono, il peccato interno. H Prov, VII, 5 e segg.; Eccli, IX, 1,13; XIX, 2; XLII, 12; Paolo: I. ad Cor., XV, 33; ad Eph., V, 3, 4, 18; ad Coloss., III, 8; Pio XI: Encicl. Divini illius Magistri, 31 die. 1929. — Dovendo custodire la bellissima virtù della castità, ti è d’uopo, o cristiano, una vigilanza assai maggiore che non per difendere le altre virtù; e la ragione si è che ad insidiare continuamente quel prezioso tesoro non sono soltanto gli esterni allettamenti, ma anche i moti dell’animo e gli appetiti della voluttà, quali nascono e si destano dalla nostra carne medesima. Ma, quanta diligenza possa usarsi, sarà questa priva di qualsiasi effetto se non vien sorretta dall’aiuto divino; aiuto che Dio non rifiuta a nessuno che debitamente lo richieda. Perciò, o cristiano, se non parola per parola, almeno a senso ripeti spesso quella piccola preghiera che il sacerdote recita nel prepararsi alla Messa : « Brucia, o Signore, col fuoco dello Spirito Santo i nostri reni e il nostro cuore, onde possiamo con casto corpo servirti e con mondo cuore piacerti ».

D. 229. Quali sono le cause precipue che inducono al peccato contro la castità e che sono da evitarsi accuratamente?

R. Oltre le suggestioni diaboliche e i moti della concupiscenza, le cause precipue che inducono al peccato contro la castità e che sono da evitarsi accuratamente, sono: l’ozio, l’intemperanza nel mangiar e nel bere, la cattiva società, i discorsi osceni, le cattive letture, i turpi spettacoli, le danze immodeste, le vesti indecenti, le familiarità e le occasioni pericolose ( 1 ).

D. 230. Quali sono per lo più le principali conseguenze del peccato d’incontinenza?

R. Oltre i danni che spesso ne vengono alla salute, le principali conseguenze del peccato d’incontinenza sogliono essere: l’oscurarsi della mente, il dileguarsi dell’amor di Dio, il tedio delle cose divine e della virtù, la durezza del cuore, la perdita della fede, e non di rado l’impenitenza finale (Giobbe, XXXI, 9-12; Prov, XXIII, 27; XXIX, 3; Os, IV, 11, 12; V, 4; Paolo: ad Rom., I , 24 e segg.; L» ad Cor., II, 14; V, 1-5; ad Eph., V, 3, 4; ad Coloss., III, 5-8; l a di Pietro, IV, 3, 4. — S. Tommaso, 2a 2ae, q. 153, a. 5, ove vengono enumerate e spiegate le conseguenze (figlie) della lussuria: la cecità della mente, l’inconsideratezza, la precipitazione, l’incostanza, l’amore di se stesso, l’odio di Dio, l’affetto al mondo presente e l’orrore di quello futuro.

D. 231. Quali sono i mezzi principali per conservare la castità?

R. I mezzi principali per conservare la castità sono: la custodia e la mortificazione dei sensi, la fuga delle cattive occasioni, la temperanza nel mangiare e nel bere, l’orazione, e una tenera pietà verso la beata Vergine Maria, e soprattutto la Confessione e Comunione frequente.

Art. 4. — DEL SETTIMO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 232. Che cosa proibisce Iddio nel settimo comandamento del Decalogo: Non rubare?

R. Nel settimo comandamento del Decalogo: Non rubare, Dio proibisce qualsiasi ingiusta usurpazione o danneggiamento della roba altrui, come qualsiasi cooperazione all’una o all’altra. (Esodo, XX, 15; Deut, V, 19; Paolo: I. ad Cor., VI, 10; Apoc, IX, 21.

D. 233. A che cosa è tenuto chiunque viola questo comandamento?

R. Chiunque viola questo comandamento è tenuto per giustizia e secondo le sue forze a restituire la roba altrui e a riparare il danno.

D. 234. Quand’è che l’obbligo della restituzione e della riparazione è grave?

R. L’obbligo della restituzione e della riparazione è grave quando grave ne sia stata la materia, a giudizio dei più, o in base alla gravità del danno patito dal padrone della roba.

Art. 5. — DELL’OTTAVO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 235. Che cosa proibisce Iddio nell’ottavo comandamento del Decalogo: Non dire falsa testimonianza?

R. Nell’ottavo comandamento del Decalogo: Non dire falsa testimonianza, Dio ci proibisce di proferir menzogne, di giurare il falso, e di arrecare comunque danno al prossimo con le nostre parole (Esodo, XX, 16; Deut, V, 20; Prov, VI, 19; XII, 22; Sap, I, 11; Eccli., VII, 13; XX, 26-28; Paolo: ad Eph., IV, 25; ad Coloss., III, 9).

D. 236. In qual maniera si arreca danno al prossimo con le parole?

R. Si arreca danno al prossimo con le parole, principalmente con la calunnia, la detrazione, la contumelia,

il giudizio temerario espresso, la violazione del segreto (La menzogna, strettamente parlando, è una proposizione scientemente contraria alla verità e atta per sè stessa a indurre il prossimo in errore. La calunnia è la lesione del buon nome altrui mediante la narrazione di un qualche falso crimine; chi, per contro, venisse a ledere senza giusto motivo l’altrui fama col racconto di un crimine vero sì, ma ignorato, commetterebbe una detrazione. La contumelia, per sé stessa, è la lesione dell’onore, arrecata a persona o fisicamente o moralmente presente: in un senso più largo comprende ugualmente la lesione dell’onore arrecata a persona assente, o a voce o per iscritto. Il giudizio temerario vien definito come un giudizio fermamente concepito, senza ragione sufficiente, circa un peccato altrui. La violazione del segreto è la ricerca o la manifestazione ingiusta di una cosa occulta o da occultarsi, come pure l’uso del segreto ingiustamente raggiunto. « Maledetto il sussurrone e l’uomo di lingua doppia; molti infatti ne verranno turbati che ora godono pace », Eccli., XXVIII, 15; Prov, VIII, 13; San Tom, 2a, 2æ, q. 73, a. 2 : « Togliere la fama a qualcuno è grave peccato, in quanto la fama vien considerata fra tutte le cose temporali come la più preziosa; l’esserne infatti privato significa per l’uomo aver preclusa la via a molte buone attività ». Indi è che l’Eccli., XLI dice: « Abbi cura del tuo buon nome: imperocché questo ti rimarrà più che non mille grandi e preziosi tesori. »

D. 237. A che cosa è tenuto chi ha leso con le sue parole la buona riputazione del prossimo?

R. Chi ha leso con le sue parole la buona riputazione del prossimo è tenuto per obbligo di giustizia a risarcirla per quanto è in lui e a compensare il danno arrecato: e tale obbligo è grave, se grave è stato il danno arrecato.

Art. 6. — DEGLI ULTIMI DUE COMANDAMENTI DEL DECALOGO.

D. 238. Che cosa proibisce Iddio nel nono comandamento del Decalogo: Non desiderare la donna d’altri?

R. Nel nono comandamento del Decalogo: Non desiderare la donna d’altri, Dio proibisce non solo questo malvagio desiderio, ma eziandio qualunque peccato interno contro la castità, mentre quello esterno lo proibisce nel sesto comandamento (Esod., XX, 17; Deut, V, 21).

D. 239. Che cosa proibisce Iddio nel decimo comandamento del Decalogo: Non desiderare la roba d’altri?

R. Nel decimo Comandamento del Decalogo: Non desiderare la roba d’altri, Dio proibisce di bramare ingiustamente e disordinatamente i beni degli altri (Esod, XX, 17; Deut, V, 21; Paolo: la ad Tim., VI, 10).

D. 240. Qual’è il riassunto di tutti i comandamenti del Decalogo?

R. Il riassunto di tutti i comandamenti del Decalogo è questo: Amerai i l Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutte le tue forze, e il prossimo tuo come te stesso ((3) Lev, XIX, 18; Deut, VI, 5; Matt, XXII, 37-40; Marc, XII, 30-31; Luc., X, 27; Paolo: ad Rom., XIII, 10; ad Gal. V, 14; Giac, II, 8; S. Leone M.: Serm. IX De jejunio septimis mensis: « Amare il prossimo è amare Dio, il quale, proprio nell’unità di questo duplice amore, ha costituito la pienezza della legge e dei profeti » ; S. Tom, la, 2æ, q. 100, a. 3° ad l.um; Cat. p. parr., p. III, c. I, n. 1).

D. 241. Sono tutti tenuti anche ad osservare i doveri del proprio stato?

R. Tutti sono tenuti anche a diligentemente osservare i doveri del proprio stato, quelli, cioè, cui ognuno è astretto, a ragione della propria condizione e del proprio ufficio.

CAPO V.

Dei Precetti della Chiesa.

D. 242. Quanti sono i precetti della Chiesa?

R. I precetti della Chiesa, tutti da osservarsi dal Cattolico, sono parecchi; per esempio: non leggere né tenere libri proibiti, non ascriversi a setta massonica o ad altre sette del genere, astenersi dalla solenne benedizione delle nozze in tempo chiuso, non cremare i cadaveri dei fedeli, ed altri ancora; ma all’inizio del presente catechismo cattolico, ne sono enumerati cinque soltanto, che hanno maggiore attinenza all’ordinaria vita spirituale di tutti i fedeli.

Art. 1. DEL PRIMO PRECETTO DELLA CHIESA.

D. 243. Che cosa prescrive la Chiesa nel primo precetto: Nelle domeniche ed altre feste di precetto ascoltare la Messa e astenersi dalle opere servili?

R. Nel primo precetto: Nelle domeniche, ecc., la Chiesa prescrive il modo di santificare la domenica e le altre feste di precetto: e ciò si fa innanzi tutto ascoltando la Messa e estenendosi dalle opere servili (Cod. D . C , can. 1248).

D. 244. Non esige forse lo stesso diritto naturale che l’uomo consacri un dato tempo al culto divino?

 R. Lo stesso diritto naturale esige che l’uomo consacri un dato tempo al culto divino, astenendosi dagli affari e lavori corporali, onde possa col corpo e con l’anima piamente onorare e venerare quel Dio creatore, dal quale ha ricevuto sommi ed innumerevoli benefici (Cat. p. parr, p. III, c. IV, n. 11).

D. 245. Quali sono le feste di precetto nella Chiesa universale?

R. Sono feste di precetto nella Chiesa universale, all’infuori delle domeniche: la Natività, la Circoncisione, l’Epifania, l’Ascensione e il Corpus Domini, l’Immacolata Concezione e l’Assunzione della beata Vergine Maria, S. Giuseppe suo sposo, i SS. Pietro e Paolo Apostoli e tutti i Santi (Cod. D . C , can. 1247 e segg.).

D. 246. Oltre che ad ascoltare la Messa, a quali opere conviene che il cristiano si applichi le domeniche e le altre feste di precetto?

R. Oltre che ad ascoltare la Messa conviene che le domeniche e le altre feste di precetto il Cristiano si applichi, per quanto sta in lui, ad opere di pietà e di religione, soprattutto assistendo alle sacre funzioni, ascoltando le sacre predicazioni e la spiegazione del catechismo.

D. 247. Quali opere vengati chiamate servili?

R. Vengon chiamate servili le opere compiute per lo più da servi e mercenari, e sono quelle che richiedono uno sforzo prevalentemente fisico, e che hanno per fine precipuo l’utilità corporale.

D. 248. Vi sono alcune opere servili permesse nella domenica e nelle altre feste di precetto?

R. Nelle domeniche ed altre feste di precetto vengon permesse le opere servili che abbiano diretta attinenza sia col culto di Dio, sia con le consuete necessità del servizio pubblico o domestico, quelle richieste dalla carità, e quelle infine che, o non si possono omettere senza grave incomodo, o che sono autorizzate da provata consuetudine.

D. 249. Nelle domeniche ed altre feste di precetto bisogna astenersi soltanto dalle opere servili?

R. Nelle domeniche ed altre feste di precetto bisogna astenersi non soltanto dalle opere servili, ma anche dalle azioni forensi e, salvo che legittime consuetudini o particolari indulti altrimenti permettano, dal pubblico mercato, dalle fiere ed altre pubbliche compere e vendite.

D . 250. Peccano coloro che non osservano le domeniche ed altre feste di precetto, oppure impediscono agli altri di osservarle?

R . Gravemente peccano coloro che senza giusto motivo non osservano le domeniche ed altre feste di precetto, oppure impediscono gli altri di osservarle.

Art. 2. — DEL SECONDO PRECETTO DELLA CHIESA.

D. 251. Che cosa è prescritto nel secondo precetto: Astenersi dal mangiar carne ed osservare il digiuno nei giorni fissati dalla Chiesa?

R. Nel secondo precetto: Astenersi, etc, è prescritto che nei giorni fissati dalla Chiesa noi osserviamo o il solo digiuno, o la sola astinenza, o il digiuno e l’astinenza assieme (Cod. D. C , can. 1250 e segg.).

D. 252. Che cosa ordina la legge del solo digiuno?

R. La legge del solo digiuno ordina che si faccia in giornata un pasto soltanto, ma non vieta di prendere qualche po’ di cibo la mattina e la sera, attenendosi, riguardo alla quantità e qualità di cibi, alla comune consuetudine locale.

D. 253. Che cosa vieta la legge della sola astinenza dalla carne?

R. La legge della sola astinenza dalla carne vieta di mangiar carne e sugo di carne; non vieta, invece, le uova, i latticini e i condimenti di qualsiasi genere anche se c’entri il grasso di animale.

D. 254. In quali giorni obbligano le suddette leggi?

R. A meno che la legittima autorità altrimenti disponga per indulto:

1° la legge della sola astinenza obbliga tutti e singoli i venerdì;

2° la legge dell’astinenza e del digiuno assieme, il mercoledì delle Ceneri, i venerdì e sabbati di Quaresima, i giorni di Quattro Tempora, le vigilie della Pentecoste, dell’Assunta (poi sostituita dall’Immacolata), di tutti i Santi e della Natività del Signore;

3° la legge del solo digiuno, obbliga nei rimanenti giorni di Quaresima, salvo le domeniche.

D. 255. Vi sono certi giorni in cui le leggi suddette non hanno applicazione?

R. Nelle domeniche ed altre feste di precetto, e nel Sabbato Santo dopo mezzogiorno, la legge dell’astinenza, o della astinenza e digiuno, o del digiuno soltanto, non hanno applicazione, salvo che la festa di precetto cada in Quaresima; le vigilie poi non si anticipano (Can. D. C , can. 1252, § 4).

D. 256. Quali persone debbono osservare l’astinenza e il digiuno?

R. A meno di avere una legittima scusa o una dispensa, deve osservare l’astinenza chiunque, in sufficiente possesso della ragione, ha compiuto il settimo anno; tutti poi indistintamente, son tenuti alla legge del digiuno, da vent’anni compiuti a sessanta iniziati.

257. Per qual ragione la Chiesa prescrive l’astinenza e il digiuno?

R. La Chiesa prescrive l’astinenza e il digiuno onde i fedeli facciano penitenza dei peccati commessi, si guardino dai futuri, e così attendano più efficacemente alla preghiera (Tob, XII, 8; Gioel, II, 12, 15; Matt., VI, 16; IX, 15; XVII, 20; Marco, II, 20; Luca, II, 37; V, 35; Paolo: ad Rom., XIII, 13; 2a ad Cor., V I , 5; X I , 27; ad Eph., V, 18; la ad Thess., V,6; ad Tit., II, 2).

Art. 3. — DEL TERZO E QUARTO PRECETTO DELLA CHIESA.

D . 258. Che cosa prescrive la Chiesa nel terzo precetto: Confessare i propri peccati almeno una volta all’anno?

R. Nel terzo precetto: Confessare i propri peccati almeno una volta all’anno, la Chiesa prescrive ai fedeli pervenuti all’età di discrezione di fare almeno una volta nell’anno la confessione dei peccati mortali, non direttamente rimessi nelle confessioni precedenti (Conc. Lat. IV, cap. 21; Conc. di Tr., sess. XIV, de Pœnitentia, c. 5. — Se vuoi custodir l’anima tua immune dai peccati, se vuoi condurre una vita degna di un cristiano, avvicinati di frequente al sacramento della Penitenza, sempre, ben inteso, con una diligente preparazione; prendi, poi, la buona abitudine di confessarti come se dovessi immediatamente e dopo morire. Ricevuta l’assoluzione, rendi grazie a Dio d’essersi mostrato tanto misericordioso verso di te; poscia, se lo puoi, fa subito la tua penitenza.).

D . 259. Che cosa prescrive la Chiesa nel quarto precetto: Ricevere il Sacramento dell’Eucaristia almeno a Pasqua?

R. Nel quarto precetto: Ricevere il Sacramento dell’Eucaristia almeno a Pasqua, la Chiesa prescrive ad ogni fedele che abbia raggiunto l’età di discrezione, di ricevere l’Eucaristia, almeno entro il tempo pasquale (Conc. Lat, IV, 1. e; Conc. di Tr., sess. XIII De Eucaristia, can. 9; Cod. D. C , can. 859, § 1).

D. 260. Debbono i fedeli soddisfare a questo precetto, ognuno nel proprio rito e nella propria parrocchia?

R. Per quanto i fedeli non abbiano al riguardo alcun obbligo stretto, vanno tuttavia consigliati di soddisfare a tale precetto, ognuno nel proprio rito e nella propria parrocchia; chi poi avesse soddisfatto in un rito diverso dal suo o in una parrocchia estranea, abbia cura d’informare il proprio parroco del compiuto precetto (Cod. D. C., 1. c, § 3, e can. 866, § 2. — Nella Chiesa latina la Santa Comunione vien somministrata sotto l’unica specie del pane ; sotto le due specie nella maggior parte delle Chiese orientali).

D. 261. Perché nel terzo e quarto precetto la Chiesa ha aggiunto quella parola: Almeno?

R . Nel terzo e quarto precetto la Chiesa ha aggiunto quella parola: almeno, per insegnarci essere assai utile e conforme ai suoi desideri che i fedeli — pure quelli che hanno soli peccati veniali, ovvero mortali già direttamente rimessi — si confessino spesso e si accostino di frequente, anzi ogni giorno, con pietà alla mensa Eucaristica (S. Congr. d. Conc: Decr. Sacra Trid. Synodus, 20 dic. 1905; S. Congr. d. disc, dei Sacr. : Decr. Quam singulari, 8 ag. 1910, n. VI. — Accostati di frequente alla Santa Comunione, con purezza d’animo e ardor di desiderio. Non v’è tempo più prezioso di quello in cui ti stringi intimamente a te unito l’amantissimo tuo Salvatore. Non ti sia di peso il prolungare alquanto il tempo che trascorri con Lui nel ringraziamento).

D. 262. Qual è l’età di discrezione in cui cominciano ad obbligare ì due precetti della Confessione e della Comunione?

R . L’età di discrezione in cui cominciano ad obbligare i due precetti della Confessione e della Comunione, è quella in cui il bambino comincia a ragionare, ossia verso il settimo anno d’età, sia sopra sia anche sotto (S. Congr. d. discipl. dei Sacr., 1. e, n. I).

D. 263. Quest’obbligo che grava sui bambini, ricade pure su altri?

R . Quest’obbligo che grava sui bambini, ricade pure e principalmente sulle persone che debbono aver cura di essi, quindi sui genitori, sui tutori, sui maestri, sul confessore e sul parroco (S. Congr. d. discipl. dei Sacr, 1. c, n. IV; Cod. D. C., can. 860, 1340).

D. 264. Quale conoscenza della dottrina cristiana è richiesta perchè un bambino possa e debba venir ammesso alla prima comunione?

R. Perché un bambino possa e debba venir ammesso alla prima comunione:

1° in pericolo di morte, basta ch’egli sappia discernere il corpo di Cristo dal cibo comune e riverentemente adorarlo;

2° fuori del pericolo di morte, si esige inoltre ch’egli comprenda, secondo la sua capacità, almeno quei misteri della fede necessari di necessità di mezzo, e distingua il pane Eucaristico da quello comune e corporale, e ciò affinché possa accostarsi all’Eucaristia con tutta la devozione consentita dalla sua età.

 (S. Congreg. d. discipl. d. Sacr, 1. c, n. II, III D. C, can. 854; Cat. p. parr, p. II, c. IV, n. 62, 63, e c. V, n. 44. — Le condizioni requisite per degnamente e devotamente ricevere la Santa Comunione vengono esposte nelle DD. 339 e segg.).

D. 265. Fatta la prima comunione, a che cosa son tenuti i bambini?

R . Fatta la prima comunione, i bambini son tenuti ad imparare per intero a grado a grado e nella misura della loro intelligenza, il catechismo espressamente composto per essi. (S. C. d. disc. d. Sacr., 1. e, n. II).

D. 266. Qual è, in materia, il dovere dei genitori e di quanti hanno cura dei bambini?

R. Il dovere dei genitori e di quanti hanno cura dei bambini è, in materia, quello gravissimo di provvedere a che i bambini medesimi vadano ad assistere alle pubbliche lezioni di catechismo; in caso contrario, di supplire in altro modo alla loro istruzione religiosa (S. C. d. disc. d. Sacr., 1. e, n. VI).

D. 267. Da quando decorre il tempo pasquale in ordine alla Comunione da riceversi?

R. Il tempo Pasquale in ordine alla Comunione da riceversi decorre dalla Domenica delle Palme alla Domenica in Albis, salvo che la legittima autorità della Chiesa abbia altrimenti disposto (Cod. D. C , can. 859, § 2).

D . 268. Cessa il precetto della Comunione non soddisfatto durante il tempo pasquale?

R . Il precetto della Comunione non soddisfatto durante il tempo pasquale, non cessa affatto per questo, anzi bisogna compierlo subito appena sia possibile, entro lo stesso anno.

D. 269. Si ottempera al precetto dell’annua Confessione o della Comunione pasquale mediante una Confessione o Comunione sacrilega, oppure una Confessione volontariamente invalida?

R. Né mediante una Confessione o Comunione sacrilega, né mediante una Confessione volontariamente nulla si ottempera al precetto dell’annua Confessione o della Comunione pasquale, anzi in seguito al nuovo peccato il precetto stringe maggiormente (Cod. D. C , can. 97; S. C. del S. Ufficio: Decr. 24 sett. 1665, prop. 14 damn.).

Art. 4. — DEL QUINTO PRECETTO DELLA CHIESA.

D. 270. Che cosa comanda la Chiesa nel quinto precetto: Sovvenire alle necessità della Chiesa e del clero?

R. Nel quinto precetto: Sovvenire alle necessità della Chiesa e del Clero, la Chiesa inculca ai fedeli il divino comandamento di sovvenire alle necessità temporali della Chiesa e del clero, a norma di particolari decisioni

e di lodevoli consuetudini (Deut., XVIII, 1-8; Matt, X, 10; Luca, X, 7; Paolo, 1a ad Cor., IX, 9-14; la ad Tim., V, 18; Cod. D. C., can. 1502; S. Tom, 2a, 2æ, q. 87, a. 1).

D. 271. Perché vien ciò comandato?

R. Ciò vien comandalo perché è giusto che ai ministri del culto che si affaticano per la loro salvezza i fedeli somministrino quanto è necessario a coprire le spese del culto divino e ad un onesto loro sostentamento.

CAPO VI.

Dei consigli evangelici.

D. 272. Oltre i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa vi sono pure dei consigli?

R. Oltre i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa vi sono pure dei consigli, dati per la prima volta nel Vangelo da Nostro Signor Gesù Cristo, e perciò chiamati Consigli evangelici.

D. 273. Che cosa sono i consigli evangelici?

R. I consigli evangelici sono dei mezzi proposti da Gesù Cristo per conseguire con maggior facilità e pienezza la perfezione spirituale.

D. 274. Quali sono i principali consigli evangelici?

R . I principali consigli evangelici sono: la povertà volontaria, la perfetta castità e una speciale obbedienza da prestarsi per amore di Gesù Cristo (Della povertà: Matt, XIX, 21; Marco, X, 21; Luca, XVIII, 22. Della castità: Matt, XIX, 12; Paolo, 1a ad Cor., VII, 25, 32, 34. Dell’obbedienza: Luca, X, 16; Giov., XIII, 20; S. Tom, 2a, 2æ, q. 86, a. q. ad l.um).

D. 275. In qual modo con la pratica di questi consigli acquistasi con maggior facilità e pienezza la perfezione spirituale?

R. Con la pratica di questi consigli si acquista con maggior facilità e pienezza la perfezione spirituale in quanto, col dedicare a Dio la volontà mediante l’ubbidienza, il corpo mediante la castità e i beni esterni mediante la povertà, noi veniamo disposti alla carità perfetta (Pio XI, Encicl. Quas primas, 11 dic. 1925, verso la fine; S. Tom, la, 2æ, q. 108, a. 4).

D. 276. Chi è che deve seguire i consigli evangelici?

R. Deve seguire i consigli evangelici chi ad essi si è liberamente astretto; per esempio i Religiosi, i quali per voto son tenuti ad osservare i tre consigli evangelici secondo la regola del proprio Istituto.

(Coloro tutti che, rispondendo all’appello divino, abbracciano un qualsiasi Istituto di vita religiosa approvato dalla Chiesa, mentre si applicano, come ne hanno il diritto, alla cristiana perfezione secondo i consigli evangelici, nel medesimo tempo si rendono utilissimi alla salvezza del prossimo come alla stessa civile società; e ciò o con l’assidua orazione, o con l’esempio delle virtù, o curando gl’infermi e gl’infelici di ogni sorta, o educando la gioventù, o approfondendosi nelle cose divine e nelle lettere. È quindi giusto che tanto gl’individui, quanto le famiglie e la società li facciano segno di particolari espressioni di riverenza, di ammirazione e di gratitudine. — Leone XIII, Lett. al Card. Gibbons, 22 genn. 1889; e la Lett. al Card. Richard, 23 dic. 1900; Pio XI, Lett. Unigenitus Dei Filius, 19 mar. 1924 ; Cod. D. C., can. 487).

D. 277. Per poter credere, come dobbiamo, quanto è da credersi, per poter osservare i comandamenti di Dio

e i precetti della Chiesa e seguire i consigli evangelici, abbiamo noi bisogno di un qualche aiuto?

R. Per poter credere, come dobbiamo, quanto è da credere, per potere osservare i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa e seguire i consigli evangelici noi abbiamo bisogno della grazia di Dio. (Giov, XV, 5; Paolo, Ia ad Cor., III, 6; IV, 7; 2a ad Cor., III, 5; ad Eph., II, 8-10).

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (11)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (12)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [12]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXVII.

D’altre ragioni che vi sono per consolarci e per conformarci alla volontà di Dio nelle aridità, tristezze e abbandonamenti nell’orazione.

Ancorché sia bene il pensare noi altri, che un tal travaglio ci viene per le nostre colpe, acciocché, così facendo, andiamo sempre più confondendoci e umiliandoci; nondimeno è ancor necessario, che sappiamo, che non tutte le volte è castigo delle nostre colpe, ma disposizione e provvidenza altissima del Signore, il quale distribuisce i suoi doni come gli piace, e non conviene, che tutto il corpo sia occhi, né piedi, né mani, né capo, ma che nella sua Chiesa vi siano membri differenti: e così non conviene che sia conceduta a tutti quell’orazione specialissima e sublime della quale dicemmo trattando dell’orazione (Sapra tract. 5, c, 4 et 5):  e questo non è sempre necessario che avvenga per cagione de’ nostri demeriti; perché  ancorché ci siano alcuni che meritino grazie e favori nell’orazione, ciò non ostante potranno presso Dio acquistare merito maggiore con qualche altra cosa; e così sarà maggior grazia di Dio il dar loro quella anzi che questa. Vi sono stati molti Santi grandi i quali non sappiamo che avessero questi segnalati favori di orazione; e se gli ebbero, dissero con S. Paolo, che non si pregiavano né si gloriavano di questo, ma del portar la croce di Cristo: Mihi autem absit gloriavi, nisi in cruce Domini nostri Jesu Christi (Ad Gal. VI, 14). – Il P. M. Avila dice intorno a questo una cosa di molta consolazione, ed è, che Dio lascia alcuni sconsolati per molti anni e alle volte per tutta la vita: e la parte e sorte di questi credo, dice egli, che sia la migliore, se essi hanno fede, per non prendere ciò in mala parte, e pazienza e fortezza per tollerare un sì grande desolamento (M. Avil. tom 2, ep. fol. 22; supra tract 5, c. 20). Se uno si persuadesse affatto, che questa sorte è la migliore per lui, facilmente si conformerebbe alla volontà di Dio. I Santi e maestri della vita spirituale adducono molte ragioni per dichiarare e provare, che per questi tali è migliore e più conveniente questa sorte: ma per ora ne diremo solamente una delle principali, che apportano S. Agostino, S. Girolamo, S. Gregorio, e comunemente tutti quei che trattano di questa materia (D. Aug. lib. de orando Deum, quæ est ep. 121 ; D. Hier. Supra illud Thrén. in: Sed et cum clamavero, et rogavero, exclusit orationem meam; D. Greg. lib. 20 mor. c. 21, 24): ed è che non ècosa da tutti il conservar l’umiltà fra l’altezza della contemplazione: perciocché appena abbiamo buttata una lagrimuccia, che ci pare d’esser già spirituali e uomini d’orazione, e ci vogliamo uguagliare, e forse anche preferire ad altri. Insino l’apostolo S. Paolo pare che avesse bisogno di qualche contrappeso, acciocché queste cose non lo facessero invanire: Et ne magnitudo revelationum exlollat, me; datus est mihi stimulus carnis mece, angelus satanæ, qui me colaphizet (II. ad Cor. XII, 7). Acciocché l’essere stato egli rapito sino al terzo cielo e le grandi rivelazioni che aveva avute non lo facessero insuperbire, permise Iddio, che gli venisse una tentazione la quale l’umiliasse e gli facesse conoscere la sua debolezza: or perciò, benché quella strada paia più alta, quest’altra è più sicura. E così il sapientissimo Dio, il quale ci guida tutti ad un medesimo fine, ch’è Egli stesso, conduce ciascuno per la strada che sa essergli più espediente. Forse che se tu avessi avuta grande introduzione nell’orazione, in cambio di riuscir umile e con gran profitto, saresti riuscito superbo e gonfio; e in quest’altro modo stai sempre umiliato e confuso, riputandoti inferiore a tutti: onde questa è migliore e più sicura strada per te, sebbene non la conosci: Nescitis quid petatis (Matto XX, 22): Non sapete quello che domandate, né quello che desiderate. – S. Gregorio sopra quelle parole di Giob, Si venerit ad me, non videbo eum; si abierit, non intelligam (Greg. lib. 9 Mor. c. 7 in Job ix, 11): Se il Signore verrà a trovarmi, non lo vedrò; e se andrà via e s’allontanerà da me, non l’intenderò, insegna una dottrina molto buona a questo proposito. Restò l’uomo, dic’egli, tanto cieco per lo peccato, che non conosce quando si vada avvicinando a Dio, né quando si vada allontanando da Lui: anzi molte volte quel ch’egli si pensa che sia grazia di Dio e che per quel mezzo si vada avvicinando più a lui, se gli converte in castigo e gli è occasione di più allontanarsene: e molte volte quello che egli si pensa che sia castigo e che Dio si vada allontanando e dimenticandosi di lui, è grazia e motivo, perché non se ne scosti. Perciocché chi sarà quegli che veggendosi in un’orazione e contemplazione molto alta e molto accarezzato e favorito da Dio, non si dia a credere di andarsi avvicinando e accostando più al medesimo Dio? e pur molte volte con questi favori viene uno ad insuperbirsi ed assicurarsi e fidarsi di se stesso’, e il demonio lo fa cadere per quell’istessa via per la quale egli pensava di salire e di avvicinarsi più a Dio. Per lo contrario molte volte vedendosi uno sconsolato, afflitto, e con gravi tentazioni, e molto combattuto da pensieri disonesti, e di bestemmie, e contra la fede, si pensa, che Dio stia adirato seco, e che lo vada abbandonando e ritirandosi da lui, e allora gli è più vicino: perché con questo si umilia più, conosce la debolezza e fragilità sua, sconfida di sé, ricorre a Dio con maggior calore e fortezza, mette in esso ogni sua fiducia, e procura di non separarsi mai da Lui. Di maniera che il meglio non è quello che tu pensi; ma il meglio è la strada per la quale il Signore ti vuol condurre; questa t’hai da persuadere che sia la migliore e quella che a te più conviene. Di più cotesta medesima afflizione e fastidio e dolore che tu senti per parerti che non fai l’orazione così bene come dovresti, può esser un altro motivo di consolazione; perché tutto questo è una particolar grazia e favore del Signore, ed è segno che l’ami: poiché non vi è dolore senza qualche amore: nè può essere in me dispiacere di non servir bene, senza proponimento e volontà di servir bene: e così cotesto dispiacere e dolore nasce da amor di Dio, e da desiderio di servirlo meglio. Se non ti curassi niente di servirlo male, né di far male l’orazione, né di far altre cose mal fatte, sarebbe cattivo segno: ma il sentir dispiacere e dolore del parerti di far questa cosa male, è buon segno. Perciò acquieta il tuo dispiacere e dolore col ben intendere, che in quanto l’aridità precisamente è pena, è anche volontà positiva di Dio; e quindi conformati ad essa con rendergli grazie, che ti lasci concepire questo buon desiderio di dargli maggior gusto nelle tue operazioni, ancorché ti paia, che queste siano molto deboli ed imperfette. Di più quantunque nell’orazione tu non faccia altro che assistere e star ivi presente ai piedi di quella reale e Divina Maestà, servi in ciò assai Dio. Come veggiamo di qua nel secolo, che è maestà grande dei Re e Principi della terra che i Grandi della lor Corte vadano ogni giorno a palazzo, e ivi assistano e colla loro presenza formino ad essi corteggio; Beatus homo, qui audit me, et vigilat ad fores meas quotidie, et observut ad postes ostii mei (Prov. VIII, 34). Alla gloria della maestà di Dio, alla bassezza della nostra condizione, e alla grandezza del negozio che trattiamo, appartiene lo star noi molte volte aspettando e come facendo ala alle porte del suo palazzo celeste: e quando Egli te le aprirà, rendigliene grazie; quando no, umiliati, conoscendo, che non lo meriti: e in questa maniera sempre sarà molto buona e molto utile la tua orazione. Di tutte queste cose e d’altre simili ci dobbiamo valere per conformarci alla volontà di Dio in questa amarezza e in questo abbandonamento spirituale, accettando il tutto con rendimento di grazie, è dicendo: Salve, amaritudo amatissima, omnis gratiæ piena: Io ti saluto, o amarezza amara e amarissima, ma piena di grazie e di beni (Barth, de Mart. Archiep. Brachar. in suo compendio c. 26).

CAPO XXVIII.

Che è grande inganno e grane tentazione il lasciar l’orazione per ritrovarsi l’uomo in essa nel modo che s’è detto.

Da quel che si è detto ne viene in conseguenza che è grand’inganno e grave tentazione quando uno per vedersi in questo stato si risolve di lasciar l’orazione, o non persevera tanto in essa, parendogli di non farci niente, anzi di perderci più tosto il  tempo. Questa è una tentazione colla quale il demonio ha fatto lasciar l’esercizio dell’orazione non solamente a molti secolari, ma ancora a molti Religiosi, e quando non può toglier loro affatto l’orazione, fa che non si diano tanto ad essa, nè vi spendano tanto tempo quanto potrebbero. Cominciano molti a darsi all’orazione, e fin tanto che vi è bonaccia e devozione, la proseguiscono e continuano molto bene; ma giunto il tempo dell’aridità e della distrazione, par loro che quella non sia orazione, ma più tosto nuova colpa; poiché stanno ivi dinanzi a Dio con tanta distrazione e con sì poca riverenza: e così vanno a poco a poco lasciando l’orazione, per parer loro, che faranno maggior servizio a Dio con attendere ad altri esercizi e occupazioni, che collo star ivi in quella maniera. E come il demonio ben s’avvede di questa loro fragilità, così si vale dell’occasione e si sollecita tanto a molestarli con vari pensieri e tentazioni nell’orazione; acciocché tengano per male speso quel tempo; e quindi pian piano fa, che lascino totalmente l’orazione e con essa la virtù, e che anche alle volte passino più oltre a qualche altra cosa di peggio: e così sappiamo, che di qui ha avuto principio la rovina di molti. Est amicus socius mensa?, et non permanebit in die necessitatis, dice il Savio (Eccli. VI, 10). Ilgoder Dio è cosa che non v’è chi non lavoglia; ma il travagliare, l’affaticarsi e ilpatir per Lui, quest’è il segno del vero amore. Quando nell’orazione v’è consolazione e devozione, non è gran cosa che tu perseveri e ti trattenga in essa molte ore; perché può essere, che tu lo faccia per tuo gusto: ed è segno, che lo fai per questo, quando mancandoti la consolazione e la devozione, non perseveri più. Quando Dio manda inquietudini, tristezze, aridità e distrazioni, allora si provano i veri amici e si conoscono i servi fedeli che non cercano l’interesse loro, ma puramente la volontà e il gusto di Dio: e così allora abbiamo da perseverare con umiltà e pazienza, stando ivi tutto il tempo assegnato, ed anche un poco di più, siccome ce lo consiglia il nostro S. Padre (D. Ign. lib. Exerc. spir. annot. 13), per vincer con questo la tentazione, e mostrarci forti e gagliardi contro il demonio. Narra Palladio (2•8) Pallad, in Hist. Lausiac.,), che esercitandosi egli nella considerazione delle cose divine, rinchiuso in una cella, aveva gran tentazione d’aridità e gran molestia di vari pensieri che gli andavano suggerendo, che lasciasse quell’esercizio, perchè gli era inutile. Andò egli a trovare il santissimo Macario Alessandrino, e gli raccontò questa tentazione, dimandandogli consiglio e rimedio. E il Santo gli rispose: Quando cotesti pensieri ti diranno, che te ne vada via, e che non fai niente: Dic ipsis cogitationibus tuis: Propter Christum parietes cellæ istius custodio: Di’ a’ tuoi pensieri, voglio star qui a custodire per amore di Cristo le mura di questa cella: che fu quanto dirgli, che perseverasse nell’orazione, contentandosi di far quella santa azione per amor di Cristo, ancorché non ne cavasse altro frutto che questo. Questa è molto buona risposta, per quando ci venga questa tentazione: perché il fine principale che abbiamo da avere in questo santo esercizio, e l’intenzione colla quale dobbiamo andarvi e occuparci in esso, non ha da essere il nostro gusto, ma il far un’azione buona e santa colla quale piacciamo a Dio, e diamo gusto a Lui, e soddisfacciamo e paghiamo qualche particella del molto di cui gli siamo debitori, per essere quegli ch’Egli è, per gl’innumerabili beneficii che dalle sue mani abbiamo ricevuti; e poiché Egli vuole e si compiace, ch’io stia adesso qui, con tutto che mi paia di non far cosa alcuna, mi contento di questo. – Si narra di S. Caterina da Siena, che per molti giorni fu priva delle consolazioni spirituali, e che non sentiva il solito fervore di divozione, e che di più era molto molestata da pensieri cattivi, brutti e disonesti, i quali non poteva scacciar da sè; ma che non lasciava per questo la sua orazione; anzi al meglio che poteva perseverava in essa con gran diligenza, e parlava seco stessa in questa maniera: Tu vilissima peccatrice non meriti consolazione alcuna. Come? Non ti contenteresti tu, per non essere condannata in eterno, di avere per tutta la tua vita a patire queste tenebre e tormenti? È cosa certa, che tu non ti eleggesti di servir Dio per ricever da Lui consolazioni in questa vita, ma per goderlo in cielo per tutta l’eternità. Alzati dunque su, e proseguisi i tuoi esercizi, perseverando nell’esser fedele al tuo Signore (Blos. c. 4, mon. spir.). Imitiamo dunque questi esempi e restiamocene colle parole di quel Santo: Questa sia, o Signore, la tua consolazione, il voler di buon grado rimaner privo d’ogni umana consolazione; e se mi mancherà la tua consolazione, servami di somma consolazione e conforto la tua volontà, e quella prova che ben giustamente vuoi Tu fare di me (Thom a Kempis lib. 3, c. 16, n.  2). Se arriveremo a questo, che la volontà e il gusto di Dio sia ogni nostro gusto, di tal maniera che l’istessa privazione d’ogni nostra consolazione sia gusto nostro, per essere volontà e gusto di Dio; allora sarà vero il nostro gusto, e tale, che nessuna cosa ce lo potrà torre.

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (9)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (9)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO. IV.

Del Decalogo (*).

(*) Questi Comandamenti del Decalogo, da Dio stesso solennemente promulgati sul monte Sinai e da Gesù Cristo confermati e spiegati nella nuova Legge, devono da tutti essere imparati e con massima cura custoditi ed osservati. Questi divini Comandamenti, infatti, non solo tracciano ai singoli la via dell’eterna salvezza, ma sono nello stesso tempo il fondamento di ogni civile consorzio.

D. 187. Che cosa vuol dire: Decalogo?

R. Decalogo vuol dire dieci parole, ossia i dieci comandamenti che Dio diede a Mosè sul monte Sinai e che Gesù Cristo confermò nella legge nuova.

(Esod., XX, 2, 6; Matt., V, 17, 18; XIX, 17-20. — Questi comandamenti furono consegnati da Dio in mano a Mosè, scritti su due tavole. I tre primi comandamenti vengono chiamati comandamenti della prima Tavola; gli altri, comandamenti della seconda Tavola).

D. 188. Come si dividono i dieci comandamenti del Decalogo?

R. I dieci Comandamenti del Decalogo si dividono in modo che i tre primi riguardano Dio, mentre gli altri sette si riferiscono a noi stessi e al prossimo.

D. 189. Perché Dio ha premesso al Decalogo queste parole: Io sono il Signore Dio tuo?

R. Dio ha premesso al Decalogo queste parole: Io sono il Signore Dio tuo, per ammonirci ch’Egli, comeDio e Signore, ha il diritto d’imporre comandamenti, allacui osservanza siamo tenuti (Esod, XX, 2-6; Lev., XXVI, I; Deut., V, 6 e segg.; Cat. p. parr, p. III, c. II, n. 3).

SEZIONE la. — Dei tre primi comandamenti del Decalogo che si riferiscono a Dio.

Art. 1. — DEL PRIMO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 190. Che cosa vieta Iddio nel primo comandamento del Decalogo: Non avrai altro Dio fuori che me?

R . Nel primo comandamento del Decalogo: Non avrai altro Dio fuori che me, Dio vieta che ad altri venga reso il culto a Lui solo dovuto (Esod, XX, 2-6; Lev., XXVI, 1; Deut, X, 6 e segg.; Cat. p. parr, p. I l i , c. I I , n. 3).

D . 191. Qual culto dobbiamo rendere a Dio?

R . A Dio, e soltanto a Dio, noi dobbiamo rendere il culto supremo, cioè il culto di adorazione.

D . 192. Perché dobbiamo rendere a Dio il nostro culto e adorarlo?

R . Dobbiamo rendere a Dio il nostro culto e adorarlo perch’Egli è il nostro creatore, il nostro provvido conservatore e il nostro ultimo fine.

D . 193. In qual modo dobbiamo noi rendere a Dio il nostro culto e adorarlo?

R . Noi dobbiamo rendere a Dio il nostro culto e adorarlo in quanto Creatore di tutte le cose, provvido conservatore, primo principio ed ultimo fine, e ciò — come la natura stessa, e più ancora la rivelazione ci suggerisce — mediante atti di religione tanto interni quanto esterni, il principale dei quali è il sacrificio, che a nessuna creatura può venir offerto.

D . 194. In qual modo si pecca contro il primo comandamento del Decalogo?

R . Si pecca contro i l primo comandamento del Decalogo:

1° con la superstizione, ossia l’idolatria, la divinazione, la vana osservanza, lo spiritismo, il quale ultimo si riduce in fondo, alla vana osservanza e alla divinazione;

2° con l’irreligione, cioè, con l’omettere Fatto di culto a cui siamo tenuti, col sacrilegio e con la simonia.

(L’idolatria è quella superstizione per cui il culto divino vien reso a una divinità immaginaria, alla creatura o al demonio. La divinazione, quella superstizione per cui, con l’aiuto del demonio, espressamente o tacitamente invocato, si cerca di scoprire il futuro o l’occulto. La vana osservanza, quella superstizione per cui, nell’intento di conseguire un dato effetto, si mettono in opera mezzi inefficaci, con espressa o tacita invocazione del demonio. Lo spiritismo, quella superstizione, per cui si comunica cogli spiriti malvagi, e si tenta, mediante il loro aiuto, di conoscere occulte cose. Il sacrilegio consiste nel trattare indegnamente una cosa o una persona sacra, oppure un luogo consacrato a Dio o al culto divino. La simonia implica un contratto, il cui oggetto consistendo in cose spirituali, o con queste connesse, ovvero in cose temporali con iscopo religioso, è proibito dal diritto naturale e divino, oppure da quello canonico).

D . 195. Dobbiamo noi rendere il culto anche ai Santi?

R . Anche ai Santi, e massimamente alla beata Vergine Maria, noi dobbiamo rendere un culto inteso ad onorarli e a propiziarci il loro patrocinio; questo culto però è d’ordine diverso ed inferiore, ossia è culto di venerazione (Cat. p. parr, p. III, c. II, n. 7 e segg.).

D . 196. Come si chiama il culto reso a Dio, ai Santi, alla beata Vergine Maria?

R . Il culto reso a Dio si chiama culto di latria, ossia di adorazione; quello reso ai Santi, culto di dulia, ossia di venerazione; quello reso alla beata Vergine Maria, culto di iperdulia, ossia di assai superiore venerazione.

(Il culto di latria è il culto dovuto soltanto a Dio, culto col quale l’uomo professa la propria sudditanza a Dio che ha il pieno e sommo dominio su tutte le creature. Il culto di dulia è il culto col quale veneriamo e onoriamo i Santi come creature care a Dio, figli e amici suoi, come membri di Gesù Cristo, e nostri intercessori presso Dio. La beata Vergine Maria poi, la quale è pur semplice creatura, ma come vera genitrice di Dio, è, al di sopra di ogni altra creatura, congiunta a Dio con ispecialissimo vincolo, viene anche onorata con culto speciale, che chiamasi di iperdulia. — S. Giov. Dam.: De imaginibus, oratio II, 5; III, 41).

D . 197. Dobbiamo noi inoltre venerare le reliquie dei Martiri e degli altri Santi che vivono con Cristo?

R . Noi dobbiamo inoltre venerare le reliquie dei Martiri e degli altri Santi che vivono con Cristo, perché i loro corpi, oltre ad essere stati vive membra di Cristo e tempio dello Spirito Santo, da Cristo aspettano di essere risuscitati e glorificati nella vita eterna; e perché a mezzo delle loro reliquie Dio elargisce agli uomini non pochi benefici. 0) (IV dei Re, 14; XIII, 21; Matt., IX, 20-22; XIV, 36; Atti, V, 15; XIX, 12; Conc. Niceno, II: De sacris imaginibus, actio VII; Conc. di Tr., sess. XXV, De invocatione…. Sanctorum.)

D . 198. Anche alle sacre immagini van dati l’onore e la venerazione che meritano?

R . Anche alle sacre immagini van dati l’onore e la venerazione che meritano, perché l’onore ad esse rivolto si rivolge ai prototipi da esse rappresentati: onde con quei segni di riverenza che ad esse indirizziamo, noi adoriamo Cristo stesso, e veneriamo i santi, di cui esse riproducono le sembianze (Conc. Nic. II, 1. c.; Conc. di Tr. 1. c , S. Cir. Aless.: In Psalm CXIII, 16).

D . 199. Ma allora in qual senso vietò Dio nell’Antico Testamento le immagine e le sculture?

R . Nell’Antico Testamento Dio non vietò in modo assoluto le immagini e le sculture; vietò soltanto che fossero proposte all’adorazione secondo l’uso dei gentili, e ciò per evitare che, onorandosi quasi come divinità quei simulacri, il vero culto di Dio venisse a soffrirne detrimento (Esod, XX, 4, 5; Deut, IV, 15-19; S. Tom, p. III, q. 25,

a. 3, ad I.um).

Art. 2. — DEL SECONDO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 200. Che cosa proibisce Dio nel secondo comandamento del Decalogo: Non nominare il nome di Dio invano?

R . Nel secondo comandamento del Decalogo: Non nominare il nome di Dio invano, Dio proibisce qualsiasi

irriverenza nei riguardi del suo nome (Esod, XX, 7; Lev , XIX, 12; Deut, V, 11).

D . 201. Chi si rende colpevole di tale irriverenza?

R. Si rende colpevole di tale irriverenza chi pronunzia il nome di Dio senza giusto motivo e senza la debita venerazione, chi viola i voti emessi, chi presta giuramenti falsi, temerari ed ingiusti, e più di tutto chi proferisce bestemmie (Lev, XIX, 12; XXIV, 11-16; I V d. Re, XIX, 6 e segg. —

Il voto è una promessa deliberata fatta a Dio e il cui oggetto è un bene migliore. Il giuramento è l’invocazione del nome di Dio chiamato a riprova della nostra credibilità o a conferma di una nostra promessa; il giuramento è falso se quel che si asserisce non è conforme all’interno pensiero; temerario, se emesso in modo assoluto quando manchi invece ogni certezza soggettiva del patto; ingiusto, se nel giuramento assertorio è malvagia l’asserzione, o malvagia la promessa in quello promissorio. La bestemmia è un’espressione ingiuriosa verso Dio. Pio XI, nella Lettera al Vescovo di Verona, del 3 dic. 1924, così descrive la gravità della bestemmia deliberata: « La bestemmia sprezza in maniera oltremodo ingiuriosa la bontà di Dio, poiché, mentre va contro la fede che si professa, non solo contiene in sé la malizia dell’apostasia, ma ne spinge al massimo la gravità, sia con la detestazione del cuore, che con l’imprecazione della bocca. Qualora dunque la bestemmia venga scagliata in piena scienza e coscienza, appunto per quel suo contenuto, che è oltraggio perverso contro Dio stesso autore delle leggi, e implicita abiura della fede, essa è fra tutti i peccati il più grave, anche se ciò non apparisca esternamente dalla gravità degli effetti dannosi ».

D . 202 . Ci è pur vietato di prendere invano il nome dei Santi?

R . Ci è pur vietato di prendere invano il nome dei Santi, e specialmente della beata Vergine Maria, per la stessa ragione che ci obbliga ad onorarli.

Art. 3. — DEL TERZO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D. 203 . Che cosa comanda Iddio nel terzo comandamento del Decalogo: Ricordati di santificare le feste?

R . Nel terzo comandamento del Decalogo: Ricordati di santificare le feste, Dio comanda che i giorni di festa, cioè quelli a Lui sacri, vengano celebrati col culto divino, tralasciandosi gli affari e i lavori corporali (Esod, XX, 8; XXXI, 13; Deut, V, 12-15).

D . 204. Quali erano i giorni di festa nell’Antico Testamento?

R . Nell’Antico Testamento vi erano non pochi giorni di festa, ma il più importante era il giorno del sabbato, chiamato sabbato precisamente perché quello stesso suo nome dava a significare il riposo necessario al culto divino.

D . 205. Perché nel Nuovo Testamento il giorno del sabbato non viene osservato?

R . Nel Nuovo Testamento il giorno del sabbato non viene osservato perché la Chiesa l’ha sostituito con quello della domenica, in onore della Risurrezione di Gesù Cristo e della discesa dello Spirito Santo nella Pentecoste; alla domenica la Chiesa ha aggiunto altre feste ( 2).

 (2) I l comandamento concernente l’osservanza del sabbato, qualora si guardi al tempo assegnato, non fu nè fisso nè costante, bensì mutevole, né aveva carattere morale, ma solo cerimoniale; qualora, invece, si guardi alla sostanza stessa, quel comandamento ha in sé qualcosa d’attinente alla morale e al diritto di natura. Quanto poi all’epoca in cui andava tolta l’osservanza del sabbato, quella fu in cui sarebbero state abolite tutte le altre osservanze e cerimonie del culto ebraico, cioè la morte di Cristo. — Cat. p. parr, p. III, c. IV , n. 4 e segg.)

D. 206 . A che cosa dunque siamo tenuti presentemente riguardo alla santificazione dei giorni di festa?

R. Riguardo alla santificazione dei giorni di festa, siamo tenuti presentemente a santificare, a quel modo che la Chiesa comanda, le domeniche e gli altri giorni di festa da essa prescritti (Più oltre, alle DD. 243 e segg., verrà esposto quanto riguarda i giorni di festa da santificarsi a norma del comandamento della Chiesa).

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (11)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [11]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXV.

Si soddisfa al lamento di coloro che sentono aridità e tristezza nell’orazione.

Primieramente io non dico, che quando Dio visita alcuno, egli non se ne abbia a rallegrare; perché è cosa chiara, che non si può a meno di non sentir allegrezza alla presenza della cosa amata: nè dico, che non abbia a sentir dispiacere della sua assenza quando Egli il castiga con aridità e con tentazioni; che ben veggo io, che non è possibile non sentir di ciò dispiacere: e Cristo medesimo Egli pure sentì l’abbandonamento del suo Padre eterno, quando stando pendente dalla croce disse: Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me (Ps. XXI – Matt, XVII, 43. )? Dio mio, Dio mio, perché m’hai abbandonato? Ma quel che si desidera è che sappiamo cavar frutto da questo travaglio e da questa prova colla quale suole il Signore molte volte provare i suoi eletti, e che ci rivolgiamo con fortezza di spirito a conformarci alla volontà di Dio, dicendo: Verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu (Ibid. XXVI, 39): Non si faccia, Signore, quello che io voglio, ma quello che volete voi; specialmente non consistendo la santità e la perfezione nelle consolazioni e nel far alta ed elevata orazione, né misurandosi con questo il nostro profitto e la nostra perfezione; ma col vero amor di Dio, il quale non consiste in queste cose, ma in una vera unione e intera conformità alla volontà di Dio sì nelle cose amare come nelle dolci; sì nelle avverse come nelle prospere. Sicché abbiamo da pigliar ugualmente dalla mano di Dio la croce e l’abbandonamento spirituale, il favore e la consolazione, ringraziandolo tanto dell’uno, quanto dell’altro. Se volete, o Signore, diceva quel santo Uomo, che io stia in tenebre; siate benedetto: e se volete, che io stia in luce; siate parimente benedetto. Se mi volete consolare, siate benedetto: e se mi volete tribolare, siate ugualmente sempre benedetto (Thomas a Kempis lib. 3, c. 17, n. 2): e così ci consiglia l’apostolo san Paolo che diciamo noi ancora e facciamo :In omnibus  gratias agite; hæc est enim voluntas Dei in Christo Jesu, in omnibus vobis (I. ad Thess. V, 18): In tutte le cose che vi avverranno, rendete grazie a Dio, perché questa è la volontà sua. Se dunque questa è la volontà di Dio, che altro abbiamo noi da desiderare? Se egli vuole indirizzar la mia vita per questo sentiero tenebroso ed oscuro, io non ho da sospirare per alcun altro che sia più luminoso ed agiato. Dio vuole, che colui vada per una strada per cui non gli manchi né luce né gusti; e che io vada per questo deserto arido e secco, senza provarvi una minima consolazione; non cambierei la sterilità mia colla fecondità di quell’altro. Questo è quello che dicono quelli che hanno aperti gli occhi alla verità, e con questo si consolano. Dice molto bene il padre maestro Avila (M. Avil. Audi filia, cap. 26): Oh se il Signore ci aprisse gli occhi, come ci si renderebbe più chiaro che la luce del sole, che tutte le cose della terra e del cielo sono molto basse per desiderarsi e godersi, se si toglie da esse la volontà del Signore, e che non v’è cosa, per piccola e amara che ella sia, che se si congiunge con essa la sua divina volontà, non sia di gran valore. È meglio senza comparazione lo stare in travagli e afflizioni, in aridità e tentazioni, se così Dio vuole, che quanti gusti, consolazioni e contemplazioni si trovano, se vada da essi disgiunta la divina sua volontà. Ma dirà qualcuno: Se io sapessi, che questa è la volontà del Signore, e che Egli si compiacesse e si contentasse più di questo, facilmente mi ci conformerei e starei molto contento, ancorché io passassi tutta la mia vita in questa maniera; perché ben veggo, che non v’è altra cosa da desiderare, che piacere e dar gusto a Dio, né la vita è fatta per altro: ma mi pare, che Dio vorrebbe pure, che io facessi miglior orazione e con maggiore raccoglimento e attenzione, se io mi ci disponessi: e quel che mi dà fastidio è il credere, che per colpa e tiepidità mia, e per non far io quanto è dal mio canto, me ne sto distratto e arido, senza potermi introdurre nell’orazione: che se credessi e restassi persuaso di fare quanto posso per la mia parte, e che non vi fosse colpa per me, non ne sentirei rammarico alcuno. È molto ben appoggiata questa querela: e su questo punto non vi resta a dir altro che possa avere più forza; poiché a questo si vengono a restringere tutte le ragioni di quelli che hanno simili doglianze: onde se soddisfaremo bene a questo, faremo un gran fare, per essere tanto comune e ordinario questo lamento; non essendovi alcuno, per santo e perfetto che siasi, che in alcuni tempi non senta queste aridità e abbandonamento spirituali. Lo leggiamo del beato S. Francesco e di S. Caterina da Siena, con tutto che siano stati tanto accarezzati e favoriti da Dio  e S. Antonio abbate, con tutto che fosse uomo di così alte orazione, che le notti gli parevano un soffio, e si lamentava del sole che si levasse troppo presto, pure alle volte era tanto travagliato e agitato da pensieri cattivi e importuni che gridava e alzava le voci a Dio, dicendo: Signore, io vorrei pur esser buono, e i miei pensieri non mi lasciano esserlo: e S. Bernardo si lamentava di questo stesso, e diceva: Exaruit cor meum, coagulatum est sicut lac, factum est sicut terra sine aqua; nec compungi ad lacrymas queo, tanta est duritia cordis: non sapit Psalmus; non legere libet; non orare deleclat; meditationes solitas non invento. Ubi illa inebriatio spiritus? Ubi mentis serenitas. et pax, gaudium in Spiritu sancto (D. Bern. Serm. 54 sup. Caut.)? 0 Signore, che mi s’è inaridito il cuore, mi s’è ristretto e rappreso come latte; sta come terra senz’acqua, né mi posso compungere né muover a lagrime, tanta è la durezza del mio cuore: non istò bene nel Coro; non gusto della lezione spirituale; non mi piace la meditazione. O Signore, che io non trovo nell’orazione quel che soleva; ove è quei l’inebriarsi l’anima del vostro amore? ove è quella serenità, quella pace e quel gaudio nello Spirito santo? Di maniera che per tutti è necessaria questa dottrina, e confido nel Signore che soddisfaremo a tutti. Cominciamo dunque di qui. Io vi concedo, che la vostra colpa è la cagione della vostra distrazione e aridità, e del non potervi internare nell’orazione: e così è bene che crediate e ne stiate persuasi, e che diciate, che per i vostri peccati passati e per le vostre colpe e negligenze presenti il Signore vi vuol castigare col non ammettervi ad intrinsichezza con lui nell’orazione, col non potere provare raccoglimento, né  quiete, né attenzione in essa, perché non lo meritate, anzi più tosto lo demeritate. Ma non cammina perciò la conseguenza, che ve n’abbiate da lamentare; anzi ne ha da seguire una conformità molto grande alla volontà di Dio in questo. Volete vederlo chiaramente? De ore tuo te judico (Luc. XIX, 25). Dalla vostra medesima bocca e dall’istesso vostro detto vi voglio giudicare. Non conoscete voi e non dite, che per i vostri peccati passati e per le vostre colpe e negligenze presenti meritate gran castigo da Dio? sì al certo: l’inferno ho io meritato molte volte, e così nessun castigo sarà grande per me; ma ogni cosa sarà misericordia e singolare favore al confronto di quello ch’io merito; e il volermi Dio mandare qualche castigo in questa vita sarà preso da me per particolar beneficio; perché lo terrò come per pegno dell’avermi Egli perdonato i miei peccati e di non volermi castigare nell’altra vita, poiché mi castiga in questa. Basta, non fa bisogno d’altro: io mi contento di questo; ma non se ne vada ogni cosa in parole; veniamo ai fatti. Questo è il castigo che Dio vuole che patiate adesso per i vostri peccati: queste tristezze, questi desolamenti, queste distrazioni, queste aridità, quest’abbandonamento spirituale, questo diventarvi il cielo di ferro e la terra di bronzo, questo rinchiudervisi e nascondervisi Dio, e che non troviate introduzione nell’orazione; con questo vuol Dio castigarvi adesso e purgare le vostre colpe. Non vi pare, che i vostri peccati passati e le vostre colpe e negligenze presenti meritino bene questo castigo? Sì certamente: e ora dico, che è molto piccolo rispetto a quello che io merito, e che è molto pieno di giustizia e di misericordia: di giustizia, perché avendo io tante volte serrata a Dio la porta del mio cuore e fattomi sordo quando Egli mi batteva ad esso colle sante sue inspirazioni, ed io tante volte andava loro resistendo; giusta cosa è, che adesso, ancorché io lo chiami, si faccia sordo e non mi risponda, né voglia aprirmi la porta, ma me la serri in faccia. Giustissimo è questo castigo, ma molto piccolo per me, e così è molto pieno di misericordia, perché lo meritava molto maggiore. Conformatevi dunque alla volontà di Dio in questo castigo, e ricevetelo con rendimento di grazie, poiché vi castiga con tanta misericordia, e non proporzionatamente a quello che meritate. Non dite voi, che meritavate l’inferno? come dunque avete ardire di chieder a Dio consolazioni e gusti nell’orazione? ed avere intrinsichezza e famigliarità con Lui in essa, e una pace, quiete e riposo di figliuoli molto amati e accarezzati? Come avete ardire di formar doglianza del contrario? non vedete, che questa è gran presunzione e gran superbia? Contentatevi che Dio vi tenga in casa sua, e vi consenta lo stare alla sua presenza, e stimate, e riconoscete questo per grazia e beneficio molto grande. Se avessimo umiltà nel cuore, non avremmo lingua né bocca per lamentarci, comunque ci trattasse il Signore; e così cesserebbe facilmente questa tentazione.

CAPO XXVI.

Come convertiremo l’aridità e le tristezze e desolazioni interne in molto buona ed utile orazione.

Non solo deve cessar in noi altri questo lamento, ma abbiamo anche da procurare di cavar frutto dalle aridità, dalle tristezze e desolazioni interne, e di convertirle in molto buona orazione. E a quest’effetto aiuterà per la prima cosa quel che dicevamo trattando dell’orazione (Tract. V, c. 19); cioè quando ci vedremo a questo termine, dire: Signore, in quanto questa cosa procede da mia colpa, certo mi dispiace grandemente e mi dolgo della colpa che io ne ho; ma in quanto è volontà vostra, e pena e castigo da me giustamente meritato per i miei peccati, io l’accetto, Signore, di molto buona voglia: e non solamente adesso, o per poco tempo, ma per tutta la vita, ancorché avesse da essere molto lunga, mi offro a questa croce, e sto molto disposto a portarla, anche con rendimento di grazie. Questa pazienza e umiltà, e questa rassegnazione e conformità alla volontà di Dio in questo travaglio, piacciono più alla Divina Maestà Sua, che i lamenti e le soverchie angosce, per non trovare introduzione nell’orazione, o perché si sta ivi con tanti pensieri e con tanta distrazione. Ditemi un poco: chi vi pare, che piacerà più al padre e alla madre, quel figliuolo che si contenta di qualsivoglia cosa che gli diano, o pure quell altro che non si contenta mai di cosa alcuna, ma sempre va borbottando e lamentandosi, per parergli esser poco tutto quello che gli danno, e che gli dovrebbero dare di più, o qualche cosa di meglio? È chiaro, che sarà il primo. Or cosi passa la cosa con Dio. Il figliuolo paziente e muto il quale si contenta e si conforma alla volontà del suo Padre celeste in qualsivoglia cosa che gli mandi, benché aspra ed avversa, e benché sia un osso duro e spolpato, questi è quel desso che piace e dà più gusto a Dio che l’altro il quale è di fastidiosa contentatura, e sempre si va lamentando e borbottando, perché non ha e perché non gli danno. Ma dimmi, chi fa meglio, e chi muoverà più a compassione e misericordia di sé, e a fargli limosina, il povero che si lamenta, perché non gli rispondono presto e perché non gli è dato niente, o pur il povero che continua a stare alla porta del ricco con pazienza e silenzio, e senza alcun lamento; ma dopo aver battuto alla porta, sapendo, che lo hanno inteso, se ne sta aspettando al freddo e all’acqua, senza tornar a battere, e senza sapersi lamentare, e sa il padrone di casa, che sta aspettando con quell’umiltà e pazienza? Chiara cosa è, che questi muove assai; e che quell’altro povero superbo più tosto dà noia e muove a sdegno. Or così passa anche la cosa con Dio. E acciocché si vegga meglio il valore e frutto di questa orazione, e quanto è grata a Dio, domando io: che miglior orazione può far uno, e che maggior frutto può cavar da essa, che molta pazienza ne’ travagli, molta conformità alla volontà di Dio e molto amore verso di Lui? Che altra cosa andiamo a fare nell’orazione, che questa? Or quando il Signore ti manda aridità e tentazioni nell’orazione, conformati alla volontà sua in quel travaglio e abbandonamento spirituale, e farai uno de’ maggiori atti di pazienza e d’amor di Dio che tu possa fare (Supra cap. 3). Dicono, e molto bene, che l’amore si mostra nel soffrire e nel patire travagli per la cosa amata; e che quanto maggiori sono i travagli, tanto maggiormente si mostra l’amore. Or questi sono de’ maggiori travagli e delle maggiori croci e mortificazioni de’ Servi di Dio, e quelle che maggiormente sentono gli uomini spirituali; poiché presso loro i travagli corporali toccanti roba, sanità e beni temporali, non sono di considerazione in paragone di questi. L’arrivar dunque uno ad esser molto conforme alla volontà di Dio in simili travagli, imitando Cristo nostro Redentore in quell’abbandonamento spirituale che patì sulla croce, e l’accettar questa croce spirituale per tutta la vita, quando mai piacesse al Signore di dargliela, solo per dar gusto a Dio, è molto alta e molto utile orazione, e cosa di gran perfezione, dico tanta, che alcuni chiamano questi tali eccellenti Martiri (Lud. Blos, specul. spir. cap. 6). – Domando io inoltre: che cosa vai a fare nell’orazione, se non a cavarne umiltà e cognizione di te stesso? quante volte hai chiesto a Dio, che ti dia a conoscere chi tu sei? Ecco che Dio ha esaudita la tua orazione, e te lo vuol far conoscere in questo modo. Alcuni fondano il conoscimento di sé medesimi nell’avere un gran sentimento de’ propri peccati e in ispargere molte lagrime per essi: e s’ingannano, perché questo è Dio, e non tu. L’esser come un sasso, questo sei tu: e se Dio non percuote il sasso, non uscirà da esso acqua né miele. In questo sta il conoscer se medesimo, che è principio di mille beni: e di questo ne hai un’assai abbondante materia per le mani quando stai nel termine che s’è detto: e se caverai questo dall’orazione, avrai cavato da essa molto gran frutto.

MESSE PER I DEFUNTI (2020)

MESSE PER I DEFUNTI (2020)

Commemorazione di tutti i Fedeli Defunti.

Doppio. – Paramenti neri.

Alla festa di tutti i Santi è intimamente legato il ricordo delle anime sante che, pur confermate in grazia, sono trattenute temporaneamente in « Purgatorio » per purificarsi dalle colpe veniali ed « espiare » le pene temporali dovute per il peccato. Perciò, dopo aver celebrato nella gioia la gloria dei Santi, che costituiscono la Chiesa trionfante, la Chiesa militante estende le sua materna sollecitudine anche a quel luogo di indicibili tormenti, ove sono prigioniere le anime che costituiscono la Chiesa purgante. Dice il Martirologio Romano: « In questo giorno si fa la commemorazione di tutti i fedeli defunti; nella quale commemorazione la Chiesa, pia Madre comune, dopo essersi adoperata a celebrare con degne lodi tutti i suoi figli che già esultano in cielo, tosto si affretta a sollevare con validi suffragi, presso il Cristo, suo Signore e Sposo, tutti gli altri suoi figli che gemono ancora nel Purgatorio, affinché possano quanto prima pervenire al consorzio dei cittadini beati ». E questo il momento in cui la liturgia della Chiesa afferma vigorosamente la misteriosa unione esistente fra la Chiesa trionfante, militante e purgante, e mai come oggi si adempie in modo tangibile, il duplice dovere di carità e di giustizia che deriva, per ciascun cristiano, dalla sua incorporazione al corpo mistico di Cristo. Per il dogma della « Comunione dei Santi» i meriti e i suffragi acquistati dagli uni possono essere applicati agli altri. In questi modo, senza ledere gli imprescrittibili diritti della divina giustizia, che sono rigorosamente applicati a tutti nella vita futura, la Chiesa può unire la sua preghiera a quella del cielo e supplire a ciò che manca alle anime del Purgatorio, offrendo a Dio per loro, per mezzo della S. Messa, delle indulgenze, delle elemosine e dei sacrifizi dei fedeli, i meriti sovrabbondanti della Passione del Cristo e delle membra del suo mistico corpo. – Con la liturgia che ha il suo centro nel Sacrificio del Calvario, rinnovantesi continuamente sull’altare, è sempre stato il mezzo principale impiegato dalla Chiesa, per applicare ai defunti la grande legge della Carità, che comanda di soccorrere il prossimo nelle sue necessità, così come vorremmo esser soccorsi noi, se ci trovassimo negli stessi bisogni. – Forse la liturgia dei defunti è la più bella e consolante di tutte, ogni giorno, al termine d’ogni ora del Dìvin Ufficio sono raccomandate alla misericordia di Dio le anime dei fedeli defunti. Al Suscipe nella Messa, il sacerdote offre il Sacrificio per i vivi e per i morti; e a uno speciale Memento egli prega il Signore di ricordarsi dei suoi servi e delle sue serve che si sono addormentati nel Cristo e di accordar loro il luogo della consolazione, della luce e della pace. – Già fin dal V secolo si celebrano Messe per i defunti. Ma la Commemorazione generale di tutti i fedeli defunti si deve a S. Odilone, quarto Abate del celebre monastero benedettino di Cluny. Egli l’istituì nel 998 fissandola per il giorno dopo la festa di Ognissanti (In seguito a questa istituzione, la S. Sede accordò un’indulgenza plenaria toties quotìes alle medesime condizioni che per il 2 agosto, applicabile ai fedeli defunti il giorno della Commemorazione dei morti, a’ tutti quelli che visiteranno una Chiesa, dal mezzogiorno di Ognissanti alla mezzanotte del giorno dopo e pregheranno secondo le intenzioni del Sommo Pontefice. — ). L’influenza di questa illustre Congregazione fece sì che si adottasse presto quest’uso da tutta la Chiesa e che questo giorno stesso fosse talvolta considerato come festivo. Nella Spagna e nel Portogallo, come anche nell’America del Sud, che fu un tempo soggetta a questi Stati, per un privilegio accordato da Benedetto XIV in questo giorno i sacerdoti celebravano tre Messe. Un decreto di Benedetto XV del 10 agosto 1915 estese ai sacerdoti del mondo intero questa autorizzazione. Pio XI con decreto 31 ottobre 1934 concesse che durante l’Ottava tutte le Messe celebrate da qualunque Sacerdote siano ritenute come privilegiate per l’anima del defunto per il quale vengono applicate. La Chiesa, in un’Epistola, tratta da S. Paolo, ci ricorda che i morti risusciteranno, e ci invita a sperare, perché in quel giorno tutti ci ritroveremo nel Signore. La Sequenza descrive in modo avvincente il giudizio finale; nel quale i buoni saranno eternamente divisi dai malvagi. – L’Offertorio ci richiama al pensiero S. Michele, che introduce le anime nel Cielo, perché, dicono le preghiere per la raccomandazione dell’anima, egli è il « capo della milizia celeste », nella quale gli uomini sono chiamati ad occupare il posto degli angeli caduti. – « Le anime del purgatorio sono aiutate dai suffragi dei fedeli, e principalmente dal sacrificio della Messa » dice il Concilio di Trento! (Sessione| XXII, cap. II). Questo perché nella S. Messa il sacerdote offre ufficialmente a Dio, per il riscatto delle anime, il sangue del Salvatore. Gesù stesso, sotto le specie del pane e del vino, rinnova misticamente il sacrificio del Golgota e prega affinché Dio ne applichi, a queste anime, la virtù espiatrice. Assistiamo in questo giorno al Santo Sacrificio, nel quale la Chiesa implora da Dio, per i defunti, che non possono più meritare, la remissione dei peccati (Or.) e il riposo eterno (Intr., Grad.). Visitiamo i cimiteri, ove i loro corpi riposano, fino al giorno nel quale, alla chiamata di Dio, essi sorgeranno immediatamente per rivestirsi dell’immortalità e riportare, per i meriti di Gesù Cristo, la definitiva vittoria sulla morte (Ep.).

(La parola Cimitero, dal greco, significa dormitorio, nel quale ci si riposa. Chi visita il cimitero durante l’Ottava e prega anche solo mentalmente per i defunti, può acquistare nei singoli giorni, con le consuete condizioni, l’indulgenza Plenaria; negli altri giorni l’indulgenza parziale di sette anni; tanto l’una che l’altra sono applicabili soltanto ai defunti – S. Penit. Ap. 31- X – 1934)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

4 Esdr II: 34; 2:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV:2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.

[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

Oratio

Orémus.
Fidélium, Deus, ómnium Cónditor et Redémptor: animábus famulórum famularúmque tuárum remissiónem cunctórum tríbue peccatórum; ut indulgéntiam, quam semper optavérunt, piis supplicatiónibus consequántur:

[O Dio, creatore e redentore di tutti i fedeli: concedi alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la remissione di tutti i peccati; affinché, per queste nostre pie suppliche, ottengano l’indulgenza che hanno sempre desiderato:]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV: 51-57
Fratres: Ecce, mystérium vobis dico: Omnes quidem resurgámus, sed non omnes immutábimur. In moménto, in ictu óculi, in novíssima tuba: canet enim tuba, et mórtui resúrgent incorrúpti: et nos immutábimur. Opórtet enim corruptíbile hoc induere incorruptiónem: et mortále hoc indúere immortalitátem. Cum autem mortále hoc indúerit immortalitátem, tunc fiet sermo, qui scriptus est: Absórpta est mors in victória. Ubi est, mors, victória tua? Ubi est, mors, stímulus tuus? Stímulus autem mortis peccátum est: virtus vero peccáti lex. Deo autem grátias, qui dedit nobis victóriam per Dóminum nostrum Jesum Christum.

[Fratelli: Ecco, vi dico un mistero: risorgeremo tutti, ma non tutti saremo cambiati. In un momento, in un batter d’occhi, al suono dell’ultima tromba: essa suonerà e i morti risorgeranno incorrotti: e noi saremo trasformati. Bisogna infatti che questo corruttibile rivesta l’incorruttibilità: e questo mortale rivesta l’immortalità. E quando questo mortale rivestirà l’immortalità, allora sarà ciò che è scritto: La morte è stata assorbita dalla vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Ora, il pungiglione della morte è il peccato: e la forza del peccato è la legge. Ma sia ringraziato Iddio, che ci diede la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo].

Graduale

4 Esdr II: 34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps CXI: 7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.
[Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].Tractus.
Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].

Sequentia

Dies iræ, dies illa
Solvet sæclum in favílla:
Teste David cum Sibýlla.

Quantus tremor est futúrus,
Quando judex est ventúrus,
Cuncta stricte discussúrus!

Tuba mirum spargens sonum
Per sepúlcra regiónum,
Coget omnes ante thronum.

Mors stupébit et natúra,
Cum resúrget creatúra,
Judicánti responsúra.

Liber scriptus proferétur,
In quo totum continétur,
Unde mundus judicétur.

Judex ergo cum sedébit,
Quidquid latet, apparébit:
Nil multum remanébit.

Quid sum miser tunc dictúrus?
Quem patrónum rogatúrus,
Cum vix justus sit secúrus?

Rex treméndæ majestátis,
Qui salvándos salvas gratis,
Salva me, fons pietátis.

Recordáre, Jesu pie,
Quod sum causa tuæ viæ:
Ne me perdas illa die.

Quærens me, sedísti lassus:
Redemísti Crucem passus:
Tantus labor non sit cassus.

Juste judex ultiónis,
Donum fac remissiónis
Ante diem ratiónis.

Ingemísco, tamquam reus:
Culpa rubet vultus meus:
Supplicánti parce, Deus.

Qui Maríam absolvísti,
Et latrónem exaudísti,
Mihi quoque spem dedísti.

Preces meæ non sunt dignæ:
Sed tu bonus fac benígne,
Ne perénni cremer igne.

Inter oves locum præsta,
Et ab hœdis me sequéstra,
Státuens in parte dextra.

Confutátis maledíctis,
Flammis ácribus addíctis:
Voca me cum benedíctis.

Oro supplex et acclínis,
Cor contrítum quasi cinis:
Gere curam mei finis.

Lacrimósa dies illa,
Qua resúrget ex favílla
Judicándus homo reus.

Huic ergo parce, Deus:
Pie Jesu Dómine,
Dona eis réquiem.
Amen.

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann V: 25-29
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Amen, amen, dico vobis, quia venit hora, et nunc est, quando mórtui áudient vocem Fílii Dei: et qui audíerint, vivent. Sicut enim Pater habet vitam in semetípso, sic dedit et Fílio habére vitam in semetípso: et potestátem dedit ei judícium fácere, quia Fílius hóminis est. Nolíte mirári hoc, quia venit hora, in qua omnes, qui in monuméntis sunt, áudient vocem Fílii Dei: et procédent, qui bona fecérunt, in resurrectiónem vitæ: qui vero mala egérunt, in resurrectiónem judícii.

[In quel tempo: Gesù disse alle turbe dei Giudei: In verità, in verità vi dico, viene l’ora, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio: e chi l’avrà udita, vivrà. Perché come il Padre ha la vita in sé stesso, così diede al Figlio di avere la vita in se stesso: e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. Non vi stupite di questo, perché viene l’ora in cui quanti sono nei sepolcri udranno la voce del Figlio di Dio: e ne usciranno, quelli che fecero il bene per una resurrezione di vita: quelli che fecero il male per una resurrezione di condanna].

OMELIA

(A. Carmignola: Il Purgatorio, Torino, 1896)

DISCORSO XIV.

Altri mezzi di suffragio, ossia le sante indulgenze e l’atto eroico.

Perdonatemi, se per maggior intelligenza di quello, che intendo di dirvi, io vi invito di fare quest’oggi una brutta supposizione. Supponete adunque, che voi aveste per isventura commesso un qualche grave delitto, pel quale tradotti dinnanzi ai tribunali foste stati condannati ad una gravissima pena, per esempio a passare vent’anni in carcere, e che facendo voi certe determinate preghiere, o compiendo qualche pratica appositamente assegnata, otteneste che vi fosse abbreviata le pena di alcuni anni, o che vi fosse ben anche del tutto rimessa; dite, non vi dareste voi la massima premura di conseguire per mezzo di quelle preghiere e di quelle pratiche una sì grande remissione? Supponete ancora, che i colpevoli condannati a quella pena gravissima non foste voi, ma fossero invece il vostro padre e la vostra madre, e che alla stessa condizione voi li poteste liberare in parte ed anche in tutto dalla loro pena, non lo fareste egualmente colla maggior sollecitudine? Or ecco propriamente quello, che voi potete fare, sia a vostro prò, sia a prò delle anime del purgatorio, per mezzo delle sante indulgenze, annesse a certe preghiere ed a certe pratiche, per iscontare la pena temporale dovuta ai vostri peccati ed ai peccati delle anime del purgatorio. Si, le indulgenze sono uno dei mezzi più efficaci sia per risparmiare a noi il purgatorio, sia per liberarne le sante anime. Importa adunque assai, che noi in quest’oggi prendiamo chiara conoscenza delle sante indulgenze e vediamo come esse, oltre che per noi, possano pure acquistarsi in vantaggio delle anime del purgatorio. Quando noi abbiamo la sventura di commettere un peccato grave, allora non solamente noi rechiamo una grave ingiuria a Dio, ciò che propriamente costituisce la colpa, ma ci rendiamo meritevoli altresì di una grave pena, che è l’eterna dannazione, perciocché quando commettiamo un peccato grave, non solo noi offendiamo grandemente l’infinita maestà di Dio, ma, come nota San Gregorio Magno, noi nell’atto del peccato vorremo sempre vivere per sempre peccare. Ora, avendo poi colla grazia di Dio conosciuto il nostro male, e andandocene a confessare per averne da Dio il perdono, e recando al tribunale di penitenza tutte le necessarie condizioni per conseguirlo, è certo, che ci viene perdonata la colpa tutta quanta, e che coll’esserci perdonata la colpa ci è ridonata la grazia di Dio e insieme colla grazia, che ci rende capaci di far opere meritorie per l’eterna vita, ci sono pur ridonati i meriti, che nel passato ci eravamo acquistati, facendo delle opere buone in istato di grazia; ma in quanto alla pena è verità di fede, che ci viene rimessa la pena eterna, vale a dire l’eterna dannazione, ma che per lo più, eccettuato cioè il caso molto raro della perfetta carità e contrizione, la remissione della pena eterna ci vien fatta con una commutazione di questa stessa pena da eterna in temporale, cioè in una pena, che dobbiamo soddisfare nel tempo che piace a Dio o colla penitenza in questa vita o col purgatorio nella vita futura. Ed è a questa verità per l’appunto, che si appoggia la Chiesa per imporre a coloro che si sono confessati delle penitenze. Se non che le penitenze, che la Chiesa oggidì ordinariamente impone nella Confessione, sono ben lontane dal poter eguagliare la pena temporale dovuta alle nostre colpe. Non bastano certamente quelle poche preghiere, quelle devote pratiche, quelle pie opere per soddisfare pienamente la divina giustizia del debito di penitenza, che abbiamo contratto con lei. Importerebbe adunque, che noi ci assoggettassimo da noi stessi a penitenze molto più gravi e molto più lunghe. Ma siccome pur troppo per debolezza di nostra natura non ostante l’obbligo gravissimo, che ne abbiamo, rifuggiamo dalla penitenza assai facilmente, e pur facendone qualche poco, assai difficilmente ne facciamo quanto basti per scontare tutta la pena temporale dovuta alle colpe nostre, perciò affine di riparare a questo difetto e soccorrere a questa nostra miseria Iddio misericordioso ha accordato alla Chiesa il potere di rimettere in tutto ossia plenariamente, o in parte ossia parzialmente, la pena temporale, che, dopo di aver ottenuto il perdono dei nostri peccati, ci rimane ancora da scontare, o in questa vita colla penitenza o col purgatorio nell’altra. E sono appunto queste pietosissime remissioni, che costituiscono le sante indulgenze, che il Sommo Pontefice dispensa per tutta la Chiesa e non solo parziali, ma anche plenarie, e che i Vescovi dispensano solo parziali nella loro Diocesi. Che Iddio abbia dato alla Chiesa il potere di dispensare le sante indulgenze, non possiamo averne il minimo dubbio. Gesù Cristo disse a San Pietro in particolare e a tutti gli altri Apostoli in generale: Tutto quello che voi legherete sopra di questa terra, sarà pure legato in cielo, e tutto quello che voi scioglierete su questa terra sarà pur sciolto in cielo. Ora se queste parole, così magnifiche e così potenti, si prendono come si devono prendere nella loro ampia e nativa semplicità, è chiaro, che Gesù Cristo per mezzo di esse diede a S. Pietro e subordinatamente anche agli altri apostoli il potere di rimettere i peccati, non solo in quanto alla colpa ed alla pena eterna, ma eziandio in quanto alla pena temporale, ossia in altri termini, ha dato alla Chiesa il potere di concedere qualunque indulgenza, sia plenaria di tutta la pena temporale dovuta ai peccati, sia parziale di una parte di tale pena. Il fatto si è che gli Apostoli compresero a meraviglia di aver ricevuto questo potere e ne abbiamo una prova in un fatto particolare di San Paolo. Uno dei novelli Cristiani aveva commesso un grave peccato contro la purità. S. Paolo preso da santa indignazione, e volendo colpire di spavento i primi convertiti, ordinò in nome di Gesù Cristo alla Chiesa di Corinto, cui quel cristiano apparteneva, di scomunicarlo, di evitarlo e di considerarlo come dato in potere di satana. Tale rigore produsse un salutare effetto. Lo sciagurato comprese la gravità del suo fallo, si pentì, fece penitenza, pianse, e supplichevole domandò di essere riconciliato e ammesso di nuovo nel seno della Chiesa. Ora i Cristiani della Chiesa di Corinto non sembravano troppo disposti a rimettere nella loro comunione un individuo, che aveva dato uno scandalo sì grave, così che il misero per questo rifiuto era caduto in una profonda tristezza e stava per darsi in preda alla disperazione. Allora S. Paolo scrisse un’altra volta ai Corinti ed ecco quanto loro disse: « Già basta per quell’infelice quella grave e pubblica correzione, che ha sofferto. Ora conviene che lo perdoniate e lo consoliate per non opprimerlo con maggior tristezza, imperciocché anch’io nella persona di Gesù Cristo, vale a dire come suo rappresentante, gli ho perdonato » (2 Cor. II, 6 e segg). Dalle quali parole chiaramente si vede, come S. Paolo, forte dell’autorità ricevuta da Gesù Cristo, abbia rimesso a quel cristiano di Corinto il testante della pena temporale, dovuta alla sua colpa, e cioè gli abbia dispensata un’indulgenza. Così per l’appunto intesero questo fatto i Padri e i Dottori della Chiesa ed in particolare Tertulliano, S. Ambrogio, S. Agostino, S. Giovanni Crisostomo, Teofilatto e S. Tommaso, del qual fatto precisamente si servirono per riconoscere che nella Chiesa vi ha il potere di concedere le indulgenze. Questo potere fu pure riconosciuto ed altamente proclamato dai Cristiani, durante le persecuzioni, perciocché, non di rado accadeva, che i Vescovi per le preghiere che a loro venivano inviate dai valorosi confessori della fede già chiusi in carcere e pronti a subire il martirio, condonassero ai peccatori pentiti la pena, che ancora dovevano scontare per le loro colpe. Questo potere fu pure riconosciuto ed attestato da San Cipriano nel suo libro (De lapsis) intorno ai caduti nell’apostasia durante le persecuzioni, giacché dice in esso assai chiaramente, che Iddio per mezzo della Chiesa può concedere a quei miseri l’indulgenza della pena dovuta alle loro colpe. Questo potere fu pure riconosciuto e professato dai Concili generali, compreso il primo di Nicea, e da una quantità di Concili particolari per il corso di dodici secoli, giacché in detti Concili si fecero espressamente dei canoni in riguardo alle condizioni per rimettere la penitenza ai peccatori, ossia per dispensare delle misericordiose indulgenze. Quindi è che ben a ragione quando il protestantesimo nella persona di Lutero, di Calvino e di altri eretici si levò su a combattere le sante indulgenze e a negare alla Chiesa il potere di concederle, chiamando addirittura le indulgenze col nome di frodi ed imposture dei Pontefici, il Concilio di Trento definì chiaramente e solennemente che « Gesù Cristo medesimo ha donato alla Chiesa il potere di conferire le indulgenze  dai tempi più antichi la Chiesa fece uso di tale potere, e che perciò questo uso sommamente salutare al popolo cristiano e confermato dall’autorità dei santi concili, deve essere conservato, e chiunque negasse l’utilità delle sante indulgenze o il potere, che la Chiesa ha di conferirle, sia colpito di anatema » (Sess. XXV). – Ma riconosciuto che cosa sono le indulgenze e che ha la Chiesa di concederle, bisogna ora riconoscere perché le indulgenze abbiano la virtù di rimettere o tutta o in parte la pena temporale dovuta ai nostri peccati. Ponete adunque ben mente: Egli è certo, che Gesù Cristo vero Dio e vero uomo, per il valore infinito di qualsiasi sua più piccola azione avrebbe potuto  con una sola goccia del suo sangue riscattare non solo questo mondo, ma mille e mille altri ancora, ciò non bastando al suo amore infinito per noi, volle invece versarlo tutto e soffrendo ogni sorta di dolori e di angosce nella sua passione nella sua morte; volle rendere infinitamente copiosa e sovrabbondante la sua redenzione. Or questi meriti infiniti, e sovrabbondanti di Gesù Cristo, questi meriti che eccedono di gran lunga il prezzo della nostra salute, non sono andati perduti, ma sono rimasti in eredità alla Chiesa. – Non basta. La Santissima Vergine, per essere stata da tutta l’eternità destinata ad essere Madre di Dio, fu fin dal primo istante della sua Immacolata Concezione arricchita da Dio di un tesoro tale di grazia da sorpassare, come dicono i Santi Dottori, tutte le grazie, che Dio diede agli Angeli e ai Santi tutti presi insieme. È certo, che la Vergine corrispose perfettamente alla grazia ricevuta e l’andò smisuratamente moltiplicando, di guisa che, ella pure nella misura, che come a creatura le fu concesso, si acquistò dei meriti copiosi e sovrabbondanti, il cui tesoro è pure rimasto con quello di Gesù Cristo alla Chiesa. Non basta ancora. I santi tutti coi loro patimenti, colla loro vita di sacrifizio e di abnegazione, colle loro penitenze, colle loro virtù, col loro zelo per la gloria di Dio e per la salute delle anime, in una parola colla loro santità, ancora essi hanno fatto in grandissima quantità delle opere di supererogazione, colle quali hanno guadagnato assai più di ciò, che era strettamente necessario per la loro salute e per l’espiazione delle loro colpe, e tutto il merito sovrabbondante, che per tal guisa si sono acquistato è ancor esso rimasto alla Chiesa con quello di Gesù Cristo e di Maria Santissima. – E non basta ancora. Anche dai Cristiani, non dichiarati santi o tuttora viventi nella Chiesa, si praticano grandi virtù, si compiono grandi sacrifizi, si esercitano tante penitenze, si distribuiscono tante elemosine, si fanno tanti atti eroici per la gloria di Dio, per la propagazione del Vangelo, per la salvezza delle anime, e si acquistano perciò tanti meriti, anche qui copiosi e sovrabbondanti al cospetto di Dio. – Ora tutti questi meriti riuniti, quelli di Gesù Cristo, quelli di Maria, quelli dei Santi, quelli di tutte le opere buone, che si fanno nella Chiesa, costituiscono per la Chiesa istessa un tesoro preziosissimo ed immenso. Ed è appunto a questo immenso e preziosissimo tesoro, che la Chiesa mette mano per dare alle sante indulgenze col valore di tanti meriti quella virtù di rimettere a noi in modo plenario, o in modo parziale la pena temporale dovuta alle nostre colpe, benché perdonate. – Se non che io sono certo, che molti diranno qui: Noi intendiamo bene che cosa sia indulgenza plenaria, intendiamo cioè che se si acquista tale indulgenza e non se ne perde il merito prima di morire, dopo morte non avremo neppur più un istante da passare in purgatorio e ce ne andremo subito al Paradiso. Ma che cosa vogliono dire le indulgenze parziali di 100 giorni, di 200, di alcuni anni, e di alcune quarantene? Voglion dire forse che acquistando tali indulgenze, si starà tanti giorni, tanti anni, tante quarantene di meno in purgatorio? No, o miei cari, non vuole dir questo. Per comprendere bene la cosa bisogna sapere, che nel principio del Cristianesimo si castigavano certi peccati con delle pubbliche penitenze proporzionate quanto alla qualità e alla durata alla gravità del peccato, penitenze che duravano alle volte un qualche numero di anni, oppure qualche centinaio di giorni, oppure una o più quarantene, ossia una o più volte quaranta giorni. Ora quando la Chiesa concede l’indulgenza, ad esempio di 100 giorni, intende di rimettere la pena temporale, che il Cristiano avrebbe scontato secondo quella primitiva disciplina, esercitandosi nella penitenza per 100 giorni. Epperò acquistando il Cristiano tale indulgenza vuol dire che in purgatorio avrà da penare tanto di meno, come se egli si fosse esercitato nella penitenza per 100 giorni secondo l’antica disciplina della Chiesa. Ad ogni modo voi vedete, che l’acquisto delle indulgenze è uno dei mezzi più efficaci per abbreviare a noi il purgatorio. Ma non solo per abbreviarlo a noi, ma eziandio per abbreviarlo alle sante anime. Perciocché se si tratta di indulgenze, che sono concesse non solo a prò dei vivi, ma ancora a prò dei morti, noi possiamo acquistarle e applicarle poscia colla nostra intenzione alle sante anime del purgatorio. Ed oh! quale soccorso noi rechiamo allora ad esse. Supponiamo di aver fatto penitenze lunghissime, di varie quaresime, di varie centinaia di giorni, di vari anni, oppure anche una, due, più volte la penitenza corrispondente a tutta la pena temporale dovuta ai nostri peccati. Acquistando noi le sante indulgenze o parziali o plenarie, ed applicandole alle anime del purgatorio è precisamente, come se loro applicassimo il merito di tutte quelle penitenze così gravi e così soddisfattone. Notate, però, o miei cari, che sebbene noi nell’applicare a prò delle anime del purgatorio le sante indulgenze intendiamo talora di applicarle ad una o a più determinate anime, ed applicarle in tutto il loro valore, tuttavia non è sempre, che tali indulgenze siano applicate da Dio propriamente in quel modo, che vorremmo noi. È certo che lddio nella sua bontà si degna di accettare a prò delle anime del purgatorio le indulgenze, abbiamo offerto a tal fine, ma in quanto alle anime cui applicarle e alla misura dell’applicazione questo dipende interamente dalla sua sapienza e dalla sua giustizia. E ciò perché se a noi, che siamo sotto l’immediata giurisdizione della Chiesa, essa concede le indulgenze in forma di giudizio e di assoluzione, vale a dire giudicando che mercé determinate opere meritiamo di essere assolti da tutta o da parte della pena temporale, ed assolvendocene di fatto nella misura da lei determinata, alle anime del purgatorio invece, che non sono più sotto al suo governo diretto, ma sotto a quello di Dio, la Chiesa non può più applicare ad esse le indulgenze che pervia di suffragio, ossia offrendole a Dio e pregandolo di accettarle e valersene in loro vantaggio, come a Lui piacerà. Comunque però si regoli Iddio nel valersi delle indulgenze, che noi gli offriremo, a prò delle sante anime, è certo che tali indulgenze non vanno perdute. Se Egli, ad esempio, per punire di più un’anima del purgatorio durante la sua vita fu insensibile per le anime stesse di quel luogo, non le applicherà l’indulgenza, che noi abbiamo guadagnato per lei, senza dubbio l’applicherà ad altre anime che ne sono più degne, e così noi avremo sempre portata la consolazione in quel luogo di pene. Quanto importa adunque di acquistare tutte le indulgenzepossibili, sia per vantaggio nostro, sia a prò delle anime del purgatorio! A tal fine facciamo tutto ciò che è necessario. Epperò, oltre al compiere esattamente quelle sante pratiche, che hanno annesse delle indulgenze, procuriamo di trovarci in istato di grazia e di mettere l’intenzione di acquistarle: e se si tratta di indulgenze plenarie rigettiamo altresì dal nostro cuore ogni affetto al peccato veniale, essendo tutto ciò indispensabile per acquistarle davvero. E nella speranza di averle acquistate, deh! siamo generosi a cederne il vantaggio alle sante anime del purgatorio, perciocché dobbiamo essere ben persuasi, che quella carità che noi avremo usato a loro, Iddio farà in modo, che altri un giorno l’abbiano ad usare a noi. Al qual proposito io non voglio terminare oggi senza esortarvi a compiere a prò di quelle sante anime un atto, che per la sua grandezza e generosità è chiamato atto eroico, e che consiste nell’offrire spontaneamente a Dio tutto il frutto soddisfattorio delle buone opere che facciamo in vita e persino tutti i suffragi, che verranno applicati a noi dopo morte, mettendo tutti questi valori spirituali nelle mani di Maria SS., perché li distribuisca e li dispensi Ella secondo il suo beneplacito a quelle anime, che desidera liberare dalle loro pene. E nel compierlo non temiamo di perdere il merito delle buone opere nostre, che questo rimarrà sempre a noi, e neppure di esporci al pericolo di dovere poscia rimanere noi troppo lungamente in purgatorio. Iddio non si lascerà certo vincere da noi in generosità, e può essere benissimo, che per questa nostra eroica cessione a prò di quelle anime egli inceda ben anche la grazia di una totale esenzione dal purgatorio. Ma quando pure noi dovessimo andare in quel carcere e rimanervi per qualche tempo, pensiamo che coll’aver fatto un tale atto di eroismo noi abbiamo compiuta un’opera sommamente gradita a Gesù Cristo ed alla SS. Vergine, giacché abbiamo dimostrato col fatto di amarli col più grande disinteresse, e nel compiere un’opera sì sacra a Gesù ed a Maria abbiamo fatto un merito, che certamente in paradiso ci darà un grado di gloria di gran lunga maggiore di quello che conseguiremmo non facendolo. Così assicurò per l’appunto Gesù Cristo a S. Geltrude che aveva fatto tale atto. Ora, è vero, il pensiero delle pene del purgatorio ci fa più impressione che non quello di una gloria maggiore in paradiso, ma nell’altra vita non sarà così senza dubbio, tanto che ci adatteremmo volentieri a restare nel purgatorio sino alia fine del mondo se ciò potessimo fare col piacere di Dio, purché potessimo aggiungere una gemma di più alla nostra immortale corona. Coraggio adunque, o miei cari, non abbiamo nessun timore di essere troppo generosi. Ed animati perciò dalla carità più viva, preghiamo la nostra cara Madre Maria, che si degni di ricevere nelle sue sante mani in favore delle sante anime del purgatorio tutte le nostre indulgenze, che potremo acquistare, tutte le opere soddisfattorie, che faremo in vita, e tutti i suffragi che ci verranno fatti dopo morte, di conservare solo per noi la compassione del suo materno cuore.

(L’atto eroico di carità venne arricchito dei più preziosi favori. – 1. I sacerdoti che l’avranno fatto potranno godere dell’indulto dell’altare privilegiato personale in tutti i giorni dell’anno.

2. I semplici fedeli possono lucrare l’indulgenza plenaria, applicabile solamente ai defunti, in qualunque giorno facciano la santa Comunione, purché visitino una Chiesa e preghino secondo l’intenzione del Sommo Pontefice.

3. Similmente indulgenza plenaria in tutti i lunedì dell’anno, ascoltando la Messa in suffragio delle anime del purgatorio, purché visitino e preghino come sopra.

4. Tutte le indulgenze, anche le non applicabili, potranno da essi applicarsi ai defunti.

5. I fanciulli non ancora ammessi alla Comunione, ed i vecchi e gl’indisposti potranno ottenere dal Confessore, autorizzato a tal uopo dall’Ordinario, la commutazione delle opere per l’acquisto di dette indulgenze.

6. Per coloro, che non potranno ascoltare la Messa il lunedì, sarà valevole quella della Domenica per l’acquisto dell’indulgenza predetta. —   Non è prescritta nessuna formola per questo atto; basta farlo di cuore. Potrebbesi adottare la seguente: O Maria, Madre di misericordia, io faccio tra le vostre mani, in favore delle sante anime del purgatorio, l’intero abbandono delle opere soddisfattorie che farò in vita, e dei suffragi che mi verranno applicati dopo morte, non serbandomi altroche la compassione del vostro materno cuore.)

ESEMPI.

1. Il beato Bertoldo francescano aveva fatto una predica convenientissima sull’elemosina, dopo la quale concesse agli uditori, giusta la facoltà ottenuta dal sommo Pontefice, dieci giorni d’indulgenza; allorché una signora, caduta in basso stato, andò a manifestargli la propria indigenza. Il buon religioso le disse: « Ella ha acquistato dieci giorni d’indulgenza assistendo alla predica; vada dal banchiere tale, che finora non si curò gran fatto di tesori spirituali, e gli offra, in cambio dell’elemosina, il merito da lei acquistato. Tengo per fermo che le darà soccorso ». La buona donna vi si recò. Dio permise che fosse accolta con bontà: il banchiere le chiese che volesse per dieci giorni d’indulgenza. « Ciò che pesano ripose! — Ebbene, riprese il banchiere, ecco una bilancia; scriva su d’una carta i suoi giorni d’indulgenza e la ponga su d’un piatto, ed io porrò sull’altro una moneta ». Oh prodigio! la carta pesa di più. Attonito il banchiere, v’aggiunse un’altra moneta, poi una terza, una decima, una trentesima, insomma, quante la donna abbisognavano; soltanto allora i due piatti si misero in equilibrio. Fu questa lezione assai preziosa pel banchiere, avendo per essa conosciuto il valore degli interessi celestiali. Le povere anime l’intendono ancor meglio; per la minima indulgenza darebbero tutto l’oro del mondo.

2. Adriana cugina di S. Margherita da Cortona e sua confidente sino dalla sua gioventù, essendo desiderosa di conseguire la celebre indulgenza della Porziuncola, portossi in Assisi alla Chiesa della Madonna degli Angeli, ove entrando ai due di Agosto fu sì oppressa dalla calca di gente, che in tal giorno vi concorreva, che subitamente dopo il ritorno in Cortona, tormentata da violentissimi dolori di pancia, morì. Non potè S. Margherita trattenere le lacrime per la morte di sua cugina: e, mentre raccomandava al Signore l’anima di lei, ebbe da Gesù Cristo questa rivelazione: Non pianger più l’anima della tua Adriana, giacché per i meriti grandi dell’indulgenza, conseguiti da lei in Santa Maria degli Angeli, Io l’ho ammessa alla gloria dei Beati.

3. Santa Maria Maddalena de’ Pazzi aveva assistito con somma carità alla morte di una consorella, a cui le monache non solo furono sollecite di fare i consueti suffragi della religione, ma di applicare ancora le sante indulgenze, che ricevevano in quel giorno. Ne restava tuttora esposto nella chiesa il cadavere; e dalle grate, con affetto di tenerezza e di  devozione, lo guardava Maria Maddalena implorando requie e pace alla defunta, quando vide l’anima di lei involarsi verso il cielo per ricevervi la corona dell’eterna. Non poté la Santa trattenersi dell’esclamare: Addio. addio anima beata; prima tu, in Cielo che il corpo nel sepolcro. Oh felicità! oh gloria! negli amplessi di Dio ti sovvenga di noi che sospiriamo in terra. Mentre così diceva apparve Gesù per consolarla dichiarare che in virtù delle indulgenze quell’anima era stata presto dal Purgatorio e ammessa in Paradiso. – Così tanto fervore si accese in quel monastero per l’acquisto delle sante indulgenze, che si aveva quasi a scrupolo il lasciarne alcuna. Perché una scintilla di quel santo fervore non si accende nei nostri petti?

4. Aveva S. Geltrude fatto dono d’ogni opera soddisfattoria alle anime purganti. Venuta a morte fu assalita dal demonio, il quale tentava persuaderla aver ella liberate moltissime anime dal purgatorio per andarne ora a prendere il posto e soffrire per loro. Mentre era così tentata, le apparve nostro Signore che le disse: « Perché, o Geltrude mia, sei così afflitta? » « Ah Signore! rispose ella, mi vedo in procinto di venirvi dinnanzi per essere giudicata, senz’alcun capitale di buone opere che valgano a soddisfare le tante offese che vi ho fatte ». Il Signore allora sorridendole dolcemente, così la consola: « Geltrude, figliuola mia, affinché tu sappia quanto mi sieno accette la devozione e la carità che avesti per quelle anime, ti rimetto fin d’ora tutte le pene che ti fossero riserbate; inoltre avendo promesso il cento per uno a chi accende l’amor mio, voglio ricompensarti ancora coll’aumentarti il grado di gloria che ti aspetta lassù. Tutte le anime che hai sollevate verranno per mio ordine ad introdurti fra i cantici nella celeste Gerusalemme ». La Santa spirò poco dopo, piena di sicurezza e di esultanza.

v.https://www.exsurgatdeus.org/2019/11/01/i-sermoni-del-curato-dars-2-novembre-commemorazione-dei-fedeli-defunti/

IL CREDO

CREDO ….

Offertorium

Oremus

Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, quas tibi pro animábus famulórum famularúmque tuárum offérimus, propitiátus inténde: ut, quibus fídei christiánæ méritum contulísti, dones et præmium.

[Guarda propizio, Te ne preghiamo, o Signore, queste ostie che Ti offriamo per le ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché, a coloro cui concedesti il merito della fede cristiana, ne dia anche il premio].

Comunione spirituale https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

4 Esdr II:35; II:34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Animábus, quǽsumus, Dómine, famulórum famularúmque tuárum orátio profíciat supplicántium: ut eas et a peccátis ómnibus éxuas, et tuæ redemptiónis fácias esse partícipes:

[Ti preghiamo, o Signore, le nostre supplici preghiere giovino alle ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché Tu le purifichi da ogni colpa e le renda partecipi della tua redenzione:].

Preghiere leonine

Orinario della Messa.

SECONDA MESSA

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Esdr II:34; II:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV: 2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.
[l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
Ps LXIV: 2-3
[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis. [l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Oratio

Orémus.
Deus, indulgentiárum Dómine: da animábus famulórum famularúmque tuárum refrigérii sedem, quiétis beatitúdinem et lúminis claritátem.
[ O Dio, Signore di misericordia, accorda alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la dimora della pace, il riposo delle beatitudine e lo splendore della luce].

Lectio

Léctio libri Machabæórum.
2 Mach XII: 43-46
In diébus illis: Vir fortíssimus Judas, facta collatióne, duódecim mília drachmas argénti misit Jerosólymam, offérri pro peccátis mortuórum sacrifícium, bene et religióse de resurrectióne cógitans, nisi enim eos, qui cecíderant, resurrectúros speráret, supérfluum viderétur et vanum oráre pro mórtuis: et quia considerábat, quod hi, qui cum pietáte dormitiónem accéperant, óptimam habérent repósitam grátiam.
Sancta ergo et salúbris est cogitátio pro defunctis exoráre, ut a peccátis solvántur.

[In quei giorni: il più valoroso uomo di Giuda, fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato].

Graduale

4 Esdr 2:34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Ps 111:7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.

[V. Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].

Tractus.

Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].
Sequentia

Dies Iræ …. [V. sopra]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Gloria tibi, Domine!
Joann VI: 37-40
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Omne, quod dat mihi Pater, ad me véniet: et eum, qui venit ad me, non ejíciam foras: quia descéndi de cælo, non ut fáciam voluntátem meam, sed voluntátem ejus, qui misit me. Hæc est autem volúntas ejus, qui misit me, Patris: ut omne, quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resúscitem illud in novíssimo die. Hæc est autem volúntas Patris mei, qui misit me: ut omnis, qui videt Fílium et credit in eum, hábeat vitam ætérnam, et ego resuscitábo eum in novíssimo die.
[In quel tempo: Gesù disse alla moltitudine degli Ebrei: Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno].

Credo…

Offertorium

Orémus
Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, pro animábus famulórum famularúmque tuárum, pro quibus tibi offérimus sacrifícium laudis; ut eas Sanctórum tuórum consórtio sociáre dignéris.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche in favore delle anime dei tuoi servi e delle tue serve, per le quali Ti offriamo questo sacrificio di lode, affinché Tu le accolga nella società dei tuoi Santi..]

Praefatio
Defunctorum

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. In quo nobis spes beátæ resurrectiónis effúlsit, ut, quos contrístat certa moriéndi condício, eósdem consolétur futúræ immortalitátis promíssio. Tuis enim fidélibus, Dómine, vita mutátur, non tóllitur: et, dissolúta terréstris hujus incolátus domo, ætérna in coelis habitátio comparátur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

 [È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. In lui rifulse a noi la speranza della beata risurrezione: e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:]

Communio

4 Esdr II:35-34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, Dómine: ut ánimæ famulórum famularúmque tuárum, his purgátæ sacrifíciis, indulgéntiam páriter et réquiem cápiant sempitérnam.
[Fa’, Te ne preghiamo, o Signore, che le anime dei tuoi servi e delle tue serve, purificate da questo sacrificio, ottengano insieme il perdono ed il riposo eterno].

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO. S. S. BENEDETTO XV – HUMANI GENERIS REDEMPTIONEM

Questa lettera enciclica di Benedetto XV affronta un argomento decisivo nella propagazione e nel mantenimento della fede cattolica, e fondamentale per l’esistenza stessa della Chiesa: la predicazione della divina parola. Se i Vescovi avessero osservato alla lettera le disposizioni pratiche del Santo Padre non avremmo avuto quel clero ignorante, accidioso, infingardo che ha consentito agli avversari di Cristo e della sua Chiesa, di infiltrarsi in essa e prendere il sopravvento sui sacri palazzi e finanche sulla Cattedra di Pietro oggi occupata da Simon Mago e dai suoi epigoni. La lettera è mirabilmente articolata e congegnata onde ottenere i risultati pratici che si riprometteva secondo gli insegnamenti del divino Maestro… ma il mistero d’iniquità era già all’opera tumultuosa che doveva poi sfociare nell’apostasia manifesta del conciliabolo della sinagoga vaticana e nella orribile parodia degli antipapi che, inventando la falsa chiesa dell’uomo, falsi sacramenti, falsi riti e falsa gerarchia, hanno preparato la via all’anticristo come da profezie bibliche. Questo, come tanti altri documenti, è però la testimonianza della vera anima dottrinale della Chiesa di Cristo, Chiesa che rivivrà nella sua magnificenza alla venuta di Cristo Salvatore che, bruciando col soffio della sua bocca l’anticristo ed i suoi adepti, rivendicando la sua regalità universale, ricapitolando tutta la creazione in Sé, rimetterà il suo Regno al Padre celeste libero da impuri e reprobi. Al Pusillus grex spetta attendere con pazienza e preghiera incessante il momento glorioso del ritorno di Cristo e del Giudizio universale che separerà per sempre i capri (i falsi cristiani solo di nome, paganizzati e satanizzati: Novus ordo, eretici sedevacantisti e sedicenti tradizionalisti fallibilisti ed autoreferenziati, oltre ai già condannati infedeli, settari ed atei a vario titolo), dagli agnelli, coloro cioè che avranno sopportato per Lui sofferenze, dispregi e martirio restando fedeli alla sua eterna dottrina ed alla sua “vera” Chiesa anche se solo di desiderio.

Benedetto XV
Humani generis redemptionem

Lettera Enciclica

I. L’ANNUNCIO DELLA PAROLA

La predicazione prosegue l’opera della redenzione.

Avendo Gesù Cristo nostro Signore col morire sull’altare della Croce compiuta la Redenzione del genere umano, e volendo indurre gli uomini mercé l’osservanza de’ suoi comandamenti a guadagnarsi la vita eterna, non ricorse ad altro mezzo che alla voce de’ suoi predicatori, commettendo loro di annunziare al mondo le cose necessarie a credere o ad operare per la salute. “Piacque a Dio di salvare i credenti per mezzo della stoltezza della predicazione” (1Cor 1, 21). Elesse egli quindi gli apostoli, ed avendo loro infusi con lo Spirito Santo i doni appropriati a sì alto ufficio: “Andate – disse – per tutto il mondo e predicate l’Evangelio” (Mc XVI, 15). Ed è questa predicazione appunto che rinnovò la faccia della terra. Poiché se la Fede cristiana convertì le menti degli uomini da molteplici errori alla conoscenza della verità, e le anime loro dall’indegnità dei vizi all’eccellenza di ogni virtù, non per altra via le convertì se non per via della predicazione: “La Fede dall’udito, l’udito poi per la parola di Cristo” (Rm X,17). Laonde, siccome per divina disposizione, sogliono le cose conservarsi per quelle medesime cause che le hanno generate, egli è manifestato essere legge divina che l’opera dell’eterna salute si continui per la predicazione della cristiana sapienza; a buon diritto venir questa annoverata tra le cose di suprema importanza, e meritare perciò tutte le nostre cure e sollecitudini, massime se ci fosse ragion di credere ch’ella, perdendo in efficacia, fosse in qualche modo venuta meno alla sua nativa integrità. – Ed è questo appunto che s’aggiunge ai tanti mali, che Noi sopra ogni altro affliggono in questi miseri tempi. Se miriamo quanti sono coloro che attendono alla predicazione, li ritroviamo in sì gran numero che forse mai non fu il maggiore. Ma se al tempo stesso consideriamo a che sono ridotti i costumi pubblici e privati e le leggi onde si reggono i popoli, vediamo crescere ogni giorno il disprezzo e la dimenticanza d’ogni concetto soprannaturale; vediamo illanguidire il vigore severo della virtù cristiana, con obbrobrioso e rapido ritorno all’indegnità della vita pagana. – Di tanti mali molte certamente e varie sono le cagioni: non si può negare però che purtroppo insufficiente sia il rimedio che i ministri della divina parola vi dovrebbero apportare. Forse che la parola di Dio non è più quella che l’Apostolo chiamava viva ed efficace e penetrante più d’una spada a due tagli? Forse col tempo e coll’uso la spada s’è spuntata? Certo ella è colpa dei ministri, che non sanno maneggiarla, s’essa perde spesso della sua forza. Né davvero si può dire che gli Apostoli incontrassero tempi migliori dei nostri, come se allora il mondo fosse più docile al Vangelo o meno riottoso alla legge di Dio. Gli è perciò che conscii del dovere che l’ufficio apostolico c’impone e mossi dall’esempio dei due nostri immediati Predecessori, abbiamo creduto, in un affare di tanta importanza, di dover porre ogni diligenza per chiamare la predicazione della divina parola alla norma data da Cristo e dalle leggi ecclesiastiche.

II. CAUSE DI INEFFICACIA

Non si deve predicare senza mandato

Nel che, o Venerabili Fratelli, importa ricercare anzitutto quali siano le cagioni che fanno tralignare dalla retta via. Ora siffatte cagioni possono ridursi a tre: o perché viene commessa la predicazione a chi non si dovrebbe; o perché non ci si apporta la dovuta intenzione; o ancora non si predica nel modo che si conviene. – Infatti, secondo che insegna il Concilio di Trento, l’ufficio di predicare spetta ai Vescovi principalmente. E gli Apostoli, ai quali succedettero i Vescovi, quello soprattutto ritennero che loro appartenesse. Così Paolo: “Non mi ha mandato Cristo a battezzare, ma a predicare il Vangelo” (1Cor 1, 17). E gli altri Apostoli similmente: “Non è giusto che noi tralasciamo la parola di Dio per servire alle mense” (At VI, 2). – Però sebbene quest’ufficio appartenga ai Vescovi in proprio, tuttavia essendo essi occupati da molti altri pensieri nel governo delle loro Chiese, né potendo perciò sempre né in ogni caso adempirlo di per sé, è necessario che vi soddisfacciano anche per mezzo di altri. Laonde chiunque, oltre i Vescovi, esercita quest’ufficio, lo esercita senza dubbio come un incarico episcopale. Questo adunque rimanga anzitutto bene stabilito: a nessuno essere lecito d’intraprendere da sé l’ufficio di predicare, essere anzi a ciò necessaria la legittima missione, che nessuno può dare, dal Vescovo in fuori: “Quomodo prædicabunt nisi mittantur? – Come predicheranno se non sono mandati?” (Rm X,15). Quindi mandati furono gli Apostoli, e mandati da Colui che è Pastore supremo e Vescovo delle anime nostre (cf. 1Pt II, 25), mandati i settantadue discepoli; e lo stesso Paolo, quantunque costituito già da Cristo vaso di elezione per portare il nome di lui dinanzi alle genti ed ai re (cf. At IX, 15), non iniziò il suo apostolato fino a quando i seniori, ubbidendo al comando dello Spirito Santo: “Mettetemi da parte Saulo per l’impresa” (del Vangelo) (At XIII, 2), impostegli le mani, non lo licenziarono. La qual cosa nei primi tempi della Chiesa fu consuetudine costante. Tanto che tutti, anche i più insigni nel semplice ordine sacerdotale, come Origene, e quelli che dappoi furono innalzati alla dignità episcopale, come Cirillo di Gerusalemme e gli altri antichi Dottori della Chiesa, tutti, autorizzati ciascuno dal proprio Vescovo, intrapresero l’opera della predicazione. – Oggi all’incontro, o Venerabili Fratelli, si direbbe sia invalsa un’usanza ben differente. Non sono rari, tra i sacri oratori, tali di cui si potrebbe ripetere con verità quello onde si lagna Iddio presso Geremia: “Io non li avevo mandati quei profeti, eppure correvano da sé” (Ger XXIII, 21). Basta infatti che alcuno o per naturale inclinazione o per altro motivo qualunque s’invogli di darsi al ministero della parola, perché facilmente gli si apra l’accesso al pergamo, quasi palestra da esercitarvisi ognuno a suo talento. Tocca dunque a voi, o Venerabili Fratelli, riparare a tanto disordine; e poiché ben sapete come dovrete un giorno rendere conto a Dio ed alla Chiesa del pascolo che avrete fornito alle vostre greggi, non vogliate permettere che alcuno, senza il vostro consenso, s’introduca nell’ovile e quivi a suo piacimento pasca le pecorelle di Cristo. Nessuno pertanto nelle vostre diocesi d’ora innanzi dovrà predicare se non sia stato da voi stessi chiamato ed approvato. – Vorremmo perciò, su questo proposito, che con ogni vigilanza consideriate a quali persone affidate incarico così santo e rilevante. Il decreto del Concilio Tridentino infatti questo solo permette ai Vescovi, che scelgano uomini idonei, cioè dire che siano capaci di adempiere salutarmente il dovere della predicazione. Salutarmente, dice – notate bene la parola che esprime la norma in questo affare – non dice con eloquenza, non già con plauso degli uditori, ma con frutto delle anime, che è il fine proprio del ministero della divina parola. Che se desiderate intendere da Noi anche più precisamente quali veramente si debbano reputare idonei, diremo senz’altro che sono quelli appunto ne’ quali riscontrate i segni della vocazione divina. Imperocché quei requisiti stessi che si domandano acciocché alcuno sia ammesso al sacerdozio: “Nessuno si appropria da sé tale onore ma chi è chiamato da Dio” (Eb V, 4), sono pure necessari perché egli sia giudicato atto alla predicazione.

Chi può essere ammesso a predicare

Vocazione questa non difficile ad intendere. Poiché allorquando Cristo, Maestro e Signor nostro, stava per salire al cielo, non disse già agli Apostoli che, spargendosi pel mondo, subito principiassero a predicare, ma “trattenetevi in città sino a tanto che siate rivestiti di virtù dall’alto” (Lc XXIV,4). Sicché questo è l’indizio d’essere alcuno da Dio chiamato a tale ufficio, s’egli sia dall’alto rivestito di virtù. Il che come sia, Venerabili Fratelli, lo possiamo raccogliere dall’esempio degli Apostoli, tostoché ricevettero virtù dal cielo. Era su di loro disceso appena lo Spirito Santo, che lasciando stare i mirabili carismi loro conferiti essi, di rozzi e fiacchi uomini che erano, ad un tratto diventarono dotti e perfetti. Così se un sacerdote sia fornito di conveniente dottrina e di virtù purché egli abbia tanto in doni di natura da non tentare Iddio giustamente si potrà giudicarlo chiamato al ministero della predicazione, né vi sarà ragione che il Vescovo non lo possa ammettere. Ed è quello stesso che intende il Concilio di Trento, quando stabilisce che il Vescovo non permetta di predicare ad alcuno che non sia ben provato per costumi e per dottrina. È quindi dovere del Vescovo assicurarsi per via di lunga ed accurata esperienza quanta sia la scienza e la virtù di coloro, ch’egli pensa d’incaricare dell’ufficio di predicare. E s’egli in ciò si dimostrasse troppo facile e trascurato, mancherebbe ad un suo gravissimo dovere, e sul suo capo ricadrebbe la colpa e degli errori profferiti dal predicatore ignorante e dello scandalo e mal esempio del malvagio. – Ma per facilitarvi l’adempimento dell’obbligo vostro in questo genere, o Venerabili Fratelli, ordiniamo che d’ora innanzi tutti coloro che domandano la facoltà di predicare abbiano a sostenere un doppio e severo giudizio, dei costumi e della scienza loro, così appunto come si suole per la facoltà di ascoltare le confessioni. E chiunque o per l’uno o per l’altro conto sia ritrovato manchevole, senza nessun riguardo, come inetto venga escluso da tale ufficio. Lo esige la dignità vostra, perché, come abbiamo detto, i predicatori fanno le vostre veci: lo esige il bene della santa Chiesa, nella quale, se altri mai dev’essere sale della terra e luce del mondo, ciò spetta a colui che è occupato nel ministero della parola (Mt 5,13-14).

Il fine e le forme della predicazione

Ben considerate queste cose, può sembrare superfluo il procedere a spiegare qual debba essere il fine e il modo della sacra predicazione. Giacché ove la scelta dei sacri oratori si faccia secondo la mentovata regola, che dubbio c’è che quelli, i quali sono adorni delle richieste qualità, si proporranno nel predicare una degna causa e si atterranno a una degna maniera? Tuttavia giova lumeggiare questi due capi, affinché tanto meglio apparisca perché mai talvolta venga a mancare in alcuni l’ideale del buon predicatore. – Che cosa i predicatori nell’adempiere al loro ufficio abbiano da avere innanzi agli occhi, si rileva da questo, che essi possono e debbono dire di sé quel di San Paolo: “Facciamo le veci di ambasciatori per Cristo” (2Cor V, 20). Se dunque sono ambasciatori di Cristo, nel compiere la loro ambasceria debbono volere quello stesso che Cristo intese nel darla loro: anzi quello che Egli stesso si propose, mentre visse sulla terra. Giacché gli Apostoli, e dopo gli Apostoli i predicatori, non ebbero missione diversa da quella di Cristo: “Come mandò me il Padre, anch’io mando voi” (Gv XX, 21). E sappiamo per che cosa Cristo discese dal cielo, avendo Egli apertamente dichiarato: “Io a questo fine son venuto nel mondo, di rendere testimonianza alla verità” (Gv XVIII, 37). “Io son venuto perché abbiano vita” (Gv X, 10). Quelli dunque che esercitano la sacra predicazione debbono mirare all’una e all’altra cosa, cioè a diffondere la verità da Dio rivelata, e a destare ed alimentare la vita soprannaturale in coloro che li ascoltano; in una parola, a promuovere la gloria di Dio, coll’attendere alla salute delle anime. Laonde, come a torto si direbbe medico chi non esercitò la medicina, o maestro di un’arte qualsiasi chi quell’arte non insegni, così chi predicando non si cura di condurre gli uomini a una più piena cognizione di Dio e sulla via dell’eterna salute, potremo dirlo un vano declamatore, non un predicatore evangelico. E così non ve ne fossero di siffatti declamatori!

Intenzioni dei falsi predicatori

E che cosa è poi quello da cui si lasciano soprattutto trasportare? Alcuni dalla cupidigia della gloria umana, per soddisfare alla quale “si studiano di dir cose più alte che adatte, ingenerando nelle deboli intelligenze stupore di sé, non operando la loro salute. Si vergognano di dir cose umili e piane, per non sembrar di saper solo queste… Si vergognano di allattare i pargoli” . E mentre il Signore Gesù dall’umiltà degli uditori voleva s’intendesse essere egli colui che si aspettava: “Si annunzia ai poveri il Vangelo” (Mt II, 5), quanto non brigano costoro per acquistarsi rinomanza dalla predicazione nelle grandi città e sui pulpiti primari? E poiché nelle cose rivelate da Dio ve n’ha di quelle che spaventano la debolezza della corrotta natura umana, e che per ciò non sono adatte ad adunare moltitudini, da esse cautamente si astengono e prendono a trattare argomenti ne’ quali, salvo la natura del luogo, niente v’ha di sacro. E non raro avviene, che nel trattar di verità eterne discendono alla politica, massime se qualche cosa di questo genere occupi fortemente gli animi degli uditori. Questo solo sembra essere il loro studio, di piacere agli uditori e imitar quelli che San Paolo dice lusingatori delle orecchie (2Tm IV, 3). Di qui quel gesto non pacato e grave, ma da scena e da comizio; di qui quelle patetiche modulazioni di voci o tragiche impetuosità; di qui quel modo di parlare proprio dei giornali; di qui quella copia di sentenze attinte dagli scrittori empii ed acattolici, non dalle divine Lettere né dai Santi Padri; di qui finalmente quella vertiginosità di parola che nei più d’essi si riscontra e che serve sì a ottundere le orecchie e a far stupire gli uditori, ma che non reca ad essi niente di buono da riportare a casa. Ora è incredibile di che inganno siano vittime cotali predicatori. Conseguano pure quel plauso degli stolti che essi cercano con tanta fatica e non senza profanazione: ma vale la spesa, quando con ciò essi vanno incontro al biasimo degli uomini savi, e, quel che è peggio, al tremendo giudizio severissimo di Cristo? – Se non che, Venerabili Fratelli, non tutti i predicatori che si allontanano dalle buone regole cercano, nel predicare, unicamente gli applausi. Il più delle volte quelli che si procurano siffatte manifestazioni lo fanno per giovarsene ad altro scopo anche meno onesto. Giacché dimenticando il detto di San Gregorio: “Il sacerdote non predica per mangiare, ma perciò deve mangiare perché predichi” , non sono rari coloro i quali, sentendo di non esser fatti per altri uffici, dove vivere con decoro, si sono dati alla predicazione, non per esercitare debitamente questo santissimo ministero, ma per fare i loro interessi. Vediamo quindi tutte le sollecitudini di costoro essere volte non a cercare dove si possa sperare un maggior frutto nelle anime, ma dove predicando v’è da guadagnare di più. – Ora da uomini siffatti non potendosi aspettar altro che danno e disonore per la Chiesa, dovete, Venerabili Fratelli, vigilare con ogni diligenza affinché, scoprendo qualcuno che faccia servire la predicazione alla sua vanità o all’interesse, lo rimoviate senza indugio dall’ufficio di predicare. Giacché chi non si perita di profanare cosa sì santa, non avrà certo ritegno di discendere ad ogni bassezza, spargendo una macchia d’ignominia non solo sopra di sé, ma anche sullo stesso sacro ministero, che così indegnamente egli compie. – E dovrà usarsi la stessa severità contro coloro che non predicano come si deve, per aver trascurati i necessari requisiti a compiere bene questo ministero. E quali siano questi, lo insegna coll’esempio suo colui che dalla Chiesa fu denominato il Predicatore della verità, Paolo Apostolo; ed oh se, per beneficio di Dio, avessimo molto maggior numero di predicatori simili a lui!

III. CONDIZIONI PER PREDICARE

La scienza necessaria

La prima cosa dunque che apprendiamo da San Paolo si è con che preparazione e dottrina egli intraprese a predicare. Né qui intendiamo degli studi ai quali egli aveva diligentemente atteso sotto il magistero di Gamaliele. Giacché la scienza in lui infusa per rivelazione, oscurava e quasi sopraffaceva quella che egli da sé si era procacciata: benché anche questa non gli giovò poco, come dalle sue Lettere si ricava. La scienza è affatto necessaria al predicatore, come dicemmo; della cui luce chi è privo facilmente erra, secondo la verissima sentenza del Concilio Lateranense IV: “L’ignoranza è la madre di tutti gli errori“. Tuttavia ciò non vuole intendersi di qualsiasi scienza, ma di quella che è propria del sacerdote e che si restringe, per dir tutto in poco, alla cognizione di sé, di Dio e dei doveri: di sé, diciamo, perché ognuno metta da parte i propri vantaggi; di Dio, perché conduca tutti a conoscerlo e ad amarlo; dei doveri, perché li osservi e insegni ad osservarli. La scienze delle altre cose, se manchi questa, gonfia e nulla giova.

Disponibilità senza condizioni

Ma vediamo qual fu nell’Apostolo la preparazione interiore. Nel che tre cose debbono massimamente tenersi sotto gli occhi. La prima, che San Paolo si abbandonò tutto alla divina volontà. Non appena infatti, mentr’era in cammino verso Damasco, fu tocco dalla virtù del Signore Gesù, egli proruppe in quella esclamazione, degna d’un Apostolo: “Signore, che vuoi tu che io faccia?” (At IX, 6). Per amor di Cristo, cominciò subito ad essergli indifferente, come gli fu poi sempre in appresso, il lavorare e il riposare, la penuria e l’abbondanza, la lode e il disprezzo, il vivere e il morire. Non è da dubitare che perciò egli profittasse tanto nell’apostolato, perché si sottomise con pieno ossequio alla volontà di Dio. Al modo stesso quindi innanzi tutto serva a Dio ogni predicatore che s’affatica alla salute delle anime: in maniera che non si dia alcun pensiero degli uditori, del successo, dei frutti, che sarà per avere: che cerchi, infine, non sé, ma Dio solo. – Questo studio poi così grande di prestare ossequio a Dio richiede un animo sì disposto a patire, che non si sottragga a nessuna fatica o incommodo. La qual cosa in Paolo fu insigne. Giacché avendo il Signore detto di lui: “Io gli farò vedere quanto debba egli patire per il nome mio” (At IX, 16), egli da allora abbracciò tutti i travagli sì volenterosamente da scrivere: “Sono inondato dall’allegrezza in mezzo a tutte le nostre tribolazioni” (2Cor VII, 4). Ora questa tolleranza della fatica se nel predicatore sia segnalata, purificandolo da quel che in lui v’è di umano, e conciliandogli la grazia di Dio necessaria per far frutto, è incredibile quanto renda commendevole la sua opera agli occhi del popolo cristiano. Al contrario poco riescono a muover gli animi, quelli che dovunque vanno, cercano comodità più del giusto, e fuori delle loro prediche, non toccano quasi altro del sacro ministero; sì da apparire che essi badino più alla propria sanità, che al vantaggio delle anime. In terzo luogo finalmente dall’Apostolo s’impara che al predicatore è necessario quello che si dice lo spirito di orazione: egli infatti come prima fu chiamato all’apostolato, cominciò a pregar Dio: “Ei già fa orazione” (At IX, 11). E la ragione è perché non coll’abbondanza del dire, né col discutere sottilmente o col caldamente perorare si ottiene la salute delle anime: un predicatore che si fermi qui non è altro che “un bronzo sonante o un cembalo squillante” (1Cor XIII, 1). Ciò che dà vigore alle parole dell’uomo e le fa mirabilmente efficaci a salute, è la divina grazia: “Dio diede il crescere” (1Cor III, 6). Or la grazia di Dio non si ottiene con lo studio e coll’arte, ma s’impetra con la preghiera. Onde chi poco o niente è dedito all’orazione, indarno spende la sua opera e la sua diligenza nella predicazione, perché innanzi a Dio non caverà nessun profitto né per sé né per gli uditori.

Dottrina e pietà

Pertanto, a restringere in poco quanto siamo venuti dicendo fin qui, ci serviamo di queste parole di San Pietro Damiano: “Al predicatore due cose sono sommamente necessarie, cioè dire, che sovrabbondi di sentenze della dottrina sacra e fiammeggi dello splendore di religiosa vita. Che dove un sacerdote non riesca ad unire in sé le due cose, di guisa che sia esemplare di vita e copioso dei doni di dottrina, è meglio senza dubbio la vita che la dottrina… Più vale la chiarezza della vita per l’esempio, che l’eloquenza e l’accurata eleganza dei discorsi… È necessario che il sacerdote, che esercita l’ufficio della predicazione, versi piogge di dottrina spirituale ed irraggi lume di vita religiosa: a maniera di quell’Angelo, il quale annunziando ai pastori il nato Signore, balenò d’uno splendore di chiarezza, ed espresse con parole ciò che era venuto ad evangelizzare” .

Predicare tutta la verità e tutti i precetti

Ma per ritornare a San Paolo, se esaminiamo di quali cose fosse solito trattare predicando, egli compendia tutto così: “Non mi credetti di sapere altra cosa tra di noi, se non Gesù Cristo, e questo crocifisso” (1Cor II, 2). Fare che gli uomini conoscessero sempre più Gesù Cristo, e d’una cognizione che giovasse a vivere e non a credere soltanto, ecco quello a che egli s’affaticò con tutto il vigore del suo petto. E però predicava tutti i dommi o precetti di Cristo anche i più severi senza nessuna reticenza o temperamento, intorno all’umiltà, all’abnegazione di sé, alla castità, al disprezzo delle cose terrene, all’obbedienza, al perdono dei nemici o simili. Né mostrava alcuna timidezza nel proclamare: che si scelga tra Dio e Belial, perché non si può servire ad entrambi; che tutti, appena escono di questa vita, hanno a presentarsi a un tremendo giudizio; che con Dio non c’è luogo a transazioni; che o è da sperare la vita eterna, se si osserva tutta la legge, o, se per secondare le passioni si trascura il dovere, è da aspettarsi il fuoco eterno. Né mai il Predicatore della verità stimò di astenersi da siffatti argomenti per la ragione che, data la corruzione dei tempi, sembrassero troppo duri a coloro ai quali parlava. Apparisce chiaro dunque come non siano da approvare quei predicatori, che non osano toccare certi capi di dottrina cristiana, per non riuscir molesti all’uditorio. Forse che il medico darà rimedii inutili all’infermo, se questi per caso abborrisca dagli utili? E poi qui si parrà la virtù e l’abilità dell’oratore, se egli le cose ingrate avrà col suo dire rese grate.

Non serve la sapienza del mondo

Gli argomenti poi che aveva preso a trattare in che modo l’Apostolo li esponeva? “Non nelle persuasive dell’umana sapienza” (1Cor II, 4). Quanto importa, Venerabili Fratelli, che ciò sia da tutti sommamente ritenuto, mentre vediamo non pochi oratori sacri che predicano mettendo da parte la Sacra Scrittura, i Padri e i Dottori della Chiesa e gli argomenti della sacra teologia, e non parlano se non quasi solo il linguaggio della ragione. Ed è, senza dubbio, uno sbaglio: giacché nell’ordine soprannaturale non si riesce a nulla coi soli amminicoli umani. – Ma si oppone: al predicatore il quale si fondi troppo sulle verità rivelate, non si presta fede. – È proprio vero? Ammettiamo pure che ciò avvenga presso gli acattolici: sebbene, quando i Greci cercavano la sapienza, s’intende, di questo mondo, l’Apostolo predicava Gesù Crocifisso. Ma, se volgiamo gli occhi alle popolazioni cattoliche, in esse coloro che sono alieni da noi, ritengono per lo più la radice della Fede: le menti infatti sono accecate perché son corrotti gli animi. – Finalmente con quale spirito predicava San Paolo? Non per piacere agli uomini, ma a Cristo: “Se piacessi agli uomini, non sarei servo di Cristo” (Gal I,10). Con un’anima tutt’accesa della carità di Cristo, non altro cercava se non la gloria di Cristo. O se quanti s’affaticano nel ministero della parola, amassero tutti davvero Gesù Cristo, e potessero far proprie l’espressioni di San Paolo: “Per causa di cui (Gesù Cristo) ho giudicato un discapito tutte le cose” (Fil III, 8); e “Il mio vivere è Cristo” (Fil III, 8). Tanto quelli che ardono d’amore, sanno infiammare gli altri. Onde San Bernardo così ammonisce il predicatore: “Se tu bene intendi, cerca d’esser conca e non canale” ; cioè di quel che dici sii pieno tu stesso, e non ti basti solo trasfonderlo negli altri. “Ma – come lo stesso Dottore soggiunge – oggi nella Chiesa abbiamo molti canali e pochissime conche”. – Affinché ciò non accada in avvenire, dobbiamo rivolgere tutti i nostri sforzi, o Venerabili Fratelli: a noi spetta, respingendo gl’indegni, e incoraggiando, formando, guidando gl’idonei, fare che di predicatori, secondo il cuore di Dio, ne sorgano quanti più si può. – Pieghi poi lo sguardo sul suo gregge il misericordioso Pastore eterno, Gesù Cristo, anche per le preghiere della Vergine Santissima, Madre augusta dello stesso Verbo incarnato e Regina degli Apostoli; e rinfocolando lo spirito dell’apostolato nel Clero, faccia che siano numerosi quelli che cerchino “di comparir degni d’approvazione davanti a Dio, operai non mai svergognati, che rettamente maneggino la parola di verità” (2Tm II,15). – Auspice dei doni divini e in attestato della nostra benevolenza, a voi, o Venerabili Fratelli, e al vostro Clero e popolo impartiamo con ogni affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma presso San Pietro, il 15 giugno, festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, dell’anno 1917, terzo del nostro Pontificato.