Rapporto del protestantismo col socialismo per mezzo del panteismo. (2)
[A. NICOLAS: “Del Protestantesimo e di tutte le eresie nel loro rapporto col socialismo”, vol. II – Napoli, tipogr. e libr. Gabr. ARGENIO – 1859]
(SEGUITO)
CAPITOLO VI.
PASSAGGIO DAL PROTESTANTISMO AL PANTEISMO -II. –
Kant ruppe guerra alla metafisica razionalista nella sua Critica della ragion pura, e studiò ad assodare la religione e a rialzare il Cristianesimo sulla base della ragion pratica e della coscienza morale. Schelling continuò l’impresa di sostentare l’edificio cristiano col sentimento religioso; e finalmente Io stesso Hegel, avviluppandosi di una terminologia biblica, ammetteva e sosteneva « che la religione è in sé medesima ciò che v’ha di più importante; che conoscerla nella sua essenza è lo scopo d’ogni sapienza; che la religion cristiana ha nella sua costituzione ecclesiastica un significato storico e universale più profondo di quello che ammettono i razionalisti, ecc.» Tuttavia che avveniva sotto queste mostre apparenti? Era scavato un abisso in cui s’andavano a dileguare non solamente il Cristianesimo, ma la religion naturale, la libertà morale, l’incivilimento ed ogni principio sociale determinato. – Non essendo gli spiriti rattenuti da alcun dogma certo, da nessuna dottrina ferma avente autorità sulla ragione per regolare o sodisfare in lei il bisogno che essa ha di verità finale, di verità totale, e il Cristianesimo sotto l’azion prolungata del libero esame essendo diventato per quei medesimi che non l’avevano apertamente rigettato, una dottrina talmente diversificata e diversificabile, che poteva vestir tutti i sistemi, Kant apri una strada che Fichte e Schelling allargarono, in cui gli spiriti, nojati del vuoto della natura, si precipitarono con tanto maggior ardore, perché le passioni ve li potevano seguire, e che doveva riuscire in Hegel e ne’ suoi discepoli al più stravagante panteismo, al più rozzo comunismo. Proviamoci ad esporre la deduzione di questi sistemi in una succinta analisi. – La filosofia pratica di Kant poneva in fatto una dualità primitiva: il subbietto e l’obbietto, l’io e il non io. « Il subbietto, come facoltà di sentire e come facoltà di conoscere, è il principio della forma delle nostre rappresentazioni; l’obbietto è il principio della materia di queste rappresentazioni. » Le nozioni sono vane se si separano dalla materia che i sensi forniscono; la materia che i sensi forniscono non offre nulla di necessario, senza la forma che le nozioni le danno. Così ogni conoscenza suppone l’unione della forma e della materia, il concorso del subbietto e dell’Obbietto; e questo è ciò che costituisce l’esperienza, gran criterio della filosofia di Kant. – Kant aggiungeva: « È chiaro che il subbietto e l’obbietto non sono gli esseri reali in sé medesimi, poiché noi non conosciamo il subbietto che relativamente all’obbietto, e l’obbietto che relativamente al subbietto, senza conoscere la natura intima né dell’uno né dell’altro. Vi deve ben essere qualche cosa di nascosto sotto il subbietto e l’obbietto; ma questa esistenza o quest’essere qualunque ci è sconosciuto; esso equivale per noi a X. Noi non possiamo mai sperare e non dobbiamo neppur mai tentare di penetrar sino ad esso; perocché i sensi e le nozioni non forniscono che testimonianze relative, e non possono sollevarci al di sopra dell’esperienza.» Questo X misterioso doveva però districarsi e diventare il Dio del secolo. Lo stesso porlo come il solo essere reale, e il dare un valore relativo e fenomenale al subbietto ed all’obbietto, era un legare a de’ successori la tentazione di farlo prevalere sopra il subbietto e l’obbietto e di sacrificarglieli.
Fichte se la pigliò primieramente coll’obbietto, e considerandolo per rapporto al subbietto, osservò « che questi aveva la parte attiva nel concorso dell’uno e dell’altro; che l’obbietto non aveva che una parte passiva; che esso era colto, formato, determinato dal subbietto; e che come egli non aveva consistenza e valore obbiettivo che per questa azion plastica del subbietto, si poteva dire che esso era creato dal subbietto. » Di qui nacque il sistema dell’idealismo trascendente di Fichte. In questo sistema « non vi è esistenza fuor quella del subbietto o dell’ io. Tutto ciò che non è l’io , per conseguenza tutto l’universo, non è che il non io, vale a dire l’antitesi naturale e necessaria dell’io, che lo accompagna come l’ombra accompagna la luce. Si ha il sentimento dell’io col pensiero. L’operazione del pensiero è doppia; essa consiste in astrarre e riflettere: astrarre tutto ciò che non è l’io, e l’universo non è che questa astrazione; riflettere, vale a dire ripiegar l’azione del pensiero sull’io, la cui esistenza è districata; di maniera’ che l’essere pensante e la cosa pensata si confondono in una stessa veduta, e la scienza non è altro che l’esistenza che coglie da sé medesima, e si esprime in questa proposizione che sola ha una certezza immediata: lo = io. » Schelling venne a fare un passo di più nella sua Filosofia della natura. Come Fichte aveva fatto scomparire il non io, egli fa scomparire l’io, ma per farlo ricomparire allo stato di esistenza assoluta, allo stato di Dio, e innalzar la formula di Fichte Io = io alla formula Dio = Dio. — Ed ecco come egli vi arriva; « Non si tratta di sapere se le cose fuor di noi hanno un’esistenza reale, se v’ha qualche cosa fuori di noi; ma se noi medesimi siamo un oggetto reale nel senso trascendentale della parola. Ora l’obbietto e il subbietto sono correlativi che si suppongono l’un l’altro, e appena si toglie l’uno di questi termini, l’altro si dilegua insieme con lui. La verità non si trova che nell’esistenza assoluta; non v’ha che una esistenza, una, eterna, immutabile. L’astrazione e la riflessione, che nell’idealismo trascendente devono condurre all’atto puro e libero, pel quale l’essere si pone, sono mezzi lenti e insufficienti; bisogna cominciare con questo atto puro e libero; la filosofia è una creazione indipendente, alla quale si giunge col distruggere l’uno coll’altro il subbietto e l’obbietto, e collocarci nel punto in cui siamo egualmente indifferenti ad ambedue, e donde per un atto d’intuizione intellettuale afferriamo l’esistenza assoluta. Quest’esistenza è Dio, il principio dell’unità e della felicità: quest’esistenza è una; l’affermarla è conoscerla, e conoscerla è affermarla. Ora v’ha identità perfetta tra la conoscenza e l’esistenza. La conoscenza che noi abbiamo di Dio è dunque l’esistenza medesima di Dio, per la conoscenza e la coscienza che esso ha di sé medesimo in noi; come, secondo Fichte, la conoscenza che noi abbiamo dell’io è l’esistenza medesima dell’io. In oltre, siam costretti di ammettere nell’esistenza assoluta una vera antitesi, ed è quella dell’unità e della pluralità. L’essere quale unità perfetta deve manifestarsi, e non può manifestarsi in sé medesimo nella sua unità; ma necessariamente in un altro che non è lui, e per conseguenza in una pluralità. Bisogna dunque che esso sia lui medesimo e un altro che non è lui; unità nella sua essenza e pluralità nella sua manifestazione. E come l’unità perfetta non può concepirsi senza manifestazione, né la manifestazione senza l’unità cui essa manifesta, ne conseguita che né l’una né l’altra, né l’unità né la pluralità, in quanto unità e pluralità, non esistono propriamente, e che non v’ha che la copula, vale a dir l’esistenza pura e semplice: Deus est in fieri ». O ragione umana, da quali vertigini tu sei sempre presa! E dove non vai tu a perderti nella tua matta libertà? – Il panteismo era fatto. L’Hegel non ebbe che a circoscriverne i termini e farne le applicazioni. « Unità di sostanza allo stato impersonale e indeterminato, quando la si considera in sé medesima; l’infinito indefinito, solo essere, sostanza e causa del mondo visibile. L’essere, l’infinito così latente, fa sforzo per esprimere tutte le modificazioni nascose nel suo seno colle loro innumerevoli qualità: egli si sveglia, si rivela, si esprime sempre più negli esseri che compongono l’universo e che offrono degli stati sempre più perfetti di questo spiegamento progressivo dell’esistenza. Egli dorme nella pietra, egli sogna nell’animale; e non esce dallo stato impersonale, e non arriva alla coscienza di sé medesimo che nell’uomo. Così l’uomo non esiste per se medesimo, come neppur tutto il resto dell’universo. Nulla esiste, altro che l’esistenza assoluta, altro che Dio, e l’uomo non è che questa esistenza assoluta giunta al suo più alto grado di sviluppo; egli è Dio, e Dio al supremo grado, Dio compiuto, Dio che si fa Dio, Dio giunto all’equazione di sé medesimo, per la riflessione e il sentimento della sua personalità, nella quale egli si contempla, Dio—Dio.
Si comprendono tutte le spaventevoli conseguenze contenute in questa dottrina. Se non v’è che una sola essenza che, diventando la natura, comincia ad avere una esistenza determinata, e che non arriva allo stato di personalità, di coscienza e di riflessione se non nell’umanità, è assolutamente necessario di negar Dio fuor dell’uomo, di negare un’intelligenza infinita, una volontà infinita, una provvidenza infinita anteriore e superiore al mondo. Cosi il panteismo, secondo la giusta espressione di Bossuet, non è che un ateismo mascherato. Ma esso è di gran lunga peggiore dell’ateismo; perocché l’ateismo lascia il vuoto della negazione, e questo vuoto dalle aperte fauci grida in certo qual modo, chiama a sé il suo obbietto, protesta contra la sua negazione, accusa la follia dell’ateo, e non gli concede rifugio che in una degradazione, in un abbrutimento di se stesso che gli lascia almeno il benefizio dell’umiliazione del suo stato per uscirne. Ma il panteismo, identificando l’esistenza assoluta col mondo, trasportando la personalità divina nell’uomo stesso, afferma Dio negandolo, inganna il sentimento che noi abbiamo della sua esistenza, sodisfa sino all’esaltazione il sentimento che abbiamo della nostra grandezza, e produce il peggiore di tutti gli accecamenti, quello dell’orgoglio, e dell’orgoglio che può stare colle più vili passioni, dell’orgoglio mascherato esso medesimo sotto l’apparenza dell’annegazione più compiuta, poiché in questo sistema l’uomo individuo non ha esistenza distinta, e non è che una molecola dell’uomo in genere, dell’umanità, che sola esprime la ragione assoluta, e n’è la più alta espressione. Cosi in questo sistema l’uomo è negato al par di Dio; non più alcuna verità distinta intorno a lui; non più legge morale, che ne metta in azione la libertà; non più timore o speranza per l’avvenire; a dir breve non più personalità; ciascuno è assomigliato alla massa, come questa alla Divinità. Ma al tempo stesso ch’egli vi è assomigliato, egli se lo assomiglia, egli si fa della libertà generale dell’uomo, della libertà assoluta di Dio, la sua propria libertà: e le sue passioni più disordinate sono non solamente più affrancate dalla coscienza individuale, da quella del genere umano e dal sentimento della divinità, ma le sono autorizzate, consacrate, divinizzate, come quelle che ne sono l’espressione e la determinazione attiva. Per recar le molte parole in una, in questo mostruoso sistema, Dio e l’uomo sono ad un’ora negati e affermati l’una dall’altro, negati pel bene e affermati pel male. Dalla nozione di Dio si traggono le idee d’indipendenza, di giustizia, di provvidenza, di saviezza, di bontà suprema; dalla nozione di uomo, si traggono le idee di libertà morale, di responsabilità, di coscienza, di merito e di virtù: e dopo di aver cosi fatto il voto di ogni bene in Dio e nell’uomo, si trasportano in Dio le passioni dell’uomo, nell’uomo i diritti di Dio, e dell’uno e dell’altro così rovesciati si fa un solo mostro, che ha la possanza assoluta di Dio e la perversità dell’uomo. Per colmo di delirio, questo mostro va crescendo. L’idea infinita, la ragione assoluta, secondo l’hegelianismo, vaga e confusa in sé medesima, comincia solamente a prendere una esistenza determinata nella natura, in cui ella si va sempre più svegliando, da poi la pietra sino all’uomo, in cui solo essa attinge la coscienza di se medesima. Ma giunta a questo punto, ella non vi si arresta; ella continua a progredire continuamente e produce le evoluzioni storiche dell’amanita, come ella ha già prodotto i regni della natura. La storia di tutta la successione dei fatti che la compongono non è cosi che la successione delle manifestazioni sempre più perfette dell’esistenza assoluta. Essa è, per lo sviluppo dello spirito universale, ciò che è la riflessione per lo spirito individuale; ne’ suoi periodi successivi vennero a porsi, sotto una forma manifesta e vivente, secondo un ordine logico e necessario, tutti elementi interiori dell’idea divina. Ad ogni epoca, le costituzioni, l’arte, la religione, la filosofia, hanno una radice comune, lo spirito del tempo, il quale non è esso medesimo che lo spirito universale, l’idea infinita al suo termine di sviluppo relativamente più avanzato. Tutto così, perfino i delitti più spaventevoli, sono giustificati, se sono conformi allo spirito del tempo; e le virtù più eroiche sono riprovate se esse sono a lui contrarie. L’ultimo stato dell’umanità è così il più alto punto dell’esistenza assoluta; e questa esistenza sviluppandosi sempre, ogni epoca può e deve operare per la distruzione di ciò che la precede e l’effettuazione delle sue più arrischiate e più perverse teoriche, col sentimento dell’Infinito e dell’assoluto che fa un legittimo sforzo per esprimersi. – Questa teorica dello sviluppo successivo di Dio nella storia è la teorica rivoluzionale, sollevata alla sua più alta possanza, alla possanza dell’assoluto, del Fatum, ma del Fato al servigio delle più feroci passioni scatenate, che dico! suscitate dal sentimento della legittimità, o piuttosto della divinità della loro azione. Perciò noi vediamo i maestri di questa teorica, quantunque più circospetti dei loro discepoli, trovar nondimeno dell’entusiasmo per celebrare le virtù di Robespierre e di Marat. – Ma questa teorica non ha aggiunto tutta la sua applicazione nel principio rivoluzionale; perocché questo principio atterra i troni e le superiorità politiche, ma lascia sussistere le condizioni sociali, i principii eterni della proprietà, del matrimonio, della libertà morale e dell’individualità delle esistenze. Ora, come abbiam già detto altrove, il panteismo esclude tutte queste distinzioni; se Dio è tutto, non v’è cosa che sia Dio; tutte le esistenze sono assorbite nell’assoluto dell’esistenza: nessuna appartiene a sé, e non ha nulla per conseguenza che a lei appartenga; il panteismo essendo il comunismo del finito e dell’ infinito, non trova la sua compiuta espressione che nel comunismo sociale dei diversi elementi del finito preso in se medesimo. Se il finito collettivo non è nulla, come il finito particolare che non ne è che un elemento, sarebbe esso qualche cosa? Ogni confusione, ogni comunismo, ogni caos sociale, è dunque il termine dell’egelianismo. Io non ho usato né arte né violenza, nella «posizione di questa dottrina, e neppure nell’estensione delle sue conseguenze; non ho detto insomma cosa che non sia stata formulata e praticata sotto i nostri occhi. E le citazioni sarebbero altrettanto facili quanto sono superflue. Ciò che ora importa di ben notare è che questo panteismo, che trovava il suo antecedente nella dottrina protestante del servo arbitrio, come il naturalismo in quella del libero esame, è uscito e si è sviluppato in seno al protestantismo e sopra il suo terreno primitivo; è che i suoi dottori e i suoi adepti erano ammessi come cristiani protestanti, in opposizione ai razionalisti propriamente detti che essi occupavano le cattedre dell’insegnamento teologico e si costituivano quali difensori del Cristianesimo (Per tal modo, cosa strana, grida lo storico Alzog , ei finirono a disconoscere a tale punto il Cristianesimo che pensavano di ritrovarne il vero spirito in un sistema, che, come quello di Hegel, vede in Dio la ragione impersonale, che non arriva alla coscienza di sé medesima se non nello spirito dell’uomo, che distrugge la libertà divina ed umana, e precipitando l’umanità dalle chiarezze ineffabili del Vangelo nelle tenebre del paganesimo, evoca da questo caos, come arbitro supremo d’ogni cosa, la cieca necessità.); finalmente è che 1’egelianismo è un sistema teologico protestante, che spiega alla sua maniera i dogmi della Trinità e dell’Incarnazione. Nell’esposizione che ne abbiam fatto, noi l’abbiamo spogliato delle sue formule dommatiche altrettanto plausibili ed ammissibili per la ragione emancipata dalla Chiesa quanto lo è tutta la simbolica delle altre eresie, e meno ributtante sicuramente della dottrina generale protestante del servo arbitrio e della giustificazione per la fede. Cosi, secondo l’Hegel, l’essenza assoluta, la sostanza di ogni cosa, considerata in sé medesima e prima di ogni sviluppo, è il Padre, o la prima Persona del mistero della Trinità. — Il passaggio dalla sostanza indeterminata all’esistenza effettiva, la trasformazione dell’essenza infinita in universo, in mondo creato, ciò che noi chiamiamo la natura, è Dio il Figliuolo, la seconda Persona, la quale esprime tutto ciò che è nella sostanza eterna. — Finalmente, quando lo spirito arriva al termine di tutti gli sviluppi, riconosce se stesso; quando egli afferma l’identità del finito e dell’infinito; quando per questa veduta e questa affermazione egli rientra in certo qual modo in sé medesimo, si uguaglia a sé medesimo, compie sé medesimo, esso è lo Spirito Santo, la terza Persona, ed è lo spirito umano. – Il dogma dell’incarnazione è similmente rispettato nella scuola hegeliana: solamente la dottrina del Verbo fatto carne, del Dio fatto uomo, invece di essere particolarizzata in Gesù Cristo, è generalizzata nell’umanità; e Strauss, discepolo di Hegel, nella sua Vita di Gesù, non ha fatto, in quest’ordine di idee, che spogliare la dottrina cristiana della sua veste storica; ma egli l’ha conservata, trasportandola nel genere umano; a giudizio di lui, come a giudizio di tutta la scuola egeliana, la specie umana è il Verbo. Del resto, tutta questa teorica panteista egeliana non ha nulla di originale; se noi ce ne ricordiam bene, essa non è che un ritorno alle antiche teoriche dei gnostici e de’ neo-platonici: lo Strauss non fa che riprodurre Filone, e il ciclo delle eresie termina come fu cominciato or fa diciotto secoli. – Questa dottrina ha potuto così autorizzarsi col protestantismo che l’ha partorita, e darsi come un progresso finale su tutte le evoluzioni di questa grande eresia. Perciò noi leggiamo sotto tutte le forme. negli Annali alemanni, « che la missione della chiesa protestante è di sradicare la fede al Cristianesimo evangelico; che Lutero non e stato che il precursore del grande Hegel; che il protestantismo può esistere senza la Bibbia, da lungo tempo invecchiata, piena di errori sulle questioni più importanti della vita, e che egli può, coll’ajuto della scienza e dell’incivilimento, surrogare efficacemente ogni disciplina morale (Il rispetto della Bibbia e della divina persona del Cristo non era molto più grande nei primi riformatori che negli ultimi, e Strauss non ha per certo superato Lutero. E lo vedremo poco stante.). » – Sotto il nome di Essenza del Cristianesimo, Feuerbach e Brunone Bauer vennero, dopo Strauss, a far discendere l’egelianismo sul terreno della politica sociale, ed a gridar la venuta del comunismo. Nel suo programma del 1843, censurando il vecchio liberalismo, questa scuola dichiarava che si trattava oggimai di strappare il popolo dalle illusioni su cui posa attualmente la nostra vita politica e religiosa, di mettere in moto le massime di distruggere l’organizzazione militare, insegnare al popolo a reggersi da se medesimo, ed a rendersi giustizia, di strappar dalla morte il mondo germanico e di assicurare il ino avvenire, trasformando il liberalismo in pura democrazia. Il protestantismo non respinge la solidarietà di queste fatali tendenze. Per far ciò sarebbe bisognato che trovasse in sé qualche fondo di credenza comune sul quale egli potesse appoggiarsi e raccogliersi. Ma, tutto al contrario, le facoltà teologiche di Prussia accompagnarono coi loro voti i richiami di Brunone Bauer in favore della libertà teologica; e gli ultimi tentativi fatti collo scopo di obbligare i predicatori prussiani ad adottare qualche simbolo positivo di Cristianesimo qual regola dell’istruzione della gioventù e del popolo sono venuti a rompere contra il rifiuto di queste medesime facoltà, salvo i1 decanato di Berlino e di Hengstenberg (L’anglicanismo, sotto la sua apparente coesione, non racchiude una minore divisione, una minore inanità. Nel maggio del 1840, si suscitò nella camera alta, sui trentanove articoli, un dibattimento in cui si domandò se il clero stesso credeva alla verità di questi articoli che egli approvava. A tale questione uno dei vescovi rispose che tutti i membri del clero vi credevano; un altro che nessuno vi credeva: un ferzo che era impossibile accettarli; sopra di che un altro, il quarto, aggiungeva che tutte le persone ragionevoli lo sottoscrivevano in massa, ma si riservavano di non credere altro che quello che loro sembrasse conveniente. Quello che avvenne poscia in Inghilterra non ha fatto che mettere sempre più in evidenza ed in azione questa discordia scandalosa e nondimeno molto istruttiva per una moltitudine di anime oneste e disingannate, che hanno preso c prendono tutti i giorni il loro corso verso l’unità.). – A dir breve, tutti i partiti del protestantismo per reagire contra le ultime conseguenze del suo principio possono compendiarsi in questa parola di Nicola Harms: « Io potrei scrivere, sull’unghia del mio pollice tutto ciò che rimane di dogma generalmente creduto nella chiesa protestante. » Ma una obbiezione onorevole non ci permette di raccogliere ancora il vantaggio di questo capitolo, e domanda che noi la leviamo. – In un lavoro notevolissimo, pubblicato negli Annali cattolici di Ginevra, sull’opera nostra, e in cui la benevolenza non la cede che alla sincerità dei giudizi, ci è stata fatta questa censura essenziale: « Il signor Nicolas ha voluto stabilire un legame di filiazione diretta tra il protestantismo ed il panteismo. Noi non possiamo approvare un tale sentimento. Il proprio del panteismo è di rigettare l’esistenza di un Dio personale: ora in nessun tempo passato o presente noi non vediamo alcuna setta protestante giungere a questo grado di negazione. Se il signor Nicolas ha voluto dire che la dottrina del libero esame ha creato in seno alle sette riformate un principio di dissoluzione favorevole allo sviluppo della filosofia panteista, noi siam d’accordo con lui. » – Noi non crediamo che questa censura sia fondata; e, qualunque sia la nostra deferenza pel suo autore, non possiamo abbandonare a lui la verità, o meglio non crediamo di poter rispondere meglio alle sue intenzioni che mettendola viemaggiormente in luce, e porgendogli così motivo di congratularsi con noi dell’obbiezione. – Primieramente è vero che la dottrina del libero esame ha creato in seno alle sette riformate un principio di dissoluzione favorevole allo sviluppo della filosofia panteista. Tutto quello che dice a questo riguardo il giudizioso critico nel seguito dell’articolo è esattissimo. Nondimeno, non tenendoci ancora che a questo punto di vista, noi pensiamo che la filosofia panteista non è stato l’effetto puramente fortuito della dissoluzione operata dal libero esame. L’errore non è così avventuroso come pare nelle sue cadute e nei suoi traviamenti. Le sue cadute sono fatali anzi che avventurose. A dir breve, l’errore ha le sue leggi, le quali non sono altro che l’atterramento di quelle della verità, leggi di decomposizione, di corruzione e di morte, come quelle della verità sono leggi di unione, di santità e di vita. Ora, avendo il principio del libero esame recata la distruzione radicale delle credenze, questa incredulità totale non era terribile per la natura umana. Il bisogno di credere che è ad essa inerente, e la necessità di trovar soluzioni ai grandi problemi del destino individuale e sociale dell’uomo, senza i quali egli non può organizzare né la società né la sua vita particolare, doveva, come l’ha si bene spiegato Jouffroy nelle pagine da noi citate, recare una reazione contra il naturalismo. Dal culto del finito, se così posso dire, si doveva andare al culto dell’infinito. Ma come trovare, o porre le leggi e i confini di questo culto? Noi l’abbiamo già mostrato le cento volte: Gesù Cristo solo e la sua Chiesa hanno potuto sciogliere questo problema. Gli spiriti che si rifiutano d’accettare la soluzione cattolica, e che in tutte le loro investigazioni non mirano che a soddisfare quello di cui bisognerebbe primieramente spogliarsi, l’orgoglio del loro spirito, la libertà delle loro passioni, non potevano far altro che errare in tale investigazione, cadendo nell’eccesso contrario al naturalismo, nel panteismo, sia perché l’impotenza naturale dello spirito umano è scoprire le leggi dell’ordine soprannaturale non lo rende capace che di eccesso nei concetti che può formarsene, sia perché in questo eccesso egli conserva sempre la sola cosa che non vuole abbandonare, se cosi oso dire, il suo io emancipato dal naturalismo o autorizzato dal panteismo, glorificato nella prima e divinizzato nella sonda di queste concezioni. Il panteismo e il naturalismo non sono che due forme di un medesimo culto, del culto della ragione. Perciò noi vediamo i medesimi spiriti, senza mutar costumi né carattere, passar dall’una all’altra di queste due dottrine e trovarvi egualmente il loro conto. Il panteismo ha anzi questo vantaggio per essi sul naturalismo, che soddisfa o piuttosto inganna il bisogno innato che noi abbiamo dell’infinito, facendo volgere il suo culto in quello di noi medesimi. Sia per ignoranza, sia per orgoglio, sia per debolezza intellettuale, sia per debolezza morale, o per ambedue al tempo stesso, l’uomo non può dunque trovar l’accordo del finito coll’infinito, vale a dire la religion vera; egli non può che gettarsi da un polo all’altro, quando non si sottomette a seguire il simbolo cattolico, che è come l’eclittica celeste, e agghiaccia o incendia la terra cui il sole della verità divina contenuta in questo simbolo può solo vivificare. In questo primo senso si direbbe dunque con verità che il panteismo è imputabile all’emancipazione religiosa dello spirito umano, al protestantismo. – Ma noi abbiam detto in oltre che vi era un rapporto dottrinale tra il protestantismo e il panteismo, ed è principalmente su questo punto che noi discordiamo col nostro giudizioso critico, e dobbiam spiegarci. La spiegazione sarà semplicissima e, come crediamo, assai concludente. « Il proprio del panteismo, dice egli, è di rigettare l’esistenza di un Dio personale. Ora in nessun’epoca passata o presente, noi non vediam setta protestante giungere a questo grado di negazione. » Questa obbiezione è troppo moderata nella sua esposizione; ed è perciò che il suo autore vi si è impegnato. Se egli avesse dato ad essa tutto il suo sviluppo, avrebbe veduto che la si confutava da sé medesima, come avvien sempre di una obbiezione che non è fondata. Una tale obbiezione bene esposta è per metà confutata, per la ragion medesima che una questione ben posta è per metà risoluta. Ora, non basta, nel senso dell’obbiezione, il dire che il protestantismo non ha mai rigettato l’esistenza di un Dio personale; bisognava dire che ha professata l’esistenza di un Dio personale con eccesso mercé il dogma della giustificazione, della predestinazione e del fatalismo; che egli ha sacrificato a questa personalità divina la personalità umana; che vi ha immolati tutti gli atti interiori ed esteriori che distinguono quest’ultima, fino a riuscire a questa conclusione, che Dio fa tutto, che Dio è tutto in noi, come in tutte le creature. Ecco l’obbiezione in tutta la sua forza. Ma eccola appunto per questo in tutta la sua debolezza; perocché se Dio è tutto, tutto è Dio, ed ecco la personalità divina assorbita nel suo proprio eccesso, e i due estremi che arrivano, come sempre, a confondersi. Il panteismo esiste tanto nella formola: Dio è tutto quanto in quella: tutto è Dio; perché in queste due formolo vi è egualmente confusione del finito coll’infinito, ciò che è propriamente il panteismo. La prima ha un carattere più religioso, e la seconda un carattere più filosofico; ma questo è il vero di quella, perocché ciò che muta di natura, ciò che è sacrificato, ciò che perisce realmente in questa confusione non è il finito, non sono i suoi atti, non sono le nostre inclinazioni e le nostre passioni: per lo contrario, tutto questo è salvo, anzi consacrato; bensì è Dio, il quale, col necessitarle e col farle in noi, vi perde gli attributi di santità, di giustizia, di sapienza, di potenza, la cui riunione costituisce la personalità del suo essere. Il dogma protestante del servo arbitrio e della predestinazione non è in sostanza che il dogma della licenza e della deificazione delle passioni dell’uomo. Esso non trasporta in Dio la nostra libertà e il nostro destino che per spogliarvele d’ogni responsabilità umana e rivestirvele de’ di lui attributi divini, e distruggere in pari grado la di lui personalità santa, essenzialmente incomportabile colla nostra licenza. Il dogma protestante della predestinazione non è insomma che un panteismo mascherato, come questo non è che un ateismo mascherato, il quale in sostanza è l’unico errore più o meno mascherato. Perciò uno de’ primi frutti della riforma, per confessione medesima de’ riformatori , che noi avrem motivo di citare a questo proposito, fu la spaventevole apparizione dell’ateismo in seno alle società cristiane. La dottrina del servo arbitrio, che è il fondo del protestantismo ortodosso, aveva dunque ripiena 1’Alemagna, che ne è stata e ne è rimasta il primo e il principal teatro, de’ germi del panteismo, e questo si è trovato pronto a ricevere le formale filosofiche di Hegel. Noi abbiam già citato, a sostegno della nostra tesi sul rapporto del protestantismo col panteismo non meno che col naturalismo, l’opinione dell’eminente autore della Simbolica. Dopo aver mostrato il panteismo puro in questa dottrina di Zuinglio: Tutto ciò che esiste è di Dio; tutto ciò che è, è Dio, è Dio medesimo e dopo aver dichiarato il rapporto di questa dottrina con quella predestinazione luterana, egli termina così: « Ecco gli eccessi inuditi ne’ quali cadde Zuinglio riconducendo alla sua vera base la dottrina di Lutero sulla libertà umana. In questi ultimi tempi (ed è così che i protestanti si comprendono essi medesimi) si sono veduti gli ortodossi del partito combattere i nuovi sistemi filosofici e teologici; sistemi che in sostanza non racchiudono che le conseguenze necessarie de’ principii posti dai riformatori. Schleiermacher, non ostante le tante sue deviazioni della dottrina de’ suoi maestri , è, a nostro avviso, il solo vero discepolo degli apostoli della riforma (Simbolica, tom. I, pag. 281). – Noi siam lietissimi di poter dare alle nostre ragioni il sostegno di quest’alta autorità; è per tal modo rimane bene stabilito che il protestantismo, del paro che tutte lo altre eresie, doveva riuscire dal suo lato dommatico, ed è realmente riuscito, al panteismo.