LA VERA E LA FALSA FEDE –II.–
(P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)
LETTURA VI.
LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.
§ III. – La ragione umana abbandonata a sé sola incontra più facilmente l’errore che la verità. I filosofi antichi non conobbero che pochissime verità: e queste non le scoprirono, non le inventarono colla loro ragione, ma, attintele dalle tradizioni generali, non fecero che oscurarle con molti errori. Si dimostra ciò colla storia delle orribili stravaganze con cui alterarono la prima e somma verità dell’ esistenza di un Dio e quella dell’immortalità dell’anima. 1 filosofi, fanciulli ignoranti in confronto anche de’ più rozzi Cristiani, che, istruiti alla scuola della fede, sono sapientissimi nelle cose divine. Infatti che accade egli mai ove l’uomo, lasciata la luce celeste, che mai non manca a chi con umiltà la implora, non prende per guida, nella ricerca del vero, che la luce terrena? S. Tommaso lo da detto: il terzo disordine, o l’effetto il più ordinario e il più comune delle investigazioni della privata ragione, si è che in unione di una qualche verità dell’ordine morale ed invisibile che si giunga a scoprire per questa via si adottano per lo più molti errori, e che spesso per questo mezzo si trovano più errori che verità: lnvestigationi rationis humana plerumque falsitas admiscetur. Mirate gli antichi filosofi: giunsero ben essi, è vero, a conoscere molte verità col solo lume della ragione. Ma primieramente queste verità sono state scarsissime e rare. Leggendo i loro libri, vi sembra viaggiare pei deserti dell’Arabia, nei quali bisogna camminare più giorni pria d’incontrare un sol vegetabile, un sol fiore, un sol filo d’erba che vi richiami alla mente l’idea della natura animata; ed altro non vedesi che un cielo sempre ardente al di sopra di un pelago di sterili e volubili arene. E chi può mai leggere senza una noja immensa, per esempio, i tre libri di Cicerone, dei fini, i cinque delle Quistioni tusculane? Che fecondità di parole, ma che sterilità di cose! Che copia di erudizione, ma che mancanza di certezza! Che eleganza di stile, ma che scarsezza di verità! Non siamo estranei alle fastidiose letture: abbiamo divorati, nel corso de’ nostri studi, non pochi volumi in foglio, la cui vista scoraggia gli animi più fermi: pure confessiamo che nessuna lettura ci è stata più tediosa e più pesante di quella degl’indicati trattati; e senza l’eleganza del linguaggio con cui sono scritti (tristo e misero compenso a chi cerca le idee), ci sarebbe stato impossibile il venirne a capo. – In secondo luogo, queste medesime verità, già sì scarse e sì rare, alcuni, dice Tertulliano, le conobbero per un puro caso; come un naviglio sorpreso di notte dalla tempesta, abbandonandosi in balia del mare e dei venti, nella stessa oscurità e nello stesso scompiglio degli elementi, giunge alcuna volta per caso ad afferrare un porto; o come chi si trova in una stanza oscura, a forza di girarvi intorno a tentone, per un caso felice pure trova alcuna volta la parte da uscirne: Plane non negabimus aliquancto phìlosophos juxta nostra sensisse; non numquam enim et in procella, confusis vestigiis cœli et freti, aliquis porltìs ostenditur; non nunquam et in tenebris adilus quidam et exilus deprehenduntur cæca felicitate (De anima 2). Altri poi trovarono certe verità perché suggerite loro dal senso intimo di cui Dio si è degnato di dotare l’anima umana, e dal senso comune della natura divenuto pubblico in tutti gli uomini: Sed et natura pleraque suggeruntur, quasi de publico sensu, quo animam Deus donare dignatus est (ibid). Cioè a dire che la pagana filosofia non ha fatto che prendere le verità universalmente conosciute (perché leggi della natura morale appropriarsele e spacciarle enfaticamente come suoi ritrovati: Philosophia leges natura opiniones suas fecit (ibid). Lo stesso afferma S. Agostino: le belle e vere cose, dice egli, che i filosofi han detto intorno al culto di Dio. non le hanno altrimenti inventate; ma come l’oro e l’argento si cava dalle miniere, così queste verità le hanno essi ricavate dalle miniere delle tradizioni e de’ sentimenti universali, che la provvidenza divina ha sparso dappertutto: Apud philosophos, de Deo colendo, multa vera inreniuntur: tamquam aurum et argentum quod non ipsi instituerunt, sed de quibusdam quasi metallis divima providentiæ, qua ubique infusa est, eruerunt (De doctr. Christi, cap. 30). E Cristiano Drutmaro aggiunge: Tutte le parti della greca filosofia si trovano nella sacra Scrittura; e tutti i più belli pensieri nella stessa Scrittura erano stati esposti pria che i sofisti del secolo pensassero a farne il vanto della loro eloquenza. I filosofi non hanno nulla del proprio. Il poco di vero che han detto lo hanno ricevuto dalla liberalità di Dio: Omnes partes philosophiæ græcorum etiam in divina Scriptura inveniuntur. Et omnes modi locutionum ante fuerunt in Scriptum quam ad sophistas seculares pervenirent. Qui si quid habuerunt, Dei dono habuerunt (in Matth. II). Un Dio supremo, creatore e regolatore dell’universo; un’anima che nell’uomo sopravviva al corpo per ricevere l’eterna pena o il guiderdone eterno che in vita si ha meritato; una legge morale che ha Dio stesso per Autore, che obbliga tutti gli uomini e la cui violazione ed osservanza costituisce il peccato o la virtù; queste ed altre simili verità, più o meno deturpate dalle favole, erano conosciute ed ammesse in tutto il mondo Pria che Platone avesse cominciato a disputarne in Atene, e Tullio in Roma. Poste adunque queste idee primitive ed universali che S. Paolo chiama « rivelazione divina, Deus enim illis manifestavit (Rom. 1), » fu facile ai filosofi, come aggiunge lo stesso Apostolo, dalla considerazione del mondo visibile elevarsi a conoscere qualcuno degli attributi del Dio invisibile: lnvisibilia Dei per ea qua facta sunt intellecta conspiciuntur (ibid.). E perciò S. Tommaso, le cui espressioni sono sì precise e sì esatte, nel famoso passo che di sopra abbiamo riportato (§ 2), delle stesse verità accessibili alla ragione umana non dice che i filosofi colla ragione le han trovate, ma che, essendo di già note, le han dimostrate colla ragione: Philosophi de Deo multa DEMONSTRATIVE probaverunt, ducti naturalis lumine rationis. Lo stesso S. Tommaso poi intorno alle verità conosciute da’ filosofi, fa una osservazione che per moltissimi è passata inosservata, cioè a dire che c’inganniamo col credere che i filosofi, ammettendo un Dio, ne abbiano avuto l’idea che noi ne abbiam ricevuta dalla fede di un Essere cioè adorno di tutte le perfezioni e del quale non si può pensar nulla di più perfetto: Non omnibus, etiam concedentibus Deum esse, notum est quod Deus sit id quo majus cogitari non possit (Contr. gentil, lib. I , cap. 2). Lo stesso può dirsi delle opinioni dei filosofi sull’anima. Quei moltissimi fra loro che ne han riconosciuta l’esistenza e la durata, sono stati lontanissimi dal crederne la spiritualità e l’immortalità come noi la crediamo. L’immortalità dell’anima, per quelli che l’ammettevano, era solo la sola permanenza dopo la soluzione del corpo: Permanere animos putamus (Cic); ma non avevano alcuna idea o molto oscura ed erronea intorno al suo stato di perfetta felicità, se è ammessa alla visione ed al consorzio di Dio e di profonda miseria eterna, se ne è separata. E sopra i premj e le ricompense della vita futura, non ostante le favole che le deturpano, si trovano idee più giuste e più vere presso i poeti che presso i filosofi; perché i primi hanno consultato più la tradizione universale, i secondi più han seguita la privata loro ragione. Che se per tutto ciò non vi è alcuna verità dell’ordine morale di cui si possa dire che, essendo ignota affatto nel mondo, il tal filosofo l’abbia scoperta: non vi è al contrario alcuna assurdità o errore di cui, come dice lo stesso Cicerone, non si possa indicare un qualche filosofo che ne è stato inventoree maestro: Nihil est tam absurdum quod non dicatur ab aliqua philosophorum. Per un passo che fanno i filosofi nel sentiero del vero, si veggon fare mille cadute nell’errore, e simili a’ cagnolini, che si addestrano a camminare su due piedi e che nel più bello del piacer che vi fanno di vedersi ritti all’umana, ritornano al naturale, ricadendo con le zampe e col muso verso la terra: i filosofi, mentre si fanno ammirare in atto di professare alcune verità, si veggono subito riprendere la direzione erronea, propria della ragione abbandonata a sé sola, e ricadere in miserabili errori. – Sicché S. Paolo poté benissimo compendiare tutta la storia della filosofia de’ gentili in queste due gravi e sentenziose parole: « i Greci, cercando sapienza, stoltezza rinvennero: Græci sapientiam quærunt, et stulti facti sunt. ». Non vi è nulla di più vera di questa decisione di S. Paolo poiché, ad eccezione di poche verità tradizionali e comuni che non hanno aspettato i filosofi per essere conosciute, tutta la filosofia gentile intorno a Dio, all’anima, ai doveri, alla vita futura, non è che stoltezza, come se questo ne fosse il luogo, ci sarebbe facilissimo il dimostrarlo. Per dirne però alcuna cosa capace di farci sempre meglio sentire il pregio altissimo dell’insegnamento divino in faccia alle miserie dell’insegnamento umano non ci rincresca di osservare qui il tremendo quadro che nelle opinioni dei filosofi gentili intorno a Dio ci ha lasciato Cicerone filosofo gentile esso stesso, e i cui libri filosofici sono come la somma e il manuale di Tutta la gentile filosofia. Ora i tre grandi libri che Tullio consacra alla trattazione di sì grave argomento possono considerarsi come un monumento compassionevole della impotenza della ragione abbandonata a sé sola per giungere alla rivelazione di Dio, per giungere alla verità senza miscela di errore, e della necessità della rivelazione di Dio per conoscere veramente Dio. – Né già aspetta Cicerone che la forza de’ principj ed il calor della disputa lo strascini ad attaccare la presunzione della ragione umana, che crede di bastar sempre ed in tutto a sé stessa; ma dal bel principio della discussione solennemente dichiara che la questione che imprende a trattare è essa sola un argomento senza replica, per provare che il principio della filosofia pagana è l’ignoranza, ed il risultato più sicuro ne è l’errore e il dubbio; poiché dice: « Fra le moltissime questioni che la filosofia ha agitate sovente senza terminarle giammai, una delle più difficili a definirsi e delle più oscure ad intendersi si è appunto la questione della natura degli dei; poiché tante sono intorno ad essa e sì varie e sì ripugnanti fra loro le opinioni degli uomini più dotti che questa sola prova è più che bastevole a farsi conchiudere che il principio di ogni filosofia è la stoltezza: Cum multæ res in philosophia nequaquam satis explicatæ sunt, tum per difficilis et perobscura quæstio est de natura deorum; de qua tam variai sunt doctissimorum hominum tamque discrepantes sententiæ ut magno argumento esse debeat, causam idest principium philosophiæ esse inscientiam (De nat. deor., lib. 1). » Così, oh cosa veramente singolare e strana! l’introduzione ad una disputa filosofica, da un filosofo intrapresa, in un’assemblea di filosofi è un pubblico e solenne anatema contro la filosofia. Fa quindi Tullio, in persona dell’interlocutore Vellejo, un osservazione importante, cioè, che se vi è una certa concordia fra la maggior parte de’ filosofi nell’affermare che vi è un Dio, ciò accade perché, nell’ammettere questa sentenza, si è consultata la tradizione e il sentimento della natura, che insegna che un Dio esiste: ma che quando si è voluto ragionare sulla sua natura, la ragione di questi stessi filosofi, unanimi nell’ammettere Dio, si è trovata sì debole, e le loro opinioni sì contradittorie e sì stravaganti che non si possono solamente riferire senza sentirsi muovere la bile e sconcertarsi lo stomaco. – Poiché, avendo negato tutto e tutto combattuto, non è certamente colpa de’ filosofi, se tuttavia rimane nel mondo alcun vestigio di religione, di pietà e di virtù, mentre dal canto loro han fatto di tutto per distruggerle coll’avere insegnato che gli dei non si danno alcun pensiero delle cose umane: Plerique qui, quod maxime vero simile est, et quo OMNES, DUCE NATURA, vehimur, deos esse dixerunt, tanta sunt in varietate et dissensione constituti ut eorum molestum sit enumerare sententias. Sunt qui omnino nullam habere censent humanarum rerum procurationem deos; quorum si vera sententia est, quæ potest esse pietas, quæ sanctitas quæ religio? E poi continua così: « Udite, o amici, non già portenti e miracoli di filosofi che ragionano, ma stravaganze di febbricitanti che delirano: Audite portento et non disserentium philosophorum, sed somniantium. La stupidità de’ platonici ha del prodigioso. Per essi Dio è e deve essere di figura rotonda: perché questa figura è la più bella, e Dio deve avere la figura più bella e più perfetta. Or che mi potrà rispondere Platone se lo asserisco che Dio è di figura piramidale o conica, , perché a me queste figure sembrano più perfette e più belle? Per Talete, Dio è quell’intelligenza che coll’acqua ha raffazzonato ogni cosa: e mentre vuole che Dio sia incorporeo, lo unisce all’acqua come ad un corpo, per poter con esso operare. Anassimandro opina che gli dei a diverso intervalli nascono, e muojono siccome gli nomini. Anassimene stabilisce che l’aria é Dio: ch’esso è stato generato ed ha avuto principio, e non pertanto è immenso e non avrà mai fine. Crotoniate ha fatto altrettanti dei del sole, della luna e delle anime umane. Pitagora dice che Dio è una grand’anima infusa e mista nell’intera natura corporea: e che da quest’anima una, come parti divelte dal loro tutto, hanno origine le anime nostre, sicché questo povero Dio è costretto a vedersi fare a brani tutti i momenti. Senofane sostiene che Dio è un composto di una intelligenza e di tutto ciò che è infinito nella natura. Parmenide ha sognato un non so che di poetico che chiama Stefano (parola greca che vuol dire corona); questo Stefano per esso è l’orbita adorna di luce e di calore che cinge l’universo, e quest’orbita è Dio. Empedocle dice che gli dei sono quattro, e sono i quattro elementi primi onde si forman le cose. In quanto a Protagora, lo metto fuori di questione; perché coll’aver detto che non sa di certo se vi è o no Iddio, né quale ne sia la natura, dà abbastanza a conoscere che non ammette alcuna divinità. Lo stesso farò di Democrito, il quale negando che siavi nulla di eterno (poiché per esso ogni cosa è a cangiamento soggetta), toglie in modo Dio dall’universo che non ve ne lascia traccia veruna (ibid.). – Indicate cosi le principali stravaganze dei filosofi intorno a Dio, Tullio passa a farne notare l’incostanza e la leggerezza onde gli stessi filosofi sulla stessa questione hanno in diversi tempi insegnate opinioni diverse; poiché dice: « Se io volessi provare l’incostanza di Platone nell’opinare, non la finirei giammai. Nel Timeo stesso e nello stesso libro delle Leggi, ora dice che Dio è innominabile, e che non si deve tentar di indagare che cosa sia; ora, che Dio si può benissimo nominare e decidere che cosa è, giacché decide che l’universo tutto, il cielo e la terra, gli astri e le anime umane sono Dio. In quanto a me, altro non trovo di evidente, in queste contrarie evidenze, che l’errore e l’assurdità. Egualmente incostante e varia è la evidenza di Senofonte: poiché ora sostiene che non si deve rintracciare di Dio la forma, ora che il sole, la cui forma si conosce, e l’anima dell’uomo è Dio: ora dice che Dio è un solo, ora che sono molti gli dei. Nessuno però, nel cambiare spesso d’opinione intorno a Dio, ha sorpassato Aristotele; tante sono le diverse sentenze contradittorie fra loro che ammassa nei suoi libri, dandole tutte per certe. Per esso ora la divinità è una intelligenza incorporea, ora il suo Dio è il mondo: ora, oltre l’intelligenza-Dio ed il Dio-mondo; vi è un altro Dio che presiede all’intelligenza ed al mondo; ora Iddio altro non è che il fuoco celeste, più non ricordandosi che il cielo è una parte del mondo e che del mondo aveva di già fatto un solo Dio. Senocrate, condiscepolo di Aristotele, senza essere nel suo opinare più fermo, è però nelle sue stravaganze più ridicolo. Fu già per lui certissimo che otto soli sono gli dei: cinque ne sommano i cinque conosciuti pianeti, il sesto lo formano le stelle fisse, che altro non sono che le membra di questo sesto, uno e semplice Dio; il settimo Dio è il sole, e la luna la costituisce per ottavo. Ma Eraclito, allievo della stessa scuola di Platone, alla seria commedia di Senocrate aggiunge favole ridicole da fanciullo. Per esso ora Dio è il mondo, ora l’intelligenza, ora i pianeti: e mentre fa corporeo Iddio, gli nega ogni senso; e mentre lo fa una intelligenza, gli dà una mutabile figura; e ricordandosi nello stesso libro di aver lasciato indietro la terra e il cielo, anche del cielo e della terra fa due altri dei. » – Parrebbe che, in materia di leggerezza e di stravaganza sopra questo argomento, non fossevi dove arrivare più oltre di quello cui sono giunti i citati filosofi. Eppure Teofrasto è andato ancora al di là e si è renduto affatto intollerabile. Ora attribuisce ad una intelligenza il principato e l’essere di Dio, ora dal cielo, ora ai segni del zodiaco, ora alle stelle fisse. Zenone solamente gli può stare vicino, quel Zenone vostro (parla agli stoici) che dopo di essersi vantato che era proprio de’ filosofi suoi pari l’avere una opinione determinata e certa intorno a Dio è però più degli altri ancora fluttuante ed incerto. Ora l’aria è il suo Dio; ora è una certa ragione che circonda, e investe e penetra tutta la natura; ora gli astri tona dei. ara persino gli anni stessi e le stagioni; e dopa avere ammesso tanti dei, interpretando la teogonia di Esiodo, finisce col dire che non vi è idea innata, né si ha percezione alcuna chiara e distinta intorno a Dio. Cleante anch’esse ora fa del mondo il Dio vero, ora fa di Dio l’intelligenza e l’anima della natura, ed ora dice che il fuoco, che chiama etere, è infallibilmente il Dio vero. E spingendo ancora più innanzi il delirio, ora finge una certa forma o immagine di divinità separata da ogni altra cosa; ora stabilisce che solo negli astri, ora che solo nella ragione bisogna cercare e riconoscere la divinità (ibid.). – E qui Tullio non sa contenersi dal prorompere in questo tristissimo epifonema: «Così quel Dio che diciam di conoscere evidentemente colla nostra mente, e di cui pretendiamo che nella chiara percezione dell’anima esista l’idea come nel proprio vestigio, in fatti poi non sappiamo decidere né se vi sia, né chi mai sia: una nuvola densissima lo nasconde al nostro sguardo: Ita fit ut Deus iste, quem mente noscimus atque in animi notione tamquam in vestigio volumus reponere, nusquam prorsus appareat (ibid.). » Dopo avere quindi esposte le empietà di Perseo, scolaro di Zenone, per cui Dio altro non è che un vocabolo che la riconoscenza pubblica ha attribuito agli autori delle utili invenzioni ed alle invenzioni medesime; dopo di avere ampiamente annoverata la ignobile turba di nomi sconosciuti e chimerici che immaginò Crisippo, l’interprete più maligno delle stoiche stravaganze, Tullio conchiude così, come l’avea cominciato, il quadro spaventevole degli errori e delle insanie de’ filosofi, intorno a Dio: « Io vi ho messo sotto degli occhi non dirò i giudizj de’ filosofi, che sì fatte cose un tal nome non meritano, ma i sogni d’immaginazioni in delirio, ma i delirj di uomini mentecatti; ed in verità che le stesse favole de’ poeti, che tanto male han fatto ai costumi colla loro artificiosa dolcezza, non sono certamente né più sconce, né più assurde di queste filosofiche dottrine: Exposui non philosophorum judicia, sed delirantia somnia; nec enim multo absurdiora sunt ea quæ, poetarum vocibus fusa, ipso suavitate nocuerunt (ibid.). » L’opinione poi dello stesso Tullio intorno a Dio, che in questa importantissima disputa esso manifesta sotto il personaggio di Cotta, si è quello dell’antico filosofo Simonide, cioè che gli sembra che, se ci è Iddio, e qual sia la sua natura, è una cosa quanto più vi si pensa, tanto più oscura ed incerta: Rogas me quid aut qualis sit Deus? Auctore atar Simonide, qui, quanto, inquit, diutius considero, tanto mini res videtur obscurior (ibid.). Protesta però di volere sempre difendere in pubblico la superstizione introdotta in Roma, salvo il diritto di ridersene in privato: Opiniones quas a majoribus accepimus de diis immortalibus, sacra, cærimonias religionesque defendam Jurarem per Jovem, nisi ineptum videretur. Cioè a dire che il sentimento di Cicerone, intorno a ciò che vi è di più grave, si era che bisogna rispettare e mantenere in pubblico la religione del popolo, perché al popolo è necessaria una qualunque religione, e pensare poi come si vuole in privato. La religione di Cicerone era adunque una specie d’indifferentismo politico, quale lo vediamo professato ai dì nostri da molti, non so se io dica più empj o più imbecilli, che non essendo uomini di alcuna scienza e di alcuna coscienza, si danno il titolo di uomini di stato, indifferentismo che il romano oratore restringeva a quest’orribile massima: che bisogna pensare da filosofo ed operar da politico, cioè adire: nulla credere e mostrar di creder tutto: Sentiendum philosophiæ, vivendum politice. L’insufficienza però, la debolezza, la miseria della ragione privata nell’acquisto del vero è un principio sì profondamente scolpito nell’animo di Cicerone che nol perde giammai di vista, e da esso incomincia sempre le sue filosofiche discussioni. Pertanto, come ha fatto nella disputa sulla natura di Dio, così trattando dell’anima, entra in argomento col rammentare i risultati infelici della filosofia anche in questa materia, ed osserva che i filosofi non sono meno discordi e meno contradittorj fra loro nel fissare il destino e la natura dell’anima di quello che lo sono stati nel decidere alcuna cosa di Dio; poiché dice: credono alcuni che la morte altro non sia che la partenza dell’anima dal corpo; altri, che partenza non vi è di sorta alcuna, che anima e corpo finiscono al tempo stesso, che nulla dell’uomo sopravvive alla morte. Quelli poi che la morte attribuiscono alla partenza dell’anima, sono ancor essi fra loro discordi.Poiché vi è chi pensa che l’anima uscita dal corpo poco dopo si dilegua nel nulla; altri, che sopravviva lungo tempo;ed altri, che mai non muore. Più grande è poi la disparità delle opinioni dei filosofi intorno alla natura ed alla sede dell’anima. Per alcuni l’anima non è altro che il cuore.Per Empedocle non è il cuore, ma il sangue che intorno al cuore s’aggira. Costoro affermano che una parte del cervello è quella che esercita le funzioni dell’anima. Quelli negano assolutamente che l’anima sia cuore o cervello; ma fra loro stessi, alcuni nel cerebro, come in propria sede, la collocano,altri nel cuore. A Zenone stoico parve che l’anima non fosse altro che fuoco. Ad Aristosseno poi, che era allo stesso tempo filosofo e musico, la sua ragione dimostrò che l’anima non è altro che un certo movimento permanente nelle fibre del cuore, simile a quello che si osserva nel canto e nelle corde da cui risulta l’armonia. Per Senocrate l’anima non è che un numero. L’immaginazione di Platone non si contentò di ammettere un’anima sola, ma ne foggiò tre ben diverse; la ragione che collocò nel corpo, l’ira nel petto, e la cupidità sotto ai precordj. Ma ove la liberalità di Platone ci ha regalate tre anime, l’avarizia di Dicearco non ce ne lascia nemmeno una sola: la sua ragione avendogli rivelato che l’anima è una parola vuota di senso, e che l’uomo non è che materia che la natura ha organizzata in modo che sussista e senta. Aristotele deduce l’anima da un quinto elemento da lui riconosciuto in natura, e chiama l’anima entelechia, quasi fosse un movimento continuato e perenne. Democrito dice che l’anima è formata, come il mondo, di leggerissimi atomi che il caso nel corpo umano ha insieme riuniti. Or, dopo di avere indicate queste diverse opinioni sì stolide e sì stravaganti che i filosofi si erano colla loro ragione fabbricate intorno all’anima, Tullio esclama: di queste diverse opinioni, presentate tutte siccome vere, quale però sia fra tutte la vera, solo un qualche dio può saperlo: Harum sententiarum quæ vera sit, deus aliquis viderit (Quæst. tusc). – Quale spettacolo di umiliazione e di dolore adunque perla povera ragione umana, il vedere uomini che il mondo ha stimato sì grandi, e in cui la ragione era certamente elevata e possente, divenuti sì piccoli allorché colla sola loro ragione han voluto rintracciare la prima e la più importante di tutte le verità, l’esistenza e la natura di Dio; e non sapere, sopra un argomento sì grave, che balbettar da fanciullio delirare da matti! Questo quadro basta solo a giustificare l’argomentazione di S. Tommaso, che di sopra abbiamo recata, intorno alla imbecillità ed all’impotenza della ragione ad elevarsi alla pura e semplice cognizione di Dio.Al contrario, da questo spettacolo sì tristo e sì doloroso volgiamo lo sguardo ad uno spettacolo il più stupendo per chi sa considerarlo, ed insieme per noi il più giocondo e il più lieto: lo spettacolo cioè dalle nazioni cristiane, presso le quali quelle stesse verità che i filosofi antichi o non conobbero affatto, o le conobbero confusamente e miste alla scoria di turpissimi errori, si trovano chiare, pure e precise fino sulla bocca del povero artigianello, del rozzo bifolco, della donnicciola ignorante e persino del fanciullo che appena balbetta, sulle cui labbra innocenti hanno una dolcezza ed una grazia che incanta per la stessa debolezza della lingua che intoppa ad ogni tratto nel ripeterle e che non articola che per metà le parole: Ipso offensantis lingua fragmine dulciores, come direbbe Minuzio Felice. Che bella cosa. si è il sentire ai fanciulli recitare il Credo, questo meraviglioso compendio di tutte le verità, questo tesoro di sapienza celeste, magnifica professione di fede dettata dagli Apostoli, ispirata da Dio: Le labbra dei sapienti d’Atene e di Roma quando mai si udirono articolare parole tanto sublimi e importanti quanto quelle che articolano le labbra del fanciullo cristiano che recita il Credo? Ah! caso con ciò solo è più illuminato del più grande degli antichi filosofi in materia di religione. Fra i gentili gli stessi filosofi, gli stessi oratori più insigni non facevano che balbettare; fra noi Cristiani, secondo la bella espressione dei Libri Santi, gli stessi fanciulli sono eloquenti e filosofi: linguas infantium facti esse disertas. Grande Dio! Che direbbero essi mai adunque Socrate e Platone, Zenone ed Aristotele, Arcesilla e Cicerone e tutti i pagani filosofi dell’antichità, se risorgessero dalle loro ceneri he direbbero al vedere la verità che essi dissero collocata al di sopra dei cieli, a ascosa nella profondità della terra, divenuta fra i Cristiani si comune e si popolare? Che direbbero essi, che sì lunghi anni spesero invano, e tanti durarono stenti e fatiche per giungere ad assicurarsi di due o tre morali verità senza esservi potuto riuscire, al vedere non solo queste verità medesime, intorno alle quali si lambiccarono invano il cervello, ma ancora le più sublimi dottrine intorno a Dio e all’uomo, i più giocondi ed ineffabili misteri del Salvatore degli uomini, le leggi più elevate e più perfette, conosciute, professate e credute dall’età la più tenera, dagli uomini più incolti e più rozzi? Che direbbero essi mai al vedere il bambinello cristiano avere idee più giuste, più precise, più elevate intorno a Dio, all’anima, ai doveri, alla vita futura, di quello che mai non ebbero tutti i filosofi, tutte le scuole filosofiche di Atene e di Roma insieme riunite? Che sorpresa per loro! che meraviglia! che incanto. O come invidierebbero la nostra sorte! o come esalterebbero l’eccesso della degnazione di Dio a nostro riguardo nell’aver messo così a disposizione di tutti i tesori della sua sapienza, di cui essi contanti viaggi e tanti stenti non ottennero nemmeno un obolo, a causa, dice S. Paolo, della loro vanità e del loro orgoglio! Oh bel vanto dell’insegnamento della fede! L’inquisizione umana presso i gentili ha fatto divenire gli uomini, fanciulli, i filosofi, idioti; i saggi, ignoranti; gl’inquisitori della verità, il trastullo miserando di tutti gli errori. Ma la rivelazione divina presso i Cristiani ha fatto al contrario divenire gli stessi fanciulli veri uomini; gl’ignoranti, veri filosofi; i rozzi, veri sapienti; e coloro che per la loro età, per la loro rozzezza o per la loro condizione, sembra che sieno da una dura necessità condannati ad essere il trastullo dell’errore, divenuti possessori e maestri di verità. Oh miseria dell’uomo che non ha che l’uomo per maestro: Oh felicità del Cristiano che per maestro ha avuto lo stesso Dio!
GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (48) – LA VERA E LA FALSA FEDE – III. –