IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (15)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (15)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

Delle virtù.

D. 509. Che cos’è la virtù?

R. La virtù è un abito, ossia una disposizione costante che inclina l’uomo a fare il bene e ad evitare il male.

D. 510. Di quante specie è la virtù?

R. La virtù, quanto all’oggetto, è duplice, l’una teologica, l’altra morale.

SEZIONE l a . — Delle virtù teologiche.

Art. 1. — DELLE VIRTÙ TEOLOGICHE IN GENERALE.

D. 511. Che cos’è la virtù teologica?

R. La virtù teologica è una virtù il cui oggetto immediato è Dio in quanto fine soprannaturale, e che a tal fine direttamente ordina l’uomo (S. Tom., la 2æ, q. 62, a. 1, 2).

D. 512. Quante sono le virtù teologiche?

R. Le virtù teologiche sono tre: la fede, la speranza e la carità.

D. 513. Possono le virtù teologiche essere acquistate mediante atti naturali?

R. Le virtù teologiche non possono essere acquistate mediante atti puramente naturali, perché sono per natura loro soprannaturali, e tali perciò che soltanto Dio le può infondere insieme alla grazia santificante (Giov., VI, 44; XV, 5; Paolo: ad Rom., V, 5; 2a ad Cor., III , 5; ad Philipp., I , 29).

D. 514. Quand’è che vengono infuse nell’uomo le virtù teologiche?

R. Le virtù teologiche vengono infuse nell’uomo nell’atto stesso della giustificazione, acquisita in una con la remissione dei peccati, o mediante il sacramento del Battesimo, o mediante l’atto di contrizione col voto del Sacramento (Paolo: ad Rom., V, 2; V i l i , 24; Ia ad Cor., XIII, 13; Ia ad Thess., I, 3; ad Hebr., XI, 6; l a di Giov., IV, 15, 19; Conc. di Tr., sess. VI, c. 7; Clemente V : Const. De summa Trinitate, nel Conc. di Vienna; S. Policarpo. Epist. ad Philippenses, 3; S. Giov. Cris. : In Act. Apost., XL, 2; Cat. p. parr., p. II, c. II, n. 50, 51).

D. 515. Le virtù teologiche sono necessarie alla salvezza?

R. Le virtù teologiche sono assolutamente necessarie alla salvezza perché senza di esse né l’intelletto né la volontà possono rettamente indirizzarsi al fine soprannaturale

(Marco, XVI, 16; Giov., IV, 15-20; Atti, V i l i , 37; X , 43; Paolo: ad Rom., V, 2; VIII, 24; ad Hebr., XI, 6).

D. 516. Qual è fra le virtù teologiche la più eccellente?

R. La più eccellente fra le virtù teologiche è la carità, che è perfezione della legge, e tale che non cessa nemmeno in cielo (Matt., XXII, 35-40; Giov., XIII, 14; XIV, 21, 23; Paolo: ad Rom., XIII, 10; I a ad Cor., XIII, 1-13; ad Coloss., III, 14; Giac, II, 8; Benedetto XII: Const. Benedictus Deus, 29 giug. 1336; S. Clemente Rom.: Epist. ad Cor., I , 49; S. Tom., 2a 2æ, q. 23, a. 6, 7).

D. 517. Quand’è che siamo tenuti a emettere atti di fede, di speranza e di carità?

R. Spesso nella vita siamo tenuti a emettere, per lo meno implicitamente, atti di fede, di speranza e di carità, specie quando, raggiunto l’uso di ragione, si sia pervenuti ad una conoscenza sufficiente della-rivelazione divina, e sopratutto, poi, ogni qualvolta che il dovere da compiere o la tentazione da vincere esigono tali atti, come anche in pericolo di morte (Aless. VII: prop. 1 tra le condann., 24 sett. 1665; Inn. XI: prop, 6, 7, 16, 17 condann., 2 marzo 1679).

Art. 2. — DELLE VIRTÙ TEOLOGICHE IN PARTICOLARE.

A) – Della fede.

D. 518. Che cos’è la fede?

R. La fede è una virtù soprannaturale mediante la quale, con la divina grazia che ispira e aiuta, noi crediamo per vero quanto Dio ha rivelato e ci ha insegnato per mezzo della Chiesa; e ciò, non a motivo dell’intrinseca verità delle cose considerata col naturale lume di ragione, ma a motivo dell’autorità medesima di Dio rivelante, che non può né errare né ingannare (Paolo: Ia ad Cor., II, 5, 7-13; ad Hebr., XI, 1; ad Rom., X, 14-17; Conc. Vat.: Const. Dei Filius, cap. 3; S. Leone M.: Sermo XXVII, 1; S. Giov. Cris.: In Matth., LXXXII, 4).

D. 519. Dobbiamo noi credere tutte le verità rivelate?

R. Dobbiamo credere, per lo meno implicitamente, tutte le verità rivelate, per es. : Credo tutto ciò che Dio ha rivelato e che la Chiesa propone da credere, o più in breve: credo tutto ciò che crede la Santa Madre Chiesa; esplicitamente, poi, dobbiamo credere all’esistenza di Dio e al suo carattere di rimuneratore, come pure ai misteri della santissima Trinità, dell’Incarnazione e della Redenzione,

(Matt., XXVIII, 19; Giov, III, 15, 18, 36; XVII, 3; XX, 31; Paolo: ad Hebr., XI, 6; Inn. XI, prop. 22 e 64 tra le condann., col Dec. d. S. Congr. S. Uffizio, 2 marzo 1679 ; Decr. Del S. Uffizio 25 genn. 1703. — Credere queste verità è alla salvezza necessario di necessità — come suol dirsi — di mezzo, mentre credere le altre verità è necessario di necessità di precetto; ora, dicesi necessaria di necessità di mezzo quella cosa senza la quale, ne fosse pure incolpevole l’omissione, non si può raggiungere il fine; necessaria di necessità di precetto è, invece, quella cosa la cui incolpevole omissione non impedisce di raggiungere il fine. Da questi concetti risulta che quanto è necessario di necessità di mezzo, lo è ugualmente di necessità di precetto.).

D. 520. Può la fede essere contro la ragione?

R. Per quanto la fede sia al disopra della ragione, in nessun modo essa è contro la ragione, né tra fede e ragione può mai darsi un’opposizione vera e propria (Conc. Vat.: Const. Dei Filius).

D. 521. Perché tra fede e ragione non può mai darsi un’opposizione vera e propria?

R. Tra fede e ragione non può mai darsi un’opposizione vera e propria, perché quel Dio che rivela i misteri e infonde la fede, è quello medesimo che all’anima umana detta l’interno lume della ragione; ora Dio non può negare sé stesso, né il vero può mai contradire al vero (Conc. Vat, 1. c.; Pio IX: Encicl. Qui pluribus, 9 nov. 1846).

D. 522. Possono la fede e la ragione aiutarsi a vicenda?

R. La fede e la ragione possono aiutarsi a vicenda in quanto, mentre la retta ragione dimostra i fondamenti della fede, e rischiarata dalla luce di questa, coltiva la scienza delle cose divine; la fede, da parte sua, libera e difende la ragione dagli errori, non senza arricchirla anche di molteplici cognizioni (Conc. Lat., V, sess. VIII; Conc. Vat., 1. c.).

D. 523. Quand’è che dobbiamo esternamente professare la fede?

R. Dobbiamo esternamente professare la fede ogni qual volta il nostro silenzio, il nostro tergiversare o il nostro modo di agire, venissero ad equivalere ad un’implicita negazione della fede, ad un atto di disprezzo della religione, ad un’ingiuria contro Dio o ad uno scandalo per il prossimo (Paolo: ad Rom., X, 20; 2a ad Tim., II, 12; Cod. D. C , can. 1325.).

D. 524. In qual maniera manifestiamo noi la fede?

R. Noi manifestiamo la fede, confessandola con la parola e le opere, e qualora le circostanze lo esigessero, anche col sacrificio della vita (Paolo: ad Rom., X, 9, 10; ad Galat., V, 6; Giac, II, 18, 21.).

D. 525. Come si perde la fede?

R. La fede si perde con l’apostasia o l’eresia, quando, cioè, il battezzato venga a respingere sia tutte, sia alcune verità della fede, o a revocarle in dubbio con atto deliberato.

D. 526. Oltre gli apostati e gli eretici, vi sono altri che peccano contro la fede?

R. Oltre gli apostati e gli eretici peccano contro la fede:

1° il non battezzato che respinga la fede pur sufficientemente proposta al suo intelletto;

2° chiunque trascuri di procurarsi una istruzione religiosa sufficiente, proporzionatamente alla propria età e al proprio stato; »

3° chiunque professi errori dalla Chiesa proscritti e che più o meno si avvicinano all’eretica pravità;

4° chiunque volontariamente si esponga al pericolo di recedere dalla fede, per es. colui che senza la dovuta licenza e cautela legge libri dalla Chiesa proibiti, specie quando abbiano per autori apostati, eretici, scismatici, scritti con lo scopo di propugnare l’apostasia, l’eresia o lo scisma (Cod. D. C., san. 2318, § 1).

B) – Della speranza.

D. 527. Che cos’è la speranza?

R. La speranza è una virtù soprannaturale mediante la quale, in virtù dei meriti di Gesù Cristo, sicuri della bontà, onnipotenza e fedeltà di Dio, noi aspettiamo la vita eterna e quelle grazie necessarie a conseguirla che Dio ha promesso a coloro che compiranno opere buone (Giov, VI, 40; Paolo: ad Rom., V, 2; VIII, 24; 2a ad Cor., V, 2; ad Coloss., I, 23, 27; ad Tit., I, 2; ad Hebr., III, 6; Benedetto XII: Const. Benedictus Deus, 29 giug. 1336; S. Giov. Cris.: In Epist. ad Rom., XIV, 6.).

D. 528. In qual maniera manifestiamo noi la speranza?

R. Noi manifestiamo la speranza non solo con le labbra, ma anche con le opere, quando, intimamente animati dalla fiducia nelle divine promesse, pazientemente sopportiamo le asprezze e i dolori della vita e financo le persecuzioni (Paolo: ad Rom., VIII, 17, 18, 23-25; I a ad Cor., IX, 25; 2a ad Cor., I, 7; IV, 8-18; VII, 1).

D. 529. In qual maniera si perde la speranza?

R. Si perde la speranza sia col peccato di disperazione sia con quello di presunzione, sia con quegli stessi peccati che fanno perdere la fede (Gen., IV, 13; Matt., III, 9; XIX, 25, 26; XXVII, 5; Atti, I , 16-19, 26).

D. 530. Che cos’è la disperazione?

R. La disperazione è la volontaria e deliberata sfiducia di ottenere da Dio l’eterna beatitudine e i mezzi che vi conducono.

D. 531. Che cos’è la presunzione?

R. La presunzione è la temeraria fiducia di poter conseguire l’eterna beatitudine senza la grazia o senza le buone opere.

C) – Della carità.

D. 532. Che cos’è la carità?

R. La carità è una virtù soprannaturale con la quale amiamo al disopra di ogni cosa Dio per se stesso, e per amor di Dio noi medesimi e il prossimo (Matt, XXII, 37-39; l a di Giov, III, 17, 18; IV, 20, 21. — La presente definizione della carità può essere ulteriormente chiarita come segue. La carità vien detta virtù soprannaturale, perché con questa carità noi amiamo Dio in quanto conosciuto non solo mediante le forze naturali, ma mediante aiuti dallo stesso Dio infusi. Con la quale noi amiamo Dio: l’oggetto primario della carità è quindi Dio. Al disopra di ogni cosa: poiché la nostra volontà si porta verso il bene, e Dio essendo il bene al disopra di tutti i beni, al disopra di tutti Egli è amabile. Per se stesso: vale a dire a causa della sua intrinseca bontà; l’oggetto formale, ossia il motivo della carità è, quindi, la stessa infinita bontà di Dio. D’altra parte, dato che amare qualcuno per sé stesso è amore di benevolenza, che Dio a sua volta ci ama di tale amore di benevolenza, e che un mutuo amore di benevolenza è amicizia, ne consegue che la carità è una specie di amicizia dell’uomo con Dio (S. Tom, 2a 2æ, q. 23, a. I). E noi medesimi e il prossimo: quindi siamo noi stessi e il prossimo l’oggetto secondario della carità. Per amor di Dio: e difatti chi ama qualcuno di amore di benevolenza, estende il suo amore a coloro che costui ama; se noi, quindi, amiamo noi medesimi e il prossimo, gli è perché amiamo Dio, e che Dio ama noi e il prossimo; in virtù di quella stessa carità noi desideriamo per noi stessi ed il prossimo ciò che Dio medesimo ci desidera, cioè la grazia in questa vita presente e la gloria del Paradiso in quella futura.

D. 533. In qual maniera dobbiamo innanzi tutto provare il nostro amore a Dio?

R. Dobbiamo innanzi tutto provare il nostro amore a Dio con l’osservare i suoi comandamenti (Giov, XV, 15, 21, 23; l a di Giov, V, 3; S. Greg. M.: In Evangelia, II, 30, 1, 2).

D. 534. In qual maniera possiamo inoltre provare il nostro amore a Dio?

R. Possiamo inoltre provare il nostro amore a Dio con opere non comandate, ma a Dio accette, e chiamate supererogatorie.

D. 535. Come si perde la carità verso Dio?

R. Si perde la carità verso Dio col peccato mortale, qualunque esso sia; ma, perduta in seguito a peccato mortale la grazia, non perciò si vien sempre a perdere la fede e la speranza (Giac, II, 10, 11; l a di Giov, III, 6, 8, 9; Paolo: la ad Cor., XIII, 1-3; Giac, II, 14, 17, 24; la di Giov, III, 15-18: Conc. di Tr, sess. VI, cap. 15, can. 27, 28; S. Tom, 2a 2æ, q. 24. a. 12. ).

D. 536. In qual maniera dobbiamo noi amare noi stessi?

R. Dobbiamo amare noi stessi col cercare in ogni cosa la gloria di Dio e la nostra eterna salvezza.

D. 537. In qual maniera dobbiamo noi amare il prossimo?

R. Dobbiamo amare il prossimo con atti sia interni che esterni, cioè col perdonare le offese, coll’evitare d’inferirgli danno od ingiuria o scandalo, e infine col soccorrerlo secondo le nostre forze nelle sue necessità, soprattutto mediante le opere di misericordia spirituale e corporale (Inn. XI: prop. 10, 11 tra le condann. dalla Congr. d. S. Ufficio, 2 marzo 1679. )

D. 538. Quali sono le opere di misericordia spirituale?

R. Le opere di misericordia spirituale sono:

1° consigliare i dubbiosi;

2° insegnare agl’ignoranti;

3° ammonire i peccatori;

4° consolare gli afflitti;

5° perdonare le offese;

6° sopportare pazientemente le persone moleste;

7° pregare Iddio per i vivi e per i morti (II Macc, XII, 46; Matt, X, 10; Luca, X, 26 e segg.; Paolo: ad Rom., XII, 12-27; ad Galat., VI, 1, 2; ad Eph., IV, 1, 2, 32; VI, 18; ad Coloss., IV, 2; Ia ad Thess., V, 14-17; I a ad Tim., II, 1, 2; Giac, V, 19, 20).

D. 539. Quali sono le opere di misericordia corporale?

R. Le opere di misericordia corporale sono:

1° dar da mangiare agli affamati;

2° dar da bere agli assetati;

3° vestire gl’ignudi;

4° alloggiare i pellegrini;

5° visitare gl’infermi;

6° visitare i carcerati ;

7° seppellire i morti (Toh, IV, 1-12; XII, 12; Eccli, VII, 39; Is, LVIII, 7; Ezech, XVIII, 7, 16; Matt, XXV, 35-45; Paolo: ad Hebr., XIII, 2, 16; Giac, 1,27).

D. 540. La carità con la quale dobbiamo amare il prossimo abbraccia anche i nemici?

R. La carità con la quale dobbiamo amare il prossimo abbraccia anche i nemici, perché essi sono pure prossimi nostri e perché Dio stesso ci ha dato di questo amore e il comandamento e l’esempio (Matt, V, 44; Luca, VI, 27, 35; XXIII, 34; Atti, VII, 59; Paolo: ad Rom., XII, 20; Cat. p. parr, p. III, c. VI, n. 18 e segg.).

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (16)

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (46) – LA VERA E LA FALSA FEDE – I-

LA VERA E LA FALSA FEDE -I-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI

OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

Ubi est qui natus est rex Judeorum? Vidimus enim stellam ejus, et venimus adorare aum.

(Matth. II)

INTRODUZIONE.

§I. – L’uomo non ha da sé inventata la verità, ma l’ha ricevuta da Dio per via di rivelazione e di fede. Due bei passi della Scrittura che lo attestano, ed argomentazione di S. Tomaso che lo dimostra. Al medesimo modo furono istruiti i Magi che avendo perciò conosciuti senza errore e con un’intera certezza i misteri di Gesù Cristo, figurarono gli altri due caratteri dell’insegnamento della fede: la sua VERITÀ e la sua CERTEZZA. Argomento e divisione della presente lettura.

Uno de’ più turpi delirj, spacciato con una intrepidezza di spropositare senza esempio da filosofi materialisti, e che, avendo menato gran rumore nello scorso secolo, ha un eco debole sì, ma pur reale ancora nel nostro, si è questo appunto: che l’uomo non è debitore che a se stesso della cognizione e del possesso della verità. Poiché, gettato, dicono, dalla natura sopra la terra, ovvero dalle viscere della terra uscito non si sa come, non fu in origine che un bruto, anzi il più ignobile e il più vile de’ bruti, senza altro fine che il grugnire, senza altra intelligenza che l’istinto di disputare al suo simile la vita corporea, senz’altra dimora che un covacciolo, senz’altre armi che le unghie, senz’altro alimento che le ghiande; e coi soli suoi sforzi seppe quindi uscire da questo stato di degradazione e di avvilimento, trovare i principj generali e formare la sua intelligenza, inventare il linguaggio e parlare, indovinare il diritto e le leggi, e sottomettervisi, e dalla condizione di muta bestia elevarsi all’altezza ed alla dignità d’uomo. Cioè a dire che seppe ragionare prima di aver l’uso della ragione, e parlare prima di aver l’uso della parola; poiché la ragione era necessaria per inventar la ragione, come Rousseau ha osservato che la parola era necessaria all’uomo per potere combinarsi coi suoi simili ad inventare la parola. – Ma gli epicurei moderni non hanno nemmeno il tristo vanto dell’invenzione di queste sconce ed orribili stravaganze, avendole servilmente copiate dagli antichi. Giacché Orazio, che non arrossiva di chiamarsi PORCO DEL GREGGE DI EPICURO, Epicuri de grege porcum, erano già diciotto secoli che aveva detto: — Cum prorepserunt primis ammalia terris — Multum et turpe pecus glandem atque cubilia propter — Unguibus et pugnis… pugnabant… — Donec verba quibus voces, sensusque nolarent— nominaque invenere; dehinc ubsistere bello — Oppida cœperunt munire, et funere leges — Ne quis fur esset neu latro, neu quis adulter … — Jura inventa metu injusti fateare necesse est (Sat. 3, lib. -1). In faccia a queste ignobili bestemmie di uomini degradati, discesi per la lascivia sino al bruto in pena di essersi voluti sollevare sino a Dio per l’orgoglio, quanto è bello l’udire gli oracoli santi delle Scritture, in cui il Dio Creatore dell’uomo ne ha Egli stesso descritta e rivelata la nobile istoria! Perché vi si dice: Dio ha creato l’uomo dalla terra, ed ha tratta dal suo stesso corpo la donna, perché gli fosse compagna della vita, come gli era simile nella natura. Deus de terra creavit hominem, et creavit ex ipso adjutorium simile sibi. Dio diede ad entrambi l’uso perfetto de’ sensi: sicché poterono subito e pensare e volere e intendere ed amare e manifestò loro il male per fuggirlo, ed il bene per abbracciarlo: Et linguam et aures et cor dedit illis excogitandi, et disciplina intellectus replevit illos. Creavit illis scientiam spiritus; sensu implevit cor illorum, et mala et bona ostendit illis. Degnossi ancora questo Dio di ammirare amorosamente il loro cuore, per sollevarlo sino a lui: rivelò loro la magnificenza divina delle sue opere, e loro insegnò a. render culto al suo Nome, non solo perché potente, ma ancora. perché santo, e a non gloriarsi in loro stessi, ma in Lui, come fattura meravigliosa delle sue mani, ed a trasmettere ai loro figliuoli i prodigi della creazione del mondo: Posuit oculum suum super corda illorum, ostendere illis magnalia operum suorum, ut nomen significationis collaudent et gloriari in mirabilibus illius. et magnalia enarrent operum ejtis. Finalmente gli ammaestrò nella maniera di condursi, dando loro la legge della vita ch’essi dovevano tramandare ai loro discendenti come in eredità. Strinse con loro,mediante la sua grazia, un’alleanza eterna, fece loro conoscere la santità de’ suoi comandamenti e la severità dei suoi giudizj: Addidit illis disciplinam, et legem vitæ hæreditvit illos. Testamentum æternum constituit cum illis, et justitiam et judicia ostendit illis (Eccli. XVII).Quanto dire che Dio stesso è stato non solo il primo padre, ma altresì il primo maestro dell’uomo, e dopo avergli data la vita corporea coll’avergli l’anima intasa, gli diede ancor la vita intellettuale, rivelandogli  ogni verità: vita nobile, preziosa, divina. Imperciocché siccome noi non amiamo il bene se non per un riflesso della divina volontà nel nostro cuore, così non conosciamo il bene che per un riflesso dell’intelligenza di Dio nella nostra mente; il quale, come dice leggiadramente s. Tommaso, rimirando noi, che ha creato a sua immagine in ciascuno di noi in certo modo si ripete, come uno stesso volto si ripete, come uno stesso volto vedesi ripetuto in tutti quanti i pezzi d’uno specchio infranto: Sinìcut apparent multæ faciesin speculo fracto. Quando dunque la Scrittura ci dice che l’uomo uscì dalle mani del Creatore ANIMA VIVENTE, et factus est in animam viventem (Gen. II), è chiarissimo che intende avvertirci che l’uomo da quell’istante incominciò a vivere non solo vita naturale per l’unione del corpo coll’anima, ma ancora della vita intellettuale per l’unione dell’anima colla verità. Giacché come un corpo senz’anima non è un essere vivente nell’ordine fisico, così nell’ordine intellettuale, non può dirsi anima vivente uno spirito tenebroso ed oscuro privo d’ogni verità. Come dunque l’Artefice divino infuse l’anima nel corpo del primo uomo, così la verità altresì rivelò ed infuse nella sua anima; sicché sin dal primo momento l’uomo incominciò a vivere della doppia vita che gli è propria, e divenne tra i corpi animati un corpo vivente ed un’anima vivente tra gli esseri intelligenti: Et factus est in animam viventem. Di questo gran fatto della rivelazione primitiva, di cui la Scrittura ci attesta la verità, il gran S. Tommaso ci ha data la ragione e le prove; poiché ecco come si esprime nel suo egregio trattato o questione DELLA SCIENZA DEL PRIMO UOMO (Quæst. disp.).Adamo, nell’istante medesimo in cui fu creato, dovette avere la scienza delle cose naturali non solo nel suo principio, ma ancora nel suo termine: perché fu formato daDio per esser padre di tutto il genere umano: ed i figliuoli devono ricevere dal padre non solo l’essere per mezzo della generazione, ma ancora la norma del vivere per mezzo dell’istruzione: Adam, in principio sua cenditionis, non solium oportuit ut haberet naturalium cognitionem quantum ad suum principium, sed quantum ad terminum, eo quod ipse condebatur ut pater totius generis immani. A patre fllii accipere debelli non soluta esse per generationem, sed disciplinata per instructionem. Dovette adunque trovarsi per ogni parte perfetto; e rispetto al corpo in modo da poter subito generare, e rispetto alla mente in modo da potereancora subito insegnare come primo e grande institutore di tutti gli uomini: Oportuit in ipsa sui conditione constitui in termino perfectionis, et quantum ad corpus, ut esset conveniens principium generationis, et quantum ad cognitionem, ut esset sufficiens cognitionis principium, in quantum erat totius generis humani instructor. Perciò siccome rispetto al corpo, non conobbe la debolezza dell’infanzia, così non provò le tenebre dell’ignoranza rispetto alla mente: ma ottenne egli in un istante ciò che noi acquistiamo col crescere degli anni, ricevette dall’operazione divina ciò che noi riceviamo dall’educazione umana; un corpo perfetto ed una mente rivestita dell’intero uso della ragione e mirabilmente illuminata: Sicut in corpore ejus nihil erat non explicitum in actu quod pertineret ad perfectionem corporis…. hoc etiam oportuit quod intelleclus ejus non esset in sui principio sicul tabula non scripta, sed haberet plenum notitiam ex divina operatione. Imperocché sarebbe stato contro la perfezione che doveva avere il primo degli uomini, se fosse stato creato senza la pienezza della scienza, ma avesse dovuto andare a grande stento imparandola per mezzo de’ sensi: Erat contra perfectionem qua primo homini debebatur, ut conderetur sine plenitudine scientiæ, solummodo a sensibus scientiam accepturus. Ma, oltre la cognizione naturale, soggiunge pure S. Tommaso, Adamo ricevette ancora la cognizione della grazia: In Adam duplex fuit cognitio, naturalis et gratiæ; in quantoche, non solo conobbe subito tutte le cose naturali, alle quali si può estendere l’intelletto umano coll’ajuto de’ primi principj, ma ancora conobbe per una graziosa rivelazione di Dio molte cose soprannaturali, cui sola non può giungere la ragione umana: Scivit etiam inulta ad qua vis primorum principiorum non se extendit; sed ad hæc aliqualiter cognoscendo adjuvabatur alia cognitione, qua est cognitio gratiæ. Con questa differenza però che le cose naturali le conosceva in tutta la loro ampiezza e in tutte le loro più remote conseguenze, come collocato nel termine della cognizione naturale perfetta: ma siccome questo termine di cognizione perfetta riguardo alle cose soprannaturali e divine non si può ottenere che nella visione della gloria, alla quale Adamo non era per anco arrivato, cosi non conosceva di queste cose se non quel tanto che Dio si degnava di rivelargliene: Sed in hac cognitione (gratiæ) non instituebatur  quasi im termino perfectionis ipsius existens: quia terminus gratuitæ cognitionis non est nisi in visione gloriæ, ad quam ipse nondum pervenerat, et ideo hujusmodi omnia non conoscebat, sed quantum de his sibi divinitus revelabatur. – Siccome per ciò solo per rivelazione conosceva Adamo le cose soprannaturali e divine, e non le credeva che sull’autorità della parola di Dio, così Adamo sin dal primo momento ebbe ancora infusa ed esercitò la fede: Adam in primo statu fidem habuit. E poiché la fede si riceve in due maniere diverse, o per mezzo dell’udito interiore per quelli che la ricevono i primi onde trasmetterla agli altri, come furono i Profeti e gli Apostoli, o per mezzo dell’udito corporeo per quelli che la ricevono in seguito, come sono stati tutti quanti i fedeli che furono istruiti dagli Apostoli e dai loro successori; così Adamo, avendo ricevuto la fede in qualità di principale, per poterla agli altri insegnare, ed essendone stato ammaestrato dallo stesso Dio, ebbe la divina rivelazione per mezzo dell’interna elocuzione, onde Dio parlò direttamente al suo cuore: Per auditum interiorem in his quid fidem primo acceperunt el docuerunt, sicut in Apostolis et Prophetis: per secundum vero auditum fides oritur in cordibus aliorum fidelium. Adam autem PRIMO fidem habuit, et primo est fidem edoctus a Deo: et ideo per internata elocutionem fidem habere debuit. – Ecco adunque sin dal principio del mondo praticata e stabilita da Dio col primo uomo la maniera propria onde gli uomini devono conoscere con certezza la verità, alimento evita dell’intelligenza, cioè per via di rivelazione e di fede.E poiché gli uomini, pel loro orgoglio e per la loro corruzione, avean col tempo smarrita la certezza e la verità, Quóniam diminuire sunt veritates a filiis hominum (Psal. XI, 2),cosi Iddio, dopo avere per quattromila anni in tanti e si varj modi parlato al mondo per mezzo de’ patriarchi e dei Profeti, cui della verità avea confidato il deposito, e che perciò la Scrittura chiama i BANDITORI DELLA GIUSTIZIA. Justitiæ præcones (II Petr. 2), finalmente nella pienezza dei tempi si è degnato di manifestare la sua verità per la bocca del suo stesso Figliuolo: Multifariam multisque modis olim loquens Deus patribus in Profetis, novissime autem locutus est in Filio (Hebr. I ). Ma coll’avere Iddio cambiato il personaggio che c’istruisca non ha cambiato, ma rinnovato e perfezionato il mezzo dell’istruzione. Come dunque Adamo ed Eva, primizie dell’umanità, furono per via di fede ammaestrati dal Dio Creatore, così per via di fede ancora furono dal Dio Redentore ammaestrati i santi re Magi, primizie del Cristianesimo. E come Adamo ed Eva, per mezzo della rivelazione conobbero senza errore e senza dubbiezza la religione primitiva, così i Magi, per Io stesso mezzo conobbero essi pure senza errore e senza dubbiezza la Religione cristiana; giacché la bella confessione che fecero in Gerosolima dicendo: « È nato il re de’ Giudei, o il Messia, e noi siamo venuti ad adorarlo, …Natus est rex Judæorum, et venimus adorare cum, » e i doni ch’essi offrirono in Betlemme, l’oro, l’incenso e la mirra, Obtulerunt ei munera, aurum, thus el myhrram, indicano chiaramente non solo la prontezza e l’uniformità della loro istruzione, ma ancora la purezza e la solidità della lor fede ne’ misteri del Dio Salvatore. Ma noi l’abbiamo veduto: i Magi furono i nostri precursori e i nostri rappresentanti nella Religione del Messia; perciò i pregi e i caratteri della loro istruzione e della loro fede furono pegno e figura de’ pregi e de’ caratteri della nostra: cioè a dire ch’essi, coll’averli sperimentati in se stessi, annunziarono e predissero a noi loro successori quattro grandi vantaggi; i quattro grandi caratteri, cioè, la facilità, l’universalità, la veracità e la certezza dell’insegnamento della fede. E poiché dei primi due caratteri di questo insegnamento si è trattato nella passata lettura, tratteremo degli altri due nella presente. A tale effetto vedremo da prima che la fede de’ Magi fu pura e sincera senza mescolanza di errore, perché frutto non delle loro private ricerche ma della rivelazione divina, e che, per mezzo dell’insegnamento della vera Chiesa, pura e sincera e senza mescolanza di errore, absque errore, è ancora la nostra fede. In secondo luogo cogli esempi degli antichi filosofi e de’ principali eretici dimostreremo come, al contrario, la via del privato giudizio conduce a turpissimi errori, e quanto noi saremmo infelici se fossimo privi dell’insegnamento della Chiesa. In terzo luogo, passando a parlare della certezza della fede de’ Magi e indicatine i tre motivi che la produssero. 1.° un’autorità divina; 2.° una rivelazione uniforme; 3.” una grazia superiore, dimostreremo che il Cattolico, trovando i medesimi motivi nell’insegnamento della Chiesa, la sua fede è altresì certa, solida e costante: Absque dubitatione, fixa certitudine. In quarto luogo finalmente proveremo come la via dell’inquisizione particolare, escludendo i tre indicati motivi di certezza, fuori della vera Chiesa non produce certezza alcuna di fede; ma una varietà infinita, un’anarchia di opinioni, che conduce all’indifferenza, al disprezzo di ogni verità, di ogni culto, di ogni virtù, che degrada e rende l’uomo infelice nel tempo e nell’eternità. Cioè a dire che procureremo di penetrare nella profondità del cuore, e ne’ secreti della mente tanto del Cattolico quanto dell’eretico: opporremo l’uno all’altro; ne noteremo le disposizioni contrarie rispetto alla fede, alla virtù, alla vera felicità; e senza stare à discutere sopra i domini, col quadro solamente delle bellezze della fede, opposte alle deformità della eresia, ne faremo col divino ajuto risultare la verità. – Questa è dunque la parte più importante del nostro libro, che domanda maggiore attenzione.

PARTE PRIMA.

§ II. – S’incomincia a tratture del terzo carattere dell’insegnamento della fede, la sua VERITÀ. I Magi conobbero e credettero Dio uno e trino, Gesù Cristo vero Dio, vero uomo e salvatore degli uomini, e i principali doveri del Cristiano. La loro fede fu pura, sincera, scevra di errore, perché frutto non delle ricerche della loro ragione, ma della rivelazione divina. I veri figli della Chiesa conoscono e credono colla stessa sincerità e purezza le medesime verità.

Il terzo carattere adunque proprio dell’insegnamento della vera fede si è, come si è veduto (Lett. V, § 1), di essere puro, sincero, veridico, senza mescolanza alcuna di errore, absque errore, come parla S. Tommaso; e di contenere tutta la verità, e di essere esso stesso tutto verità. Or tale appunto si fu l’ammaestramento de’ Magi: e però la loro fede fu pura e sincera, senza la menoma ombra di fallacia e di errore. Tutto ciò che essi conobbero per la rivelazione divina che ricevettero fu verità; ed essi ebbero, come si è più volte osservato, le idee più chiare, più precise e più giuste di tutte le verità che formano la base del Cristianesimo. – La prima di queste verità, fondamento e sorgente di tutte le altre, è il gran mistero di un Dio, un Dio uno nella natura e trino nelle Persone. Or questa grande, sublime ed incomprensibile verità i Magi, dice S. Ilario arelatense, la conobbero, come quindi noi tutti l’abbiamo conosciuta. Giacché nell’aver voluto offrire tre doni, oro, incenso e mirra, indicarono di conoscere la trinità delle Persone; e l’unità della natura nella trinità delle Persone mostrarono di credere col volere questi doni offrire ad un solo: Quid aliud Magi expresserunt muneribus, nisi fidem nostram? In eo enim quod tria offerentur trinitàs intelligitur: in eo vero quod tres UNI in trinitate unitas declaratur (Epiph., Homil. 1). E per sempre meglio dichiarare la cognizione che aveano di questo grande mistero, il dottissimo Drutmaro sull’appoggio della tradizione, afferma che i Magi non divisero i doni da offrire in modo che uno presentasse l’oro, l’altro l’incenso e il terzo la mirra, ma ciascun di loro recò l’oro, l’incenso e la mirra da offrire; manifestando così ciascuno in se stesso, con un segno visibile, la fede della Trinità nell’unità, che avean ricevuta nel cuore: Credimus quia, quod corde crediderunt, muneribus ostenderunt, et unusquisque trio oblulerit (in 2 Matth.). Lo stesso afferma l’Emisseno: i Magi, coll’avere ciascuno offerto tre doni, chiarissimamente dimostrarono la loro fede nella Trinità; Quod unusquisque trio miniera oblulit, fidem Trinitatis apertissime demonstrarunt (in 2 Matth.). Aggiunge anzi che, se avessero voluto ciascuno offrire doni più o meno di tre, non avrebbero mostrato esteriormente di conoscere l’unità e la trinità di Dio e di avere la vera fede cattolica di sì grande mistero: Quod unusquisque tria miniera obtuìit. Trinitatis fidem apertissime demonstrarunt: si enim vel plus vel minus offerrent, fidem catholicam non tenerent (ibid.). Il secondo mistero principale della cristiana Religione si è l’incarnazione e la morte di Gesù Cristo Salvatore degli uomini. Or questo mistero ancora conobbero i Magi colla stessa precisione e chiarezza con cui noi lo conosciamo buon conto, entrati appena in Gerusalemme, si mettono a gridare per tutte le vie, a domandare a tutte le persone:« Dov’è il re de’ Giudei che di già è nato? Venerunt Hierosolymam dicentes: Ubi est qui natus est rex Judæorum? »Non si contentano di chiederne ai laici, ma si rivolgono ancora ai sacerdoti; né si limitano ad interrogare il popolo, né ricercano ancora dal monarca. E notate, dice S. Pier Crisologo, questo re de’ Giudei o Messia non cercano i Magi in un personaggio di età matura, collocato in un magnifico trono, circondato dagli omaggi del popolo, terribile per le sue armi, potente pe’ suoi eserciti, rispettabile per la sua porpora, risplendente per la sua corona: Requirebant autem non grandævum humanis oculis, in excelsa sede conspicuum, exercitibus pontentem, armis terrentem, purpurea nitentem, diademate refulgentem. Noi ricercano nemmeno dopoché crocifisso trionfò colla sua croce, risorse da morte a vita, salì glorioso al più alto de’ cieli: Vel de cruce sibi exsultantem, vel ab inferis resurgentem, aut in cælos ascendentem.Cercano il re de’ Giudei in un bambino nato di fresco, qui natus est; che trema in una culla; che pende dalle poppe materne; che non ha nulla che gli concili l’ammirazione e il rispetto degli uomini, non ornamento alcuno della persona, non alcuna forza nelle sue membra: ma debole e meschino, senza titoli, senza autorità, non solo per la piccolezza della sua età, ma per la povertà ancora de’ suoi parenti: Sed recens natum, in cunis jacentem, uberibus inhianlem, nullo ornata corporis, nullis membrorum viribus, nullis parentum opibus, non sua ætate, non suo rum potestate præstantem. E questo re de’ Giudei lo cercano o lo domandano ad un altro re de’ Giudei, ad Erode, che allora sulla Giudea regnava: Et quærunt regem Judæorum a rege Judæorum. Segno evidente adunque che il re de’ Giudei di cui essi vanno in traccia è un re sopra gli altri re, un re che ha l’impero non solo de’ popoli, ma ancora de’ secoli un re che è uomo, ma uomo-Dio; dall’uomo-Erode cercano adunque Gesù Cristo uomo-Dio, dall’uomo-re terreno cercano del cielo che avea creato l’uomo: Ab Herude hamine Christum Deum et hominem; a terreno rege hominem regem cælorum qui condiderat hominem. Cercano, è vero, un Piccolino da un grande, come era Erode; dall’uomo pubblicamente onorato un bambino nascosto; da un eccelso personaggio un umile pargoletto; un infante da colui che parla; un povero da un ricco; da un potente un essere debole e infermo. Nulla ciò ostante però, e sebbene sia esso perseguitato da Erode, i Magi non dubitano punto che esso sia il vero Messia, il loro Salvatore, il padrone del mondo, degno di essere adorato, sebbene Erode il disprezzi; perché sebbene privo di ogni regia pompa umana, credono che in esso risiede l’adorabile maestà divina: A grandi parvulum, a loto latentem, ah excelso humilem, a loquente infantem, ab opulento inopem, a forti infirmimi. Et lumen, quamvis ab Herode persequente. sibi et aliis Christum dominantem, a contemncnte adorondimi profecto: in quo nulla pompa regia videbatur, sed vera Dei majestas adorabatur (Semi.Epiph.). Ma non solo però coi discorsi, ma coi donativi ancora, he erano impazienti d’offrire a’ suoi piedi, manifestarono, dice S. Leone, di riconoscere e di credere nella stessa Persona di Gesù Cristo e la maestà di un Dio e la dignità di un re e la mortalità dell’uomo. Giacché l’incenso si adopera ne’ sacrificj, che solo a Dio si competono; l’oro è la materia dei tributi, che si pagano al re: la mirra era l’aroma allora adoperato nell’imbalsamare i corpi de’ morti: Per ista trio munerum getterà in uno eodemque Christo et divina majestas, et regia potestas, et humana mortalitas intimatur. Thus enim ad sacrificium, aurum pertinet ad tributum, myrrha ad sepulturam mortuorum (Epiph. 1).Oh quanto è bello poi, segue a dire lo stesso Padre, il vedere da questi primi discepoli della fede confutati anticipatamente i più grandi maestri dell’errore e determinata intorno ai misteri di Gesù Cristo la cattolica verità! Col volere i Magi offerir dell’incenso al figliuolo siccome a Dio, confondono l’eretico ariano, che sostiene che solo al Padre Eterno si deve un culto di latria e il sacrificio che ne è l’espressione. Col volergli presentare, come ad uomo mortale, della mirra, confondono il manicheo, il quale ricusa di credere che Gesù Cristo è realmente morto per la nostra salute. Col recargli infine dell’oro, come a re celeste e terreno, confondono l’una e l’altra eresia insieme: giacché il manicheo, negandolo vero discendente di Davide, gli contende la regalia terrena: e l’ariano gli nega la regalia e l’indipendenza celeste, osando di chiamar servo di Dio l’Unigenito dello stesso Dio; in oblatione thuris confunditur arianus, qui soli Patri sacrificium offerri debere contendit. In oblatione myrrha confunditur manichæus, qui Christum vere mortuum prò nostra salute non credit. In auro simul uterque confunditur: et manichæus, qui de semine David secundum carnem natum non credit regem et arianus, qui Dei Unigenito assignare nititur servitutem. Che più? l’offerta che i re Magi si dispongono a fare distrugge l’eresia di Nestorio, il quale tenta di dividere in due Gesù Cristo, ammettendo in lui due persone. Giacché al vedere che i Magi offrono con tanta religione e pietà non già una cosa al Dio ed un’altra all’uomo, ma gli stessi doni all’unico e solo uomo-Dio, chi non intende che non si deve credere in due persone diviso colui che si vede riconosciuto uno ed indiviso nei donativi che gli si vogliono fare? Finalmente, come questi donativi indicano due nature in Gesù Cristo, anche la stolida eresia di Eutiche rimane schiacciata, che nega esservi in Gesù Cristo, in una stessa persona, una doppia natura: Confunditur eliam Nestorius, qui nititur Christian in duas personas dividere; cum videat Magos non alia Dea, alia homini, sed uni Deo-homini eadem miniera obtulisse suppliciler. Non ergo dividitur in personis qui non invenitur divisus in donis. Confunditur Eutichetis insania, qui non vidi in Christo utrumque veram predicare naturam.I Magi adunque nelle loro offerte han data a divedere di avere avuta una intelligenza perfetta di tutte le qualità sublimi, di tutti i caratteri unici del Messia, prima ancora di averlo veduto: in una parola, hanno conosciuta, creduta ed annunziata i primi al mondo la fede intera, la fede perfetta del gran mistero dell’incarnazione; poiché come uomo, né crederon la morte; come Dio, ne aspettarono la risurrezione, come re, ne temettero l’universale giudizio: Denique oblatio munerum ititeli igentiam in eo totius qualitatis expressit; atque ita per venerationem eorum sacramenti omnis est consummata cognitio: in nomine mortis, in Deo resurrectionis, in rege judicii. – Oh fede ammirabile de’ Magi! con quale esattezza, con quale precisione, con quale chiarezza e nei loro discorsi e nelle loro azioni esprimono le più grandi verità del Vangelo priaché sia predicato il Vangelo! quali idee giuste manifestano della natura di Dio e dell’incarnazione del Verbo! Come i misteri che sembrano contradittori fra loro ben si conciliano nella loro mente, si armonizzano nel loro cuore, e 1’una verità non esclude, ma sussiste insieme coll’altra senza confusione di termini, senza equivoco di espressioni, senza ombra alcuna di errore: Absque errore? Poiché essi confessano che Dio è uno nella natura e trino nelle persone; che Gesù Cristo, di cui vanno in traccia, benché poverello, è pure re; benché debole, è onnipotente; benché infante, è legislatore; benché figliuolo di donna, è figliuolo di Dio: celeste insieme e terreno, Dio ed uomo; uomo passibile, Dio impassibile; uomo mortale, Dio trionfator della morte; Dio ed uomo, Messia o Salvatore degli uomini. Confessano che bisogna credergli ed adorarlo, obbedirgli e servirlo, sacrificargli i tre rami della concupiscenza umana, l’orgoglio, la cupidigia, la sensualità, per mezzo della pratica di un’umile pietà, di una generosa giustizia, di una mortificazione severa. E queste verità, senza la menoma mescolanza di errore, ma nella loro purezza, come le hanno nella mente, le manifestano al di fuori colla lingua e coll’opera. E come, dice S. Giovanni Crisostomo, potevano mai errare uomini che non avevano implorato a loro guida il lume fioco e ingannevole della ragione umana, ma l’ammaestramento divino? che non ebbero a maestra la sapienza terrena, ma l’illustrazione celeste? Come potevan mai traviare, quando non cercarono per loro duce che lo stesso Gesù Cristo, che si avevano proposto a termine del loro viaggio: quel Gesù Cristo che ha detto: « Io sono insiememente la verità e la vita, e la vera ed unica strada per giungere alla vita ed alla verità? Non quæsierunt ducatum hominis, quia ducutum stellæ de cœlo acceperunt. Sed nec errare poterant qui veram viam, Christm Dominum, requirebant: illum utique qui ait: Ego sum via, veritas et vita (Homil. 1 ex var. in Matth.). Quanto dire: come potevano mai errare nella scienza di Dio, essendo stati ammaestrati da Dio, avendola, come poscia S. Paolo, imparata, non già per la via dell’inquisizione e del raziocinio, ma per via di rivelazione e di fede? La sola via onde si giunge a conoscere la verità senza alterazione, senza mescolanza di difetto e di errore: Absque errore. – E noi altresì cristiani Cattolici, noi conosciamo le stesse verità e al medesimo modo, perché siamo stati istruiti con lo stesso metodo: e la maniera onde furono ammaestrati i Magi per mezzo della stella fu una promessa ed una figura della maniera onde noi saremmo stati ammaestrati per mezzo della vera fede. – Infatti lo stesso Dio che loro si rivelò per mezzo della stella si è per mezzo della fede rivelato anche a noi. Lo stesso Dio che parlò loro per mezzo della sinagoga, ha parlato e parla a noi per mezzo della Chiesa. E come ogni uomo è mendace. Omnis homo mendax (Psal. CXV), e Gesù Cristo solo è verità, pura e sola verità: Christus est veritas (I Joan 5): come l’uomo alla sua propria scuola o a quella di un altro uomo è esposto al pericolo di non imparare che errori, così alla scuola di Gesù Cristo è sicuro di non apprendere che verità. E siccome questa scuola visibile, di cui Gesù Cristo è l’invisibile maestro, si è la cattolica Chiesa; così l’insegnamento della Chiesa cattolica è il solo adorno della qualità divina di essere esente da errore, absque errore; ed in esso tutto è verità, e vi è tutta la verità; verità vergine, verità pudica, verità intera, verità incorrotta, verità santa, come il Dio che ne è l’autore. Perciò come gli Apostoli, o la Chiesa, docile al magistero dello Spirito Santo, impararono da esso secondo la promessa di Gesù Cristo, ogni verità, Ipse docebit vos omnem veritatem (Joan. XVI): osi il vero Cristiano, docile al magistero degli Apostoli o della Chiesa, e che si è formato alla sua scuola, che ha appreso la sua dottrina e che è al suo insegnamento fedele, conosce tutte le verità che più importano di conoscere. Conosce Dio e i suoi attributi, gli angioli e il loro ministero, il mondo e la sua origine, l’anima e le sue facoltà, l’uomo ed il suo fine, la trinità e le sue Persone, la redenzione ed i suoi effetti, Gesù Cristo e i suoi misteri, la legge evangelica e le sue obbligazioni, i sacramenti e la loro efficacia, le pratiche di Religione e il loro uso, la vera santità ed il suo pregio, il vizio e i suoi castighi, la virtù e le sue ricompense. E queste verità sublimi, verità profonde, verità necessarie, verità eterne, ancorché non le intenda, né possa intenderle, le conosce però, le possiede e le crede senza alterazione, senza ambiguità, senza errore, ma pure, intatte, semplici, chiare, precise, come sono in sé stesse: giacché quello che il discepolo della Chiesa ha dalla Chiesa imparato e conosce e crede sulle lezioni della Chiesa, così è precisamente, così è esattamente, così è veramente né più né meno di come e di quanto esso lo conosce e lo crede. – Né si può temere che l’ignoranza che acceca, la debolezza dell’ingegno che istupidisce, i pregiudizi che strascinano, l’autorità che impone, la fantasia che illude, il prestigio che affascina, la falsa evidenza che abbaglia, il sofisma che inganna, la stessa erudizione che confonde, la stessa scienza che gonfia e l’interesse delle passioni che seduce, non si può, dico, temere che queste sì moltiplici e sì possenti cause di errore abbiano potuto influire nella mente del vero discepolo della Chiesa e fargli creder vero ciò che vero non è. Questo pericolo si teme e si deve ragionevolmente temere solo quando l’uomo pretende d’istruire sé stesso, o si dà ad essere istruito ad un altro uomo: e perciò alle scuole puramente umane le verità sono sì difficili e sì scarse, gli errori sì ovvii e sì frequenti. Ma non si teme, né si può temere alla scuola della Chiesa, dove colui che insegna è Dio: e però, nel passo d’Isaia che abbiamo citato di sopra e che Gesù Cristo ha spiegato nel Vangelo, i veri fedeli sono leggiadramente chiamati « scolari di Dio, Doctos a Domino (Isa. LIV): docibiles Dei (Joan. 6). ».

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (47) – LA VERA E LA FALSA FEDE -II.-

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. LEONE XIII – RERUM NOVARUM -1-

La Rerum novarum di SS. Leone XIII è la carta magna della dottrina sociale della Chiesa che propone i dettami evangelici e della tradizione apostolica che devono regolare la vita civile dell’uomo. I principi sono talmente chiari e lampanti nella loro logica concatenazione che non hanno bisogno di particolari ermeneutiche. La visione cristiana della società esclude ogni ombra panteistica che possa anche in minima parte condividere gli aspetti satanici, perché gnostici ed immanentisti, ovvero panteistici, di sistemi che si nascondono sotto l’abito politico del socialismo o comunismo o, come oggi suol dirsi, del mondialismo totalitario, che è il comunismo applicato nell’intero pianeta. Del resto da Platone, alle scuole filosofiche neoplatoniche, dal protestantesimo apostata, alle filosofie positiviste e materialiste moderne, con i capofila Kant ed Hegel, dalle eresie manichee, degli albigesi, dei catari, fino al modernismo postconciliare, il panteismo ha sempre mostrato la coda diabolica che svelava il vero autore, cioè lucifero, di sistemi apparentemente filantropici ed abbigliati da egualitarismi giustizialisti, prendendo addirittura come riferimento il Santo poverello di Assisi, le cui scimmiottature pauperiste dei medioevali “fraticelli” furono subito bollate dalla Chiesa –Papa Giovanni XXII capì subito- che annusò il tanfo del demonio sprigionarsi dai gigli di cartone dei falsi francescani dell’epoca. Ancora oggi, nella setta modernista della sinagoga di satana vaticana, si abbiglia ipocritamente il panteismo pauperista con la veste della giustizia sociale, appellandosi senza vergogna ed oltraggiandone la santa memoria, al Santo stigmatizzato di Assisi. Questa lettera, giustamente una pietra miliare del Magistero pontificio, declama con sicura dottrina, immutabile ed infallibile, come del resto tutto il Magistero della vera Chiesa, i punti cardini sui quali si debba regolare la vita sociale ed economica dell’umana famiglia. Oggi leggiamo con orrore documenti passanti come cattolici, che in realtà sono sterco socialistoide marxista finto buonista giusto per ingannare gli ignoranti e calmare la coscienza dei cani muti che sanno, vedono e tacciono. Ma tutto il Signore permette perché si possa operare una divisione netta e precisa tra fedeli ed ipocriti, tra seguaci di Cristo e seguaci della bestia, tra chi semina grano e chi la zizzania. Tutto lascia fare fino ad un certo punto il Signore, tanto poi arriva l’Angelo con la falce che taglierà grano e zizzania, l’uno per il deposito del cielo, e l’altra per lo stagno eterno di fuoco. Ne proponiamo una prima parte onde permetterne una migliore meditazione ed un approfondimento salutare.

RERUM NOVARUM

LETTERA ENCICLICA DI S.S. LEONE XIII -1-

INTRODUZIONE

Motivo dell’enciclica: la questione operaia

1. L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità che tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica l’ingegno dei dotti, i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, i consigli dei principi, tanto che oggi non vi è questione che maggiormente interessi il mondo. Pertanto, venerabili fratelli, ciò che altre volte facemmo a bene della Chiesa e a comune salvezza con le nostre lettere encicliche sui Poteri pubblici, la Libertà umana, la Costituzione cristiana degli Stati, ed altri simili argomenti che ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, la medesima cosa crediamo di dover fare adesso per gli stessi motivi sulla questione operaia. Trattammo già questa materia, come ce ne venne l’occasione più di una volta: ma la coscienza dell’apostolico nostro ministero ci muove a trattarla ora, di proposito e in pieno, al fine di mettere in rilievo i principi con cui, secondo giustizia ed equità, si deve risolvere la questione. Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è segnare i precisi confini nelle relazioni tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini turbolenti ed astuti, si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione stessa a perturbamento dei popoli.

2. Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell’uomo. Poiché, soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balda della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa., continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un gioco poco meno che servile.

PARTE PRIMA

IL SOCIALISMO, FALSO RIMEDIO

La soluzione socialista inaccettabile dagli operai

3. A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale.

4. E infatti non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone l’artigiano, è la proprietà privata. Poiché se egli impiega le sue forze e la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procurarsi il necessario alla vita: e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto diritto, non solo di esigere, ma d’investire come vuole, la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie è riuscito a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, li ha investiti in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima travestita di forma, e conseguente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come ognuno sa, consiste la proprietà, sia mobile che stabile. Con l’accumulare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all’operaio la libertà di investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di trarre vantaggio dal patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la condizione.

5. Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una aperta ingiustizia, giacché la proprietà prenata è diritto di natura. Poiché anche in questo passa gran differenza tra l’uomo e il bruto. Il bruto non governa sé stesso; ma due istinti lo reggono e governano, i quali da una parte ne tengono desta l’attività e ne svolgono le forze, dall’altra terminano e circoscrivono ogni suo movimento; cioè l’istinto della conservazione propria, e l’istinto della conservazione della propria specie. A conseguire questi due fini, basta al bruto l’uso di quei determinati mezzi che trova intorno a sé; né potrebbe mirare più lontano, perché mosso unicamente dal senso e dal particolare sensibile. Ben diversa è la natura dell’uomo. Possedendo egli la vita sensitiva nella sua pienezza, da questo lato anche a lui è dato, almeno quanto agli altri animali, di usufruire dei beni della natura materiale. Ma l’animalità in tutta la sua estensione, lungi dal circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga inferiore, e fatta per esserle soggetta. Il gran privilegio dell’uomo, ciò che lo costituisce tale o lo distingue essenzialmente dal bruto, è l’intelligenza, ossia la ragione. E appunto perché ragionevole, si deve concedere all’uomo qualche cosa di più che il semplice uso dei beni della terra, comune anche agli altri animali: e questo non può essere altro che il diritto di proprietà stabile; né proprietà soltanto di quelle cose che si consumano usandole, ma anche di quelle che l’uso non consuma.

La proprietà privata è di diritto naturale

6. Ciò riesce più evidente se si penetra maggiormente nell’umana natura. Per la sterminata ampiezza del suo conoscimento, che abbraccia, oltre il presente, anche l’avvenire, e per la sua libertà, l’uomo sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a sé stesso. Egli deve dunque poter scegliere i mezzi che giudica più propri al mantenimento della sua vita, non solo per il momento che passa, ma per il tempo futuro. Ciò vale quanto dire che, oltre il dominio dei frutti che dà la terra, spetta all’uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno fecondo deve essergli somministrato il necessario ai suoi bisogni futuri. Giacché i bisogni dell’uomo hanno, per così dire, una vicenda di perpetui ritorni e, soddisfatti oggi, rinascono domani. Pertanto la natura deve aver dato all’uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati alla perennità del soccorso di cui egli abbisogna, beni che può somministrargli solamente la terra, con la sua inesauribile fecondità. Non v’è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato perché l’uomo è anteriore alto Stato: quindi prima che si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il diritto di provvedere a sé stesso.

7. L’aver poi Iddio dato la terra a uso e godimento di tutto il genere umano, non si oppone per nulla al diritto della privata proprietà; poiché quel dono egli lo fece a tutti, non perché ognuno ne avesse un comune e promiscuo dominio, bensì in quanto non assegnò nessuna parte del suolo determinatamente ad alcuno, lasciando ciò all’industria degli uomini e al diritto speciale dei popoli. La terra, per altro, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio e beneficio di tutti, non essendovi uomo al mondo che non riceva alimento da essi. Chi non ha beni propri vi supplisce con il lavoro; tanto che si può affermare con verità che il mezzo universale per provvedere alla vita è il lavoro, impiegato o nel coltivare un terreno proprio, o nell’esercitare un’arte, la cui mercede in ultimo si ricava dai molteplici frutti della terra e in essi viene commutata. Ed è questa un’altra prova che la proprietà privata è conforme alla natura. Il necessario al mantenimento e al perfezionamento della vita umana la terra ce lo somministra largamente, ma ce lo somministra a questa condizione, che l’uomo la coltivi e le sia largo di provvide cure. Ora, posto che a conseguire i beni della natura l’uomo impieghi l’industria della mente e le forze del corpo, con ciò stesso egli riunisce in sé quella parte della natura corporea che ridusse a cultura, e in cui lasciò come impressa una impronta della sua personalità, sicché giustamente può tenerla per sua ed imporre agli altri l’obbligo di rispettarla.

La proprietà privata sancita dalle leggi umane e divine

8. Così evidenti sono tali ragioni, che non si sa capire come abbiano potuto trovar contraddizioni presso alcuni, i quali, rinfrescando vecchie utopie, concedono bensì all’uomo l’uso del suolo e dei vari frutti dei campi, ma del suolo ove egli ha fabbricato e del campo che ha coltivato gli negano la proprietà. Non si accorgono costoro che in questa maniera vengono a defraudare l’uomo degli effetti del suo lavoro. Giacché il campo dissodato dalla mano e dall’arte del coltivato non è più quello di prima, da silvestre è divenuto fruttifero, da sterile ferace. Questi miglioramenti prendono talmente corpo in quel terreno che la maggior parte di essi ne sono inseparabili. Ora, che giustizia sarebbe questa, che un altro il quale non ha lavorato subentrasse a goderne i frutti? Come l’effetto appartiene alla sua causa, così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora. A ragione pertanto il genere umano, senza affatto curarsi dei pochi contraddittori e con l’occhio fisso alla legge di natura, trova in questa legge medesima il fondamento della divisione dei beni; e riconoscendo che la proprietà privata è sommamente consona alla natura dell’uomo e alla pacifica convivenza sociale, l’ha solennemente sancita mediante la pratica di tutti i secoli. E le leggi civili che, quando sono giuste, derivano la propria autorità ed efficacia dalla stessa legge naturale (Cfr. S. Th. I-I, q. 95, a. 4), confermano tale diritto e lo assicurano con la pubblica forza. Né manca il suggello della legge divina, la quale vieta strettissimamente perfino il desiderio della roba altrui: Non desiderare la moglie del prossimo tuo: non la casa, non il podere, non la serva, non il bue, non l’asino, non alcuna cosa di tutte quelle che a lui appartengono(Deut 5,21). 

La libertà dell’uomo

9. Questo diritto individuale cresce di valore se lo consideriamo nei riguardi del consorzio domestico. Libera all’uomo è l’elezione del proprio stato: Egli può a suo piacere seguire il consiglio evangelico della verginità o legarsi in matrimonio. Naturale e primitivo è il diritto al coniugio e nessuna legge umana può abolirlo, né può limitarne, comunque sia, lo scopo a cui Iddio l’ha ordinato quando disse: Crescete e moltiplicatevi (Gen 1,28). Ecco pertanto la famiglia, ossia la società domestica, società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società; perciò con diritti e obbligazioni indipendenti dallo Stato. Ora, quello che dicemmo in ordine al diritto di proprietà inerente all’individuo va applicato all’uomo come capo di famiglia: anzi tale diritto in lui è tanto più forte quanto più estesa e completa è nel consorzio domestico la sua personalità.

Famiglia e Stato

10. Per legge inviolabile di natura incombe al padre il mantenimento della prole: e per impulso della natura medesima, che gli fa scorgere nei figli una immagine di sé e quasi una espansione e continuazione della sua persona, egli è spinto a provvederli in modo che nel difficile corso della vita possano onestamente far fronte ai propri bisogni: cosa impossibile a ottenersi se non mediante l’acquisto dei beni fruttiferi, ch’egli poi trasmette loro in eredità. Come la convivenza civile così la famiglia, secondo quello che abbiamo detto, è una società retta da potere proprio, che è quello paterno. Entro i limiti determinati dal fine suo, la famiglia ha dunque, per la scelta e l’uso dei mezzi necessari alla sua conservazione e alla sua legittima indipendenza, diritti almeno eguali a quelli della società civile. Diciamo almeno eguali, perché essendo il consorzio domestico logicamente e storicamente anteriore al civile, anteriori altresì e più naturali ne debbono essere i diritti e i doveri. Che se l’uomo, se la famiglia, entrando a far parte della società civile, trovassero nello Stato non aiuto, ma offesa, non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la civile convivenza sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare.

Lo Stato e il suo intervento nella famiglia

11. È dunque un errore grande e dannoso volere che lo Stato possa intervenire a suo talento nel santuario della famiglia. Certo, se qualche famiglia si trova per avventura in si gravi strettezze che da sé stessa non le è affatto possibile uscirne, è giusto in tali frangenti l’intervento dei pubblici poteri, giacché ciascuna famiglia è parte del corpo sociale. Similmente in caso di gravi discordie nelle relazioni scambievoli tra i membri di una famiglia intervenga lo Stato e renda a ciascuno il suo, poiché questo non è usurpare i diritti dei cittadini, ma assicurarli e tutelarli secondo la retta giustizia. Qui però deve arrestarsi lo Stato; la natura non gli consente di andare oltre. La patria potestà non può lo Stato né annientarla né assorbirla, poiché nasce dalla sorgente stessa della vita umana. I figli sono qualche cosa del padre, una espansione, per così dire, della sua personalità e, a parlare propriamente, essi entrano a far parte del civile consorzio non da sé medesimi, bensì mediante la famiglia in cui sono nati. È appunto per questa ragione che, essendo i figli naturalmente qualcosa del padre… prima dell’uso della ragione stanno sotto la cura dei genitori. (S. Th. II-II, q. 10, a. 12) Ora, i socialisti, sostituendo alla provvidenza dei genitori quella dello Stato, vanno contro la giustizia naturale e disciolgono la compagine delle famiglie.

La soluzione socialista è nociva alla stessa società

12. Ed oltre l’ingiustizia, troppo chiaro appare quale confusione e scompiglio ne seguirebbe in tutti gli ordini della cittadinanza, e quale dura e odiosa schiavitù nei cittadini. Si aprirebbe la via agli asti, alle recriminazioni, alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero, tolto ogni stimolo all’ingegno e all’industria individuale: e la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria. Tutte queste ragioni danno diritto a concludere che la comunanza dei beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si deve recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno, altera gli uffici dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo adunque, che nell’opera di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata. Presupposto ciò, esporremo donde si abbia a trarre il rimedio.

PARTE SECONDA

IL VERO RIMEDIO:

L’UNIONE DELLE ASSOCIAZIONI

A) L’opera della Chiesa

13. Entriamo fiduciosi in questo argomento, e di nostro pieno diritto; giacché si tratta di questione di cui non è possibile trovare una risoluzione che valga senza ricorrere alla religione e alla Chiesa. E poiché la cura della religione e la dispensazione dei mezzi che sono in potere della Chiesa è affidata principalmente a noi, ci parrebbe di mancare al nostro ufficio, tacendo. Certamente la soluzione di si arduo problema richiede il concorso e l’efficace cooperazione anche degli altri: vogliamo dire dei governanti, dei padroni e dei ricchi, come pure degli stessi proletari che vi sono direttamente interessati: ma senza esitazione alcuna affermiamo che, se si prescinde dall’azione della Chiesa, tutti gli sforzi riusciranno vani. Difatti la Chiesa è quella che trae dal Vangelo dottrine atte a comporre, o certamente a rendere assai meno aspro il conflitto: essa procura con gli insegnamenti suoi, non solo d’illuminare la mente, ma d’informare la vita e i costumi di ognuno: con un gran numero di benefiche istituzioni migliora le condizioni medesime del proletario; vuole e brama che i consigli e le forze di tutte le classi sociali si colleghino e vengano convogliate insieme al fine di provvedere meglio che sia possibile agli interessi degli operai; e crede che, entro i debiti termini, debbano volgersi a questo scopo le stesse leggi e l’autorità dello Stato.

1 – Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso

14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo d’innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell’animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l’uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell’uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v’è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali. 

2 – Necessità della concordia

15. Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile; cosa tanto contraria alla ragione e alla verità. In vece è verissimo che, come nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Ora, a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.

3 – Relazioni tra le classi sociali

a) giustizia

16. Innanzi tutto, l’insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi, senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite rovinose. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e della fede il lavoro non degrada l’uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere onestamente con l’opera propria. Quello che veramente è indegno dell’uomo è di abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze. Viene similmente comandato che nei proletari si deve aver riguardo alla religione e ai beni dell’anima. È obbligo perciò dei padroni lasciare all’operaio comodità e tempo che bastino a compiere i doveri religiosi; non esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo; non alienarlo dallo spirito di famiglia e dall’amore del risparmio; non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti con l’età e con il sesso.

17. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio. Ecco, la mercede degli operai… che fu defraudata da voi, grida; e questo grido ha ferito le orecchie del Signore degli eserciti (Giac 5,4). Da ultimo è dovere dei ricchi non danneggiare i piccoli risparmi dell’operaio né con violenza né con frodi né con usure manifeste o nascoste; questo dovere è tanto più rigoroso, quanto più debole e mal difeso è l’operaio e più sacrosanta la sua piccola sostanza. L’osservanza di questi precetti non basterà essa sola a mitigare l’asprezza e a far cessare le cagioni del dissidio?

b) carità

18. Ma la Chiesa, guidata dagli insegnamenti e dall’esempio di Cristo, mira più in alto, cioè a riavvicinare il più possibile le due classi, e a renderle amiche. Le cose del tempo non è possibile intenderle e valutarle a dovere, se l’animo non si eleva ad un’altra vita, ossia a quella eterna, senza la quale la vera nozione del bene morale necessariamente si dilegua, anzi l’intera creazione diventa un mistero inspiegabile. Quello pertanto che la natura stessa ci detta, nel cristianesimo è un dogma su cui come principale fondamento poggia tutto l’edificio della religione: cioè che la vera vita dell’uomo è quella del mondo avvenire. Poiché Iddio non ci ha creati per questi beni fragili e caduchi, ma per quelli celesti ed eterni; e la terra ci fu data da Lui come luogo di esilio, non come patria. Che tu abbia in abbondanza ricchezze ed altri beni terreni o che ne sia privo, ciò all’eterna felicità non importa nulla; ma il buono o cattivo uso di quei beni, questo è ciò che sommamente importa. Le varie tribolazioni di cui è intessuta la vita di quaggiù, Gesù Cristo, che pur ci ha redenti con redenzione copiosa, non le ha tolte; le ha convertite in stimolo di virtù e in maniera di merito, tanto che nessun figlio di Adamo può giungere al cielo se non segue le orme sanguinose di Lui. Se persevereremo, regneremo insieme (2 Tim 2,12). Accettando volontariamente sopra di sé travagli e dolori, egli ne ha mitigato l’acerbità in modo meraviglioso, e non solo con l’esempio ma con la sua grazia e con la speranza del premio proposto, ci ha reso più facile il patire. Poiché quella che attualmente è una momentanea e leggera tribolazione nostra, opera in noi un eterno e sopra ogni misura smisurato peso di gloria (2Cor 4,17). I fortunati del secolo sono dunque avvertiti che le ricchezze non li liberano dal dolore e che esse per la felicità avvenire, non che giovare, nuocciono (Cfr. Mat 19,23-24); che i ricchi debbono tremare, pensando alle minacce straordinariamente severe di Gesù Cristo (Cfr. Luc 6,24-25); che dell’uso dei loro beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo conto al Dio giudice. 

c) la vera utilità delle ricchezze

19. In ordine all’uso delle ricchezze, eccellente e importantissima è la dottrina che, se pure fu intravveduta dalla filosofia, venne però insegnata a perfezione dalla Chiesa; la quale inoltre procura che non rimanga pura speculazione, ma discenda nella pratica e informi la vita. Il fondamento di tale dottrina sta in ciò: che nella ricchezza si suole distinguere il possesso legittimo dal legittimo uso. Naturale diritto dell’uomo è, come vedemmo, la privata proprietà dei beni e l’esercitare questo diritto é, specialmente nella vita socievole, non pur lecito, ma assolutamente necessario. E’ lecito, dice san Tommaso, anzi necessario all’umana vita che l’uomo abbia la proprietà dei beni (S. Th. III-II, q. 66, a. 2). Ma se inoltre si domandi quale debba essere l’uso di tali beni, la Chiesa per bocca del santo Dottore non esita a rispondere che, per questo rispetto, l’uomo non deve possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo che facilmente li comunichi all’altrui necessità. Onde l’Apostolo dice: Comanda ai ricchi di questo secolo di dare e comunicare facilmente il proprio (Ivi). Nessuno, Certo, é tenuto a soccorrere gli altri con le cose necessarie a sé e ai suoi, anzi neppure con ciò che è necessario alla convivenza e al decoro del proprio  stato, perché nessuno deve vivere in modo non conveniente (S. Th. II-II, q. 32, a. 6). Ma soddisfatte le necessità e la convenienza è dovere soccorrere col superfluo i bisognosi. Quello che sopravanza date in elemosina (Luc 11,41). Eccetto il caso di estrema necessità, questi, è vero, non sono obblighi di giustizia, ma di carità cristiana il cui adempimento non si può certamente esigere per via giuridica, ma sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge e il giudizio di Cristo, il quale inculca in molti modi la pratica del dono generoso e insegna: E’ più bello dare che ricevere (At 20,35), e terrà per fatta o negata a sé la carità fatta o negata ai bisognosi: Quanto faceste ad uno dei minimi di questi miei fratelli, a me lo faceste (Mat 25,40). In conclusione, chiunque ha ricevuto dalla munificenza di Dio copia maggiore di beni, sia esteriori e corporali sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti, di servirsene al perfezionamento proprio, e nel medesimo tempo come ministro della divina provvidenza a vantaggio altrui: Chi ha dunque ingegno, badi di non tacere; chi ha abbondanza di roba, si guardi dall’essere troppo duro di mano nell’esercizio della misericordia; chi ha un’arte per vivere, ne partecipi al prossimo l’uso e l’utilità (S. Greg. M., In Evang. hom 9, n. 7).

d) vantaggi della povertà

20. Ai poveri poi, la Chiesa insegna che innanzi a Dio non è cosa che rechi vergogna né la povertà né il dover vivere di lavoro. Gesù Cristo confermò questa verità con 1’esempio suo mentre, a salute degli uomini, essendo ricco, si fece povero (2Cor 8,9) ed essendo Figlio di Dio, e Dio egli stesso, volle comparire ed essere creduto figlio di un falegname, anzi non ricusò di passare lavorando la maggior parte della sua vita: Non è costui il fabbro, il figlio di Maria? (Mar 6,3) Mirando la divinità di questo esempio, si comprende più facilmente che la vera dignità e grandezza dell’uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù; che la virtù è patrimonio comune, conseguibile ugualmente dai grandi e dai piccoli, dai ricchi e dai proletari; che solo alle opere virtuose, in chiunque si trovino, è serbato il premio dell’eterna beatitudine. Diciamo di più per gli infelici pare che Iddio abbia una particolare predilezione poiché Gesù Cristo chiama beati i poveri (Cfr. Mat 5,3); in. vita amorosamente a venire da lui per conforto, quanti sono stretti dal peso degli affanni (Mat 11,28); i deboli e i perseguitati abbraccia con atto di carità specialissima. Queste verità sono molto efficaci ad abbassar l’orgoglio dei fortunati e togliere all’avvilimento i miseri, ad ispirare indulgenza negli uni e modestia negli altri. Così le distanze, tanto care all’orgoglio, si accorciano; né riesce difficile ottenere che le due classi, stringendosi la mano, scendano ad amichevole accordo. 

e) fraternità cristiana

21. Ma esse, obbedendo alla legge evangelica, non saranno paghe di una semplice amicizia, ma vorranno darsi l’amplesso dell’amore fraterno. Poiché conosceranno e sentiranno che tutti gli uomini hanno origine da Dio, Padre comune; che tutti tendono a Dio, fine supremo, che solo può rendere perfettamente felici gli uomini e gli angeli; che tutti sono stati ugualmente redenti da Gesù Cristo e chiamati alla dignità della figliolanza divina, in modo che non solo tra loro, ma con Cristo Signore, primogenito fra molti fratelli, sono congiunti col vincolo di una santa fraternità. Conosceranno e sentiranno che i beni di natura e di grazia sono patrimonio comune del genere umano e che nessuno, senza proprio merito, verrà diseredato dal retaggio dei beni celesti: perché se tutti figli, dunque tutti eredi; eredi di Dio, e coeredi di Gesù Cristo (Rom 8,17). Ecco 1’ideale dei diritti e dei doveri contenuto nel Vangelo. Se esso prevalesse nel mondo, non cesserebbe subito ogni dissidio e non tornerebbe forse la pace?

4 – Mezzi positivi

a) la diffusione della dottrina cristiana

22. Se non che la Chiesa, non contenta di additare il rimedio, l’applica ella stessa con la materna sua mano. Poiché ella é tutta intenta a educare e formare gli uomini a queste massime, procurando che le acque salutari della sua dottrina scorrano largamente e vadano per mezzo dei Vescovi e del Clero ad irrigare tutta quanta la terra. Nel tempo stesso si studia di penetrare negli animi e di piegare le volontà, perché si lascino governare dai divini precetti. E in quest’arte, che é di capitale importanza,  poiché ne dipende ogni vantaggio, la Chiesa sola ha vera efficacia. Infatti, gli strumenti che adopera a muovere gli animi le furono dati a questo fine da Gesù Cristo, ed hanno in sé virtù divina; si che essi soli possono penetrare nelle intime fibre dei cuori, e far si che gli uomini obbediscano alla voce del dovere, tengano a freno le passioni, amino con supremo e singolare amore Iddio e il prossimo, e abbattano coraggiosamente tutti gli ostacoli che attraversano il cammino della virtù.

b) il rinnovamento della società

Basta su ciò accennar di passaggio agli esempi antichi. Ricordiamo fatti e cose poste fuori di ogni dubbio: cioè che per opera del cristianesimo fu trasformata da capo a fondo la società; che questa trasformazione fu un vero progresso del genere umano, anzi una risurrezione dalla morte alla vita morale, e un perfezionamento non mai visto per l’innanzi né sperabile maggiore per l’avvenire; e finalmente che Gesù Cristo è il principio e il termine di questi benefizi, i quali, scaturiti da lui, a lui vanno riferiti. Avendo il mondo mediante la luce evangelica appreso il gran mistero dell’incarnazione del Verbo e dell’umana redenzione, la vita di Gesù Cristo Dio e uomo si trasfuse nella civile società che ne fu permeata con la fede, i precetti, le leggi di lui. Perciò, se ai mali del mondo v’è un rimedio, questi non può essere altro che il ritorno alla vita e ai costumi cristiani. È un solenne principio questo, che per riformare una società in decadenza, è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’essere, la perfezione di ogni società è riposta nello sforzo di arrivare al suo scopo: in modo che il principio generatore dei moti e delle azioni sociali sia il medesimo che ha generato l’associazione. Quindi deviare dallo scopo primitivo è corruzione; tornare ad esso è salvezza. E questo è vero, come di tutto il consorzio civile, così della classe lavoratrice, che ne è la parte più numerosa.

c) la beneficenza della Chiesa

23. Né si creda che le premure della Chiesa siano così interamente e unicamente rivolte alla salvezza delle anime, da trascurare ciò che appartiene alla vita morale e terrena. Ella vuole e procura che soprattutto i proletari emergano dal loro infelice stato, e migliorino la condizione di vita. E questo essa fa innanzi tutto indirettamente, chiamando e insegnando a tutti gli uomini la virtù. I costumi cristiani, quando siano tali davvero, contribuiscono anch’essi di per sé alla prosperità terrena, perché attirano le benedizioni di Dio, principio e fonte di ogni bene; infrenano la cupidigia della roba e la sete dei piaceri (Cfr. 1Tim 6,10), veri flagelli che rendono misero l’uomo nella abbondanza stessa di ogni cosa; contenti di una vita frugale, suppliscono alla scarsezza del censo col risparmio, lontani dai vizi, che non solo consumano le piccole, ma anche le grandi sostanze, e mandano in rovina i più lauti patrimoni.

24. Ma vi è di più: la Chiesa concorre direttamente al bene dei proletari col creare e promuovere quanto può conferire al loro sollievo, e in questo tanto si è segnalata, da riscuoter l’ammirazione e gli encomi degli stessi nemici. Nel cuore dei primi cristiani la carità fraterna era così potente che i più facoltosi si privavano spessissimo del proprio per soccorrere gli altri; tanto che non vi era tra loro nessun bisognoso (At 4,34). Ai diaconi, ordine istituito appositamente per questo, era affidato dagli apostoli l’ufficio di esercitare la quotidiana beneficenza e l’apostolo Paolo, benché gravato dalla cura di tutte le Chiese, non dubitava di intraprendere faticosi viaggi, per recare di sua mano ai cristiani poveri le elemosine da lui raccolte. Tertulliano chiama depositi della pietà le offerte che si facevano spontaneamente dai fedeli di ciascuna adunanza, perché destinate a soccorrere e dar sepoltura agli indigenti, sovvenire i poveri orfani d’ambo i sessi, i vecchi e i naufraghi (Apolog, 2.39). Da lì poco a poco si formò il patrimonio, che la Chiesa guardò sempre con religiosa cura come patrimonio della povera gente. La quale anzi, con nuovi e determinati soccorsi, venne perfino liberata dalla vergogna di chiedere. Giacché, madre comune dei poveri e dei ricchi, ispirando e suscitando dappertutto l’eroismo della carità, la Chiesa creò sodalizi religiosi ed altri benefici istituti, che non lasciarono quasi alcuna specie di miseria senza aiuto e conforto. Molti oggi, come già fecero i gentili, biasimano la Chiesa perfino di questa carità squisita, e si è creduto bene di sostituire a questa la beneficenza legale. Ma non è umana industria che possa supplire la carità cristiana, tutta consacrata al bene altrui. Ed essa non può essere se non virtù della Chiesa, perché è virtù che sgorga solamente dal cuore santissimo di Gesù Cristo: e si allontana da Gesù Cristo chi si allontana dalla Chiesa.

B) L’opera dello Stato

25. A risolvere peraltro la questione operaia, non vi è dubbio che si richiedano altresì i mezzi umani. Tutti quelli che vi sono interessati debbono concorrervi ciascuno per la sua parte: e ciò ad esempio di quell’ordine provvidenziale che governa il mondo; poiché d’ordinario si vede che ogni buon effetto è prodotto dall’armoniosa cooperazione di tutte le cause da cui esso dipende. Vediamo dunque quale debba essere il concorso dello Stato. Noi parliamo dello Stato non come è sostituito o come funziona in questa o in quella nazione, ma dello Stato nel suo vero concetto, quale si desume dai principi della retta ragione, in perfetta armonia con le dottrine cattoliche, come noi medesimi esponemmo nella enciclica sulla Costituzione cristiana degli Stati (enc. Immortale Dei).

XXIV ED ULTIMA DOMENICA DOPO PENTECOSTE (2020)

XXIV ED ULTIMA DOMENICA DOPO PENTECOSTE. (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Quest’ultima settimana chiude l’anno ecclesiastico, e con essa si chiude la storia del mondo, iniziatasi coll’Avvento. Perciò in questa domenica la Chiesa fa leggere nel Breviario il libro del Profeta Michea (contemporaneo di Osea e di Isaia) con il commento di S. Basilio, che tratta del giudizio universale, e nel Messale il Vangelo dell’Avvento del Giudice divino. « Ecco, dice Michea, che il Signore uscirà dalla sua dimora; e camminerà su le alture della terra; le montagne si scioglieranno sotto i suoi passi e le valli fonderanno come la cera dinanzi al fuoco, e spariranno come l’acqua su un pendìo. E tutto questo per causa dei peccati d’Israele ». Dopo questa minaccia il Profeta continua con promesse di salvezza « Ti radunerò totalmente, Giacobbe, riunirò quello che resta d’Israele; lo radunerò come un gregge nell’ovile». Gli Assiri hanno distrutto Samaria, i Caldei hanno devastato Gerusalemme, il Messia riparerà tutte queste rovine. Michea annunzia che Gesù Cristo nascerà a Gerusalemme e che il suo regno, che è quello della Gerusalemme celeste, non avrà fine. I profeti Nahum, Habacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia, i libri dei quali si leggono nell’ufficiatura della settimana, confermano quanto ha detto Michea. Gesù nel Vangelo comincia con l’evocare la profezia di Daniele, che annunzia la rovina totale e definitiva del tempio di Gerusalemme e della nazione ebrea per opera dell’esercito romano. Questa abominazione della desolazione è il castigo in cui il popolo di Israele ha incorso per la sua infedeltà, che è giunta al colmo, quando ha rigettato Cristo. Questa profezia si realizzò infatti qualche anno dopo la morte del Salvatore, allorché la tribolazione arrivò a tal punto, che se avesse durato ancora più a lungo nessun Ebreo sarebbe sfuggito alla morte. Ma per salvare coloro che si convertirono in seguito ad una si rude lezione, Dio abbreviò l’assedio di Gerusalemme. Così farà alla fine del mondo, di cui è figura la distruzione di questa città. Al momento del secondo avvento di Cristo vi saranno senza dubbio tribolazioni ancor più terribili. «Molti impostori, fra i quali l’Anticristo, faranno prodigi ancora più satanici per farsi credere il Cristo; allora, l’abominazione della desolazione regnerà in altro modo nel tempio, poiché, spiega S. Girolamo « sorgerà, secondo quanto dice S. Paolo, l’uomo dell’iniquità e dell’opposizione contro tutto quello che è chiamato Dio ed è adorato e spingerà l’audacia fino a sedersi nel tempio stesso di Dio ed a farsi passare egli stesso per Dio » « Verrà accompagnato dalla potenza di satana per far perire e gettare nell’abbandono di Dio quelli che l’avranno accolto » (3° Notturno). Ma qui ancora, continua S. Girolamo, Dio abbrevierà questo tempo, affinché gli eletti non siano indotti in errore (id.). Del resto non vi lasciate ingannare, dice il Salvatore, poiché il Figlio dell’uomo non apparirà, come la prima volta, nel velo del mistero e in un angolo remoto dei mondo, ma in tutto il suo splendore e dappertutto contemporaneamente e con la rapidità della folgore. Allora tutti gli eletti andranno incontro a lui, come gli avvoltoi verso la preda. Compariranno, allora, nel cielo, il segno sfolgorante della croce e il Figlio dell’Uomo che verrà con grande potenza, e con grande maestà (Vangelo). – « Quando vi prende la tentazione di commettere qualche peccato, dice S. Basilio, vorrei che pensaste a questo terribile tribunale di Cristo, dove Egli siederà come giudice sopra un altissimo trono davanti a questo comparirà ogni creatura tremante alla sua gloriosa presenza; là renderemo uno per uno, conto delle azioni di tutta la nostra vita. Subito dopo, coloro che avranno commesso molto male durante la loro vita, si vedranno circondati da terribili e orribili demoni, che li precipiteranno in un profondo abisso. Temete queste cose, e, penetrati da questo timore, usatene come un freno per impedire all’anima vostra di esser trascinata dalla concupiscenza a commettere il peccato» (3″ Notturno). La Chiesa ci esorta perciò nell’Epistola, per bocca dell’Apostolo, a condurci in modo degno del Signore e a portar frutto in ogni sorta di buone opere, affinché, fortificati dalla sua gloriosa potenza, sopportiamo tutto con pazienza e con gioia, ringraziando Dio Padre che ci ha fatti capaci di aver parte all’eredità dei Santi, ora in ispirito, e all’ultimo giorno in corpo e in anima, per il Sangue redentore del suo Figlio diletto. Dio, che ci ha detto per bocca di Geremia di nutrire pensieri di pace e non di collera (Introito), e che ha premesso di esaudire le preghiere fatte con fede (Com.), ci esaudirà e ci affrancherà dalle concupiscenze terrene (Secr.) facendo cessare la nostra cattività (Intr. e Vers.) e aprendoci per sempre il cielo ove il trionfo del Messia troverà la sua gloriosa consumazione. – Vincitore assoluto sui suoi nemici, che risusciteranno per il loro castigo, e Re senza contestazione di tutti gli eletti, che hanno creduto nel suo avvento e che risusciteranno per essere gloriosi nel corpo e nell’anima per tutta l’eternità. Gesù Cristo rimetterà al Padre questo regno, che ha conquistato a prezzo del sul Sangue, come omaggio perfetto del capo e dei suoi membri. E sarà allora la vera Pasqua, il pieno passaggio nella vera terra promessa e la presa di possesso, per sempre, da parte di Gesù ed il suo popolo dei regno della Gerusalemme celeste, dove, nel Tempio, che non è stato fatto da mano di uomo, regna sovrano Dio in cui metteremo tutta la nostra gloria ed il cui Nome celebreremo eternamente (Grad.). E per mezzo del nostro Sommo Sacerdote Gesù noi renderemo un eterno omaggio alla SS. Trinità dicendo: « Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, come era in principio ed ora e sempre e nei secoli, così sia. »

Rendiamo infinite grazie a Dio Padre per averci riscattato per mezzo di Gesù Cristo dalla schiavitù del demonio e delle sue opere tenebrose ed averci resi degni di partecipare con Lui alla gloria del suo regno celeste, che è l’eredità dei Santi nella luce.

Gesù è venuto nell’umiliazione, e tornerà nella gloria. Il suo primo avvento ebbe per scopo di prepararci al secondo. Coloro che l’avranno accolto nel tempo, saranno da lui accolti quando entreranno nell’eternità; quei che l’avranno misconosciuto saranno rigettati. Perciò i Profeti non hanno separato i due avventi del Messia, poiché sono i due atti di un medesimo dramma divino. Così pure Nostro Signore non separa la rovina di Gerusalemme dalla fine del mondo, poiché il castigo che colpi gli Ebrei deicidi è la figura del castigo eterno, che toccherà a tutti quelli che avranno rigettato il Salvatore. Questo primo avvento ha già avuto luogo, il secondo si effettuerà: prepariamoci; la lettura del Vangelo di oggi, tende appunto a questo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ier XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]


Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob.

[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio

Orémus.
Excita, quǽsumus, Dómine, tuórum fidélium voluntátes: ut, divíni óperis fructum propénsius exsequéntes; pietátis tuæ remédia maióra percípiant.

[Eccita, o Signore, Te ne preghiamo, la volontà dei tuoi fedeli: affinché dedicandosi con maggiore ardore a far fruttare l’opera divina, partécipino maggiormente dei rimedi della tua misericordia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1: 9-14
“Fratres: Non cessámus pro vobis orántes et postulántes, ut impleámini agnitióne voluntátis Dei, in omni sapiéntia et intelléctu spiritáli: ut ambulétis digne Deo per ómnia placéntes: in omni ópere bono fructificántes, et crescéntes in scientia Dei: in omni virtúte confortáti secúndum poténtiam claritátis eius in omni patiéntia, et longanimitáte cum gáudio, grátias agentes Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem eius, remissiónem peccatórum”.

(“Fratelli: Non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che abbiate la piena cognizione della volontà di Dio, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, affinché camminiate in maniera degna di Dio; sì da piacergli in tutto; producendo frutti in ogni sorta di opere buone, e progredendo nella cognizione di Dio; corroborati dalla gloriosa potenza di lui in ogni specie di fortezza ad essere in tutto pazienti e longanimi con letizia, ringraziando Dio Padre che i ha fatti degni di partecipare alla sorte dei santi nella luce, sottraendoci al potere delle tenebre; e trasportandoci nel regno del suo diletto Figliuolo, nel quale, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati”).

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

L’ISTRUZIONE RELIGIOSA

L’Epistola è tratta dal principio della lettera ai Colossesi. Dopo il saluto, le congratulazioni, il ringraziamento a Dio per la fede e la pietà che regna tra i Colossesi, assicura — come vediamo dal brano riportato — che prega il Signore che dia loro una conoscenza perfetta della volontà di Dio, così che possano piacergli, mediante i frutti delle buone opere; e che queste opere progrediscano sempre più, per mezzo di una cognizione sempre maggiore delle cose celesti. Prega pure che dia loro la forza di sopportare con letizia le prove immancabili a chi vive cristianamente; e che siano fedeli nel ringraziare Dio Padre, il quale li ha resi degni di partecipare al consorzio dei santi, cioè dei fedeli; li ha strappati alla schiavitù del demonio e delle sue opere tenebrose per metterli sotto il regno del suo Figlio, nostro Redentore. Quest’epistola ci apre la via a parlare dell’istruzione religiosa.

1. Al Cristiano è indispensabile l’istruzione religiosa,

2. Che gli servirà di guida nella vita,

3. E lo renderà costante contro i falsi insegnamenti e le storte teorie.

1.

Fratelli: Non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che abbiate la piena cognizione della volontà di Dio, con ogni sapienza e intelligenza spirituale. L’Apostolo, dicendo ai Colossesi che egli domanda che, per mezzo di quella scienza e sapienza che non viene dagli uomini, ma dallo Spirito Santo, imparino sempre più ciò che Dio vuole da loro; viene bellamente a inculcare il dovere che essi hanno di avanzare sempre più nella cognizione delle verità essenziali del Cristianesimo. È una raccomandazione che S. Paolo fa parecchie volte, e che è di grande importanza per i Cristiani di tutti i tempi, perché pare che in tutti i tempi si dia molto più importanza all’istruzione profana che all’istruzione religiosa. Non parliamo, poi, dei tempi nostri. Noi sentiamo dei fanciulli, con il sussiego di chi la sa lunga in materia, narrare le avventure delle pagine illustrate delle riviste settimanali. Se li interrogate, non sanno ripetere un sol fatto della Storia Sacra. I giovinetti danno l’assalto alle edicole, ai giornalai che escono dalle stazioni per aver notizia delle vicende dei giocatori. Vi sanno dire chi è riuscito primo nel pugilato, nella gara podistica; chi primo nella corsa delle biciclette, delle automobili, ecc. Vi dicono il nome, la paternità, la patria del campione nazionale, del campione europeo, del campione del mondo; ma non vi sanno fare il nome di un campione del Cristianesimo.Gli adulti la sanno forse più lunga in fatto di religione? Se provaste a interrogarli resterete meravigliati della loro ignoranza. Non dissimili dagli uomini sono spesso le donne; e non dissimile dall’operaio e dal contadino è il ricco, la persona colta. Sarebbe già molto, per una buona parte, se arrivassero a far bene il segno della croce. E questa ignoranza è assolutamente inammissibile in un Cristiano. «E’ un errore non conoscere Dio come si conviene» (S. Giov. Crisost. In Ep. ad Col. Hom, 1). L’uomo è figlio di Dio: deve, per conseguenza, conoscere questo Dio, che lo ha creato, che lo governa, che è il suo ultimo fine; conoscere la sua natura, i suoi attributi, per quanto è possibile a persona pellegrina su questa terra: sapere qual è il premio per quelli che lo servono; qual è il castigo per coloro che si ribellano al suo volere. – Dio nella sua bontà infinita ha voluto risollevare l’uomo dalla sua miseria per mezzo della redenzione. È interesse dell’uomo redento, del Cristiano, è suo obbligo istruirsi in questo mistero: conoscere la Persona di Gesù Cristo, quanto ha fatto per noi, il merito della sua opera, la dottrina che Egli ha insegnato, e che le turbe del suo tempo ascoltavano con tanta brama da dimenticare casa, occupazioni e perfino il nutrimento. È interesse e obbligo del Cristiano conoscere chi è la depositaria della sua dottrina, la Chiesa; conoscere gli aiuti che ci ha dato, i Sacramenti. Si tratta d’una istruzione che interessa il Cristiano direttamente, in modo particolare. Si tratta, poi, d’un interesse che non si limita ai quattro giorni che passiamo sulla terra, ma che varca i confini della vita e dura per tutta l’eternità.

2.

S. Paolo desidera che i Colossesi abbiano una piena conoscenza della volontà del Signore affinché si diportino  in maniera degna di Dio, sì da piacergli in tutto. Cioè, conducano una vita in tutto degna di un vero Cristiano. Una vita simile non può prender norma che dalla dottrina della Chiesa. – Nella dottrina della Chiesa si trovano i rimedi adatti a tutte le infermità dell’umana natura, e la difesa contro i pericoli e le illusioni che l’accompagnano. In questa dottrina si trovano gli insegnamenti opportuni per qualunque circostanza della vita. Essa contiene insegnamenti per la vita individuale e per la vita sociale: indica i diritti nella loro giusta misura, e inculca i corrispondenti doveri. – Tolti gli insegnamenti della Religione, ben poca efficacia hanno gli altri mezzi sulla condotta dell’uomo e sull’andamento morale della società. Il ven. Antonio Chevrier era stato arrestato da due guardie urbane di Lione, che l’avevano trovato a questuare alla porta di una chiesa. Condotto dal Commissario, risponde ai rimproveri facendo osservare che egli fa la questua pel mantenimento e l’educazione di una sessantina di ragazzi vagabondi, parecchi dei quali erano certamente passati nell’ufficio del commissario, prima di andare da lui. Quando il commissario sa con chi tratta, non può trattenere la commozione, e due lacrime spuntano sopra i suoi occhi. Poi riprende: «Ah! Padre, continui la sua opera di rigenerazione ben più utile di tutte le nostre case di reclusione; continui a chieder l’elemosina per i suoi ragazzi, non avrà più noie; io stesso voglio partecipare alla sua opera» (Villefranche. Vita del Ven. Servo di Dio Padre Antonio Chevrier. Versione di Alfonso Codaghengo. Roma – Torino. 1924). Possiam poi osservare che la sanzione delle leggi umane, già poco efficace per sé, è relativamente rara. Le leggi umane sono di quelle reti da cui si può sfuggire con tutta facilità. Si possono trasgredire in modo da far quanto la legge proibisce, senza incorrere nella sanzione. Fatta la legge, trovato l’inganno. Se la legge non è scritta nel cuore, fa ben poco. Le cattive inclinazioni hanno origine dal cuore: nel cuore deve stare il loro correttivo. «Serbo nel cuore i tuoi detti per non peccare contro di te», dice il Salmista; ma è impossibile che la legge sia scolpita nel cuore, se non la si considera come ricevuta da Dio. – Ci sono inoltre tante azioni, che la legge umana non considera perché interne, come l’odio, i desideri malvagi, ecc.; ma che non cessano per questo di essere condannabili, e che sono, difatti, severamente condannate dalla dottrina della Chiesa. – Non si può negar l’efficacia dell’insegnamento della Chiesa dal fatto che alcuni anche fortemente istruiti nella Religione, conducano una vita riprovevole. La dottrina religiosa da essi imparata è la loro più severa condanna: Essa li richiama, continuamente alla riforma della propria condotta, che, con l’aiuto della grazia di Dio, può sempre compiersi. A ogni modo è sempre un freno potentissimo con la minaccia dei castighi eterni, riservati a coloro che si ostinano nel male… E coloro che se ne scandalizzano, al punto di voler negare l’efficacia dell’istruzione religiosa, sono forse migliori? – Del resto, si dia uno sguardo alla storia. Si vedrà che la dottrina della Chiesa, alla corrotta vita pagana, ha sostituito una vita di grande dignità e di santità. Si vedrà che quando le popolazioni si avvicinano ai principi del Vangelo sono civili; quando se ne allontanano diventano barbare.

3.

L’Apostolo augura ai Colossesi che vadano progredendo nella cognizione di Dio, cioè nello studio delle verità cristiane. Come grande è, dunque, l’errore di coloro che, studiati i primi elementi della dottrina cristiana da fanciulli al catechismo parrocchiale o alla scuola, non se ne curano più nel restante della vita. Il condurre una vita veramente cristiana non è cosa da animi deboli. Si richiede grande costanza contro ogni genere di contrarietà. Cresciuto il fanciullo negli anni, da chi imparerà il modo di resistere alle passioni? Che cosa lo terrà saldo contro la corrente dei cattivi costumi e delle massime perverse? L’ideale! si dirà. Ma quale? Noi vediamo che sono tanti ideali quante sono le scuole, quanti sono i partiti, quanti sono i gusti. E ciascuno si sceglie l’ideale che accontenta maggiormente le passioni, che cominciano a dominarlo.Sta bene che al catechismo dei fanciulli abbiamo imparato i primi elementi della dottrina; abbiamo imparato per qual fine Dio ci ha creati ecc.; ma, cresciuti in età, dobbiamo approfondire le nostre cognizioni man mano che ci troviamo davanti circostanze che richiedono da noi la manifestazione di principi solidi. Col crescere degli anni si allarga anche il campo dei nostri doveri; dobbiamo quindi cercare di averne una più larga e profonda cognizione. «Che giova — dice S. Bernardo — saper dove sia da andare, se non sai la via per la quale hai da andare?» (S. Bernardo in fest. Asc. Serm. 4, 9).Quando si è uomini maturi, si dice, non c’è più bisogno di guida. Il buon senso e la ragione insegnano quel che c’è da fare. Peccato, che la storia ci dimostri il rovescio. Essa ci dimostra che, quanto alla verità, non c’è assurdo che non sia stato insegnato da qualche filosofo; e che intorno ai doveri degli uomini i sapienti del mondo non hanno mai potuto stabilire un sicuro codice di morale.In pratica, poi, la norma più comune è la pubblica opinione. Questa è né più né meno che una moda qualunque. La moda va e viene: peggio ancora, va da un estremo all’altro. Così, la pubblica opinione oggi condanna ciò che ieri era lecito; con la più grande facilità oggi pone uno sull’altare, domani lo getta nel fango. La, sua regola è il tornaconto del momento. Precisamente opposto è l’insegnamento della Chiesa, il cui linguaggio è « sì, sì; no, no », (Matth. V, 37) e non si adatta mai alle circostanze. La dottrina che essa insegna è la stessa che fu insegnata da Gesù Cristo, che fu bandita dagli Apostoli e dai loro successori e, attraverso a persecuzioni e lotte, arrivò fino a noi senza mutamenti. A questa dottrina deve attenersi chi, nel mar tempestoso della vita, vuol rimaner fermo come uno scoglio che non è smosso dalle opposte correnti. – «Alcune cose si apprendono per averne la cognizione solamente, altre, invece, per metterle anche in pratica », osserva S. Agostino (In Ps. CXVIII En. 17, 3). Perciò il Salmista si rivolge a Dio con quella preghiera: «Insegnami a fare la tua volontà» (Ps. CXLII). Sull’esempio del Salmista rivolgiamoci noi pure a Dio pregando, che ci aiuti a conoscere ciò che dobbiam credere, e ci aiuti a conoscere ciò dobbiamo fare, rendendocene soave l’adempimento.

 Graduale

Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.

[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]


V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in sæcula.

[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]

Alleluja

Allelúia, allelúia.
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúia.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum S.  Matthǽum.

Matt XXIV: 15-35

“In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Cum vidéritis abominatiónem desolatiónis, quæ dicta est a Daniéle Prophéta, stantem in loco sancto: qui legit, intélligat: tunc qui in Iudǽa sunt, fúgiant ad montes: et qui in tecto, non descéndat tóllere áliquid de domo sua: et qui in agro, non revertátur tóllere túnicam suam. Væ autem prægnántibus et nutriéntibus in illis diébus. Oráte autem, ut non fiat fuga vestra in híeme vel sábbato. Erit enim tunc tribulátio magna, qualis non fuit ab inítio mundi usque modo, neque fiet. Et nisi breviáti fuíssent dies illi, non fíeret salva omnis caro: sed propter eléctos breviabúntur dies illi. Tunc si quis vobis díxerit: Ecce, hic est Christus, aut illic: nolíte crédere. Surgent enim pseudochrísti et pseudoprophétæ, et dabunt signa magna et prodígia, ita ut in errórem inducántur – si fíeri potest – étiam elécti. Ecce, prædíxi vobis. Si ergo díxerint vobis: Ecce, in desérto est, nolíte exíre: ecce, in penetrálibus, nolíte crédere. Sicut enim fulgur exit ab Oriénte et paret usque in Occidéntem: ita erit et advéntus Fílii hóminis. Ubicúmque fúerit corpus, illic congregabúntur et áquilæ. Statim autem post tribulatiónem diérum illórum sol obscurábitur, et luna non dabit lumen suum, et stellæ cadent de cælo, et virtútes cœlórum commovebúntur: et tunc parébit signum Fílii hóminis in cœlo: et tunc plangent omnes tribus terræ: et vidébunt Fílium hóminis veniéntem in núbibus cæli cum virtúte multa et maiestáte. Et mittet Angelos suos cum tuba et voce magna: et congregábunt eléctos eius a quátuor ventis, a summis cœlórum usque ad términos eórum. Ab árbore autem fici díscite parábolam: Cum iam ramus eius tener fúerit et fólia nata, scitis, quia prope est æstas: ita et vos cum vidéritis hæc ómnia, scitóte, quia prope est in iánuis. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia hæc fiant. Cœlum et terra transíbunt, verba autem mea non præteríbunt.”

(“In quel tempo disse Gesù a’ suoi discepoli: Quando adunque vedrete l’abbominazione della desolazione, predetta dal profeta Daniele, posta nel luogo santo (chi legge comprenda): allora coloro che si troveranno nella Giudea fuggano ai monti; e chi si troverà sopra il solaio, non scenda per prendere qualche cosa di casa sua; e chi sarà al campo, non ritorni a pigliar la sua veste. Ma guai alle donne gravide, o che avranno bambini al petto in que’ giorni. Pregate perciò, che non abbiate a fuggire di verno, o in giorno di sabato. Imperocché grande sarà allora la tribolazione, quale non fu dal principio del mondo sino a quest’oggi, ne mai sarà. E se non fossero accorciati quei giorni non sarebbe uomo restato salvo; ma saranno accorciati quei giorni in grazia degli eletti. Allora se alcuno vi dirà: Ecco qui, o ecco là il Cristo; non date retta. Imperocché usciranno fuori dei falsi cristi e dei falsi profeti, e faranno miracoli grandi, e prodigi, da fare che siano ingannati (se è possibile) gli stessi eletti. Ecco che io ve l’ho predetto. Se adunque vi diranno: Ecco che egli è nel deserto; non vogliate muovervi: eccolo in fondo della casa; non date retta. Imperocché siccome il lampo si parte dall’oriente, e si fa vedere fino all’occidente; così la venuta del Figliuolo dell’uomo. Dovunque sarà il corpo, quivi si raduneranno le aquile. Immediatamente poi dopo la tribolazione di quei giorni si oscurerà il sole, e la luna non darà più la sua luce, e cadranno dal cielo le stelle, e le potestà dei cieli saranno sommosse. Allora il segno del Figliuolo dell’uomo comparirà nel cielo; e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il figliuol dell’uomo scendere sulle nubi del cielo con potestà e maestà grande. E manderà i suoi Angeli, i quali con tromba e voce sonora raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità  de’ cieli all’altra. Dalla pianta del fico imparate questa similitudine. Quando il ramo di essa intenerisce, e spuntano le foglie, voi sapete che l’estate è vicina: così ancora quando voi vedrete tutte questo cose, sappiate che egli è vicino alla porta. In verità vi dico, non passerà questa generazione, che adempite non siano tutte queste cose. Il cielo e la terra passeranno; ma le mie parole non passeranno”).

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra lo scandalo.

Quum videritis abominationem desolationis… in loco sancto … qui in Judæa sunt fugiant ad montes. Matth. XXIV.

Quando mai, fratelli miei, si è veduta e si vedrà quella abbominazione della desolazione nel luogo santo che Gesù predice nell’odierno Vangelo? Si è veduta nella rovina di Gerusalemme, che i soldati romani, alcuni anni dopo la morte di Gesù Cristo, abbatterono sin dalle fondamenta, allorché il tempio del Signore fu profanato da tutti i disordini immaginabili che gli stranieri e i Giudei medesimi vi commisero. Si vedrà quest’abbominazione nel luogo santo al fine del mondo, quando il Vangelo di Gesù Cristo sarà combattuto, i suoi tempi saranno atterrati, il suo culto abolito. Allora, dice il Salvatore, compariranno dei falsi profeti, che sedurranno molti, e che faranno cose sì straordinarie che gli eletti medesimi avranno molta pena a preservarsi dai loro prestigi. Allora comparirà l’anticristo, che impiegherà tutti i mezzi possibili per distruggere l’impero di Gesù Cristo, ingannando gli uomini con gli errori che spargerà, e pervertendoli o con lo splendore dei beni, o con le lusinghe dei piaceri che loro presenterà. – Ma senza risalire ai secoli passati e senza penetrare nel tempo avvenire, per vedere l’abbominazione della desolazione nel luogo santo, noi non abbiamo, fratelli miei, che a considerare ciò che accade ai giorni nostri sotto i nostri occhi, nel seno stesso del Cristianesimo. Non si vedono forse già seduttori che ingannano gli uni con massime che loro insegnano, pervertiscono gli altri coi cattivi esempi che loro danno; massime sì perniciose, esempi sì contagiosi nella virtù. È dunque lo scandalo che mette l’abbominazione della desolazione nel luogo santo, nella Chiesa di Gesù Cristo, e che dovrebbe pure indurre le anime sante a fuggire sulle montagne e nei deserti per evitarne la contagione: Qui in Judæa sunt fugiant ad montes. Non è per altro possibile a tutti i giusti di lasciare il mondo, deve esservene per servire d’esempio agli altri e molti sono dal loro stato obbligati a dimorarvi. Che far dunque per rimediare allo scandalo sì frequente nel mondo? Bisogna, se si può, correggere gli scandalosi, facendo loro comprendere tutta l’enormità del loro delitto. Il che imprendo a fare in quest’oggi, col mostrar loro, quanto lo scandalo sia ingiurioso a Dio, primo punto; quanto sia pernicioso all’uomo, secondo punto.

1. Punto. Lo scandalo, dicono i teologi, è una parola o un’azione che porta gli altri al peccato: Dìctum vel factum occasionem præbens ruinæ. Su di che, dopo essi, io osservo due cose:

1. che non è necessario, affinché una parola o un’azione sia scandalosa, che sia di sua natura malvagia o peccaminosa; ma basta che abbia qualche apparenza: Quia habet speciem mali.

2. Che, per essere colpevole di peccato, non è già necessario avere l’intenzione diretta d’indurre qualcheduno al male, ma basta prevedere che quel che si dice o che si fa sarà per lui un motivo di peccato. Vi sono ancora scandali di omissione, di cui si rendono colpevoli coloro, che, mancando di adempiere certi doveri, sono un’occasione di caduta pei loro fratelli che dovrebbero animare con la loro esattezza. Or volete voi sapere l’ingiuria che il peccato di scandalo fa a Dio? Giudicatene da questi tratti. Lo scandalo rapisce al Creatore la gloria che gli è dovuta dalle sue creature, distrugge i disegni di Gesù Cristo sopra la salute degli uomini, rende l’uomo simile al demonio. – Non è esso dunque un peccato mostruoso o piuttosto un peccato diabolico? Iddio ha fatte le creature ragionevoli per esserne glorificato con l’omaggio e l’ubbidienza che esse debbono alla sua grandezza, alle sue leggi. Ma che fa il peccato scandaloso? Egli allontana gli uomini dalla strada che conduce a Dio, li porta all’indipendenza o con le istruzioni d’iniquità o coi malvagi esempi che loro dà. Egli è un suddito ribelle che non si contenta di lasciare il servigio del suo principe, di prendere l’armi contro di lui, ma induce altri ancora nella sua ribellione e si fa un partito, come il perfido Assalonne, per privare del trono il suo padre ed il suo re. Ah! se è viltà il non dichiararsi per Dio quando gl’interessi della sua gloria lo richiedono, il non opporsi agli oltraggi che gli si fanno, il mostrarsi indifferente alla vista dei disordini che regnano nel mondo e non impedire il male quando si può, che sarà poi l’autorizzarla con la sua condotta, stabilire il regno dell’empietà sulle rovine della Religione, strascinare gli altri nel vizio e nel libertinaggio, e suscitare a Dio altrettanti nemici che l’oltraggino, quanti sono i sedotti con massime perniciose e perverse, con malvagi esempi? Or ecco ciò che voi fate, peccatori scandalosi, voi che allontanate gli altri dal servigio di Dio, o con gli empi discorsi che tenete sulla Religione, o coi motteggi con che la deridete per disgustare coloro che ne seguono il partito; voi che togliete a Dio la gloria che gli avrebbero procurato i digiuni e le limosine dei vostri fratelli; voi che li allontanate dai divini uffici, dai Sacramenti, dalle istruzioni per indurli alle partite di piacere e di dissolutezza; voi tutti, in una parola, che vi opponete al bene che gli altri possono fare; voi rapite a Dio la gloria che gliene ridonderebbe; perché voi siete iniqui e vorreste calmare i rimorsi di vostra coscienza, cercate di rendere gli altri così iniqui come voi. Ed è per questo che, non contenti di allontanarli dal bene, voi li spingete ancora al male con malvagi esempi. Voi insegnate a questo il modo che tener deve per vendicarsi di un nemico, rimproverandogli la sua indifferenza nell’ingiuria; vi apprendete a quello il segreto di riuscire nei perniciosi disegni di fare un’ingiustizia: voi profferite avanti a persone innocenti parole contro la modestia, canzoni lascive, che fanno sul loro spirito le più mortali impressioni e loro apprendono il male che ignoravano. Uomini dissoluti, voi sollecitate quella persona ad appagare la vostra passione, o con promesse, o con false persuasioni: voi, donne mondane, con i vostri abiti, con la vostra immodestia portate nel cuore degli altri la contagione, di cui siete infette; voi che comparite nel luogo santo con un’affettazione, con modi che la decenza dappertutto proscrive, che disturbate la divozione altrui con ragionamenti fuori di luogo: voi, padri e madri, padroni e padrone, che dovete il buon esempio alle vostre famiglie, voi date pubblicamente lezioni d’iniquità con le bestemmie, con le imprecazioni , che profferite alla presenza dei vostri figliuoli, dei vostri servi, col racconto che loro fate dei disordini di vostra gioventù, con le dissolutezze cui vi abbandonate ancora e con la vita licenziosa che menate; voi che fate dei servi o le vittime delle vostre passioni o i ministri dei vostri intrighi peccaminosi; voi tutti finalmente che con le vostre parole o con le vostre azioni inducete gli altri al peccato, date loro occasione di offendere Dio, o favoreggiando la loro passione, trovando loro oggetti che li contentano o dando ricovero in casa vostra al libertinaggio; voi alzate così pubblicamente lo stendardo della ribellione contro il vostro Dio, somministrando agli altri l’arme per fargii guerra. Uomini perversi che intorbidate il bell’ordine dell’universo e rapite a Dio la gloria che ha diritto di aspettare dalle sue creature ragionevoli, mentre gli esseri inanimati lo glorificano nel loro modo, voi lo fate disonorare, oltraggiare da coloro che sono capaci di conoscerlo e di amarlo. La vostra condotta è non solamente opposta ai disegni del Creatore, ma ancora a quelli del Redentore poiché voi rendete inutile ciò che Gesù Cristo ha fatto per la salute degli uomini. Voi lo sapete, fratelli miei, quale è stato il motivo della venuta del Figliuolo di Dio in questo mondo. Egli è disceso in terra per salvare gli uomini: Propter nostram salutem descendit de cœlis. Questo gran disegno l’ha occupato sin dall’eternità; per effettuarlo nel tempo, si è rivestito d’una carne mortale, si è addossate le nostre debolezze, è nato in una stalla, ha sofferto la fame, la sete, il rigore delle stagioni, gli affronti, i dispregi, una passione dolorosa, una morte crudele. Egli è risuscitato, per nostra giustificazione, dice l’Apostolo; prima di abbandonare la terra per andare al cielo a prendere possesso della sua gloria, Egli sostituì in sua vece gli Apostoli, che incaricò della cura d’istruire le nazioni, e di applicare loro il frutto dei suoi patimenti e della sua morte; a questo fine mandò loro il suo Santo Spirito, che diede ai medesimi tutti i lumi e tutta la forza di cui avevan bisogno per riuscire in quella grande opera: in una parola, la salute degli uomini è stato il fine di tutti i misteri di un Dio fatto uomo, l’oggetto del suo Vangelo, il prezzo del suo sangue. Ma che fa il peccatore scandaloso? Egli rende inutile alle anime che pervertisce il sangue che Gesù Cristo ha sparso per esse, egli annienta i meriti dei suoi patimenti e della sua morte, rapisce al Salvatore le conquiste che gli hanno costato ciò che aveva di più caro: qual attentato! Invano dunque, o pietoso pastore, voi vi siete presa tanta pena per cercare la pecorella smarrita, invano vi affaticaste per correrle dietro, invano avete sudato sangue ed acqua per ricondurla all’ovile, sofferto la morte della croce per darle la vita; i vostri travagli, le vostre lagrime, i vostri patimenti, la vostra morte, tutto diventa inutile; voi l’avete liberata dal furore del lupo, e lo scandaloso viene a togliervela per precipitarla nell’abisso. Qual barbarie! Qual crudeltà! Tale è la vostra, peccatori scandalosi, che fate perire le anime per cui Gesù Cristo è morto: Peribit frater infirmus propter quem Christus mortuus est (1 Cor. VIII). Qual oltraggio non fate voi a questo divin Salvatore, che ha amato le anime sino al punto di sacrificarsi per esse? Oltraggio più atroce, dice s. Bernardo, che il delitto medesimo di cui i Giudei si rendettero colpevoli spargendo il sangue di Gesù Cristo; poiché questo sangue sparso ha servito alla redenzione degli uomini, laddove, oltre il deicidio che voi commettete nella persona di Gesù Cristo, rinnovando la sua morte, voi rendete inutile questa morte, mettete un ostacolo all’adempimento dei suoi disegni, rovesciate l’edificio che Egli ha costrutto con grandi spese, distruggete una Religione che i suoi Apostoli hanno predicata con tanto zelo, che i martiri hanno confermata col loro sangue, che tanti santi dottori hanno illustrata coi loro lumi, e che tanti ministri del Vangelo s’adoprano a sostenere con le loro cure e coi loro buoni esempi; cioè a dire voi rinnovate la guerra, e le persecuzioni che i nemici di questa santa Religione le hanno altre volte suscitate nella persona dei tiranni e degli eretici! Di più questa è una guerra, una persecuzione, che cagiona effetti più funesti che quelle dei suoi primi nemici. Infatti, fratelli miei, la persecuzione che i tiranni mossero altre volte alla Religione, serviva ad accrescer il numero dei fedeli: il sangue dei Cristiani era, come dice Tertulliano, una semente che ne produceva un centuplo. Ma lo scandaloso fa alla Religione una guerra di tanto maggior pericolo, quanto che è meno sanguinosa. Non è già la crudeltà dei carnefici, il rigore dei supplizi, l’orribile apparecchio della morte che egli impiega per far soccombere i fedeli; egli si serve dell’allettamento del piacere, dello splendore delle ricchezze, delle ingannatrici lusinghe degli oggetti che loro presenta per strascinarli ai disordini e far loro abbandonare la santa legge del Signore. Ecco, fratelli miei, ciò che cagiona alla Chiesa in un tempo di pace più grandi amarezze di quelle che essa ha provate nel tempo di guerra; Ecce in pace amaritudo mea amarissima. Ah! piacesse a Dio, diceva s. Ilario, parlando degli eretici, e noi potremmo dirlo parlando degli scandalosi, piacesse a Dio che noi avessimo a fare coi tiranni che mettessero la nostra fede alla prova dei tormenti; il Signore ci farebbe la grazia di sostenere questa fede contro gli sforzi di quei nemici stranieri: ma qui noi abbiamo a fare con nemici domestici che vivono con noi, che sono della medesima Religione e talvolta della stessa casa che noi: il che ci porta colpi tanto più funesti, quanto che sono nascosti sotto le apparenze dell’amicizia che ci dimostrano, delle promesse e delle carezze che ci fanno per indurci nella loro compagnia, per farci cadere nel peccato. Come tratteremo noi dunque, fratelli miei, questi nemici della gloria di Dio e della salute degli uomini? Noi li chiameremo col nome che dà loro il diletto discepolo S. Giovanni. Vi sono al presente, dice egli, molti anticristi: Et nunc antichristi multi facti sunt (1 Jo. 2). Cioè vi sono dei Cristiani indegni di un sì bel nome, i quali fanno di già anticipatamente l’ufficio dell’anticristo, che è di distruggere il regno di Gesù Cristo, di pervertire le anime, d’indurre gli spiriti in errore coi malvagi discorsi che spacciano, coi pestiferi libri che spargono; di corrompere i cuori colle attrattive del cattivo esempio che danno: Et nunc antichristi multi facti sunt. Gli scandalosi sono i precursori dell’anticristo: essi preparano sin d’adesso le sue vie, fanno sin dal presente quel che farà colui quando comparirà sulla terra, che sarà di muover guerra a Gesù Cristo, di opporsi ai suoi disegni, di rapirgli le anime da Lui redente col prezzo del suo sangue. Comprendete voi, peccatori scandalosi, l’enormità del vostro delitto? Non basta ancora il sin qui detto: voi fate l’opera del demonio, quel nemico comune della gloria di Dio e della salute degli uomini. – Ed in vero qual è l’occupazione del demonio sulla terra? Ohimè! noi lo sappiamo per una trista esperienza. Sino da principio del mondo, dice il Vangelo, egli non si è applicato che a far perire le anime create ad immagine di Dio: Homicidia erat ab initio (Jo. VIII). La gelosia che egli ha concepita contro gli uomini, da Dio destinati ad occupare i posti degli angeli prevaricatori; gli fa impiegare tutte le astuzie di cui è capace per far cader l’uomo nel peccato, e rapirgli con questo mezzo la suprema felicità per cui Iddio l’ha creato, e per disgrazia dell’uomo egli riesce pur troppo spesso nei suoi funesti progetti. Sovente ancora non può venir a capo dei suoi disegni, trova nell’uomo della resistenza ai suoi assalti. Che fa dunque questo spirito di tenebre per perdere le anime, per avere la preda di cui vuole impadronirsi? Ah! fratelli miei, egli si serve d’un peccatore scandaloso, di quegli uomini viziosi che non si contentano di perdere se stessi: ma vogliono ancora farsi dei compagni nelle loro disgrazie; ecco i fautori di satanasso, questi sono i ministri e gli strumenti di cui si serve per vincere gli uomini di già scossi dalle sue tentazioni. – Che fa il demonio che vuol perdere quel giovane regolato nella sua condotta, quella figliuola modesta e riserbata che conserva la sua innocenza? Egli suscita all’uno qualche compagno dissoluto che l’allontanerà dalle vie del Signore, che l’indurrà in partite di piacere, gli terrà discorsi licenziosi, e gl’insegnerà a far il male che non sospettava neppure possibile. Il demonio invierà all’altra un libertino, che non la porterà tosto a gravi misfatti, ma che comincerà a sedurla con lusinghevoli parole, prenderà con essa certe famigliarità contrarie alla modestia, ed in appresso la farà cadere in un abisso di disordini; oppure essa frequenterà qualche cattiva compagnia che la strascinerà in quelle adunanze di divertimenti funesti all’innocenza di tutte quelle che vi s’impegnano; e benché per lo innanzi sì riserbata, ella diverrà come le altre, perderà il gusto della divozione, correrà dietro alla vanità ed alla menzogna, cadrà nel peccato. Ecco, fratelli miei, come il demonio si serve degli scandalosi per pervertire le anime innocenti, per farle cadere nelle sue reti. – Che farà ancora questo spirito di malizia per disunire amici, per mettere la dissensione in una famiglia, per irritare dei congiunti gli uni contro gli altri? Egli si servirà di quegli uomini turbolenti e terribili nella società, come li chiama lo Spirito Santo, i quali con malvagi rapporti, con imposture e calunnie, semineranno la zizzania nel campo del padre di famiglia, divideranno gli animi uniti coi legami di una stretta amicizia. Mentre non è questa forse la sorgente ordinaria delle inimicizie, dei contrasti che regnare si vedono nelle famiglie, tra i vicini, i congiunti? Le lingue indiscrete che non possono contenersi, che servono d’organo all’infernale serpente, per far regnare la discordia tra gli uomini, ed attirarli nel soggiorno del disordine e dell’orrore eterno che vi abita. Così, fratelli miei, ciò che il demonio non può fare da sé stesso, lo fa pel mezzo e ministero degli uomini per perderli. Nel che gli scandalosi sono più a temere che il demonio medesimo, perché questo tentatore invisibile non può indurre gli uomini al peccato in una maniera sensibile; laddove l’uomo portato naturalmente ad imitare il suo simile, di cui diffida meno che del demonio, è più presto vinto che dal demonio medesimo; dunque è vero che lo scandalo è un gran peccato, poiché rapisce la gloria a Dio. – Vediamo ora quanto egli è pernicioso all’uomo.

II. Punto. Non è già del peccato di scandalo come degli altri peccati, i quali non nuocciono che a coloro che li commettono. Quelli rinchiudono in sé la loro malizia e la loro corruzione, ma lo scandalo la sparge al di fuori: egli è una peste che infetta non solamente chi ne è tocco, ma ancora coloro che se ne avvicinano; di modo che lo scandalo porta ad uno stesso tempo i suoi colpi mortali e a chi lo dà e a coloro che lo ricevono: due circostanze che ne fanno conoscere i perniciosi effetti. Non si può dubitare che lo scandalo essendo un peccato cosi grave, non dia il colpo di morte a chi lo commette quando trattisi di materia importante. Ma ciò che rende questa morte più tragica si è, che questo peccato, essendo più grave che gli altri, sarà più rigorosamente punito, e che le conseguenze di lui essendo irreparabili, il ritorno alla vita della grazia è più difficile. Siccome vi sono virtù del primo ordine, alle quali Iddio riserba più magnifiche ricompense, si può dire altresì  che vi sono peccati d’una malizia superiore, che Dio punisce con più severi castighi. Nelle virtù del primo ordine bisogna comprendere lo zelo della gloria di Dio, della salute delle anime. Non si può dubitare che questa virtù non sia coronata nel cielo d’una gloria immensa, poiché Gesù Cristo ci assicura che colui il quale avrà praticato ed insegnato, sarà grande nel regno dei cieli; Qui fecerit et docuerit, hic magnus vocabitur in regno cœlorum (Matth.V). Quindi gli Apostoli hanno nel cielo un grado distinto, perché  hanno stabilito il regno di Gesù Cristo sulla terra; quindi i ministri del Vangelo, i quali, seguendo le tracce degli Apostoli, insegnano agl’ignoranti riconducono i peccatori al dovere, risplenderanno, dice la Scrittura, come le stelle nell’eternità: Qui ad iustitiam erudiunt multos, fulgebunt quasi stellæ in perpetuas æternitates (Dan. XII). Giudichiamo da questo, fratelli miei, quali castighi debbono aspettarsi quegli uomini di perdizione che distruggono il regno di Dio coi loro scandali; che, invece d’istruire gl’ignoranti, spargono le tenebre dell’ errore e della menzogna, fanno abbandonare il partito della verità, invece di ricondurre i peccatori sul buon sentiero, lasciare lo fanno ai giusti medesimi, che essi pervertono con le loro detestabili massime, con i loro perniciosi esempi. Ah! qual conto non renderanno essi a Dio delle anime che avranno perdute? Con qual severi castighi Dio non farà loro pagare la perdita di quelle anime che erano il prezzo del suo caro Figliuolo? Sanguinem eius de manu tua requiram (Ezec.III). Sì, peccatori scandalosi, Dio si vendicherà su di voi nel modo più terribile, non solo per la perdita di quelle anime che esso sarà obbligato di riprovare, perché voi le avete rese complici dei vostri disordini; ma più ancora a cagione dell’oltraggio che avete fatto al sangue adorabile del suo Figliuolo, che avete indegnamente profanato: Sanguinem eius de manu tua requiram. Questo sangue prezioso, la cui voce sarà più forte che quella del sangue di Abele, che domandava a Dio vendetta contro suo fratello, solleciterà, animerà la giustizia di Dio a punirvi coll’ultimo rigore e dei vostri propri peccati e di quelli che avrete fatto commettere. Io, vi dirà Gesù Cristo, Io m’era fatto vittima della giustizia di mio Padre per salvare le anime; io non aveva risparmiati né sudori. né fatiche né patimenti né la mia vita medesima per liberarle dalla schiavitù del demonio e collocarle nel soggiorno della gloria; e tu, o scellerato, tu hai fatto di queste anime la vittima della tua crudeltà; tu nulla hai risparmiato per perderle e dannarle; ah! tu pagherai durante tutta l’eternità l’ingiuria che hai fatta al mio sangue, ai miei patimenti, alla mia morte: Sanguinem eius de manu tua requiram. Di questo terribile giudizio minaccia di già Gesù Cristo nel Vangelo il peccatore scandaloso per via delle maledizioni che contro di lui pronuncia. Guai, dice Egli, all’uomo per cui avviene lo scandalo: Væ nomini illi per quam scandalum venit (Matth. XVIII). Sarebbe un minor male per lui il non avere giammai veduto il giorno che rendersi doppiamente colpevole e del peccato che commette, e di quello che fa commettere, perché sarà più rigorosamente punito; egli lo sarà pel suo peccato e per li peccati altrui: più anime avrà perdute, più saranno accresciuti i suoi castighi; ma ciò che comincia di già la sua disgrazia sino da questo mondo si è la somma difficoltà di riparare lo scandalo: Væ nomini illi, etc. Ed in vero, fratelli miei, uno scandaloso che ha ispirato agli altri dei cattivi sentimenti, che loro ha appresa l’arte fatale di commettere il delitto, come cancellerà egli le malvage impressioni che loro ha comunicato? Ohimè! questo perverso lievito ha forse di già corrotta tutta la massa, sia nella sola persona che ha infetta, sia nella moltitudine ove si è sparso. Sovente accade che colui che lo scandaloso ha pervertito, cui ha insegnato il male, ne ha di già contratto l’abito, e non può più disfarsene; autorizzato dal cattivo esempio che gli è stato dato, egli si crede tutto permesso, e porta l’impudenza sino a gloriarsi delle azioni che lo facevano per l’addietro arrossire. Ma supponiamo che lo scandaloso per via dei buoni consigli e di un cangiamento di vita riesca a far rientrare nel dovere qualcheduno di coloro che esso ha pervertiti, come distruggerà egli tutti i malvagi effetti che la contagione del suo misfatto ha prodotti in coloro cui essa si è comunicata? Colui che è stato corrotto ne ha corrotti altri: ed il male è divenuto cosi generale che non solo una moltitudine, un villaggio, una città, ma ancora una provincia, un regno ne sarà infetto. Sarà dunque impossibile conoscere tutti coloro che sono tocchi dalla malattia; e come guarir un male che non si conosce? Come arrestar un incendio che ha di già arsa tutta la casa? Chi potrebbe, per esempio, arrestare le strane conseguenze della lettura di tutti i cattivi libri contro la fede e contro i costumi? Chi può cancellare le malvage idee che una parola di doppio senso, una canzone disonesta avrà prodotte in una compagnia ove sarà stata recitata e che indi si spargerà in molte altre? E pure, per ottenere il perdono del suo peccato, bisogna ripararne le conseguenze; ma come riuscirvi? Nel momento in cui egli chiede misericordia per se stesso, i discepoli che ha formati oltraggiano il Dio che esso invoca. Rapire al prossimo i suoi beni con ingiustizie, il suo onore con calunnie è un gran male; togliergli la vita con l’omicidio è crudeltà; ma fargli perdere la vita dell’anima con lo scandalo, ah! fratelli miei, si è nello stesso tempo ingiustizia e crudeltà, ma crudeltà tanto più enorme quanto la vita della grazia sorpassa tutti i beni della natura. Mentre sapete voi, peccatori scandalosi, il torto che fate al vostro fratello quando gli rapite il tesoro della grazia con il peccato che gli fate commettere? Voi lo private dell’amicizia del suo Dio; voi gli fate perdere il diritto che aveva alla celeste eredità, voi ne fate una vittima dell’ira di Dio; di modo che se quella persona muore nel peccato cui voi l’avete indotta, eccola perduta per un’eternità; l’inferno diventa per sempre la sua porzione. Ella è una perdita irreparabile di cui non la risarcirete giammai, qualunque cosa possiate voi fare. Se avete preso altrui la roba, se gli avete rapito l’onore, potete ristabilirlo nei suoi primi diritti con restituzioni che uguaglino l’ingiuria che gli avete fatta; ma se avete precipitata un’anima nell’inferno coi vostri scandali, voi non ne la farete uscire mai più. Ohimè! Forse ve ne ha di già, o peccatori che mi ascoltate, alcuni che vi sono caduti per colpa vostra; forse udirete voi i lamentevoli gemiti di quegli sgraziati, che gridano dal mezzo delle fiamme: io brucio in questo fuoco, perché ho ascoltati i malvagi discorsi, ho seguito i cattivi esempi di quel peccatore che mi ha strascinato nella colpa: maledetto sia il momento in cui l’ho conosciuto e frequentato! Ah! peccatori, non siete voi penetrati d’orrore a queste voci? Non sarebbe meglio per gl’infelici che voi avete così perduti che aveste loro tolti i beni, la riputazione, la vita medesima, che averle precipitati negli orrori della morte eterna? Se voi volete ancora nuocere al vostro prossimo, se qualcheduno dei vostri fratelli è divenuto l’oggetto del vostro odio, vendicatevi sopra i suoi beni, sopra il suo onore, sopra la sua vita medesima, armatevi d’un pugnale ed immergeteglielo nel seno; ma almeno risparmiate la sua anima: Verumtamen animam illius serva (Job. II). Se voi medesimi volete dannarvi, non comprendete gli altri nella vostra disgrazia, perché i complici del delitto, divenendo i compagni dei vostri castighi, non ne sminuiranno punto il rigore, non faranno al contrario che accrescerlo; più il numero ne sarà grande, più la giustizia di Dio eserciterà su di voi i suoi rigori. – Ora voi dubitar non dovete che i vostri scandali non perdano un gran numero d’anime; mentre è questo uno dei perniciosi effetti di questo peccato di unire alla sua crudeltà la contagione; e perciò si paragona ad una peste che si comunica con una rapidità che è molto difficile di arrestare. Si può dire infatti che lo scandalo è stato la cagione di tutti i mali che hanno desolata la Chiesa di Gesù Cristo, e che è ancora la sorgente avvelenata donde nascono le scelleratezze che inondano l’universo. Quale strage non ha fatta nella Chiesa un solo Ario, un Calvino, un Lutero, che hanno di già perdute tante anime e che ne perderanno ancora nel corso dei secoli? Ma, senza uscire dal seno della Chiesa Cattolica, quanti delitti lo scandalo non produce tutt’i giorni? L’uomo, è vero, è portato di sua natura al peccato; egli è tentato dal demonio; ma è ritenuto dal timore e dalla vergogna annessa al peccato. Or che fa lo scandalo? Toglie all’uomo questo timore e questa vergogna che lo riteneva. L’uomo, naturalmente portato ad imitare i suoi simili, si crede autorizzato a fare quel che far vede dagli altri, principalmente quando si tratta del male, per cui egli ha più propensione che pel bene. Il costume, la licenza che si vede negli altri non è ella forse il pretesto ordinario di cui si servono i libertini per scusare i loro disordini? Taluno crede tutto permesso quando è sostenuto dall’esempio; da che il peccato è divenuto il peccato della moltitudine, esso perde in qualche modo il carattere d’infamia che ne è inseparabile; si leva arditamente la maschera, non sa più arrossire della colpa e si fa gloria di essere così vizioso come gli altri. Tali sono i funesti progressi di questo contagioso peccato che ha di già precipitato più anime nell’inferno che gli esempi dei santi non ne hanno potuto salvare. Né fa d’uopo esserne sorpresi. Per imitare i malvagi, basta seguire la sua naturale propensione; ma per imitare i santi bisogna farsi violenza. Or il numero di coloro che cedono alle inclinazioni d’una natura corrotta è molto più grande che il numero di coloro che vi resistono: e dacché le malvage inclinazioni sono strascinate dal peso del cattivo esempio, a quali eccessi non si abbandonano esse? Quanti giovani i quali, docili alle istruzioni che loro erano state date nella loro infanzia, servivano di già ai grandi medesimi d’esempio, di virtù! Si vedevano fedeli alle risoluzioni formate in una prima Comunione, si accostavano regolarmente ai Sacramenti, assidui ai divini uffici, ubbidienti ai loro genitori, sobri, casti, regolati nella loro condotta; ma da poi che crescendo in età hanno frequentati i malvagi, sono divenuti simili ad essi, sono liberi nelle parole, dissoluti, indocili e pieni di dispregio per le pratiche della Religione e i precetti della Chiesa. Se io domando a colui come ha egli perduto il tesoro della sua innocenza, chi gli ha insegnate quelle opere d’iniquità che imbrattano la purezza della sua anima? Egli mi risponderà che fu un dissoluto da lui frequentato. Così lo scandalo si comunica all’infinito, ed uno scandaloso che è di già da lungo tempo nell’inferno pecca ancora sulla terra nella persona di coloro che ha pervertiti. Da chi imparano i figliuoli a bestemmiare, a dire cattive parole? Da’ padri e dalle madri o da altre persone che non sanno contenersi alla loro presenza. Questi figliuoli, quando saranno essi medesimi padri e madri, insegneranno le stesse cose ai loro figliuoli, questi ai loro discendenti. Così lo scandalo è come un peccato originale che si perpetua di secolo in secolo, di generazione in generazione, che perde la più gran parte del genere umano. E non crediate che lo scandalo consista sempre in certi peccati che portano seco un carattere d’infamia, e che per questo medesimo ispirino orrore a coloro che li vedono. Può esservi dello scandalo in mancamenti anche leggieri, principalmente se si scorgono in persone che debbono per professione edificare gli altri. I deboli che vedono oltrepassare i limiti di qualche convenienza, credono poter andare più lungi. Qualche famigliarità, qualche abboccamento, qualche unione di amicizia che si veda tra persone che non penseranno neppure a far male, non si richiede di più per scandalizzare anime deboli ed innocenti, che temono sino l’apparenza del male. Una donna la quale non avrà tutta la modestia che le conviene nel suo vestire, nelle sue parole, nei suoi modi; che cerca di piacere con certi scherzi, in cui non pensa, dice ella, di fare alcun male, sarà una pietra d’inciampo per coloro che la vedranno, che la frequenteranno. Di più, fratelli miei, sovente anime deboli prenderanno motivo di scandalo da cose che sono in se stesse indifferenti, il mangiar carne sacrificata agli idoli, di cui l’uso non era da se stesso proibito ai primi Cristiani, era una cosa indifferente: il grande Apostolo loro la proibiva nulladimeno, perché prevedeva che ne accadrebbe scandalo, e protestava egli medesimo che non ne avrebbe mangiato giammai sul timore di scandalizzare i suoi fratelli : Si esca scandalizat fratrem meum, non manducabo carnem in æternum (II Cor. VIII). Il che deve indurvi ad astenervi da certe cose che voi credete permesse, e che sono nulladimeno vietate dalla legge della carità, tosto che esse sono per il prossimo un motivo di scandalo. Non bisogna tuttavia tralasciar il bene che uno è obbligato di fare a cagione dello scandalo che altri ne prenderebbero mal a proposito. Si è questo uno scandalo farisaico, che essi debbono imputare a sé medesimi; tale era quello dei Giudei sulla condotta e dottrina di Gesù Cristo.

Pratiche. Ma ciò che v’importa di ben sapere e di praticare si è di regolarvi così bene in tutte le vostre azioni che vi diportiate sempre in una maniera edificante e degna di Dio: Ut ambuletis digne Deo ( Coloss. II). Si è di concorrere, quanto potete, alla salute del prossimo con le vostre parole e con i vostri esempi, di modo che voi siate da per tutto il buon odore di Gesù Cristo. Quel che v’importa ancora di sapere e di praticare si è di evitare la compagnia degli scandalosi; benché assodati voi siate nella virtù, pur cadrete e diverrete malvagi coi malvagi. Quanto a voi che siete stati pei vostri fratelli un odore di morte coi cattivi esempi che avete loro dati, bisogna, per quanto dipende da voi, riparare il male che avete fatto, domandare perdono a Dio: Ab alienis parce servo tuo (Psal. XVIII); ritrattare i malvagi consigli che avete loro dati, le massime perniciose che loro avete insegnate, riparare con la vostra condotta le cattive impressioni che avete cagionate; voi avete scandalizzato con il vostro allontanamento dei Sacramenti e dai divini uffizi, bisogna accostarvi ai primi e che vi vediamo assidui ai secondi. Voi davate scandalo col frequentare certe case o persone che non dovevate neppur vedere; conviene evitare quelle case, quelle persone, per quanto care vi siano, e qualunque vantaggio possiate ricavarne. Voi non farete forse tanto di bene con i vostri buoni esempi , quanto avete fatto di male con i vostri scandali; ma Dio avrà riguardo alla vostra buona volontà, alle preghiere che voi gli indirizzerete per la conversione di coloro che avete pervertiti. Non lasciate la buona strada che avete presa; essa vi condurrà al soggiorno della gloria: Così sia,

 Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta

Propítius esto, Dómine, supplicatiónibus nostris: et, pópuli tui oblatiónibus precibúsque suscéptis, ómnium nostrum ad te corda convérte; ut, a terrenis cupiditátibus liberáti, ad cœléstia desidéria transeámus.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre súppliche e, ricevute le offerte e le preghiere del tuo popolo, converti a Te i cuori di noi tutti, affinché, liberati dalle brame terrene, ci rivolgiamo ai desideri celesti.]

Comunione spirituale

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI: 24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato].

Postcommunio

Orémus.
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine: ut per hæc sacraménta quæ súmpsimus, quidquid in nostra mente vitiósum est, ipsorum medicatiónis dono curétur.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore: che quanto di vizioso è nell’ànima nostra sia curato dalla virtú medicinale di questi sacramenti che abbiamo assunto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

21 NOVEMBRE: PRESENTAZIONE DELLA VERGINE MARIA AL TEMPIO

Prov. VIII:34-36; IX:1-534

Beato l’uomo che mi porge ascolto e che veglia ogni giorno alla mia porta ed aspetta all’ingresso della mia casa.

35 Chi troverà me, troverà la vita, e riceverà dal Signore la salvezza;

36 Ma chi peccherà contro di me, nuocerà all’anima sua. Tutti coloro che mi odiano amano la morte.

1 La Sapienza si è fabbricata una casa, ha tagliato sette colonne.

2 Immolò le sue vittime, versò il vino e imbandì la sua mensa.

3 Mandò le sue ancelle, perché chiamassero, ai bastioni e alle mura della città:

4 “Chi è fanciullo, venga da me”. Ed agli stolti disse:

5 “Venite, mangiate del mio pane e bevete il vino che io vi versai”.

Dal libro di san Giovanni Damasceno sulla fede ortodossa.

Libro 4, cap. 15.

Gioacchino si scelse per sposa Anna, donna piena di meriti e degna dei più grandi elogi. Ma come la primiera Anna, provata dall’afflizione della sterilità, ottenne con la preghiera e con un voto la nascita di Samuele; così pure costei ottenne con suppliche e con una promessa la Madre di Dio, onde neppur qui la cede a nessuna delle donne più illustri. Così la grazia (che questo vuol dire il nome di Anna) dà alla luce la Sovrana (questo significa il nome di Maria). La quale infatti è veramente stata costituita la Sovrana di tutte le creature, divenendo la Madre del Salvatore. Ella vede la luce nella casa di Gioacchino, detta la piscina probatica, e più tardi è condotta nel empio. Piantata così nella casa di Dio e nutrita dallo Spirito Santo, ella, simile a fertile olivo, diviene il santuario d’ogni virtù, distaccando il suo cuore da tutte e cupidigie di questa vita e della carne, e conservando la sua anima vergine unitamente al suo corpo, come conveniva a colei che doveva ricevere Dio nel suo seno.

Dal libro di sant’Ambrogio Vescovo sulle Vergini.

Libro 2, dopo il principio.

Maria è stata tale, che la sua vita è un modello per tutti. Se non dispiace di udirne la prova, lo dimostriamo; affinché, chiunque aspira alla di lei ricompensa, ne imiti l’esempio. Quante virtù risplendono in questa sola vergine! Mistero di pudore, fede intrepida, pietà riverente; vergine vive in casa, sposa è tutta nelle cure domestiche, madre porta (il Figlio) al tempio. O a quante vergini ella andrà incontro! quante ne abbraccerà e condurrà al Signore, dicendo : Ecco la sposa del mio Figlio, colei che si è conservata sempre sua degna e fedele sposa! – E che dire della sua rigorosa astinenza, della molteplicità dei suoi buoni uffici; buoni uffici che sembrano sorpassare le forze della natura, astinenza in cui la natura stessa trovava appena il sufficiente? Dall’una parte nessun istante inoperoso, dall’altra digiuni quotidiani. E quando consentiva a prendere qualche cosa, il suo cibo era del più ordinario, e appena il necessario per non morire, e niente per soddisfare il gusto. Solo (costretta da) necessità prendeva sonno e mai per soddisfare la natura; e anche allora che il corpo riposava, lo spirito vegliava, ripensando spesso in sonno alle cose lette, o continuando i pensieri interrotti dal sonno, o occupandosi di ciò che aveva predisposto, o predisponendo quel che doveva fare.

Omelia di s. Beda, il Venerabile, presbitero

Lib 4 Cap 49 su Luca XI

Questa donna si mostra in possesso di devozione di fede profonda, poiché, mentre gli scribi ed i farisei tentano il Signore e lo bestemmiano, ella riconosce davanti a tutti la sua incarnazione con tanta sincerità, e la confessa con fede così grande, da confondere e la calunnia dei grandi presenti e la perfidia dei futuri eretici. Infatti, come allora i Giudei, bestemmiando contro le opere dello Spirito Santo, negavano che Cristo fosse vero Figlio di Dio consustanziale al Padre; così in seguito gli eretici, negando che Maria sempre Vergine avesse somministrato, per opera e merito dello Spirito Santo, la materia della propria carne al Figlio unigenito di Dio che doveva nascere con un corpo umano, sostennero che non si doveva riconoscere come vero Figlio dell’uomo e della medesima sostanza della madre. – Ma se si ritiene che il corpo preso dal Verbo di Dio incarnandosi è estraneo alla carne della vergine Madre, senza motivo vengono detti beati il seno che lo portò e il petto che lo allattò. Ora l’Apostolo dice: “Poiché Dio mandò il suo Figlio, fatto da una donna, sottomesso alla legge”. E non bisogna dar retta a coloro che pensano si debba leggere: Nato da una donna, sottomesso alla legge, ma bisogna invece leggere: “Fatto da una donna”; perché, concepito nel seno di una vergine, ha tratto la carne non dal nulla, non da altra cosa, ma dalla carne materna. Altrimenti non si potrebbe dire con verità Figlio dell’uomo colui che non ha avuto origine dall’uomo. Anche noi dunque alziamo la nostra voce contro Eutiche insieme con la Chiesa cattolica, di cui questa donna fu figura; solleviamo anche la mente dal mezzo della folla e diciamo al Salvatore: “Beato il seno che ti ha portato e il petto che hai succhiato”. Poiché è veramente madre beata ella che, come disse un autore, ha dato alla luce il Re, che regge il cielo e la terra per i secoli. – Non solo, ma beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”. Il Salvatore approva eminentemente l’attestazione di questa donna, affermando che è beata non sol- tanto colei che aveva meritato di essere madre corporale del Verbo di Dio, ma che sono beati anche tutti coloro che si sforzeranno di concepire spiritualmente lo stesso Verbo istruendosi nella fede e che, praticando le buone opere, lo faranno nascere e quasi lo alimenteranno sia nel proprio cuore, sia in quello del prossimo Infatti la stessa Madre di Dio è sì beata per aver contribuito nel tempo all’incarnazione del Verbo, ma è molto più beata perché meritò, amandolo sempre, di custodirlo in sé eternamente.

Maria e l’educazione.

(L. Faletti S. M.: Il Maggio a Maria; III ed. Marietti ed. Torino, 1926)

V’ha un lamento generale, di cui ci sentiamo di continuo risuonare gli orecchi: che cioè vanno  ogni dì più scomparendo dalla faccia della terra quegli ideali belli e puri che un giorno rendevano meno triste e desolata la nostra dimora in questa valle di lagrime. Ed è purtroppo vero: la materialità va sempre più prendendo piede tra di noi, ed a guisa di marea montante cerca d’invadere e d’ingoiare quanto v’ha ancora di bello, di vero, di buono. E donde mai un tanto disordine? Io non credo di errare trovandone tra l’altro una causa precipua in ciò che vanno ai nostri giorni, con rapidità spaventosa, scomparendo e disseccandosi quelle pure sorgenti da cui, come acqua limpida e cristallina, sgorgavano i principii di una sana morale e di una forte virtù, innestate sull’albero della religione. E tra queste sorgenti benefiche nessuno potrà negare che una delle più ricche sia la scuola, ove, dopo la famiglia, si formano la mente ed il cuore delle future speranze della Società. – Ma la scuola quale noi la vediamo oggidì, si trova dessa all’altezza della sua missione educatrice? Coloro che a questa scuola sono proposti, sono penetrati della responsabilità gravissima che pesa su di essi, e cercano di rendersene degni inspirandosi a quei sentimenti puri ed elevati, quali solo la fede può suggerire? La risposta non è difficile a darsi: basta aprire un poco gli occhi per sapere che pensarne; e se è vero che dagli effetti si giudica la causa, che dai frutti si giudica l’albero, ahimè! quali conclusioni terribili dobbiamo dedurne! Povera gioventù! quanto è inde|gnamente tradita nella maggior parte delle scuole moderne così dette laiche, vale a dire senza Dio, senza morale! Non si avranno mai lagrime abbastanza amare per deplorarne e piangerne la perdita! Sì. Ma, viva Dio! oltre a questi focolari pestilenziali e sorgenti di corruzione, v’hanno ancora altre scuole ed altre cattedre, ove l’educazione che vi si imparte è nobile e sublime, e facente capo ai più begli ideali: e questa è la scuola inspirata ai principii della fede, ed in modo speciale alla divozione ed all’amore della Vergine Santissima. Di queste scuole e di queste cattedre sempre ve ne furono e sempre ve ne saranno, perché, finché nel mondo e nel cuore umano vivrà il ricordo di Maria, sempre questa buona Madre, a cui più d’ogni altro sta a cuore l’educazione! de’ suoi figli tenerelli, eserciterà una santa e salutare influenza sugli animi degli educatori, i quali, nella persona dei loro educandi, non vedranno altro che anime da perfezionare, santificare e condurre a Gesù. Il passato ci è una garanzia del presente e dell’avvenire. Ed invero è un fatto degno di considerazione», che tutte le Istituzioni religiose, che hanno ricevuto da Dio la missione di educare la gioventù, sono state segnate dell’impronta di una divozione speciale verso la SS. Vergine. – Durante una lunga serie di secoli, la storia ci mostra l’educazione di quasi tutte le classi della società, ma soprattutto delle classi elevate, affidata in gran parte  alle cure dei figli di S. Benedetto. Ora si sa che la divozione a Nostra Signora, una divozione non comune, ma singolare, tenera, filiale, era presso di essi tradizione di famiglia, e come tale si ritrova in tutte le grandi anime da loro formate. La lista completa sarebbe troppo lunga: due nomi possono bastare. Nella metà del secolo XI, Gondulfo, nobile signore di Aosta, affidava suo figlio, ancora fanciullo, alle cure dei Benedettini del priorato di questa città. Due secoli più tardi il conte di Aquino rimetteva uno de’ suoi figli dell’età di cinque anni, nelle mani dei Benedettini di Monte Cassino. Il giovane figlio del nobile signore della

città di Aosta, divenne il grande S. Anselmo, quello fra tutti i padri e dottori della Chiesa, che, meglio d’ogni altro, ha insegnato a pregare la SS. Vergine, cotalchè merita di essere chiamato il « dottore della preghiera a Maria ». Quanto al figlio del conte di Aquino, il suo genio e la sua santità, nelle quali la divozione alla Madonna tenevano sì largo posto, fecero di lui il « dottore angelico». Ecco ciò che i Benedettini sapevano fare dei loro alunni, insegnando loro, sopra ogni altra cosa, ad amare la SS. Vergine. Quando nel secolo sedicesimo la Riforma fece sorgere nuovi pericoli per la gioventù, Dio le dette nuovi maestri, suscitando la Compagnia di Gesù. Sant’Ignazio di Loyola era in tutta la forza del termine un cavaliere della Madonna, e l’ordine che egli fondò ereditò della sua pietà cavalleresca. I numerosi Santi usciti dalle file di quest’ordine, portano tutti questo segno. Ve ne sono di quelli, come il dolce Berckmans e l’angelico Stanislao Kostka, i cui nomi son divenuti sinonimi, non precisamente di amore cavalleresco, ma di divozione filiale a Maria. Se Iddio ha accordato in sì larga misura a questa Compagnia illustre e santa il gran dono di amare ardentemente, e, diciamolo pure, appassionatamente la SS. Vergine, è perché Egli la chiamava ad esercitare, più d’ogni altra società religiosa, l’apostolato dell’insegnamento. Quest’apostolato viene esercitato dalla Compagnia di Gesù, più di quello che non si creda e non si sappia generalmente, per mezzo della divozione a Maria, Quelli stessi che non conoscono i Gesuiti che imperfettamente, sanno però che essi sono maestri perfetti nella grand’arte di formare, non soltanto sapienti, ma uomini e Cristiani. Però quelli soltanto che sono stati nei loro collegi possono farsi un’idea dell’arte ammirabile che essi hanno di far amare la SS. Vergine. Di tutte le loro qualità, questa può forse considerarsi la prima. Che leva potente divengono le Congregazioni mariane nelle loro mani! Del resto, non soltanto in Chiesa essi parlano

della SS. Vergine ai loro alunni, non soltanto nelle riunioni delle Congregazioni, non solo nei colloqui privati, ma anche in iscuola, dall’alto di quella stessa cattedra dalla quale spiegano Omero, Virgilio ed Orazio. E così avviene che la divozione alla SS. Vergine purifica, sublima e santifica il loro insegnamento. – Ma intanto i tempi incalzavano, e nuove idee venivano a schierarsi sull’orizzonte; e la scuola, fino allora frequentata, si può dire, unicamente dai figli delle classi elevate e dirigenti, cominciò a poco a poco ad essere frequentata eziandio dai figli del popolo, nel quale cominciava a risvegliarsi e a farsi sentire il desiderio delle lettere e delle scienze. E sarà ancora Maria che presiederà all’insegnamento ed all’educazione di questi umili suoi figli, i quali, per le necessità della vita materiale, sono più degli altri esposti anzitutto ad una educazione antireligiosa, materialista, atea, poi a tenebrosi agguati; povere pecorelle quasi fatalmente gettate nelle zanne del lupo se altri non va in loro soccorso! E d ecco, come nei secoli del Medio-evo e nei posteriori, anche in questi tempi sorgere altre istituzioni religiose, dedicate in modo speciale all’insegnamento popolare; le quali, se dovettero adattare i loro mezzi d’insegnamento ai bisogni ed alle esigenze dell’epoca, non dimenticarono certo quello che fu la leva di forza di quelle che le precedettero e che non cangia mai: inspirarsi cioè esse stesse, ed inspirare alle anime loro affidate, una viva divozione alla Vergine Santa. E noi vedemmo così brillare nel cielo della Chiesa nel secolo XVI e successivi, il De Bus coi suoi Dottrinari, il Calasanzio coi suoi Padri delle Scuole Pie, il De La Salle coi suoi Fratelli delle Scuole Cristiane, e le innumerevoli legioni di istitutori cristiani che loro tennero dietro, e che hanno fatto circolare nelle vene del popolo, a dispetto di tutti gli sforzi macchinati dall’empietà e dall’eresia, lo spirito più puro del Cristianesimo, mantenuto ed avvivato dalla divozione verso l’Augusta Madre di Dio. E qual divozione! Di qual divozione infatti verso Maria non fu esempio S. Giuseppe Calasanzio, uno dei primi fondatori di scuole per la istruzione dei figli del popolo, per non parlare che di lui, che ricevé la sua missione da Maria, che fece tanto per Lei, e volle che il nome della Madre di Dio facesse parte del suo nome e di quello di tutti i suoi discepoli; che cominciava a far recitare fin dal mattino a’ suoi alunni una parte del piccolo ufficio della SS. Vergine, e non li rimandava la sera senza aver fatto loro cantare le litanie, affinché il suo insegnamento poggiasse sorretto dalla preghiera a Maria ed imbalsamato dell’amore di Lei. – Ed ai giorni nostri che non vediamo noi? Non abbiamo che a darci uno sguardo attorno per constatare e convincerci quanto numerose siano le anime che strette in dolce unione sotto la bandiera fl della Vergine combattono generosamente per salvare dalla ruina e dalla morte le future speranze della Società, specialmente quelle delle classi popolari. E se v’ha un punto in cui queste nuove famiglie educatrici pare vogliano sorpassare le antiche, questo si è nello zelo che esse spiegano per inspirare ai fanciulli affidati alle loro cure un ardente amore a Maria. « Se voi riuscirete ad inspirare nell’anima dei vostri alunni la divozione a Maria, voi li avrete salvati », diceva ai piccoli fratelli di Maria il loro pio fondatore, il Venerabile Marcellino Champagnat; e mai non cessava di raccomandare loro che lavorassero con tutte le loro forze per far amare la SS. Vergine. « Fatela amare! » disse loro nel suo testamento. Si vede in ciò una premura speciale della Provvidenza, perché il popolo non ha mai avuto tanto bisogno d’amar fin dall’infanzia la SS. Vergine come ai giorni nostri. In tempi di fede, il cielo e la terra gli parlavano della Madonna. Nelle stelle del firmamento, nelle selve, nelle sorgenti, nei fiori delle praterie, per tutto esso trovava il ricordo e il simbolo della Vergine. Ed è in ciò che consisteva, come ha detto sì bene Montalembert, il libro di lettura dei poveri e dei semplici, il Vangelo ridotto a loro uso, Biblia pauperum! I loro occhi innocenti vi leggevano quei pii sentimenti di fede, che si direbbero oggi per sempre scomparsi: il cielo e la terra apparivano loro illuminati della più dolce scienza, ed essi potevano veramente cantare con voce sincera: Pleni sunt cœli et terra gloria tua. Chi potrebbe calcolare quanto questa vita di fede siasi impoverita da allora in poi? Chi pensa oggidì alla fantasia dei poveri, al cuore degl’ignoranti? Sì, il mondo era allora ravvolto dalla fede in un velo benefico che, nascondendo le piaghe della terra, diveniva trasparente per gli splendori del cielo. Oggi è tutt’altra cosa: tutto è nudo sulla terra, tutto è velato nel cielo. È quindi più che mai opportuno, necessario anzi, che mani pietose allarghino le pieghe di questo velo, e mostrino agli sguardi della fanciullezza, bellezze superiori a quelle della terra, e specialmente questa dolce, amabile, splendida figura della Vergine che l’empietà si sforza di nascondere. Il popolo ha bisogno esso pure di un raggio di poesia che venga di tempo in tempo a rischiarare la sua esistenza oscurata dalle realtà, talvolta molto dure, della vita, contro le quali deve necessariamente lottare. Questa poesia il popolo non può trovarla, come le classi elevate, nello studio delle belle lettere. Ah! fategli almeno contemplare negli anni suoi giovanili questa Vergine Madre che tiene nelle braccia il Divino Gesù! Fategli sentire il concerto che gli Angeli cantarono sulla culla del Salvatore! Che egli veda brillare la stella dei Magi, che veda sfilare il loro lungo corteo carico di doni magnifici; che contempli questi re inginocchiarsi davanti al Fanciullo ed alla Madre sua! Che egli segua questa Augusta Madre in Egitto, al Tempio, a Nazareth, al Cenacolo, al Calvario, e finalmente al Cielo, dove Ella sale in corpo ed in anima circondata da innumerevoli coorti di Angeli che la proclamano loro Regina! È necessario che egli si abitui ad invocarla come regina e come stella del mattino e del mare, e soprattutto come consolatrice degli afflitti, speranza di quelli che piangono, perché il popolo ha bisogno di consolazione e di speranza; la terra ha per lui tanta durezza; il cielo almeno gli sorrida! Ah! conoscono pur troppo quel che si fanno quei settari che, non contenti di allontanare i figli del popolo dalle scuole cristiane, hanno voluto altresì insegnar loro ad insultare quella Vergine che è la madre del bell’amore e l’astro della speranza! Non bastavano loro gli oltraggi che Le venivano diretti dagli adulti: hanno voluto per questo delitto assicurarsi la complicità dell’infanzia, ed hanno perciò insegnato la bestemmia alle sue labbra innocenti. Hanno agito con calcolo per soffocare, sin dal suo germe, uno dei sentimenti più dolci al cuore, più salutari all’anima; il sentimento cioè della pietà filiale verso la Madre di Dio, divenuta Madre nostra. Sanno bene questi perfidi che non vi è mezzo più sicuro per uccidere la fede che scoraggiare la speranza e distornare gli occhi degli abitanti della terra dall’immagine di Colei che apparisce come il rifugio dei peccatori e la consolazione degli afflitti. E tutto hanno messo in pratica per riuscire nei loro intenti. Ma se disgraziatamente riuscirono in parte, la vittoria fu ben lungi dall’essere completa: per opera di Maria il rimedio fu pronto ed efficace al male; e l’inferno vide, vede e vedrà sempre i suoi empi conati contro la gioventù, frustrati e debellati da Colei che un giorno gli schiacciò il capo col virgineo piede. E nonostante la persecuzione che una setta infame va scatenando ogni dì più contro le scuole cristiane ed inspirate alla divozione della Vergine Santissima, noi le vediamo sempre più rifiorire a maggior gloria di Dio e della Chiesa ed alla salute delle anime. Riconoscenza adunque a Maria, difesa e salvaguardia della cristiana educazione della gioventù.

FIORETTO.

Evitare di fare o dire cosa che possa dar scandalo od essere di cattivo esempio a chi è più giovane di noi.

Il Ven. Giovanni Bosco, fondatore della Congregazione Salesiana.

Egli è impossibile parlare dei grandi servitori ed amanti di Maria che illustrarono la Chiesa negli ultimi anni senza che subito si presenti spontaneo alla mente un nome che al solo pronunziarlo suscita vivi sentimenti di stima e venerazione negli animi di tutti, e dinanzi al quale gli increduli ed i cattivi stessi chinano riverenti la fronte. È questo il nome del Ven. Don Giovanni Bosco, il grande apostolo della gioventù dei nostri tempi. Benché un quarto di secolo sia ormai trascorso dal giorno in cui rese la sua bell’anima a Dio, la sua memoria si conserva tuttavia viva e fresca, come se ieri soltanto fosse morto, tanto che a lui meglio che a qualunque altro si possono applicare le parole dei Libri santi «in memoria æterna erit iustus». Sì, D. Bosco, così illustre per le sue virtù e pei suoi miracoli, vive tuttodì potente e grande in mezzo al mondo per mezzo delle innumerevoli opere a cui diede vita e che perpetuano il suo apostolato in tutte le regioni della terra; vive e vivrà in mezzo agli uomini per quanto durerà in sulla terra la divozione alla Vergine invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice dei Cristiani. Come infatti sarà possibile separare il nome di Maria SS. Ausiliatrice da quello di Don Bosco? Egli è invocando Maria sotto questo titolo che egli fondava le sue opere, istituiva i suoi oratorii, guariva gli ammalati, si cattivava l’animo della gioventù, convertiva i peccatori, faceva fronte a tutti i suoi gravosi obblighi. Si può dire senza tema di errare che questo grande benefattore della Società parve più d’una volta forzare la mano della Provvidenza, invocando Maria Ausiliatrice per farla intervenire in suo aiuto nelle grandi necessità in cui si trovava. Qui è una matrona che ricupera la salute in seguito ad una novena fatta in onore di Maria Ausiliatrice e ad una promessa di una generosa elemosina per la nuova Chiesa che egli voleva innalzare sotto questo vocabolo ; là è un barone, senatore del regno, a cui egli ottiene la guarigione dalla Vergine per averne soccorsi per la sua opera. Più tardi è un ammalato impedito in tutte le sue membra ed inchiodato da tre anni su di un letto: Don Bosco gli comanda di alzarsi in nome di Maria SS. Ausiliatrice per andargli a prendere su due piedi la somma di tre mila lire di cui aveva bisogno in quel giorno stesso. In una parola, per farla breve, sopra un milione e cento mila lire che gli costò il magnifico santuario che egli innalzò a Torino in onore di Maria Ausiliatrice, più di ottocento mila lire gli furono date in ringraziamento di favori ottenuti per l’intercessione di questa Vergine Augusta. Ma più che non per tutto ciò il nome di Don Bosco sarà benedetto dalle generazioni future per il gran bene che operò a prò della gioventù povera ed abbandonata, colla fondazione dei suoi Oratorii, che, sparsi oggidì e moltiplicati in tutti i grandi centri abitati, costituiscono un porto di salute per tanti poveri giovani che andrebbero altrimenti guasti e perduti. Ma anche in quest’opera se fu grande D. Bosco, se ottenne così consolanti e numerosi risultati, fu perché si servì della divozione della Vergine come di un mezzo infallibile per vincere tutte le difficoltà. Vogliamo noi conoscere di quale aiuto potente non sia stata per lui la divozione della Vergine nell’educazione della gioventù? Oh! entriamo per un momento in una di quelle scuole, chiamate dal Venerabile Don Bosco oratorii, appunto perché oltre che a leggere, a scrivere, a cantare, vi si insegna specialmente a pregare. Donde vengono i fanciulli che in esse sono raccolti? Sovente neppur essi lo sanno; poiché molti ve ne sono tra di loro pei quali la famiglia esiste appena o, quel ch’è peggio non esiste che per costituire un pericolo permanente alla loro fede ed alla loro virtù : non pochi poi sono quelli che non hanno altro tetto che cielo, altra dimora che la strada, dove videro appresero cose spaventevoli, per cui fu comunicata loro una lagrimevole precocità del vizio, maestri che i più ignobili delinquenti. Ma qual  cangiamento non si operò in essi alla scuola di D. Bosco, sotto il dolce influsso della divozione a Maria Ausiliatrice! Poc’anzi bestemmiavano, ora pregano; mesi sono era un piacere per loro il canterellare ritornelli osceni, ora essi mettono la gioia nel ripetere le strofe di qualche pio cantico; vagabondi ed abbandonati, avevano il fango sulle vesti, sulle mani, sul volto, e per la loro cinica andatura davano a divedere di averne anche spruzzata l’anima; raccolti nell’Oratorio, il vestito è pulito ed il contegno modesto; si vede l’innocenza ritornata a brillare sulla loro fronte, il candore nel loro sorriso, il cielo nel loro sguardo. Erano demoni, son diventati angeli. Quando inginocchiati colle mani giunte rivolgono gli occhi bagnati di lagrime all’immagine della Madonna, ripetendo con le loro voci fresche e pure: « Vi saluto, Maria, piena di grazia », sembra scorgere, attraverso la porta dischiusa del Paradiso, l’Augusta Regina de’ Cieli in mezzo agli angelici cori. – Oh! sì, se Iddio mise nel cuore di quest’uomo provvidenziale, dal quale fu fondata la Pia società Salesiana in un con lo zelo ardente per la gloria di Maria, quella confidenza in Lei. ottiene miracoli, fu appunto perché egli era chiamato a compiere sia da sé, sia per mezzo dei membri della società religiosa alla quale ha lasciato il suo spirito, la più difficile e la più necessaria di tutte le opere: la formazione della mente e del cuore del fanciullo povero, orfano, abbandonato. Fu perché egli aveva ricevuto da Dio la missione di operare e di formar i suoi discepoli a operare a suo esempio il più grande dei miracoli: la trasformazione del fanciullo corrotto, vizioso, empio, in fanciullo onesto, Cristiano e pio. Sono state molto ammirate e tuttavia si ammirano le opere veramente straordinarie che Don Bosco ha compiute in numero sì grande, o, per dir meglio, che sono state compiute da Maria SS. Ausiliatrice, servendosi di lui come di uno strumento. E tutto ciò con ragione. Ma la più meravigliosa di tutte è quella che, avendo raccolto da ogni parte, non già centinaia, ma migliaia e migliaia di fanciulli poveri, moltissimi dei quali già erano contaminati dal vizio, abbia potuto fare di una buona parte di essi non solo buoni Cristiani, ma ancora buoni preti e buoni religiosi. – Questo grande e fedele servitore di Maria, gloria e vanto non solo dell’Italia nostra, ma anche dell’umanità intera, di cui fu uno dei più insigni benefattori, finì la sua mortai carriera fra il compianto universale l’anno 1888, e già la Chiesa riconobbe pubblicamente i suoi meriti e le sue virtù onorandolo del titolo di Venerabile.

LO SCUDO DELLA FEDE (136)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccuno Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (3)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE III.

PUNTO I.

L’Ecclesiastica Gerarchia: – istituita da Gesù Cristo pel governo spirituale visibile della sua Chiesa. – La Sacra Ordinazione dei Ministri del culto.

Prot. Se nelle cose riguardanti la Chiesa fosse contento il Papismo di propugnare la indefettibilità e visibilità, nulla avrei più che ridire contro di lui. Ma egli sostiene ed insegna che Gesù Cristo ha istituito nella sua Chiesa una ordinata Gerarchia dì Sacri Ministri composta di Vescovi, di Preti e di altri ministri inferiori, avente a Capo Supremo il Papa, e distinta e indipendente dal popolo, e nella quale tutta è riunita e ristretta la spirituale autorità sopra il medesimo popolo! Tale errore non può tollerarsi; essendo cosa certissima (come insegna la mia Riforma), che, secondo la divina istituzione, il popol fedele non ha sopra di sé altri governatori che lo Spirito Santo, dal quale ciascuno è guidato: che ogni cristiano, in virtù del battesimo, è vero sacerdote, e quindi, che tutta la spirituale potestà, per ciò che riguarda il pubblico culto, il necessario governo visibile etc. della Chiesa risiede esclusivamente nel popolo: e per conseguenza i Ministri del culto in particolare non essendo che di umana istituzione, poiché non sono che deputati del popolo, onde facciano le sue veci nel sacro Ministero, perché sia lecita e valida la loro elezione debbono essere istituiti dai Magistrati, o dai Principi, che sono i supremi rappresentanti del popolo, ai quali ha delegata tutta la ecclesiastica potestà.

Bibbia. Sta scritto: « Chiamò (Gesù) i suoi discepoli e scelse dodici di essi, a’ quali diede anche il nome di Apostoli. » (Luc. VI, 13). – E Gesù rispondendo, disse a lui: « E io dico a te che tu  sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa…. e a te darò le chiavi del regno de’ cieli. » (Matt. XVI, 17, 18, 19). « Di poi scelse il Signore altri settantadue. » (Luc. X, 1). – « Badate a voi stessi e a tutto il gregge, di cui lo Spirito Santo vi ha costituiti Vescovi, per reggere la Chiesa di Dio. » (Act. XX, 28). E avendo ordinato per essi dei preti in ciascheduna Chiesa, gli raccomandarono al Signore. » (Act. XIV, 22). – « Similmente i Diaconi [sieno] pudici,… portino il ministero della fede in una coscienza pura. » (II Tim. III, 8, 9). – « Esso (Cristo) altri costituì Apostoli, altri profeti, altri Evangelisti, altri pastori e dottori nell’opera del ministero, etc. » (Efes. IV, 11). Ecco dunque  l’Ecclesiastica Gerarchia istituita evidentemente da Gesù Cristo, composta di Apostoli, di Vescovi, di Preti, di Diaconi, etc. e avente a capo supremo S. Pietro del quale il Papa è successore, distinta e indipendente da chicchessia. Onde guardati bene dal negarla, dal dire che sia di umana istituzione, o che tutti i fedeli elevati siano in virtù del battesimo alla dignità sacerdotale; poiché sta scritto: «Forse tutti Apostoli? Forse tutti profeti? Finse tutti dottori? etc. » (I Cor. XII, 29).

10. Prot. Di tutti i fedeli è scritto: « Voi stirpe eletta, regale sacerdozio, gente santa,… sacerdozio santo per offrire vittime spirituali, gradite a Dio per Gesù Cristo. » (I Piet. II, 5, 9)

Bibbia. Anche degli Ebrei sta scritto: «Voi sarete mio regno sacerdotale. » (Exod. XIX, 6) Dirai per questo che tutti gli Ebrei erano sacerdoti? – Pertanto è dato ai Cristiani (come fu dato agli Ebrei) questo glorioso titolo non perché tutti siano sacerdoti, ma 1.° Perché essi soltanto posseggono il vero sacerdozio. 2.° Perché tutti senza eccezione hanno un sacerdozio impropriamente detto; quello, cioè, di potere offrire a Dio, in virtù dei meriti di Gesù Cristo, sacrifici di lode, i propri affetti, sé stessi con merito di vita eterna, come insegna S. Paolo, dicendo: « Io pertanto vi scongiuro, o fratelli, i per la misericordia di Dio, che offriate i vostri corpi ostia viva, santa, piacevole a Dio, il razionale vostro culto. » (Rom. VIII, 1). Che però nel testo da te citato non si dice loro « per offrire la vittima » che è il nome proprio del gran Sacrifizio della Nuova Alleanza; ma si dice « per offrire vittime spirituali etc. » 3.° Finalmente, perché nella legge Cristiana non è ristretto il sacerdozio ad una sola tribù, ai discendenti di una sola famiglia, come presso gli Ebrei ma (eccettuate le donne) tutti possono essere innalzati a tal dignità, mediante la Sacra Ordinazione, la quale è assolutamente necessaria, secondo l’istituzione divina. Imperocché sta scritto: « Or mentre essi offrivano al Signore i sacri misteri, e digiunavano, disse loro lo Spirito Santo: separatemi Saulo e Barnaba per l’opera alla quale gli ho destinati. Allora dopo aver digiunato e orato, imposero loro le mani, e li licenziarono » (Act. XII, 2, 3) – « Non trascurare la grazia che è in te, la quale ti e stata data per la rivelazione, con l’imposizione delle mani del presbiterio? (I. Tim. IV, 14). – « Ti rammento di ravvivare la grazia di Dio che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. » (II. Tim. 1, 61). – Da tutto questo è ben chiaro che la Sacra Ordinazione non solo è d’istituzione divina, ma è un vero Sacramento, poiché produce la grazia, ed è talmente necessaria, secondo le disposizioni divine, che neppure gli eletti immediatamente dallo Spirito Santo in sacerdoti possono senza di essa divenir tali, come è manifesto dal fatto di Saulo e di Barnaba; e che tale Ordinazione unicamente appartiene ai primari ministri della Santa Chiesa.

PUNTO II.

In forza della stessa divina istituzione, nella sola Ecclesiastica Gerarchia, e non in altri, tutta è riunita e ristretta l’ecclesiastica dignità, la spirituale autorità e giurisdizione tanto degli uni sopra gli altri Sacri Ministri, secondo i rispettivi loro gradi, quanto sopra tutti i fedeli, senza eccezione.

Bibbia. Stabilita la verità che non tutti i cristiani sono sacerdoti ma quelli soltanto che sono a tale uffizio specialmente ordinati o consacrati, vediamo adesso presso chi risieda la spirituale giurisdizione. Ascolta. « E appressandosi Gesù parlò loro agli Apostoli, dicendo: è stata data a me ogni potestà in cielo e in terra…. Andate, e istruite tutte le genti. » (Matt. XXVIII, 18,19). – « Come il Padre mandò me, anch’io mando voi. » (Giov. XX, 21) – « Chi assolta voi, ascolta me: e chi disprezza voi disprezza me. » (Luc. X, 16). « Ricevete lo Spirito Santo: Saran rimessi i peccati a chi li rimettetele, e saran ritenuti a chi li riterrete. » (Giov. XX, 22, 23). –  « In verità vi dico: Tatto quello che avrete legato sulla terra, sarà legato anche in cielo: e tutto quello che avrete sciolto sulla terra, sarà sciolto anche in cielo.1 » (Matt. XVIII, 18). Che te ne pare?

11. Prot. Gesù Cristo ha detto ancora: «Se il tuo fratello avrà peccato contro di te, va’ e correggilo tra te e lui solo… Se non ti ascolta prendi ancora teco una o due persone…. Che se non farà conto di esse, dillo alla Chiesa. E se non ascolta nemmeno la Chiesa, abbilo come per pagano e pubblicano. » (Ivi, V, 15 e seg.). Dunque alla Chiesa, cioè al corpo dei fedeli, appartiene la spirituale autorità e giurisdizione.

Bibbia. Tu erri, perché Gesù Cristo non parlava in questa circostanza ai fedeli in generale, ma ai soli Apostoli separatamente. Onde è chiaro che in questo luogo per nome Chiesa, non intese significare il corpo de’ fedeli, ma i soli pastori rappresentanti la Chiesa. E perché nessuno ne dubitasse, immediatamente soggiunse loro quelle già riferite parole: « Tutto quello che avrete legato sulla terra, etc. »

12. Prot. Disse pure Gesù: « Io pregherò il Padre, e vi darà un altro Paracleto, affinché rimanga con voi eternamente, lo Spirito di verità. » (Giov. XIV, 16, 17) Dunque la Chiesa è governata direttamente e immediatamente dallo Spirito Santo, né vi è bisogno di Ecclesiastica Gerarchia, né della sua potestà e giurisdizione pel governo della medesima.

Bibbia. Questo testo è fuor di proposito; perché è manifesto che quella divina promessa fu unicamente fatta agli Apostoli, co’ quali Gesù privatamente parlava; né altro riguarda che la divina assistenza promessa ai medesimi e ai loro successori nel governo visibile della Chiesa. Oltre di ciò sta scritto: « Attendete a voi stessi e a tutto il gregge; di cui lo Spirito Santo vi ha costituiti Vescovi per reggere la Chiesa di Dio. » (Act. XX, 28). Dunque lo Spirito Santo medesimo ti dà la più solenne smentita; mentre ti dichiara che Egli stesso ha costituiti i Vescovi al governo visibile della Chiesa. Hai capito? Ascoltami ancora. « A questo fine ti lasciai in Creta (dice S. Paolo a Tito) perché tu dia sesto a quel che rimane, e stabilisca de’ Preti per le città…. I Cretesi sempre bugiardi, etc:… per la qual cosa riprendili severamente. » « Esorta, riprendi con ogni autorità. Nessunoti sprezzi. » (ivi, II, 15)« Contro di un prete (a Timoteo) non ricevere accusa, se non su due o tre testimoni. Quelli che peccano riprendili alla presenza di tutti; affinché ne prendano timore anche gli altri. »  – (I Tim. V, 19, 20) – « Predissi e predico a que’ che prima peccarono, e a tutti gli altri, che se verrò di nuovo non perdonerò? » (II Cor. XIII, 2). – « Taluni han fatto naufragio intorno la fede: de’ quali e Imeneo e Alessandro, i quali ho conseguato a satana, affinché ìmparino a bestemmiare » (I Tim. I, 19, 20). – « I preti che governan bene, sian riputati degni di doppio onore. » (ivi, V, 17). – « Chiunque recede e non sta fermo nella dottrina di Cristo, non ha Dio…. Se alcuno viene a voi e non reca questa dottrina, non lo ricevete in casa, e non lo salutate » (II Giov. V, 9, 10). Ecco dunque tutta la potestà, autorità, giurisdizione spirituale data da Gesù Cristo unicamente, interamente e indipendentemente da chicchessia ai primari Pastori della sua Chiesa, dai quali è comunicata a’ loro subalterni Ministri da grado in grado fino al Capo Supremo o Papa, in cui tutta si riunisce e concentra, e da cui, per conseguenza, tutti assolutamente dipendono. Autorità e potestà di ministero, di ordine, di onore e giurisdizioni, elettiva e coattiva sino a poter recidere dal corpo della Chiesa i contumaci e proibire ai fedeli di comunicare con essi. Come dunque hai potuto sognare che tutto.ciò appartiene al popolo, ai magistrati, a’ Principi temporali?

Prot. S. Paolo dice: «Ogni anima sia soggetta alle potestà superiori; imperocché non vi è podestà se non da Dio. » (Rom. XIII, 1) Questo passo è decisivo, perché qui l’Apostolo parla de’ Principi temporali, e vuole che tutti ad essi obbediscano, e in tutto senza eccezione di cose o persone ecclesiastiche.

Bibbia. Erri grandemente, perché qui S. Paolo non parla s ai principi temporali, ma di ogni sorta di podestà, come è chiaro dal testo, e comanda che ciascuno sia soggetto, obbedisca ai suoi legittimi superiori. Passa di poi a parlare dei principi temporali, ma ben dichiara che la loro potestà non è che temporale, dicendo: « non indarno porta la spada: » né vi è pure una sillaba che indichi in essi la spirituale potestà. Finalmente San Paolo parla ivi di principi pagani idolatri, e tu vorresti che essi pure fossero Capi della Chiesa di Dio? Rispondi.

15. Prot. A dirvela sinceramente, la penso ancor io come voi.

« Cristo ha istituiti Apostoli, profeti, evangelisti, predicatori, dottori. Vescovi, preti e anziani. I Diaconi vegliavano su i poveri » (Calvino, lib. IV, Instit. cap. 3). La Chiesa di Gesù Cristo consiste nella successione de’ Vescovi, per mezzo dell’imposizione delle mani, e quest’ordine di successione deve persistere fino al termine de’ secoli, di ciò accertandoci quelle parole di Gesù Cristo in S. Matteo – XXVIII 20.- « Io sarò con voi per tutti i giorni sino alla consumazione de’ secoli ». Riguardo poi alla ordinazione de’ Sacerdoti, eccovi alcune delle mie leggi. L’ordinante insieme con tutti gli astanti, stendendo ambe le mani sopra il capo dell’ordinando, dice: Ricevi lo Spirito Santo pel ministero dell’opera, ossia del sacerdozio, che noi ti conferiamo colla imposizione delle mani: a chi rimetterai i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrai saran ritenuti. In virtù della potestà a me data mediante il nome di Dio nella Chiesa, io ti consacro e ordino sacerdote della Chiesa Evangelica, predicatore del Vangelo di Gesù Cristo, e dispensatore de’ santi suoi Sacramenti, nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo » (Fessler, Manuale Liturgico, – Vedi anche Kaisser, Theologia Biblica, seu Judaismus et Catholicismus 1814 e Merbeineke, Syst. Cathol. vol. III.). Da ciò ben vedete che se non mi conformo in tutto al Cattolicismo. pare ammetto ancor io che per divenir sacerdote è necessaria la Sacra Ordinazione, e che questa è d’istituzione divina, che in essa si riceve lo Spirito Santo, ossia che conferisce la grazia, e che per conseguenza è un vero Sacramento. Ora sentite il resto.

« Il Vangelo attribuisce a quelli che presiedono alle Chiese il « mandato d’insegnare il Vangelo, di rimettere i peccati, di amministrare i Sacramenti, ed oltre a ciò la giurisdizione, cioè il mandato di scomunicare coloro de’ quali noti sono i delitti, e nuovamente assolverli se si ravvedono; ed è manifesto che questa potestà è di diritta divino » (4 Confess. Smascald presso Wegscheider, Instit. tbeologic. Chris». § 18S, in Nota -L-). – « I riformatori attribuirono alla Chiesa stessa la potestà di eleggere e ordinare i Ministri, di mutare le cerimonie e i riti, siccome tutta l’ecclesiastica disciplina, in modo conforme a’ precetti del Vangelo, e le circostanze de’ tempi; la qual potestà in verun modo confonder si deve colla civile potestà » (5 Yegerfeider, Op. e luog, cit. in corp.). – Noi tutti facciamo professione di credere che il governo ecclesiastico è santo ed utile, per modo che divien necessario che vi siano dei Vescovi che sieno superiori ad altri ministri, ed un Pontefice presieda ai Vescovi » (Melantone. Professione di fede sua e degli Alemanni a Francesco I. Re di Francia, 1535. Art. I.) – « La Chiesa è un governo spirituale, e così regolare come quello dello Stato. Essa ha il potere delle chiavi: da questo potere diramano i diritti d’insegnamento, di predicazione, di remissione delle colpe e di scomunica…. Gesù Cristo ha detto in S. Matteo XVIII 45, 46.: – Colui che dopo due rimproveri fattigli dinanzi a due o tre testimoni non si sarà emendato, verrà tradotto dinanzi a l tribunale della Chiesa, da cui verrà pubblicamente rimproverato. Se il rimprovero rimarrà senza effetto, egli sarà espulso e scacciato dalla società dei fedeli. Se trattasi ili delitti converrà mostrarsi più severi. Paolo scomunicò ed abbandonò a satana un uomo che aveva turbato l’ordine di Dio. Allorché il popolo profana i Sacramenti bisogna che il pastore intervenga energicamente…. Udite come il Crisostomo si adiri contro i preti che non hanno voluto scacciare dalla tavola della Comunione i cattivi ricchi. Questo sangue vi sarà ridomandato. Se temete gli uomini, Iddio vi disprezzerà. Se temete Dio, gli uomini vi rispetteranno » (Calvino. Ved. Audin, Storia della vita di Calvino; Milano 1842. T. I, p. 238).  – « Poiché Dio è l’ordine, ne segue esservi di diritto divino un magistrato spirituale nella sua Chiesa. Dunque una tale autorità è legittima (Leibniz, presso Audin, Storia della vita di Lutero, Milabo 1842, tom. I , p. 20.). – Il diadema non potrebbe porre la fronte reale al coperto dei fulmini della Chiesa. Re, chinate le vostre fronti, ed umiliatevi dinanzi al Cristo Signore Re dei re. Non abbiatevi a male che la Chiesa vi giudichi… Dovete persino bramare che il prete non usi riguardo, perché troviate più tardi in Dio un giudice più compassionevole. (— 4 Calvino, presso Andin, Op. e luog. cit.). – Se osserviamo la Scrittura o i prischi esempj, chi può dubitare esser costume che nelle cause della fede i Vescovi giudichino gli imperatori cristiani, e non gli Imperatori giudichino i Vescovi? » (Calvino, Lib. 4, Instit. cap. 2, § 15). – I Magistrati sono certamente membri della Chiesa, abbiano ardente zelo di pietà, ma non siano Capi della Chiesa, perché non compete ad essi questo primato » (I Centuriatori Magdeburghesi, presso Duwal, pag. 537). – « Non facciano i magistrati regolamenti nella Chiesa, né istituiscano culti » (Melantone, in Exam. Ordinand.).

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (45): RAPPORTO DEL PROTESTANTESIMO COL SOCIALISMO PER MEZZO DEL PANTEISMO (3)

Rapporto del protestantismo col socialismo per mezzo del panteismo. (3)

 [A. NICOLAS: “Del Protestantesimo e di tutte le eresie nel loro rapporto col socialismo”, vol. II – Napoli, tipogr. e libr. Gabr. ARGENIO – 1859]

CAPITOLO VII.

BAPPORTO FINALE DEL PROTESTAMTISMO COL SOCIALISMO

Noi ci siam studiati di mostrare sino al suo termine il movimento I1 protestantismo verso il panteismo, e di far vedere, dopo l’origine del Cristianesimo, l’eresia sotto i suoi mille nomi e sotto le sue mille forme, girar sempre in questo circolo del panteismo, pel quale essa avrebbe menato cento volte il mondo alla dissoluzione, donde il Cristianesimo l’ha tratto, se la Chiesa Cattolica, col prodigio della sua esenzione dall’errore universale e dell’infallibilità de’ suoi decreti, non avesse costantemente combattuto l’errore, e altamente, invincibilmente mantenuto il sacro deposito della fede e dell’incivilimento cristiano. Or bene, che lo scatenarsi di quel male che, sotto il nome di socialismo e di comunismo, mette a’ dì nostri in questione questo incivilimento, altro non sia che l’applicazione in grande di questo panteismo, di questo egelianismo protestante combinato col naturalismo di cui abbiam del paro mostrato la sorgente nel protestantismo, è cosa molto facile a dimostrarsi. Noi abbiamo già fatto vedere il razionalismo francese, nato dalla scuola scozzese, riuscire alla scuola alemanna, e trasformarsi rapidamente in eclettismo, in sincretismo ed in panteismo. Tutto quanto l’Hegel è passato in Francia nel signor Cousin. Co’ suoi Studi critici sul razionalismo contemporaneo, quanto giudiziosi e sottili altrettanto sodi, l’abbate di Valroger ha messo in tutta la sua luce l’identità delle due predicazioni in Francia ed in Alemagna. Questa eccellente opera ci dispensa dall’entrare ne’ particolari a questo proposito; ci basta di rimandare ad essa i nostri lettori: e del resto, la verità di questo rapporto è stata sì comprovata nelle sue conseguenze che sarebbe oggidì una trivialità l’occuparci a farla conoscere. Sono più di trent’anni che il panteismo protestante valicò i confini col signor Cousin, e che questo spirito prestigiatore, nelle diverse peregrinazioni fatte nell’Alemagna nel 181.7, 1818 , 1824, e nelle relazioni che egli ebbe con de Wette, Schleiermacher, Jacobi, Schelling e collo stesso Hegel, contrasse il male di quel pestilenziale errore, e ne recò seco i germi in Francia, come un cinquant’anni prima Voltaire vi aveva portati dall’Inghilterra quelli del filosofismo.

(La mercé, scrive il signor Damiron, la mercé di questa felice flessibilità di spirito, che, pigliando un’abitudine altrettanto presto quanto presto ne abbandona un’altra, si adagia a tutto, sino alle stranezze, egli ebbe in breve di un filosofo alemanno le opinioni e il linguaggio. Egli colse, sviluppò, espresse le idee del maestro, come se le avesse ricevute dalla sua bocca; e spinse la fedeltà dell’imitazione sino al germanismo: parve un. apostolo. Questa maniera di essere invasato delle proprie idee, la facilità di porre in quadri astrazioni metafisiche, quella vivezza di spirito, quegli slanci di sicura veduta, quegli scoppii, dirò così, di coscienza di cui si componevano le sue improvvisate, ad un’ora così animate e cosi gravi, così facili e cosi maestose, e perfin le sue debolezze; in cui si poteva vedere la stanchezza di uno spirito che si riposa dall’ispirazione, tutto era in lui proprio d’un poeta, » – Globo, 6 nov. 1824. «  Non si poteva comprendere a Berlino com’egli importasse così in Francia una dottrina senza neppur nominarne l’autore: Hegel scherzava su questo procedere con un’indulgenza alquanto satirica, io non credo che scientemente il signor Cousin abbia voluto farsi bello di ciò che non gli appartiene. Ma trasportato dalla sua immaginazione, egli ha creduto di avere egli stesso concepito quello che aveva imparato. Fu colla miglior buona fede del mondo che, fondendo insieme Kant ed Hegel, egli si persuase di aver creato qualche cosa. » (Lerminier, Lettere filosofiche ad un cittadino di Berlino, anno 1832.).

Da questi germi, seminati con tutta l’arte di un ingegno che si mascherava sotto le forme dell’ispirazione e ricevute da un terreno che il filosofismo, il naturalismo e il difetto d’ogni credenza avevano renduto meravigliosamente acconcio ad appropriarsele, nacquero le dottrine fataliste, umanitarie e progressiste. La filosofia del successo, di cui abbiamo già riportato lezioni cotanto pazze, ispirò la storia e avvezzò le anime a non indegnarsi più, a non più commoversi se non pel piacere dell’emozione, così alla veduta de’ più gran misfatti, come delle più angeliche virtù: a non vedervi che un fatale e inesorabil trionfo dell’idea rivoluzionaria; un dramma in cui il personaggio che suscita maggiormente orrore e il più applaudito, perché sostiene meglio la sua parte, e dove si perdonano tutti i delitti, precisamente per 1’effetto che producono e pel successo che ottengono. Dalla Storia della rivoluzione del signor Thiers, cui compensò almeno con quella del Consolato, sino ai Girondini di Lamartine, dopo i quali non v’ha più che da piangere sull’angelo delle Meditazioni, perché ciò che forma la sua colpa forma altresì il suo castigo, tutta la storia fu dedicata al culto della necessità ed alla violazione di quella coscienza del genere umano la cui abolizione pareva impossibile a Tacito, e che i nostri storici moderni, che dovevano esserne i vendicatori, non hanno temuto di immolare sugli altari dell’opinione a quei mostri medesimi che dovevano ad essa immolare. Chi dirà l’immensa parte che questo fatalismo storico ebbe nel pervertimento del senso morale e nell’avvelenamento delle immaginazioni? E al tempo medesimo, chi potrà contrastare che la sua sorgente non sia nel panteismo protestante importato dall’Alemagna, e anteriormente nella dottrina teologica del servo arbitrio e della giustificazione per mezzo della fede? – E non fu solamente la storia, ma la filosofia ancora nelle sue mille cattedre pagate dallo stato, il giornalismo con tutti i suoi romanzi di appendice, che formavano le delizie della borghesia conservatrice, l’economia politica con tutte le penne e tutte le bocche delle nostre accademie, l’arte drammatica con tutte le sue rappresentazioni teatrali, tutte le produzioni dello spirito umano insomma furono quelli che introducevano nelle vene della società il veleno dell’egelianismo, mercé la glorificazione di tutti i vizi, la censura di tutte le istituzioni, l’oltraggio alla Religione ne’ suoi caratteri più santi, il sollevamento di tutti i cattivi istinti d’invidia, di rivolta e di licenza contra le leggi della natura e della società. Il solo Cattolicismo, coi gemiti e i profetici sgomenti de’ suoi Pontefici, protestava contra questo straripamento e non raccoglieva che gli sdegni e i dispregi di coloro che ne tacevano essere le vittime. – In altri tempi furono veduti certamente scritti empii e licenziosi: ma ciò che non si era veduto è l’empietà eretta in religione o la licenza in morale; è la violazione di tutte le leggi sotto il nome di riforma, la barbarie sotto quello di progresso; è finalmente il genio del male, sotto il santo nome di Dio. – Si formarono religioni coi loro rivelatori, i loro sacerdoti, i simboli loro, il loro apostolato; e l’idolo di queste religioni era l’umanità, il progresso, avente Dio per essenza, le passioni per leggi, la distruzione di tutte le istituzioni sociali per mezzo, e il caos delle più stravaganti e più immorali teorie per fine. – Tali sono stati l’uno dopo l’altro il sansimonismo, il forierismo, il socialismo e il comunismo, la cui sostanza era la medesima: la dottrina del progresso continuo, la legittimazione delle cattive inclinazioni, l’affrancamento della materia, il corso di Dio nell’umanità per mezzo alle rovine di tutte le istituzioni sociali, a dir breve il panteismo. – La potestà distruttiva di questa dottrina è spaventevole e le cento volte più grande di quella del male avuto insino allora il più grave. Un uomo che non crede né a Dio né ad un giudizio avvenire è molto pericoloso certamente; ma colui che a sì fatta mostruosità aggiunge quella di credersi Dio egli medesimo, giudice sovrano e assoluto di tutto ciò che esiste, è un vero pazzo da catena. Ora, questa è la follia del panteismo, della dottrina dell’umanità-Dio, e sempre più Dio; per modo che gli ultimi venuti sono la più alta espressione di Dio, a credono realmente aver la missione di riformar tutto e tutto creale, vale a dire di distruggere e annichilare ogni cosa, e negano, affocano Dio, l’uomo, la società, tutto, coll’audacia della follia che si crede la divina sapienza, e della forza brutale che si crede investita del diritto divino, suscitando le passioni più selvagge, scatenandole e sciandole sul mondo come le folgori della loro divinità. Dopo di ciò, non v’ha più altro; abbiam l’inferno, e l’inferno armato della potestà del cielo per disertare la terra. Ma noi non abbiam per anco finito di mostrare tutto il pericolo di questa situazione, unica nella storia, e qual cosa impedì che non ne fosse la fine. – Nella prima parte del nostro lavoro noi abbiam fatto vedere come il protestantismo, pel principio del libero esame, aveva condotto il mondo al naturalismo. Nella seconda parte abbiam mostrato come, allontanandosi dalla dottrina cattolica, esso era, al paro che tutte le eresie, tralignato in panteismo. – Il naturalismo aveva da principio esercitato egli solo i suoi guasti, e  la rivoluzione del secolo decimottavo ne fu il frutto. u quello un gran male, ma non ne fu il peggiore. Il naturalismo aveva fatto un vuoto spaventevole, il vuoto infinito di Dio in seno alla natura umana. Da questo vuoto dell’infinito doveva uscire il panteismo seguito dal socialismo, come dal pozzo dell’abisso di cui è parlato nell’Apocalisse. (IX, 2-11) Una volta levata la pietra che lo chiude, e sulla quale son fondate le società, sale un vapore simile al fumo di una fornace che oscura il sole e l’aria, e n’escono innumerevoli quegli animali misteriosi con volto d’uomo, con capelli di femmina e denti da leone, portando tutti ad un modo sul loro capo una corona d’oro, preparati pel combattimento, e avendo qual re l’angelo dell’abisso, che si chiama lo sterminatore. – Se il difetto d’ogni credenza fosse stato a quest’ultima epoca totale come nel secolo decimottavo, se il naturalismo e il panteismo si fossero scontrati al loro apogeo, avremmo avuto il fine della società. Ma per buona ventura, quando regnava il naturalismo, il panteismo sociale non era ancora apparso, e Babeuf giunse troppo tardi! Per buona ventura quando il panteismo faceva la sua apparizione e giungeva Proudhon, il naturalismo aveva perduto assai del campo, e Voltaire se ne andava! Di fatto, si noti bene che ciò che rende audace il socialismo contro la società e crea il percolo di questa, non è solo che il socialismo sia scatenato, ma eziandio e sopra tutto che la società è per cosi dire mantellata. La proprietà e tutte le istituzioni sociali non sarebbero cosi pericolosamente attaccate se non fossero attaccabili. Ciò che forma la forza del socialismo è la debolezza della proprietà, della società. E donde procede che la proprietà e la società sono cosi deboli? Ah! è perché i titoli della proprietà, perché i fondamenti della società sono nel cielo, nella fede, nella speranza, nella carità, nella moderazione, nella pazienza, in tutte le convinzioni, in tutte le virtù cristiane, che suppongono l’altra vita, e che per la prospettiva e l’allettativa della rimunerazione che vi ci aspetta fan che si accettino i rigori e le ingiustizie apparenti o reali di questa, aumentano per mezzo della rassegnazione la forza che le sopporta, attenuano per mezzo della carità la superiorità che le impone, e le fanno considerare come disposizioni preparatorie della provvidenza, il cui disegno è la prova per mezzo del combattimento e il cui fine è la felicità per mezzo della giustizia. – Sopprimete tutto quest’ordine di cose celesti e ulteriori che fa contrappeso all’ordine terreste e presente, e questo perde tutti i suoi titoli, tutti i suoi legami, tutti i suoi fondamenti, e si dissolve al minimo urto. Si avrà un bel dire che la proprietà e tutte le disuguaglianze sociali non si spiegano punto e non si giustificano sempre da se medesime. Se esse sono spesso il frutto della fatica o la ricompensa del merito, soventi volte però toccano in sorte all’ignavia ed alla sciocchezza, e talvolta sono ben anco la preda del vizio e dell’iniquità. E quando ammettesi questa enormità, che la ricchezza e tutte le distinzioni del ben essere sono sempre meritate da quelli che le possiedono, ne rimarrebbe un’altra da digerire, la quale è che tutti quelli che sono nel patimento e nella miseria l’hanno egualmente meritato; e che se la sovrana giustizia scendesse sulla terra per rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto de’ beni di questo mondo, essa non avrebbe da far mutamento nel loro scompartimento. Quante fatiche solitarie, i cui sudori e le cui lagrime cadono sopra un suolo che non rende loro! Quante virtù degne di un trono e che hanno appena uno sgabello dinanzi ad un focolare spento! E poi, si tien egli ben conto di tutte le tentazioni della miseria, della necessità, della disperazione, dell’isolamento, o della cattiva compagnia e di quella diminuzione della dignità e della confidenza propria, che è come un’ignominia interna, dell’abiezione del di fuori, e che può far dire della povertà ciò che Omero diceva della schiavitù, che il giorno in cui tocca un’anima, le fa perdere la metà della sua virtù? Finalmente, io ammetto che ogni cosa così in fatto di meriti come di difficoltà sia eguale e mescolata tra i poveri e i ricchi, rimane sempre la questione: perché questi sono ricchi e perché quelli sono poveri? Perché il gran numero soffre, manca del necessario, e il piccolo numero ribocca del superfluo? Dire che in sé ciò è giusto, è il più insolente paradosso: dire che questa ingiustizia è necessaria pel mantenimento della società, è uno scoprire questa società ai colpi del socialismo, e giustificar tutte le teorie di coloro che vogliono porla a soqquadro per rifarla; dire finalmente come Voltaire, che il servaggio del popolo mercé la potenza dell’oro è nella necessità delle cose, e professare il naturalismo nel suo senso più pericoloso e orribile. A dir breve, se non vi è un’altra vita che dia un senso a questa; se non vi hanno beni futuri infiniti il cui scompartimento debba avvenire in razione del merito; come questo è in ragione della prova: se questi medesimi beni futuri non diventano beni presenti, e se la loro speranza non è scontata dalla fede in profitto della carità e della giustizia, e non costituisce valori reali aventi corso nella società tra la povertà e la ricchezza; a dir breve, se tutta questa ammirabile economia politica del Cristianesimo è soppressa, il socialismo, sebbene così mostruoso, non Io è più che una tale società. Componete quanti più libri vorrete sulla proprietà; difendetela con le ragioni più naturali, più giudiziose, più ingegnose, tutte le quali alla fin del conto potranno benissimo ritorcersi contra di voi, vi consento; ma v’ha un libro anteriore e superiore ai vostri, nel quale è scritto che ogni uomo è egualmente nato per essere felice, infinitamente felice; per vedere noverati tutti i suoi sudori, terse tutte le sue lagrime, terminate tutte le sue miserie, retribuiti tutti i suoi meriti, e soddisfatta tutta la sua sete di giustizia e di ordine morale: questo è il cuore dell’uomo e il suo autore è Dio. Il socialismo e vero nel suo punto di partenza, cioè in questa promessa di felicità, di giustizia e di equa partizione de’ beni in ragione delle opere, scritta nel cuore dell’uomo: e non è ammesso dalla moltitudine se non perché le guadagna con questo mezzo. Dove è falso, colpevole, mostruoso e là ove si accorda con voi, cioè nel dire che non v’è un’altra vita, in cui questa promessa avrà il suo compimento; perocché per la negazione di quest’altra vita egli scatena tutte le brame dell’uomo in questa. – Come in ogni errore, v’ha nel socialismo una cosa vera ed una cosa falsa mescolate insieme. La cosa vera è l’eguale vocazione d’ogni uomo alla felicità; la cosa falsa è la negazione dell’adempimento di questa vocazione in un’altra vita. Ora, l’individualismo conservatore è d’accordo col socialismo in ciò che esso ha di falso, che è la negazione dell’altra vita; e non è d’accordo con lui in ciò che esso ha di vero, che è il diritto dell’uomo alla felicità. Egli non differisce da lui che per una negazione di più. Così, l’individualismo non può difendersi contra il socialismo se non appoggiandosi sul falso, se non aggiungendo alla negazione dell’altra vita la negazione della destinazione dell’ uomo alla giustizia ed alla felicità. – Ma egli si difende malissimo, anche a questo prezzo, per una ragione semplicissima; ed è che non dipende da lui il togliere all’uomo la persuasione della sua vocazione alla felicità, come lo ha potuto spogliare della fede in un’altra vita. Negando questa, egli, per quanto voglia lasciar quella da parte, non lo può; e questa impotenza, congiunta a questa negazione, forma la forza del socialismo. – La fede è come una valvola di sicurezza, per la quale sfuggono e si esalano tutti i desideri e tutte le speranze di cui il cuor dell’uomo è l’ardente fornace, e che non trovano in questa vita la loro piena soddisfazione. Chiudere questa valvola senza potere estinguere questo fuoco è un far nascere l’esplosione. Così l’individualismo conservatore è colpevole di socialismo in primo grado. Il socialismo propriamente detto non differisce dall’individualismo se non perché attizza il fuoco che questo vorrebbe spegnere, se non perché tramuta in furore ciò che l’altro vorrebbe mutare in abbrutimento. Il solo Cristianesimo, ne sia ad esso renduta gloria, scioglie il problema senza scatenar l’uomo e senza abbrutirlo. Questa verità della vocazione d’ogni umana creatura alla felicità di cui il socialismo si fa un’arme contro la società, la quale vorrebbe invano allontanarla, il Cristianesimo l’accetta, la prende, o meglio la ripiglia; imperocché essa gli appartiene come ogni verità, ed era stata a lui tolta. Ma a questa verità egli ne aggiunge un’altra, che l’individualismo e il socialismo negano di conserva; ed è la verità di un’altra vita, e la fede in una rimunerazione futura, in un’equa partizione de’ beni in ragione delle opere, in un’ultima rivoluzione che porrà per sempre il povero Lazaro nella gloria e il cattivo ricco nell’inferno. Con ciò il Cristianesimo compie la verità che è nel socialismo, come 1’individualismo ne compie l’errore. Egli differisce dal socialismo in questo, che il socialismo pone il termine della miseria umana al di qua della tomba, ed Egli lo pone al di là; differisce in questo, che il socialismo vuol realizzare il cielo sulla terra e con tali beni la cui insufficienza assoluta ne rende la divisione infernale, ed Egli lo realizza nell’altra vita e con tali beni la cui infinità fa pieni tutti i desideri dell’uomo, e la cui prospettiva e speranza riescono una felicità anche in questo mondo. E siccome Egli concede il diritto a questi beni futuri colla condizione che si rispettino i beni presenti da quelli che ne sono privi, e che quelli che li possiedono ne facciano parte caritatevole a quelli che ne sono sprovveduti, così presenta dei titoli alla ricchezza, un sollievo all’indigenza, una giustificazione e un correttivo alla troppa gran disuguaglianza che risulta dall’una e dall’altra, e dà fondamenti eterni alla società. – Io sfido a spiegare in altro modo la società coi nostri costumi cristiani; sfido a giustificarla, a giustificar tutto il gran cumolo d’ingiurie di cui essa si compone; le bestemmie spaventevoli di Proudhon devono esserne l’ultima parola se il cristianesimo non ne è la prima. – Qusto è ciò che ha renduto possibili quelle bestemmie non mai udite sino allora se non nell’inferno; questo è ciò che diede un’attituine plausibile al socialismo. La società si era addormentata nell’individualismo e nel possedimento de’ beni presenti per sé medesimi: il ricco si era racchiuso ne’ suoi tesori ed averi, il mercatante e il fabbricatore nelle sue speculazioni, l’ambizioso nella sua carica, l’uom di stato nella sua autorità e potestà, tutta quanta la società in questa vita; la si era finita coi vecchi dogmi e si seppellivano con onore; non si era scacciato Dio, ma si era rimandato con bel garbo e cortesia; si facevano le grandi riverenze alla religione ed a’ suoi ministri, e si copriva collo splendor del rispetto il dispregio delle sue doglianze e de’ suoi reclami; il mondo aveva per uno spettacolo le eloquenti proteste del conte di Montalembert, e le lasciava correre pel piacere di udirle; si lasciava profetare il vescovo di Chartres, e si leggeva con furore Eugenio Sue; si tolleravano i richiami dell’episcopato e si dava la parola d’ordine a tutti i professori di filosofia contra la Religione e a tutti i maestri delle campagne contra il curato; finalmente la società si era composta verso il cristianesimo tra il rispetto esteriore e il dispregio segreto; e l’oltracotanza umana era a tale salita da credere perfino di poter sostenere in aria il mondo senza il suo autore e scongiurare il disordine colla corruzione. Quand’ecco improvvisamente venire un tale a battere alla porta: è il socialismo. Egli domanda alla proprietà i suoi titoli, all’industria i suoi conti, all’ambizioso i suoi diritti, all’uom di stato i suoi principii, a tutta quanta la società i suoi fondamenti; e a questa impreveduta domanda ne rimangono tutti interdetti, essi non sanno che rispondere, smarriscono i sensi, se ne fuggono o sono trascinati….Per buona ventura il Cattolicismo si è trovato là per rispondere al socialismo! Per buona ventura un movimento di ritorno al Cattolicismo si era da qualche tempo dichiarato nelle anime! Per buona ventura il santo nome di Pio IX, librandosi sul mondo, ha ammansato il lion popolare, e la Religione ha potuto, moderandolo, farsi seguire da lui, e l’eroico sacrifizio di un buon pastore ha potuto riscattare col suo sangue l’incivilimento in pericolo nella metropoli del suo impero! Da quel tempo il Cattolicismo è stato la sola forza esistente, la sola colonna in piedi, che sono venuti ad abbracciare que’ medesimi che si trastullavano in atterrarla, ed a lui devono venire come a loro sostegno tutti coloro che ora vorranno ristorarne l’edifizio. Oggimai la quistione è giudicata. L’esperienza cominciata nel secolo decimosesto ha portato i suoi ultimi frutti. Il protestantismo diretto o indiretto, religioso, filosofico, politico o sociale, lo spirito di ribellione insomma, in tutte le sue applicazioni e in tutte le sue fasi, ha potuto fare successivamente illusione la mercé delle verità di fede, di giustizia, di umanità, di libertà, di fratellanza che esso pigliava al Cattolicismo, e colle quali egli imitava la vita e il progresso. Ma l’errore, il cui destino è di svilupparsi a suo danno e di perdersi giungendo al suo colmo, l’errore è apparso nella maggior luce nelle sue conseguenze, e si dileguarono tutte queste apparenze di verità e di vita, lasciando dietro sé l’inganno e la rovina. Questa gran verità dimostrata a sì caro prezzo, che la terra e il cielo pubblicano a gara, pare a noi abbia tocco il colmo dell’evidenza e ci dia il diritto, dopo tutti i nostri sforzi, di riposar nella sua conclusione, senza temere che l’ostilità anche più cieca prenda a disputarcela …

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (14)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (14)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

Art. 5. — DEL SACRAMENTO DELL’ESTREMA UNZIONE.

D. 469. Che cos’è il sacramento dell’Estrema Unzione?

R . Il sacramento dell’Estrema Unzione è un Sacramento istituito da Gesù Cristo, per conferire agli adulti ammalati in pericolo di vita certi aiuti spirituali di grandissima utilità nel pericolo di morte, e talvolta anche un giovamento nelle infermità corporali (Conc. II di Lione: Prof, fidei Mich. PaL.; Conc. di Fir.: Decr. prò Armenis; Conc. di Tr. ., sess. XIV: De Sacr. Extr. Unct.; Inn. III: Prof, fidei Waldensibus præscripta; Pio X: Decr. Lamentabili, 3 lugl. 1908, prop. 48 tra le condannate.).

D. 470. Quali sono, dunque, gli effetti dell’Esterna Unzione?

R . L’Estrema Unzione:

1° conferisce un aumento della grazia;

2° solleva l’animo dell’infermo e lo aiuta specialmente a superare le tentazioni dell’ultima agonia;

3° cancella i residui dei peccati e rimette le colpe veniali, e persino le mortali, qualora l’infermo, non avendone coscienza, sia per lo meno attrito e nell’impossibilità di confessarsi;

4° cura talvolta il morbo, qualora ciò sia espediente alla salute dell’anima (Giac., V, 14, 1 5; Conc. di Tr., sess. XIV, cap. 2, De Extr. Unct.; S. Cesario d’Arles: Sermo CCLXV, 3. — I residui dei peccati sono le debolezze dell’anima e le cattive abitudini che promanano dal peccato).

D. 471. Chi è il ministro ordinario di questo sacramento?

R. Ministro ordinario di questo sacramento è il parroco del luogo ove trovasi l’infermo; in caso, poi, di necessità, con l’autorizzazione per lo meno ragionevolmente presunta del parroco o dell’Ordinario del luogo, qualsiasi altro sacerdote può amministrare questo sacramento – (Cod. D. C. , can. 938, § 2. — Nella Chiesa orientale si usa conferire questo Sacramento da parecchi sacerdoti contemporaneamente.).

D. 472. Qual è la materia dell’Estrema Unzione?

R. La materia dell’Estrema Unzione è l’olio d’oliva benedetto dal Vescovo, o dal sacerdote che dalla Sede Apostolica abbia ricevuto facoltà di benedirlo; l’unzione fatta con l’olio predetto è la materia prossima.

D. 473. Qual’è la forma dell’Estrema Unzione?

R. La forma dell’Estrema Unzione è la preghiera che il ministro pronunzia nel fare l’unzione, seguendo i propri libri rituali approvati (Conc. di Tr., 1. c.).

D. 474. A chi vien conferito questo sacramento?

R. Questo sacramento vien conferito al fedele il quale, dopo raggiunto l’uso di ragione, per malattia o vecchiaia, versa in pericolo di morte.

D. 475. Quante volte questo sacramento può esser conferito?

R. Questo sacramento una volta soltanto può esser conferito nel medesimo pericolo di morte; se poi tale pericolo, una volta cessato, si ripresentasse, può di nuovo essere amministrato (Cod. D . C , can. 940, § 2).

D. 476. Questo sacramento può esser conferito ad un infermo che non sia in possesso della sue facoltà?

R. Questo sacramento può essere conferito anche all’infermo che, mentre era ancora in possesso delle sue facoltà, o ne fece richiesta per lo meno implicita, o tale richiesta avrebbe verisimilmente fatta; e ciò stesso quand’anche in seguito avesse perduti i sensi o l’uso della ragione. (Cod. D. C. , can. 943.).

D. 477. Che cosa deve fare l’ammalato prima di ricevere l’Estrema Unzione?

R. Prima di ricevere l’Estrema Unzione, l’ammalato deve: 1° confessare, se lo può, i suoi peccati, e se non lo può, fare almeno l’atto di contrizione;

2° emettere inoltre atti di fede, di speranza, di carità e di completa rassegnazione alla volontà di Dio.

D. 478. E’ questo sacramento necessario per la salvezza?

R. Questo sacramento non è di assoluta necessità per la salvezza, ma sarebbe colpa il tralasciarlo; non solo, ma bisogna mettere ogni cura e diligenza perché l’ammalato riceva questo sacramento al più presto, non appena si affacci il pericolo di morte e mentre è ancora in possesso delle sue facoltà.

(Cod. D. C. , can. 944. — Odioso e crudele è l’agire di colui che, pretestando motivi di affetto e di prudenza, con la sua opposizione o con la sua negligenza impedisce al sacerdote di amministrare per tempo i Sacramenti agli ammalati. Così facendo, o Cristiano, vieni a privare un tuo fratello dei supremi aiuti e conforti della Religione; forse gli precludi persino la possibilità e il modo di raggiungere l’eterna felicità. Qual conto spaventoso dovrai rendere a Dio!).

Art. 6. — DEL SACRAMENTO DELL’ORDINE.

D. 479. Che cos’è il sacramento dell’Ordine, ovvero della sacra ordinazione?

R. Il sacramento dell’Ordine, ovvero della sacra ordinazione è il sacramento istituito da Gesù Cristo per costituire nella Chiesa Vescovi, sacerdoti e ministri, ognuno con quella sua potestà e grazia che li renda capaci di debitamente esercitare le funzioni del proprio grado (Atti, VI, 6; XIII, 3; Paolo: 1a ad Tim., IV, 14; V, 22 2a ad Tim., I , 6; Conc. II di Lione: Prof, fidei Mich. Pal.; Conc. di Fir.: Decr. prò Armenis; Conc. di Tr., sess. XXIII,can. 3; Pio X: Decr. Lamentabili, prop. 50 tra le condannate.).

D. 480. Questi gradi sono fra sé uguali?

R. Questi gradi non sono fra sé uguali, bensì gli uni più importanti degli altri, venendo così a formare la sacra gerarchia dell’Ordine (Matt., XVI, 18, 19; XVIII, 18; Giov., XXI, 17; Atti, VI, 6; Paolo: I a ad Tim., III, 1-13; ad Tit., I , 5-9; Conc. di Tr., sess. XXIII, can. 2, 6, 7.).

D. 481. In quale più precisa circostanza istituì Gesù Cristo questo sacramento?

R. Gesù Cristo istituì questo sacramento più precisamente allor quando agli Apostoli ed ai loro successori nel sacerdozio conferì la potestà di offrire il sacrificio della Messa e quella di rimettere o ritenere i peccati (Matt., XVIII, 18; Luca, XXII, 19; Giov., XX, 23; Paolo: 1a ad Cor., XI, 23-25.).

D. 482. Qualè la dignità del sacerdozio?

R. La dignità del sacerdozio è la più alta di tutte, in quanto il sacerdote è il ministro di Cristo e il dispensatore dei misteri di Dio, il mediatore fra Dio e gli uomini, colui che ha potestà sul corpo di Cristo, tanto reale quanto mistico (Paolo: Ia ad Cor., IV, 1 ; 2a ad Cor., V, 20; VI, 4; 2a ad Tim., V, 17; ad Hebr., XIII, 17; Pio XI: Lett. Officiorum omnium, 1 ag. 1922. — Non sono quindi da ammettersi alla dignità del sacerdozio se non quelli che, chiamati da Dio e debitamente provati dai superiori, entrano nello stato ecclesiastico con l’unico intento di servire la causa della gloria di Dio e della salute delle anime: « E nessuno — dice S. Paolo, ad Hebr., V, 4 — si assume l’onore, se non sia chiamato da Dio, come Aronne ». Cat. p, parr., p. I , cap. VII, n. 3 e segg.).

D. 483. Qual è la materia e quale la forma della sacra ordinazione?

R. La materia della sacra ordinazione è l’imposizione delle mani o la consegna degl’istrumenti quale vien prescritta nei libri pontificali approvati; la forma, poi, consiste in quelle parole che il ministro pronunzia mentre impone le mani o consegna i detti strumenti.

D. 484. Come debbono condursi i fedeli nei confronti dei sacerdoti?

R. I fedeli debbono ai sacerdoti ogni onore e riverenza, e debbono altresì pregare Iddio che alla sua Chiesa conceda santi e degni ministri (Matt., IX, 38: X, 40; Luca, X, 2, 16; Giov., XIII, 20.).

D. 485. Peccano quei genitori che costringono i figli al sacerdozio o dal sacerdozio li distolgono?

R. Peccano, e quei genitori che costringono i figli al sacerdozio, in quanto si arrogano quel diritto che Dio a sé solo riserva, cioè di scegliere i suoi ministri a traverso il ministero del Vescovo; e quelli che dal sacerdozio li distolgono, in quanto resistono alla volontà divina, ingiustamente negano ai figli il diritto di seguire la divina vocazione, e se stessi e i figli privano di grazie numerose e specialissime (Giov., XV, 16.).

D. 486. Chi è il ministro della sacra ordinazione?

R. Ministro ordinario della sacra ordinazione è il proprio Vescovo dell’ordinando, oppure un Vescovo da quello delegato; ministro straordinario è quello cui il diritto stesso o uno speciale indulto apostolico concedono la facoltà di conferire taluni Ordini (Cod. D. C, can. 951).

Art. 7. — DEL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO. (*)

(*) Nel Cod. di D . C , can. 1012 e segg., si troveranno più diffusamente svolte le prescrizioni canoniche qui rammentate circa le proprietà del Matrimonio, gl’impedimenti matrimoniali sia impedienti che dirimenti, il consenso matrimoniale e la forma della celebrazione del Matrimonio.

D. 487. Che cos’è il sacramento del Matrimonio?

R. Il sacramento del Matrimonio è lo stesso matrimonio validamente contratto fra battezzati, eretto da Gesù Cristo a dignità di sacramento, per mezzo del quale vien conferito ai coniugi tale grazia onde possano debitamente compiere i doveri inerenti ai loro rapporti tanto mutui quanto verso i figli (Paolo: ad Eph., V, 22-23; Conc. di Fir.: Decr. prò Armenis; Conc. di Tr., sess. VII, De Sacramentis, can. I, e sess. XXIV, De Sacram. Matr., can. 1; Leone VIII: Enc. Arcanum divinæ sapientiæ, 10 febbr. 1886; S. Cir. Aless. : In Joann. Evang., II, 1).

D. 488. Può sussistere fra Cristiani matrimonio valido che non sia sacramento?

R. Fra Cristiani non può sussistere matrimonio valido che non sia lo stesso fatto sacramento, poiché Gesù Cristo si degnò di elevare a dignità di sacramento il matrimonio medesimo (Leone XIII, 1 c.; Cod. D. C., can. 1012).

D. 489. Quali sono i ministri di questo sacramento?

R. I ministri di questo sacramento sono gli sposi medesimi nell’atto di contrarre il matrimonio.

D. 490. Qual è la materia e quale la forma del sacramento del Matrimonio?

R. La materia del sacramento del Matrimonio è la mutua tradizione del diritto sul corpo in ordine al fine del Matrimonio; la forma è la mutua accettazione di questo medesimo diritto.

D. 491. Quali sono le proprietà essenziali del Matrimonio?

R. Le proprietà essenziali del Matrimonio sono l’unità e l’indissolubilità, proprietà che nel Matrimonio cristiano, a ragione del sacramento, hanno speciale fermezza.

(Matt., V, 32; XIX, 3-9; Marco, X, 2-12; Luca, XVI, 18; Paolo: ad Rom., VII. 2. 3; 1a ad Cor., VI, 16; VII, 10, 11, 39; Leone XIII, 1. c.; S. Àgost.: De adulterinis conjugiis, I, 9; De nuptiis et concup., I, 10)

D. 492. In che cosa consiste l’unità del Matrimonio?

R. L’unità del Matrimonio consiste in ciò che il marito, vivente la moglie, non può avere altra moglie, né la moglie, vivente il marito, un altro marito (Matt., XIX, 4-6; Conc. di Tr., 1. c., can. 2; Innoc. III: Epist. ad Episc. Tiberiadensem.).

D. 493. In che cosa consiste l’indissolubilità del Matrimonio?

R. L’indissolubilità del Matrimonio consiste in ciò che il vincolo matrimoniale non può sciogliersi se non per morte. (Matt., XIX, 6; Marco, X, 11-12; Luca, XVI, 18; Paolo: ad Rom., VII, 3; J a ad Cor., VII, 10-11, 39; Conc. di Tr., 1. c., can. 6, 7; Pio IX: prop. 67 del Sillabo; Leone XIII, 1. c. —

Questa seconda proprietà del Matrimonio va brevemente spiegata come segue:

Il Matrimonio contratto tra fedeli:

1° Se rato e consumato, è indissolubile;

2° Se rato soltanto, vien sciolto, sia dal diritto medesimo per la solenne professione religiosa, sia previa dispensa concessa dalla Sede Apostolica, su richiesta di una almeno delle parti.

Il matrimonio contratto tra infedeli:

1° Se nessuna delle due parti ha ricevuto il Battesimo, è per natura indissolubile;

2° Se una solo di esse lo ha ricevuto, allora il matrimonio viene sciolto, sia dal diritto medesimo a favore della fede in forza del privilegio paolino, quando, cioè, la parte infedele si rifiuti alla conversione, al Battesimo e alla coabitazione pacifica e senza contumelia del Creatore con la parte battezzata, e questa abbia contratto nuove nozze; sia previa dispensa concessa dalla Sede Apostolica, su richiesta della parte battezzata;

3° Se l’una e l’altra hanno ricevuto il Battesimo (e perciò stesso il matrimonio è risultato rato):

a) Qualora il matrimonio sia stato consumato dopo il Battesimo, è indissolubile;

b) Qualora non sia stato consumato, né prima né dopo il Battesimo, viene sciolto, sia dal diritto medesimo per la solenne professione religiosa, sia previa dispensa concessa dalla Sede Apostolica, su richiesta di almeno una delle parti;

c) Qualora il matrimonio sia stato consumato prima del Battesimo e non dopo, può essere sciolto previa dispensa concessa dalla Sede Apostolica, su richiesta di almeno una delle parti.

Contratto tra una parte fedele ed una parte infedele con dispensa dall’impedimento della disparità di culto:

1° Il Matrimonio non viene sciolto in forza del privilegio paolino;

2° Il Matrimonio non consumato viene sciolto per la solenne professione religiosa, e per dispensa pontificia come sopra è stato detto.

3° Consumato può esser sciolto per dispensa pontificia su richiesta della parte fedele.

È poi evidente che per l’esercizio della pontificia potestà, si richiedono motivi giusti, gravi e urgenti, e che non vi sia scandalo.)

D. 494. Qual è il diritto che disciplina il matrimonio dei cristiani?

R. Il diritto che disciplina il matrimonio dei Cristiani è quello divino ed ecclesiastico, salva la competenza del potere civile in ordine agli effetti meramente civili.

D. 495. Quali sono gli effetti meramente civili del Matrimonio?

R. Gli effetti meramente civili del Matrimonio sono effetti separabili dalla sostanza del Matrimonio, come, per esempio: la misura in cui è dovuta la dote, i diritti di successione dei coniugi tra loro, dei figli rispetto ai genitori, e vice versa, ecc.

D. 496. Che cosa s’intende con l’espressione: impedimento matrimoniale?

R. Con l’espressione: impedimento matrimoniale s’intende quello che rende la celebrazione del Matrimonio, o semplicemente illecita (impedimento impediente), o anche invalida (impedimento dirimente).

D. 497. Chi è che può fissare o dichiarare per i battezzati gl’impedimenti matrimoniali?

R. Alla suprema autorità ecclesiastica spetta il diritto esclusivo tanto di determinare per i battezzati per mezzo di legge generale o particolare, gl’impedimenti impedienti o dirimenti il matrimonio, quanto di dichiarare i casi in cui il diritto divino lo impedisce o dirime (Conc. di Tr., Sess. XXIV, can. 4).

D. 498. Quali sono gl’impedimenti che semplicemente impediscono il Matrimonio?

R. Gl’impedimenti che semplicemente impediscono il Matrimonio, sono (2 Cod. D. C, , can. 1058-1066):

1° il voto semplice, sia di virginità, sia di perfetta castità, sia di non contrarre matrimonio, sia di ricevere gli Ordini sacri e di abbracciare lo stato religioso;

2° la mista religione;

3° la parentela legale proveniente dall’adozione, in quei paesi ove la legge civile la considera quale impedimento impediente il Matrimonio.

D. 499. Quali sono gl’impedimenti che dirimono il Matrimonio?

R. Gl’impedimenti che dirimono il Matrimonio, sono (Cod. D. C., can. 1067-1080).

1° l’età;

2° l’impotenza antecedente e perpetua;

3° il legame, ossia il vincolo di un matrimonio precedente;

4° la disparità di culto;

5° l’Ordine sacro;

6° la professione religiosa solenne;

7° il ratto;

8° il crimine;

9° la consanguineità;

10° l’affinità;

11° la pubblica onestà;

12° la cognazione spirituale proveniente dal Battesimo;

13° la cognazione legale proveniente dall’adozione in quei paesi ove la legge civile la considera quale impedimento dirimente del Matrimonio.

D. 500. Quali sono le condizioni requisite per validamente contrarre il Matrimonio fra Cristiani?

R. Per validamente contrarre il Matrimonio fra Cristiani le condizioni requisite sono, che gli sposi:

1° siano immuni da ogni impedimento dirimente;

2° liberamente diano il consenso;

3° contraggano le nozze in presenza del parroco, o dell’Ordinario del luogo, o di un sacerdote delegato dall’uno o dall’altro, e in presenza per lo meno di due testimoni.

D. 501. Il Matrimonio celebrato in questa forma consegue in Italia anche gli effetti civili?

R. Il Matrimonio celebrato in questa forma consegue in Italia anche gli effetti civili, perché lo Stato italiano riconosce tali effetti al sacramento del Matrimonio.

D. 502. Il Matrimonio così celebrato come consegue in Italia anche gli effetti civili?

R. Il Matrimonio così celebrato consegue in Italia anche gli effetti civili, mediante la sua regolare trascrizione nei registri dello stato civile, fatta a richiesta del parroco.

D. 503. Gli sposi cattolici in Italia possono compiere anche il matrimonio civile?

R. Gli sposi cattolici in Italia non possono compiere il matrimonio civile né prima né dopo il Matrimonio religioso: che se lo osassero, anche con l’intenzione di celebrare in appresso il Matrimonio religioso, sono dalla Chiesa considerati come pubblici peccatori.

D. 504. Quali sono inoltre le condizioni requisite per lecitamente contrarre il matrimonio?

R. Le condizioni inoltre requisite per lecitamente contrarre il Matrimonio sono, che gli sposi:

1° siano in istato di grazia;

2° sufficientemente istruiti nella dottrina cristiana;

3° immuni da qualsiasi impedimento impediente;

4° osservino ogni altra prescrizione della Chiesa per la celebrazione del Matrimonio.

D. 505. Dispensa talvolta la Chiesa dall’impedimento della disparità di culto o della mista religione?

R. Solo per gravissimo motivo la Chiesa dispensa dall’impedimento della disparità di culto o della mista religione, permettendo i l Matrimonio fra Cattolico e non cattolico.

D. 506. Quando la Chiesa concede tale dispensa e permette detto Matrimonio, che cosa esige?

R. Quando la Chiesa concede tale dispensa e permette detto Matrimonio, dal coniuge acattolico essa esige una garanzia per cui venga eliminato ogni pericolo di perversione del coniuge cattolico; da entrambi poi i coniugi, essa esige inoltre che l’intera prole venga battezzata ed educata nel Cattolicesimo; inoltre il coniuge cattolico è tenuto a procurare prudentemente la conversione del coniuge acattolico.

D. 507. A qual giudice spettano le cause matrimoniali?

R. Qualora riguardino il vincolo, le cause matrimoniali fra battezzati spettano di diritto proprio ed esclusivo al giudice ecclesiastico, ferma rimanendo la competenza dell’autorità civile in quelle cause che riguardano i soli effetti civili (Conc. di Tr., sess. XXIV, can. 12: Cod. D. C., can. 1960 e 1961).

D. 508. Hanno l’obbligo i fedeli di rivelare all’autorità ecclesiastica gli impedimenti matrimoniali?

R. I fedeli hanno l’obbligo di rivelare all’autorità ecclesiastica gl’impedimenti matrimoniali, specie quando si fanno le pubblicazioni di matrimonio, dalla Chiesa espressamente stabilite affinché quegl’impedimenti siano conosciuti.

(Nello scegliere lo stato di vita, attendi innanzi tutto a Dio e all’anima tua. Se, dopo matura riflessione, riterrai il Matrimonio come a te più confacente, fatti un dovere di confidare questo tuo divisamento ai tuoi genitori, cui spetta il diritto e l’obbligo di aiutarti in così grave deliberazione coi loro opportuni consigli, anche se non possano né distoglierti dalle nozze quali che esse siano, né esigere che tu le contragga con persona che non ti vada a genio. Ciò fatto, con l’applicarti alla preghiera e alle opere buone, col vegliare soprattutto all’integrità dei costumi, preparati diligentemente al Matrimonio. Premessa la confessione sacramentale, accostati alla celebrazione del grande Sacramento, ed imprimigli quasi il sigillo di Dio degnamente ricevendo, assieme al coniuge, la santissima Eucaristia, affinché dalla fonte del Cuore divino scendano sul consorzio maritale più copiose le grazie. Abbi, poi, ognora presente nell’animo tuo, il proposito di santamente e inviolabilmente osservare i doveri e le leggi del Matrimonio ed educare nella religione e nei buoni costumi la prole che Dio ti avrà concesso).

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (44): RAPPORTO DEL PROTESTANTESIMO COL SOCIALISMO PER MEZZO DEL PANTEISMO(2)

 Rapporto del protestantismo col socialismo per mezzo del panteismo. (2)

 [A. NICOLAS: “Del Protestantesimo e di tutte le eresie nel loro rapporto col socialismo”, vol. II – Napoli, tipogr. e libr. Gabr. ARGENIO – 1859]

 (SEGUITO)

CAPITOLO VI.

PASSAGGIO DAL PROTESTANTISMO AL PANTEISMO -II. –

Kant ruppe guerra alla metafisica razionalista nella sua Critica della ragion pura, e studiò ad assodare la religione e a rialzare il Cristianesimo sulla base della ragion pratica e della coscienza morale. Schelling continuò l’impresa di sostentare l’edificio cristiano col sentimento religioso; e finalmente Io stesso Hegel, avviluppandosi di una terminologia biblica, ammetteva e sosteneva « che la religione è in sé medesima ciò che v’ha di più importante; che conoscerla nella sua essenza è lo scopo d’ogni sapienza; che la religion cristiana ha nella sua costituzione ecclesiastica un significato storico e universale più profondo di quello che ammettono i razionalisti, ecc.» Tuttavia che avveniva sotto queste mostre apparenti? Era scavato un abisso in cui s’andavano a dileguare non solamente il Cristianesimo, ma la religion naturale, la libertà morale, l’incivilimento ed ogni principio sociale determinato. – Non essendo gli spiriti rattenuti da alcun dogma certo, da nessuna dottrina ferma avente autorità sulla ragione per regolare o sodisfare in lei il bisogno che essa ha di verità finale, di verità totale, e il Cristianesimo sotto l’azion prolungata del libero esame essendo diventato per quei medesimi che non l’avevano apertamente rigettato, una dottrina talmente diversificata e diversificabile, che poteva vestir tutti i sistemi, Kant apri una strada che Fichte e Schelling allargarono, in cui gli spiriti, nojati del vuoto della natura, si precipitarono con tanto maggior ardore, perché le passioni ve li potevano seguire, e che doveva riuscire in Hegel e ne’ suoi discepoli al più stravagante panteismo, al più rozzo comunismo. Proviamoci ad esporre la deduzione di questi sistemi in una succinta analisi. – La filosofia pratica di Kant poneva in fatto una dualità primitiva: il subbietto e l’obbietto, l’io e il non io. « Il subbietto, come facoltà di sentire e come facoltà di conoscere, è il principio della forma delle nostre rappresentazioni; l’obbietto è il principio della materia di queste rappresentazioni. » Le nozioni sono vane se si separano dalla materia che i sensi forniscono; la materia che i sensi forniscono non offre nulla di necessario, senza la forma che le nozioni le danno. Così ogni conoscenza suppone l’unione della forma e della materia, il concorso del subbietto e dell’Obbietto; e questo è ciò che costituisce l’esperienza, gran criterio della filosofia di Kant. – Kant aggiungeva: « È chiaro che il subbietto e l’obbietto non sono gli esseri reali in sé medesimi, poiché noi non conosciamo il subbietto che relativamente all’obbietto, e l’obbietto che relativamente al subbietto, senza conoscere la natura intima né dell’uno né dell’altro. Vi deve ben essere qualche cosa di nascosto sotto il subbietto e l’obbietto; ma questa esistenza o quest’essere qualunque ci è sconosciuto; esso equivale per noi a X. Noi non possiamo mai sperare e non dobbiamo neppur mai tentare di penetrar sino ad esso; perocché i sensi e le nozioni non forniscono che testimonianze relative, e non possono sollevarci al di sopra dell’esperienza.» Questo X misterioso doveva però districarsi e diventare il Dio del secolo. Lo stesso porlo come il solo essere reale, e il dare un valore relativo e fenomenale al subbietto ed all’obbietto, era un legare a de’ successori la tentazione di farlo prevalere sopra il subbietto e l’obbietto e di sacrificarglieli.

Fichte se la pigliò primieramente coll’obbietto, e considerandolo per rapporto al subbietto, osservò « che questi aveva la parte attiva nel concorso dell’uno e dell’altro; che l’obbietto non aveva che una parte passiva; che esso era colto, formato, determinato dal subbietto; e che come egli non aveva consistenza e valore obbiettivo che per questa azion plastica del subbietto, si poteva dire che esso era creato dal subbietto. » Di qui nacque il sistema dell’idealismo trascendente di Fichte. In questo sistema « non vi è esistenza fuor quella del subbietto o dell’ io. Tutto ciò che non è l’io , per conseguenza tutto l’universo, non è che il non io, vale a dire l’antitesi naturale e necessaria dell’io, che lo accompagna come l’ombra accompagna la luce. Si ha il sentimento dell’io col pensiero. L’operazione del pensiero è doppia; essa consiste in astrarre e riflettere: astrarre tutto ciò che non è l’io, e l’universo non è che questa astrazione; riflettere, vale a dire ripiegar l’azione del pensiero sull’io, la cui esistenza è districata; di maniera’ che l’essere pensante e la cosa pensata si confondono in una stessa veduta, e la scienza non è altro che l’esistenza che coglie da sé medesima, e si esprime in questa proposizione che sola ha una certezza immediata: lo = io. » Schelling venne a fare un passo di più nella sua Filosofia della natura. Come Fichte aveva fatto scomparire il non io, egli fa scomparire l’io, ma per farlo ricomparire allo stato di esistenza assoluta, allo stato di Dio, e innalzar la formula di Fichte Io = io alla formula Dio = Dio. — Ed ecco come egli vi arriva; « Non si tratta di sapere se le cose fuor di noi hanno un’esistenza reale, se v’ha qualche cosa fuori di noi; ma se noi medesimi siamo un oggetto reale nel senso trascendentale della parola. Ora l’obbietto e il subbietto sono correlativi che si suppongono l’un l’altro, e appena si toglie l’uno di questi termini, l’altro si dilegua insieme con lui. La verità non si trova che nell’esistenza assoluta; non v’ha che una esistenza, una, eterna, immutabile. L’astrazione e la riflessione, che nell’idealismo trascendente devono condurre all’atto puro e libero, pel quale l’essere si pone, sono mezzi lenti e insufficienti; bisogna cominciare con questo atto puro e libero; la filosofia è una creazione indipendente, alla quale si giunge col distruggere l’uno coll’altro il subbietto e l’obbietto, e collocarci nel punto in cui siamo egualmente indifferenti ad ambedue, e donde per un atto d’intuizione intellettuale afferriamo l’esistenza assoluta. Quest’esistenza è Dio, il principio dell’unità e della felicità: quest’esistenza è una; l’affermarla è conoscerla, e conoscerla è affermarla. Ora v’ha identità perfetta tra la conoscenza e l’esistenza. La conoscenza che noi abbiamo di Dio è dunque l’esistenza medesima di Dio, per la conoscenza e la coscienza che esso ha di sé medesimo in noi; come, secondo Fichte, la conoscenza che noi abbiamo dell’io è l’esistenza medesima dell’io. In oltre, siam costretti di ammettere nell’esistenza assoluta una vera antitesi, ed è quella dell’unità e della pluralità. L’essere quale unità perfetta deve manifestarsi, e non può manifestarsi in sé medesimo nella sua unità; ma necessariamente in un altro che non è lui, e per conseguenza in una pluralità. Bisogna dunque che esso sia lui medesimo e un altro che non è lui; unità nella sua essenza e pluralità nella sua manifestazione. E come l’unità perfetta non può concepirsi senza manifestazione, né la manifestazione senza l’unità cui essa manifesta, ne conseguita che né l’una né l’altra, né l’unità né la pluralità, in quanto unità e pluralità, non esistono propriamente, e che non v’ha che la copula, vale a dir l’esistenza pura e semplice: Deus est in fieri ». O ragione umana, da quali vertigini tu sei sempre presa! E dove non vai tu a perderti nella tua matta libertà? – Il panteismo era fatto. L’Hegel non ebbe che a circoscriverne i termini e farne le applicazioni. « Unità di sostanza allo stato impersonale e indeterminato, quando la si considera in sé medesima; l’infinito indefinito, solo essere, sostanza e causa del mondo visibile. L’essere, l’infinito così latente, fa sforzo per esprimere tutte le modificazioni nascose nel suo seno colle loro innumerevoli qualità: egli si sveglia, si rivela, si esprime sempre più negli esseri che compongono l’universo e che offrono degli stati sempre più perfetti di questo spiegamento progressivo dell’esistenza. Egli dorme nella pietra, egli sogna nell’animale; e non esce dallo stato impersonale, e non arriva alla coscienza di sé medesimo che nell’uomo. Così l’uomo non esiste per se medesimo, come neppur tutto il resto dell’universo. Nulla esiste, altro che l’esistenza assoluta, altro che Dio, e l’uomo non è che questa esistenza assoluta giunta al suo più alto grado di sviluppo; egli è Dio, e Dio al supremo grado, Dio compiuto, Dio che si fa Dio, Dio giunto all’equazione di sé medesimo, per la riflessione e il sentimento della sua personalità, nella quale egli si contempla, Dio—Dio.

Si comprendono tutte le spaventevoli conseguenze contenute in questa dottrina. Se non v’è che una sola essenza che, diventando la natura, comincia ad avere una esistenza determinata, e che non arriva allo stato di personalità, di coscienza e di riflessione se non nell’umanità, è assolutamente necessario di negar Dio fuor dell’uomo, di negare un’intelligenza infinita, una volontà infinita, una provvidenza infinita anteriore e superiore al mondo. Cosi il panteismo, secondo la giusta espressione di Bossuet, non è che un ateismo mascherato. Ma esso è di gran lunga peggiore dell’ateismo; perocché l’ateismo lascia il vuoto della negazione, e questo vuoto dalle aperte fauci grida in certo qual modo, chiama a sé il suo obbietto, protesta contra la sua negazione, accusa la follia dell’ateo, e non gli concede rifugio che in una degradazione, in un abbrutimento di se stesso che gli lascia almeno il benefizio dell’umiliazione del suo stato per uscirne. Ma il panteismo, identificando l’esistenza assoluta col mondo, trasportando la personalità divina nell’uomo stesso, afferma Dio negandolo, inganna il sentimento che noi abbiamo della sua esistenza, sodisfa sino all’esaltazione il sentimento che abbiamo della nostra grandezza, e produce il peggiore di tutti gli accecamenti, quello dell’orgoglio, e dell’orgoglio che può stare colle più vili passioni, dell’orgoglio mascherato esso medesimo sotto l’apparenza dell’annegazione più compiuta, poiché in questo sistema l’uomo individuo non ha esistenza distinta, e non è che una molecola dell’uomo in genere, dell’umanità, che sola esprime la ragione assoluta, e n’è la più alta espressione. Cosi in questo sistema l’uomo è negato al par di Dio; non più alcuna verità distinta intorno a lui; non più legge morale, che ne metta in azione la libertà; non più timore o speranza per l’avvenire; a dir breve non più personalità; ciascuno è assomigliato alla massa, come questa alla Divinità. Ma al tempo stesso ch’egli vi è assomigliato, egli se lo assomiglia, egli si fa della libertà generale dell’uomo, della libertà assoluta di Dio, la sua propria libertà: e le sue passioni più disordinate sono non solamente più affrancate dalla coscienza individuale, da quella del genere umano e dal sentimento della divinità, ma le sono autorizzate, consacrate, divinizzate, come quelle che ne sono l’espressione e la determinazione attiva. Per recar le molte parole in una, in questo mostruoso sistema, Dio e l’uomo sono ad un’ora negati e affermati l’una dall’altro, negati pel bene e affermati pel male. Dalla nozione di Dio si traggono le idee d’indipendenza, di giustizia, di provvidenza, di saviezza, di bontà suprema; dalla nozione di uomo, si traggono le idee di libertà morale, di responsabilità, di coscienza, di merito e di virtù: e dopo di aver cosi fatto il voto di ogni bene in Dio e nell’uomo, si trasportano in Dio le passioni dell’uomo, nell’uomo i diritti di Dio, e dell’uno e dell’altro così rovesciati si fa un solo mostro, che ha la possanza assoluta di Dio e la perversità dell’uomo. Per colmo di delirio, questo mostro va crescendo. L’idea infinita, la ragione assoluta, secondo l’hegelianismo, vaga e confusa in sé medesima, comincia solamente a prendere una esistenza determinata nella natura, in cui ella si va sempre più svegliando, da poi la pietra sino all’uomo, in cui solo essa attinge la coscienza di se medesima. Ma giunta a questo punto, ella non vi si arresta; ella continua a progredire continuamente e produce le evoluzioni storiche dell’amanita, come ella ha già prodotto i regni della natura. La storia di tutta la successione dei fatti che la compongono non è cosi che la successione delle manifestazioni sempre più perfette dell’esistenza assoluta. Essa è, per lo sviluppo dello spirito universale, ciò che è la riflessione per lo spirito individuale; ne’ suoi periodi successivi vennero a porsi, sotto una forma manifesta e vivente, secondo un ordine logico e necessario, tutti elementi interiori dell’idea divina. Ad ogni epoca, le costituzioni, l’arte, la religione, la filosofia, hanno una radice comune, lo spirito del tempo, il quale non è esso medesimo che lo spirito universale, l’idea infinita al suo termine di sviluppo relativamente più avanzato. Tutto così, perfino i delitti più spaventevoli, sono giustificati, se sono conformi allo spirito del tempo; e le virtù più eroiche sono riprovate se esse sono a lui contrarie. L’ultimo stato dell’umanità è così il più alto punto dell’esistenza assoluta; e questa esistenza sviluppandosi sempre, ogni epoca può e deve operare per la distruzione di ciò che la precede e l’effettuazione delle sue più arrischiate e più perverse teoriche, col sentimento dell’Infinito e dell’assoluto che fa un legittimo sforzo per esprimersi. – Questa teorica dello sviluppo successivo di Dio nella storia è la teorica rivoluzionale, sollevata alla sua più alta possanza, alla possanza dell’assoluto, del Fatum, ma del Fato al servigio delle più feroci passioni scatenate, che dico! suscitate dal sentimento della legittimità, o piuttosto della divinità della loro azione. Perciò noi vediamo i maestri di questa teorica, quantunque più circospetti dei loro discepoli, trovar nondimeno dell’entusiasmo per celebrare le virtù di Robespierre e di Marat. – Ma questa teorica non ha aggiunto tutta la sua applicazione nel principio rivoluzionale; perocché questo principio atterra i troni e le superiorità politiche, ma lascia sussistere le condizioni sociali, i principii eterni della proprietà, del matrimonio, della libertà morale e dell’individualità delle esistenze. Ora, come abbiam già detto altrove, il panteismo esclude tutte queste distinzioni; se Dio è tutto, non v’è cosa che sia Dio; tutte le esistenze sono assorbite nell’assoluto dell’esistenza: nessuna appartiene a sé, e non ha nulla per conseguenza che a lei appartenga; il panteismo essendo il comunismo del finito e dell’ infinito, non trova la sua compiuta espressione che nel comunismo sociale dei diversi elementi del finito preso in se medesimo. Se il finito collettivo non è nulla, come il finito particolare che non ne è che un elemento, sarebbe esso qualche cosa? Ogni confusione, ogni comunismo, ogni caos sociale, è dunque il termine dell’egelianismo. Io non ho usato né arte né violenza, nella «posizione di questa dottrina, e neppure nell’estensione delle sue conseguenze; non ho detto insomma cosa che non sia stata formulata e praticata sotto i nostri occhi. E le citazioni sarebbero altrettanto facili quanto sono superflue. Ciò che ora importa di ben notare è che questo panteismo, che trovava il suo antecedente nella dottrina protestante del servo arbitrio, come il naturalismo in quella del libero esame, è uscito e si è sviluppato in seno al protestantismo e sopra il suo terreno primitivo; è che i suoi dottori e i suoi adepti erano ammessi come cristiani protestanti, in opposizione ai razionalisti propriamente detti che essi occupavano le cattedre dell’insegnamento teologico e si costituivano quali difensori del Cristianesimo (Per tal modo, cosa strana, grida lo storico Alzog , ei finirono a disconoscere a tale punto il Cristianesimo che pensavano di ritrovarne il vero spirito in un sistema, che, come quello di Hegel, vede in Dio la ragione impersonale, che non arriva alla coscienza di sé medesima se non nello spirito dell’uomo, che distrugge la libertà divina ed umana, e precipitando l’umanità dalle chiarezze ineffabili del Vangelo nelle tenebre del paganesimo, evoca da questo caos, come arbitro supremo d’ogni cosa, la cieca necessità.); finalmente è che 1’egelianismo è un sistema teologico protestante, che spiega alla sua maniera i dogmi della Trinità e dell’Incarnazione. Nell’esposizione che ne abbiam fatto, noi l’abbiamo spogliato delle sue formule dommatiche altrettanto plausibili ed ammissibili per la ragione emancipata dalla Chiesa quanto lo è tutta la simbolica delle altre eresie, e meno ributtante sicuramente della dottrina generale protestante del servo arbitrio e della giustificazione per la fede. Cosi, secondo l’Hegel, l’essenza assoluta, la sostanza di ogni cosa, considerata in sé medesima e prima di ogni sviluppo, è il Padre, o la prima Persona del mistero della Trinità. — Il passaggio dalla sostanza indeterminata all’esistenza effettiva, la trasformazione dell’essenza infinita in universo, in mondo creato, ciò che noi chiamiamo la natura, è Dio il Figliuolo, la seconda Persona, la quale esprime tutto ciò che è nella sostanza eterna. — Finalmente, quando lo spirito arriva al termine di tutti gli sviluppi, riconosce se stesso; quando egli afferma l’identità del finito e dell’infinito; quando per questa veduta e questa affermazione egli rientra in certo qual modo in sé medesimo, si uguaglia a sé medesimo, compie sé medesimo, esso è lo Spirito Santo, la terza Persona, ed è lo spirito umano. – Il dogma dell’incarnazione è similmente rispettato nella scuola hegeliana: solamente la dottrina del Verbo fatto carne, del Dio fatto uomo, invece di essere particolarizzata in Gesù Cristo, è generalizzata nell’umanità; e Strauss, discepolo di Hegel, nella sua Vita di Gesù, non ha fatto, in quest’ordine di idee, che spogliare la dottrina cristiana della sua veste storica; ma egli l’ha conservata, trasportandola nel genere umano; a giudizio di lui, come a giudizio di tutta la scuola egeliana, la specie umana è il Verbo. Del resto, tutta questa teorica panteista egeliana non ha nulla di originale; se noi ce ne ricordiam bene, essa non è che un ritorno alle antiche teoriche dei gnostici e de’ neo-platonici: lo Strauss non fa che riprodurre Filone, e il ciclo delle eresie termina come fu cominciato or fa diciotto secoli. – Questa dottrina ha potuto così autorizzarsi col protestantismo che l’ha partorita, e darsi come un progresso finale su tutte le evoluzioni di questa grande eresia. Perciò noi leggiamo sotto tutte le forme. negli Annali alemanni, « che la missione della chiesa protestante è di sradicare la fede al Cristianesimo evangelico; che Lutero non e stato che il precursore del grande Hegel; che il protestantismo può esistere senza la Bibbia, da lungo tempo invecchiata, piena di errori sulle questioni più importanti della vita, e che egli può, coll’ajuto della scienza e dell’incivilimento, surrogare efficacemente ogni disciplina morale (Il rispetto della Bibbia e della divina persona del Cristo non era molto più grande nei primi riformatori che negli ultimi, e Strauss non ha per certo superato Lutero. E lo vedremo poco stante.). » – Sotto il nome di Essenza del Cristianesimo, Feuerbach e Brunone Bauer vennero, dopo Strauss, a far discendere l’egelianismo sul terreno della politica sociale, ed a gridar la venuta del comunismo. Nel suo programma del 1843, censurando il vecchio liberalismo, questa scuola dichiarava che si trattava oggimai di strappare il popolo dalle illusioni su cui posa attualmente la nostra vita politica e religiosa, di mettere in moto le massime di distruggere l’organizzazione militare, insegnare al popolo a reggersi da se medesimo, ed a rendersi giustizia, di strappar dalla morte il mondo germanico e di assicurare il ino avvenire, trasformando il liberalismo in pura democrazia. Il protestantismo non respinge la solidarietà di queste fatali tendenze. Per far ciò sarebbe bisognato che trovasse in sé qualche fondo di credenza comune sul quale egli potesse appoggiarsi e raccogliersi. Ma, tutto al contrario, le facoltà teologiche di Prussia accompagnarono coi loro voti i richiami di Brunone Bauer in favore della libertà teologica; e gli ultimi tentativi fatti collo scopo di obbligare i predicatori prussiani ad adottare qualche simbolo positivo di Cristianesimo qual regola dell’istruzione della gioventù e del popolo sono venuti a rompere contra il rifiuto di queste medesime facoltà, salvo i1 decanato di Berlino e di Hengstenberg (L’anglicanismo, sotto la sua apparente coesione, non racchiude una minore divisione, una minore inanità. Nel maggio del 1840, si suscitò nella camera alta, sui trentanove articoli, un dibattimento in cui si domandò se il clero stesso credeva alla verità di questi articoli che egli approvava. A tale questione uno dei vescovi rispose che tutti i membri del clero vi credevano; un altro che nessuno vi credeva: un ferzo che era impossibile accettarli; sopra di che un altro, il quarto, aggiungeva che tutte le persone ragionevoli lo sottoscrivevano in massa, ma si riservavano di non credere altro che quello che loro sembrasse conveniente. Quello che avvenne poscia in Inghilterra non ha fatto che mettere sempre più in evidenza ed in azione questa discordia scandalosa e nondimeno molto istruttiva per una moltitudine di anime oneste e disingannate, che hanno preso c prendono tutti i giorni il loro corso verso l’unità.). – A dir breve, tutti i partiti del protestantismo per reagire contra le ultime conseguenze del suo principio possono compendiarsi in questa parola di Nicola Harms: « Io potrei scrivere, sull’unghia del mio pollice tutto ciò che rimane di dogma generalmente creduto nella chiesa protestante. » Ma una obbiezione onorevole non ci permette di raccogliere ancora il vantaggio di questo capitolo, e domanda che noi la leviamo. – In un lavoro notevolissimo, pubblicato negli Annali cattolici di Ginevra, sull’opera nostra, e in cui la benevolenza non la cede che alla sincerità dei giudizi, ci è stata fatta questa censura essenziale: « Il signor Nicolas ha voluto stabilire un legame di filiazione diretta tra il protestantismo ed il panteismo. Noi non possiamo approvare un tale sentimento. Il proprio del panteismo è di rigettare l’esistenza di un Dio personale: ora in nessun tempo passato o presente noi non vediamo alcuna setta protestante giungere a questo grado di negazione. Se il signor Nicolas ha voluto dire che la dottrina del libero esame ha creato in seno alle sette riformate un principio di dissoluzione favorevole allo sviluppo della filosofia panteista, noi siam d’accordo con lui. » – Noi non crediamo che questa censura sia fondata; e, qualunque sia la nostra deferenza pel suo autore, non possiamo abbandonare a lui la verità, o meglio non crediamo di poter rispondere meglio alle sue intenzioni che mettendola viemaggiormente in luce, e porgendogli così motivo di congratularsi con noi dell’obbiezione. – Primieramente è vero che la dottrina del libero esame ha creato in seno alle sette riformate un principio di dissoluzione favorevole allo sviluppo della filosofia panteista. Tutto quello che dice a questo riguardo il giudizioso critico nel seguito dell’articolo è esattissimo. Nondimeno, non tenendoci ancora che a questo punto di vista, noi pensiamo che la filosofia panteista non è stato l’effetto puramente fortuito della dissoluzione operata dal libero esame. L’errore non è così avventuroso come pare nelle sue cadute e nei suoi traviamenti. Le sue cadute sono fatali anzi che avventurose. A dir breve, l’errore ha le sue leggi, le quali non sono altro che l’atterramento di quelle della verità, leggi di decomposizione, di corruzione e di morte, come quelle della verità sono leggi di unione, di santità e di vita. Ora, avendo il principio del libero esame recata la distruzione radicale delle credenze, questa incredulità totale non era terribile per la natura umana. Il bisogno di credere che è ad essa inerente, e la necessità di trovar soluzioni ai grandi problemi del destino individuale e sociale dell’uomo, senza i quali egli non può organizzare né la società né la sua vita particolare, doveva, come l’ha si bene spiegato Jouffroy nelle pagine da noi citate, recare una reazione contra il naturalismo. Dal culto del finito, se così posso dire, si doveva andare al culto dell’infinito. Ma come trovare, o porre le leggi e i confini di questo culto? Noi l’abbiamo già mostrato le cento volte: Gesù Cristo solo e la sua Chiesa hanno potuto sciogliere questo problema. Gli spiriti che si rifiutano d’accettare la soluzione cattolica, e che in tutte le loro investigazioni non mirano che a soddisfare quello di cui bisognerebbe primieramente spogliarsi, l’orgoglio del loro spirito, la libertà delle loro passioni, non potevano far altro che errare in tale investigazione, cadendo nell’eccesso contrario al naturalismo, nel panteismo, sia perché l’impotenza naturale dello spirito umano è scoprire le leggi dell’ordine soprannaturale non lo rende capace che di eccesso nei concetti che può formarsene, sia perché in questo eccesso egli conserva sempre la sola cosa che non vuole abbandonare, se cosi oso dire, il suo io emancipato dal naturalismo o autorizzato dal panteismo, glorificato nella prima e divinizzato nella sonda di queste concezioni. Il panteismo e il naturalismo non sono che due forme di un medesimo culto, del culto della ragione. Perciò noi vediamo i medesimi spiriti, senza mutar costumi né carattere, passar dall’una all’altra di queste due dottrine e trovarvi egualmente il loro conto. Il panteismo ha anzi questo vantaggio per essi sul naturalismo, che soddisfa o piuttosto inganna il bisogno innato che noi abbiamo dell’infinito, facendo volgere il suo culto in quello di noi medesimi. Sia per ignoranza, sia per orgoglio, sia per debolezza intellettuale, sia per debolezza morale, o per ambedue al tempo stesso, l’uomo non può dunque trovar l’accordo del finito coll’infinito, vale a dire la religion vera; egli non può che gettarsi da un polo all’altro, quando non si sottomette a seguire il simbolo cattolico, che è come l’eclittica celeste, e agghiaccia o incendia la terra cui il sole della verità divina contenuta in questo simbolo può solo vivificare. In questo primo senso si direbbe dunque con verità che il panteismo è imputabile all’emancipazione religiosa dello spirito umano, al protestantismo. – Ma noi abbiam detto in oltre che vi era un rapporto dottrinale tra il protestantismo e il panteismo, ed è principalmente su questo punto che noi discordiamo col nostro giudizioso critico, e dobbiam spiegarci. La spiegazione sarà semplicissima e, come crediamo, assai concludente. « Il proprio del panteismo, dice egli, è di rigettare l’esistenza di un Dio personale. Ora in nessun’epoca passata o presente, noi non vediam setta protestante giungere a questo grado di negazione. » Questa obbiezione è troppo moderata nella sua esposizione; ed è perciò che il suo autore vi si è impegnato. Se egli avesse dato ad essa tutto il suo sviluppo, avrebbe veduto che la si confutava da sé medesima, come avvien sempre di una obbiezione che non è fondata. Una tale obbiezione bene esposta è per metà confutata, per la ragion medesima che una questione ben posta è per metà risoluta. Ora, non basta, nel senso dell’obbiezione, il dire che il protestantismo non ha mai rigettato l’esistenza di un Dio personale; bisognava dire che ha professata l’esistenza di un Dio personale con eccesso mercé il dogma della giustificazione, della predestinazione e del fatalismo; che egli ha sacrificato a questa personalità divina la personalità umana; che vi ha immolati tutti gli atti interiori ed esteriori che distinguono quest’ultima, fino a riuscire a questa conclusione, che Dio fa tutto, che Dio è tutto in noi, come in tutte le creature. Ecco l’obbiezione in tutta la sua forza. Ma eccola appunto per questo in tutta la sua debolezza; perocché se Dio è tutto, tutto è Dio, ed ecco la personalità divina assorbita nel suo proprio eccesso, e i due estremi che arrivano, come sempre, a confondersi. Il panteismo esiste tanto nella formola: Dio è tutto quanto in quella: tutto è Dio; perché in queste due formolo vi è egualmente confusione del finito coll’infinito, ciò che è propriamente il panteismo. La prima ha un carattere più religioso, e la seconda un carattere più filosofico; ma questo è il vero di quella, perocché ciò che muta di natura, ciò che è sacrificato, ciò che perisce realmente in questa confusione non è il finito, non sono i suoi atti, non sono le nostre inclinazioni e le nostre passioni: per lo contrario, tutto questo è salvo, anzi consacrato; bensì è Dio, il quale, col necessitarle e col farle in noi, vi perde gli attributi di santità, di giustizia, di sapienza, di potenza, la cui riunione costituisce la personalità del suo essere. Il dogma protestante del servo arbitrio e della predestinazione non è in sostanza che il dogma della licenza e della deificazione delle passioni dell’uomo. Esso non trasporta in Dio la nostra libertà e il nostro destino che per spogliarvele d’ogni responsabilità umana e rivestirvele de’ di lui attributi divini, e distruggere in pari grado la di lui personalità santa, essenzialmente incomportabile colla nostra licenza. Il dogma protestante della predestinazione non è insomma che un panteismo mascherato, come questo non è che un ateismo mascherato, il quale in sostanza è l’unico errore più o meno mascherato. Perciò uno de’ primi frutti della riforma, per confessione medesima de’ riformatori , che noi avrem motivo di citare a questo proposito, fu la spaventevole apparizione dell’ateismo in seno alle società cristiane. La dottrina del servo arbitrio, che è il fondo del protestantismo ortodosso, aveva dunque ripiena 1’Alemagna, che ne è stata e ne è rimasta il primo e il principal teatro, de’ germi del panteismo, e questo si è trovato pronto a ricevere le formale filosofiche di Hegel. Noi abbiam già citato, a sostegno della nostra tesi sul rapporto del protestantismo col panteismo non meno che col naturalismo, l’opinione dell’eminente autore della Simbolica. Dopo aver mostrato il panteismo puro in questa dottrina di Zuinglio: Tutto ciò che esiste è di Dio; tutto ciò che è, è Dio, è Dio medesimo e dopo aver dichiarato il rapporto di questa dottrina con quella predestinazione luterana, egli termina così: « Ecco gli eccessi inuditi ne’ quali cadde Zuinglio riconducendo alla sua vera base la dottrina di Lutero sulla libertà umana. In questi ultimi tempi (ed è così che i protestanti si comprendono essi medesimi) si sono veduti gli ortodossi del partito combattere i nuovi sistemi filosofici e teologici; sistemi che in sostanza non racchiudono che le conseguenze necessarie de’ principii posti dai riformatori. Schleiermacher, non ostante le tante sue deviazioni della dottrina de’ suoi maestri , è, a nostro avviso, il solo vero discepolo degli apostoli della riforma (Simbolica, tom. I, pag. 281). – Noi siam lietissimi di poter dare alle nostre ragioni il sostegno di quest’alta autorità; è per tal modo rimane bene stabilito che il protestantismo, del paro che tutte lo altre eresie, doveva riuscire dal suo lato dommatico, ed è realmente riuscito, al panteismo.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (45): RAPPORTO DEL PROTESTANTESIMO COL SOCIALISMO PER MEZZO DEL PANTEISMO (3)

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (13)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (13)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

Art. 3. — DELL’EUCARISTIA.

D. 371. Che cos’è l’Eucaristia?

R. L’Eucaristia, come chi dicesse buona grazia o azione di grazia, è un divinissimo dono del Redentoree un mistero della fede, nel quale, sotto le specie delpane e del vino, Gesù Cristo è personalmente contenuto,offerto e ricevuto, sacrificio insieme e Sacramento dellanuova Legge (Conc. Lat., II, can. 33; Conc. di Tr., sess. XIII, c. I)

A) Della presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia.

D. 372. Quand’è che Gesù Cristo istituì la santissima Eucaristia?

R. Gesù Cristo istituì la santissima Eucaristia nell’ultima cena, prima di patire, quando, preso il pane, rese grazie, lo distribuì ai suoi discepoli dicendo: « Prendete e mangiate,  questo è il mio corpo »; e preso il calice, lo dette loro dicendo : « Bevete, questo infatti è il mio sangue », aggiungendo: « Questo fate in memoria di me » (Matt., XXVI, 26-28; Marco, XIV, 22-24; Luca, XXII, 19, 20; Paolo: Ia ad Cor., XI, 23-25; Conc. di Tr., 1. c.)

D. 373. Cosa avvenne quando Gesù Cristo ebbe pronunziato sul pane e sul vino le parole della consacrazione?

R. Quando Gesù Cristo ebbe pronunziato sul pane e sul vino le parole della consacrazione, avvenne una mirabile e singolare conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo, e di tutta la sostanza del vino nel sangue di Gesù Cristo, pur rimanendo le specie del pane e del vino.

(Conc. di T r., 1. c., cap. 4; S. Giustino: Apologia, I, 66; – S. Efrem: In hebdomadam sanctam, I V , 4, 6 ; S. Atanasio: Sermo ad baptizatos; S. Cirill. Geros.: Cathech., XXII et XXIII; S. Giov. Cris. : In Matth., LXXXII, 4; S. Giov. Damasceno: De fide ortodoxa, IV, 13).

D. 374. Come si chiama tale conversione?

R. Tale conversione si chiama transustanziazione.

(Conc. Lat., IV: De fide cattolica, c. I ; Conc. di Lione II: Prop, fidei Mich. Pal.; Conc. di Costanza, sess. VIII, prop. l e segg.; Conc. di Tr., 1. c. e can. 2; Bened. XII: Ex libello Jamdudum; Pio VI: Const. Auctorem fidei, prop. 29; Cat. p. parr., p. II, c. IV, n. 38.)

D. 375. Che cosa s’intende per specie del pane e del vino?

R. Per specie del pane e del vino s’intende la quantità, la figura, l’odore, il sapore, il colore e quanto nel pane e nel vino si presenta oggettivamente ai sensi.

D. 376. Che cosa volle Gesù Cristo nell’aggiungere quelle parole: Fate questo in memoria di me?

R. Nell’aggiungere quelle parole: Fate questo in memoria di me, Gesù Cristo volle costituire e costituì isuoi Apostoli sacerdoti del nuovo Testamento, e tantoad essi quanto ai loro successori nel sacerdozio comandòche similmente consacrassero, offrissero, e amministrassero il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane. e del vino (Luca, XXII, 19; Paolo: I ad Cor., XI,24, 25; Conc. di Tr., sess. XXII, c. 1 e can. 2.).

D. 377. Quand’è che i sacerdoti esercitano tale potestà ed eseguiscono tale comandamento?

R. I sacerdoti esercitano tale potestà ed eseguiscono tale comandamento, quando, impersonando Gesù Cristo, celebrano il sacrificio della Messa.

D. 378. Che cosa dunque avviene quando il sacerdote pronunzia nella Messa sul pane e sul vino le parole della consacrazione?

R. Quando il sacerdote pronunzia nella Messa sul pane e sul vino le parole della consacrazione, sotto le specie del pane e del vino si rende realmente e sostanzialmente presente il corpo e il sangue di Nostro Signor Gesù Cristo, in un con la sua anima e la sua divinità.

D. 379. Dopo la consacrazione, sotto la specie del pane c’è solo il corpo di Cristo, e solo il suo sangue sotto la specie del vino?

R. Dopo la consacrazione, sotto la specie del pane non c’è soltanto il corpo di Cristo, né sotto la specie del vino soltanto il suo sangue, ma sotto ciascuna specie, e sotto le singole parti di ciascuna specie, è contenuto tutto e intero Gesù Cristo, Dio e Uomo (Giov., VI, 58; Paolo: I ad Cor., XI, 26, 27; Conc. di Tr., sess. XIII, c. 3, can. 3; Cat. p. parr., p. II, c. IV, n. 36).

D. 380. Gesù Cristo, nell’esistere sotto le specie sacramentali, cessa forse di stare in cielo?

R. Gesù Cristo, nell’esistere sotto le specie sacramentali, non cessa di stare in cielo, ma trovasi simultaneamente in cielo e sotto le specie sacramentali.

D. 381. Fino a quando Gesù Cristo rimane sotto le specie sacramentali?

R. Gesù Cristo rimane sotto le specie sacramentali non solo mentre vien ricevuto, ma fino a quando le specie non sieno corrotte.

D. 382. Qual è la materia adatta per consacrare la Santissima Eucaristia?

R. La materia adatta per consacrare la Santissima Eucaristia è il pane di grano e il vino di vite.

(A norma delle prescrizioni della Chiesa, deve in Occidente adoperarsi l’azimo, il pane fermentato, invece, nella maggior parte delle Chiese orientali; devesi inoltre prima della consacrazione mescolarsi un po’ d’acqua col vino. — Conc. di Fir.: Dec. prò Græcis, e Decr. prò Armenis; Conc. di Tr., sess. XXII, c. 7.).

D. 383. Quali sono le parole necessarie per consacrare l’Eucaristia?

R. Le parole necessarie per consacrare l’Eucaristia sono quelle medesime che Nostro Signor Gesù Cristo pronunziò nell’ultima cena sul pane e sul vino, e che il sacerdote, impersonando Gesù Cristo, ripete nella celebrazione della Messa.

(Conc. di Fir.: Decr. prò Armenis; Cat. p. parr., p. II, c. IV, n. 12 e segg. — Gesù Cristo Signor Nostro — come dice il Vangelo di S. Giovanni, XIII, 1 — nell’ultima cena, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine, cioè, coll’istituire la santissima Eucaristia, dimostrò verso di loro il suo amore infinito. Bene quindi afferma il Concilio Tridentino, sess. XIII, cap. 2, che con l’istituzione della santissima Eucaristia il nostro Redentore « fece straboccare sugli uomini le ricchezze del suo divino amore, creando un ricordo delle sue meraviglie»; poiché, giustamente spiega un pio autore: con tutta la sua onnipotenza, Egli non poté dar di più; con tutta la sua sapienza, non seppe dar di più: con tutta la sua ricchezza, non ebbe a dar di più ». Piamente, dunque, o Cristiano, medita di frequente tanto pegno di divina carità, onde tal pensiero ti inciti a sempre più e meglio riamare Chi tanto amore ti dimostrò né cessa di dimostrarti.).

B) Del sacrificio della Messa.

D. 384. Che cos’è il sacrificio?

R. Il sacrificio è l’offerta di una cosa sensibile, mediante una qualche sua immutazione, fatta a Dio solo, in segno del supremo onore e della suprema riverenza che l’uomo deve a Dio come suo creatore, signore ed ultimo fine (S. Tom., 2a 2æ, q. 85, a. 1, 2, 3, 4).

D. 385. È  la Messa il vero e proprio sacrificio della nuova Legge?

R. La Messa è il vero e proprio sacrificio della nuova Legge, in quanto, mediante il ministero del sacerdote, Gesù Cristo vi offre incruentemente a Dio Padre, con mistica immolazione, il proprio corpo e il proprio sangue sotto le specie del pane e del vino (Sal., CIX, 4; Malach., I, 11; Luca, XXII, 19, 20; Paolo: 1a ad Cor., XI, 24, 25; ad Hebr., XIII, 10; Conc. Later., IV, c. I; Conc. di Tr., sess. XXII, c. I; S. Ireneo: Adversus hereses, IV, 17, 5).

D. 386. Perché Gesù Cristo ha istituito questo mirabile sacrificio?

R. Gesù Cristo ha istituito questo mirabile sacrificio per lasciare alla Chiesa un sacrificio quale la natura umana lo esige, cioè visibile, e tale poi, che non solo rappresentasse quell’altro cruento consumato una volta sulla croce, ma ne mantenesse la memoria sino alla fine dei secoli e ne applicasse infine la salutare virtù per la remissione dei peccati che ogni giorno commettiamo. (Luca, XXII, 19; Paolo: Ia ad Cor., XI, 24-26; Conc. di Tr., 1. e; S. Greg. Magn.: Dialog. IV, 58).

D. 387. In qual maniera la Messa rappresenta il sacrificio della Croce?

R. La Messa rappresenta il sacrificio della Croce in quanto la consacrazione del pane e del vino, fatta separatamente, rappresenta, in forza delle parole stesse, quella reale separazione del corpo dal sangue che Nostro Signor Gesù Cristo ebbe a patire nella morte cruenta della Croce.

(Conc. di Tr., sess. XIII, c. 3; S. Tom., p. 3a, q. 74, a. 1; Cat. p. parr., p. II, c. IV, n. 76. — In altri termini, nella consacrazione del pane, è il corpo di Cristo che si fa presente in virtù delle parole: Questo è il mio corpo, ed è il sangue di Cristo che si fa presente in virtù delle parole: Questo è il calice del mio sangue; senonché, nella consacrazione del pane si fa presente il sangue con l’anima, e il corpo con l’anima nella consacrazione del vino, in forza di quella naturale connessione e concomitanza, per cui le parti di Gesù Cristo Nostro Signore, risuscitato da morte per mai più morire, sono unite l’una con l’altra; quanto poi alla divinità, essa si fa presente in entrambe le consacrazioni a causa della sua mirabile unione ipostatica col corpo e con l’anima. Orbene, questa mistica separazione rappresenta quella separazione reale nella quale consiste lo stesso sacrificio della croce.

D. 388. E’ la Messa una semplice e nuda rappresentazione del sacrificio della Croce?

R. La Messa non è una semplice e nuda rappresentazione del sacrificio della Croce, ma è il sacrificio medesimo della Croce che vien rinnovato; identica infatti è la vittima, identico l’offerente, che oggi si offre per mezzo del ministero sacerdotale, mentre allora sulla Croce offrì se stesso; solo quindi varia il modo dell’offerta (Conc. di Tr., sess. XXII, c. 2; Cat. p. parr. 1. c. n. 76, 7).

D. 389. Come ci vengono applicati mediante il sacrificio della Messa, i frutti del sacrificio della Croce?

R. I frutti del sacrificio della Croce ci vengono applicati mediante il sacrificio della Messa nel senso che Dio, placato da tale immolazione, accorda quelle grazie che Gesù Cristo ci meritò a prezzo del suo sangue (Conc. di Tr., 1. c.; Cat. p. parr., p. II, c IV, n. 34).

D. 390. A qual fine viene offerto il sacrificio della Messa?

R. Il sacrificio della Messa viene offerto al fine:

1° di adorare Iddio, e perciò è latreutico;

2° di rendergli grazie per la grande gloria sua e per i benefizi di cui ci ha colmati, e perciò è eucaristico;

3° di ottenere altri benefizi ancora, e perciò è impetratorio;

4° di rendere Dio propizio, tanto ai vivi, a causa del peccato e delle pene al peccato dovute, quanto alle anime del Purgatorio, e perciò è propiziatorio (S. Cirill. Geros.: Catech. XXIII (myst. V), 10).

D. 391. A chi viene offerto il sacrificio della Messa?

R. Il sacrificio della Messa viene offerto esclusivamente a Dio, atteso che il dominio supremo, quale lo esprime il sacrificio, appartiene a Dio solo.

D. 392. Perché allora la Chiesa suol celebrare il sacrificio della Messa anche in onore e in memoria della beata Vergine Maria e dei Santi?

R. Quantunque la Chiesa soglia celebrare i l sacrificio della Messa anche in onore e in memoria della beata Vergine Maria e dei Santi, pur tuttavia, non a questi offre essa il sacrificio, ma a Dio solo, rendendo grazie per le loro vittorie e implorando il loro patrocinio presso Dio (Conc. di Tr., sess. XXII, can. 5).

D. 393. A beneficio di chi viene applicata la Messa?

R. Ogni e qualsiasi Messa, essendo il sacrificio della Chiesa Cattolica offerto dal pubblico ministro della Chiesa, viene applicata non ad esclusivo beneficio del celebrante, ma a comune beneficio dei fedeli sia vivi che defunti, e di quelli specialmente che il celebrante rammenta nella Messa (Conc. di Tr., sess. XXII, c. 6; Cat. p. parr., p. II, c. IV n. 79.).

D. 394. Può il sacerdote applicar la Messa per una persona particolare o per un fine determinato qualsiasi?

R. Il sacerdote può applicare la Messa per una persona particolare, sia vivente che defunta, o per un fine determinato qualsiasi; dal che segue che la Messa, a parità di condizioni, giova in modo speciale a quella tal persona o a conseguire quel tale fine (Pio VI: Const. Auctorem fidei, prop. 30 inter damnatas).

D. 395. Qual è la maniera migliore di assistere alla Messa?

R. La maniera migliore di assistere alla Messa è, per i fedeli presenti, quella di offrire a Dio la divina Vittima unitamente al sacerdote, di riandar col pensiero al sacrificio della Croce e di unirsi a Gesù Cristo, con la Comunione sacramentale, o per lo meno con quella spirituale (Non c’è nella religione cristiana atto per se stesso più santo, nessun altro che a Dio procuri maggior gloria, nessuno che giovi in misura così abbondante alla salvezza delle anime come questo sacrosanto sacrificio della Messa, in cui, tutto e intero, c’è quel frutto della Redenzione da Cristo compiuta sulla croce. A tale augusto e divino sacrificio assisti, quindi, di frequente, o cristiano, e atteggia allora l’animo tuo a quell’ardente pietà con la quale avresti assistito sul Calvario all’estrema agonia del Crocifisso).

C) Del Sacramento dell’Eucaristia.

D. 396. Che cos’è il sacramento dell’Eucaristia?

R . Il sacramento dell’Eucaristia è un sacramento istituito da Gesù, nel quale, sotto le specie del pane e del vino, Gesù Cristo in persona, autore della grazia, è veramente, realmente e sostanzialmente contenuto per il nutrimento spirituale dalle anime nostre (Giov., VI, 54-58; Cat. p. parr., p. II, c. IV, n. 7).

D. 397. Perché Gesù Cristo istituì il sacramento dell’Eucaristia?

R. Gesù Cristo istituì il sacramento dell’Eucaristia:

1° perché tanto ci amò da voler rimanere presente fra noi, onde poi essere da noi riamato ed onorato;

2° per unirsi a noi mediante la santa Comunione; e ciò per essere all’anima nostra, e celeste alimento, con cui difendere e sostentare la nostra vita spirituale, e nostro viatico per l’eternità alla fine della vita temporale.

(Giov., VI, 50 e segg.; Paolo: 2a ad Cor., X, 16, 17; Conc. di Tr., sess. XIII, c. 2; S. Ignazio M.: Epist. ad Magnesios, 20; S. Ireneo: Adv. haer., V, 2, 3; S. Giovanni Crisost.: In Joannem, XLVI, 3; e in Ia ad Cor., XXIV, 2; S. Tom., p. III q. 79, a. 4 e 6; Cat. p. parr., p. II, n. 70).

D. 398. Come si distingue l’Eucaristia sacramento dall’Eucaristia sacrificio?

R. L’Eucaristia sacramento si distingue dall’Eucaristia sacrificio:

1° in quanto il sacramento si compie con la consacrazione e permane, mentre la natura del sacrificio consiste nell’essere offerto; indi è che l’ostia divina conservata nella pisside o portata ad un ammalato ha carattere di sacramento, non di sacrificio;

2° in quanto il sacramento, a chi si comunica, reca argomento di merito e spirituali giovamenti, mentre il sacrificio non solo merita, ma anche soddisfa (Cat. p. parr.: 1. c., n. 71).

D. 399. Che cosa si richiede per degnamente ricevere l’Eucaristia?

R. Per degnamente ricevere l’Eucaristia, oltre il Battesimo e lo stato di grazia, il primo come in tutti i Sacramenti ricevuti dopo il Battesimo, il secondo come in tutti i Sacramenti dei vivi, si richiede ancora, sotto pena di grave peccato, il digiuno naturale (Paolo: 1a ad Cor., XI, 27-29; S. Giov. Crisost.: In Matth., LXXXII, 5).

D. 400. Che cosa deve fare chi sta per ricevere la santa Comunione e si sa colpevole di un peccato mortale?

R. Chi sta per ricevere la santa Comunione e si sa colpevole di un peccato mortale, per quanto pentito si possa ritenere, deve, prima di accostarsi alla sacra Mensa, fare la confessione sacramentale; che se il caso fosse tale da non tollerare alcun indugio, e non ci fosse confessore cui ricorrere, faccia un atto di contrizione perfetta (Conc. di Tr., sess. XIII, cap. 7; Cod. D. C , can. 856).

D. 401. Che cosa significa digiuno naturale?

R. Digiuno naturale significa nulla prendere per modo di cibo, o bevanda, o anche medicina, dalla mezzanotte fino al momento della Comunione (Cod. D. C., can. 858, § 2; Cat. p. parr., p. II, c. IV, n. 6. — « Chi debba ricevere la santa Comunione…. anche se diverso possa essere il computo in uso nel luogo, può attenersi al tempo del luogo, sia al tempo locale vero o medio, sia a quello legale, tanto regionale quanto ad un altro qualsiasi straordinario ». Cod. D. C , can. 33).

D. 402. Qual peccato commette chi non riceve a digiuno la santa Comunione?

R. Chi non riceve a digiuno la santa Comunione commette un grave peccato di sacrilegio.

D. 403. Quand’è che vien permessa la santa Comunione non osservato il digiuno naturale?

R. La santa Comunione vien permessa non osservato il digiuno naturale, quando urge il pericolo di morte, o necessità d’impedire qualche irriverenza verso il Sacramento (Cod. D. C, 1. c.).

D. 404. A quali infermi vien permessa la santa Comunione, non osservato il digiuno naturale?

R. A quegl’infermi che da un mese giacciono a letto senza certa speranza di prossima convalescenza, previo prudente consiglio del confessore, vien permessa la santa Comunione una o due volte per settimana, anche se in precedenza abbiano preso qualche medicina od altro, per modo di bevanda (Cod. D. C, 1. c., § 2.).

D. 405. Che cosa richiedesi perché la santa Comunione sia ricevuta, oltre che degnamente, anche devotamente?

R. Perché la santa Comunione sia ricevuta, oltre che degnamente, anche devotamente richiedesi che una diligente preparazione la preceda e un congruo ringraziamento la segua, secondo le forze, le condizioni e le incombenze di ognuno (S. Cong. d. Conc: Decr. De quotidiana SS. Eucharistiæ sumptione, 20 dic. 1905).

D. 406. In che cosa consiste la preparazione da farsi prima della santa Comunione?

R. La preparazione da farsi prima della santa Comunione consiste nel meditare attentamente e devotamente durante qualche tempo quanto stiamo per ricevere, e nell’esercitarci di tutto cuore in atti di fede, di speranza, di carità e di contrizione (S. Basil.: Regulæ, interrogano 172; Cat. p. parr., p. II, c. IV, n. 56 e segg.).

D. 407. In che cosa consiste il ringraziamento che segue la santa Comunione?

R. Il ringraziamento che segue la santa Comunione consiste nel meditare attentamente e devotamente durante qualche tempo quanto abbiamo ricevuto, e nell’emettere atti di fede, di speranza, di carità, di fermo proposito, di gratitudine e di domanda.

D. 408. Dopo la Comunione, che cosa dobbiamo principalmente chiedere a Gesù Cristo?

R. Dopo la Comunione dobbiamo chiedere a Gesù Cristo principalmente le grazie necessarie alla salvezza nostra e dei nostri prossimi, soprattutto la grazia della perseveranza finale, la vittoria della Chiesa sui suoi nemici e la pace eterna alle anime dei defunti.

D. 409. Quali effetti produce l’Eucaristia in chi devotamente la riceve?

R. L’Eucaristia, in chi degnamente e devotamente la riceve, produce gli effetti seguenti:

1° aumenta la grazia santificante e il fervore della carità;

2° rimette i peccati veniali;

3° contribuisce assai efficacemente alla finale perseveranza, sia col diminuire la concupiscenza, sia col preservare dai peccati mortali, sia col ringagliardire nell’esercizio delle opere buone (Giov. VI, 48 e segg.; Cat. p. parr., p. II, c. IV, n. 51 e segg.)

D. 410. Oltre il precetto della Comunione pasquale v’è, qualche altro obbligo di ricevere la Comunione?

R. Oltre il precetto della Comunione pasquale v’èl’obbligo di ricevere la Comunione in pericolo di morte, qualunque sia la causa donde tale pericolo possa provenire

(Cod. D. N., can. 864, § 1 e 2. — Chiunque abbia la responsabilità spirituale o corporale degl’infermi, badi a che il santo Viatico non venga loro troppo a lungo differito, e vigili perché gl’infermi, mentre sono ancora in possesso delle proprie facoltà, lo ricevano a conforto della loro anima.).

D. 411. Può, chi ha già ricevuto l’Eucaristia, riceverla una seconda volta lo stesso giorno?

R. Qualora chi ha già ricevuto l’Eucaristia venga a trovarsi in pericolo di vita, può — in forma di Viatico — riceverla una seconda volta lo stesso giorno; lo deve, poi, qualora questo sia l’unico modo d’impedire l’irriverenza al Sacramento (Cod. D. C , can. 857, 858).

D. 412. In qual maniera dobbiamo onorare Gesù Cristo presente nell’Eucaristia?

R. Dobbiamo onorare Gesù Cristo presente nell’Eucaristia:

1° adorandolo con somma riverenza;

2° riamando chi tanto ci amò;

3° pregandolo con ogni fiducia per ottenere le grazie.  

(Ogni qualvolta dunque entri in una Chiesa ove si conserva il santissimo Sacramento, poni attenzione che ti trovi al cospetto di Gesù Cristo medesimo, cioè di quello stesso Dio che gli angioli adorano tremando. Bada quindi a non commettervi la minima irriverenza. Egli giorno e notte vi dimora per amor tuo, come il più amoroso degli amici. Per cui sieno frequenti le tue visite a Lui, e per tanta carità rendigli grazie. Le sue mani sono ricolme di doni celesti, ed egli brama di largirteli; pregalo quindi fiduciosamente.).

Art. 4. — DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

D. 413. Che cos’è il sacramento della Penitenza?

R. Il sacramento della Penitenza è il sacramento istituito da Gesù Cristo per i fedeli che devono essere riconciliati con Dio medesimo, ogni volta che, dopo il Battesimo, siano caduti in peccato (Conc. di Tr., sess. XIV, c. I , can. 1).

D. 414. Quand’è che Gesù Cristo istituì questo Sacramento?

R. Gesù Cristo istituì questo Sacramento soprattutto il giorno in cui sui discepoli radunati dopo la risurrezione Egli soffiò, dicendo: «Ricevete lo Spirito Santo; a chiunque avrete rimesso i peccati, son questi rimessi, e a chiunque li avrete ritenuti, son questi ritenuti » (Giov., XX, 22, 23; Matt., XVI, 19; XVIII, 18; Conc. di Tr., sess. XIV, c. I; Pio X: Decr. Lamentabili, 3 lugl. 1907, prop. 42 tra le condannate; S. Giov. Cris.: De sacerdotio, III, 5.)

D. 415. In qual modo Gesù Cristo istituì questo Sacramento?

R. Gesù Cristo istituì questo Sacramento sotto forma di giudizio in cui, mentre il confessore fa da giudice, il penitente medesimo fa da accusatore e da testimone; quanto poi alla materia su cui verte il giudizio, essa consiste nei peccati commessi dopo il Battesimo e che il penitente confessa.

D. 416. Chi è il legittimo ministro del sacramento della Penitenza?

R. Il legittimo ministro del sacramento della Penitenza è il sacerdote debitamente approvato per udire le confessioni; e tutti indistintamente i fedeli sono perfettamente liberi di confessare i propri peccati a chi meglio credono dei confessori legittimamente approvati, fossero pure di rito diverso dal loro (Cod. D. C., can. 905.).

D. 417. Quali sono le parti di questo Sacramento?

R. Le parti di questo Sacramento sono, quasi sua materia, gli atti del penitente, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione; sua forma poi è l’assoluzione del legittimo ministro (Conc. di Tr., sess. XIV, cap. 3, can. 4; Ritual. Rom.: De Sacram. Pœnit., tit. III, cap. I, n. 1; Cat. p. parr., p. I, c. V, n. 13).

D. 418. In qual modo nei tre atti del penitente vengono inclusi tanto l’esame di coscienza quanto il proposito di non più peccare?

R. Nei tre atti del penitente vengono inclusi tanto l’esame di coscienza quanto il proposito di non più peccare, in quanto l’esame di coscienza deve necessariamente precedere tutti quegli atti, e la contrizione, senza il proposito di non più peccare, non si può nemmeno concepire.

D. 419. Quali peccati sono materia necessaria di questo Sacramento?

R. Materia necessaria di questo Sacramento sono i peccati mortali commessi dopo il Battesimo e mai ancora direttamente rimessi in virtù delle chiavi.

D. 420. Perché tali peccati vengon detti materia necessaria di questo Sacramento?

R . Tali peccati vengon detti materia necessaria di questo Sacramento, perché vi è stretto obbligo di confessarli.

D. 421. Quali peccati costituiscono materia libera e sufficiente di questo Sacramento?

R. Costituiscono materia libera e sufficiente di questo Sacramento, i peccati commessi dopo il Battesimo, sia quelli veniali, sia quelli mortali già confessati dal penitente e direttamente rimessi dall’assoluzione sacramentale.

D. 422. Perché tali peccati vengon detti materia libera e sufficiente di questo Sacramento?

R. Tali peccati vengon detti materia libera e sufficiente di questo Sacramento, perché mentre è lecito, anzi giovevole di portarli al sacro tribunale, pur tuttavia nessuno è tenuto di farlo. (Matt., XVI, 19; XVIII, 18; Giov., XX, 22, 23; Conc.di Tr., sess. XIV, cap. 3, can. 7; Cod. D. C , can. 901, 902.)

A) Degli atti del penitente.

a) – Dell’esame di coscienza.

D. 423. Che cosa deve fare il penitente prima di accostarsi al tribunale della penitenza sacramentale?

R. Prima di accostarsi al tribunale della penitenza sacramentale, il penitente deve fare l’esame di coscienza.

D. 424. Che cos’è l’esame di coscienza?

R. L’esame di coscienza è un’accurata ricerca dei peccati commessi dopo l’ultima confessione debitamente fatta.

D. 425. Come va fatto l’esame di coscienza?

R. L’esame di coscienza va fatto nel modo seguente: il penitente, dopo implorato l’aiuto di Dio, richiami accuratamente alla memoria i peccati da lui commessi con i pensieri, le parole, le opere e le omissioni, contro i comandamenti di Dio e della Chiesa, e contro i doveri del proprio stato.

D. 426. In questo esame di coscienza che cosa dobbiamo più precisamente investigare?

R. In questo esame di coscienza dobbiamo investigare più precisamente il numero dei peccati, la loro specie e le circostanze che tale specie han potuto mutare.

D. 427. Quali circostanze mutano la specie e vanno necessariamente accusate?

R. Mutano le specie e vanno necessariamente accusate quelle circostanze per cui da veniale il peccato diventa mortale (per es.: una bugia gravemente dannosa per il prossimo), o quello già mortale diventa molteplice, (per es.: il furto di cosa sacra, o commesso in luogo sacro) (Cat. p. parr., p. II, c. V, n. 47).

b) – Della contrizione e del proposito.

D. 428. Che cos’è la contrizione dei peccati?

R. La contrizione dei peccati è intimo dolore e detestazione dei peccati commessi, col proposito di non più peccare.

(Salmo L, 3 e segg.; Ger., II, 19-21; Ezech., XVIII, 21-23, 27, 28; XXXIII, 14-16; Gioele, II, 12-18; Giov., V , 14; VIII, 11; Luca, XV, 17-24; Conc. di Tr., sess. XIV, cap. 4: S. Greg. M; in Evang., II, 34, 15; S. Agost.: Serm. 351, 12).

D. 429. Che cos’è il proposito di non più peccare?

R . Il proposito di non più peccare è una ferma volontà di non peccare, e di evitare, per quanto si può, le occasioni prossime di peccato.

D. 430. Quale dev’essere la contrizione dei peccati?

R. La contrizione dei peccati dev’essere interna, soprannaturale, somma, universale.

D. 431. Che cos’è la contrizione interna?

R. La contrizione interna è quella che non si contenta di manifestarsi con le labbra, ma nasce dal cuore.

D. 432. Che cos’è la contrizione soprannaturale?

R. La contrizione soprannaturale è quella che sotto l’influenza della grazia, s’ispira nel prodursi non da motivi umani, ma soprannaturali, vale a dire soprannaturalmente concepiti dalla fede.

D. 433. Che cos’è la contrizione somma?

R . La contrizione somma è quella per cui detestiamo il peccato sopra ogni altro male. (Tale qualità della contrizione si può brevemente chiarire con S. Tommaso, p. 3a , q. 3, a. I, nel modo seguente: La contrizione, ossia il dolore per i peccati commessi, dev’essere somma apprezziativamente, in quanto cioè la detestazione del peccato da parte del penitente è di tal natura che per nulla al m hiondo egli vorrebbe commetterlo, ossia offendere Dio; ma con ciò non si esige che quel dolore sia sommo intensivamente, in quanto cioè la sua veemenza venga a superare ogni altro dolore che possa verificarsi nell’uomo. Né giova istituire un paragone fra la contrizione come dolore del peccato, e gli altri dolori sensibili che si verificano in seguito a mali temporali.

D. 434. Che cos’è la contrizione universale?

R . La contrizione universale è quella che comprende nella detestazione tutti i peccati mortali commessi dopo il Battesimo e non direttamente rimessi mediante la potestà delle chiavi.

D. 435. E se il penitente altro non abbia da accusare se non peccati veniali oppure mortali già direttamente rimessi?

R . Se il penitente altro non abbia da accusare se non peccati veniali oppure mortali già direttamente rimessi, è sufficiente e necessario, che il suo atto di dolore contempli alcuni di quei peccati, o per lo meno uno di essi.

D. 436. Quante specie di contrizioni vi possono essere?

R. Vi possono essere due specie di contrizioni: l’una perfetta, che generalmente vien detta contrizione senz’altro; l’altra imperfetta, che con nome speciale si chiama attrizione (Conc. di T r . , sess. XIV, cap. 4.).

D. 437. Che cos’è la contrizione perfetta?

R. La contrizione perfetta è dolore e detestazione del peccato, concepita per motivo di carità, e precisamente perché viene offeso un Dio che in quanto sommo bene è degno di essere amato al disopra di ogni cosa (Cat. p. parr., p. II, c. V, n. 27).

D. 438. Qual effetto produce la contrizione perfetta?

R. La contrizione perfetta cancella immediatamente i peccati e riconcilia l’uomo con Dio anche fuori dei sacramento della Penitenza, non senza però quel voto del Sacramento, ch’è implicito nella contrizione stessa (Prov., VIII, 17; X, 12; Giov., XIV, 21, 23; la di Pietro, IV, 8; la di Giov., IV, 7; Conc. di Tr., 1. c. ; S. Pietro Crisol.: Sermo 94. — Si abitui il Cristiano ad emettere di frequente l’atto di contrizione perfetta quale lo trova al principio del presente Catechismo; se poi, per sua somma sventura, ha commesso qualche peccato mortale, allora soprattutto, si affretti a cancellarlo senza ritardo con la contrizione perfetta; dopo di che non tardi ad avvicinarsi alla confessione sacramentale. Così facendo, non sarà privo di frutto per l’eternità, quanto egli potrà operar di bene, né avrà da tremare per morte subitanea. Appunto perché lasciano questa vita perfettamente contriti molti conseguono la vita eterna, quelli cioè che la morte rapisce precisamente allora che non possono ricevere i Sacramenti).

D. 439. Che cos’è la contrizione imperfetta?

R . La contrizione imperfetta è quel dolore e detestazione soprannaturale del peccato che sorge comunemente dal considerare la turpitudine del peccato e dal timore dell’inferno e delle sue pene (Matt., X, 28; Luca, III, 7-9; XV, 17; Conc. di Tr., sess. XIV, 1. c. ; Leone X: prop. 6 tra le condann., 14 giug. 1520 ; Pio VI: Bolla Auctorem fidei, prop. 23, 25, 26; S. Greg. Nisseno: In Cant. Canticorum, hom. I).

D. 440. Qual contrizione è sufficiente per validamente ricevere il sacramento della Penitenza?

R. Per validamente ricevere il sacramento della Penitenza è sufficiente la contrizione imperfetta, per quanto sia da desiderarsi quella perfetta.

D. 441. Qual peccato commette chi, scientemente, si accosta senza contrizione alcuna al sacramento della Penitenza?

R. Chi scientemente si accosta al sacramento della Penitenza senza contrizione alcuna, non solo non ottiene la remissione dei peccati che ha confessati, ma commette un grave peccato di sacrilegio.

c) – Della Confessione.

D. 442. Che cos’è la confessione dei peccati?

R. La confessione dei peccati è l’accusa di questi, fatta al sacerdote legittimamente approvato, in vista di conseguire l’assoluzione sacramentale (S. Giov. Cris.: De Lazaro, 4; Omel. Quod frequenter sit conveniendum, 2).

D. 443. Perché Gesù Cristo ha voluto la confessione dei peccati quale mezzo alla loro remissione?

R. Gesù Cristo ha voluto la confessione dei peccati quale mezzo alla loro remissione, affinché il peccatore si umiliasse, e al sacerdote, come a giudice e medico, palesasse i propri mali, per aver da lui imposta la dovuta soddisfazione e additato l’opportuno rimedio (Giov., XX, 23; Matt., X V I , 19; XVIII, 18; Cat. p. parr., p. II, c. V, n. 37).

D. 444. Quale dev’essere la confessione per validamente ricevere il sacramento della Penitenza?

R. Per validamente ricevere il sacramento della Penitenza, la confessione dev’essere vocale, o per lo meno tale da supplire la vocale, e integrale.

D. 445. Quand’è che la confessione è integrale?

R. La confessione è integrale quando il penitente confessa, col numero, specie e circostanze che ne mutano la specie, tutti i peccati mortali non ancora direttamente rimessi, di cui ha coscienza dopo un accurato esame.

(Conc. di Tr., sess. XIII, c. V, can. 7; S. Greg. M.: In Evangelia, II, 26, 4-6; S. Cipriano: De lapsis, 28; S. Gerol.: In Matth., III, ad XVI, 19. — La confessione generale, quella cioè che abbraccia i peccati di tutta la vita, è necessaria, quando consti sicuramente dell’invalidità delle confessioni precedenti; è da consigliarsi, quando della suddetta invalidità si dubiti gravemente; è da permettersi, quando si ritenga che da tale confessione potrà il penitente trarre un notevole beneficio, soprattutto in certe circostanze più gravi della vita, come sarebbe alla fine degli esercizi spirituali, o all’approssimarsi di mortale pericolo….; è da vietarsi, in fine, negli altri casi come inutile e talvolta nociva, per es., quando si tratti di scrupolosi).

D. 446. Che cosa deve fare chi non ricorda il numero dei peccati mortali?

R. Chi non ricorda il numero dei peccati mortali, deve indicare quel numero che gli sembra più prossimo al vero, aggiungendo all’incirca.

D. 447. E se alcuno senza propria colpa omettesse di confessare un peccato mortale?

R. Se senza propria colpa alcuno omettesse di confessare un peccato mortale, il Sacramento è valido e penitente, quando lo ricorderà, è tenuto nella successiva confessione a confessare il peccato omesso (Aless. VII, prop. 11 tra le condann., 24 sett. 1665; Cat. p. parr., p. II, c. V, n. 49).

D. 448. Qual peccato commette chi volontariamente tace in confessione un peccato mortale?

R. Chi volontariamente tace in confessione un peccato mortale, non solo non trae alcun beneficio dalla confessione, ma commette inoltre un grave peccato di sacrilegio.

D. 449. Che cosa deve fare chi colpevolmente ha taciuto in confessione un peccato mortale, oppure ha confessato senza la debita contrizione peccati mortali non ancora rimessi?

R. Chi ha colpevolmente taciuto in confessione un peccato mortale, oppure ha confessato senza la debita contrizione peccati mortali non ancora rimessi, deve dire in quante confessioni ha ciò commesso, quante sacrileghe Comunioni ha fatte, ripetere tutti i peccati mortali sia taciuti sia accusati in quelle confessioni, nonché confessare tutti gli altri peccati mortali che ha potuto commettere in seguito.

D. 450. Quale, inoltre, dev’essere la confessione per lecitamente ricevere il sacramento della Penitenza?

R. Per lecitamente ricevere il sacramento della Penitenza, la confessione deve, inoltre, essere devota ed umile, nel senso che il penitente, con dire breve e chiaro non disgiunto da modestia e alieno da inutili digressioni, confessi umilmente i suoi peccati, senza scusarli, diminuirli od aggravarli, e accolga infine gli ammonimenti del confessore (Cat. p. parr., p. II, c. V, n. 50, 51.).

d) – Della Soddisfazione.

D. 451. Che cos’è la soddisfazione?

R. La soddisfazione è la pena imposta dal confessore al penitente per i peccati rivelati nella confessione; pena che in virtù dei meriti di Gesù Cristo applicati mediante il sacramentale giudizio, possiede una speciale efficacia in ordine alla pena temporale da sodisfare per i peccati.

D. 452. A qual fine il confessore impone la soddisfazione?

R. Il confessore, secondo quanto gli suggeriscono ragione e prudenza e tenuto conto della qualità dei delitti come delle possibilità del penitente, impone una soddisfazione salutare e conveniente, non solo a custodia della nuova vita e a medicina dell’infermità, ma anche a vendetta e castigo dei peccati passati (Conc. di Tr., sess. XIV, cap. 8, 9).

D. 453. Quand’è che il penitente deve eseguire la soddisfazione ingiuntagli dal confessore?

R. A meno che il confessore abbia fissato il tempo di tale esecuzione, abbia cura il penitente di eseguire quanto prima la soddisfazione ingiuntagli dal confessore.

D. 454. Che cosa deve fare il penitente quando non possa assolutamente eseguire la soddisfazione ingiuntagli dal confessore, o non lo possa senza gran difficoltà?

R. Quando il penitente non possa assolutamente eseguire la soddisfazione ingiuntagli dal confessore, o non lo possa senza grave difficoltà, egli deve umilmente informarne il confessore perché la commuti.

B) – Dell’assoluzione sacramentale.

D. 455. Che cos’è l’assoluzione sacramentale?

R. L’assoluzione sacramentale è quell’atto col quale il confessore, in nome di Gesù Cristo e mediante la debita pronunzia della forma, rimette i peccati al penitente debitamente confessato e contrito.

D. 456. Può il confessore rifiutare o differire l’assoluzione sacramentale?

R. Il confessore può, anzi deve, rifiutare l’assoluzione sacramentale solo quando prudentemente giudichi non trovarsi nel penitente le necessarie disposizioni; può d’altra parte, per giusti motivi, differirla talvolta, a tempo determinato, specie se vi acconsenta il penitente stesso allo scopo di sempre meglio disporsi.

(Cod. D. C., can. 886. — Nel Rituale Romano, tit. III, cap. I, n. 23 si legge: « Incapaci di ricevere l’assoluzione sono coloro che non manifestano alcun segno di dolore; coloro che o si rifiutano di deporre gli odi e le inimicizie, o di restituire, pur potendolo, la roba altrui, o di lasciare l’occasione prossima di peccato, o comunque di abbandonare i peccati e di emendare in meglio la loro vita, o che, infine, hanno dato pubblico scandalo, a meno che pubblicamente soddisfino e tolgano di mezzo lo scandalo; il confessore, poi, si guardi di assolvere coloro i cui peccati sono riservati ai superiori ».).

D. 457. Il confessore è tenuto al segreto sacramentale?

R. Il confessore è tenuto all’inviolabile segreto sacramentale; e non solo non può rivelare i peccati uditi in confessione, ma deve inoltre attentamente guardarsi che, o parola, o segno, od altra manifestazione qualsiasi da parte sua, per qualunque causa, possa comunque far individuare il peccatore; di più gli viene interdetto persino l’uso della scienza acquisita in confessione, con gravame del penitente, quand’anche fosse escluso ogni pericolo di rivelazione; né i superiori presentemente in carica, né i confessori che ricevessero in seguito la nomina a superiori, possono in alcun modo servirsi, nel governo esteriore, dell’eventuale conoscenza dei peccati ottenuta a mezzo della confessione.

(Conc. Lat., IV, 21; Cod. D. C. , can. 889, 890. — A salvaguardare la santità di questo Sacramento, la Chiesa commina pene gravissime, fissate nel Codice del D. C., contro la violazione del segreto sacramentale. La storia fa onorevole menzione di alcuni sacerdoti cattolici i quali, a costo di molteplici persecuzioni e persino della vita, seppero mantenere il segreto sacramentale: basti per tutti l’esempio di S. Giovanni Nepomuceno, caduto martire per questa causa medesima nel 1383, e perciò annoverato fra i Santi.)

D. 458. Oltre il confessore, vi sono altri vincolati dall’identico segreto?

R. Oltre il confessore, è vincolato dall’identico segreto chiunque abbia potuto in un modo qualsiasi risapere qualcosa dalla confessione sacramentale (Cod. D. C. , can. 889, 890, § 2).

C) – Dell’effetto del sacramento della Penitenza, e delle indulgenze.

D. 459. Quali sono gli effetti del sacramento della Penitenza, quando il penitente, debitamente disposto, abbia confessato i suoi peccati mortali non rimessi?

R. Quando il penitente, debitamente disposto, abbia confessato i suoi peccati mortali non rimessi, per mezzo di questo sacramento:

1° vien rimessa la colpa e la pena eterna, nonché, per lo meno parzialmente, la pena temporale dovuta ai peccati;

2° i meriti del penitente, resi inefficaci dal peccato mortale, rivivono, vale a dire ricuperano quell’efficacia che prima del peccato possedevano in ordine alla vita eterna (S. Tom., p. III q. 89, a. 5.);

3° vien concessa una grazia speciale per guardarsi dai peccati in avvenire.

D. 460. Quali sono gli effetti del sacramento della Penitenza quando il penitente debitamente disposto abbia confessato solo peccati veniali o mortali già rimessi?

R. Quando il penitente debitamente disposto abbia confessato solo peccati veniali, o mortali già rimessi, il sacramento della Penitenza rimette i peccati veniali, aumenta la grazia santificante, aiuta ad evitare i peccati in avvenire, e più efficacemente scioglie il debito della pena temporale contratto per i peccati.

D. 461. Con l’assoluzione sacramentale e l’eseguita soddisfazione imposta dal confessore, vien sempre rimessa tutta intera la pena temporale dovuta per i peccati?

R. Con l’assoluzione sacramentale e l’eseguita soddisfazione imposta dal confessore, non sempre vien rimessa tutta intera la pena temporale dovuta per i peccati; può tuttavia questa, essere estinta mediante altre soddisfazioni, e specialmente mediante le indulgenze (Conc. di Tr., sess. VI, cap. 14, can. 30; sess. XIV, cap. 8, can. 12).

D. 462. Che cosa s’intende per Indulgenza?

R. S’intende per Indulgenza la remissione, di fronte a Dio, della pena temporale dovuta per i peccati già cancellati nella colpa; e tale remissione la Chiesa concede fuori del sacramento della Penitenza.

 (Matt., XVI, 19; XVIII, 18; Paolo: 2a ad Cor., II, 6, 10; Conc. di Tr., sess. XXV, Decr. de Indul.; Clemente VI: Const. Unigenitus Dei Filius, 25 genn. 1343; Leone X, prop. 7 e segg. tra le condann., 15 giug. 1520; Pio VI: Bolla Auctorem Fidei, prop. 40; Pio XI: Bulla indictionis anni sancti 1925; Cod. D. C., can. 911-924).

D. 463. In qual modo mediante le Indulgenze, rimette la Chiesa la pena temporale dovuta per i peccati?

R. Mediante le Indulgenze, rimette la Chiesa la pena temporale dovuta per i peccati, coll’applicare sia ai vivi per modo di .assoluzione, sia ai defunti per modo di suffragio, le soddisfazioni infinite di Gesù Cristo e quelle sovrabbondanti della beata Maria Vergine e dei Santi, soddisfazioni che costituiscono il tesoro spirituale della Chiesa (Paolo: ad Rom., V, 19-21).

D. 464. Quali persone possono concedere Indulgenze?

R. Possono concedere Indulgenze, il Romano Pontefice, cui da Nostro Signor Gesù Cristo è stata commessa la dispensazione di tutto il tesoro spirituale della Chiesa, e le altre persone a ciò autorizzate sia dal Romano Pontefice, sia dallo stesso diritto, per es. i Vescovi (Cod. D. C , can. 912).

D. 465. Di quante specie è l’Indulgenza?

R. L’Indulgenza è di due specie; plenaria quando per essa tutta viene rimessa la pena temporale dovuta per i peccati; parziale, quando di questa pena temporale vien rimessa solo una parte.

D. 466. In qual senso s’intende concessa l’Indulgenza plenaria?

R. L’Indulgenza plenaria s’intende concessa nel senso che qualora non si potesse lucrare per intero, la si lucra tuttavia parzialmente, a seconda delle disposizioni (Cod. D. C., can. 926).

D. 467. Quali sono i requisiti per lucrare le Indulgenze?

R. I requisiti per lucrare le Indulgenze sono:

1° essere battezzato non colpito da scomunica (Cod. D. C , can. 925);

2° aver intenzione per lo meno generale di lucrarle;

3° eseguire puntualmente le opere comandate;

4° essere in istato di grazia, per lo meno al compiersi delle opere prescritte, e, se si tratta di lucrare per intero un’Indulgenza plenaria, aver la coscienza sgombra da qualunque peccato veniale.

D. 468. Chi acquistò le Indulgenze, a qual persona può applicarla?

R. A meno di una dichiarazione contraria, chi acquista le Indulgenze può applicare alle anime del Purgatorio tutte le Indulgenze concesse dal Romano Pontefice; non può applicarne alcuna alle persone viventi (Cod. D. C., can. 930).