Questa lettera enciclica di Benedetto XV affronta un argomento decisivo nella propagazione e nel mantenimento della fede cattolica, e fondamentale per l’esistenza stessa della Chiesa: la predicazione della divina parola. Se i Vescovi avessero osservato alla lettera le disposizioni pratiche del Santo Padre non avremmo avuto quel clero ignorante, accidioso, infingardo che ha consentito agli avversari di Cristo e della sua Chiesa, di infiltrarsi in essa e prendere il sopravvento sui sacri palazzi e finanche sulla Cattedra di Pietro oggi occupata da Simon Mago e dai suoi epigoni. La lettera è mirabilmente articolata e congegnata onde ottenere i risultati pratici che si riprometteva secondo gli insegnamenti del divino Maestro… ma il mistero d’iniquità era già all’opera tumultuosa che doveva poi sfociare nell’apostasia manifesta del conciliabolo della sinagoga vaticana e nella orribile parodia degli antipapi che, inventando la falsa chiesa dell’uomo, falsi sacramenti, falsi riti e falsa gerarchia, hanno preparato la via all’anticristo come da profezie bibliche. Questo, come tanti altri documenti, è però la testimonianza della vera anima dottrinale della Chiesa di Cristo, Chiesa che rivivrà nella sua magnificenza alla venuta di Cristo Salvatore che, bruciando col soffio della sua bocca l’anticristo ed i suoi adepti, rivendicando la sua regalità universale, ricapitolando tutta la creazione in Sé, rimetterà il suo Regno al Padre celeste libero da impuri e reprobi. Al Pusillus grex spetta attendere con pazienza e preghiera incessante il momento glorioso del ritorno di Cristo e del Giudizio universale che separerà per sempre i capri (i falsi cristiani solo di nome, paganizzati e satanizzati: Novus ordo, eretici sedevacantisti e sedicenti tradizionalisti fallibilisti ed autoreferenziati, oltre ai già condannati infedeli, settari ed atei a vario titolo), dagli agnelli, coloro cioè che avranno sopportato per Lui sofferenze, dispregi e martirio restando fedeli alla sua eterna dottrina ed alla sua “vera” Chiesa anche se solo di desiderio.
Benedetto XV
Humani generis redemptionem
Lettera Enciclica
I. L’ANNUNCIO DELLA PAROLA
La predicazione prosegue l’opera della redenzione.
Avendo Gesù Cristo nostro Signore col morire sull’altare della Croce compiuta la Redenzione del genere umano, e volendo indurre gli uomini mercé l’osservanza de’ suoi comandamenti a guadagnarsi la vita eterna, non ricorse ad altro mezzo che alla voce de’ suoi predicatori, commettendo loro di annunziare al mondo le cose necessarie a credere o ad operare per la salute. “Piacque a Dio di salvare i credenti per mezzo della stoltezza della predicazione” (1Cor 1, 21). Elesse egli quindi gli apostoli, ed avendo loro infusi con lo Spirito Santo i doni appropriati a sì alto ufficio: “Andate – disse – per tutto il mondo e predicate l’Evangelio” (Mc XVI, 15). Ed è questa predicazione appunto che rinnovò la faccia della terra. Poiché se la Fede cristiana convertì le menti degli uomini da molteplici errori alla conoscenza della verità, e le anime loro dall’indegnità dei vizi all’eccellenza di ogni virtù, non per altra via le convertì se non per via della predicazione: “La Fede dall’udito, l’udito poi per la parola di Cristo” (Rm X,17). Laonde, siccome per divina disposizione, sogliono le cose conservarsi per quelle medesime cause che le hanno generate, egli è manifestato essere legge divina che l’opera dell’eterna salute si continui per la predicazione della cristiana sapienza; a buon diritto venir questa annoverata tra le cose di suprema importanza, e meritare perciò tutte le nostre cure e sollecitudini, massime se ci fosse ragion di credere ch’ella, perdendo in efficacia, fosse in qualche modo venuta meno alla sua nativa integrità. – Ed è questo appunto che s’aggiunge ai tanti mali, che Noi sopra ogni altro affliggono in questi miseri tempi. Se miriamo quanti sono coloro che attendono alla predicazione, li ritroviamo in sì gran numero che forse mai non fu il maggiore. Ma se al tempo stesso consideriamo a che sono ridotti i costumi pubblici e privati e le leggi onde si reggono i popoli, vediamo crescere ogni giorno il disprezzo e la dimenticanza d’ogni concetto soprannaturale; vediamo illanguidire il vigore severo della virtù cristiana, con obbrobrioso e rapido ritorno all’indegnità della vita pagana. – Di tanti mali molte certamente e varie sono le cagioni: non si può negare però che purtroppo insufficiente sia il rimedio che i ministri della divina parola vi dovrebbero apportare. Forse che la parola di Dio non è più quella che l’Apostolo chiamava viva ed efficace e penetrante più d’una spada a due tagli? Forse col tempo e coll’uso la spada s’è spuntata? Certo ella è colpa dei ministri, che non sanno maneggiarla, s’essa perde spesso della sua forza. Né davvero si può dire che gli Apostoli incontrassero tempi migliori dei nostri, come se allora il mondo fosse più docile al Vangelo o meno riottoso alla legge di Dio. Gli è perciò che conscii del dovere che l’ufficio apostolico c’impone e mossi dall’esempio dei due nostri immediati Predecessori, abbiamo creduto, in un affare di tanta importanza, di dover porre ogni diligenza per chiamare la predicazione della divina parola alla norma data da Cristo e dalle leggi ecclesiastiche.
II. CAUSE DI INEFFICACIA
Non si deve predicare senza mandato
Nel che, o Venerabili Fratelli, importa ricercare anzitutto quali siano le cagioni che fanno tralignare dalla retta via. Ora siffatte cagioni possono ridursi a tre: o perché viene commessa la predicazione a chi non si dovrebbe; o perché non ci si apporta la dovuta intenzione; o ancora non si predica nel modo che si conviene. – Infatti, secondo che insegna il Concilio di Trento, l’ufficio di predicare spetta ai Vescovi principalmente. E gli Apostoli, ai quali succedettero i Vescovi, quello soprattutto ritennero che loro appartenesse. Così Paolo: “Non mi ha mandato Cristo a battezzare, ma a predicare il Vangelo” (1Cor 1, 17). E gli altri Apostoli similmente: “Non è giusto che noi tralasciamo la parola di Dio per servire alle mense” (At VI, 2). – Però sebbene quest’ufficio appartenga ai Vescovi in proprio, tuttavia essendo essi occupati da molti altri pensieri nel governo delle loro Chiese, né potendo perciò sempre né in ogni caso adempirlo di per sé, è necessario che vi soddisfacciano anche per mezzo di altri. Laonde chiunque, oltre i Vescovi, esercita quest’ufficio, lo esercita senza dubbio come un incarico episcopale. Questo adunque rimanga anzitutto bene stabilito: a nessuno essere lecito d’intraprendere da sé l’ufficio di predicare, essere anzi a ciò necessaria la legittima missione, che nessuno può dare, dal Vescovo in fuori: “Quomodo prædicabunt nisi mittantur? – Come predicheranno se non sono mandati?” (Rm X,15). Quindi mandati furono gli Apostoli, e mandati da Colui che è Pastore supremo e Vescovo delle anime nostre (cf. 1Pt II, 25), mandati i settantadue discepoli; e lo stesso Paolo, quantunque costituito già da Cristo vaso di elezione per portare il nome di lui dinanzi alle genti ed ai re (cf. At IX, 15), non iniziò il suo apostolato fino a quando i seniori, ubbidendo al comando dello Spirito Santo: “Mettetemi da parte Saulo per l’impresa” (del Vangelo) (At XIII, 2), impostegli le mani, non lo licenziarono. La qual cosa nei primi tempi della Chiesa fu consuetudine costante. Tanto che tutti, anche i più insigni nel semplice ordine sacerdotale, come Origene, e quelli che dappoi furono innalzati alla dignità episcopale, come Cirillo di Gerusalemme e gli altri antichi Dottori della Chiesa, tutti, autorizzati ciascuno dal proprio Vescovo, intrapresero l’opera della predicazione. – Oggi all’incontro, o Venerabili Fratelli, si direbbe sia invalsa un’usanza ben differente. Non sono rari, tra i sacri oratori, tali di cui si potrebbe ripetere con verità quello onde si lagna Iddio presso Geremia: “Io non li avevo mandati quei profeti, eppure correvano da sé” (Ger XXIII, 21). Basta infatti che alcuno o per naturale inclinazione o per altro motivo qualunque s’invogli di darsi al ministero della parola, perché facilmente gli si apra l’accesso al pergamo, quasi palestra da esercitarvisi ognuno a suo talento. Tocca dunque a voi, o Venerabili Fratelli, riparare a tanto disordine; e poiché ben sapete come dovrete un giorno rendere conto a Dio ed alla Chiesa del pascolo che avrete fornito alle vostre greggi, non vogliate permettere che alcuno, senza il vostro consenso, s’introduca nell’ovile e quivi a suo piacimento pasca le pecorelle di Cristo. Nessuno pertanto nelle vostre diocesi d’ora innanzi dovrà predicare se non sia stato da voi stessi chiamato ed approvato. – Vorremmo perciò, su questo proposito, che con ogni vigilanza consideriate a quali persone affidate incarico così santo e rilevante. Il decreto del Concilio Tridentino infatti questo solo permette ai Vescovi, che scelgano uomini idonei, cioè dire che siano capaci di adempiere salutarmente il dovere della predicazione. Salutarmente, dice – notate bene la parola che esprime la norma in questo affare – non dice con eloquenza, non già con plauso degli uditori, ma con frutto delle anime, che è il fine proprio del ministero della divina parola. Che se desiderate intendere da Noi anche più precisamente quali veramente si debbano reputare idonei, diremo senz’altro che sono quelli appunto ne’ quali riscontrate i segni della vocazione divina. Imperocché quei requisiti stessi che si domandano acciocché alcuno sia ammesso al sacerdozio: “Nessuno si appropria da sé tale onore ma chi è chiamato da Dio” (Eb V, 4), sono pure necessari perché egli sia giudicato atto alla predicazione.
Chi può essere ammesso a predicare
Vocazione questa non difficile ad intendere. Poiché allorquando Cristo, Maestro e Signor nostro, stava per salire al cielo, non disse già agli Apostoli che, spargendosi pel mondo, subito principiassero a predicare, ma “trattenetevi in città sino a tanto che siate rivestiti di virtù dall’alto” (Lc XXIV,4). Sicché questo è l’indizio d’essere alcuno da Dio chiamato a tale ufficio, s’egli sia dall’alto rivestito di virtù. Il che come sia, Venerabili Fratelli, lo possiamo raccogliere dall’esempio degli Apostoli, tostoché ricevettero virtù dal cielo. Era su di loro disceso appena lo Spirito Santo, che lasciando stare i mirabili carismi loro conferiti essi, di rozzi e fiacchi uomini che erano, ad un tratto diventarono dotti e perfetti. Così se un sacerdote sia fornito di conveniente dottrina e di virtù purché egli abbia tanto in doni di natura da non tentare Iddio giustamente si potrà giudicarlo chiamato al ministero della predicazione, né vi sarà ragione che il Vescovo non lo possa ammettere. Ed è quello stesso che intende il Concilio di Trento, quando stabilisce che il Vescovo non permetta di predicare ad alcuno che non sia ben provato per costumi e per dottrina. È quindi dovere del Vescovo assicurarsi per via di lunga ed accurata esperienza quanta sia la scienza e la virtù di coloro, ch’egli pensa d’incaricare dell’ufficio di predicare. E s’egli in ciò si dimostrasse troppo facile e trascurato, mancherebbe ad un suo gravissimo dovere, e sul suo capo ricadrebbe la colpa e degli errori profferiti dal predicatore ignorante e dello scandalo e mal esempio del malvagio. – Ma per facilitarvi l’adempimento dell’obbligo vostro in questo genere, o Venerabili Fratelli, ordiniamo che d’ora innanzi tutti coloro che domandano la facoltà di predicare abbiano a sostenere un doppio e severo giudizio, dei costumi e della scienza loro, così appunto come si suole per la facoltà di ascoltare le confessioni. E chiunque o per l’uno o per l’altro conto sia ritrovato manchevole, senza nessun riguardo, come inetto venga escluso da tale ufficio. Lo esige la dignità vostra, perché, come abbiamo detto, i predicatori fanno le vostre veci: lo esige il bene della santa Chiesa, nella quale, se altri mai dev’essere sale della terra e luce del mondo, ciò spetta a colui che è occupato nel ministero della parola (Mt 5,13-14).
Il fine e le forme della predicazione
Ben considerate queste cose, può sembrare superfluo il procedere a spiegare qual debba essere il fine e il modo della sacra predicazione. Giacché ove la scelta dei sacri oratori si faccia secondo la mentovata regola, che dubbio c’è che quelli, i quali sono adorni delle richieste qualità, si proporranno nel predicare una degna causa e si atterranno a una degna maniera? Tuttavia giova lumeggiare questi due capi, affinché tanto meglio apparisca perché mai talvolta venga a mancare in alcuni l’ideale del buon predicatore. – Che cosa i predicatori nell’adempiere al loro ufficio abbiano da avere innanzi agli occhi, si rileva da questo, che essi possono e debbono dire di sé quel di San Paolo: “Facciamo le veci di ambasciatori per Cristo” (2Cor V, 20). Se dunque sono ambasciatori di Cristo, nel compiere la loro ambasceria debbono volere quello stesso che Cristo intese nel darla loro: anzi quello che Egli stesso si propose, mentre visse sulla terra. Giacché gli Apostoli, e dopo gli Apostoli i predicatori, non ebbero missione diversa da quella di Cristo: “Come mandò me il Padre, anch’io mando voi” (Gv XX, 21). E sappiamo per che cosa Cristo discese dal cielo, avendo Egli apertamente dichiarato: “Io a questo fine son venuto nel mondo, di rendere testimonianza alla verità” (Gv XVIII, 37). “Io son venuto perché abbiano vita” (Gv X, 10). Quelli dunque che esercitano la sacra predicazione debbono mirare all’una e all’altra cosa, cioè a diffondere la verità da Dio rivelata, e a destare ed alimentare la vita soprannaturale in coloro che li ascoltano; in una parola, a promuovere la gloria di Dio, coll’attendere alla salute delle anime. Laonde, come a torto si direbbe medico chi non esercitò la medicina, o maestro di un’arte qualsiasi chi quell’arte non insegni, così chi predicando non si cura di condurre gli uomini a una più piena cognizione di Dio e sulla via dell’eterna salute, potremo dirlo un vano declamatore, non un predicatore evangelico. E così non ve ne fossero di siffatti declamatori!
Intenzioni dei falsi predicatori
E che cosa è poi quello da cui si lasciano soprattutto trasportare? Alcuni dalla cupidigia della gloria umana, per soddisfare alla quale “si studiano di dir cose più alte che adatte, ingenerando nelle deboli intelligenze stupore di sé, non operando la loro salute. Si vergognano di dir cose umili e piane, per non sembrar di saper solo queste… Si vergognano di allattare i pargoli” . E mentre il Signore Gesù dall’umiltà degli uditori voleva s’intendesse essere egli colui che si aspettava: “Si annunzia ai poveri il Vangelo” (Mt II, 5), quanto non brigano costoro per acquistarsi rinomanza dalla predicazione nelle grandi città e sui pulpiti primari? E poiché nelle cose rivelate da Dio ve n’ha di quelle che spaventano la debolezza della corrotta natura umana, e che per ciò non sono adatte ad adunare moltitudini, da esse cautamente si astengono e prendono a trattare argomenti ne’ quali, salvo la natura del luogo, niente v’ha di sacro. E non raro avviene, che nel trattar di verità eterne discendono alla politica, massime se qualche cosa di questo genere occupi fortemente gli animi degli uditori. Questo solo sembra essere il loro studio, di piacere agli uditori e imitar quelli che San Paolo dice lusingatori delle orecchie (2Tm IV, 3). Di qui quel gesto non pacato e grave, ma da scena e da comizio; di qui quelle patetiche modulazioni di voci o tragiche impetuosità; di qui quel modo di parlare proprio dei giornali; di qui quella copia di sentenze attinte dagli scrittori empii ed acattolici, non dalle divine Lettere né dai Santi Padri; di qui finalmente quella vertiginosità di parola che nei più d’essi si riscontra e che serve sì a ottundere le orecchie e a far stupire gli uditori, ma che non reca ad essi niente di buono da riportare a casa. Ora è incredibile di che inganno siano vittime cotali predicatori. Conseguano pure quel plauso degli stolti che essi cercano con tanta fatica e non senza profanazione: ma vale la spesa, quando con ciò essi vanno incontro al biasimo degli uomini savi, e, quel che è peggio, al tremendo giudizio severissimo di Cristo? – Se non che, Venerabili Fratelli, non tutti i predicatori che si allontanano dalle buone regole cercano, nel predicare, unicamente gli applausi. Il più delle volte quelli che si procurano siffatte manifestazioni lo fanno per giovarsene ad altro scopo anche meno onesto. Giacché dimenticando il detto di San Gregorio: “Il sacerdote non predica per mangiare, ma perciò deve mangiare perché predichi” , non sono rari coloro i quali, sentendo di non esser fatti per altri uffici, dove vivere con decoro, si sono dati alla predicazione, non per esercitare debitamente questo santissimo ministero, ma per fare i loro interessi. Vediamo quindi tutte le sollecitudini di costoro essere volte non a cercare dove si possa sperare un maggior frutto nelle anime, ma dove predicando v’è da guadagnare di più. – Ora da uomini siffatti non potendosi aspettar altro che danno e disonore per la Chiesa, dovete, Venerabili Fratelli, vigilare con ogni diligenza affinché, scoprendo qualcuno che faccia servire la predicazione alla sua vanità o all’interesse, lo rimoviate senza indugio dall’ufficio di predicare. Giacché chi non si perita di profanare cosa sì santa, non avrà certo ritegno di discendere ad ogni bassezza, spargendo una macchia d’ignominia non solo sopra di sé, ma anche sullo stesso sacro ministero, che così indegnamente egli compie. – E dovrà usarsi la stessa severità contro coloro che non predicano come si deve, per aver trascurati i necessari requisiti a compiere bene questo ministero. E quali siano questi, lo insegna coll’esempio suo colui che dalla Chiesa fu denominato il Predicatore della verità, Paolo Apostolo; ed oh se, per beneficio di Dio, avessimo molto maggior numero di predicatori simili a lui!
III. CONDIZIONI PER PREDICARE
La scienza necessaria
La prima cosa dunque che apprendiamo da San Paolo si è con che preparazione e dottrina egli intraprese a predicare. Né qui intendiamo degli studi ai quali egli aveva diligentemente atteso sotto il magistero di Gamaliele. Giacché la scienza in lui infusa per rivelazione, oscurava e quasi sopraffaceva quella che egli da sé si era procacciata: benché anche questa non gli giovò poco, come dalle sue Lettere si ricava. La scienza è affatto necessaria al predicatore, come dicemmo; della cui luce chi è privo facilmente erra, secondo la verissima sentenza del Concilio Lateranense IV: “L’ignoranza è la madre di tutti gli errori“. Tuttavia ciò non vuole intendersi di qualsiasi scienza, ma di quella che è propria del sacerdote e che si restringe, per dir tutto in poco, alla cognizione di sé, di Dio e dei doveri: di sé, diciamo, perché ognuno metta da parte i propri vantaggi; di Dio, perché conduca tutti a conoscerlo e ad amarlo; dei doveri, perché li osservi e insegni ad osservarli. La scienze delle altre cose, se manchi questa, gonfia e nulla giova.
Disponibilità senza condizioni
Ma vediamo qual fu nell’Apostolo la preparazione interiore. Nel che tre cose debbono massimamente tenersi sotto gli occhi. La prima, che San Paolo si abbandonò tutto alla divina volontà. Non appena infatti, mentr’era in cammino verso Damasco, fu tocco dalla virtù del Signore Gesù, egli proruppe in quella esclamazione, degna d’un Apostolo: “Signore, che vuoi tu che io faccia?” (At IX, 6). Per amor di Cristo, cominciò subito ad essergli indifferente, come gli fu poi sempre in appresso, il lavorare e il riposare, la penuria e l’abbondanza, la lode e il disprezzo, il vivere e il morire. Non è da dubitare che perciò egli profittasse tanto nell’apostolato, perché si sottomise con pieno ossequio alla volontà di Dio. Al modo stesso quindi innanzi tutto serva a Dio ogni predicatore che s’affatica alla salute delle anime: in maniera che non si dia alcun pensiero degli uditori, del successo, dei frutti, che sarà per avere: che cerchi, infine, non sé, ma Dio solo. – Questo studio poi così grande di prestare ossequio a Dio richiede un animo sì disposto a patire, che non si sottragga a nessuna fatica o incommodo. La qual cosa in Paolo fu insigne. Giacché avendo il Signore detto di lui: “Io gli farò vedere quanto debba egli patire per il nome mio” (At IX, 16), egli da allora abbracciò tutti i travagli sì volenterosamente da scrivere: “Sono inondato dall’allegrezza in mezzo a tutte le nostre tribolazioni” (2Cor VII, 4). Ora questa tolleranza della fatica se nel predicatore sia segnalata, purificandolo da quel che in lui v’è di umano, e conciliandogli la grazia di Dio necessaria per far frutto, è incredibile quanto renda commendevole la sua opera agli occhi del popolo cristiano. Al contrario poco riescono a muover gli animi, quelli che dovunque vanno, cercano comodità più del giusto, e fuori delle loro prediche, non toccano quasi altro del sacro ministero; sì da apparire che essi badino più alla propria sanità, che al vantaggio delle anime. In terzo luogo finalmente dall’Apostolo s’impara che al predicatore è necessario quello che si dice lo spirito di orazione: egli infatti come prima fu chiamato all’apostolato, cominciò a pregar Dio: “Ei già fa orazione” (At IX, 11). E la ragione è perché non coll’abbondanza del dire, né col discutere sottilmente o col caldamente perorare si ottiene la salute delle anime: un predicatore che si fermi qui non è altro che “un bronzo sonante o un cembalo squillante” (1Cor XIII, 1). Ciò che dà vigore alle parole dell’uomo e le fa mirabilmente efficaci a salute, è la divina grazia: “Dio diede il crescere” (1Cor III, 6). Or la grazia di Dio non si ottiene con lo studio e coll’arte, ma s’impetra con la preghiera. Onde chi poco o niente è dedito all’orazione, indarno spende la sua opera e la sua diligenza nella predicazione, perché innanzi a Dio non caverà nessun profitto né per sé né per gli uditori.
Dottrina e pietà
Pertanto, a restringere in poco quanto siamo venuti dicendo fin qui, ci serviamo di queste parole di San Pietro Damiano: “Al predicatore due cose sono sommamente necessarie, cioè dire, che sovrabbondi di sentenze della dottrina sacra e fiammeggi dello splendore di religiosa vita. Che dove un sacerdote non riesca ad unire in sé le due cose, di guisa che sia esemplare di vita e copioso dei doni di dottrina, è meglio senza dubbio la vita che la dottrina… Più vale la chiarezza della vita per l’esempio, che l’eloquenza e l’accurata eleganza dei discorsi… È necessario che il sacerdote, che esercita l’ufficio della predicazione, versi piogge di dottrina spirituale ed irraggi lume di vita religiosa: a maniera di quell’Angelo, il quale annunziando ai pastori il nato Signore, balenò d’uno splendore di chiarezza, ed espresse con parole ciò che era venuto ad evangelizzare” .
Predicare tutta la verità e tutti i precetti
Ma per ritornare a San Paolo, se esaminiamo di quali cose fosse solito trattare predicando, egli compendia tutto così: “Non mi credetti di sapere altra cosa tra di noi, se non Gesù Cristo, e questo crocifisso” (1Cor II, 2). Fare che gli uomini conoscessero sempre più Gesù Cristo, e d’una cognizione che giovasse a vivere e non a credere soltanto, ecco quello a che egli s’affaticò con tutto il vigore del suo petto. E però predicava tutti i dommi o precetti di Cristo anche i più severi senza nessuna reticenza o temperamento, intorno all’umiltà, all’abnegazione di sé, alla castità, al disprezzo delle cose terrene, all’obbedienza, al perdono dei nemici o simili. Né mostrava alcuna timidezza nel proclamare: che si scelga tra Dio e Belial, perché non si può servire ad entrambi; che tutti, appena escono di questa vita, hanno a presentarsi a un tremendo giudizio; che con Dio non c’è luogo a transazioni; che o è da sperare la vita eterna, se si osserva tutta la legge, o, se per secondare le passioni si trascura il dovere, è da aspettarsi il fuoco eterno. Né mai il Predicatore della verità stimò di astenersi da siffatti argomenti per la ragione che, data la corruzione dei tempi, sembrassero troppo duri a coloro ai quali parlava. Apparisce chiaro dunque come non siano da approvare quei predicatori, che non osano toccare certi capi di dottrina cristiana, per non riuscir molesti all’uditorio. Forse che il medico darà rimedii inutili all’infermo, se questi per caso abborrisca dagli utili? E poi qui si parrà la virtù e l’abilità dell’oratore, se egli le cose ingrate avrà col suo dire rese grate.
Non serve la sapienza del mondo
Gli argomenti poi che aveva preso a trattare in che modo l’Apostolo li esponeva? “Non nelle persuasive dell’umana sapienza” (1Cor II, 4). Quanto importa, Venerabili Fratelli, che ciò sia da tutti sommamente ritenuto, mentre vediamo non pochi oratori sacri che predicano mettendo da parte la Sacra Scrittura, i Padri e i Dottori della Chiesa e gli argomenti della sacra teologia, e non parlano se non quasi solo il linguaggio della ragione. Ed è, senza dubbio, uno sbaglio: giacché nell’ordine soprannaturale non si riesce a nulla coi soli amminicoli umani. – Ma si oppone: al predicatore il quale si fondi troppo sulle verità rivelate, non si presta fede. – È proprio vero? Ammettiamo pure che ciò avvenga presso gli acattolici: sebbene, quando i Greci cercavano la sapienza, s’intende, di questo mondo, l’Apostolo predicava Gesù Crocifisso. Ma, se volgiamo gli occhi alle popolazioni cattoliche, in esse coloro che sono alieni da noi, ritengono per lo più la radice della Fede: le menti infatti sono accecate perché son corrotti gli animi. – Finalmente con quale spirito predicava San Paolo? Non per piacere agli uomini, ma a Cristo: “Se piacessi agli uomini, non sarei servo di Cristo” (Gal I,10). Con un’anima tutt’accesa della carità di Cristo, non altro cercava se non la gloria di Cristo. O se quanti s’affaticano nel ministero della parola, amassero tutti davvero Gesù Cristo, e potessero far proprie l’espressioni di San Paolo: “Per causa di cui (Gesù Cristo) ho giudicato un discapito tutte le cose” (Fil III, 8); e “Il mio vivere è Cristo” (Fil III, 8). Tanto quelli che ardono d’amore, sanno infiammare gli altri. Onde San Bernardo così ammonisce il predicatore: “Se tu bene intendi, cerca d’esser conca e non canale” ; cioè di quel che dici sii pieno tu stesso, e non ti basti solo trasfonderlo negli altri. “Ma – come lo stesso Dottore soggiunge – oggi nella Chiesa abbiamo molti canali e pochissime conche”. – Affinché ciò non accada in avvenire, dobbiamo rivolgere tutti i nostri sforzi, o Venerabili Fratelli: a noi spetta, respingendo gl’indegni, e incoraggiando, formando, guidando gl’idonei, fare che di predicatori, secondo il cuore di Dio, ne sorgano quanti più si può. – Pieghi poi lo sguardo sul suo gregge il misericordioso Pastore eterno, Gesù Cristo, anche per le preghiere della Vergine Santissima, Madre augusta dello stesso Verbo incarnato e Regina degli Apostoli; e rinfocolando lo spirito dell’apostolato nel Clero, faccia che siano numerosi quelli che cerchino “di comparir degni d’approvazione davanti a Dio, operai non mai svergognati, che rettamente maneggino la parola di verità” (2Tm II,15). – Auspice dei doni divini e in attestato della nostra benevolenza, a voi, o Venerabili Fratelli, e al vostro Clero e popolo impartiamo con ogni affetto l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma presso San Pietro, il 15 giugno, festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, dell’anno 1917, terzo del nostro Pontificato.