GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (43): RAPPORTO DEL PROTESTANTESIMO COL SOCIALISMO PER MEZZO DEL PANTEISMO (1)

Rapporto del protestantismo col socialismo per mezzo del panteismo. (1)

 [A. NICOLAS: “Del Protestantesimo e di tutte le eresie nel loro rapporto col socialismo”, vol. II – Napoli, tipogr. e libr. Gabr. ARGENIO – 1859]

 (SEGUITO)

CAPITOLO VI.

PASSAGGIO DAL PROTESTANTISMO AL PANTEISMO -I.-

Si può dire, in un certo senso, della verità cattolica ciò che Boileau ha così ben detto dell’onore. Essa è come un’isola scoscesa e senza rive. Appena si mette il piede fuor del suo ricinto, non si ha altro più che la scelta dei naufragi; e per diversi che questi siano pei loro accidenti, essi vengono alla fine a ridursi tutti a due abissi che si corrispondono; l’abisso del naturalismo e l’abisso del panteismo. – Tutte le eresie che hanno preceduto il protestantismo hanno piegato più particolarmente verso quest’ultimo abisso. Esso solo ha avuto il fatale privilegio di spingere ad un tempo lo spirito umano verso il panteismo e verso il naturalismo, e di provare la doppia verità di questa parola di Gesù Cristo: Chi cadrà sopra questa pietra si fracasserà, e quegli su di cui ella cadrà sarà stritolato. (Matth. XXI, 44.) – E il protestantismo ha provata la verità di queste parole col distaccarsi dal Cattolicismo per due falsi principii che egli professa egualmente; l’uno come metodo, l’altro come dottrina, cioè: il principio del libero esame e il principio del servo arbitrio. Questi due principii sono essenzialmente contradittori nel loro punto di partenza, ma perfettamente d’accordo e logici nel loro termine. – Col principio del libero esame l’uomo è costituito giudice della Divinità; col principio del servo arbitrio egli non è che l’automa: ora qual cosa v’ha mai più contradittoria? Col principio del servo arbitrio si arriva a negar l’uomo, e col principio del libero esame si arriva a negar Dio; il che è in tutta logica. – E notiamo in qual maniera si operano queste due gran negazioni e come esse concorrono al totale pervertimento.— Colla dottrina del servo arbitrio 1’uomo è annichilato da Dio, il finito è assorbito nell’infinito.

— Colla dottrina del libero esame, Dio e tutto il soprannaturale della verità rivelata è recato ridotto e soggettato alla ragione umana; l’infinito è assorbito nel finito. — Per la via del servo arbitrio si cade nel panteismo, e per quella del libero esame nel naturalismo. Nel primo di questi abissi è l’uomo che scompare in Dio; nel secondo è Dio che scompare nell’uomo: in entrambi le sregolatezze della natura umana sono divinizzate per ispirazione o per apoteosi; essi sono divinamente necessitati o glorificati, e diventano la fatalità o la dea Ragione. – Qual logica mirabile ci offre l’errore nella concatenazione delle sue deduzioni e delle sue cadute! E qual potente dimostrazione della verità non ne risulta Perocché questa logica dell’errore che cos’è mai se non il contrario di quella della verità, come l’ombra è il contrario della luce? Essa ne è cosi la controprova, tanto più conchiudente perché è tale senza volerlo e senza saperlo, e perché, combattendola, essa la glorifica. E ciò è talmente vero che se la verità cattolica e i suoi benefici divini fossero cancellati dalla memoria degli uomini, si potrebbe ricostituirla pigliando anche solo il contrario dell’errore e delle sue pratiche; e per conseguenza, per quelli che non vedono questa verità in sé  medesima, non vi è modo più dimostrativo che di farla vedere ad essi, se così posso esprimermi, nel suo rovescio. Cotanto è vero e profondo l’Oportet et hæreses esse del grande apostolo! Questo è tutto il processo e tutto lo scopo di quest’opera. I dati di essa sono stati intraveduti dal dotto autore della Simbolica, il quale nella prefazione di quest’opera ammirabile ha scritto: « Da circa vent’anni i naturalisti attaccano l’elemento divino; il protestantismo ortodosso per lo contrario distrugge l’elemento umano. Tuttavia il Cattolico ha questo vantaggio che la sua fede comprende la libertà e la grazia, il divino e l’umano: diciam meglio, il suo simbolo è l’unità (o piuttosto l’unione) di queste due nature. Appunto per questo, la nostra dottrina abbraccia il razionalismo ed il protestantismo: essa unisce, concilia questi due estremi. » Il pensiero del dotto autore è, secondo noi, mal espresso in queste ultime linee. Il  protestantismo ed il razionalismo, vale a dire, come l’intende egli stesso, il panteismo ed il naturalismo, non possono essere abbracciati e conciliati insieme; essi non possono essere che distrutti dalla ricostituzione del cattolicismo, il quale, ripigliando dall’uno l’elemento divino, dall’altro l’elemento umano, doppiamente colla loro unione adorabile in Gesù Cristo e in tutto il Cristianesimo. Naturalmente questi due elementi tendono, nelle concezioni dell’uomo, ad escludersi o ad assorbirsi in conseguenza della prima di tutte le eresie, che ebbe per teatro l’Eden e che ha infettato tutta la creazione: solo soprannaturalmente essi hanno potuto essere conciliati in Gesù Cristo e nella sua dottrina, e, per la medesima causa, questa conciliazione può essere mantenuta dalla Chiesa solo soprannaturalmente. Se la Chiesa non fosse che una istituzione umana essa non avrebbe potuto mantenere questo accordo un solo giorno; chiamo in testimonio la sorte toccata a tutte le eresie. Perciò una prova più grande e più sensibile della verità coll’assistenza soprannaturale, che è stata a lei formalmente promessa da Gesù Cristo, si è ch’ella ha inviolabilmente mantenuto questo meraviglioso accordo sino ai nostri giorni, mentre noi l’abbiamo veduto rotto dalla prima parola d’ogni eresia. E questo uno de’ lati più luminosi e più nuovi della fede cattolica, sul quale non sarà mai quanto mai basti raccolta l’attenzione, e il destino finale del protestantismo viene sopra tutto a rivelarcelo. Il traduttore della Simbolica l’ha perfettamente indicato in una piccola nota della sua prefazione : « In generale, dice egli, i protestanti dell’Alemagna sono o panteisti, o naturalisti; cosa che si comprende agevolmente. Lutero rompe il legame vivente che unisce l’elemento superiore e l’elemento umano. Ora da questo momento bisogna dire o che tutto è Dio, o che tutto è finito. Di fatto, appena nacque il protestantismo, dovevano pure il naturalismo ed il panteismo nascere dalla discordia dello spirito umano coll’istituzione soprannaturale della Chiesa: il loro sviluppo successivo, non è stato che l’affare del tempo. — Da un lato il libero esame, dopo di avere assorbito l’elemento soprannaturale inerente alla Chiesa, ha continuato questo lavoro di assorbimento del soprannaturale, rispetto alle sacre Scritture, ai sacramenti ed ai dogmi principali della fede cristiana, al carattere generale della rivelazione e d’ogni rivelazione, e finalmente alle stesse nozioni della teologia universale. — Dall’altro lato, colla dottrine del servo arbitrio, il protestantismo ha posto un principio di assorbimento dell’elemento umano, il quale, dopo di aver esercitato i suoi guasti nel seno del Cristianesimo colla dottrina della giustificazione e dell’inamissibilità della giustizia, si è esteso con quella della predestinazione e del fatalismo; e spogliando ogni forma teologica, è diventato come vedremo poco stante, il panteismo filosofico di Hegel. — E finalmente il riscontro finale di queste due serie inverse di distruzione ha prodotto il caos dei due elementi, o piuttosto il loro concorso alla distruzione totale. – In seno al protestantismo noi troviamo evidenti questi due errori nei luterani e nei calvinisti da una parte, i quali negano la libertà umana per concedere tutto alla necessità della predestinazione divina, e nei sociniani dall’altra parte, i quali negano la previdenza per concedere ogni cosa alla libertà dell’uomo. « Per salvare la prescienza del sovrano Essere, dice Moehler, i primi riformatori distrussero la libertà dell’uomo; i sociniani, per lo contrario, sacrificarono la prescienza divina alla libertà umana. Gli uni dissero: Dio è quello che determina l’uomo, e allora questo scompare; gli altri insegnarono che Dio è determinato dall’uomo, e da questo punto l’essenza immutabile fu soggettata al mutamento. Così gli uni distruggono l’uomo, mentre gli altri mutilano Dio (Moehler: La Simbolica, Tom. II, pag. 366). » A questo proposito Bossuet ha scritto una pagina d’una magistrale eloquenza, nella quale fa vedere come la sommissione dello spirito umano alla fede lo renda atto ad abbracciare la verità totale, e come per lo contrario la sua emancipazione lo condanni a’ più miserabili naufragi. Noi non possiam resistere al piacere di citarla, tanto più che vi è congiunta la nostra questione.

« Il signor Jurieu vorrebbe ch’io gl’insegnassi come si accorda il libero arbitrio coi decreti eterni. Debole teologo, il quale fa le viste di non sapere quante verità si debbano credere, quantunque non sappiamo sempre il mezzo di conciliarle insieme! Che direbbe egli ad un sociniano che tenesse a lui il linguaggio stesso che egli tiene con me, e lo stringesse a questo modo? Io vorrei che il signor Jurieu ci spiegasse come l’unità di Dio si accorda colla Trinità? Entrerebbe egli con lui nella discussione di questo accordo, e si obbligherebbe egli a spiegargli il segreto incomprensibile dell’Essere divino? Non crederebbe egli di averlo vinto mostrandogli che queste due cose sono egualmente rivelate, e che per conseguenza, suo malgrado, e non ostante la piccolezza dello spirito umano, che non può conciliarle perfettamente, bisogna che l’infinità immensa dell’essere di Dio le conditi e le unisca? Ma, senza fermarci sopra questo mistero, che cos’è in tutto e in ogni parte la nostra fede, se non un complesso di verità sante che sopravanzano la nostra intelligenza, e che noi avremmo, non già credute, ma intese perfettamente ed evidentemente se potessimo conciliarle insieme con un metodo manifesto? Imperocché in tal guisa noi ne vedremmo, per così dire, tutti i confini; ne vedremmo le soluzioni del paro che i nodi; e avremmo in mano la chiave del mistero per entrarvi tanto avanti quanto vorremmo. Ma la cosa non è così; e quando così sarà non sarà più questa vita, ma la futura; non sarà più la fede, ma la visione. Che dobbiam far noi intanto, se non credere e adorare ciò che non si comprende, unir colla fede ciò che non si può ancora unire col dirla in una parola, come san Paolo, ridurre cattività sotto l’obbedienza di Gesù Cristo?» Quelli che non possono a ciò risolversi nella dottrina cristiana e fanno tanti naufragi quante sono lo questioni che decidono; perocché v’ha da per tutto la difficoltà, alla quale si soccombe, si perisce. E per venire in particolare a quella di che si tratta, il sociniano prova in sé medesimo la libertà della sua scelta; nessuna ragione può togliergli questa esperienza; ma non potendo accordare questa scelta colla prescienza di Dio, egli nega questa prescienza; soccombe alla difficoltà; si rompe contro lo scoglio, e, come dice san Paolo, fa naufragio nella fede. Il naufragio del calvinista, che, per sostenere la prescienza o la providenza, toglie all’uomo la libertà della sua scelta e fa Dio autore necessario di tutti gli avvenimenti umani, è esso minore? Niente affatto, l’uno e l’altro si sono spezzati contro la pietra. Quegli che tiene insieme queste due verità cui gli altri confondono insieme distruggendo l’una coll’altra; quegli che può, è, sapendo bene che non è qui il luogo di comprenderle, le supera colla fede nell’aspettazione di raggiungerle coll’intelligenza, sarebbe forse necessario dire al signor Jurieu, se fosse teologo, che costui è il solo che naviga sicuramente e che solo potrà giungere alla verità come al porto? Che serve dunque allegar qui la grazia efficace e i tomisti? Questi dottori, come gli altri cattolici, sono d’accordo nell’escludere dalla volontà dell’uomo una inevitabile necessità e nell’ammettervi una libertà intera di fare e non fare. Se essi durano fatica a conciliare la libertà umana coll’immutabilità dei decreti di Dio, non soccombono però alla difficoltà; essi remigano con tutte le loro forze per non essere gettati contro lo scoglio. Il signor Jurieu, che, per confondere tutto, quando invece si tratta semplicemente di stabilir la fede, vorrebbe indurmi a discutere il modo col quale procuriamo spiegarla, non vuole che trastullare il mondo (Bossuet: Secondo Avvertimento). » – La questione non si agitava ancora che nell’ordine teologico. Nel seno stesso della Chiesa si erano prodotte in ogni tempo delle opinioni diverse su questo misterioso rapporto della grazia e della libertà, dell’elemento divino e dell’elemento umano; e la loro discussione, contenuta entro i limiti della fede, era stata autorizzata dalla Chiesa che vi presiedeva, siccome atta ad arricchire lo spirito umano dei tesori della verità, facendoglieli meglio conoscere. Ma dal giorno in cui il protestantismo ha scosso il giogo della Chiesa e non ha più voluto riconoscere altro tribunale che quello dello spirito umano, allora il legame superiore che ratteneva queste opinioni è stato rotto, ed esso diventate pei loro errori, eresie contradittorie, ciascuna delle quali recava seco una porzione della verità, esagerandola a danno dell’altra o piuttosto distruggendole ambedue doppiamente per esagerazione e per negazione, fino a togliere la nozione della libertà morale nell’ammettere il dogma della predestinazione, e quella della provvidenza coll’esaltare esclusivamente i diritti e le forze dello spirito umano. Questo disordine non doveva rimanere nella regione della teologia; il fenomeno, facendosi grande, doveva diventar filosofico, indi poetico e sociale. – Noi abbiamo già veduto nella prima parte di quest’opera l’ima delle sue facce, quella del filosofismo, del naturalismo, radicalmente esclusivo dell’ordine soprannaturale, e per conseguenza sovversivo di ogni ordine naturale, politico e sociale che egli priva di contrappeso — essenzialmente rivoluzionale. Ciò che noi abbiamo avuto principalmente in mira di dimostrare è che il filosofismo rivoluzionale non era che l’ultima giornata, in certo mal modo, della negazione nata dal libero esame, e lo scioglimento, nell’ordine sociale, della rivoluzione cominciata nell’ordine religioso nel secolo decimosesto; non era se non una trasformazione del protestantismo. Esso fu a bella prima sospinto alle sue ultime applicazioni col furore francese, nocivo all’errore cui esso compromette, e che lo disapprova dopo dì averlo ispirato; ma esso era davvero e debitamente figlio del protestantismo, nato dal socinianismo inglese e ginevrino, propagato dai torchi olandesi, e importato in Francia, ove esso aveva del resto trovate attive sementi lasciate da quel socinianismo libertino, la cui invasione spaventava cotanto Jurieu in Olanda e gli antichi ministri rifuggitisi in Inghilterra. – Del resto noi l’abbiam veduto alla medesima epoca nascere da sé medesimo e svilupparsi sulla terra classica del protestantismo, in Alemagna, ove i suoi partigiani si chiamavano coscienziari, come in Inghilterra si denominavano liberi pensatori; Mat. Kuntzen, Edelmann, Nicolai, Wolfenbuttel, Reimarus, Lessing ed altri teologi, professori e dottori protestanti ne erano i capi. In un nugolo di scritti intitolati: Le verità innocenti; Il monaco smascherato; Il Cristo e Belial; La divinità della ragione; Il grido della ragione dall’alto della cattedra; Dell’impossibililà di una rivelazione divina; La falsità della risurrezione; Dello scopo di Gesù e de’ suoi discepoli; La piccola Bibbia; Almanacco delle chiese e delle eresie; Saggio di sistema di dommatica biblica; Lettere sulla bibbia di Folkstone; La nuova rivelazione; Spiegazione del piano e dello scopo di Gesù e di alcuni altri; Storia della vita di Gesù per lui medesimo, ecc. ecc., il naturalismo faceva esplosione come una fermentazione della ragione protestantizzata. In essa insegnavasi « che bisogna rigettare il Corano cristiano, non meno contradittorio e altrettanto poco autentico che quello dei Turchi, per attenersi come Enoch e Noè alla ragion sola, alla coscienza che la natura da maternamente a tutti gli uomini, e che insegna loro a vivere onestamente, a non nuocere a persona, a rendere a ciascuno ciò che gli appartiene. È questa la vera Bibbia. Il cielo e l’inferno è la coscienza. Non v’ha né Dio, né demonio. La Bibbia non fa differenza tra il matrimonio e la fornicazione. È d’uopo purgar la terra de’ sacerdoti, dei re, di tutte le potestà stabilite. » (Acta hist.eccl. nostr. temp., tom IV, p. 434) Tutto quanto il protestantismo non era certamente trascorso ancora sino a questo punto; v’aveva la coda degli ortodossi che protestava contro la testa; ma esisteva fra l’una e l’altra una comunanza di principio che per un concatenamento logico non faceva di tutto il protestantismo che un solo corpo di eresia che si avanzava per via di evoluzioni verso il vortice del naturalismo. Noi abbiamo veduto come questo vortice diventasse quello della società; abbiam veduto per qual via sotterranea percorsa da Rousseau a Luigi Blanc, e illuminata ai nostri occhi dalla fiaccola di Proudhon, la negazione del sistema cristiano della caduta e della redenzione, togliendo la gran spiegazione e il gran rimedio del male nel mondo, conducesse ai sistemi socialisti, che del male stesso ne accagionano la società e la previdenza e ne continuano la riparazione in mezzo alla distruzione universale. Ma il protestantismo, che aveva menato il mondo al socialismo per mezzo del naturalismo, doveva precipitarvelo per mezzo del panteismo, e questa seconda faccia del fenomeno è appunto quello che dobbiam ora mostrare. La natura umana ha orrore del vuoto dell’infinito. Sull’orlo di questo abisso, la piglia una vertigine, ed essa vi si precipita follemente quando non è in comunicazione regolare con lui mercé la religion vera. L’empietà medesima che fa questo vuoto dell’ infinito. lo empie a misura che lo scava, colla divinizzazione del finito che gli sostituisce. Non è mai, neppure per breve istante, che gli altari si rimangano senza divinità e senza adoratori; e quando n’è cacciato il vero Dio, la dea Ragione vi sale in sua vece. La religione del vizio e della colpa protesta contro l’irreligione; e la colpa medesima anziché sostenere il supplizio del nulla, va incontro al castigo decretando l’Ente supremo. – Ma queste enormità, le quali provano a qual punto l’uomo è religioso, non sono che eccessi di follia poco durevoli. Bisogna venire a regolarizzare la soddisfazione di questo sentimento colla verità o con un errore più specioso. La società francese usci dal naturalismo per risalire al cattolicismo; 1’Alemagna protestante per andare a gettarsi nel panteismo. La reazione religiosa in Alemagna volse al panteismo sotto 1’influenza di Kant. Cosa degna d’esser notata, il più gran genio che abbia onorato il protestantismo, Leibnitz, è stato senza influenza sopra di esso. Vero è che Leibnitz, quantunque protestante, ha in tutta la sua vita inchinato verso il Cattolicismo, e finì per abbassare ad esso il forte suo capo; ma con qual candore d’intenzione, con qual grandezza di spirito e qual maestà di carattere! Il protestantismo non ebbe e non sarà mai che abbia luce meglio fatta per illuminarlo, più degna di essere seguita, e gli agevoli il ritorno all’unità con maggiore autorità e Io stimoli alla disapprovazion dell’errore con maggior gloria. Ebbene, questo grand’uomo non ha tocco menomamente il cuore al protestantismo; anzi poco mancò che non fosse disapprovato, e che la sua gran gloria non torni anche oggidì importuna ai protestanti quanto essa è cara all’umanità. L’influenza che Leibnitz non ebbe sul protestantismo era riserbata a Kant, a Fichte, a Schelling e sopra ogni altro ad Hegel. Apparvero, costoro e si tennero proprio di buona fede i difensori del Cristianesimo, per quanto è ciò possibile con una dottrina che, non avendo altro che la ragion naturale per aggiungere uno scopo soprannaturale, mal può evidentemente empiere un abisso se non scavandone un altro.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (44): RAPPORTO DEL PROTESTANTESIMO COL SOCIALISMO PER MEZZO DEL PANTEISMO(2)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. PIO XII – MIRABILE ILLUD

In ogni calamità che coinvolge parte o tutta l’umanità occorre rivolgerci al Sommo Iddio per mezzo del Figlio suo Gesù-Cristo, i cui meriti rendono efficace la nostra preghiera, tutti uniti nel Corpo mistico di Cristo della “vera” Chiesa Cattolica. Questo, come ricorda opportunamente Papa Pacelli, necessità all’uman genere onde ottenere prosperità spirituale e pace sociale: « … Per raggiungere un così grande scopo, senza dubbio, nulla può essere di maggiore aiuto della Religione cristiana. La sua divina dottrina ci insegna che noi uomini come fratelli componiamo una stessa famiglia, di cui Dio è Padre, Cristo è redentore e vivificatore con la sua grazia celeste, e la cui patria immortale è il Cielo … » Breve ma toccante la lettera di un Padre che ama i suoi figli e di un BUON Pastore che pasce e protegge il gregge che Cristo gli ha affidato, senza paura, senza indugi, senza umano rispetto o « … chi sono io per giudicare » dei felloni ipocriti, che si spacciano per ciò che non sono ed usurpano ciò che più di sacro c’è sulla terra. Ma la « bestia uccisa e risorta », cioè i finti prelati che sotto pretesto di servire il Cristo, adorano il baphomet-lucifero, non prevarrà sulla vera Chiesa di Cristo anche se gode dell’appoggio delle sette di perdizione e di tutto il corpo mistico di satana, con il quale finirà nello stagno di fuoco, preparato per essi ed il diavolo fin dal principio. – Leggiamo attentamente questo prezioso scritto e facciamone tesoro proprio oggi che il nuovo mondiale flagello di Dio – sia esso, sanitario, economico, sociale, e soprattutto spirituale – si è abbattuto su di un’umanità lontana da Dio, ribelle, infingarda, dedita al peccato più vergognosi ed ai piaceri della carne, in ciò favorita da un falso culto e da falsi pastori-mercenari che nutrono il proprio ventre e sono pronti a dare le pecore al lupo vorace che ne fa strage.

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

MIRABILE ILLUD

NUOVE PUBBLICHE PREGHIERE

PER LA PACE NEL MONDO

Ai venerabili Fratelli, Patriarchi, Primati,

Arcivescovi, Vescovi, e di ogni altro Ordinario

avente pace e comunione con Sede Apostolica:

Quel meraviglioso spettacolo di concordia fraterna, offerto durante l’anno santo dalle innumerevoli schiere di fedeli convenuti in pio pellegrinaggio a Roma, da quasi tutte le nazioni, a Noi sembra che possegga una voce ammonitrice e costituisca dinanzi al mondo una testimonianza solenne che tutti i popoli vogliono non la guerra, non la discordia, non l’odio, ma intensamente bramano la pace, l’unione degli animi e quell’amore cristiano, donde solamente può nascere un’età prospera e migliore. Mentre vediamo con animo trepidante i popoli agitarsi sotto paurose minacce di conflitti e già nell’infuriare in alcune regioni di orribili stragi vengono falciate fiorenti vite giovanili, Noi ardentemente desideriamo che tale ammonimento sia finalmente ascoltato da tutti. – Chi non vede con piena evidenza come le sanguinose lotte apportino immense rovine, eccidi e ogni genere di miserie? L’ingegno umano, destinato a ben altri scopi, ha escogitato oggi strumenti di guerra di tale potenza da destare orrore nell’animo di qualsiasi persona assennata, soprattutto perché essi non colpiscono soltanto gli eserciti, ma spesso travolgono ancora privati cittadini, fanciulli innocenti, donne, vecchi, malati e, insieme, edifici sacri e i monumenti delle più nobili arti! Chi non inorridirà al pensiero che nuovi cimiteri possano aggiungersi a quelli tanto numerosi del recente conflitto, e ad altri tristissimi ruderi nuove fumanti rovine di borghi e città? Chi finalmente non trema pensando come la distruzione di nuove ricchezze, conseguenza inevitabile di ogni guerra, possa aggravare sempre più quella crisi economica, da cui sono travagliati quasi tutti i popoli, e specialmente le classi più umili? – Noi, che innalziamo la Nostra mente sopra la marea delle passioni umane, che nutriamo sentimenti paterni verso popoli e nazioni di qualsiasi stirpe, e desideriamo l’incolumità e la tranquilla sicurezza e l’incremento quotidiano della prosperità; Noi, venerabili fratelli, ogni volta che vediamo il cielo sereno offuscarsi con nubi minacciose, e incombere sull’umanità nuovi pericoli di conflitti, non possiamo non elevare la Nostra parola per esortare tutti ad estinguere le discordie, a comporre i dissidi e a instaurare quella vera pace che assicuri i diritti della Religione, dei popoli, dei singoli cittadini, pubblicamente e sinceramente riconosciuti, com’è necessario. Tuttavia ben sappiamo che i mezzi umani sono inadeguati a un compito così alto; occorre innanzitutto rinnovare gli animi, reprimere le passioni, sedare gli odi, mettere veramente in pratica principi e leggi giuste, giungere a una più equa distribuzione delle ricchezze, stimolare tutti alla virtù. Per raggiungere un così grande scopo, senza dubbio, nulla può essere di maggiore aiuto della Religione cristiana. La sua divina dottrina ci insegna che noi uomini come fratelli componiamo una stessa famiglia, di cui Dio è Padre, Cristo è redentore e vivificatore con la sua grazia celeste, e la cui patria immortale è il Cielo. Se realmente questi insegnamenti venissero ben praticati, allora di certo non le guerre, né le discordie, né i disordini, né le violazioni della libertà civile e religiosa renderebbero penosa la vita pubblica e privata, ma una serena tranquillità, fondata sul retto ordine di giustizia, inonderebbe i cuori e sarebbe aperta la via al raggiungimento di una sempre maggior prosperità. – Ciò è certamente arduo, ma necessario. E se è necessario non bisogna indugiare, ma subito effettuarlo. E se è arduo e impari alle umane forze, occorre rivolgersi con preghiere e suppliche al Padre celeste, come nel corso dei secoli, in qualsiasi difficoltà fecero sempre i nostri avi, non senza felice e salutare esito. – Per questa ragione di nuovo vivamente vi esortiamo, venerabili fratelli, affinché, indette pubbliche preghiere, invitiate il gregge a voi affidato a impetrare da Dio la pace e la concordia dei popoli, in modo che sotto l’auspicio della Religione, si promuova come una crociata che si contrapponga a quella, da cui derivano tante calamità alla convivenza umana. – Certamente sapete che nella mezzanotte precedente alla festa dell’immacolato concepimento di Maria vergine, Noi celebreremo il Sacrificio eucaristico, e, attraverso la radio, tutti potranno ascoltare la Nostra voce implorante. In quella santa notte specialmente Noi desideriamo che tutti i fedeli, uniti al Vicario di Cristo, con la validissima intercessione della Santissima Vergine Immacolata, supplichino il Padre delle misericordie affinché, cessati gli odi e ordinate tutte le cose con giustizia ed equità, risplenda finalmente su ogni popolo e nazione una pace piena e sicura. È nostro desiderio ancora, che durante la novena in preparazione al santo Natale, a questo scopo si rinnovino con lo stesso fervore preghiere al divino Fanciullo per ottenere che quella pace, annunziata dagli angeli agli uomini di buona volontà (cf. Lc II, 14) sulla sua sacra culla, spunti e si stabilisca saldamente su tutta la terra. – Non dimentichiamo di pregare ardentemente il nato Redentore e la sua divina Madre perché la Religione cattolica, che è il più sicuro fondamento del vivere umano e civile, possa godere la dovuta libertà in tutte le nazioni, e coloro che «soffrono persecuzioni per la giustizia» (cf. Mt V, 10), che sono in carcere per avere strenuamente difeso i sacrosanti diritti della Chiesa, oppure sono stati banditi dalla loro sede, e quelli inoltre che vivono miseramente lontani dalla patria e dalla famiglia, o sono ancora prigionieri, possano ottenere celesti conforti, e finalmente raggiungere ciò che è l’oggetto dei loro ardentissimi voti e infiammati desideri. – Siamo sicuri, venerabili fratelli, che voi, con quello zelo e diligenza pastorale che sono nella vostra consuetudine, comunicherete queste Nostre paterne esortazioni al vostro clero e al popolo nella maniera che riterrete più opportuna; e parimenti Noi siamo certi che tutti i Nostri figli dilettissimi in Cristo, sparsi in ogni parte del mondo, risponderanno con spontanea volontà a questo Nostro invito. – Propiziatrice, intanto, delle divine grazie e testimonianza del Nostro amore paterno sia l’apostolica benedizione, che impartiamo con effusione di cuore, nel Signore, a tutti e a ciascuno di voi, venerabili fratelli, ai vostri fedeli, a quelli in particolare che pregheranno secondo questa Nostra intenzione.

Roma, presso San Pietro, 6 dicembre dell’anno 1950, XII del Nostro pontificato.

PIO PP. XII

[AAS 42 (1950), pp, 797-800.]

I DOMENICA MOBILE: DOMENICA VI DOPO EPIFANIA (2020)

I DOMENICA MOBILE (6a dopo l’Epifania).

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le domeniche terza, quarta, quinta e sesta dopo l’Epifania sono mobili e si celebrano fra la 23a e la 24a Domenica dopo Pentecoste, quando non hanno potuto entrare prima della Settuagesima, cioè quandola festa di Pasqua e il suo corteo di 9 Domeniche, che ad essa preparano, vengono molto presto (vedi Commento liturgico del Tempo della Settuagesima). In questo caso l’Orazione, l’Epistola e il Vangelo sono quelli delle Domeniche dopo l’Epifania e basta interpretarli nel senso del secondo avvento di Gesù Cristo invece del primo, per adattarli al tempo dopo Pentecoste che prepara le anime alla venuta del Salvatore alla fine del mondo, segnata dall’ultima Domenica dell’anno o 24a Domenica dopo Pentecoste. Quanto all’Introito, al Graduale, all’Alleluia, all’Offertorio e alla Comunione, si prendono quelli della 23a Domenica dopo Pentecoste, che fa direttamente allusione alla redenzione definitiva delle anime (Intr.), quando Gesù, rispondendo alla nostra invocazione (Alleluia, Offertorio, Communio) verrà a giudicare i vivi e i morti ed a strapparci per sempre dalle mani dei nostri nemici (Graduale). Per riferire la Messa di questo giorno alla lettura del Breviario di quest’epoca, si può leggere quello che abbiamo detto dei Maccabei alla 20a, 21a e 22a Dom. dopo Pentecoste. – Per riferire la Messa di questa Domenica alla lettura del Breviario di questo tempo leggasi quello che abbiamo detto dei Profeti dopo Pentecoste.

La Messa di questo giorno fa risaltare la divinità di Gesù attestando chiaramente che Egli ha ricevuto il potere, come Figlio di Dio, di giudicare tutti gli uomini. Gesù è Dio, poiché Egli rivela cose che sono nascoste in Dio e che il mondo ignora (Vangelo). La sua parola, che Egli paragona a un piccolo seme gettato nel campo del mondo ed a un po’ di lievito messo nella pasta, è divina, perché seda le nostre passioni e produce nel nostro cuore le meraviglie della fede, della speranza e della carità di cui ci parla l’Epistola. La Chiesa, suscitata dalla parola di Gesù Cristo, è simbolizzata mirabilmente dalle tre misure di farina, che la forza di espansione del lievito ha fatto « completamente fermentare » e dalla pianta di senapa, la più grande della sua specie, ove gli uccelli del cielo vengono a cercare un asilo. Meditiamo sempre la dottrina di Gesù (Or.), onde, come il lievito, essa penetri le anime nostre e le trasformi, e, come il grano di senapa, irradia l’anima del prossimo con la sua santità. Così il regno di Dio si estenderà vieppiù, quel regno quale Gesù ci ha chiamati e di cui egli è il Re. Egli eserciterà questa regalità soprattutto alla fine del mondo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Jer XXIX:11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.
(Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.)

Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.

Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.
(Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.)

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

(Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.)

Oratio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, semper rationabília meditántes, quæ tibi sunt plácita, et dictis exsequámur et factis.
(Concedici, o Dio onnipotente, Te ne preghiamo: che meditando sempre cose ragionevoli, compiamo ciò che a Te piace e con le parole e con i fatti.)

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses
1 Thess 1:2-10

Fratres: Grátias ágimus Deo semper pro ómnibus vobis, memóriam vestri faciéntes in oratiónibus nostris sine intermissióne, mémores óperis fídei vestræ, et labóris, et caritátis, et sustinéntiæ spei Dómini nostri Jesu Christi, ante Deum et Patrem nostrum: sciéntes, fratres, dilécti a Deo. electiónem vestram: quia Evangélium nostrum non fuit ad vos in sermóne tantum, sed et in virtúte, et in Spíritu Sancto, et in plenitúdine multa, sicut scitis quales fuérimus in vobis propter vos. Et vos imitatóres nostri facti estis, et Dómini, excipiéntes verbum in tribulatióne multa, cum gáudio Spíritus Sancti: ita ut facti sitis forma ómnibus credéntibus in Macedónia et in Achája. A vobis enim diffamátus est sermo Dómini, non solum in Macedónia et in Achája, sed et in omni loco fides vestra, quæ est ad Deum, profécta est, ita ut non sit nobis necésse quidquam loqui. Ipsi enim de nobis annúntiant, qualem intróitum habuérimus ad vos: et quómodo convérsi estis ad Deum a simulácris, servíre Deo vivo et vero, et exspectáre Fílium ejus de cœlis quem suscitávit ex mórtuis Jesum, qui erípuit nos ab ira ventúra.

“Fratelli: Noi rendiamo sempre grazie a Dio per voi tutti, facendo continuamente menzione di voi nelle nostre preghiere, memori nel cospetto di Dio e Padre nostro della vostra fede operosa, della vostra carità paziente e della vostra ferma speranza nel nostro Signor Gesù Cristo; sapendo, o fratelli cari a Dio, che siete stati eletti; poiché la nostra predicazione del vangelo presso di voi fu non nella sola parola, ma anche nei miracoli, nello Spirito Santo e nella piena convinzione: voi, infatti, sapete quali siamo stati tra voi per il vostro bene. E voi vi faceste imitatori nostri e del Signore, avendo accolta la parola in mezzo a molte tribolazioni col gaudio dello Spirito Santo, al punto da diventare un modello a tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia. Poiché non solo da voi si è ripercossa nella Macedonia e nell’Acaia la parola di Dio; ma la fede che voi avete in Dio s’è sparsa in ogni luogo, così che non occorre che noi ne parliamo. Infatti, essi stessi, riferendo di noi, raccontano quale fu la nostra venuta tra voi, e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire al Dio vivo e vero, e aspettare dal cielo il suo Figlio (che Egli risuscitò da morte) Gesù, che ci ha liberati dall’ira ventura”.

OMELIA I.

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

LA VITA CRISTIANA

Tessalonica, l’odierna Salonicco, non poteva sfuggire allo zelo di S. Paolo. Era la città più importante della Macedonia, con una numerosa colonia di Ebrei. Vi avrebbe trovata l’occasione propizia di predicare la buona novella, prima nelle Sinagoghe, e poi tra i gentili. Recatosi in questa città durante il suo secondo viaggio, in compagnia di Sila e di Timoteo, in sole tre settimane vi operò un bene immenso. Costretto dall’odio dei Giudei a lasciare Tessalonica, dopo alcune soste in parecchi siti, si reca a Corinto, dove è raggiunto dal diletto discepolo Timoteo, che gli porta notizie su l’andamento della chiesa di Tessalonica.. Queste notizie diedero motivo a Paolo di scrivere una lettera in cui loda i Tessalonicesi della costanza; li conferma nella fede; biasima alcuni abusi, parla della seconda venuta di Gesù Cristo e della risurrezione dei morti, terminando con varie norme di vita cristiana. – Il principio di questa lettera forma l’Epistola di quest’oggi. Dopo il saluto, richiama alla mente dei Tessalonicesi la loro conversione al Vangelo, per mezzo della predicazione, accompagnata dai carismi dello Spirito Santo. La loro premura nell’accogliere la predicazione dell’Apostolo in mezzo a grandi tribolazioni e la loro costanza li rende esempio alle altre chiese della Macedonia e dell’Acaia. – Sull’esempio dei Tessalonicesi, conduciamo anche noi una vita cristiana che

1. Sia fondata sulle virtù teologali,

2. Non si scosti dalla via tracciata da Gesù Cristo.

3. Non tema di manifestarsi francamente.

1.

L’Apostolo ringrazia il Signore, innanzi tutto, per le virtù teologali dei Tessalonicesi. Son memore — dice loro — della vostra fede operosa, della vostra carità paziente e della vostra ferma speranza. Il Catechismo ci insegna che Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita e goderlo nell’altra in Paradiso. La nostra meta ultima, dunque, è il godimento di Dio. E a questo futuro godimento ci conducono le virtù teologali. Noi dobbiamo raggiungere una meta soprannaturale: è necessario che abbiamo a conoscere e questa meta e i mezzi che vi conducono. Non basta, quindi, la cognizione naturale di Dio; perché questa cognizione insegna all’uomo a rendere omaggio a Dio come autore della natura e dei beni naturali. Ora, noi dobbiamo rendere ossequio a Dio, non solo come autore della natura e dei beni naturali, ma anche come autore d’una felicità soprannaturale. E ciò che riguarda la vita soprannaturale noi conosciamo per mezzo della fede, «virtù soprannaturale per cui crediamo, sull’autorità di Dio. ciò che Egli ci ha rivelato e ci propone da credere per mezzo della Chiesa». Di qui ne consegue che senza la fede non arriveremo ad conseguimento del nostro fine, come dichiara Gesù Cristo : «Chi crederà e sarà battezzato si salverà; ma chi non crederà sarà condannato» (Mc. XVI, 16). Oltre a conoscere la meta a cui arrivare, cioè il possesso della vita futura, occorre conoscere e avere i mezzi per arrivarvi; e qui abbiamo la Speranza: virtù soprannaturale, per cui confidiamo in Dio e da Lui aspettiamo la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla quaggiù con le buone opere. La speranze di arrivare un giorno a possedere Dio ci tiene lontani dallo scoraggiamento, e ci rafforza nella vita spirituale. È vero: io non posseggo ancora Dio, mia felicita, ma lo potrò possedere un giorno. Non sono ancora nella patria, ma sono già in via. Ci sono degli ostacoli, ma c’è, anche, chi li toglie. Abbisogno di molta forza, ma la grazia di Dio me la darà. Quando Dio promette, più nessuno può dubitare. « E la promessa che Egli ci ha fatto è questa: la vita eterna» (Giov. II, 25). – La fede è come il fondamento dell’edificio soprannaturale; la speranza ne forma le pareti; il coronamento è formato dalla carità: virtù soprannaturale, per cui amiamo Dio per se stesso sopra ogni cosa, e il prossimo come noi stessi per amor di Dio. È naturale che l’uomo, destinato al possesso di Dio nell’altra vita, sostenuto dalla speranza di pervenirvi, incominci quaggiù la sua unione con Dio, mediante la carità. Se tanto si amano i beni imperfetti, tanto più si deve amare Dio, che è il sommo e il più amabile di tutti i beni. Ed è naturale che si debba amarlo sopra ogni cosa, disposti a perder tutto piuttosto che offenderlo con peccato grave. E vien da sé che in Dio dobbiamo amare il prossimo, chiamato con noi, a far parte dell’eterna felicità. Tutta la dottrina cristiana si può ridurre a quello che l’uomo deve credere, sperare e amare. Quanto più in uno sono vive le vitti della fede, della speranza e della carità, tanto più è rigogliosa tutta la sua vita spirituale. Esse sono tanto necessarie all’eterna salute, che chi facesse lunghe penitenze, soccorresse i poveri e praticasse tante opere buone, senza le virtù teologali non schiverebbe la dannazione. Chi, invece, ben radicato in queste virtù, fosse nell’impossibilità di compire le opere comandate, si salverebbe egualmente in virtù del desiderio di poterle compiere; desiderio che è, necessariamente, incluso nelle virtù teologali.

2.

L’Apostolo dichiara ai Tessalonicesi: Voi vi faceste imitatori nostri e del Signore. È come dire: Voi conduceteuna vita da veri Cristiani, perché seguite la via tracciatada Gesù Cristo. «Cristiano è colui che non disprezzala via di Cristo, ma la via di Cristo vuol seguire per mezzodei suoi patimenti», insegna S . Agostino (En. 2 in Ps. XXXVI). – La via che Gesù Cristo ci ha tracciata ci guida all’adempimento dei nostri doveri verso Dio. Quando, nel tempio di Gerusalemme, Maria fa osservare a Gesù che essa e Giuseppe, addolorati, andavano in cerca di Lui, Egli risponde: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io debbo occuparmi di quelle cose che spettano al Padre mio?» (Luc. II, 49). Anche il Cristiano deve occuparsi delle cose che spettano a Dio. Non ha avuto da Lui la vita? Non è da Lui sostenuto? Non deve conoscere la sua volontà? Non deve rendergli il suo omaggio? Non deve onorarlo pubblicamente con le opere di culto, tanto più se prescritte? Eppure quanti Cristiani, tralasciano di ascoltare la Messa anche nei giorni festivi, non dicono mai una preghiera, e, forse, non si fanno mai il segno di croce. Catechismo, funzioni sacre, sono per essi parole prive di significato. La Domenica, invece dell’istruzione parrocchiale, si ascoltano mille sciocchezze, spropositi tra crocchi di sfaccendati: invece di prender parte alla sacre funzioni, si prende parte a divertimenti non sempre edificanti o, per lo meno, innocui. In chiesa c’è la predica e il canto dei salmi: fuori si passeggia, si giuoca, si beve, si alterca, si bestemmia. Gesù Cristo può dire: «Chi di voi può convincermi di peccato?» (Giov. VIII, 46). Ciò nonostante conduce una vita di grande penitenza; e prima di incominciare la vita pubblica digiuna rigorosamente per ben quaranta giorni nel deserto. Egli non aveva peccati da espiare, non aveva nessun obbligo di far penitenza per sé; ma voleva espiare i nostri peccati, voleva insegnare a noi l’obbligo della penitenza. Per il Cristiano questo della penitenza è un dovere che non si può sfuggire; tranne che si trovi nella condizione di poter ripetere le parole di Gesù Cristo: «Chi di voi può convincermi di peccato?» Ma nessuno può arrivare a un punto di demenza tale, da ripetere sul serio le parole del Divin Maestro. Solo Dio è senza difetti. Tutti lo sappiamo, come sappiamo che tutti gli uomini sono peccatori. Se siamo peccatori, dobbiamo fare penitenza. Non si richiede che abbiamo a ritirarci nel deserto, a digiunare continuamente, a flagellarci a sangue, come fecero tanti santi in ossequio al ritiro, al digiuno, alla flagellazione di Gesù Cristo. Questi eroismi, sotto l’influsso della sua grazia, Dio li chiede a dei santi particolari, perché servano a scuotere la nostra inerzia. In generale, da noi richiede molto meno; richiede lo spirito di penitenza. È spirito di penitenza accettare dalle sue mani prove che ci manda; è spirito di penitenza fare la sua volontà, anche quando richiede sacrifici; è spirito di penitenza combattere le passioni, astenerci dalle occasioni peccaminose, libere di peccato; è spirito di penitenza osservare i giorni di astinenza e di digiuno che la Chiesa prescrive, e che ormai sono ridotti a ben poca cosa. – La via tracciata dal Redentore, oltre condurci all’adempimento dei doveri verso Dio e verso noi stessi, ci conduce anche all’adempimento dei doveri verso il prossimo. L’amore verso il prossimo, il perdono delle offese, il render bene per male sono principi ripetutamente inculcati da Gesù Cristo. Per gli uomini, quantunque degni di castigo, Egli discende dal Cielo, s’incarna, soffre e muore. Noi verso i nostri fratelli non abbiam nulla da fare? Non dobbiamo noi amarli, se Gesù Cristo li ha amati al punto da morir per loro? E il nostro amore dobbiamo dimostrarlo con le opere. Nelle relazioni col prossimo dobbiamo astenerci da tutto ciò che può recar offesa, turbar la pace, suscitar discordie, provocar liti. Dobbiamo rispettare la sua roba, il suo onore, il suo focolare. Non dobbiamo lasciarci vincere dal puntiglio di dominare sui fratelli, memori dell’esempio di Gesù Cristo, «che non è venuto per esser servito, ma per servire» (Matt. XX, 28). –

3.

I Tessalonicesi, che tra molte tribolazioni accettano e professano la parola del Vangelo si dimostrano così franchi da diventare un modello a tutti i credenti detta Macedonia e dell’Acaia. Come nota il Crisostomo, l’Apostolo « non dice: Siete diventati modello nel credere, ma siete diventati modelli a quelli che credevano già. Cioè, voi che siete scesi a lottare fin dal principio, avete insegnato in che modo si deve credere in Dio» (In Ep. ad Thess. Hom. 1, 3). La lotta che dovettero sostenere sin dal principio, quando accettarono la parola del Vangelo, non li scoraggiò. Con la stessa franchezza professarono in faccia a tutti la fede abbracciata. Uno sguardo, anche molto superficiale, attorno a noi ci convince subito che non tutti i Cristiani hanno la franchezza dei Tessalonicesi nel dimostrarsi tali in faccia a tutti. L’opportunismo domina la sua parte. Oggi si inneggia alla Religione, domani la si combatte Oggi si fa omaggio ai ministri di Dio, domani si colmano di imprecazioni. Oggi si prende parte a una processione religiosa, domani la si contrasta. Si cambiano idee secondo che il vento spira; si cambiano le azioni come si cambiano gli abiti nelle varie stagioni. – Poi c’è la paura che ci riduce Cristiani a metà. Non si fa Pasqua, non si ascolta la Messa nei giorni festivi. Il motivo? — Ero indisposto — vi sentite non di rado rispondere. Non si tratta però, generalmente, che di indisposizione morale. Si tratta di paura di essere notati. Lo stesso si dica, tante volte, dei divertimenti, della moda ecc. Si ha paura di rifiutar l’invito: si ha paura di esser notati, se non si segue la moda del vicino, del compagno di lavoro ecc. Corretti in casa; leggeri e scandalosi in pubblico. – C’è anche, delle volte, una vera persecuzione. Sono ripicchi, soprusi, insulti, provocazioni, calunnie per impedirci di praticare apertamente una vita da buon Cristiano. Ma neanche queste tribolazioni devono intimidirci. Nella tempesta si conosce il navigante, e nelle tribolazioni si conosce il vero cristiano. S. Pietro Canisio fu uno dei Santi maggiormente gratificati di insulti, di ingiurie, di calunnie da parte degli eretici. Ma egli non rallentò mai il suo zelo. Quando p. e. lo chiamavano: — bestemmiatore esecrabile, zoticone, asino del Papa, animo ingannatore; — non aveva che una risposta: «Sia lodato Gesù Cristo. Siamo stati ritenuti degni d’essere ingiuriati per il suo nome». Continuava quella regola di vita che s’era prefisso fin da studente a Colonia, quando in fronte e a tergo di un quaderno, che doveva aprire frequentemente, scriveva a grandi caratteri: Persevera: Sii perseverante. – Sii perseverante. Ecco la parola che deve ripetere ogni Cristiano a se stesso nel momento della prova. Il navigante che, spaventato dalla tempesta, non si preoccupa più di arrivare in porto, finisce col naufragare. Il Cristiano che nelle difficoltà dimentica i suoi doveri, è un naufrago che non si cura di arrivare al porto dell’eterna salvezza. Sii perseverante, e vincerai. Pensa che «senza avversari non c’è corona di vittoria» (S. Ambr. Epist. 18, 30).

Graduale

Ps XLIII: 8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.
V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in sǽcula. Allelúja, allelúja.

(Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.

V. In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno. Allelúia, allelúia.)

Ps CXXIX129:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.

(Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.)

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt XIII: 31-35
In illo témpore: Dixit Jesus turbis parábolam hanc: Símile est regnum cœlórum grano sinápis, quod accípiens homo seminávit in agro suo: quod mínimum quidem est ómnibus semínibus: cum autem créverit, majus est ómnibus oléribus, et fit arbor, ita ut vólucres cœli véniant et hábitent in ramis ejus. Aliam parábolam locútus est eis: Símile est regnum cœlórum ferménto, quod accéptum múlier abscóndit in farínæ satis tribus, donec fermentátum est totum. Hæc ómnia locútus est Jesus in parábolis ad turbas: et sine parábolis non loquebátur eis: ut implerétur quod dictum erat per Prophétam dicéntem: Apériam in parábolis os meum, eructábo abscóndita a constitutióne mundi.

[“In quel tempo Gesù propose alle turbe un’altra parabola, dicendo: Èsimileil regno de’ cieli a un grano di senapa, che un uomo prese e seminò nel suo campo. La quale è bensì in più minuta di tutte le semenze; ma cresciuta che sia è maggiore di tutti i legumi, e diventa un albero, dimodoché gli uccelli dell’aria vanno a riposare sopra i di lei rami. Un’altra parabola disse loro: È simile il regno de’ cieli a un pezzo di lievito, cui una donna rimestolla con tre staia di farina, fintantoché tutta sia fermentata. Tutte queste cose Gesù disse alle turbe per via di parabole: ne mai parlava loro senza parabole; affinché si adempisse quello che era stato detto dal profeta: Aprirò la mia bocca in parabole, manifesterò cose che sono state nascoste dalla fondazione del mondo”].

OMELIA II.

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la Fede

Simile est regnum cœlorum grano sinapis quod accipiens homo seminavit in agro suo.

Che significa, fratelli miei, questo grano di senapa a cui Gesù Cristo paragona nell’odierno Vangelo il regno de’ cieli? Tra le diverse spiegazioni che danno i santi padri a questa parabola, io mi attengo a quella di s. Giov. Crisostomo, il quale dice che questo grano di senapa rappresenta le fede, che fa regnar Dio in noi e ci dispone a posseder un giorno il suo regno. Infatti, siccome il grano di senapa rinchiude nella sua piccolezza la radice di un grande albero, così la fede èil fondamento delle virtù cristiane, il principio e la radice della nostra giustificazione, come dice il santo Concilio di Trento. Siccome il grano di senapa è la più piccola di tutte le sementi e diviene in appresso un albero assai esteso co’ suoi rami per servire di dimora agli uccelli dell’aria, cosi la fede ci rende piccioli umiliandoci sotto il suo giogo, ma ci innalza sino a Dio con i lumi che ci dà delle sue perfezioni e col frutto delle buone opere che ci fa produrre pel cielo, a cui ella ci conduce. Finalmente, siccome il grano di senapa ha una virtù particolare per farci trovare gusto nelle cose più insipide, così la fede ci fa superare la ripugnanza e ci anima alla pratica dei nostri doveri. Di questa fede appunto, fratelli miei , che è la prima delle cristiane virtù, senza di cui niuno può essere salvo, sono io qui per ragionarvi. – Bisogna farne conoscere la necessità, l’eccellenza, le qualità e gli effetti. La fede è un omaggio del nostro spirito, che noi sottomettiamo all’autorità di Dio per credere le verità che ci ha rivelate, ma affinché questa fede operi la nostra salute, ella deve altresì essere un omaggio dei nostri cuori per fare quel che Dio ci ha comandato. Vale a dire: la fede dee esercitare il suo impero sopra lo spirito e sopra il cuore dell’uomo; essa deve esercitare il suo impero sopra lo spirito per sottometterlo alle verità rivelate, essa dee esercitare il suo impero sopra il cuore per metter in pratica quello che è comandato. In due parole, la fede deve renderei docili a credere tutte le verità che la religione ci propone, primo punto; la fede dee renderci fedeli ad osservare le massime che questa medesima religione ci insegna, secondo punto bisogna credere, bisogna operare in una maniera conforme alla sua credenza; ecco il mio assunto, che racchiude tutte le obbligazioni del fedele.

I.° Punto. La fede è al dire del grande Apostolo, la base e il fondamento delle cose che noi abbiamo a sperare e la ferma credenza di quelle che non vediamo; essa è una virtù per cui noi crediamo fermamente Dio e tutto quello ch’Egli ha rivelato, quand’anche noi comprendiamo, perché Egli è la stessa verità. Questa virtù è si necessaria all’uomo che senza di essa è impossibile di piacere a Dio, impossibile di possederlo. – Imperciocché il primo passo che bisogna fare per avvicinarsi a Dio, aggiugne l’Apostolo stesso, è di credere che Egli è, e che ricompenserà coloro che lo cercano. Non si può giungere alla luce della gloria, dice s. Agostino, che camminando nei sentieri oscuri della fede; senza la fede niuna virtù meritoria pel cielo: colui che non crede, dice Gesù Cristo, porta nella sua infedeltà la sentenza della sua condannazione, ma colui che crede possiede nella sua fede un pegno della vita eterna. Qui credìderit salvus erti, qui vero non crediderit, condemnabitur ( Marc. XVI). Ma affinché la fede sia un omaggio degnodi Dio e vantaggioso per l’uomo,ella deve esser ferma per credere senzaesitare, semplice per credere senza ragionare, universale per credere senza riserva tutte le verità che ci sono dalla parte di Dio rivelate: fermezza della fede; semplicità della fede, integrità della fede; tali sono i caratteri ch’essa deve avere, tali sono gli effetti che essa deve produrre sopra lo spirito dell’uomo.La vostra fede, fratelli miei, ha ella queste qualità? Ecco quello che voi dovete esaminare ascoltandomi.

I. Siccome non v’ha che una Religione, perché non v’è che un Dio così non può esservi che una fede, che deve sempre avere le medesime verità a credere, la medesima regola a seguire, il medesimo motivo che la determini. Basta dunque sapere qual è il motivo e la regola della fede, per essere convinto che essa non deve variare, che deve essere ferma e costante nella sommissione alle verità che ci sono rivelate. Ora qual è il motivo della fede? Quale ne è la regola? Il suo motivo è la somma veracità di Dio; la sua regola è l’autorità delia Chiesa. Mentre, perché crediamo noi le verità, che la Religione ci propone? Perché Dio, che è la stessa verità, le ha rivelate, e come siamo noi accertati che Dio ha rivelate alcune verità? Per l’autorità della Chiesa, che è il suo oracolo. Ora questo motivo e questa regola essendo infallibili, la fede che è appoggiata sopra sì saldi fondamenti, non deve ella essere ferma ed immobile? Non è cosa sorprendente che la fede appoggiata sopra la testimonianza degli uomini sia incerta e vacillante. Questa incertezza viene da due difetti cui sono soggetti gli uomini; cioè dalla mancanza di lumi e dalla mancanza di sincerità. Siccome le cognizioni degli uomini sono limitate, si formano spesse fiate false idee sugli oggetti che si presentano al loro spirito; o se pure discoprono la verità, non sono sempre fedeli per comunicarla quale la conoscono, in una parola possono ingannarsi o ingannare gli altri: quindi ne viene che le cognizioni che s’appoggiano sopra la testimonianza umana non sono sempre sicure. Ma non è così del nostro Dio: infinitamente perfetto, conosce la verità e parla sempre il linguaggio della verità; Egli conosce le cose come sono e le annunzia come le conosce. Si, fratelli miei, Dio non può ingannarsi né ingannarci; Egli non può ingannarsi, perciocché se fosse fallibile nelle sue cognizioni cesserebbe di essere Dio, poiché gli mancherebbe una perfezione; né meno può ingannarci, perché è infinitamente buono e fedele, e se ci inducesse in errore, questo errore cadrebbe su Lui, il che non si può pensare senza far ingiuria alla sua infallibile veracità. – Perciò non appartiene che a Dio l’esigere dalla creatura ragionevole un consentimento perfetto a tutto ciò che Egli ha rivelato. Sebbene oscure, sebbene impenetrabili siano allo spirito umano le verità che Dio gli propone di credere, quantunque siano esse combattute dalla testimonianza dei sensi, basta sapere che Dio ha parlato, per credere senza esitare; ragionamenti, sottigliezze, testimonianze dei sensi, tutto deve piegare sotto l’autorità di Dio e sotto il giogo della fede. E certamente, fratelli miei, per prendere la cosa nel suo principio, non è egli forse giusto che l’uomo faccia a Dio quest’omaggio del suo spirito, sacrificando i suoi lumi a quelli di Dio? Nulla evvi nell’uomo che non dipenda dal Creatore e che non debba riceverne la legge. Ora, avendo Dio dato all’uomo due facoltà: l’intelletto che conosce gli oggetti, e la volontà che li ama o li odia, non è egli giusto che l’uomo faccia a Dio il sacrificio di queste due facoltà? Sacrificio che Dio domanda e che ha diritto di esigere. La volontà dell’uomo deve esser sommessa in tutto a quella di Dio per fare le cose ancora che non sono di suo genio, bisogna che l’intelletto sia esso pure sommesso all’autorità di Dio per credere cose che gli sono incomprensibili. La volontà dell’uomo non sarebbe in una perfetta dipendenza da quella di Dio, se far volesse se non ciò che è conforme alle sue inclinazioni; parimente l’intelletto non sarebbe abbastanza umiliato sotto l’autorità di Dio, se non volesse credere che quello che è proporzionato alle sue cognizioni. Bisogna dunque, affinché il sacrificio sia intero e perfetto, che lo spirito dell’uomo sia tenuto schiavo sotto il giogo della fede, come la volontà lo è per la legge. Tale è l’omaggio che Dio ha diritto di esigere dalla creatura ragionevole: omaggio il più giusto e il più indispensabile per riguardo all’uomo, ma altresì il più glorioso per riguardo a Dio; perché l’uomo, credendo sulla sola testimonianza di Dio ciò che egli non comprende, fa trionfare la verità di Dio sopra il suo spirito e la sua ragione, che sono naturalmente portati ad accertarsi delle cose per mezzo delle proprie cognizioni. Non crediamo con tutto ciò, fratelli miei, che questa sommissione di spirito che Dio domanda da noi alle verità della fede sia una servitù cieca o tirannica, contraria alla ragione. Se Egli impiega la sua autorità per sottometterci al giogo della fede, ci permette altresì di usare di nostra ragione dice s. Agostino, per giungere alla prima verità. Vuole che la nostra ubbidienza sia giusta e ragionevole, come dice l’Apostolo: Rationabile obseqaium vestrum (Hom.22). Per la qual cosa se ci propone verità incomprensibili alle nostre deboli cognizioni, ciò è per averle rendute credibili coll’evidenza della rivelazione che ne ha fatta. Ma è egli vero, mi direte voi, che Dio ha parlato agli uomini e ha rivelato loro delle verità che li obbliga a credere? Ah! fratelli miei, la santa Religione che professiamo ce ne somministra prove senza replica. Questa Religione, che è la parola stessa di Dio manifestata agli uomini, porta con sé caratteri di divinità sì evidenti, e il suo stabilimento miracoloso, i cui fatti sono sì bene provati che il metterli in dubbio non può essere che l’effetto di un ostinata incredulità. Come la Religione cristiana sì oscura nei suoi misteri, sì austera nelle sue massime, sarebbe stata abbracciata da tanti popoli diversi di costumi e di sentimenti? Come avrebbe ella fatto piegare sotto il suo giogo i potentati della terra, i più grandi ingegni del mondo, se Dio non l’avesse renduta credibile con segni che ne dimostrassero la verità, e se i miracoli non avessero sostenuto, come dice s. Paolo, i discorsi di coloro che predicavano il Vangelo? Evangelium nostrum non fuit in sermone tantum, sed in virtute et plenitudine multa (1 Thess. 1). Se la religione si è stabilita senza miracolo, è, dice s. Agostino, il maggiore di tutti i miracoli che ciò sia in tal guisa accaduto; non appartiene che a Dio di operare una tal meraviglia e di sottomettere gli spiriti e i cuori a tutto quello che è capace di disgustarli. Qui, fratelli miei, vi è permesso di ragionare. Una Religione confermata da infiniti miracoli non può venire che da Dio, potete voi dire, una Religione il cui autore è Dio non può insegnare che la verità; perciò quando io credo ciò che la Religione cristiana insegna, io credo tante verità. A questo semplice raziocinio, voi comprendete senza dubbio la solidità di nostra fede; altro motivo. – Carattere di divinità nella santità della religione interamente pura negli insegnamenti della sua morale, che l’uomo alla più alta perfezione conduce. Noi tutti saremmo Angeli sulla terra, se fossimo fedeli osservatori delle sue massime. Ora si può egli ragionevolmente dubitare che una tal Religione non venga da Dio? E siccome essa è la via di cui Dio si è servito per parlare agli uomini e rivelar loro alcune verità a credere, ecco il motivo di nostra fede bene stabilito per indurci a credere queste verità. Ma perché vi sono più sette nel mondo, le quali, benché opposte le une alle altre, si vantano di seguire la religion Cristiana, che nulladimeno non può trovarsi in tutte perché la verità non è che una sola, noi abbiamo bisogno di una regola che diriga la nostra fede, per fare un giusto discernimento della vera Religione. Or qual è questa regola? È l’autorità della santa Chiesa Romana, in cui abbiamo noi avuta la buona sorte di nascere, che sola può vantarsi di custodire ad esclusione d’ogni altra setta il deposito della parola di Dio, sia per la sua antichità, sia per la sua infallibilità e santità. Antichità della Chiesa, che sussiste sino da Gesù Cristo per una successione non interrotta di pastori, la quale non si trova in nessuna delle sette, delle quali tutte si sa l’origine. Infallibilità della Chiesa, contro cui, secondo la testimonianza di Gesù Cristo, le porte dell’inferno non hanno mai prevalso; non è forse al suo tribunale che tutti gli errori comparsi nel mondo hanno ricevuta la loro condanna? Santità della Chiesa che ha formato e che forma ancora tanti santi discepoli. Non è forse dal suo seno che sono uscite quelle schiere innumerabili di martiri che hanno sigillato col loro sangue le verità della fede, quel gran numero di Dottori che hanno rischiarato il mondo, quella prodigiosa moltitudine di santi la cui memoria è in venerazione anche tra i nostri nemici? Egli è dunque nella santa Chiesa romana che si trova la vera Religione, la parola di Dio. Ella sola è l’appoggio e la colonna della verità; a questa colonna bisogna attaccarsi per non cadere. Chiunque non è nella nave di s. Pietro, dice s. Girolamo, è sicuro di perire: chiunque non ascolta la Chiesa dee esser riguardato come un pagano ed un pubblicano. Ecco dunque, fratelli miei, la regola infallibile che deve terminare ogni litigio su ciò che dobbiamo credere: regola infallibile che bisogna seguire non solo con fermezza e senza esitare, ma ancora con semplicità e senza ragionare.

II. Ed invero, fratelli miei, dopo che Dio ha parlato e noi siamo assicurati della sua divina parola per l’autorità della Chiesa che n’è la voce, lungi da noi ogni raziocinio, ogni curiosa ricerca sopra gli articoli che la fede ci propone a credere. I misteri di questa fede siano pure incomprensibili, sorpassino pure i nostri deboli lumi; la ragione, appoggiata sopra la certezza della rivelazione, non deve più disanimarsi né per l’oscurità dei misteri, né per difficoltà che prova a credere: perciocché due cose convien distinguere nella rivelazione che Dio ci ha fatta della fede; e i misteri in sé stessi e i segni di credibilità che Dio ce ne ha dati. I misteri, è vero, sono nascosti sotto dense nebbie, che li rendono incomprensibili allo spirito umano: è questo precisamente ciò che fa il merito della fede: mentre qual merito vi sarebbe nel credere ciò che è evidente e che facilmente s’intende? L’evidenza toglie la libertà e dove non è libertà non è merito. È dunque necessaria l’oscurità per esercitare la nostra fede, che non può coll’evidenza sussistere, dice san Gregorio: Fides non habet meritum ubi umana ratio experimentum præbet. Ma Dio ancora ha renduti credibili i misteri della religione con segni capaci di convincere ogni spirito scevro di pregiudizi ed esente da passione: ecco ciò che rende ragionevole la sommissione della fede. Poteva l’uomo chiedere di più a Dio? Poteva egli esigere da Lui che gli desse una intelligenza intima dei misteri o che li rendesse evidenti in se stessi? Ma qual sacrificio l’uomo avrebbe fatto a Dio della sua ragione? Qual merito, dico, avrebbe egli avuto di credere? Bastava dunque che questi misteri fossero evidentemente credibili nella rivelazione che Dio ne ha fatta all’uomo e nella autorità che egli ha data alla sua Chiesa per fissare la nostra fede, come abbiam dimostrato. Ecco in poche parole ciò che deve dissipare tutti i dubbi sopra la fede, ciò che bandir dee ogni raziocinio e ciò che dovrebbe bastar all’incredulo per sottomettersi, se fosse ragionevole. Se i misteri della fede sono impenetrabili ai nostri deboli lumi (lo credereste, fratelli miei?), gli è in questa debolezza medesima del nostro spirito che io trovo una ragione capace di farci piegare sotto il giogo della fede. – Imperciocché sventuratamente noi non siamo che tenebre, ed il nostro spirito è sì limitato che non può neppure arrivare alla conoscenza di molte cose naturali; ve ne ha infinitamente più di quelle che sorpassano il suo intendimento che di quelle che esso può comprendere. Sappiamo noi forse come si formi anche soltanto un pensiero nella nostra mente? Come un piccolo grano di semente produca infiniti altri? Ohimè! un granello di sabbia, un atomo è uno scoglio ove i più grandi ingegni vanno a naufragare. Noi siamo costretti ogni giorno di confessare la nostra ignoranza su mille segreti della natura; e perché non li comprendiamo, saremmo ben fondati a non crederli? Non sarebbe una follia il metterli in dubbio? Perché dunque non crederemo i misteri della Religione, sebbene incomprensibili? Tutto giorno crediamo, sulla testimonianza degli uomini, avvenimenti che non abbiamo veduto, e perché non aderiremo a quella di Dio, che ha maggior autorità? Si testimonium hominum accipimus, testimonium Dei maius est (1 Jo. 5). Voi non comprendete il mistero della santissima Trinità, dell’Incarnazione del Verbo, dell’adorabile Eucaristia; e per questo appunto non dovete aver difficoltà di crederli, poiché credete molte cose che non comprendete. Quindi è, o fratelli miei, che possiamo noi trarre vantaggio e dall’oscurità dei misteri delle fede e dalla debolezza delle nostre cognizioni. Impariamo a dimorare dentro i limiti circoscritti dei nostri lumi, senza voler elevarci a cose che sono superiori al nostro intendimento. Camminiamo colla semplicità della fede nei sentieri oscuri pei quali ella ci conduce; rammentiamoci che il semplice fedele il quale si sottomette ciecamente è più grande avanti a Dio che i più grandi ingegni del mondo che non vogliono credere. Ah! se si seguissero esattamente le regole della fede che ho pur ora prescritte, si vedrebbero forse, come si veggono al dì d’oggi, tanti Cristiani vacillanti nella loro fede, che dubitano, che esaminano, che vogliono accertarsi coi loro propri lumi delle verità cristiane, invece di rapportarsene alla testimonianza dell’adorabile Verità e alle decisioni della Chiesa? Si vedrebbero tanti temerari scrutatori dei divini misteri che, per troppo avvicinarsi alla maestà di Dio, non potendo sostenerne lo splendore, cadono nell’accecamento, nell’infedeltà, mentre un’umile sommessione li condurrebbe sicuramente al porto? Perciocché tale è il disordine del secolo; ciascheduno vuol ragionare in materia di religione; quei medesimi che ne sanno meno son quelli che si scatenano di più contro di essa. Non si veggono forse persone senza talento, senza cognizioni, parlare con la maggior franchezza sopra ciò che v’è di più elevato nella Religione? Presuntuose a tal segno che credono saper tutto, perché hanno letti alcuni cattivi libri. Per arrivar all’altezza delle verità cristiane, s’innalzano sopra le proprie forze, e perché con la tenuità del loro ingegno non possono comprenderle, pigliano arditamente il partito di combattere, come dice s. Agostino, le verità celesti con armi terrene; bestemmiano ciò che ignorano, mettono scioccamente in ridicolo quanto abbiamo di più santo e di più sacro nella Religione, e ciò che è ancora più degno di condannazione si è, che, non contenti di scuotere il giogo della fede, si sforzano coi loro discorsi perniciosi di strascinare gli altri nel proprio accecamento, di distruggere la fede nel loro spirito, con dei dubbi che vi fan nascere sulle verità le meglio stabilite. Che tal peste sia per sempre bandita dalla società dei fedeli! Possiate voi, fratelli miei, non trovarvi giammai con costoro! Checché dirvi possano, voi avete più ragione di credere che non ne hanno essi di dubitare; siate dunque fermi nella vostra fede, credete con semplicità e senza esame tutte le verità che ella propone: poiché chi dubita, dice s. Giacomo, è simile alle onde del mare, che a forza di essere agitate vengono finalmente a rompersi contro le rupi; laddove chi è fermo nella fede e ciecamente si sottomette, cammina coll’aiuto di una calma tranquilla ed arriva felicemente al termine della sua navigazione. Se la vostra fede è ferma senza esitare, semplice senza discutere, ella sarà intera ed universale, per credere senza riserva tutte le verità della Religione. Non ho bisogno quivi di darvi lunghe prove.

III. Infatti, se voi credete alcune verità che Dio ha rivelate, non dovete voi credere tutte le altre con fermezza giacché avete lo stesso motivo e la medesima regola così per le une come per le altre? Questo motivo, che è la verità e la parola di Dio, si estende a tutti gli oggetti della fede; vi sono essi proposti dalla medesima regola, che è l’antichità della Chiesa: la vostra fede deve dunque essere la medesima per tutti. Ricusare di credere qualche verità è un non crederne alcuna. E qui appunto si può benissimo applicare quel che dice l’apostolo s. Giacomo, che chi manca in un punto è colpevole in tutti: Qui peccat in uno, factus est omnium reus (Jac. II). Perché, io vi chiederò, perché credete voi alcuni articoli di fede? Perché, rispondete, li ha rivelati Iddio. Or tutti gli articoli che la Chiesa vi propone sono muniti dello stesso sigillo di verità, vi sono intimati dalla medesima autorità; dunque voi dovete crederli; altrimenti la vostra fede non è diretta dallo spirito di Dio, ma da uno spirito privato, che non è sommesso alla Chiesa. Tale è stata e tale è ancora al giorno d’oggi la sorgente fatale delle eresie che hanno desolata la Chiesa di Gesù Cristo; uno spirito privato guidato dall’orgoglio; riposando più sui propri lumi che sulla testimonianza rispettabile della sposa del Salvatore, ha sparso la zizzania nel campo del padre di famiglia, si è innalzato da sé un tribunale per giudicare definitivamente della verità della fede:quindi spiega le parole più chiare della Scrittura in un senso forzato ed immaginario, e rigetta il senso che la Chiesa loro attribuisce; quindi gli scismi e le ribellioni; quindi le variazioni nella dottrina, inseparabili da quello spirito privato, che si è moltiplicato in tanti individui quanti furono da esso guidati: quindi la rovina totale della fede. Con una guida cosi cieca, si può non cadere nel precipizio ? A Dio non piaccia, fratelli miei, che vi abbandonate giammai alla sua condotta! Voi ne avete una più sicura, che è la Chiesa di Gesù Cristo, cui Egli ha promesso la sua assistenza sino alla consumazione dei secoli, per condurre il gregge. alle sue cure affidato. Laonde nulla voi avete a temere; ascoltando la Chiesa voi siete nella via di salute; credendo ciò che crede la Chiesa, voi credete ciò che bisogna credere per esser salvi.

Pratica. Benedite il Signore che v’abbia fatto nascere nel seno di questa Chiesa, che v’abbia fatto parte del dono prezioso della fede: supplicatelo di conservare in voi questo deposito e di non trasportar altrove la fiaccola che vi rischiara. Ma per conservarla voi medesimi, lungi da voi ogni divisione, ogni distinzione frivola in materia di fede. Tosto che la Chiesa ha parlato con la voce dei suoi pastori, dovete sottomettervi; voi non potete traviare seguendo la strada che v’insegnano; se v’insegnassero l’errore, questo ricadrebbe sopra Gesù Cristo medesimo che vi ha detto di ascoltarli, come se egli stesso vi parlasse: Qui vos audit, me audit ( Luc. XVI). Convien dunque credere indistintamente tutto ciò che i pastori della Chiesa vi propongono di credere, sia nelle Scritture, sia nel simbolo, sia nella tradizione, sia nelle loro decisioni. Del resto, fratelli miei, di qualunque natura sieno queste decisioni ed in qualunque modo sieno state portate, voi dovete sottomettervi; sicché i pastori della Chiesa, incaricati del deposito della fede, v’instruiscano radunati, in Concilio o dispersi nelle loro sedi, meritano egualmente la vostra credenza, perché hanno sempre la medesima autorità, e perché il Signore è continuamente con loro: Vobiscum sum omnibus diebus. Ma non basta credere in generale tutto ciò che la Chiesa crede, voi siete obbligati a fare di tempo in tempo atti di fede sopra alcune verità particolari la cui conoscenza è necessaria alla salute; tali sono i misteri della santissima Trinità, dell’incarnazione del Verbo, della morte di Gesù Cristo sofferta per la salute di tutti gli uomini. Fate sovente la professione di fede rinchiusa nel simbolo degli Apostoli, recitandolo mattina e sera, alla santa Messa, e fermandovi ad ogni articolo. Istruitevi ancora delle verità che concernono i Sacramenti, i comandamenti di Dio e della Chiesa, e perciò assistete assiduamente alle istruzioni che a questo fine vi si fanno. Inviatevi i vostri figliuoli, i vostri servi; perciocché la fede si nutrisce e si rassoda con le buone istruzioni e colla lettura dei buoni libri. Ma guardatevi bene di leggerne o di ritenerne di quelli che siano contro la fede, evitate la compagnia di coloro che parlano contro la Religione; e se qualcheduno l’attacca in via ostra presenza, difendetela quanto potete, secondo i talenti che Dio vi ha dati. Sostenetela sopra tutto questa fede con una vita santa ed esemplare, che fa spesse fiate maggiore impressione che i discorsi più eloquenti. Con questo voi sarete non solamente i discepoli della fede, ma ancora gli Apostoli, e si potrà rendervi la medesima testimonianza che s. Paolo rendeva, ai primitivi Cristiani, quando si rallegrava con essi di aver data nel mondo una tale estensione alla fede che non aveva bisogno egli stesso di parlarne: In omni loco fides vestra, quæ est apud Deum, profecta est, ita ut non sit nobis necesse quidquam loqui (1 Thess. 1). Chiamatela vostra fede in vostro soccorso se voi siete tentati, ella vi sosterrà nelle tentazioni; se siete afflitti, ella vi consolerà nelle afflizioni; se voi formate qualche progetto ella vi guiderà nelle vostre imprese per nulla fare che sia contrario alla salute. Così è che il giusto vive della fede e che, dopo aver camminato nei sentieri oscuri, arriva alla luce di gloria che io vi desidero.

CREDO …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXIX1, 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

(Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.)

Secreta

Hæc nos oblátio, Deus, mundet, quǽsumus, et rénovet, gubérnet et prótegat.

(Questa nostra oblazione, chiediamo, o Dio, ci purifichi e rinnovi, ci governi e protegga.)

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI: 24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

(In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.)

Postcommunio

Orémus.
Cœléstibus, Dómine, pasti delíciis: quǽsumus; ut semper éadem, per quæ veráciter vívimus, appétimus.
(O Signore, nutriti del cibo celeste, concedici che aneliamo sempre a ciò con cui veramente viviamo.)

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (135)

LO SCUDO DELLA FEDE (135)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccuno Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (2)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE II.

La Chiesa di Gesù-Cristo non è, né può essere invisibile. Ella è composta di buoni e di cattivi.

5. Bibbia. Come mai non ti contraddici in queste tue confessioni sostenendo in pari tempo le tue prime asserzioni?

Prot. Ascoltatemi. È fuor di dubbio che la Chiesa di Gesù-Cristo è, per divina istituzione, invisibile: che mai vi fu Chiesa visibile, ma fu sempre e sarà sempre invisibile. » (Lutero, Lib. de abrogando Missa. priv. part. I. e Calvino, lib. 4, Inst.). Quindi nelle mie diverse asserzioni non mi contradico, perché quando asserisco che la Chiesa da lungo tempo ha cessato di esistere, intendo parlare della Chiesa visibile, e quando dico che perir non poteva, intendo parlare della invisibile; e per tal modo difendo la divina promessa e canso li errori del Cattolicismo.

Bibbia. Tu passi di errore in errore per trovare un tristo ripiego che a nulla ti giova. Imperocché se la Chiesa visibile ha cessato di esistere, dunque è falso che mai abbia esistito, è falso che sia, per divina istituzione INVISIBILE. Di più, se cessò di esistere per aver perduta, come tu dici, la vera fede (né poteva altrimenti perire), è manifesto che non poteva restarci Chiesa di sorta né visibile, né invisibile. Ma poi, dove hai trovato che la Cristiana Chiesa è per divina istituzione INVISIBILE? Gesù-Cristo parlando di essa la rassomiglia ad una città posta sopra di un monte che non può esser nascosta: – ad una lucerna posta sul candelabro, per far lume a quelli che entrano. (Luc. XI, 16). Tali proprietà convenir non possono ad una Chiesa invisibile. Inoltre, Egli dice ai Pastori della medesima: « Andate per tutto il mondo: predicate il Vangelo ad ogni creatura. » (Marc. XVI, 15) « Andate, istruite tutte le genti. » (Matt. XXVIII, 17). « Sarete a me testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea, e nella Samaria, e sino all’estremità della terra. » (Act. I.). Di più, Egli istituì il ministero gerarchico pel pubblico culto, pel di lei spirituale visibile governo. « Ed Egli (Gesù) altri costituì Apostoli, altri profeti, altri dottori  pel perfezionamento de’ santi, per l’opera del ministero, per la edificazione del corpo di Cristo; fino a tanto che ci riuniamo tutti nell’unità della fede, (ossia sino alla fine de’ secoli) e cognizione del Figliuolo di Dio » (Efes. IV, II, e seg.). Quindi comandò ai Fedeli di ricorrere in certi casi al tribunale della Chiesa, e di riguardare come un infedele, come uno scellerato chiunque alla medesima non obbedisce. « Se non ascolterà essi, dillo alla Chiesa: se poi non ascolta la Chiesa, abbilo come per un pagano e per un pubblicano. » (Matt. XVIII, 17) Come ricorrer potrebbesi, come obbedire o disobbedire ad una Chiesa invisibile? Potrebbe mai una tal Chiesa fare in ogni luogo testimonianza a Gesù Cristo, istruire, governare visibilmente i fedeli? Eh via! Ti dico di più, che dovendosi unire alla medesima chiunque vuol conseguire l’eterna salute, non solo il Divin Redentore la volle visibile, ma inoltre affinché a nessuno ignota fosse, nessuno nella scelta errar potesse, le assegnò certe distintive visibili Note che a Lei sola possono convenire. Tali sono:

I. L’Unità: «Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo corpo, un solo spirito. » (Efes. IV, 4, 5) « Un solo ovile, un solo pastore. » (Giov. X, 16)

II. La Santità. « Voi stirpe eletta,,., gente santa. » (I Piet. II, 9). Che però la vera Chiesa, oltre le altre cose riguardanti la sua santità, deve esser madre di santi.

III. La Cattolicità. « Andate istruite tutte le genti. » (Matt. XXVIII, 19)

IV. L’Apostolicità, e quanto alla successione dei Pastori, « Così sta scritto che il Cristo patisse,… e che si predicasse nel nome suo, dando voi principio da Gerusalemme. » (Luc. XXII, 46, 47). E quanto alla dottrina. « Se alcuno evangelizzerà a voi oltre quello che avete (da noi) appreso, sia anatema. » (Gal. I, 9) 6. Prot. La vera Chiesa è composta di soli eletti, anzi di soli predestinati, siccome sta scritto: « Cristo amò la Chiesa e diede per lei se stesso, affine di santificarla colla lavanda dell’acqua mediante la parola di vita, per farsi comparire davanti la Chiesa vestita di gloria senza macchia, senza grinza, od altra cosa, ma che sia santa e, immacolata. » (Efes. V, 25-27). « Molti sono diventati anticristi: … Sono usciti di tra noi, non erano dei nostri; perché, se fossero stati de’ nostri, sarebbero certamente restati con noi. » (I Giov. II, 18, 19). Ora è certo che i giusti, i predestinati non sono conosciuti che da Dio, siccome è scritto: « Conosce il Signore quelli che sono di lui (II ad Tim. II: » dunque la vera Chiesa è assolutamente invisibile.

Bibbia. Perché ti ostini a sostenere l’errore? Il primo testo nella sua prima parte fa contro di te; perché, se « Cristo amò la Chiesa, affine di santificarla; dunque (trattandosi della santità di tutti i suoi membri) essa già esiste, è formata prima di essere santa; dunque non è composta di soli giusti. La seconda parte non è a proposito; perché riguarda la Chiesa trionfante, come è chiaro da nelle parole: « la Chiesa vestita di gloria. » etc. Il secondo fa parimente contro di te; poiché quelli anticristi uscir non potevano dalla Chiesa, se in qualche modo non le fossero appartenuti. Ma, se vuoi capire come le appartenevano e non eran suoi, richiamati alla mente le citate parole di S. Paolo, cioè che la Chiesa « ha un solo corpo e un solo spirito; » dalle quali conoscerai che la Chiesa è composta di corpo e di spirito, ossia di anima e di corpo. Ora per appartenere al suo corpo basta aver ricevuto la fede e il battesimo, siccome sta scritto: « Quelli adunque che ricevettero la parola di lui furono battezzati, e si aggiunsero (alla Chiesa) in quel giorno circa tre mila anime. » (Act. II. 41). Per appartener poi anche all’anima, oltre le fede e il battesimo, è necessaria là carità, ossia è necessario essere in grazia di Dio, come dichiara 1’Apostolo: « Se uno non ha lo spirito di Cristo, questi non è di lui.  » (Rom. VIII, 9) Il terzo testo non fa al caso nostro, perché  non riguarda propriamente la Chiesa, ma la divina prescienza. Pertanto Gesù-Cristo, parlando della sua Chiesa, la dice simile ad una rete gettata in mare, che raccoglie ogni sorta di pesci buoni e cattivi: ad un ovile che contiene agnelli e capretti, (Matt. XIII, 47) a dieci vergini, delle quali cinque prudenti, e cinque stolte, (Matt. XXV, 35) ad un convito nuziale, in cui ricevuti sono buoni e cattivi: etc. (Matt, V. 1, 2). Né qui si arresta, ma uscendo dalle parabole, formalmente dichiara che nella sua Chiesa, « Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti. » (Matt. XX, 10). S. Paolo comandò che l’incestuoso di Corinto fosse espulso dalla Chiesa; il che far non poteva se non avesse appartenuto alla Chiesa. « Io ho già giudicato che colui il quale ha attentato tal cosa…. sia dato a satana. » (I Cor. V, 3, 5) È dunque fuor di questione che la Chiesa è composta di buoni e di cattivi: che i buoni, predestinati o no, appartengono al corpo e all’anima della Chiesa, finché sono in grazia di Dio, e i cattivi, predestinati o no, non appartengono che al di lei corpo finché vivono in peccato mortale: che, quanto al corpo, nessun battezzato cessa di appartenerle, finché non se ne separa, o non ne viene separato per via di scomunica.

Prot. Mi do per vinto, la penso ancor io come voi. Ascoltatemi. « Che la Chiesa sia composta di anima e di corpo, non vi è chi lo contrasti: di ciò andiamo perfettamente d’accordo col Cattolicesimo. L’anima della Chiesa è la fede e la carità. Per appartenere all’anima della Chiesa è necessario essere in grazia di Dio: appartenere al corpo basta far professione del Cristianesimo. Quindi gli iniqui sono membra della Chiesa, membra morte senza vita.», (M. Jurieu, System. p. 10. Vedi Bossuet.) « E verità incontrastabile che la vera Chiesa è mescolata con scellerati in una medesima confessione, come il buon grano con l’oglio nel medesimo campo, come i buoni pesci coi cattivi nella medesima rete. » (Il Pastor Claudio. Vedi Bossuet in Avvertimenti) Ascoltatemi ancora. « Noi confessiamo che la Chiesa, della quale parla Gesù Cristo, in quel passo: Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa (Matt. XV) è una Chiesa confessante, una Chiesa che pubblica la sua fede, una Chiesa, per conseguenza esteriore e visibile » (Jurieu, System. P. 215, Vedi Bossuet, luog. citato) – « La Chiesa, di cui in quel passo si parla, è in effetto una Chiesa confessante, una Chiesa che pubblica la fede, una Chiesa a cui Gesù Cristo ha dato un Ministero esteriore, una Chiesa che usa del ministero delle Chiavi, che lega e scioglie: una Chiesa per conseguenza, che ha un esteriore, una visibilità. Questo ecclesiastico Ministero durerà senza interruzione sino alla generale risurrezione. Imperocché Gesù Cristo ha promesso di essere con la Chiesa, di battezzare con la Chiesa, d’insegnare con la Chiesa, sino alla fine del mondo. » (Il pastor Claudio, presso Bossuet, Op. cit.). « Le promesse di Dio sono immutabili. Non si parli della Chiesa come di un’idea di Platone, ma si mostri una Chiesa che si vede e che si ascolta e che è visibile in questa vita. Iddio ha voluto che il ministero del Vangelo sia pubblico. Egli punto non vuole che la predicazione sia rinchiusa nelle tenebre, ma che sia estesa a tutto il genere umano. Egli ha voluto che vi sieno delle assemblee, nelle quali essa risuoni, e dove sia lodato ed invocati il suo Nome. » (Confess. Sassonie. Cap. de Ecles.). – « La Chiesa non è soltanto la società de’ predestinati, la quale giammai sussisterà, ma è il Corpo risibile in cui si trovano i Predestinati. Onesto è quel corpo visibile che sussisterà eternamente » (Il pastor Claudio presso il medesimo Bossuet, Op. cit. ). Cioè sino alla fine del mondo..  – « In questo corpo visibile ed esterno è rinchiusa l’anima della Chiesa, cioè i fedeli (giusti), i veri santi. Qualunque sia il senso che si dà a questo articolo (del Simbolo) Credo la Santa Chiesa, non può esso intendersi che di una Chiesa visibile » (Juriet, op. cit. p. 216). – « Gli eletti, i santi ne formano la parte più nobile…. ma non debbono eglino esser considerati come facenti un corpo a parte della Chiesa, ma come la sua parte più bella…. È incontrastabile che, sebbene la vera Chiesa abbia con sé mescolati i malvagi nella medesima confessione di fede, Ella però non lascia punto di esser visibile in tale mescolamento…. Noi non sappiamo per cosa certa quali siano in particolare i veri fedeli, e quali gli ipocriti; ma certamente sappiamo che vi ha dei veri fedeli come vi ha degli ipocriti; il che basta per fare la visibilità della vera Chiesa. » (Pastor Claudio presso Bossuet, op. cit.). Questo è quanto credo, e sempre ne fui persuaso.

S. Bibbia. Ottimamente. Ma se ne fosti sempre persuaso, perché impugnare con tanto ardore e raggiri la visibilità della Chiesa?

Prot. « Ciò che ha spinto alcuni Dottori Riformati (alcuni?) nell’imbarazzo, in cui si sono ingaggiati, di negare che sia stata perpetua la visibilità della Chiesa, è stato che eglino credettero che confessando essere stata la Chiesa sempre visibile, avrebbero avuto della pena a rispondere alla questione che ci faceva sovente la Chiesa Romana, dicendo: Dov’era la vostra Chiesa cìnquant’anni fa?… Se la Chiesa è sempre stata visibile, la vostra Chiesa Calvinista e Luterana non è per certo la vera Chiesa, perché essa non era allora visibile. » (Jurieu, op. cit. p. 226) Ditemi in grazia: come uscir potevasi da tal labirinto? – « A tal punto non si poteva in altro modo rispondere che dando il nome di vera Chiesa ad una Chiesa composta di soli eletti, la quale non è distinta da nota alcuna visibile. Ma, se gli uomini non hanno altro sussidio che questo per discernere la vera Chiesa: questa non sarà più che un ente immaginario, e sarà parimente impossibile conoscere se appartenesse alla vera Chiesa S. Stefano, oppure i suoi carnefici. (Il Pastore Grandwich, in Diar. Evang. Prot. Di Berlino). – « Quindi l’attacco principale fu diretto da quel momento contro la Chiesa visibile, ed imitando i Catari, l’appellarono la prostituta di Babilonia, la piena di lutti i vizi. Al Papa diedero il nome di Capo dell’errore ed ai Prelati quello di Scribi, di Farisei, di assassini! » (Hurter presso il Perrone). Avete capito?

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (15)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (15)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXXIII.

Quanto quest’esercizio venga raccomandato e replicato nella divina Scrittura.

Dall’esser questo esercizio tanto raccomandato e tante volte replicato nella divina Scrittura, si può molto bene comprenderne il valore e la eccellenza, e quanto sia grato a Dio; e insieme potremo da questo stesso prender materia per esercitarlo e per trattenerci più in esso. Il reale profeta David ne’ suoi Salmi ad ogni passo c’invita a questo esercizio, dicendo: Lætamini in Domino, et esultate, justi, et gloriamini, omnes recti corde (PS. XXXI, 11): — Exultate, justi, in Domino (Ib. XXXII, 1): —Delectare in Domino, et dabit Ubi petitiones cordis tui (Ib. XXXVI, 4): Rallegratevi, giusti, nel Signore, e dilettatevi in esso. Gioite e compiacetevi de’ suoi infiniti beni, e vi darà quel che gli domanderete; o per dir meglio, quel che desidererete e di cui avrete di bisogno: perché quest’è un’orazione nella quale senza domandare domandate, e Dio esaudisce il desiderio del vostro cuore, perché gli piace grandemente quest’orazione. E l’apostolo S. Paolo scrivendo a’ Filippensi dice: Rallegratevi sempre nel Signore: Gaudete in Domino semper (ad. Phil. IV, 4). E parendogli, che questo non fosse consiglio da darlo una volta sola, torna a replicarlo: Iterum dico, gaudete: Un’altra volta vi dico, che vi rallegriate. Questo è il giubilo che ebbe la Vergine santissima quando disse nel suo cantico: Et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo (Luc. 1, 47. 1):Giubilò lo spirito mio in Dio, mia salute. Quest’allegrezza e giubilo, ebbe anche Cristo nostro Redentore là dove di lui dice il sacro Evangelio, che Exultavit Spiritu sancto (Ib. X, 21): Si rallegrò nello Spirito santo.E il profeta David dice, che era tanto grande l’allegrezza e il giubilo che sentiva l’anima sua al considerare quanto grande fosse il bene e la gloria di Dio, e quanto egli fosse degno che tutti si rallegrassero del bene infinito che ha, che per la grande abbondanza ne ridondava l’allegrezza anche nelcorpo, e la carne istessa si accendeva in amor di Dio. Cor meum et caro mea exultaverunt in Deum vivum (Ps. LXXXIII, 9, 10): Il mio cuore e la mia carne si sono rallegrati inDio vivo. E in un altro luogo dice: Anima mea exullabit in Domino: et delectabitur super salutari suo. Omnia ossa mea dicent: Domine, quis similis libi (Ib., XXXIV, 9,10)? L’anima mia si rallegrerà nel Signore, esi diletterà in Dio, autore della sua salute;e tutte le ossa mie diranno : Signore, chi è come voi? E per esser cosa tanto divinae celeste quest’amore, la Chiesa diretta dallo Spirito santo, nel principio delle Ore Canoniche,cominciando il Mattutino ci eccita coll’Invitatorio ad amare in questo modo il Signore, rallegrandoci e godendo de’ suoi beni infiniti; ed è preso dal Salmo nonagesimoquarto: Venite, exultemus Domino: jubilemus Deo salutari nostro. Prceoccupemus faciem ejus in confessione, et in psalmis jubilemus ei: Venite, rallegriamoci col Signore, e cantiamo cantici di lodea Dio salute nostra; perciocché egli è grande sopra tutti, ed è suo il mare e la terra,e ogni cosa è opera delle sue mani: Quoniam Deus magnus Dominus, et Rex magnus super omnes Deos, etc. Quoniam ipsius est mare, et ipse fecit illud, et aridam fundaverunt manus ejus etc. (Ps. XLIV, 1 et 2). E per l’istessa ragione e all’istesso effetto ci mette la Chiesa nel fine di tutti i Salmi quel verso: Gloria Patri, et Filio, et Spiritui sancto; Sicut erat in principio, et nunc, et semper, et in sæcula sæculorum. Amen. Questo è quell’entrar nel gaudio di Dio che dice Cristo nostro Redentore, come si legge nell’Evangelio: Intra in gaudium Domini tui (Matth. XXV, 21). Partecipare di quell’allegrezza indefinita di Dio, e starci rallegrando e godendo insieme coll’istesso Dio della sua gloria, bellezza e ricchezza infinita.Per poterci affezionar più a quest’esercizio,e procurare di star sempre in questa allegrezza e festa, ci aiuterà assai il considerare quanto buono, quanto bello e quanto glorioso è Dio. Egli ha tutte queste cose in così sommo grado, che solo a vederlo, fa beati quelli che lo veggono: e se quei che stanno nell’inferno vedessero Dio, cesserebbero in essi tutte le pene e l’inferno si convertirebbe loro in paradiso: Hæc est autem vita æterna; ut cognoscant te solum Deum verum, dice l’istesso Cristo,come abbiamo nel Vangelo di S. Giovanni (Giov. XVII, 3). In questo consiste la gloria de’ Santi,in veder Dio; questo è quello che li fa beati; e non per un giorno né per un anno,ma eternamente, che mai non si sazieranno di star riguardando Dio, ma sempre sarà loro nuovo quel gaudio, secondo quello che dice S. Giovanni nell’Apocalisse: Et cantabunt quasi Canticum novum (Apoc. XIV, 3). Pare che con questo si dichiari assai bene la bontà, la bellezza e la perfezione infinita di Dio: e pure vi è molto più che aggiungere, e. molto assai: poiché è Dio tanto bello e tanto glorioso, che Egli medesimo, col solo vedere se stesso, è beato. La gloria e la beatitudine di Dio è il vedere e l’amare se stesso (D. Thom. 1 p.. q. 26, art. 8). Guarda, se abbiamo ragione di rallegrarci e di gioire in una bontà e bellezza, e in una gloria tanto grande, che rallegra tutta quella Città di Dio e fa beati tutti quei cittadini; e anche l’istesso Dio conoscendo e amando se stesso, è beato.

CAPO XXXIV.

Come ci potremo stendere in questo esercizio.

Possiamo anche umanarci più in questo esercizio, esercitando questo stesso amore colla sacratissima Umanità di Cristo Signor nostro, considerando la sua dignità e perfezione grande, e compiacendoci e gustando di questa, rallegrandoci e tripudiando, perché  questa benedettissima Umanità stia tanto sublimata e unita colla Persona divina; che stia tanto piena e colma di grazia e di gloria, che sia istrumento della Divinità per operar cose sì alte, come sono la santificazione e glorificazione di tutti gli eletti, e tutti i doni e le grazie soprannaturali che si comunicano agli uomini; e finalmente rallegrandoci e godendo di tutto quello che appartiene alla perfezione e gloria della gloriosissima anima e del santissimo corpo di Cristo nostro Redentore; e trattenendoci in questo con isviscerato amore e allegrezza, nel modo che i Santi considerano che si dovette rallegrare e gioire la santissima Regina degli Angeli il giorno della Risurrezione, quando vide il suo benedetto Figliuolo sì trionfante e glorioso: e come dice la divina Scrittura del patriarca Giacobbe, che quando udì dire, che il suo figliuolo viveva ed era padrone di tutta la terra d’Egitto, si rallegrò tanto, che se gli ravvivò lo spirito, e disse: A me basta che mio figliuolo Giuseppe sia vivo; non desidero altra cosa che vederlo, e con questo morirò contento (Gen, XLV, 28). –  Questo medesimo esercizio possiamo praticare in riguardo della beatissima Vergine nostra Signora e degli altri Santi: e sarà molto buona divozione nelle loro festività impiegar qualche parte dell’orazione in questo esercizio; perché sarà uno de’ maggiori ossequi e tributi che possiamo render loro; essendo che il maggior amore che loro possiamo portare, è volere e desiderar loro il maggior bene che possono avere, e rallegrarci e compiacerci della gloria loro tanto grande, e star ivi congratulandocene con esso loro: e così la Chiesa ci propone questo esercizio nella festa dell’Assunzione della santissima Vergine: Hodie Maria Virgo cælos ascendit: gaudete, quia cum Christo regnat in æternum. E comincia l’Introito della Messa in questa Festività, e in molte altre, invitandoci a quest’esercizio e animandoci ad esso coll’esempio degli Angeli che fanno il medesimo: Gaudeamus omnes in Domino, diem festum celebrantes sub honore B. V., de cujus Assumptione gaudent Angeli, et collaudant Filium Dei. – V’è anche un altro bene e utilità grande nella pratica di questo esercizio rispetto ai Santi, specialmente rispetto alla santissima Umanità di Cristo Signor nostro, ed è, che con questo vien poi la persona ad ascendere a poco a poco e ad avere introduzione negli altri esercizi che riguardano la Divinità; perché, come dice l’istesso Cristo, egli è la strada e la porta per entrare dal Padre (Jo. XIV 6, et X, 7). – Ancora in quest’esercizio che si pratica in riguardo a Dio in quanto Dio vi sono i suoi gradi e ci possiamo umanar più in esso, discendendo a cose di qua; perché sebben è vero, che Dio non può crescere in sé, per essere infinito, onde non possiamo desiderargli in se stesso alcun bene che Egli non l’abbia; nondimeno può Dio crescere esteriormente nelle creature, cioè esser più conosciuto, più amato e più glorificato da esse: e così possiamo ancora esercitar quest’amore, desiderando a Dio questo bene esteriore. Considerando dunque l’anima nell’orazione, quanto Dio è degno d’esser amato e servito dalle creature, abbiamo da starcene desiderando, che tutte le anime create e da crearsi lo conoscano, l’amino, lo lodino e lo glorifichino in tutte le cose. O Signore, chi potesse convertire quanti infedeli e peccatori sono nel mondo, e far che nessuno vi offendesse, e che tutti vi ubbidissero, e s’impiegassero in vostro servigio adesso e in perpetuo! Sanctificetur nomen tuum (Matt. XI, 9): — Et omnis terra adoret te, et psallat TIbi: Psalmum dicant nomini tuo (Ps. LXV, 4). E qui possiamo starcene pensando a mille maniere di servigi e di ossequi che le creature potrebbero rendere a Dio, e starli desiderando. Di qui ha da discendere ognuno a desiderare e procurare di fare la volontà di Dio E quello che è sua maggior gloria in quel che appartiene a se stesso; procurando di far sempre tutto quello che conoscerà esser la volontà di Dio e maggior gloria sua, ad imitazione di quello che Cristo nostro Redentore disse di sé: Quia ego, quæ placita sunt ei, facio semper (Giov. VIII, 29): Io fo sempre quel che piace al mio Padre. Perché, come dice l’Evangelista S. Giovanni, Qui dicit se nosse Deum, et mandata ejus non custodit, mendax est, ei in hoc veritas non est (1 Giov. II, 4): Chi dice, che conosce e ama Dio, e non fa la volontà sua né osserva i suoi comandamenti, non dice la verità, mente: (ib. 5): Ma chi gli osserva e fa la volontà di Dio, ha perfetta carità e amore del medesimo Dio. Di maniera che per amar Dio e per aver intera conformità alla divina volontà sua, non basta che l’uomo si compiaccia dei beni di Dio, e desideri che tutte le altre creature l’amino e lo glorifichino; ma bisogna ancora, che l’istesso uomo si offerisca e si dedichi tutto all’adempimento della volontà di Dio: perché, come può uno dire con verità che desidera la maggior gloria di Dio, se in quello che egli può e che sta in sua mano non la procura? E questo è quell’amore che l’anima esercita quando nell’orazione sta formando proponimenti e desideri veri d’adempire la volontà di Dio in questa e in quell’altra cosa, e in quante altre ne occorreranno; che questo è l’esercizio nel quale ordinariamente siam soliti d’esercitarci nell’orazione. – Con questo abbiamo aperto un gran campo per poterci, mentre facciamo orazione, trattenere molto tempo in quest’esercizio; e abbiamo dichiarata l’utilità e la perfezione grande che vi è in esso. Altro non resta, se non che mettiamo le mani all’opra e che cominciamo a provarci qui in terra in quelle cose nelle quali ci avremo da esercitar poi eternamente e con tanto vantaggio ed eccellenza nel cielo: Cujus ignis est in Sion, et caminus ejus in Jerusalem (Isa. XXXI, 9): Di qua si ha da cominciar ad accendere in noi questo fuoco dell’amor di Dio; ma le vampe più accese, l’altezza e la perfezione di esso, saranno in quella celeste Gerusalemme, che è la gloria eterna.

FINE DEL TRATTATO VIII

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (12)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (12)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO IX.

Dei Sacramenti.

SEZIONE la. — Dei Sacramenti in generale.

D. 325. Che cosa s’intende col nome di Sacramento della nuova Legge?

R. Col nome di Sacramento della nuova Legge s’intende un segno sensibile, istituito da Gesù Cristo a significare la grazia, e a conferirla a coloro che degnamente ricevono il Sacramento.

(Conc. di Fir., Decret. prò Armenis; Conc. di Tr., sess. VII, can. I, 6; Pio X, Decr. Lamentabili, 4 lugl. 1907, prop. 39, 40, 41 tra le condannate; Cat. p. parr., p. II, c. I , n.).

D. 326. Di quali e quanti elementi constano i Sacramenti?

R. I Sacramenti constano di tre elementi: delle cose come materia, delle parole come forma, e della persona del ministro, il quale conferisce il Sacramento, per lo meno con l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa: che se di questi elementi uno solo venisse a mancare, verrebbe a mancare pure il Sacramento. (Conc. di Fir., 1. c.; Conc. di Tr., 1. c, can. 11.

— Ne consegue che codesti elementi dei Sacramenti, non meno che i Sacramenti stessi, sono d’istituzione divina. Né a ciò si oppongono quelle differenze che, annuente la Chiesa, si riscontrano nell’amministrazione di certi sacramenti presso Chiese diverse, oppure in diversi momenti storici della Chiesa medesima. Una differenza meramente accidentale non è, certo, in contrasto con l’istituzione divina, atteso che questa si riferisce evidentemente alla sola sostanza della materia e al significato della forma. Ma qualora si tratti di più sensibile differenza, potrai spiegarla col dire che Nostro Signore Gesù Cristo, nell’istituire questo o quel Sacramento, non definì in particolare la materia e la forma di esso, ma volle, senza meglio specificarlo, un qualche segno atto ad esprimere il significato di quei medesimi Sacramenti, lasciando la Chiesa libera di scegliere cose e parole)

D. 327. Quanti e quali sono i Sacramenti della nuova Legge?

R. I Sacramenti della nuova Legge sono sette, vale a dire: il Battesimo, la Cresima, l’Eucaristia, la Penitenza, l’Estrema Unzione, l’Ordine, il Matrimonio.

D. 328. Perché Gesù Cristo ha istituito questi sette Sacramenti, non uno di più non uno di meno?

R. Gesù Cristo ha istituito questi sette Sacramenti non uno di più non uno di meno, perché ai fini della Chiesa solo questi sono necessari e sufficienti.

D. 329. In qual modo questi sette Sacramenti sono necessari e sufficienti ai fini della Chiesa?

R. Questi sette Sacramenti sono necessari e sufficienti ai fini della Chiesa in quanto, mentre i primi cinque sono ordinati alla perfezione spirituale dell’individuo preso in se stesso, gli ultimi due provvedono al regime di tutta la Chiesa e alla moltiplicazione dei fedeli (Conc. di Fir., 1. C. ; Cat. p. parr., p. II, c. I, n. 20).

D. 330. Che genere di grazia ci conferiscono i Sacramenti?

R. I Sacramenti ci conferiscono la grazia santificante e il suo incremento, e la grazia sacramentale, ossia il diritto a quegli aiuti speciali mediante i quali si possa raggiungere il fine rispettivo di ciascun Sacramento (S. Tom., p. III q. 62, a. 2.).

D. 331. In qual modo i Sacramenti conferiscono la grazia?

R. A chiunque non ponga ostacoli, i Sacramenti conferiscono la grazia per virtù insita in essi dal divino Istitutore, cioè, secondo l’espressione comune, ex opere operato (Conc. di Tr., 1. c., can. 7, 8; S. Agost.: Epist. 98, 2; e In Joannem, tratt. 80, 3.).

D. 332. Chi è che pone ostacolo?

R. Pone ostacolo chiunque si avvicina ai Sacramenti senza le necessarie disposizioni per ricevere la grazia.

D. 333. Può il ministro con la sua malvagità impedire l’efficacia dei Sacramenti?

R. Il ministro non può con la sua malvagità impedire l’efficacia dei Sacramenti, perché in quella sacra funzione egli impersona Cristo e non sè stesso (Cat. p. parr., p. II, c. I, n. 25).

D. 334. Quali sono i Sacramenti dei morti e quali quelli dei vivi?

R. I Sacramenti dei morti sono il Battesimo e la Penitenza; gli altri sono Sacramenti dei vivi.

D. 335. Perché il Battesimo e la Penitenza vengon detti Sacramenti dei morti, e Sacramenti dei vivi gli altri?

R. Il Battesimo e la Penitenza vengon detti Sacramenti dei morti, perché istituiti principalissimamente infavore di chi, a cagion del peccato, è privo della vita soprannaturale,cioè della grazia santificante; Sacramenti dei vivi vengon detti gli altri, perché solo a chi già vive divita soprannaturale è lecito di riceverli.

D. 336. Qual peccato commette chi si accosta ai Sacramenti dei vivi con la coscienza gravata da peccato mortale?

R. Chi si accosta ai Sacramenti dei vivi con la coscienza gravata da peccato mortale, non solo non riceve la grazia, ma commette inoltre il grave peccato del sacrilegio.

D. 337. Non si può forse conseguire la grazia santificante, ossia la riconciliazione con Dio. anche prima di ricevere un Sacramento dei morti?

R. Anche prima di ricevere un Sacramento dei morti si può conseguire la grazia santificante, ossia la riconciliazione con Dio, mediante un atto di contrizione perfetta; ma anche in tal caso la riconciliazione non va attribuita ad una contrizione che non includa, come include di fatti, il voto del Battesimo o della Penitenza (Conc. di Tr., sess. XIV, cap. 4).

D. 338. Che cos’è questo voto del Battesimo?

R. Questo voto del Battesimo è una vera, seria e ferma volontà di ricevere il Sacramento.

D. 339. Quali sono i Sacramenti che una volta soltanto possono riceversi?

R. I Sacramenti che una volta soltanto possono riceversi sono il Battesimo, la Cresima e l’Ordine, perché imprimono nell’anima un carattere indelebile.

D. 340. Che cos’è il carattere sacramentale?

R. Il carattere sacramentale è quel segno spirituale che rimane impresso nell’anima anche nell’altra vita, per ignominia nei dannati, per gloria in coloro che saranno salvi (S. Agost.: Contro epistolam Parmeniani, II, 28; Cod. D. C, can. 132.).

D. 341. Qual è la funzione del carattere sacramentale?

R. La funzione del carattere sacramentale è duplice: distinguere un soggetto dall’altro mediante una certa nota, e renderci atti a ricevere o a compiere qualcosa di sacro (Conc. di Fir., 1. c.; Conc. di Tr., sess. VII De Sacramentis, can. 9; Inn. III: Lett. Majores Ecclesiæ causas; Cat. p.parr., p. II, c. I , n. 30 e segg.),

342. Qual carattere viene impresso nei tre Sacramenti suddetti?

R. Nel Battesimo viene impresso il carattere per cui si diventa membri del corpo mistico di Cristo, cioè della Chiesa, e atti a ricevere gli altri Sacramenti;

nella Cresima, il carattere per cui si diventa soldati di Cristo, per pubblicamente professare la sua fede;

nell’Ordine, il carattere per cui si diventa ministri di Cristo, col potere di fare e di amministrare i Sacramenti (Cat. p. parr., p. II, c. I , n. 31),

D. 343. Perché nel Battesimo e nella Cresima vengono assegnati dei padrini?

R. Nel Battesimo e nella Cresima vengono assegnati dei padrini acciocché questi ritengano come a sé raccomandato il battezzato o il cresimato, e curino seriamente la sua educazione cristiana, soprattutto se mancano i genitori, o pur non mancando, trascurano a questo riguardo i loro doveri.

(Cod. D. C., can. 762 e segg. — Nell’amministrazione del Battesimo e della Cresima, la Chiesa orientale non usa padrini.).

D. 344. Il valido Sacramento del Battesimo e della Cresima dà origine a qualche parentela?

R. Il Sacramento valido del Battesimo dà origine alla parentela spirituale fra il battezzato e il battezzante, come tra il battezzato e il padrino; il Sacramento valido della Cresima dà origine alla parentela spirituale tra il cresimato e il padrino (Cod. D. C., can. 768, 769, 1079.).

D. 345. È uguale la necessità di tutti i Sacramenti?

R. Non è uguale la necessità di tutti i Sacramenti, atteso che il Battesimo è necessario a tutti; la Penitenza a coloro che, dopo il Battesimo, sono caduti in peccato mortale; l’Ordine alla Chiesa intera, e non ai singoli fedeli; il Matrimonio infine, alla collettività degli uomini, per costituire la famiglia cristiana (Cat. p. parr., p. II, c. I, n. 22.).

D. 346. Qual è fra i Sacramenti il più eccellente di tutti?

R. Il più eccellente fra tutti i Sacramenti è la Santissima Eucaristia, nella quale non solo la grazia è contenuta, ma è contenuto veramente, realmente e sostanzialmente l’autore medesimo della grazia Gesù Cristo Nostro Signore (S. Tom., p. 3, q. 65, a. 3).

D. 347. Che cosa s’intende con la parola Sacramentali?

R. Con la parola Sacramentalis’intendono quelle cose od azioni di cui la Chiesa, imitando in certo qual modo i Sacramenti, suole servirsi per conseguire, con la propria impetrazione, effetti soprattutto spirituali; tali sono, per esempio, gli esorcismi e le pie consacrazioni e benedizioni delle persone o delle cose (Cod. D. C, can. 1144 e segg.).

SEZIONE 2a . — Dei singoli Sacramenti.

Art. 1. — DEL SACRAMENTO DEL BATTESIMO.

D. 348. Che cos’è il sacramento del Battesimo?

R. Il sacramento del Battesimo è un Sacramento istituito da Gesù Cristo sotto forma di abluzione, mediante il quale il battezzato diventa membro del mistico Corpo di Cristo, cioè della Chiesa, ottiene la remissione del peccato originale nonché di tutti i peccati attuali, ove ce ne siano, insieme all’intera pena ad essi dovuta, e diventa capace di ricevere gli altri Sacramenti (Marco, VI, 16; Atti, II, 38; Paolo: ad Rom., VI, 3-6; 1a ad Cor., VI, 11; ad Coloss., II, 11-13; ad Tit., III , 6; Ia di Pietro, III, 21; Pio X: Decr. Lamentabili, 3 Lugl. 1907, prop. 42 tra le condannate; S. Bas.: Homilia, 13, 5)

D. 349. Qual è la materia e quale la forma del Battesimo?

R. La materia remota del Battesimo è l’acqua naturale, quella prossima è l’abluzione del corpo con la detta acqua; la forma, poi, consiste nelle parole: « Io ti battezzo nel nome del Padre, e del Figliuolo, e dello Spirito Santo » (Matt., XXVIII, 19; Giov., III, 5; Atti, XIII, 36; Paolo: ad Eph., V, 26; ad Hebr., X, 22; Conc. di Vien: Const. de Trinitate et fide; Conc. di Fir.: Decretum prò Armenis; Conc. Di Tr., sess. VII, can. 2; Inn. III: Epist. Non ut apponeres, 1 marzo 1206; Didachè, VII, 1. — Nella Chiesa orientale le parole sono queste: « È battezzato (o sia battezzato) il servo di Cristo nel nome del Padre, e del Figliuolo e dello Spirito Santo ». Perchépoi si verifichi l’abluzione del corpo, è necessario che l’acquatocchi il corpo, e soprattutto il capo, e scorra con abbondanzasufficiente onde si possa veramente dire che l’individuo èstato lavato).

D. 350. Cosa dunque voglion dire le Sacre Lettere là dove riferiscono che gli Apostoli battezzavano nel nomedi Cristo?

R. Là dove riferiscono che gli Apostoli battezzavano nel nome di Cristo, le Sacre Lettere voglion dire che gli Apostoli conferivano non il Battesimo istituito da Giovanni, ma quello istituito da Gesù Cristo, sempre però con quella stessa forma che il nostro Salvatore e Signore in persona aveva prescritto di adoperare (Cat. p. parr., p. I, c. II, n. 16).

D. 351. Chi è il ministro del Battesimo?

R. Ministro ordinario del Battesimo è il sacerdote, ma il conferirlo è ministero riservato al parroco o ad altro sacerdote autorizzato dal parroco medesimo o dall’Ordinario del luogo; ministro straordinario è il diacono, sempre con l’autorizzazione da concedersi solo per grave motivo, dall’Ordinario del luogo o del parroco.

D. 352. In caso di necessità chi è che può conferire il Battesimo?

R. In caso di necessità chiunque può conferire il Battesimo, senza solennità; se vi è tuttavia un sacerdote, venga questo preferito al diacono, il diacono al suddiacono, il chierico al laico, l’uomo alla donna, salvo che motivi di riservatezza consiglino alla donna piuttosto che all’uomo di conferire il Battesimo, o che la donna meglio conosca la forma e la maniera di battezzare (Conc. Lat., I, V c. I; Conc. di Fir.: Decr. prò Armenis; S. Agost.: Contra epist. Parmeniani, II, 29; Cod. D. C., can. 738, 741, 742.).

D. 353. In qual maniera può essere praticata l’abluzione rispetto alla validità del Battesimo?

R. Rispetto alla validità del Battesimo l’abluzione può esser praticata o per immersione nell’acqua, o per infusione dell’acqua, o per aspersione, secondo il rito approvato dalla Chiesa propria del battezzando ( 3 (3 ) Cod. D. C , can. 758; Cat. p. parr., p. I, c. II, n. 17 e segg. — Il Battesimo per aspersione è caduto in disuso, perché l’aspersione lascia facile adito al dubbio se vi sia stata o meno la necessaria abluzione del corpo. Indi è che si suol ribattezzare sotto condizione l’individuo battezzato per aspersione. Nontralasci il catechista di esporre come va conferito il battesimo in caso di necessità.).

D. 354. Qnand’è che bisogna battezzare i bambini?

R. I bambini vanno battezzati sollecitamente; e gravemente peccano i genitori e gli altri cui incombe la cura dei pargoli, quando li lascino morire senza Battesimo, o quando lo ritardino troppo a lungo senza grave motivo (Conc. di Fir.: Decr. prò Jacobitis; Pio X, 1. C., prop. 43 tra le condannate; Cod. D. C, can. 770.).

D. 355. In qual maniera deve l’adulto avvicinarsi al Battesimo?

R. L’adulto deve avvicinarsi al Battesimo, cosciente e volente, debitamente istruito e disposto; è inoltre necessario che dei suoi peccati mortali — se ne ha — egli concepisca il dovuto dolore, almeno per attrizione (Atti, II, 38; Rit. Rom., tit. I, c. III, n. 1; Cod. D. C., can. 752, § 1; Cat. p. parr., 1. c., n. 10; S. Tom., in 4 d. 6, q. I, a. 5, ad 5.um.).

D. 356. Che cosa avviene se l’adulto riceve il Battesimo con la coscienza gravata da peccato mortale, di cui non abbia nemmeno l’attrizione?

R. Se l’adulto riceve il Battesimo con la coscienza gravata da peccato mortale di cui non abbia nemmeno l’attrizione, il Battesimo è valido e viene impresso il carattere, ma il battezzato commette un grave peccato di sacrilegio, nè ottiene la grazia se non quando, in virtù dello stesso Battesimo, avrà ottenuto mediante la contrizione o l’attrizione la remissione del suo peccato (S. Tom., p. 3% q. 69, a. 10; S. Alfonso: Theol. mor., lib. IV, tract. I , c. III, n. 87).

D. 357. A qual dovere è tenuto il battezzato?

R. I battezzato è tenuto al dovere di professare la fede di Cristo nella Chiesa cattolica e di osservare i Comandamenti di Cristo e della Chiesa Cattolica (Paolo: ad Rom., VI, 3-13; ad Galat., III, 27; ad Coloss., II, 22; Conc. di Tr., 1. C., can. 7).

D. 358. Il Battesimo è a tutti necessario per la salvezza?

R. Il Battesimo è a tutti necessario per la salvezza, avendo Gesù Cristo detto: « Se uno non è rinato dall’acqua e dallo Spirito Santo, non può entrare nel Regno di Dio.(Giov., III, 5; Conc. di Cartag., can. 2; Conc. di Fir., 1. c.; Conc. di Tr., 1. C., can. 5; S. Cirill. Geros., Cathechesis, III, 10.)

D. 359. Qual sorte avrà l’anima di chi muore senza Battesimo col solo peccato originale?

R. L’anima di chi muore senza Battesimo col solo peccato originale non godrà, a causa del peccato originale, della visione beatifica di Dio, ma sarà esente dalle altre pene che puniscono i peccati personali (Inn. III: Epist. Majores ad Archiep. Arelatensem; Pio VI: Const. Auctorem fidei, prop. 26; Pio I X : Epist. ad Episc. Italiæ, 10 ag. 1836; S. Tom., in 2, d. 33, q. 2, a. 1 e 2; e De malo, q. 5, a. 2 e 3. — Il luogo o lo stato di queste anime suol chiamarsi Limbo, ben diverso tuttavia questo da quello dei Santi Padri, di cui si è accennato nella D. 106.).

D. 360. Ve qualcosa che possa supplire le veci del Battesimo?

R. Può supplire le veci del Battesimo il martirio, e l’atto di carità verso Dio, atto nel quale sono necessariamente contenuti e la perfetta contrizione dei peccati e il voto del Battesimo; tuttavia solo il Battesimo con l’acqua imprime il carattere e conferisce la capacità di ricevere gli altri Sacramenti (Matt., X, 32; XVI, 25; Marco, VIII, 35; Luca, IX, 24; XII, 8; Giov., XIV, 21, 23; Inn. II: Epist. Apostolicam Sedem ad Episc. Cremon.; S. Fulgenzio: De fide, 41; S. Tom., p. III q. 68, a. 2 ; e q. 69, a. 4, ad 2.um. — Indi è che il martirio suol chiamarsi, Battesimo di sangue, e l’atto di carità, Battesimo di desiderio.).

D. 361. In che cosa consiste il martirio che può supplire le veci del Battesimo?

R. Il martirio che può supplire le veci del Battesimo consiste nella morte ingiustamente inflitta e dall’adulto accettata per amore di Gesù Cristo, come testimonianza della fede o della virtù cristiana (S. Tom., 2a 2æ, q. 124, a. 1).

D. 362. Perché si impone al battezzato il nome di qualche Santo?

R. S’impone al battezzato il nome di qualche Santo affinché si valga del suo speciale patrocinio ed abbia nella sua vita un modello di virtù (Cod. D. C. , can. 761. — Non dimenticare quanto hai promesso a Dio nel Battesimo, e la ragione per cui il sacerdote, nel passarti la candida veste, ti ha indirizzato queste parole di esortazione: « Ricevi la candida veste, da portarsi da te immacolata al Tribunale di Nostro Signor Gesù Cristo, onde tu abbi la vita eterna »).

Art. 2. — DEL SACRAMENTO DELLA CRESIMA.

D. 363. Che cos’è il sacramento della Cresima?

R. Il sacramento della Cresima è un Sacramento istituito da Nostro Signor Gesù Cristo per conferire quella grazia speciale e quei doni dello Spirito Santo mediante i quali il cresimato riceve la forza di professare la fede con le parole e con le opere, come perfetto soldato di Cristo (Atti, VIII, 14-17; XIV, 5, 6; Conc. di Lione II: Prop. fidei Mich. Pal.; Conc. di Fir.: Decret. prò Armenis; Conc. DiTr.: sess. VII, De confirmatione, can. 1, 2, 3; Inn. III : Epist. ad Basilium Arch. Trinovitant., 25 febbr. 1204; Pio X: Decr. Lamentabili, 3 lugl. 1907, prop. 4 inter damnatas; S. Cirill. Geros.: Catechesis XXI (myst. III), 3; S. Cir. Aless. : In Joel, 32; S. Tom., p. 3a , q. 72, a. 7; Cat. p. parr., p. I I , c. III, n. 20.).

D. 364. Qual è la materia della Cresima?

R. La materia remota della Cresima è il crisma, ossia quell’olio di oliva commisto a balsamo e benedetto dal Vescovo, col quale il cresimando viene unto sulla fronte in forma di croce, mediante imposizione della mano del ministro; ed è precisamente questa unzione la materia prossima(i1 Cat. p. parr. 1. C. , n. 24)

D. 365. Qual è la forma della Cresima?

R. La forma della Cresima consiste nelle parole che il ministro proferisce nell’applicare la materia: « Io ti segno col segno della croce, ti confermo col crisma della salvezza, nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo » (Cod. D. C., can. 780, 781. — Nella Chiesa orientale anche il semplice sacerdote benedice il crisma e amministra il Sacramento, senza l’imposizione delle mani, con la seguente formula: Segnacolo del dono dello Spirito Santo. ).

D. 366. Chi è il ministro della Cresima?

R. Il ministro ordinario della Cresima è il Vescovo; il ministro straordinario, il sacerdote cui sia stata legittimamente concessa questa facoltà (Cod. D. C. , can. 782.).

D. 367. Oltre il Battesimo e lo stato di grazia, che cosa è richiesto in chi riceve la Cresima?

R. Oltre il Battesimo e lo stato di grazia, è richiesto in chi riceve la Cresima, qualora abbia l’uso della ragione, la conoscenza dei principali misteri della fede e delle altre verità che riguardano questo Sacramento.

D. 368. Che avviene se uno si accosta alla Cresima con la coscienza gravata da peccato mortale?

R. Se uno si accosta alla Cresima con la coscienza gravata da peccato mortale commette un sacrilegio, pur restando valido il Sacramento; il cresimato poi solo allora riceverà la grazia quando avrà ottenuto la remissione dei peccati, o per l’attrizione nel sacramento della Penitenza, o per la contrizione insieme al voto di quello stesso Sacramento (La presente risposta vale anche per i Sacramenti dell’Estrema Unzione, dell’Ordine e del Matrimonio; quanto al Sacramento della Penitenza, vedi D. 445 e segg.).

D. 369. A quale età viene amministrata la Cresima?

R. Quantunque l’amministrazione della Cresima venga giustamente differita dalla Chiesa latina al settimo anno incirca di età, pur tuttavia può esser conferita anche prima, se il bambino trovasi in pericolo di morte, o creda il ministro essere ciò espediente per giusti e gravi motivi (Cod. D. C , can. 488. — Presso gli orientali la Cresima viene amministrata generalmente nello stesso Battesimo.)

D. 370. La Cresima è assolutamente necessaria per la salvezza?

R. La Cresima non è assolutamente necessaria per la salvezza; non ètuttavia lecito di tralasciarla, perché èun mezzo per conseguir la salvezza con maggior facilità e pienezza (Cat. p. parr., p. II, c. III, n. 16, 17. — Ricordati che sei soldato di Cristo e che devi difendere la sua causa. Disprezzata quindi ogni paura e deposto ogni falso timore, liberamente professa la tua fede colle parole e coi fatti, e tienti onorato di soffrire per tale causa contumelie e persecuzioni).

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (14)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (14)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù c ristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXXI.

Della conformità alla volontà di Dio che abbiamo d’avere circa i beni della gloria.

Non solamente dobbiamo conformarci alla volontà di Dio circa i beni di grazia, ma anche circa i beni di gloria. Il vero Servo di Dio ha da essere tanto alieno dal suo interesse, ancora in queste cose, che si deve rallegrar più, che si faccia e adempisca la volontà di Dio, di quello che si potesse mai rallegrare per qualunque suo altro maggiore vantaggio. Questa è una molto gran perfezione, al dir di quel Santo (Thomas a Kemp. lib. 3, c. 25, a. 4), il rassegnarsi alla divina volontà, senza cercare il proprio interesse né nel poco, né nel molto, né nella vita temporale, né nell’eterna: e la ragione si è, perché, come egli aggiunge in un altro luogo, La tua volontà, o Signore, e l’amor del tuo onore dev’essere anteposto ad ogni cosa; e questo a chi ti ama dev’esser di maggior consolazione e piacere, che quanti benefizi egli abbia ricevuti, o possa ricevere. Questa è la contentezza e l’allegrezza de’ Beati. Più si rallegrano i Santi in cielo dell’adempimento della volontà di Dio, che della grandezza della gloria loro (Tract. 3. C. 14). Stanno tanto trasformati in Dio e tanto uniti alla sua volontà, che la gloria che hanno e la buona sorte che è toccata loro non la vogliono tanto per l’utilità che ad essi ne proviene e per la contentezza che ne ricevono, quanto perché Dio così gusta e perché quella è la sua divina volontà. E quindi è, che ciascuno sta tanto contento ed allegro con quel grado di gloria che ha, che non desidera di vantaggio, né gli rincresce che l’altro abbia di più; poiché dal vedere uno Dio, resta talmente in Lui trasformato, che lascia di più nulla volere colla privata sua volontà, e comincia a volere colla volontà sola di Dio: e siccome vede, che quello è il gusto e il beneplacito di Dio, così quello stesso è anche il gusto e beneplacito suo. Questa perfezione veggiamo che risplendeva in que’ gran santi, un Mosè ed un S. Paolo, che per la salute delle anime e per la maggior gloria di Dio pare che si dimenticassero e non facessero conto alcuno della propria lor gloria: Aut dimitte eis hanc noxam; aut si non facis, dele me de libro tuo, quem scripsisti (Exod. XXXII, 31, 32), diceva Mosè a Dio: Signore, o perdona al popolo, o scancellami dal tuo libro: e S. Paolo (Ad. Rom. IX,3): Optabam ego ipse anathema esse a Christo prò fratribus meis. Dal quale impararono poi un S. Martino (S. Mart. in ejus Vita et Eccl. In Off.) e altri Santi che protestavansi con Dio: Si adhuc sum necessarius populo tuo, non recuso laborem. Posponevano il loro riposo, e contentavansi di buona voglia, che venisse loro differita quella gloria ch’era già vicina, e s’offerivano di nuovo alla fatica pel maggior servigio e gloria di Dio. Questo è fare la volontà di Dio qui in terra come si fa in cielo; che dimenticati d’ogni nostro interesse, mettiamo ogni nostro gusto nello adempimento della volontà di Dio; e che stimiamo e facciamo più conto del gusto di Dio, che di ogni nostra utilità e del posseder i cieli e la terra. – Da questo potrà ben vedersi la perfezione che ricerca quest’esercizio della conformità alla volontà di Dio. Se dall’interesse de’ beni spirituali, e ancora de’ beni eterni, e dell’istessa gloria, abbiamo da distorgli occhi per metterli nel gusto e nella volontà di Dio; che cosa s’avrà poi da fare circa gl’interessi e i beni temporali ed umani? Dal che s’intenderà ancora quanto è lontano da questa perfezione colui che ha difficoltà nel conformarsi alla volontà di Dio in quelle cose che dicevamo .da principio; nell’esser io posto in questo, o in quell’altro luogo, in questo, o in quell’altro ufficio; nell’esser sano, o infermo; nell’esser da altri dispregiato, o stimato. Stiamo ora dicendo, che abbiamo da stimar più la volontà e il gusto di Dio, che quante eccellenze possono essere ne’ beni spirituali, e ancora negli eterni; e tu, più che alla volontà di Dio vuoi mirare a queste cose basse e transitorie, le quali rispetto alle altre sopraccennate sono come immondezze. A colui che desidera tanto il gusto di Dio e l’adempimento della volontà di lui, che di buona voglia rinunzia alla propria gloria e si contenta di un luogo più basso in essa, non perché gli manchi desiderio d’affaticarsi e di far opere di gran merito, ma solamente per voler più tosto il gusto e beneplacito di Dio, riusciranno molto facili tutte quest’altre cose: poiché rinunzia quella cosa somma che può rinunziare per amor di Dio. Questo è il più che uno possa cedere per conformarsi alla volontà di Dio: se Dio vuole ch’io muoia subito e abbia manco gloria, più tosto voglio questo, che morir di qua a venti o trent’anni, ancorché allora io avessi da avere molto maggior gloria: e per lo contrario ancorch’io avessi certezza della gloria morendo adesso, se Dio vuole ch’io stia in questo carcere e in questo esilio molti anni, patendo e travagliando, più tosto voglio questo, che andar subito alla gloria: perché il gusto di Dio e l’adempimento della volontà sua è il gusto mio e la mia gloria. Tu es Gloria mea, et exaltans caput meum (Psal. III, 4). Si racconta del nostro S. P. Ignazio un esempio ben raro a questo proposito (Lib. 5, cap. 2 Vitæ S. Ignat.). Stando egli un giorno col padre maestro Lainez e con altri, domandò in certo proposito: Ditemi un poco, maestro Lainez, che cosa vi pare che fareste se Dio Signor nostro vi proponesse questo partito, e dicesse: Se tu vuoi morir subito, io ti caverò dalla prigione di questo corpo e ti darò la gloria eterna; ma se vuoi ancora vivere, non ti assicuro di quello che sarà di te: resterai alla tua ventura: se vivrai e persevererai nelle virtù, io ti darò il premio; se mancherai e lascerai di far bene, come io ti troverò, così ti giudicherò. Se il Signore dicesse questo, e voi credeste, che restando per qualche tempo in questa vita, poteste far qualche cosa che ridondasse in grande e singolar gloria della Divina Maestà Sua; che cosa eleggereste? che cosa rispondereste? Il padre Lainez rispose: Io, Padre, confesso a Vostra Reverenza, che eleggerei l’andarmene subito a goder Dio e l’assicurar la mia salute con liberarmi da tutti i pericoli in cosa che importa tanto. Allora il nostro S. Padre disse : Io certamente non farei così: ma se giudicassi, che restando in questa vita potessi far qualche cosa di gran servigio e gloria del Signore, lo supplicherei che mi lasciasse in vita sin a tanto che l’avessi fatta; e metterei gli occhi in essa, e non in me, senza aver riguardo al mio pericolo, o alla mia sicurezza. Né pareva a lui che con tal elezione se ne potesse restar in forse la sua salute, anzi che sarebbe quindi stata questa per lui e più certa e più vantaggiosa, per essersi egli fidato di Dio per quel tempo di più che eletto si fosse di stare in questo mondo per interesse della sua gloria. Perciocché qual è quel Re, o Principe nel mondo, il quale offrendo qualche gran grazia ad alcuno de’ suoi servitori, e non volendo quegli accettar di goderla subito, per potergli far prima qualche notabil servigio, non si tenesse obbligato a mantenere, anzi di più ad aumentare quella grazia ad un tal servitore; poiché egli se ne privò per amor suo e per poterlo meglio servire? Ora se questo fanno gli uomini, i quali sogliono essere sconoscenti e ingrati; che cosa abbiamo da sperar noi dal Signore che talmente ci previene colla sua grazia e ci fa tanti favori? come potremmo mai temere che ci abbandonasse e ci lasciasse cadere, per aver noi differita la nostra beatitudine ed aver rinunziato di godere più presto lui per amore di lui? Non si può credere né temere tal cosa da un tal Signore.

CAPO XXXII.

Della conformità, unione ed amor perfetto con Dio: e come in questo abbiamo da esercitarci.

Per poter meglio vedere la perfezione ed eccellenza grande che rinchiude in sè questo esercizio della conformità alla volontà di Dio, e per poter sapere sin dove possiamo arrivare con esso, per conclusione di questo Trattato diremo qualche cosa dell’esercizio più alto che mettono i Santi e i Maestri della vita spirituale, dell’amor di Dio, il quale par che venga qui a proposito: perché uno de’ principali effetti dell’amore, come dice S. Dionigio Areopagita (D. Dionys. c. 4 de Div. Nom.), è fare, che le volontà degli amanti siano una soia,  cioè a dire, che abbiano un istesso volere

e un istesso non volere: e così quanto uno sarà più unito e più conforme alla volontà di Dio, avrà tanto maggiore amor di Dio; e quanto maggiore amor di Dio avrà, e quanto maggiore sarà quest’amore, tanto più sarà egli unito e conforme alla volontà di Dio. Per dichiarar meglio questa cosa bisogna che ascendiamo in cielo colla considerazione, e veggiamo come stanno colà i Beati amando e conformandosi alla volontà di Dio, con avere un’istessa volontà ed un istesso volere con lui; perché quanto più ci avvicineremo a questo, tanto più sarà perfetto il nostro esercizio. Il glorioso apostolo ed evangelista S. Giovanni nella sua prima Epistola Canonica dice , che la vista di Dio fa i Beati simili a lui: Quoniam cum apparuerit, similes ei erimus, quoniam videbimus eum sicuti est (I. Jo. III, 2.): perocché subito che veggono Dio, restano di tal maniera uniti e trasformati in Dio, che hanno una medesima volontà e un medesimo volere con Lui. Or veggiamo un poco qual è il volere e la volontà e l’amor di Dio, acciocché così possiamo vedere qual è il volere e la volontà de’ Beati; e da questo poi possiamo ricorrere qual ha da essere il volere, l’amore e la volontà nostra perfetta. Il volere e la volontà di Dio, e l’amor suo sommo e perfettissimo, è il compiacimento e l’amore della sua medesima gloria e del suo essere sommamente perfetto e glorioso. Ora questo medesimo è il volere, la volontà e l’amor de’ Beati; di maniera che l’amor de’ Santi e Beati e un amore e un volere con cui amano e vogliono con tutte le loro forze che Dio sia quegli che è, e sia in sé tanto buono, tanto glorioso e tanto degno d’onore, quanto è: e come veggono in Dio tutto quello ch’essi desiderano, ne siegue in essi quel frutto dello Spirito santo che dice l’Apostolo, Fructus autem Spiritus est gaudium (Gal, V, 22), che è un gaudio ineffabile di veder quello che tanto amano, così pieno di beni e di tesori in se stesso. Con quel che veggiamo di qua possiamo congetturar qualche cosa di questo divino gaudio che in ciò provano i Beati. Guarda quant’è grande l’allegrezza che prova di qua un buon figliuolo per vedere il suo padre, ch’egli grandemente ama, onorato e ben voluto da tutti, savio, ricco, potente e molto stimato e amato dal Re. Veramente vi sono figliuoli tanto buoni che diranno, che non v’è cosa alla quale si possa paragonare 1’allegrezza che sentono al vedere il proprio padre in tanta stima. Ora se quest’allegrezza è tanto grande di qua ove l’amore è tanto debole e i beni tanto bassi e limitati; qual sarà l’allegrezza de’ Santi, veggendo il lor vero Signore, Creatore e Padre celeste, in cui sono tanto trasformati per amore, veggendolo, dico, tanto buono, tanto santo, tanto pieno di bellezza, e in tal modo infinitamente potente, che dal suo solo volere ogni cosa creata ha essere e bellezza, e senza di esso non si può muover una fronda nell’albero? E così S. Paolo dice, che questo è un gaudio tanto grande, che né occhio l’ha mai veduto né orecchio udito, né può cadere in cuore umano (I. ad Cor. II, 9). Questo è quel fiume fecondante che vide S. Giovanni nell’Apocalisse (c. XXII, 1 – Ps. XLV, 5) uscir dalla Sedia di Dio e dall’Agnello, che rallegra la Città di Dio, del quale bevono i Beati in cielo, e inebbriati di quest’amore cantano quel perpetuo Alleluja che dice ivi S. Giovanni, glorificando e benedicendo Dio: Alleluja, quoniam regnavit Dominus Deus noster omnipotens. Gaudeamus, et exultemus, et demus glorìam ei (Apoc. XIX, 6 et 7). Stanno rallegrandosi e facendo festa della grandezza della gloria di Dio, e congratulandosene seco con gran giubilo e gaudio.- Benedictio, et claritas, et sapientia, et gratiarum actio, honor, et virtus, et fortitudo Deo nostro, in sæcula sæculorum, Amen (Ibid. VII, 12).Questo è l’amor de1 Santi verso Dio nel cielo e l’unione e conformità che hanno alla sua divina volontà, parlando secondo la piccolezza del nostro intelletto. Questo dunque è quello che noi altri dobbiamo procurare d’imitare di qua in quel modo che ci può esser possibile, acciocché si faccia la volontà di Dio in terra come si fa in cielo. Inspice, et fac secundum exemplarquod tibi in monte monstratum est, disseDio a Mosè quando gli comandò che facesse il Tabernacolo (Exod. XXV, 40): Avverti di far tutte le cose secondo il disegno che t’ho mostrato nel monte. Così noi altri abbiamo da far qui ogni cosa ad imitazione di quel tanto che si fa colà in quel sovrano monte della gloria; e così abbiamo da star amando e volendo quel che stanno amando e volendo i Beati nel cielo, e quel che sta amando e volendo l’istesso Dio, che è l’istessa sua gloria e il suo essere sommamente perfetto e glorioso. Acciocché meglio possa ognuno far questo, metteremo qui brevemente la pratica di quest’esercizio (M. Avil. Tom. 1, epist.; P. Franciscus Anas p. 2 profectus spirit. Tract. 5, c. 3, 4; P. Luduv. de Puente tom. 2 suarum medìt. p. e.). Quando stai nell’orazione considera coll’intelletto l’essere infinito di Dio, la sua eternità, la sua onnipotenza, l’infinita sua sapienza, bellezza, gloria e beatitudine; e colla volontà statti rallegrando, godendo, compiacendo e gustando che Dio sia quel che Egli è; che sia Dio; che da se stesso abbia l’essere e il bene infinito che ha; che non abbia bisogno di nessuno e tutti abbiano necessità di Lui; che sia onnipotente, e tanto buono, tanto santo, e tanto pieno di gloria, quanto Egli è in se stesso: e così dicasi di tutte le altre perfezioni e de’ beni infiniti che sono in Dio. Questo dicono S. Tommaso (D. Thom. 2 2, q. 28, art. 5 ad a et art. 2) e i Teologi che è il maggiore e più perfetto atto d’amor di Dio ; e così ancora è il più alto e più eccellente esercizio di conformità alla volontà di Dio. Perciocché non vi è maggiore né più perfetto amor di Dio che quello che l’istesso Dio porta a se stesso, che è della medesima sua gloria e del suo essere sommamente perfetto e glorioso: né vi può esser volontà migliore di questa. Dunque tanto migliore e più perfetto sarà l’amor nostro, quanto più s’assomiglierà a questo amore col quale Dio ama se stesso; e tanto maggiore e più perfetta sarà la nostra unione e conformità alla divina volontà sua. Di più dicono colà i Filosofi, che amar uno è volergli e desiderargli bene: Amare est velle alicui bonum (Arist. Reth. lib. 2, c. 4). Dal che viene in conseguenza, che quanto maggior bene desideriamo ad uno, tanto maggiormente lo amiamo. Ora il maggior bene che possiamo volere e desiderare a Dio, è quello ch’Egli ha, cioè il suo infinito Essere, la sua Bontà, Sapienza, Onnipotenza e Gloria infinita. Quando amiamo qualche creatura, non solo ci compiacciamo del bene che già ella ha, ma possiamo inoltre desiderarle qualche bene che ancora non ha; perché ogni creatura è sempre capace di maggior bene e di crescere in esso; ma a Dio non possiamo desiderargli in se medesimo bene alcuno ch’Egli non abbia, perché è totalmente infinito; onde non può aver in sé maggior potenza, né maggior gloria, né maggior sapienza, né maggior bontà di quella che ha. E così il rallegrarci, il gioire, il compiacerci, il gustare, che Dio abbia questi beni che ha, e che sia tanto buono quanto Egli è, tanto ricco, tanto potente, tanto infinito e tanto glorioso, è il maggior bene che gli possiamo volere, e conseguentemente il maggior amore che gli possiamo portare. Di maniera che siccome i Santi che stanno in cielo, e l’Umanità santissima di Cristo nostro Redentore, e la gloriosissima Vergine Signora nostra, e tutti i Cori degli Angeli si stanno rallegrando di vedere Dio tanto bello e tanto ricolmo di beni, ed è tanto grande l’allegrezza e il giubilo che in ciò provano, che non si soddisfano se non con prorompere nelle lodi di questo Signore, e non si saziano di starlo lodando e benedicendo eternamente, come dice il Profeta: Beati, qui habitant in domo tua, Domine: in sæcula sæculorum laudabunt te (Ps. LXXXIII, 5): così noi abbiamo da unir i nostri cuori e da elevare le nostre voci colle loro, come ce l’insegna la Chiesa nostra Madre: Cum quibus, et nostras voces, ut admitti jubeas, deprecamur, supplici confessione dicentes: Sanctus, Sanctus, Sanctus, Dominus Deus Sabaoth. Pieni sunt cœli et terra gloria tua (Eccl. in Præfat. Miss.). Sempre, o quanto più spesso potremo, abbiamo da stare lodando e glorificando Dio, rallegrandoci e gioendo del bene, della gloria e del dominio che Egli ha, dandogliene il buon prò, e congratulandocene seco; e in questa maniera ci rassomiglieremo di qua, nel modo a noi possibile, ai Beati e all’istesso Dio; e avremo il più alto amore e la più perfetta conformità alla volontà di Dio che possiamo avere.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (15)

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (11)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (11)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 – COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO. VII.

Della grazia.

D. 278. Che cos’è la grazia?

R. La grazia è un dono soprannaturale gratuitamente concesso da Dio alla creatura razionale al fine di conseguire la vita eterna (È soprannaturale ciò che supera la natura. Il soprannaturale è di due specie: il primo supera la natura per il modo in cui si produce, mentre in sé è d’ordine naturale, per es.: la vita resa ad un morto; il secondo invece, anche in sé e per essenza, trascende ogni e qualsiasi ordine di natura, in quanto partecipa all’intima vita di Dio; per es.: la grazia santificante, le virtù infuse e i loro atti, e la stessa vita eterna, vale a dire la visione intuitiva di Dio e l’amor beatifico di Dio).

D. 279. Di quante specie è la grazia?

R. La grazia è: una abituale, chiamata anche santificante, ossia quella che giustifica, quella che rende grato; l’altra attuale.

D. 280. Che cos’è la grazia abituale?

R. La grazia abituale è una qualità soprannaturale inerente all’anima, mediante la quale l’uomo diventa partecipe della divina natura, tempio dello Spirito Santo, amico di Dio e suo figlio adottivo, erede della gloria celeste e, quindi, in condizione di porre atti meritori di vita eterna (Sap., VII, 14; Giov., I , 12, 13; III, 5; XV, 4, 14; Paolo, ad Rom., V, 5; VIII, 14-17; I a ad Cor., IV, 7; XII, 3; ad Eph., II, 8 e segg.; 2a di Pietro, I, 4; Ia di Giov., III, 1; Conc. di Tr., Sess. VI De justificatione, can. 11; S. Cir. Al..: In Joann., I, 9. ).

D. 281. La grazia abituale è necessaria per conseguire la vita eterna?

R. A tutti gli uomini, compresi i bambini, la grazia abituale è assolutamente necessaria per conseguire la vita eterna.

D. 282. Che cosa meritiamo con le buone opere da noi compiute, giustificati mercé la grazia di Dio e i meriti di Gesù Cristo?

R. Con le buone opere da noi compiute, giustificati mercé la grazia di Dio e i meriti di Gesù Cristo, noi meritiamo un aumento di grazia, il raggiungimento della vita eterna (purché moriamo nella grazia di Dio), e un aumento di gloria (Conc. d’Orange II, can. 18; Conc. di Tr., 1. e , c. 32.).

D. 283. Come si perde la grazia abituale?

R. La grazia abituale si perde con qualsiasi peccato mortale (Paolo: ad Rom., V I , 23; la ad Cor., VI, 9 e segg.; Giac, I, 15; Ia di Giov., III, 18; Conc. di Tr., 1. C. , can. 27; S. Basil.: Sermo asceticus, I.).

D. 284. In che modo si ricupera la grazia abituale?

R. La grazia abituale si ricupera col cessare dai peccati mortali, e col mettere in uso i mezzi stabiliti da Nostro Signor Gesù Cristo per conseguire la giustificazione(Vedi intorno a questi mezzi la D. 178).

D. 285. In istato di peccato mortale possono farsi alcune opere buone?

R. In istato di peccato mortale possono farsi alcune opere buone, non meritorie però della vita eterna, e pur tali, tuttavia, che con l’aiuto della grazia attuale, il peccatore vien per esse disposto alla giustificazione.(Eccli., XXI, 1; Ezech., XVIII, 30; Dan., IV, 24; Paolo ad Rom., II, 14; Conc. di Tr., 1. C. ; S. Agost.: De spiritu et litterà, 48.).

D. 286. Che cos’è la grazia attuale?

R. La grazia attuale è un aiuto soprannaturale di Dio, a mezzo del quale Dio illumina la nostra mente e muove la nostra volontà onde fare il bene ed evitare il male, in ordine alla vita eterna.

(2  S. Efrem.: De Epiphania, X, 14; S. Cirillo Aless.: De adoratione in spiritu et veritate, I . — Solo la grazia interna sidivide in abituale ed attuale: tuttavia, sotto il nome genericodi grazia si può intendere, e spesso s’intende, qualunque donoda Dio gratuitamente concesso agli uomini in vista dell’eternasalvezza; tali sono le stesse grazie esterne, quali una buonaeducazione, i Sacramenti, il magistero della Chiesa, la sacrapredicazione, la lettura dei buoni libri, gli ammonimenti, lepene; anzi, le stesse malattie e quelli che sogliamo chiamaremali e gl’incomodi della vita, e persino la morte, possono talvoltachiamarsi grazie attuali, in quanto Dio che li vuole o permette, sempre li vuole o permette per la nostra salvezza. È dellamassima importanza che il Cristiano consideri tutti gli eventi della propria vita sotto questo punto di vista soprannaturale)

D. 287. La grazia attuale ci è necessaria?

R. La grazia attuale ci è assolutamente necessaria al fine di operare il bene e di fuggire il male, in ordine alla vita eterna; essendo infatti, questa di ordine soprannaturale, nulla possiamo, con le sole forze naturali, pensare, volere e compiere di quanto è necessario per conseguirla (Paolo: 2a ad Cor., III, 5; ad Philipp., II, 13; Conc d’Orange, II, can. II e segg.; Conc. di Tr., sess. VI De justificatione, can. 1-3; S. Greg. Naz.: Oratio, XXXVII, 13; S. Giov. Cris.: In Genesim, XXV, 7).

D. 288. Concede Iddio a tutti le grazie di cui si abbisogna per la vita eterna?

R. Dio, che tutti gli uomini vuole salvi, a tutti concede le grazie di cui abbisognano per conseguire la vita eterna; senonchè, trattandosi di adulti, è necessario, per raggiungerla, che essi liberamente cooperino con Dio, il quale, col suo aiuto, previene, inspirandole, le loro buone opere e continua ad assisterne il compimento. (Ezech., XXXIII, 11; Giov., I , 9; Paolo: la ad Tim., II, 14; IV, 10; 2a di Pietro, III, 9; Conc. di Tr., 1. c., c. 11; Inn. X, 31 magg. 1653, contra errores Jansenii, prop. la; S . Giov. Cris.: In epist. ad Hebr., XVI, 4.)

D. 289. Quali sono i mezzi principali per conseguire la grazia di Dio?

R. I mezzi principali per conseguire la grazia di Dio sono: la preghiera mediante la quale la grazia s’impetra, e i Sacramenti che la contengono e la conferiscono.

CAPO VIII

Della preghiera.

SEZIONE l a. — Della preghiera in generale.

D. 290. Che cos’è la preghiera?

R. La preghiera è una pia elevazione dell’anima a Dio, intesa ad adorarlo, a ringraziarlo per i benefici ricevuti, ad impetrare il perdono dei peccati e a chiedere quanto crediamo utile o necessario per noi stessi o per gli altri.

D. 291. È necessario per noi di pregare?

R. È necessario per noi di pregare, perché tale è la volontà di Dio, e perché gli aiuti di cui abbiamo continuamente bisogno, Dio, generalmente, suole concederli solo a chi li richiede (2 Eccli., XVIII, 22; Matt., VII, 7, 8; Luca, XI, 9-13; XVIII, 1; Paolo: ad Rom., XII, 12; ad Eph., VI, 18; ad Coloss., IV, 2; la ad Thess., V, 17; S . Giov. Cris.: In Genesim, XXX, 5; Cat. p. parr., p. IV, c. 1, n. 2. — Come il respirare è necessarioalla vita del corpo, così il pregare è necessario alla vita dell’anima: chi è solito pregare si acquista la salvezza; chi non è solito pregare si procura la dannazione. Spesso adunque, o cristiano, implora Dio con la bocca, e più spesso ancora col cuore: adopera con pietà le formule di orazione per la mattina e la sera: e nelle tentazioni, come nelle difficoltà della vita, indirizza a Dio le tue suppliche, tenendo sempre profondamente scolpito nell’animo quel principio: rettamente sa vivere, chi rettamente sa pregare.)

D. 292. Quante specie di preghiera vi sono?

R. Vi sono due specie di preghiera: quella mentale nella quale colla mente e col cuore parliamo con Dio emeditiamo le eterne verità; quella vocale, che, accompagnatadall’attenzione della mente e dalla devozione delcuore, si effonde dalle labbra.

D. 293. Quante forme può avere la preghiera vocale?

R. La preghiera vocale può avere due forme: quella privata, quando vien fatta dall’individuo o dalla famiglia, per sé o per altri, senza l’intervento dei ministri della Chiesa; quella pubblica, quando vien fatta a mezzo dei ministri della Chiesa e in nome della Chiesa; che se la Chiesa la inserisce nei suoi libri, prende il nome di liturgica.

D. 294. Quali debbono essere nella preghiera i principali oggetti delle nostre domande?

R. I principali oggetti delle nostre domande nella preghiera debbono essere: la gloria di Dio, l’eterna salvezza nostra e degli altri, e i mezzi necessari ed opportuni a conseguirla (Matt., VI, 9-13; XXI, 22; XXVI, 41)

D. 295. Ci è lecito di chiedere anche i beni temporali?

R. Ci è lecito di chiedere anche i beni temporali, sempre però in conformità della volontà divina, in quanto, cioè, siano per giovare alla gloria di Dio, ovvero giovino in qualche modo a noi o ad altri per raggiungere la vita eterna, o per lo meno in nulla ostacolino l’una e l’altra Qf1 (Matt., VIII, 2, 6, 25; IX, 18; XV, 22; XVII, 11; Marco, I , 40-42; VII, 32; S. Tom., 2a 2æ, q. 83, a. 6; Cat. p. parr., p. IV, c. IV, n. 1 e segg.)

D. 296. A chi viene indirizzata la preghiera?

R. Ogni preghiera viene indirizzata a Dio, l’unico e solo che possa darci quanto chiediamo; affinché, però, intercedano per noi presso Dio, imploriamo anche i Santi tutti, specialmente la Beata Vergine Maria, e le stesse anime trattenute in purgatorio (Tob., XII, 12; Giob., XLII, ‘ 8; II Macc, XV, 14; Apoc, V, 8; VIII, 3).

D. 297. In qual modo va fatta la preghiera perché sia efficace?

R. Perchè sia efficace la preghiera va fatta nel nome di Gesù Cristo, sui meriti del quale si basa, e con pietà, fede, speranza, umiltà e perseveranza (Tob., VII, 8; Eccli., XXXV, 21; Matt., VI, 5, 6; VII, 7-11; XVII, 20; XX, 22; Marco, XI, 24; Giov., XVI, 23, 24; Giac , I, 5, 6; IV, 16-18; S. Agost.: Trac. 102 in Joannem; S. Tom., 2a 2ae, q. 83, a. 4).

D. 298. Perché non sempre otteniamo quanto chiediamo con la preghiera?

R. Non sempre otteniamo quanto chiediamo con la preghiera, perché o non chiediamo rettamente, o perché quanto chiediamo non è giovevole; nel qual caso non è da dubitarsi che Dio ci accorderà a suo tempo altre grazie, anche maggiori di quelle richieste (Catech. p. parr., p. IV, c. II, n. 4).

D. 299. Qual è la preghiera di tutte la più perfetta?

R. La preghiera di tutte la più perfetta è l’orazione domenicale, vale a dire il Pater noster, alla quale si suole aggiungere la salutazione angelica, ossia l’Ave Maria.

SEZIONE 2a .

Dell’orazione domenicale e della Salutazione angelica.

Art. 1. — DELL’ORAZIONE DOMENICALE.

D. 300. Perchè il Pater noster si chiama orazione domenicale?

R. Il Pater noster si chiama orazione domenicale perché fu Nostro Signor Gesù Cristo in persona ad insegnarcela(Matt., VI, 9-13; Luca, VI, 2-4).

D. 301. Perché l’orazione domenicale è di tutte la più perfetta?

R. L’orazione domenicale è di tutte la più perfetta perché contiene tutto quanto dobbiamo chiedere sia che si riferisca a Dio (nelle tre prime domande), sia che si riferisca a noi stessi e al nostro prossimo (nelle rimanenti)

(« L’orazione domenicale è perfettissima perché, secondo dice S. Agostino (Epist. 130, al. 121, ad Probanti, c. 12): A voler rettamente e acconciamente pregare, null’altro possiamo dire che non sia contenuto in questa orazione domenicale. « Essendo, infatti, la preghiera in certo qual modo l’interprete del nostro desiderio presso Dio, ne consegue che nel nostro pregare solo quelle cose rettamente chiediamo che rettamente possiamo desiderare. Ora, nell’orazione domenicale, non solo tutto chiediamo di quanto rettamente possiamo desiderare, ma lo chiediamo anche nell’ordine preciso in cui va desiderato; indi è che questa preghiera non solo insegna a domandare, ma fissa al nostro affetto tutta la scala dei valori desiderabili ». S. Tom., 2a 2æ, q. 83, a. 9. — È dovere quindi di ogni Cristiano di recitare spesso l’orazione domenicale, con dignità, attenzione e devozione.).

D. 302. Chi invochiamo con le parole: Padre nostro?

R. Con le parole: Padre nostro, noi invochiamo Dio quale tenerissimo padre, per esprimere a suo riguardo il nostro amore e la nostra fiducia, e conciliarci la sua benevolenza e la sua misericordia.

D. 303. Perché chiamiamo Dio Padre nostro?

R. Chiamiamo Dio Padre nostro, non solo perché ci ha creati, ci conserva e governa, ma soprattutto perché  mediante la sua grazia fa di noi i suoi figli adottivi. (Deut., XXXII, 6; Giov., XVI, 26, 27; Paolo: ad Rom., VIII, 15-17; la ad Cor., I, 9; 1a di Giov., III, 1-3; Cat. p. parr.,p. I, c. II, n. 9)

D. 304. Perché diciamo: Padre nostro, piuttosto che: Padre mio?

R. Diciamo: Padre nostro, piuttosto che: Padre mio, perché per il dono dell’adozione divina tutti i fedeli sonofratelli in Cristo; indi è che deve ognuno fraternamenteamare gli altri, e pregare per essi, oltre che per sé  stesso (Cat. p. parr., p. IV, c. IX, n. 14 e segg.).

D. 305. Che cosa intendiamo esprimere con le parole: Che sei nei cieli?

R. Con le parole: Che sei nei cieli, noi veniamo incitati a contemplare l’infinita potenza e maestà di Dio quale rifulge soprattutto nell’opera dei cieli, e nel medesimo tempo veniamo a ricordare che i beni celesti, e quanto va con essi congiunto, noi dobbiamo chiederli soprattutto a Dio (Cat. p. parr.. p. IV. c. IX, n. 19, 20).

D. 306. Che cosa chiediamo con la prima domanda: sia santificato il tuo Nome?

R. Con la prima domanda : Sia santificato il tuo nome, noi chiediamo che il santo Nome di Dio venga atutti reso noto, e che da tutti sia celebrato, col cuore, conle labbra e con le opere buone (Sal. CXII, 1-3; Paolo: ad Philipp., II, 9-11).

D. 307. Che cosa chiediamo con la seconda domanda: Venga il tuo regno?

R. Con la seconda domanda: Venga il tuo regno, noi chiediamo che con la sua grazia Dio regni su noie tutti gli uomini, che con la sua legge regni quaggiù sullasocietà e sulle nazioni, onde possiamo poi esser resi partecipiin cielo della sua gloria eterna.(Paolo: ad Rom., XIV, 17; Ia ad Cor., VI, 9,10; XV, 50; ad Gal., V, 19-21; ad Eph., V, 5; Cat. p. parr. p. IV, c. XI, n. 1 e segg.)-

D. 308. In qual modo possiamo noi cooperare all’avvento del regno di Dio sulla terra?

R. Noi possiamo e dobbiamo cooperare all’avvento del regno di Dio sulla terra, tanto con l’osservare la legge di Cristo e coltivare in noi la vita soprannaturale della grazia, quanto con l’aiutare, mediante la preghiera e le opere, l’opera stessa della Chiesa, il cui scopo è che la vita, sia privata che domestica e pubblica, si conformi alla legge divina, che tutti gli erranti tornino all’unità della Chiesa medesima e che la luce del Vangelo sia portata a quei popoli che ancora siedono nelle tenebre e nell’ombra della morte.

D. 309. Che cosa chiediamo con la terza domanda: Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra?

R. Con la terza domanda: Sia fatta la tua volontà come in cielo cosi in terra, noi chiediamo che, a somiglianzadei beati tutti del cielo come delle anime delPurgatorio, anche gli uomini sulla terra facciano la volontàdi Dio, con tutto amore, sempre e in ogni cosa.

D. 310. Che cosa chiediamo con la quarta domanda: Dacci oggi il nostro pane quotidiano?

R. Con la quarta domanda: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, noi chiediamo che Dio ci elargisca sia ilpane spirituale, vale a dire quanto ènecessario alla vitaspirituale dell’anima, segnatamente il pane eucaristico,sia il pane corporale, vale a dire quanto è  richiesto alsostentamento del corpo.

D. 311. Che cosa chiediamo con la quinta domanda: E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ainostri debitori?

R. Con la quinta domanda: E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, noi chiediamoa Dio che quei peccati da noi commessi contro diLui e quelle pene da noi meritate per i nostri peccati,Egli ce li condoni, come noi stessi condoniamo ai nostrioffensori le offese da loro arrecateci (Matt., VI, 14, 15; XVIII, 35; Marco, XI, 25, 26; Luca, XI, 4).

D. 312. Che cosa chiediamo con la sesta domanda: E non c’indurre in tentazione?

R. Con la sesta domanda: E non c’indurre in tentazione, noi a Dio ricorriamo, consci della nostra debolezza,per pregarlo di liberarci dalle tentazioni, o per lomeno di concederci l’aiuto della sua grazia onde superarequelle tentazioni stesse.

D. 313. Perché permette Iddio che noi siamo tentati?

R. Dio permette che noi siamo tentati, per farci riconoscere la nostra debolezza, perché la nostra fedeltà venga messa alla prova, e infine perché col superare le tentazioni mercé la sua grazia, ci esercitiamo nella virtù e acquistiamo i meriti della vita eterna; mai però Iddio permette che veniamo tentati oltre il limite da noi sostenibile, con l’aiuto della sua grazia (Tob., XII, 13; Sap., III, 5; Paolo: Ia ad Cor., X, 13; Giac., I, 2, 14; 2a di Pietro, II, 9; Conc. di Tr., sess. VI, De justif., c. 11).

D. 314. Quali sono i rimedi più efficaci contro le tentazioni?

R. I rimedi più efficaci contro le tentazioni sono: la fuga delle occasioni, la meditazione dei Novissimi e l’uso frequente dei Sacramenti; nel momento stesso poi della tentazione: il segno della croce, l’umile invocazione dell’Angelo custode e soprattutto quella dei santissimi nomi di Gesù e della beata Vergine Maria (Prov., XVIII, 10; Matt., XVII, 20; XXVI, 41).

D. 315. Che cosa chiediamo con la settima domanda: Ma liberaci dal male?

R. Con la settima domanda: Ma liberaci dal male, noi chiediamo in primissimo luogo che Dio ci liberi dalmale spirituale, cioè dal peccato e, quindi, dal demonioche al peccato ci spinge, e in secondo luogo da ogni altromale, per lo meno da quelli che possono offrirci l’occasionedi peccare.

D. 316. Che cosa significa la parola Amen in fine dell’ultima domanda?

R. La parola Amen in fine dell’ultima domanda, significa: così sia, quanto sopra chiedemmo; il che sta anche a dimostrare la nostra fiducia nelle promesse di Dio.

Art. 2. — DELLA SALUTAZIONE ANGELICA.

D. 317. Perché all’orazione domenicale si suole aggiungere la salutazione angelica?

R. All’orazione domenicale si suole aggiungere la salutazione angelica allo scopo di impetrare più facilmente da Dio, mediante l’intercessione della beata Vergine Maria, quanto imploriamo nell’orazione domenicale.

D. 318. Di chi sono le parole: Ave, [Maria] piena di grazia, il Signore è teco, tu sei benedetta fra le donne?

R. Le parole: Ave, [Maria] piena di grazia, il Signore è teco, tu sei benedetta fra le donne, sono dell’ArcangeloGabriele annunziatile alla beata Vergine Maria il misterodell’Incarnazione; e perciò questa preghiera viendetta: salutazione angelica (Luca, I, 28).

D. 319. Che cosa facciamo quando recitiamo la salutazione angelica?

R. Quando recitiamo la salutazione angelica ci congratuliamo con la beata Vergine Maria per i singolari doni e privilegi di cui Dio l’ha colmata di preferenza a tutte le altre creature, e glorifichiamo Dio medesimo di aver tanto fatto per ella.

D. 320. Di chi sono e cosa significano le parole: Benedetto il frutto del ventre tuo?

R. Le parole: Benedetto il frutto del ventre tuo, sono di Santa Elisabetta quando riceveva, ospite in casa sua, la beata Vergine Maria, e significano che Cristo Signore, figlio della beata Vergine Maria, è su tutte le cose benedetto nei secoli (Luca, I, 28).

D. 321. Di chi sono le parole: Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori adesso e nell’ora della nostra morte, e che cosa domandiamo con esse?

R. Le parole: Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori adesso e nell’ora della nostra morte, sonostate aggiunte dalla Chiesa, e con esse chiediamo il patrociniodella beata Vergine Maria in tutte le nostre necessità,e specialmente nell’ora della nostra morte.

(La Chiesa orientale non ha questa seconda parte della salutazione angelica, ma alle parole angeliche aggiunge un’altra preghiera).

D. 322, La beata Vergine Maria, madre di Dio, è essa anche madre nostra?

R. La beata Vergine Maria, madre di Dio, è anche madre nostra in virtù di quell’adozione per la quale siamo fratelli del Figliuol suo; e ciò Gesù Cristo medesimo volle confermare nel morir sulla croce, quando alla beata Vergine Maria diede per figli tutti gli uomini, nella persona di S. Giovanni, dicendo: Donna, ecco il tuo figlio, Maria, aggiungendo: Ecco la madre tua (Giov.. XIX, 26, 27; Paolo: ad Rom., VIII, 29; Leone XIII: Enc. Adjutricem populi, 5 sett. 1895; Pio X: Enc. Ad illum diem, 2 feb. 1904; Benedetto XV: Epist. ad Sodal. Nostræ Dominæ a bona morte, 22 marzo 1918; Pio XI: Enc. Rerum Ecclesiæ, 28 febbr. 1926).

D. 323. Qual giovamento ottengono coloro che con tenera pietà onorano la beata Vergine Maria?

R. Coloro che con tenera pietà onorano la beata Vergine Maria ottengono questo giovamento importantissimo di essere dalla medesima riamati e protetti con particolare amore materno (S. Bernardo (Omelia II sul Missus est) inculca la pietà verso la beata Vergine Maria con le seguenti parole: « Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, pensa Maria, invoca Maria….; seguendola, non ti smarrisci; pregandola, non disperi; se ti sostiene, non ti abbatti; se ti protegge, non hai che temere; se ti guida, non ti stanchi; se ti è propizia, raggiungi la meta ». Tutte cose che potranno facilmente trovare la loro conferma negli esempi di cui v’è abbondanza nei libri di pietà.).

D. 324. Qual è la devozione più raccomandata dalla Chiesa verso la beata Vergine Maria?

R. La devozione più raccomandata dalla Chiesa verso la beata Vergine Maria è la recita del Santo Rosario.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (13)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (13)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXIX.

Si conferma quel che si è detto con alcuni esempi.

Nelle Cronache dell’Ordine di S. Domenico si racconta (Fr. Hernandus de Castil. 1 p., lib. 1, c. 60 Histor, Ordio. Praedicat.), che un Padre de’ primi dell’Ordine dopo essere stato nella Religione alcuni anni con grand’esempio di vita e con gran purità d’anima, non sentiva alcuna sorta di consolazione né di gusto negli esercizi della Religione, né meditando, né orando, né contemplando, né leggendo: e come sempre sentiva dire del favore che Dio faceva agli altri, e de’ sentimenti spirituali che quegli avevano, stava mezzo disperato; e come tale una notte, nell’orazione dinanzi ad un Crocefisso si pose a dire piangendo amaramente questi spropositi: Signore, io ho sempre creduto, che in bontà e in mansuetudine superi tutte le tue creature. Eccomi qui, che ti ho servito molti anni, e ho sopportate in grazia tua molte tribolazioni, e di buona voglia mi son sacrificato a te solo; e se la quarta parte del tempo che ho impiegato in servizio tuo l’avessi impiegata in servire un qualche tiranno, m’avrebbe egli mostrato oramai qualche segno di benevolenza, almeno con una buona parola, o con una buona ciera, o con un riso, e tu, Signore, non mi hai fatto carezza alcuna, né da te ho ricevuto pur il minor favore di quanti sii solito di fare agli altri; ed essendo tu l’istessa dolcezza, sei verso di me più duro che cento tiranni. Che cosa è questa, Signore? Perché vuoi che la cosa passi così? Stando egli in questo sentì subitamente un fracasso così grande, come se tutta la chiesa se ne fosse venuta in terra; e sopra di essa sentiva un sì formidabil rumore, come se migliaia di cani fossero stati facendo in pezzi il solaro e scompaginando i travi; del che spaventato, e tremando di paura, voltato il capo per veder quel che potesse essere, si vide alle spalle la più brutta e orribil visione del mondo, di un demonio che con una verga di ferro che tenea in mano gli diede si gran percossa nel corpo, che cadutone per terra non potè più alzarsi; gli bastò però l’animo d’andarsi strascinando sino ad un altare che era ivi vicino; senza potersi maneggiare per lo dolore, come se a furia di percosse gli avessero scongiunte le ossa. Quando i Frati si levarono per dir Prima, e lo trovarono come morto, senza saper la cagione di cosi subitaneo e mortai accidente, lo portarono all’infermeria, nella quale per tre settimane intere che vi stette con dolori grandissimi mandava fuori tanto grande e tanto fetente e stomachevole puzza, che in nessun modo potevano i Religiosi entrare a governarlo e servirlo, se non turandosi prima il naso e premunendosi con molti altri rimedi. Passato questo tempo riprese qualche poco di forze, e giunto a potersi tenere in piedi, volle risanarsi della sua pazza presunzione e superbia: e ritornato al luogo ove aveva commessa la colpa, cercò in quello il rimedio di essa, facendo con molte lagrime ed umiltà la sua orazione ben differente dalla passata. Confessava la sua colpa, si riconosceva indegno di bene alcuno, e molto meritevole di pena e di castigo. E il Signore lo consolò con una voce del cielo che gli disse: Se vuoi consolazioni e gusti, ti conviene esser umile, riconoscer la tua viltà, e persuaderti d’esser più vile che il fango, e meno stimabile che i vermi che calpesti co’ piedi. – E con questo rimase tanto avvertito ed instrutto, che per l’avvenire fu un perfettissimo Religioso. – Del nostro S. P. Ignazio leggiamo un altro esempio assai differente. Si narra nella Vita di lui (Lib. 5, c. 1 Vita F. N. S. Ignat.), che considerando i suoi mancamenti, e piangendoli, diceva di desiderare, che per castigo di essi il Signore gli togliesse a volta a volta il favore della sua consolazione, acciocché egli come riscosso da questa tirata di briglia imparasse a procedere con maggior sollecitudine e cautela nel suo servigio: ma che era tanto grande la misericordia di Dio e la moltitudine della soavità e dolcezza della sua grazia verso di lui, che quanto più egli mancava e più desiderava d’essere in tal maniera castigato, tanto era il Signore più benigno e con tanto maggior abbondanza spargeva sopra di lui i tesori della sua infinita liberalità. Onde diceva, che credeva non vi fosse uomo nel mondo in cui in ugual grado concorressero queste due cose come in lui, cioè mancar tanto con Dio, e ricever tante e così continue grazie da Dio. – Il Blosio racconta (Blos. c. 10 mon spir.) di un Servo di Dio, che il Signore gli faceva singolari favori, dandogli grandi illustrazioni e comunicandogli cose meravigliose nell’orazione: ed egli colla sua grande umiltà e desiderio di piacer più a Dio gli domandò, che quando così gli fosse più piaciuto gli avesse tolta quella grazia. Esaudì Dio la sua orazione, e gliela tolse per lo spazio di cinque anni, lasciandogli patir in essi molte tentazioni, aridità ed angustie: e mentre egli una volta stava piangendo amaramente, gli apparvero due Angeli per volerlo consolare, a’ quali rispose: Io non domando consolazione, perché mi basta per consolarmi, che s’adempisca in me la volontà di Dio. – Il medesimo Blosio narra (Idem ibid. c. 4), che Cristo nostro Redentore disse un dì a santa Brigida: Figliuola, che cosa è quella che ti turba e ti mette in fastidio? e ch’essa gli rispose: L’esser afflitta da pensieri vani, inutili e cattivi, e il non poterli scacciar via; e m’angustia grandemente il tuo spaventevole giudicio: e che allora il Signore le disse: Questa è convenevol giustizia; che siccome tempo fa ti dilettavi delle vanità del mondo contra la volontà mia; così ora ti siano molesti e penosi vari e perversi pensieri che ti vengono contra la tua. Hai però da temere il mio giudicio moderatamente e con discrezione, confidando sempre fermamente in me, che sono il tuo Dio: perché devi tenere per cosa certissima, che i cattivi pensieri a’ quali l’uomo resiste, e li ributta, sono purgatorio e corona dell’anima. Se non puoi impedirli, sopportali con pazienza e fa resistenza ad essi colla volontà: e quantunque non dii loro il consentimento, ad ogni modo abbi timore, che non ne nasca in te qualche superbia, e così tu venga a cadere: perché chiunque sta in piedi, è sostenuto solamente dalla mia grazia. – Il Taulero dice così (e l’apporta il Blosio (Taulerus apud Blos, oonsol. pusill.) nella consolazione de’ pusillanimi: Molti quando sono angustiati da qualche tribolazione mi soglion dire: Padre, son maltrattato; le cose non vanno bene per me, perché sono angustiato da diverse tribolazioni e da malinconia; e io rispondo a chi mi dice questo, che anzi le cose vanno bene per lui, e che gli è fatta gran grazia. Allora dicono essi: Signor no; anzi credo, che questo m’avviene per le mie colpe. Al che io replico: Avvenga questo per i tuoi peccati, o no; credi, che questa croce te l’ha data Dio; e ringraziandonelo, sopportala con pazienza e rassegnati tutto in lui. Dicono ancora: Io mi consumo interiormente per la grande aridità e tenebre; e io gli dico: Figliuol caro, sopporta con pazienza, e ti sarà fatta maggior grazia che se avessi molta e gran divozione sensibile. – Si racconta di un gran Servo di Dio che diceva così: Sono quarant’anni ch’io servo il Signore ed attendo all’orazione, e non ho mai avuti in essa gusti né consolazioni; ma in quel giorno che la fo, sento di poi in me gran lena per gli esercizi di virtù; e quando manco in questo, mi sento tanto infiacchito, che non posso alzar le ali per cosa alcuna di buono.

CAPO XXX.

Della conformità alla volontà di Dio che abbiamo d’avere circa la distribuzione delle altre virtù e doni soprannaturali.

Siccome abbiamo da essere conformi alla volontà di Dio, comunque Egli ci tratti nell’orazione; così ancora abbiamo da esser conformi alla medesima, comunque Egli ci tratti in tutte le altre virtù e doni suoi, e in tutte le altre prerogative spirituali. Buonissimo è il desiderio di tutte le virtù, il sospirar per esse, e il procurarle; ma talmente abbiamo da desiderar sempre d’esser migliori e di crescere e camminar avanti nella virtù, che ci diamo pace se non arriveremo a quello che desideriamo, e che ci conformiamo alla volontà di Dio, contentandoci di essa. Se Dio non vuole dare a te una castità angelica, ma vuole che in ciò tu patisca tentazioni gravi, è meglio che tu abbi pazienza e che ti conformi alla volontà di Dio in tale tentazione e travaglio, che non t’inquieti e ti lamenti di non avere quella purità angelica. Se Dio non ti vuol dare così profonda umiltà come ad un S. Francesco, né tanta mansuetudine quanta a Mosè e a Davide, né tanta pazienza quanta a Giob, ma vuole che tu senta movimenti e appetiti contrari; è bene che ti confonda e ti umilii, e che da ciò impari ad aver bassa stima di te; ma non è bene che t’inquieti e che ti vada lamentando e angosciando, per non farti Dio tanto paziente quanto Giob, né tanto umile quanto S. Francesco. Bisogna che ci conformiamo alla volontà di Dio anche in queste cose, perché altrimenti non avremo mai pace. Dice molto bene il padre maestro Avila (M. Avil. c. 23, Audi filia): Io non credo che vi sia stato alcuno tra’ Santi in questo mondo, che non abbia desiderato d’esser migliore di quello ch’era; ma questo non toglieva loro la pace, perché non lo desideravano per propria cupidigia la quale non dice mai basta; ma lo desideravano per amor di Dio, della cui distribuzione si tenevan contenti, ancorché avesse dato lor meno, riputando per contrassegno di vero amore il contentarsi più tosto di quello che Dio dava loro, che il desiderare d’aver molto, con tutto che l’amor proprio faccia dire, che ciò si desidera per servir maggiormente a Dio. Ma mi dirà alcuno, che par che questa sia un volerci dire, che non dobbiamo dunque riscaldarci tanto nel desiderare d’essere più virtuosi e migliori; ma che abbiamo da lasciar fare ogni cosa a Dio, sì quanto all’anima, come quanto al corpo: e così pare che questo sia un darci ansa di diventar tiepidi e lenti, e di non curarci niente di crescere e di camminar avanti. Notisi molto bene questo punto, perché è di grande importanza. È tanto buona questa replica e obbiezione, che questo solo è da temersi in questa materia. Non vi è dottrina quanto si voglia buona della quale non possa uno servirsi male, se non sa applicarla e usarla come si conviene: e così sarà di questa, tanto in quel che riguarda alle orazioni, quanto in quel che riguarda alle altre virtù e doni spirituali; per lo che sarà necessario, che la dichiariamo e l’intendiamo bene. Io non dico, che non abbiamo da desiderare d’esser ogni giorno più santi, e da procurar d’imitare sempre i migliori, e da esser in ciò diligenti e ferventi; che per questo siamo venuti alla Religione; e se non faremo questo, non saremo buoni Religiosi: ma dico, che in ciò abbiamo a procedere a proporzione, come nelle cose esteriori e che appartengono al corpo. In queste, come dicono i Santi, gli uomini hanno bensì ad essere diligenti, ma non ansiosi né soverchiamente solleciti; che questo, dicono essi, viene proibito da Cristo nostro Redentore con quelle parole registrate nell’Evangelio: Dico vobis: Ne solliciti sitis animæ vestræ, quid manducetis, neque corpori vestro, quid induamini (Matth. VI, 25); colle quali parole riprende la soverchia sollecitudine, l’ansia e l’affetto smoderato per queste cose; ma la cura competente e le diligenze necessarie nel procacciarle, non le proibisce né le condanna; anzi ce le comanda e ce le diede per penitenza, laddove disse al nostro primo Padre: In sudore vultus tui vesceris pane (2; Gen. III, 19): Bisogna che gli uominimettano la loro fatica e diligenza nel procurarsida mangiare; il far altrimenti sarebbe un tentar Dio. Ora allo stesso modo si ha da procedere nelle cose spirituali enel procurar le virtù ed i doni di Dio. Bisogna che siamo molto diligenti e solleciti in questo; ma non in maniera tale, che ci tolga la pace e la conformità alla volontà di Dio. Fa tu quello che puoi dal canto tuo: ma se con tutto ciò vedi che non giungi a conseguire tutto quello che vorresti, non hai per questo da lasciarti precipitare in una impazienza la quale sia maggior male che non è il mancamento di quella cosa di cui ti lagni: ed hai a far questo con tutto che ti paia che il mancamento di una tal cosa in te provenga dalla tua tiepidezza; che è quello che suol attristar molti. Procura tu di far moralmente le tue diligenze: e se non le farai tutte, e cadrai in qualche mancamento, non ti spaventare per questo, né ti perdere d’animo, che poco più, poco meno, così accade a tutti. Sei uomo, e non angelo; debole, e non santificato né confermato in grazia. Iddio conosce assai bene la nostra debolezza e miseria: Quoniam ipse cognovit figmentum nostrum (Psal. CII, 13); e non vuole che ci disperiamo per questo, perché ci veggiamo cadere in qualche difetto, ma che ci pentiamo subito ed umiliamo, e che subito ci leviamo su e domandiamo a Lui forza maggiore, procurando di mantenerci in quiete interiormente ed esteriormente (2 p., tract. 6, c. 3 per tot 2); che meglio è, che ti alzi su presto e con allegrezza la quale raddoppia le forze per servir Dio, che sul pretesto di andare piangendo i tuoi mancamenti nel servigio di Dio, venga così a dispiacere più a Lui, col servirlo male col cuore, con replicare altre cadute, e con altri tristi effetti che da ciò sogliono nascere. – Solamente è da temersi qui il pericolo che abbiamo di sopra accennato (Vide supra cap. 24 et seq.), che subentri in noi la tiepidezza, e che lasciamo di far quello che è dal canto nostro, sotto colore di dire: Dio me l’ha da dare; ogni cosa ha da venire dalla mano di Dio; io non posso più che tanto. E dall’istesso pericolo abbiamo da guardarci in quel che dicevamo dell’orazione, che né anche qui subentri la pigrizia sotto lo stesso colore: ma serrata questa porticella, e facendo tu moralmente quanto è dal canto tuo, piace più a Dio la pazienza e l’umiltà nelle debolezze, che coteste angustie e tristezze soverchie che hanno alcuni, per parer loro che non crescano tanto in virtù e perfezione, o che non si possano introdurre tanto nell’orazione, quanto essi vorrebbero. Perché questo dono dell’orazione e della perfezione non s’acquista per mezzo di tristezze, né col fare, come suol dirsi, a’ pugni; ma Dio lo dà a chi Egli vuole, come vuole e quando vuole; ed è cosa certa, che non hanno da essere tutti uguali quelli che hanno d’andare in cielo. Né abbiamo da disperarci noi altri, perché non siamo de’ migliori, né forse de’ mediocri; ma ci dobbiamo conformare alla volontà di Dio in ogni cosa, e ringraziare il Signore della speranza dataci d’averci a salvare per misericordia sua: e se non arriveremo ad essere senza mancamenti, ringraziamo Dio dell’averci Egli data la cognizione de’ mancamenti nostri; e giacché non andiamo in cielo per mezzo dell’altezza delle virtù, come ci vanno alcuni, contentiamoci d’andarvi per mezzo della cognizione e della penitenza de’ nostri peccati, come ci vanno molti altri. Dice S. Girolamo (D. Hier. in prologo Calcato): Offeriscano altri nel tempio del Signore, ciascuno secondo la possibilità sua, chi oro, chi argento e pietre preziose, chi sete, chi porpore e chi broccati; a me basta l’offerire nel tempio peli di capre e peli d’animali. Offeriscano dunque gli altri a Dio le loro virtù e opere eroiche ed eccellenti, e le loro alte ed elevate contemplazioni; che a me basta offerirgli la mia viltà, conoscendomi e confessandomi peccatore, imperfetto e cattivo, e presentandomi nel cospetto della Maestà sua come povero e bisognoso: e ci torna conto rallegrare in questo il nostro cuore, e renderlo gradito a Dio; acciocché non ci levi inoltre, come ad ingrati, quello che ci ha dato. S. Bonaventura, Gersone e altri (D. Bonav. op. de prof. Relig. lib l, c. 33; Gers. tract. De monte contempl.; Fr..barth.de Mart. Archiep. Brachar. in suo comp. p. 2, c. 15), aggiungono qui un punto col quale si conferma bene quel che s’è detto, e dicono, che molte persone servono più a Dio col non avere la virtù e il raccoglimento, e col desiderarli, che se gli avessero: perché con questo vivono in umiltà, e vanno con sollecitudine e diligenza procurando di camminar avanti e di giungere al termine sospirato, e perciò ricorrono spesso a Dio; e con quell’altro forse s’insuperbirebbero, e si trascurerebbero, e sarebbero tiepidi nel servizio di Dio, per parer loro d’aver già quello che faceva loro di bisogno, e non si animerebbero ad affaticarsi per conseguire qualche cosa di più. Questo ho detto acciocché facciamo noi altri moralmente quanto è dal canto nostro, e andiamo con diligenza e sollecitudine procurando la perfezione; e allora ci contentiamo di quello che dal Signore ci sarà dato, e non istiamo attristati e angosciati per quel che non possiamo conseguire, né sta in man nostra: perché questo, come dice molto bene il P. M. Avila (M. Avila, tom. 2 ep. f. 32), non sarebbe altro che star penando, perché non ci sono date ale da poter volare per l’aria.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (14)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “CUM ILLUD SEMPER”

Il Santo Padre Benedetto XIV, uno dei più dotti in assoluto tra i Pontefici Romani di Santa Madre Chiesa, fissa i punti che devono regolare la elezione a curato parrocchiale da parte dei Vescovi diocesani e le modalità per eventuali ricorsi da parte degli esclusi. La lettera è molto articolata ed atta a risolvere i cavilli giudiziari che possono sorgere tra vari candidati all’ufficio della cura delle anime. Tanta cura e attenzione da parte del Sommo Pontefice per una questione capitale nella conduzione di anime alla vita eterna, non è stata purtroppo corrisposta come c’era da augurarsi da parte di tutti gli Ordinari, fino a giungere poi all’investire della carica soggetti assolutamente indegni, per dottrina ed esempi di vita, di pascere un gregge attaccato con sempre maggiore accanimento da parte di lupi furiosi e sciacalli famelici di ogni risma, e addirittura a permettere l’infiltrazione di aderenti alle sette di perdizione, a marrani ipocriti, a viziosi manifesti, ad apostati ed eretici, che hanno poi condotto, come sappiamo, alla formazione di un laicato totalmente scristianizzato ed ignaro delle più elementari verità di fede indispensabili per ottenere l’eterna salvezza. Ben sapevano infatti i dirigenti delle sette di perdizione, i servi della bestia infiltrati nella Chiesa affettando santità e devozione apparente, che per rovinare l’operato della Chiesa a salvezza dei fedeli, bisognava modificare lentamente ma progressivamente i costumi e la dottrina delle nuove leve sacerdotali, specie nei seminari e negli ordini religiosi più coriacei, come ad esempio è avvenuto per i Domenicani ed i Gesuiti. Corrotto il pastore, disperso il gregge, è il solito adagio, oggi ancor più vero e calzante: cacciato il Pastore vero, se ne sono insediati due falsi che ubriacano e conducono il gregge allo stagno di fuoco con loro, i falsi profeti, la bestia ed il diavolo. Così li ha descritti San Giovanni Apostolo., e così sarà.


Benedetto XIV
Cum illud semper

La Chiesa Cattolica ha sempre paventato il pericolo che la cura delle anime e la custodia del gregge del Signore fossero affidate a persone indegne e senza benemerenze sacerdotali; perché l’organismo di tutta la famiglia vacilla, se ciò che si pretende dal corpo non si trova nel capo. Perciò con sanzioni canoniche e specialmente con i Decreti del sacro Concilio di Trento si è opportunamente provveduto a che il governo delle Chiese parrocchiali si dovesse affidare a coloro, la cui vita, dalla puerizia alla maturità, fosse trascorsa nel servizio ecclesiastico in modo tale che non fosse lecito dubitare della loro promozione rispetto agli altri, né del voto favorevole dato circa la loro dottrina, i costumi e una costante attività. A poco a poco è invalsa in molti la pregiudizievole opinione che i Decreti del Concilio di Trento prescrivono non di eleggere il più degno, ma solo di non affidare Chiese parrocchiali e altri Benefici che comportano la cura delle anime a persone indegne. Innocenzo XI di santa memoria, nostro Predecessore, condannò come erronea e troppo lontana dalla vera e sincera intenzione dei Padri Conciliari tale opinione e insegnò come si debba essere prudenti e diligenti nell’assegnare un ufficio pastorale.

1. Perciò in seguito alle indicazioni del Santo Sinodo è invalso l’uso che, quando è vacante una Chiesa parrocchiale che l’Ordinario deve liberamente assegnare, si faccia il concorso, in cui si indaghi su età, costumi, dottrina e capacità di ciascun concorrente; il Vescovo poi scelga chi giudicherà più idoneo degli altri.

2. Siccome, a volte, può accadere che o per interesse o per compiacenza o per un giudizio meno equo vengano preferiti i meno degni ai più degni, perciò, affinché non ci fosse nulla di irregolare e di non chiaro in tale elezione, Pio V di santa memoria, nostro Predecessore, con la pubblicazione di una Costituzione molto valida volle che gli ingiustamente respinti nel concorso potessero appellarsi al Metropolita o al Vescovo viciniore o, a volte, alla Sede Apostolica per sottoporre a un nuovo esame il prescelto e rivendicare, se ci fosse il diritto, con un nuovo esame di meriti la Chiesa non legalmente assegnata ad altri. E perché non ci fosse appiglio per un futile appello, nella Costituzione si è opportunamente disposto che al detto appello si deve ricorrere soltanto “in condizione devolutiva“, senza sospendere o in qualche modo ritardare al prescelto dal Vescovo il possesso della Chiesa.

3. Queste giustissime leggi, promulgate al fine di impedire che, in una cosa di così grande importanza, si preferissero gli ignoranti ai maestri, i nuovi arrivati agli anziani, gli inesperti agli esperti, sono state violate dalla frode e dalla malizia degli uomini: il rimedio è divenuto un’arma per gli esasperati. Molto spesso infatti i respinti dall’Ordinario, con il pretesto della Costituzione, erano soliti precipitarsi facilmente sull’alternativa dell’appello e con una ragione anche poco legittima provocare un nuovo esame agli eletti dal Vescovo. Li costringevano, dopo che avevano abbandonato la custodia del gregge e della Chiesa, a intraprendere lunghi viaggi, a sobbarcarsi a sacrifici di fatica interminabile, di tempo e di denaro e a sostenere la causa in seconda, in terza istanza e, a volte, anche oltre.

4. In verità è comprovato anche dall’esperienza che la lite si risolve poi con grave pregiudizio della giustizia. Infatti coloro che si erano sottoposti all’esame e, non conoscendo i legittimi ordinamenti, erano stati respinti nel primo concorso, in seguito, andando la lite per le lunghe, si dedicavano di proposito e con passione alle lettere, meritandosi così di essere preferiti agli altri; si adiravano anche fortemente contro il Vescovo, giudice sì di un’attitudine acquisita, ma non da acquisire, per essere stati ingiustamente respinti.

5. Da qui lamentele a non finire da parte di persone rispettabili e garanti della giustizia. Per placarle la Congregazione Interprete del Concilio di Trento mise ogni cura e diligenza e diede a Noi, che fungevamo da Segretario, l’incarico di tentare, secondo le nostre forze, con una disquisizione, data poi alle stampe, di esaminare a fondo questa faccenda, origine del presente male, e di cercare rimedi atti ad allontanarlo. Esponendo il nostro pensiero in merito, facemmo notare che soprattutto la prassi dell’esame fatto a voce e non consegnato per iscritto era viziata, appunto perché gli eletti alla cura delle anime dall’Ordinario Collatore, convocati a un secondo esame davanti a un altro giudice, non potevano difendere il diritto di legittima collazione con l’attestato certo che avevano di idoneità già provata. Tutta la faccenda sembrava dipendere dall’esito di un nuovo esame da farsi davanti a un giudice di appello del tutto ignaro dei fatti. Di conseguenza, con grave pregiudizio della giustizia, era stata accolta nel Foro [ecclesiastico] quella opinione, secondo la quale si poteva ricorrere ad un altro giudice senza esibire nessun documento della bocciatura non meritata. Tale metodo era troppo lontano dal senso dei sacri Canoni; perciò pensammo che si poteva ovviare a questo malcostume prima di tutto stabilendo una forma sicura e ben appropriata di esame, poi mettendo per iscritto i quesiti proposti agli esaminandi e le loro rispettive risposte, nonché tutta la serie dei fatti, e in fine rimettendo al giudice di appello gli atti integrali di tutto il concorso.

6. La norma da Noi proposta trovò non solo il consenso presso la Congregazione, che la approvò nella seduta del 16 novembre 1720, ma anche il giudizio positivo del Pontefice Clemente XI, esimio garante e assertore della disciplina ecclesiastica. E perché gli Ordinari mettessero in atto tali disposizioni con quella premura e quel filiale ossequio che meritano, esse furono opportunamente scritte di nostro pugno in forma di Lettera il giorno 10 gennaio 1721 e approvate con il consenso e con il responso dello stesso Pontefice. Il loro contenuto, anche se già dato alle stampe e inserito nel Bollario del citato Clemente, nostro Predecessore, abbiamo creduto bene di riportarlo qui.

7. Reverendissimo Signore come Fratello.

Affinché il governo delle Chiese parrocchiali fosse affidato a persone più degne, il santo Concilio di Trento nella sess. 24, cap. 18 stabilì – come è noto – che si indicesse e facesse il concorso, e che tra i concorrenti, una volta esaminati e approvati dal Vescovo o dal suo Vicario Generale e da almeno tre esaminatori, il Vescovo eleggesse colui che per età, costumi, dottrina, prudenza e altre doti necessarie e opportune al governo della Chiesa vacante, giudicasse più degno e più idoneo degli altri. Pio V, santissimo Pontefice di nome e di fatto, aggiunse che, nel caso in cui il Vescovo avesse eletto uno meno adatto posponendo altri più idonei, questi potevano ricorrere contro tale pregiudizievole elezione al Metropolita o, se l’elettore fosse lo stesso Metropolita o un esente, all’Ordinario più vicino come Delegato della Sede Apostolica, o altrimenti alla stessa Sede Apostolica, e convocare il prescelto a un nuovo esame davanti allo stesso giudice di appello e ai suoi esaminatori, con la cautela, però, che l’appello doveva essere non in condizione sospensiva, ma in condizione devolutiva, come è spiegato più ampiamente nella sua trentatreesima Costituzione. E concluse che, una volta constatato e revocato l’irragionevole giudizio dell’elettore, la Chiesa parrocchiale fosse affidata al più idoneo. – Quando poi né con decreto del Concilio né con Bolla del Pontefice si riuscisse a proporre un certo e particolare sistema o metodo di fare l’esame, è difficile a dirsi quante forme diverse di esami ci sarebbero e altre ancora in altre parti, e da qui occasione di querele. – Infatti in qualche parte, non essendo stati proposti a tutti i concorrenti gli stessi quesiti e gli stessi casi, c’erano sempre di quelli che, in sede o fuori sede, si lamentavano sostenendo che a loro, respinti, erano toccati i quesiti più difficili, mentre al prescelto i più facili. Altrove, invece, sono stati sì proposti gli stessi quesiti, ma né questi né le risposte dei concorrenti venivano consegnate per iscritto o per lettera. In seguito accadeva, e non raramente, che qualcuno dei respinti, in forza della sopraccitata Bolla, convocava l’eletto a un nuovo esame davanti al giudice di appello e ai suoi esaminatori. La Sacra Congregazione considerando che l’impugnativa non si può provare se non con un nuovo esame, stabilì fin dal 1603 che la convocazione per un nuovo esame deve essere accettata, anche se l’impugnativa non è ancora provata, perché le prove sono richieste solo nel successivo giudizio. In tale giudizio, dopo che è provata con il nuovo esame dell’appellante l’impugnativa circa la dottrina, rimane da provare la sua maggior capacità sul già prescelto circa le altre doti richieste per governare la Chiesa, e ciò per poter dare un giudizio sulla maggiore idoneità dell’uno o dell’altro a governare la Chiesa parrocchiale. Non sempre infatti il più dotto è ritenuto o deve essere ritenuto il più adatto o il più idoneo al governo. Gli autori della Sacra Congregazione e i Tribunali lodarono questa sentenza. Soltanto allora in altre Diocesi è invalso l’uso che fossero proposti a tutti i concorrenti gli stessi quesiti e casi (per non dare occasione al Cancelliere di aggiungere, togliere o mutare qualcosa di sua iniziativa) e che gli stessi concorrenti scrivessero di proprio pugno domande e risposte. Inoltre gli Ordinari che ritenevano questo metodo di esaminare come il migliore, lasciavano spesso alla Congregazione di vedere se, senza prima richiedere le prove dell’impugnativa, era o no il caso di accordare la convocazione dell’eletto per un nuovo esame a coloro che così esaminati e poi respinti, in seguito sogliono ricorrere in appello: perché questi dagli atti del primo esame potevano facilmente provare l’impugnativa circa la dottrina; cosa che gli altri, esaminati con metodo diverso, naturalmente non potevano fare se non con un secondo o un nuovo esame. Né mancarono uomini insigni per onestà ed esperienza in una lunga e lodevole amministrazione delle Chiese, i quali facevano notare che era ora di mettere un freno alla licenza degli appellanti e di moderare le già troppo frequenti convocazioni a un nuovo esame, che non si fanno quasi mai senza grave danno delle Chiese. Infatti quando si deve fare un nuovo esame davanti a un giudice di appello molto lontano dalla parrocchia, l’eletto dal Vescovo, in quanto convocato, è costretto per tutto quel tempo ad abbandonare la parrocchia e a lasciarla a un Economo o a un Vicario, come una sposa a degli sconosciuti, mentre lui, lo sposo, se ne starebbe lontano non momentaneamente, ma per molto tempo; perché la lite di solito è complessa e gli esami prima circa l’eccellenza della dottrina, poi circa le altre qualità atte a integrare l’idoneità, si moltiplicano puntigliosamente gli uni sugli altri, tre o quattro alla volta, e si trascinano a lungo con comodo, per non dire con ozio, prima di decidere a chi dei concorrenti aggiudicare la parrocchia.

Per togliere di mezzo l’occasione sia di lamentele sia di disagi, la Sacra Congregazione Interprete del Concilio di Trento, dopo aver ripassato dall’inizio tutta la faccenda in due sessioni, il 1° ottobre e il 16 novembre del 1720, ha ribadito con forza (ciò che vien messo in atto per mezzo della presente Lettera Enciclica) che tutti e singoli Vescovi e gli altri Prelati che hanno il diritto e l’autorità di fare concorsi, sono esortati a non rifiutarsi a istituire tale esame, come già lo fanno molte Diocesi e la stessa Roma; così lo richiede anche la Dataria Apostolica quando, vacante la Sede, è vacante anche qualche Chiesa parrocchiale, la cui assegnazione spetta alla Sede Apostolica, o quando è vacante una qualche parrocchia “iuxta Decretum”, come si dice, o quando infine, vacante una qualche Dignità maggiore nelle Chiese Collegiali o Cattedrali, alla quale è annessa la cura delle anime, si deve fare un concorso che, come è noto, deve essere rimesso alla Dataria Apostolica, come è chiaramente prescritto nelle Lettere che per ordine del Santissimo provengono appunto dalla Dataria.Pertanto, vacante una Chiesa parrocchiale che deve essere assegnata per concorso indetto con le solite formule, per decreto della Sacra Congregazione si osservi con risoluta decisione quanto segue:

Primo: si assegnino a tutti i concorrenti gli stessi quesiti e casi e lo stesso testo del Vangelo sul quale comporre un piccolo brano di predica, per dimostrare la capacità di parlare davanti a un’assemblea.

Secondo: i casi e i quesiti da risolvere siano dettati a tutti nello stesso tempo e a tutti ugualmente sia consegnato nello stesso tempo il testo del Vangelo.

Terzo: si stabilisca per tutti lo stesso spazio di tempo entro il quale risolvere i casi, rispondere ai quesiti e comporre il discorsetto.

Quarto: tutti i concorrenti siano chiusi nella stessa stanza, da cui, finché scriveranno (si darà infatti a tutti la possibilità di scrivere), nessuno di loro possa uscire né altri entrarvi, se non dopo aver completato e consegnato lo scritto.

Quinto: tutti, ciascuno con la propria mano, scrivano e firmino le risposte e il discorso.

Sesto: le risposte si scrivano in latino, il discorso nella lingua che si suole usare con il popolo.

Settimo: ogni risposta e ogni discorso, quando verranno presentati da uno dei concorrenti, siano firmati non solo da chi ha scritto e dal Cancelliere del concorso, ma anche dagli esaminatori e dall’Ordinario o dal suo Vicario che interverranno al concorso.

Terminato il concorso secondo questa formula e assegnata la Chiesa parrocchiale a chi sarà giudicato più idoneo e più degno, non si ammetta appello o contro una inesatta relazione degli esaminatori o contro un irragionevole giudizio del Vescovo, a meno che non venga interposto entro dieci giorni dal giorno dell’assegnazione.

Se qualcuno poi ricorrerà in appello entro questo spazio di tempo e chiederà che siano mandati al giudice di appello gli atti del concorso, si mandino o gli stessi atti originali del concorso chiusi e sigillati o almeno una copia autentica preparata dal Cancelliere del concorso e da un secondo notaio e ascoltata davanti al Vicario o ad un altro costituito in dignità ecclesiastica, eletto dall’Ordinario e al quale spetterà anche l’elezione del notaio aggiunto al Cancelliere. La copia sarà firmata dagli esaminatori sinodali che furono presenti al concorso.

Chi, esaminato secondo quanto è stato detto prima, dopo aver interposto l’appello contro l’inesatta relazione degli esaminatori o contro un ingiustificato giudizio del Vescovo, non riuscirà da questi atti o dalla loro autentica copia a provare se non l’impugnativa circa la dottrina, inutilmente chiederà alla Sacra Congregazione la facoltà di procedere a un nuovo esame.

Come pure inutilmente cercherà di perseguire il proprio diritto nel giudizio d’appello chi si lamenta di essere contestato quanto alle altre doti, a meno che, dopo aver interposto a tempo opportuno, come è stato detto, l’appello contro l’irragionevole giudizio del Vescovo, non riuscirà a dimostrare dagli atti del primo concorso o almeno con testimonianze e documenti extragiudiziali, purché non futili, l’impugnativa circa le altre doti.

Così ritenne la Sacra Congregazione e il Santissimo approvò. Ma se qualche Ordinario, nonostante tutto, continuerà a istituire gli esami diversamente da come è stato detto sopra, anche la Sacra Congregazione continuerà secondo la precedente consuetudine a concedere agli appellanti che si diranno contestati la convocazione a un nuovo esame e senza dover prima provare l’impugnativa. Intanto perché il ricordo di questa Lettera non svanisca, la Sacra Congregazione vuole che essa sia sempre conservata nella Cancelleria di ciascun Ordinario. Mentre notifico a tutti la decisa volontà della Sacra Congregazione, invoco sulla tua Eccellenza ogni bene dal cielo. Roma, oggi 10 gennaio 1721.

Della tua Eccellenza

Come Fratello

P.M. Card. Corradino Prefetto

P. Lambertini Segretario

8. Quanto abbia giovato la salutare istituzione delle leggi sopraddette nell’assegnare rettamente gli uffici ecclesiastici, nell’amministrazione della giustizia, nel comporrei dissidi, nel mantenere i Chierici nel loro ministero, lo abbiamo sperimentato più che a sufficienza quando personalmente abbiamo abbracciato con paterno amore la nostra Sposa, la Chiesa di Ancona prima, e poi quella di Bologna. Appunto perché forti dell’aiuto di queste leggi, abbiamo preposto alle parrocchie e alla cura delle anime i più degni. E ciò accadde, con la benedizione del Signore, con così grande consenso delle anime, che nessuno si è mai lamentato che il premio di un posto più elevato sia stato dato a una persona meno degna o il governo di una Chiesa sia stato ingiustamente affidato ad altri.

9. Ma siccome da certi indizi sappiamo che non così è capitato ad altri Vescovi, ché anzi non mancano coloro che, sviati da privati interessi, presumono spesso di evitare e confutare il giudizio episcopale, Noi solleciti di adempiere, come si deve, da parte Nostra al Nostro ufficio, pensammo di dover aggiungere alcune cose alla sopraccitata Lettera e spiegare più chiaramente altre che vi sono poste come tra le righe e in conciso, perché tutto si svolga rettamente e con ordine.

10. Con dispiacere dunque abbiamo sentito che in molte Diocesi, benché sia stata accolta la lodevole consuetudine, che va custodita con fermezza, di redigere per iscritto l’esame dei concorrenti, tuttavia i voti degli esaminatori sono puntati solo sulla bravura letteraria e non si cerca il loro parere circa l’età, formazione, gravità, bontà di costumi, prudenza dei Chierici, circa gli uffici prima svolti e se, infine, siano in grado di aiutare con le parole e con l’esempio le proprie pecore. Quanto sia lontana questa prassi dalla via indicata dal Concilio di Trento, lo capirà chiaramente chi pondererà le seguenti parole: “Fatto l’esame, siano notificati quanti sono stati da loro giudicati idonei per costumi, dottrina, prudenza e per altre doti opportune per governare la Chiesa vacante” (Conc. Trid., sess. 18, cap. 24, De Reformatione). Essendo bene al corrente di ciò, la Sacra Congregazione Interprete dello stesso Concilio, dichiarò più volte che gli esaminatori mancano al loro dovere se sono solo giudici di dottrina e non indagano quali fra gli altri sono idonei e raccomandabili per bontà di costumi, laboriosità, ossequio verso la Chiesa e per altre doti necessarie nel loro insieme a esercitare l’ufficio di parroco.

11. Terminato l’esame, come è noto a tutti, gli esaminatori hanno soltanto la facoltà di notificare quanti hanno giudicato idonei a governare la Chiesa, perché l’elezione del più degno è riservata al solo Vescovo, come è stato sancito dal Concilio di Trento con queste parole: “Di questi il Vescovo elegga colui che giudicherà più idoneo degli altri“. Nel caso che qualcuno dei Chierici ricorra in appello contro una inesatta relazione degli esaminatori, la cui unica preoccupazione è stata di assodare la dottrina, senza aver fatto nello stesso tempo un’accurata indagine sulle altre doti necessarie all’ufficio di Pastore, l’ordine del giudizio comporterà di conseguenza che anche il giudice, a cui si è ricorso, si fermi alla sola indagine sulla dottrina; che non senza grave danno delle anime e offesa della giustizia, sia preposto alla Chiesa chi sa di lettere, anche se nel resto è meno adatto e, a volte, indegno; e che, viceversa, sia respinto chi, anche se scadente in dottrina, eccelle, però, in costumi, gravità, prudenza, nel buon nome, in un costante servizio della Chiesa e in grande stima di virtù.

12. Inoltre non sembrasi sia fatta molta strada per estirpare gli abusi, quand’anche tanto il Vescovo, come gli esaminatori, con eguale sollecitudine abbiano messo ogni sforzo nell’assegnare con parere unanime la Chiesa a una persona che, anche se inferiore ad altri per scienza e lettere, si distingue però per il complesso di tutte le altre doti. Infatti il respinto, fidandosi troppo della propria dottrina, non di rado prima ricorre in appello contro l’irragionevole giudizio del Vescovo, poi, dopo aver deferito la causa al giudice di appello, si dà tutto ad acquisire ancor più dottrina e a ribattere l’impugnativa di letterato, senza mai dar alcun peso alle altre doti che si desiderano nell’appellante. I vigilanti Pastori delle Chiese deplorano moltissimo il risultato di tale appello e soffrono nel loro intimo che il governo delle parrocchie sia affidato, come è stato detto, a pastori dotti, non a pastori adatti.

13. Ma quand’anche il giudice di appello desse (cosa che avviene raramente) tanta importanza alla scienza quanto basta, e con maggiore e più accurato esame volesse indagare sui costumi, sulla gravità, sulla prudenza delle persone, sui loro esempi di virtù e infine su tutta la loro vita precedente, se adatta a pascere il gregge, l’appellante gli presenta tante di quelle attestazioni raccolte a bella posta, che il giudice, revocando come irragionevole il giudizio del Vescovo, non teme di dare una mano all’appellante, sorretto da tanti e così ragguardevoli attestati di probità.

14. Infine spesso capita specialmente ai Vescovi che, posti come sono in alto, conoscono le trasgressioni dei sudditi, di vedere che nel concorso gli esaminatori dichiarano idoneo per scienza e per costumi chi è profondamente segnato da marchio di vizio o di crimine, ignoto a tutti eccetto che al Vescovo. Se il Vescovo, per giusto motivo, senza rivelare il crimine, elegge un altro di buona condotta, trascurando in silenzio il colpevole, questi subito con simulata impugnativa si appella a un giudice superiore ignaro del crimine; così, con il solito espediente dell’appello, viene innalzato alla dignità pastorale chi è in grado non di aver cura del popolo, ma di nuocergli, non di garantire il governo, ma di peggiorarlo.

15. Perché dunque uomini di animo cattivo non trasformino il rimedio dell’appello istituito per difendere la giustizia in un mezzo di difesa dell’iniquità, ad alcuni forse sembrerebbe ottima cosa abolire ogni appello e lasciare la cura di designare i Rettori delle anime solo ai Vescovi, che renderebbero conto del loro operato solo a Cristo giudice. In verità non possiamo assolutamente approvare questa tesi (che sarebbe contraria alla mente del Concilio di Trento) che tacitamente permette l’appello “in devolutivo” contro l’inesatta relazione degli esaminatori, come sembrano indicare quelle parole: “Nessuna devoluzione e nessun appello interposti anche alla Sede Apostolica, o ai Legati della stessa Sede, Vice Legati o Nunzi, o ai Vescovi, Metropoliti, Primati o Patriarchi, possono mai sospendere o impedire che la relazione dei predetti esaminatori abbia il suo corso“.

Con tale decisione è d’accordo anche la Costituzione Piana, che ammette l’appello “in devolutivo” contro l’irragionevole giudizio del Vescovo.

16. Perciò, affinché in questo affare tutto proceda rettamente e ordinatamente, pensammo che è proprio del Nostro Ufficio, Venerabili Fratelli, prescrivere quelle norme che per lunga esperienza abbiamo riconosciute valide a formare i Rettori delle anime, perché possano presiedere e giovare al gregge loro affidato.

I. Il Vescovo, avuta la notizia di una Chiesa vacante, vi deputi subito un Vicario idoneo secondo il prescritto del Tridentino, con una congrua assegnazione, a sua discrezione, di una parte dei proventi per il sostentamento della Chiesa finché non le si provveda un Rettore.

II. Si divulghi con bando pubblico la notizia del concorso, che deve essere celebrato in un congruo spazio di tempo, stabilito dal Vescovo. Nel bando si avvertano tutti e chiaramente di presentare, nel termine stabilito, al Cancelliere Vescovile o ad un altro da designarsi dal Vescovo prove, attestazioni giudiziali ed extragiudiziali e altri documenti del genere immuni da frode. Diversamente, trascorso il termine stabilito, tali documenti e altri del genere, non saranno in nessun modo accettati.

III. Arrivato il giorno del concorso, si mettano per iscritto e in compendio, redatti dal Cancelliere, i meriti, le doti e i requisiti (come li chiamano) dei singoli, desunti con assoluta fedeltà dai certificati presentati in tempo utile. Poi una copia del compendio sarà consegnata non solo al Vescovo o al Vicario Generale che ne fa le veci, ma singolarmente a tutti gli esaminatori invitati al concorso, perché diano il loro giudizio sia sulla scienza, sia sulla vita, costumi e altre doti necessarie a governare la Chiesa.

IV. Il concorso si tenga nel giorno stabilito dal Vescovo, osservando accuratamente e in tutto la forma descritta nella Lettera sopra riferita e pubblicata nel 1721; e si esponga minutamente e con diligenza e per iscritto tutta la serie degli atti del concorso. Poi gli esaminatori, per arrivare a un giudizio abbastanza sicuro e chiaro, valutino diligentemente la bravura dei singoli nello svolgere e spiegare a voce qualche punto della Dottrina ecclesiastica, o estratto dai SS. Padri, o dal Sacro Concilio di Trento, o dal Catechismo Romano; e con la stessa diligenza esaminino dai singoli scritti le risposte date ai quesiti proposti; si rendano conto di quanto ciascuno valga nella ponderatezza dei giudizi e nella correttezza di espressione del sermoncino messo per iscritto, e di come è stato adattato al testo evangelico e all’altro tema assegnato. Pari, se non maggiore, accortezza usino gli esaminatori nell’indagare sulle altre qualità necessarie al governo delle anime; indaghino sulla bontà dei costumi, sulla serietà, sulla prudenza, sull’ossequio fino allora prestato alla Chiesa, sul merito acquisito in altri incarichi e sul corredo di tante altre virtù che vanno strettamente congiunte con la dottrina. Dopo aver esaminato tutto in comune, respingano con il loro voto gli inadatti e notifichino al Vescovo gli idonei.

V. Terminato il concorso, il Vescovo, o se egli è impedito, il Vicario Generale insieme con gli esaminatori sinodali, in numero non meno di tre, consegni la scheda, distribuita in antecedenza, riassuntiva dei requisiti, al Cancelliere perché la bruci o la custodisca in un luogo segreto insieme con gli atti e non la mostri a nessuno senza un mandato del Vescovo o del suo Vicario Generale. Subito dopo l’Ordinario, appena gli sembrerà meglio, elegga tra gli approvati il più degno e il possesso [della Chiesa] non gli sia ritardato da nessun pretesto di appello o di divieto.

VI. Se accadrà che qualcuno dei Chierici ricorra in appello contro l’inesatta relazione degli esaminatori o contro l’irragionevole giudizio del Vescovo, produca davanti al giudice di appello gli atti integrali del concorso. E il giudice non pronunci la sentenza se non dopo averli visti e aver ravvisato l’impugnativa. Inoltre, nel dare la sentenza e nel risolvere l’impugnativa si basi solo sulle prove che risultano dagli atti, sia riguardo alla dottrina, sia riguardo ad altre doti. Siccome poi dalla pubblica indizione [del concorso] fino al giorno del concorso c’è tempo sufficiente per presentare comodamente i necessari certificati, referenze, requisiti e altri documenti in merito, perciò, per precludere ogni via di frode, vogliamo e rigorosamente ordiniamo che detti certificati, referenze, attestati giudiziali ed extragiudiziali e tutti i documenti recuperati ad arte e, come si dice, pescati dopo il concorso, non vengano in nessun modo presi in considerazione. Ciò, nonostante la Lettera ricordata sopra, pubblicata dalla Sacra Congregazione Interprete del Concilio di Trento nel 1721, alla quale deroghiamo in questa parte ad effetto di ciò che è stato premesso, e la quale nel resto e con tutto il suo contenuto rimarrà saldamente in vigore.

VII. Se poi il Vescovo, invece che a uno o ad un altro degli approvati, assegnerà la Chiesa a uno più idoneo per una ragione a lui solo nota, e che pensa di dover notificare al giudice di appello per togliere la taccia di una ingiusta preferenza, ne informi il giudice con una lettera privata, ricordando la legge del segreto inviolabile. Nessuno attribuisca questa prassi alla nostra circospezione: essa deriva da Decreti del Concilio di Trento. Infatti nella sess. 24, cap. 20, “De Reformatione” è così stabilito: “Inoltre se qualcuno, nei casi previsti dal diritto, ricorrerà in appello, o si rammaricherà per qualche impugnativa o altrimenti per la scadenza del biennio, di cui sopra, ricorrerà ad un altro giudice, è tenuto a trasferire al giudice di appello e a sue spese tutti gli atti svoltisi davanti al Vescovo, Avvertendo tuttavia prima il Vescovo che se qualcosa gli sembrerà utile per l’istruzione della causa, la possa notificare al giudice di appello” (Conc. Trid., sess. 24, cap. 20).

E benché a ragione Noi dobbiamo temere che detta prassi una volta in uso di avvertire il giudice, a cui si è appellato, sia oggi caduta in disuso e scomparsa dal Foro [ecclesiastico], tuttavia, se il Vescovo (come è stato detto) per una ragione a lui solo nota e non agli altri, ma che merita di essere accolta, avrà assegnato la Chiesa, denunci e manifesti la ragione al giudice di appello per mezzo di lettera consegnata in segreto. Sappiano poi i giudici che le cause e le ragioni deferite dal Vescovo devono essere custodite sotto garanzia di segreto inviolabile; né si deve tenere in poco conto la testimonianza di quel Pastore, al quale con parola divina si ingiunge di distinguere le proprie pecore. Infatti non si può credere facilmente che i Vescovi siano così non curanti della propria e altrui salvezza, da lasciarsi influenzare dall’avversione o dal favore, per nulla atterriti dalla minaccia del divino giudizio, e da chiamare, in sfregio ai sacri Canoni, “male il bene, bene il male, tenebre la luce e luce le tenebre.

Se poi il Vescovo avrà dei sospetti sulla coscienziosità del giudice al quale si è ricorso in appello, e penserà di non dovergli rivelare i punti riservati delle ragioni, li notifichi per mezzo di lettera segreta al Cardinale della S.R.C., Prefetto pro tempore della Congregazione del Concilio, al quale non mancheranno né saggezza né autorità per indurre il giudice a dare il dovuto posto alla giustizia.

17. Siccome è conveniente anche per l’equità portare a termine nel più breve tempo possibile le cause di appello che con grande scapito e danno della Chiesa sono a volte interminabili, perciò, quando è stata proferita dal giudice di appello una sentenza del tutto conforme alla preelezione fatta dal Vescovo, non si dia altra possibilità di un nuovo ricorso in appello, ma si intervenga d’autorità a por fine alla controversia. Se invece il giudice di appello si pronunciasse diversamente dall’Ordinario, sia lecito al preeletto dal Vescovo che perse la causa, ricorrere ad un altro giudice, mantenendo intanto il possesso della Chiesa parrocchiale. Finalmente, dopo che anche il terzo giudice avrà detto la sentenza, affinché le parti non siano gravate oltre il limite di fatiche e di spese, soprattutto perché si tratta della cura di anime, per la quale è dannoso non avere il conforto di un Pastore fisso, abbia il legittimo diritto di governare la Chiesa colui che ha a suo favore due sentenze, e non si lasci all’eliminato nessuna possibilità di un nuovo ricorso in appello.

18. In verità con queste norme, benché l’appello non sia stato abolito, pensiamo si sia sufficientemente provveduto alla disciplina ecclesiastica. Rimane una cosa sola: che cioè i mezzi fin qui proposti siano debitamente messi in atto, e che a tal fine gli Ordinari dei Luoghi non lascino desiderare la loro vigilanza. Sarebbe inammissibile che ogni giorno venissero deferite nuove querele all’udienza del nostro Ufficio Apostolico e che, per togliere gli abusi, si invocassero nuove leggi da coloro che trascurano e disprezzano quelle che già ci sono.

19. Infine, siccome e non di rado è la Sede Apostolica a conferire Chiese parrocchiali, Dignità, Canonicati e altri Benefici a cui è annessa la cura delle anime, o perché sono rimasti vacanti nei mesi riservati, o perché per altro motivo sono stati riservati alla detta Sede, Noi, sulle orme dei Nostri Predecessori, prescriviamo e ordiniamo che in un caso o nell’altro il concorso sia indetto dal Vescovo senza distinzione alcuna, e senza bisogno di alcun permesso o licenza, e i Vescovi sappiano che è loro stata data con questa nostra Lettera.

20. Terminato il concorso, se si tratta di Benefici Curati, “che sono riservati solo per ragione di mesi“, il Vescovo elegga tra gli approvati il più idoneo e lo comunichi alla Dataria senza trasmettere gli atti, a meno che la Dataria non giudichi opportuno richiederli. Se invece i detti Benefici a cui è annessa la cura delle anime sono riservati alla Santa Sede per altro motivo che non sia quello “dei mesi apostolici“, in questo caso, senza cambiare il vecchio uso, il Vescovo si astenga dal pronunciare il giudizio del più degno e presenti spontaneamente alla Dataria gli atti del concorso.

21. Sarà lecito tuttavia agli Ordinari, a loro arbitrio, con lettere indirizzate al Datario notificargli la persona che giudicano più idonea a governare la Chiesa, e avvertirlo se ci fosse qualche motivo occulto, e giustamente taciuto negli atti, che sia di impedimento a qualcuno di ottenere un Beneficio Curato. Noi stessi in seguito da questa Sede, Guida e Maestra di tutti, insegneremo con un luminoso esempio come si deve stimare il giudizio episcopale e come onorare Voi, chiamati a far parte della Nostra sollecitudine, Venerabili Fratelli, ai quali intanto impartiamo con grande affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 14 dicembre 1742, terzo anno del Nostro Pontificato.