UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “UBI PRIMUM”

Quanta delicatezza, sapienza, rettitudine di intenti, paterne esortazioni, contiene questa prima lettera enciclica dell’appena eletto Cardinal Lambertini al soglio di Pietro, con il nome di Benedetto XIV. Con grande lungimiranza il Sommo Pontefice comprende che il futuro della Chiesa di Cristo e la sua stabilità morale e dottrinale dipende dalle capacità ed dalla volontà benigna dei Vescovi, successori degli Apostoli ed in comunione con il Vicario di Cristo. Quando le sette della perdizione concepirono il turpe disegno di infiltrare la Chiesa di Cristo per poterla demolire dall’interno – si fieri potest – si concentrarono sui chierici più coriacei – ad esempio i Gesuiti – e particolarmente sui Vescovi cercando, fin dai primi anni di seminario, di avvelenare con falsi sofismi e gnostiche teologie la purissima dottrina evangelica ed il Magistero perenne della Chiesa. Certo la loro opera di infiltrazione minante la sacra Gerarchia è stata lunga e paziente, ma hanno trovato varchi e smagliature dottrinali e liturgiche, oltre che incompetenze e complicità accidiose e infingardia in chi doveva vegliare con attenzione sul gregge preso d’assalto da lupi voraci, lupi che dal 26 ottobre del 1958 e con il conciliabolo successivo anatemizzato con mezzo millenio d’anticipo, hanno preso il sopravvento, ed in tutta tranquillità oggi sbranano pecorelle ed agnelli ignari ma complici per ignoranza colpevole, ingannati da una falsa pietà ed affettata santità, da sorrisetti ammiccanti ed ironici, da un parlare da drago, come recita l’Apocalisse, ben mascherando gli empi propositi – sepolcri imbiancati rivestiti da corna ed insegne luciferine – di condurre tante anime costate sangue al Figlio di Dio incarnato e lacrime alla Madre nostra Maria, all’inferno dai loro capi demoniaci ai quali sono soggetti e referenti. Ma certo la loro opera infame è destinata a perire ed esaurirsi, con il giudizio finale di Cristo Giudice e dei suoi Apostoli seduti sui troni a giudicare con infallibile giustizia chi ha servito rettamente il Figlio di Dio-uomo, e chi ha abusato del suo Nome per servire il signore dell’universo, il baphomet-lucifero imperante nelle false chiese della sinagoga di satana vaticana. E là … sarà pianto e stridor di denti.


Benedetto XIV
Ubi primum

Allorché piacque a Dio, ricco di misericordia, collocare la Nostra umile persona nella Sede suprema del Beato Pietro e assegnare a Noi, benché nessun merito Ci raccomandi, la vicaria potestà di Nostro Signore Gesù Cristo per il governo di tutta la sua Chiesa, Ci sembrò che alle Nostre orecchie risonasse quella voce divina: “Pascola i miei agnelli; pascola le mie pecore“; cioè che fosse imposta al Romano Pontefice, successore dello stesso Pietro, la missione di guidare non solo gli agnelli del gregge del Signore, che sono i popoli sparsi per tutta la terra, ma anche le pecore, cioè i Vescovi, che, come le madri per gli agnelli, generano i popoli in Gesù Cristo e una seconda volta li partoriscono. – Accettate dunque, Fratelli, con questa nostra lettera, anche le parole del Vostro Pastore. Chiamati al compito di spronare, nella pienezza del mandato affidatoci da Dio, Voi comprendete quanto nei Nostri stessi inviti e nelle Nostre esortazioni Ci stia a cuore di non trascurare nessuno dei Nostri doveri, e quanto grande sia la forza della Nostra paterna carità verso di voi: in forza di essa, siamo portati a desiderare al massimo che dal profitto delle sante pecore provengano gioie eterne ai Pastori.

1. Innanzi tutto, in verità, operate con impegno e con ogni Vostra possibilità affinché l’integrità dei costumi e lo studio del culto divino risplendano nel Clero, e che la disciplina ecclesiastica sia conservata integra e sana, e sia ristabilita là dove sia caduta. È abbastanza noto, infatti, che non vi è nulla che più efficacemente ammaestri, stimoli e infiammi tutto il popolo alla pietà, alla religione e alle norme della vita cristiana quanto l’esempio di coloro che si sono dedicati al Divino ministero. – Pertanto l’acutezza della Vostra mente deve essere rivolta prima di tutto a far sì che con accurata scelta siano iscritti alla milizia clericale coloro dai quali a ragione si può prevedere che la loro vita sia oggetto di ammirazione da parte di quanti camminano nella legge del Signore, procedono di virtù in virtù e con la loro opera portano un vantaggio spirituale alle Vostre Chiese. Per certo, è meglio avere pochi Ministri, ma onesti, idonei ed utili, che molti i quali non siano per nulla destinati all’edificazione del Corpo di Cristo, che è la Chiesa. Voi, Fratelli, non ignorate quanta prudenza richiedano in proposito ai Vescovi i Sacri Canoni; quindi non lasciatevi distogliere da quanto prescritto (che deve essere osservato totalmente) né da qualsiasi rispetto umano, né da inopportune suggestioni dell’ambiente, né da richieste di patrocinatori. Soprattutto bisogna osservare il precetto dell’Apostolo, di non ordinare nessuno troppo frettolosamente, allorché si tratta di promuovere qualcuno ai Sacri Ordini e ai Santissimi Ministeri, dei quali nulla è più divino. – Infatti non basta l’età che le sacre leggi della Chiesa prescrivono per ciascun Ordine, né indiscriminatamente deve aprirsi il passaggio a posizioni più elevate, quasi di diritto, a tutti coloro che siano già stati posti in qualche Ordine inferiore. Voi dovete con grande attenzione e diligenza indagare se il modo di vivere di coloro che hanno preso i primi Ministeri sia stato conforme, e il loro progresso nelle sacre dottrine sia stato tale che veramente si debbano giudicare degni di sentirsi dire: “Sali più in alto“. Quanto è meglio, inoltre, che taluni rimangano ad un grado inferiore, piuttosto che siano promossi ad uno più alto, con maggior pericolo per loro e motivo di scandalo per gli altri.

2. E giacché importa soprattutto che coloro i quali sono chiamati al servizio del Signore siano formati fin dalla giovane età alla pietà, all’integrità dei costumi e alla disciplina canonica (come le pianticelle novelle nel loro inizio), Vi deve quindi stare a cuore che, dove eventualmente non siano ancora stati istituiti i Seminari dei Chierici, vengano istituiti quanto prima possibile, o siano ampliati quelli già esistenti se, data la situazione della Chiesa, vi sia bisogno di un numero maggiore di Alunni, impiegando a questo scopo i mezzi che i Vescovi hanno già il potere di procurare, e ai quali Noi ne aggiungeremo altri se da Voi saremo informati della loro necessità. – In verità è indispensabile che gli stessi Collegi siano vigilati dalla Vostra particolare cura: ispezionandoli spesso; esaminando la vita, l’indole e il progresso negli studi dei singoli adolescenti; destinando maestri preparati e uomini forniti di spirito ecclesiastico per la loro formazione; onorando talvolta le loro esercitazioni letterarie o le funzioni ecclesiastiche con la Vostra presenza; infine concedendo alcuni privilegi a coloro che abbiano dato più evidente prova dei loro meriti ed abbiano riportato maggiore lode. Non Vi pentirete di avere somministrato tale irrigazione a questi arboscelli durante la loro crescita; anzi la Vostra opera Vi porterà consolanti frutti nella copiosa abbondanza di buoni operai. Senza dubbio molto spesso i Vescovi furono soliti lamentarsi che la messe era molta e gli operai pochi; ma forse avrebbero dovuto anche dolersi di non aver dedicato essi stessi lo zelo necessario per formare operai pari e adeguati alla messe. Infatti i buoni e valorosi operai non nascono, ma si fanno; e spetta soprattutto alla solerzia e all’impegno dei Vescovi che si facciano.

3. Inoltre è della massima importanza che la cura delle anime sia affidata a coloro che per dottrina, pietà, purezza di costumi e per insigni esempi di buone opere possono far luce negli altri in tal misura da essere giudicati luce e sale del popolo. Costoro sono veramente i primi Vostri collaboratori nell’istruire, reggere, purificare, dirigere sulla via della salvezza, e incitare alle virtù cristiane il gregge a Voi affidato. Quindi è facile comprendere quanto debba starvi a cuore che siano prescelti all’ufficio parrocchiale coloro che meritatamente siano giudicati i più idonei a dirigere utilmente le folle. Ma soprattutto insistete perché tutti coloro che hanno cura d’anime nutrano di salutari parole (almeno le domeniche e nelle altre feste comandate) le genti loro affidate, secondo la propria e la loro capacità, insegnando tutto ciò che i fedeli di Cristo devono apprendere per la loro salvezza e spiegando gli articoli della legge divina, i dogmi della Fede e inculcando nei fanciulli i rudimenti della Fede stessa, dopo aver rimosso del tutto ogni cattiva abitudine, dovunque si manifesti. – E invero, come potranno dare ascolto, se manca il predicatore? O in che modo i popoli potranno comprendere una legge che prescrive un giusto credo e un giusto comportamento, se i pastori di anime saranno stati, in tale ufficio, pigri, negligenti e inoperosi? Non si può comprendere compiutamente con l’animo o spiegare con le parole quanto danno per la Repubblica Cristiana derivi dalla negligenza di coloro, ai quali è affidata la cura delle anime, soprattutto nell’insegnare ai fanciulli il catechismo. Sarà poi di grande vantaggio se vi impegnerete in modo che tanto coloro che hanno cura d’anime, quanto coloro che sono destinati a ricevere le confessioni dei penitenti, per alcuni giorni e ogni anno attendano agli esercizi spirituali: certamente in tale pio ritiro si rinnoveranno nella loro vita spirituale e dall’alto saranno rivestiti di virtù idonee a compiere con più premura e alacrità quei doveri che si rivolgono alla gloria di Dio, al profitto e alla salute spirituale del prossimo.

4. In verità già sapete, Fratelli, che per divino precetto fu ordinato a tutti i Pastori di anime di conoscere le loro pecorelle e di nutrirle con la predicazione del verbo divino, con la somministrazione dei Sacramenti e con l’esempio di ogni opera buona; ma non possono affatto adempiere a questi e agli altri doveri pastorali, come è ovvio, coloro che non vigilano, e non assistono il loro gregge, e non custodiscono assiduamente la vigna del Signore alla quale sono stati preposti come custodi. Pertanto dovete rimanere nel vostro posto di guardia, e conservare nella Vostra Chiesa, o Diocesi, la residenza personale alla quale siete obbligati dal vincolo del Vostro incarico, conforme a quanto dichiarano e prescrivono chiaramente numerosi decreti dei Concili generali e le Costituzioni dei Nostri Predecessori. Guardatevi poi dal credere che sia consentito ai Vescovi essere assenti per tre mesi ogni anno per capriccio o per qualsivoglia motivo. Perché ciò sia lecito ai Vescovi, occorre che una giusta causa richieda una tale assenza, e che ad un tempo si escluda che al gregge possa derivarne alcun danno. – Ricordate inoltre che il futuro Giudice sarà Colui agli occhi del quale tutte le cose sono nude e aperte, perciò fate in modo che la causa sia veramente tale da trovar credito presso questo supremo Principe dei Pastori che quanto prima vi chiederà conto del sangue delle pecore a Voi affidate. In questo processo, invano il Pastore cercherà di difendersi con la scusa che il lupo ha rubato e divorato le pecore mentre egli era assente e ignaro; infatti, se si esamina la questione fino in fondo, appare evidente che nessun male o scandalo si manifesta in una Diocesi tanto abbandonata, che non sia da attribuire a colui che doveva richiamare con le sue ammonizioni i sudditi che uscivano dal retto sentiero, sollecitarli con l’esempio, animarli con le parole, tenerli a freno con l’autorità e con la carità. Chi poi non comprende che è molto meglio affrontare le questioni altrove, quando fosse necessario, per mezzo di altri, piuttosto che dallo stesso Vescovo dimorante fuori della sua Diocesi; e che l’impegno, certo più urgente di tutti, di custodire e dirigere il gregge, sia assolto direttamente dal Vescovo e non attraverso intermediari? Infatti, tali ministri siano pure idonei e stimati quanto si vuole, tuttavia il gregge non è così aduso ad ascoltare la loro voce, come la voce del suo vero pastore; e per vasta esperienza è risaputo che la loro opera vicaria non sostituisce a sufficienza la vigilanza e l’azione dello stesso Vescovo, che è soccorso dalla grazia particolare dello Spirito Santo.

5. A queste cose Vi ammoniamo ed esortiamo, Fratelli, perché come anche in ogni amministrazione domestica nulla è più utile del fatto che lo stesso padre di famiglia guardi bene di frequente tutto, e promuova con la sua vigilanza l’operosità e la diligenza dei suoi, così Vi comandiamo di visitare Voi stessi le Vostre Chiese e le Vostre Diocesi (a meno che intervenga una grave e legittima causa, che imponga che ciò sia affidato ad altri), affinché conosciate Voi stessi le Vostre pecore e il volto del Vostro gregge. – Quella sicurissima sentenza, che sopra abbiamo ricordata, che non è ammessa scusa per il pastore se il lupo mangia le pecore, e il pastore non lo sa, è certamente ispirata da grande paura e terrore. Senza dubbio il Vescovo ignorerà molte cose, molte gli rimarranno nascoste, o quantomeno le apprenderà più tardi del necessario, se non si reca in ogni parte della sua Diocesi. Se di persona non vede, non ascolta, non verifica dovunque, non sa a quali mali porgere la medicina e quali siano le cause di essi e in quale modo possa con lungimiranza provvedere a che essi, una volta repressi, non possano manifestarsi di nuovo. Inoltre, è tale la fragilità umana che nel campo del Signore (la cura del quale è affidata al Vescovo) a poco a poco crescono sterpi, spine ed erbe inutili e dannose, qualora il coltivatore non ritorni spesso a tagliarle; perciò la stessa floridezza, ottenuta con le sue vigili fatiche, con l’andar del tempo finirà per affievolirsi. Ma non è neppure sufficiente che le Diocesi siano da Voi visitate e che con le Vostre opportune disposizioni si provveda alla loro gestione: vi resta ancora il compito di controllare, con ogni sforzo, che sia veramente messo in pratica tutto ciò che durante le visite fu convenuto. Infatti sarà nulla l’utilità delle leggi, anche se ottime, se ciò che fu stabilito a parole non è tradotto correttamente nei fatti da chi ne ha il mandato. Perciò, dopo che avrete preparato farmaci salutari per espellere o allontanare le malattie delle anime, non per questo il Vostro zelo si attenui, ma dovrete sollecitare con ogni Vostra energia l’applicazione delle disposizioni da Voi impartite; e conseguirete questo scopo soprattutto per mezzo di visite reiterate.

6. Da ultimo, per dire molte cose in breve, Fratelli, è opportuno che in ogni funzione sacra ed ecclesiastica e in ogni esercizio del culto Divino e della pietà, Voi stessi siate promotori, conduttori e maestri, perché sia il Clero, sia tutto il gregge attingano luce quasi dallo splendore della Vostra santità e si riscaldino alla fiamma della Vostra carità. Pertanto nella frequente e devota offerta del tremendo Sacrificio, durante la solenne celebrazione delle Messe, nell’amministrare i Sacramenti, nell’esercizio degli Uffici Divini, nella pompa e nella lucentezza dei templi, nella disciplina della Vostra casa e della Vostra famiglia, nell’amore dei poveri e nell’aiuto che recherete loro, nel visitare e soccorrere gl’infermi, nell’ospitare i pellegrini, infine in ogni manifestazione della virtù Cristiana, sarete Voi il modello del Vostro gregge, in modo che tutti siano Vostri imitatori, come Voi di Cristo, così come conviene ai Vescovi, che lo Spirito Santo pose a governare la Chiesa di Dio, che Egli conquistò col suo sangue. Considerate spesso gli Apostoli, al posto dei quali siete subentrati, per seguire le loro orme nel sopportare le fatiche, le veglie, gli affanni; nel tener lontani i lupi dai Vostri ovili, nell’estirpare le radici dei vizi, nell’esporre la legge evangelica, nel ricondurre a salutare penitenza coloro che hanno peccato. Vi sarà accanto, per certo, Dio onnipotente e misericordioso, il cui soccorso ci rende tutto possibile; a Voi non verrà meno neppure l’aiuto dei Principi religiosi, come senza alcun dubbio crediamo. Inoltre da questa Santa Sede non Vi mancheranno gli aiuti ogni volta che riterrete necessaria la Nostra apostolica autorità. Pertanto con grande coraggio e con grande fiducia venite a Noi, Voi tutti, che amiamo come fratelli, collaboratori e Nostra corona in nome di Gesù Cristo; venite alla Santa Romana Chiesa, madre, guida e maestra Vostra e di tutte le Chiese, da dove ebbe origine la Religione e dove è la pietra della Fede, la fonte dell’unità dei sacerdoti, la dottrina dell’incorrotta verità; nulla infatti può essere per Noi più desiderato e più gradito che insieme con Voi essere al servizio della gloria di Dio e affaticarci per la custodia e la diffusione della Fede Cattolica; per salvare le anime verseremmo con somma gioia, se fosse necessario, il Nostro stesso sangue e la Nostra vita. E ora Vi inciti e Vi stimoli nella Vostra corsa la grande e sicura ricompensa che Vi attende.

Infatti quando apparirà il Principe dei Pastori, riceverete l’incorruttibile corona della gloria, la corona della giustizia che è stata riservata ai fedeli interpreti dei misteri di Dio e agli strenui e vigili custodi della casa d’Israele che è la Santa Chiesa dello stesso Dio. Noi che per quanto indegni facciamo le Sue veci in terra, molto affettuosamente benediciamo Voi Fratelli e con paterno amore impartiamo la Nostra stessa Apostolica Benedizione anche al Vostro Clero e al Vostro fedele popolo.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 3 dicembre 1740, anno primo del Nostro Pontificato.

DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2020)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La liturgia fa leggere nell’Ufficio divino la storia di Ester verso quest’epoca (5a Domenica di Settembre). Reputiamo quindi cosa utile, al fine di rivedere ogni anno con la Chiesa tutte le figure dell’Antico Testamento e per Continuare a studiare le Domeniche dopo Pentecoste in corrispondenza del Breviario, di parlare in questo giorno di Ester. – L’lntroito della Domenica 21 – dopo Pentecoste è la preghiera di Mardocheo. Non potremo noi vedervi un indizio della preoccupazione della Chiesa di unire, a questo periodo liturgico, la stona di Ester ad una Messa di questo Tempo?

« Assuero, re di Susa in Persia, aveva scelto per prima regina Ester, nipote di Mardocheo. Aman, l’intendente del palazzo, avendo osservato che Mardocheo rifiutava di piegare le ginocchia davanti a lui, entrò in grande furore e, saputo che era ebreo, giurò dì sterminare insieme a lui tutti quelli che fossero della sua razza. Accusò quindi al re gli stranieri che si erano stabiliti in tutte le città dei suo regno e ottenne che venisse dato ordine di massacrarli tutti. Quando Mardocheo lo seppe, si lamentò e fu presso tutti gli Israeliti un gran duolo.- Mardocheo disse allora a Ester che essa doveva informare il re di quanto tramava Aman, fosse pure col pericolo della sua vita medesima. » Se Dio ti ha fatta regina, non fu forse in previsione di giorni simili? ». Ed Ester digiunò tre giorni con le sue ancelle; e il terzo giorno, adorna delle sue vesti regali, si presentò davanti al re e gli domandò di prender parte ad un banchetto con lui e Aman. Il re acconsentì. E durante questo banchetto Ester disse al re: « Noi siamo destinati, io e il mio popolo, ad essere oppressi e sterminati ». Assuero sentendo che Ester era giudea, e che Mardocheo era suo zio, le disse: « Chi è colui che osa far questo? ». Ester rispose: « Il nostro avversario e nostro nemico è questo crudele Aman ». Il re, irritato contro il suo ministro, si levò e comandò che Aman fosse impiccato sulla forca che egli stesso aveva fatto preparare per Mardocheo. E l’ordine fu eseguito immediatamente, mentre veniva revocato l’editto contro i Giudei. Ester aveva salvato il suo popolo e Mardocheo divenne quel giorno stesso ministro favorito del re e uscì dal palazzo portando la veste regale azzurra e bianca, una grande corona d’oro e il mantello di porpora, e al dito l’anello regale ». — Il racconto biblico ci mostra come Dio vegli sul suo popolo e lo preservi in vista del Messia promesso. « Io sono la salvezza del popolo, dice il Signore, in qualunque tribolazione mi invochino, li esaudirò e sarò il loro Signore » (Introito). « Quando cammino nella desolazione Tu mi rendi la vita, Signore. Al disopra dei miei nemici, accesi d’ira, tu mi stendi la mano e la tua destra mi assicura la salvezza » (Off.); il Salmo del Communio parla del giusto che è oppresso dall’afflizione e che Dio non abbandona; quello del Graduale, ci mostra come, rispondendo all’appello di coloro che in Lui sperano, Dio fa cadere i peccatori nelle loro proprie reti; il Salmo dell’Alleluia canta tutte le meraviglie che il Signore ha fatto per liberare il suo popolo. Tutto questo è una figura di quanto Dio non cessa di fare per la sua Chiesa e che farà in modo speciale alla fine del mondo. Aman che il re condannò durante il banchetto in casa di Ester, è come l’uomo che è entrato al banchetto di nozze di cui parla il Vangelo, e che il re fece gettar nelle tenebre esteriori, perché non aveva la veste di nozze, cioè « perché non era rivestito dell’uomo novello che è creato a somiglianza di Dio nella vera giustizia e nella santità, per non aver deposto la menzogna e i sentimenti di collera, che nutriva in cuore verso il prossimo» (Epistola). Cosi iddio tratterà tutti coloro che, pur appartenendo al corpo della Chiesa per la loro fede, sono entrati nella sala del banchetto senza essere rivestiti, dica S. Agostino, della veste della carità. Non essendo vivificati dalla grazia santificante, non appartengono all’anima del Corpo mistico di Cristo, e rinunziando alla menzogna, dice S. Paolo, ognuno di voi parli secondo la verità al suo prossimo, perché siamo membri gli uni degli altri. Possa il sole non tramontare sull’ira vostra » (Epistola). E quelli che non avranno adempiuto a questo precetto saranno dal Giudice supremo gettati nel supplizio a dell’inferno, come pure gli Ebrei che hanno rifiutato l’invito al pranzo di nozze del figlio del re, cioè di Gesù Cristo con la sua sposa che è la Chiesa (2° Notturno) e che hanno messo a morte profeti e gli Apostoli recanti loro questo invito. — Assuero in collera, fece impiccare Aman. Anche il Vangelo ci narra che il re montò in furore, inviò i suoi eserciti per sterminare quegli assassini e bruciò la loro città. Più di un milione di Giudei morirono nell’assedio di Gerusalemme per opera di Tito, generale dell’esercito romano, la città fu distrutta e il Tempio incendiato. Aman infedele, fu sostituito da Mardocheo; gli invitati alle nozze furono sostituiti da coloro che i servi trovarono ai crocicchi. I Gentili presero il posto degli Ebrei e verso di quelli si volsero gli Apostoli, riempiti di Spirito Santo, nel giorno di Pentecoste. E al Giudizio universale, che annunziano le ultime domeniche dell’anno, queste sanzioni saranno definitive. Gli eletti prenderanno parte alle nozze eterne e i dannati saranno precipitati nelle tenebre esteriori e nelle fiamme vendicatrici, ove sarà pianto e stridore di denti.

Bisogna spogliarsi dell’uomo vecchio, dice S. Paolo, come ci si toglie una veste vecchia e rivestirsi di Cristo come ci si mette una veste nuova. Bisogna dunque rinunziare alla concupiscenza traditrice delle passioni che, come figli di Adamo, abbiamo ereditato, e aderire a Cristo accettando la verità evangelica, che ci darà la santità nei nostri rapporti con Dio e la giustizia nei nostri rapporti col prossimo.

« Dio Padre, dice S. Gregorio, ha celebrate le nozze di Dio suo Figlio, allorché l’unì alla natura umana nel seno della Vergine. E le ha celebrate specialmente allorché, per mezzo dell’Incarnazione, lo unì alla santa Chiesa. Inviò due volte i servi per invitare i suoi amici alle nozze, perché i Profeti hanno annunziata l’Incarnazione del Figlio di Dio come cosa futura e gli Apostoli come un fatto compiuto. Colui che si scusa col dover andare in campagna, rappresenta chi è troppo attaccato alle cose della terra; l’altro che si sottrae col pretesto degli affari, rappresenta chi desidera smodatamente i guadagni materiali. E ciò che è più grave, è che la maggior parte non solo rifiutano la grazia data loro di pensare al mistero dell’Incarnazione e di vivere secondo i suoi insegnamenti, ma la combattono. La Chiesa presente è chiaramente indicata dalla qualità dei convitati, tra i quali si trovano coi buoni anche I cattivi. — Cosi il grano si trova mescolato con la paglia e la rosa profumata germoglia con le spine che pungono. — All’ultima ora Dio stesso farà la separazione dei buoni dai cattivi che ora la Chiesa contiene. Quegli che entra al festino nuziale senza l’abito di nozze appartiene alla Chiesa colla fede, ma non ha la carità. Giustamente la carità è chiamata abito nuziale perché essa era posseduta dal Creatore allorché si unì alla Chiesa. Chi per la carità è venuto in mezzo agli uomini ha voluto che questa carità fosse l’abito nuziale. Allorché uno è invitato alle nozze in questo mondo, cambia di abiti per mostrare che partecipa alla gioia della sposa e dello sposo e si vergognerebbe di presentarsi con abiti spregevoli in mezzo a tutti quelli che godono e celebrano questa festa. Noi che siamo presenti alle nozze del Verbo, che abbiamo fede nella Chiesa, che ci nutriamo delle Sante Scritture e che gioiamo dell’unione della Chiesa con Dio, rivestiamo dunque il nostro cuore dell’abito della carità, che deve comprendere un doppio amore: quello di Dio e quello per il prossimo. Scrutiamo bene i nostri cuori per vedere se la contemplazione di Dio non ci faccia dimenticare il prossimo e se le cure verso il prossimo non ci facciano dimenticare Dio. La carità è vera se si ama il prossimo in Dio e se si ama teneramente il nemico per amore di Dio » (Omelia del giorno).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum

[Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.]

Ps LXXVII: 1
Attendite, pópule meus, legem meam: inclináte aurem vestram in verba oris mei.
[Ascolta, o popolo mio, la mia legge: porgi orecchio alle parole della mia bocca.]

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum

[Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.].

Oratio

Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, univérsa nobis adversántia propitiátus exclúde: ut mente et córpore páriter expedíti, quæ tua sunt, líberis méntibus exsequámur.

[Onnipotente e misericordioso Iddio, allontana propizio da noi quanto ci avversa: affinché, ugualmente spediti d’anima e di corpo, compiamo con libero cuore i tuoi comandi.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 23-28
“Fratres: Renovámini spíritu mentis vestræ, et indúite novum hóminem, qui secúndum Deum creátus est in justítia et sanctitáte veritátis. Propter quod deponéntes mendácium, loquímini veritátem unusquísque cum próximo suo: quóniam sumus ínvicem membra. Irascímini, et nolíte peccáre: sol non occídat super iracúndiam vestram. Nolíte locum dare diábolo: qui furabátur, jam non furétur; magis autem labóret, operándo mánibus suis, quod bonum est, ut hábeat, unde tríbuat necessitátem patiénti.”

(“Fratelli: Rinnovatevi nello spirito della vostra mente, e rivestitevi dell’uomo nuovo, che è creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità. Perciò, deposta la menzogna, ciascuno parli al suo prossimo con verità: poiché siamo membri gli uni degli altri. Nell’ira siate senza peccato: il sole non tramonti sul vostro sdegno. Non lasciate adito al diavolo. Colui che rubava non rubi più: piuttosto s’affatichi attendendo con le proprie mani a qualche cosa di onesto, per aver da far parte a chi è nel bisogno.”)

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,

I CARATTERI DELL’UOMO NUOVO

L’epistola è tolta dalla lettera di San Paolo agli Efesini. Nei versetti precedenti l’Apostolo aveva scongiurato gli Efesini a non imitare la vita dei pagani, tra i quali essi vivevano; ma a conformare la loro condotta alla santità inculcata da Gesù Cristo. Perciò, come segue a dire nell’epistola riportata, bisogna deporre il vecchio uomo con tutte le sue inclinazioni, come si depone un vecchio vestito; e bisogna, invece, come si indossa un nuovo vestito, rivestirsi dell’uomo nuovo, rigenerato dalla grazia nella verità e nella giustizia, non più deturpato dagli errori e dalle brutture di prima. Accenna ad alcuni peccati che devono deporsi e ad alcune virtù di cui bisogna rivestirsi: devono rinunciare alla menzogna per praticare la verità; rinunciare alla collera per praticare la dolcezza; rinunciare al furto per praticare il lavoro e l’elemosina. Da quanto è detto nell’epistola possiamo dedurre chi i caratteri dell’uomo nuovo sono:

1. Il bando alle cattive abitudini,

2. La pratica del bene,

3. La riparazione.

1.

Rinnovatevi nello spirito della vostra mente, e rivestitevi dell’uomo nuovo.

Nessuno vorrà farsi la domanda che S. Agostino pone in bocca a coloro che vogliono esimersi dal praticare ciò che dall’Apostolo viene inculcato. « Come mi spoglierò dell’uomo vecchio, e mi rivestirò dell’uomo nuovo? Forse io, come terzo uomo, deporrò l’uomo vecchio che possedevo, e prenderò l’uomo nuovo che non possedevo, e così si debbano intendere tre uomini?…» (En. in Ps. XXV, 1). Io dico: Rivestitevi dell’uomo nuovo, è lo stesso che dire « Rivestitevi di Gesù Cristo » (Rom. XIII, 14), chiamato anche: « Il secondo uomo», in opposizione ad Adamo «primo uomo» (1 Cor. XV, 47). Ma per rivestirci di Gesù Cristo, cioè, delle sue virtù, del suo spirito, della sua grazia, è necessario spogliarci dell’uomo vecchio, dell’uomo terreno. – Dopo la caduta di Adamo l’uomo andò attaccandosi sempre più alla terra. Alla terra sono rivolti i suoi pensieri, il suo cuore, le sue inclinazioni. I suoi discorsi, le sue opere non si staccano mai, o si staccano ben poco, dalla terra. Nella sua mente c’è l’errore, nel suo cuore ci sono le passioni, nelle sue opere c’è il disordine. In una parola, egli è l’uomo del peccato, è l’uomo che serve al peccato. – Perché possa piacere a Dio, rivestendosi di virtù, è necessario togliere il peccato. Le piante delle virtù non nascono dai semi dei vizio. Per innalzare un edificio nuovo, si toglie dal terreno ogni ingombro, in modo che il costruttore abbia la più ampia libertà di movimenti nell’seguire i suoi lavori. Per innalzare l’edificio d’una vita virtuosa, bisogna innanzi tutto sgombrare l’anima nostra dal peccato e dalle sue radici. Le abitudini d’una volta devono cessare: il modo di vivere d’una volta va cambiato, i gusti devono essere nuovi; gli idoli delle nostre passioni vanno abbattuti, e abbattuti generosamente. – Il voler rimanere attaccati anche solamente a una sola delle vecchie abitudini cattive è come rimanere attaccati a tutte. Il cuore andrebbe diviso tra la virtù e il vizio; tra Dio e l’idolo della propria passione, e questo è assolutamente inammissibile. « Chi non è con me, contro di me » (Matt. XII, 30), dichiara il Signore. Se tu avessi il cuore attaccato a un solo peccato grave, saresti sempre rivestito dell’uomo vecchio, privo della grazia, nemico di Dio.

2.

Per rivestirsi dell’uomo nuovo non basta deporre l’uomo vecchio col dare il bando alle cattive abitudini! L’astenersi dalle opere cattive non merita gran lode se non si praticano opere buone. « Infatti — nota il Crisostomo — non si è soliti lodare, anzi neppur menzionare alcuno per questo che non commette delitti… Poiché noi usiamo mai attribuire a lode la semplice astensione dalle cattive azioni; in vero ciò sarebbe ridicolo » (In Epist. ad Philipp. Hom. VI, 1). L’odiare il male è cosa assolutamente necessaria per praticare bene, poiché, « se non odiamo il male non possiamo amare il bene » (S. Gerolamo Epist. 125, 14 ad Eust.); ma questo non è tutto. – Il campo non si dissoda e non si libera dalle male piante pel semplice gusto di lavorare; ma per farvi una nuova piantagione, che ripaghi coi suoi frutti abbondanti il valore del terreno e la fatica. “Dimmi un po’, che giova — osserva ancora il Crisostomo — che si siano tolte tutte le spine se non vi si è sparso il buon seme? Se il tuo lavoro sarà rimasto imperfetto si finirà nello stesso danno di prima”. Perciò, anche il nostro S. Paolo, prendendosi cura di noi, non limita i suoi precetti alla amputazione ed alla estirpazione dei mali, ma esorta a far tosto la piantagione del bene (in Epist. ad Eph. Hom. 16, 2). E fa l’enumerazione delle buone opere che dobbiam coltivare, cominciando dalla semplicità, dalla schiettezza. Perciò, deposta la menzogna, ciascun parli al suo prossimo con verità, e continua, insegnandoci come dobbiamo usare della nostra lingua, guidare i moti del nostro cuore, diportarci nelle azioni esteriori. Sono insegnamenti che possono comprendersi tutti in uno: fuggite ogni vizio, e praticate ogni virtù. – La vita nuova, insomma, si riassume in questa norma, fare tutto l’opposto di quel che si faceva prima. San Agostino così commenta l’esortazione dell’Apostolo: Rivestitevi dell’uomo nuovo. « Ha voluto dir questo: Cambiate costumi. Prima amavate il secolo, adesso amate Dio » (Serm. 9, 8). Di questo mutamento di costumi ci dà un mirabile esempio Zaccheo. Zaccheo, capo dei doganieri incaricati di riscuotere le imposte a Gerico, ha la fortuna di ricevere in casa Gesù. Quella visita cangia totalmente il cuore del capo gabelliere. Prima era attaccato alle ricchezze che accumulava con angherie: ora se ne spoglia per prodigarne la metà ai poveri. Prima non badava tanto pel sottile, in fatto di giustizia: ora decide di restituire il quadruplo a chi avesse potuto recare qualche danno. Chi vuol condurre una vita nuova deve precisamente imitare Zaccheo. Se prima era bestemmiatore, ora lodi Dio; se era avaro, ora sia generoso; se era superbo, ora sia umile; se vendicativo, ora sia largo nel perdonare; se impudico, ora coltivi la castità. Pensieri, desideri, inclinazioni, discorsi, opere siano ispirate agli esempi dell’uomo nuovo, Gesù Cristo.

3.

L’Apostolo, parlando della condotta che deve tenere, chi, prima della conversione, rubava, così si esprime: Colui che rubava non rubi più: piuttosto s’affatichi attendendo con le proprie mani a qualche cosa di onesto, per aver da far parte a chi è nel bisogno. È chiaro da queste parole che S. Paolo non solo richiede che l’uomo nuovo, invece di rubare lavori e renda quel che ha preso ingiustamente; ma accenna al dovere di mettersi in grado di espiare, con l’elemosina, il male che ha fatto, togliendo ai legittimi possessori ciò che a loro apparteneva. Il pensiero di riparare il mal fatto, di dare buono esempio là dove si era dato scandalo, di dare gloria a Dio in cambio delle offese a Lui recate, fu sempre il segreto dal grande progresso nella via della santità da parte dei convertiti. Una vera riforma di noi stessi comincia col riconoscere la nostra miseria, e confessare con tutta schiettezza al cospetto di Dio: « Eccoci dinanzi a te col nostro peccato » (1 Esd. 9, 15). Poi prosegue, distruggendo in noi il regno del peccato, per mezzo delle buone opere; ma non si ferma qui. Cerca, non fosse che per riconoscenza a Dio, che con la sua grazia l’ha tratto dalla via della perdizione, di distruggere il peccato anche negli altri. Così ha fatto Davide. Alla parola del profeta Natan si scuote: riconosce la propria colpa: «Io conosco la mia prevaricazione, e il mio peccato mi sta sempre dinanzi»; e la confessa sinceramente davanti a Dio: « Contro di te solo ho peccato e ho fatto il male al tuo cospetto »; poi, domanda al Signore la grazia di divenire un uomo completamente nuovo: « Crea in me, o Signore, un cuor puro, e rinnova dentro di me uno spirito retto »; inoltre protesta di voler insegnare ai peccatori a rimettersi, come lui, sulle vie del Signore: « Insegnerò ai peccatori le tue vie, e i peccatori si convertiranno a te » (Salm. L, 4… 5… 11… 14). Chi ha rubato beni materiali, procuri per spirito dì riparazione di mettersi in grado di far l’elemosina ai bisognosi. Chi con i suoi discorsi, con le sue azioni, con la propaganda ha tolto o indebolito la fede, ha prodotto il rilassamento dei costumi, deve fare il possibile per ricondurre a Dio quelli che se ne sono allontanati. E se non gli sarà possibile ricondurre a Dio quegli stessi che furono allontanati da lui, glie ne riconduca degli altri. E cerchi di ricondurgli specialmente quelli che se ne sono allontanati maggiormente. Davide si propone di ricondurre a Dio gli iniqui e gli empi. Quanto più uno è avvolto nelle tenebre, tanto più ha bisogno di chi lo indirizzi pel retto sentiero; quanto più uno è immerso nel pantano, tanto più ha bisogno dell’opera di chi l’aiuti a uscirne. – E se non potrà fare quanto il suo cuore brama per riparare la vita passata, procuri di fare quel che può; e  se non gli è possibile di riparare direttamente, ripari indirettamente con la preghiera, coi patimenti, con le mortificazioni accettati e offerti a Dio con l’intenzione di riparare le mancanze della vita passata.

Graduale

Ps CXV: 2
Dirigátur orátio mea, sicut incénsum in conspéctu tuo, Dómine.

[Si innalzi la mia preghiera come l’incenso al tuo cospetto, o Signore.]
V. Elevatio mánuum meárum sacrifícium vespertínum. Allelúja, allelúja

[L’elevazione delle mie mani sia come il sacrificio della sera. Allelúia, allelúia]
Ps CIV: 1

Alleluja

Alleluja, Alleluja

Confitémini Dómino, et invocáte nomen ejus: annuntiáte inter gentes ópera ejus. Allelúja.

[Date lode al Signore, e invocate il suo nome, fate conoscere tra le genti le sue opere.]

Evangelium

Sequéntia   sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt XXII: 1-14
“In illo témpore: Loquebátur Jesus princípibus sacerdótum et pharisaeis in parábolis, dicens: Símile factum est regnum cœlórum hómini regi, qui fecit núptias fílio suo.
Et misit servos suos vocáre invitátos ad nuptias, et nolébant veníre. Iterum misit álios servos, dicens: Dícite invitátis: Ecce, prándium meum parávi, tauri mei et altília occísa sunt, et ómnia paráta: veníte ad núptias. Illi autem neglexérunt: et abiérunt, álius in villam suam, álius vero ad negotiatiónem suam: réliqui vero tenuérunt servos ejus, et contuméliis afféctos occidérunt. Rex autem cum audísset, iratus est: et, missis exercítibus suis, pérdidit homicídas illos et civitátem illórum succéndit. Tunc ait servis suis: Núptiæ quidem parátæ sunt, sed, qui invitáti erant, non fuérunt digni. Ite ergo ad exitus viárum et, quoscúmque invenéritis, vocáte ad núptias. Et egréssi servi ejus in vias, congregavérunt omnes, quos invenérunt, malos et bonos: et implétæ sunt núptiæ discumbéntium. Intrávit autem rex, ut vidéret discumbéntes, et vidit ibi hóminem non vestítum veste nuptiáli. Et ait illi: Amíce, quómodo huc intrásti non habens vestem nuptiálem? At ille obmútuit. Tunc dixit rex minístris: Ligátis mánibus et pédibus ejus, míttite eum in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

(“In quel tempo Gesù ricominciò a parlare a’ principi dei Sacerdoti ed ai Farisei per via di parabole dicendo: Il regno dei cieli è simile a un re, il quale fece lo sposalizio del suo figliuolo. E mandò i suoi servi a chiamare gl’invitati alle nozze, e non volevano andare. Mandò di nuovo altri servi, dicendo: Dite agl’invitati: Il mio desinare è già in ordine, si sono ammazzati i buoi e gli animali di serbatoio, e tutto è pronto, venite alle nozze. Ma quelli misero ciò in non cale, e se ne andarono chi alla sua villa, chi al suo negozio: altri poi presero i servi di lui, e trattaronli ignominiosamente, e gli uccisero. Udito ciò il re si sdegnò; e mandate le sue milizie, sterminò quegli omicidi e diede alle fiamme le loro città. Allora disse a’ suoi servi: Le nozze erano all’ordine, ma quelli che erano stati invitati, non furono degni. Andate dunque ai capi delle strade e quanti riscontrerete chiamate tutti alle nozze. E andati i servitori di lui per le strade, radunarono quanti trovarono, e buoni e cattivi; e il banchetto fu pieno di convitati. Ma entrato il re per vedere i convitati, vi osservò un uomo che non era in abito da nozze. E dissegli: Amico, come sei tu entrato qua, non avendo la veste nuziale? Ma quegli ammutolì. Allora il re disse ai suoi ministri: Legatelo per le mani e pei piedi, e gettatelo nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridor di denti. Imperocché molti sono i chiamati e pochi gli eletti”)

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sul piccolo numero degli eletti.

Multi sunt vocati, pauci vero electi. Matth.XXII.

Si è con questa terribile sentenza che Gesù Cristo finisce la parabola dell’odierno Vangelo, dove paragona il regno de’ cieli ad un re che fece un gran convito per le nozze di suo figliuolo, al quale invitò parecchi che ricusarono di venirvi, e tra quelli che vi assistettero se ne ritrovò uno che non aveva la veste nuziale; il che gli attirò il più rigoroso castigo, poiché fu gettato coi piedi e le mani legate nelle tenebre esteriori. Così è, conchiuse Gesù Cristo; molti sono chiamati, ma pochi sono eletti: Multi sunt vocati, pauci vero electi. Stupenda verità che ha sempre riempiuto di spavento i più gran santi, e che è molto atta a portar nei nostri cuori un salutevole timore per poco che ci resti di religione! Perciò, quando io considero che si è l’oracolo medesimo della verità, cui solo è noto il numero dei predestinati, il quale ci assicura in termini precisi e formali che vi saranno pochi eletti, ah! io tremo, e sull’esempio del re profeta sono penetrato da un timore, che le ossa tutte e l’anima mia conturba: Conturbata sunt omnia ossa mea. Infatti, che vi sia dopo la morte un giudizio terribile che deve decidere della nostra eternità; che coloro i quali in esso saranno condannati, soffriranno tutti i tormenti immaginabili, basta questo senza dubbio per far tremare i più intrepidi: ma vi sarebbe minor motivo di temere, se potessimo accertarci che il numero degl’infelici sarà il più piccolo; tuttavia la fede ci insegna il contrario: pauci electi. Questa è, fratelli miei, di tutte le verità evangeliche quella che io trovo la più sorprendente, e la più capace di mettere in costernazione i peccatori: procuriamo in quest’oggi di penetrarci del salutevole timore che essa deve naturalmente inspirarci: ma guardiamoci dal cadere nell’estremità ove ella potrebbe gettarci, se le si desse un altro senso che quello del Vangelo: mentre a Dio non piace, fratelli miei, che io cerchi di metter in disperazione il peccatore, né anche di scoraggiarlo. Bisogna intimorirlo, ma nello stesso tempo animarlo a lavorare con confidenza al grande affare della salute. Il che mi propongo di fare in quest’oggi sviluppandovi il senso della verità del piccolo numero degli eletti. Perché sì pochi eletti? Primo punto. Che dobbiamo noi fare per assicurare su ciascuno di noi i bisogni di misericordia del Signore? Secondo punto. Da un canto i peccatori troveranno di spaventarsi alla vista dei loro disordini, e dall’altro di che animarsi e convertirsi. Forse la conversione di qualcheduno di quelli che sono qui è annessa a questo soggetto.

I. Punto. Che siano pochi i predestinati e che i più siano riprovati, nulla di più certo, se consultiamo la sacra Scrittura ed i santi padri. Qui io vedo questo piccolo numero di eletti paragonato alla famiglia di Noè, che sola fu salva dal diluvio; là io lo vedo rappresentato dai pochi frutti che restano sopra di un albero dopo la raccolta, dalle poche spighe che restano dopo la messe. Io odo Gesù Cristo che ci assicura nel Vangelo che vi saranno pochi eletti; che la porta per dove si entra nel cielo è stretta, e che pochi vi ha che la trovino, che ce lo assicura, dico, non già semplicemente come un’altra verità; ma con una specie di esclamazione e di stupore. Oh quanto è stretta, dice Egli, la strada che conduce alla vita! Quanto pochi ve ne sono che la seguono! Oh quam arcta est via, quæ ducit ad vitam! quam pauci sunt qui inveniunt eam! Se mi contentassi di queste testimonianze, io n’avrei detto abbastanza per provarvi la verità da me proposta ed ispirarvi un santo spavento; ma non avrei fatto abbastanza per scoprirvi le ragioni di una verità sì terribile e giustificare la causa di Gesù Cristo. – Iddio chiama tutti gli uomini al suo regno, rappresentato dal convito di cui si parla nel Vangelo, ove molti furono invitati, ed ove i servi del re avevano ordine di far entrare tutti coloro che avrebbero ritrovati, niuno eccettuato: Quoscumque inveneritis, vocate ad nuptias. Niuno è di noi, fratelli miei, cui Gesù Cristo non abbia promesso un posto in questo eterno banchetto. Egli ne ha fatte tutte le spese, ce ne ha aperta la porta coi patimenti e con la morte; Egli ha inviati i suoi servi, gli Apostoli, ed invia ancora tutti i giorni i ministri del suo Vangelo per invitarvi gli uomini: Vocate ad nuptias. Egli dà a tutti loro gli aiuti necessari per meritarvi un posto, senza di che il suo invito sarebbe inutile; poiché, siccome altrove c’insegna la fede, niuno può con le sue proprie forze giungere a quella felicità. Niuno si attribuisce dunque in verun modo la cagione del piccolo numero degli eletti a difetto di volontà dalla parte di Dio per la salute degli uomini, né all’insufficienza dei meriti di Gesù Cristo, né alla sottrazione delle grazie necessarie alla salute. Non è questo il senso che convien dare alla verità che vi predico. Se vi sono sì pochi eletti, non è già, lo ripeto, perché Dio abbia cosi determinato; non è neppure perché questo piccolo numero ci è rappresentato sotto figure sensibili di cui la Scrittura e i padri si servono per istruirci; ciò non è finalmente perché Gesù Cristo l’ha detto nei suoi oracoli; queste figure e questi oracoli provano bensì la verità del piccol numero degli eletti, ma ne suppongono di già la cagione nella condotta degli uomini. Se vi sono dunque sì pochi eletti tra gli uomini, contro di essi soli debbono prendersela. Dio per un effetto della sua bontà li chiama tutti al suo regno: Multi vocati. – E la maggior parte per un effetto della sua indifferenza e della sua malizia non vuole arrendersi ai desideri di Dio. Ecco, fratelli miei, la vera cagione del piccolo numero degli eletti: Pauci electi. Gli uni, simili a quei convitati che ricusarono di andare a quel banchetto, non hanno che dell’avversione per quei beni eterni; gli altri, simili a quell’uomo che non aveva la veste nuziale, meritano per la loro condotta sregolata di essere, al par di lui, condannati a gemere in quel tenebroso soggiorno ove saranno pianti e stridori di denti: bisogna forse stupirsi che, sebbene tutti siano chiamati, vi sieno sì pochi eletti? Pauci electi. Ripigliamo le circostanze della parabola del corrente Vangelo. Il re, apparecchiato il banchetto delle nozze di suo figliuolo, manda i suoi servi ad invitare molti, i quali sotto vari pretesti ricusano di venirvi. Gli uni andarono alla loro villa, gli altri al loro negozio, e non fecero alcun conto dell’onore che voleva loro procurare. Figura molto naturale di un gran numero d’uomini che sono chiamati al convito eterno, alle nozze dell’Agnello immacolato, e che, poco tocchi di questa bella sorte, si abbandonano interamente agli interessi del secolo, non sono ripieni che d’idee materiali e terrene, che aggravano loro il cuore, e li strascinano verso la vanità e la menzogna. – Dio fa i primi passi per attirarli a sé, li invita, li sollecita, o colla voce interiore della sua grazia o per mezzo dei suoi deputati apostolici, a cercare una felicità più degna .della loro attenzione che quella di quaggiù; costoro sono insensibili alla voce che li chiama. Al vederli incessantemente occupati nei negozi o nel lavoro direbbesi che non sono fatti che per la terra. Si parli loro della salute, dell’orazione, della frequenza dei Sacramenti, delle pratiche di pietà; è questo un linguaggio sconosciuto per essi, non hanno il tempo di pensarvi. Simili a quei convitati che conveniva sforzare per entrare nella sala del banchetto, bisogna loro far violenza per farli entrare nella via della salute. Di mala voglia entrano essi nelle nostre chiese per assistervi ai divini uffizi, per udire la divina parola; e molto sopraffatti li vediamo dalla noia e dal fastidio. Raramente si veggono accostarsi ai Sacramenti, differiscono talvolta da un anno all’altro; appena ritenere si possono in compagnia dei fedeli nei giorni consacrati al servigio di Dio; i loro affari temporali ne assorbiscono la più gran parte, che essi impiegano or a fare viaggi, or a formare progetti. Non sono questi forse fatti, di cui l’esperienza non ci somministra che troppo prove. Ogni sollecitudine hanno essi per gli affari del tempo, e non pensano in verun modo a quello della eternità. Or io vi domando, questa indifferenza degli uomini per l’affare della salute lascia loro forse molta speranza di essere del numero degli eletti? Ma non è questa che una cagione della riprovazione degli uomini; il vangelo ce ne scopre un’altra in colui, che comparve al convito senza la veste nuziale. – Ed in vero, fratelli miei, che significava quella veste nuziale che bisognava avere per entrare nel convito delle nozze? Ella significava, secondo s. Gregorio Papa, la grazia e la carità, che sono l’ornamento di un’anima cristiana, e senza di cui non si può entrare nel cielo. Or quanti Cristiani possono lusingarsi di avere questa grazia santificante, questa carità che ci rende amici di Dio ed eredi del suo regno? Questa grazia non può trovarsi che nelle anime innocenti, o veramente penitenti. Niun’altra strada evvi per entrare nel cielo che l’innocenza o la penitenza; ma oimè! quanto pochi vi ha che abbiano conservata la loro innocenza, o che, dopo averla perduta per il peccato, l’abbiano per mezzo della penitenza ricuperata? L’innocenza! ma in qual età, in qual condizione troveremo noi questo tesoro? Ella è forse cosa rara il vedere che il primo uso di nostra ragione comincia dalla perdita di nostra innocenza? Che i fanciulli non sono sì tosto usciti dal seno delle loro madri che divengono prevaricatori degli ordini del celeste Padre? Erraverunt ab utero (Ps. XVII). Che la loro bocca è dedicata alla menzogna, il loro spirito alla dissipazione, il loro cuore ai momentanei divertimenti, e che, troppo suscettibili dei cattivi esempi dei loro genitori, divengono come essi ingiusti, bestemmiatori ed intemperanti? La gioventù sarà dunque la sede dell’innocenza? Ma chi non sa che le passioni si fanno sentire con più di vivacità, dove governano con più d’impero? Quanti si trovano dei giovani che non siano d’una vita sregolata, disubbidienti ai loro genitori, bestemmiatori, libertini, impudichi, dissoluti, pieni di vanità, impegnati in commerci peccaminosi? Quanti matrimoni o profanati da infedeltà o intorbidati dalle risse e dalle dissensioni, e che, ben lungi di mettere un freno alla libidine, non divengono forse che un nuovo stimolo che l’accresce, e fa vedere sino nell’età più avanzata dei disordini di cui non si ha più rossore. Passiamo alle diverse condizioni. Avvenne forse una sola che non possa e non debba rendere questa testimonianza, che non v’è più d’innocenza? I ricchi non hanno che durezza per i poveri, i poveri invidia contro i ricchi: i ricchi ti perdono nell’ozio e nella mollezza, poiché le ricchezze somministrano loro onde contentare le loro passioni: i poveri si dannano nella miseria, perché non la sopportano che con impazienza, e per uscirne passano spesso oltre i limiti della giustizia e della probità. Eh! che importa, fratelli miei, che la vostra dannazione non sia l’effetto di una vita molle e sensuale, se le vostre impazienze, le vostre inimicizie, le vostre ingiustizie ne sono la cagione? Di qualunque siasi stato conviene, per vivere nell’innocenza, seguire le massime del Vangelo e praticarne la morale. – Prendiamo dunque da una parte il Vangelo, osserviamo dall’altra la condotta degli uomini nei diversi stati, e vedrassi se ve ne sono molti che possano pretendere di essere del numero degli eletti. Che cosa insegna il Vangelo? Che bisogna amar Dio sopra ogni cosa ed il prossimo come sé stesso; amar Dio sopra ogni cosa, vale a dire esser pronto a sacrificar tutto, a sofferir tutto piuttosto che offenderlo. Ed è così che si ama allora quando un vile interesse, un sozzo piacere prevale all’ubbidienza che gli si deve? Bisogna amar il suo prossimo come se stesso, senza eccezione de’ suoi più crudeli nemici. E chi sono coloro che non abbiano qualche avversione per il prossimo o che gli facciano tutto quel bene che desidererebbero si facesse ad essi medesimi? Che cosa ci insegna ancora il Vangelo? Che bisogna essere staccato dai beni, dai piaceri del mondo, mortificare incessantemente le proprie passioni, portare di continuo la sua croce. E chi sono coloro che non cedano all’amor delle ricchezze, che resistano all’allettamento del piacere, che non seguano le loro passioni, e che trasportar non si lascino dal torrente del costume? Ah! quanto è mai raro, fratelli miei, trovare di quei perfetti Cristiani che stiano sempre in guardia contro se stessi, che facciansi le necessarie violenze per non soccombere alle tentazioni, per evitare le occasioni di perdersi; di quei perfetti Cristiani, che siano assidui all’orazione e al servigio di Dio, caritatevoli verso il prossimo, umili, pazienti, casti, modesti, riservati! Quanti al contrario vivono in una maniera affatto opposta allo spirito del Vangelo! Basta aprire gli occhi su ciò che accade nel mondo. Vi si vede regnare l’orgoglio, l’invidia, l’ingiustizia, l’odio, la maldicenza, la libidine, la mollezza , in vece della buona fede e della probità, vi si vede la menzogna, l’inganno, le vessazioni. Si esamini quel che accade nelle città e nelle campagne: quante dispute e contrasti! quante gare e liti che mettono in dissensione le famiglie! Si entri nelle case, non vi si odono che bestemmie, che maledizioni, che maldicenze, che parole oscene; non vi si vedono che scandali, che cattivi esempi: Totus mundus in maligno positus est (Jo. V). Tutto il mondo non è ripieno che di malizia e di corruzione; tutti hanno traviato, dice il profeta; non v’ha quasi alcuno che faccia il bene. Convien dunque stupirsi, se sienvi sì pochi eletti, poiché vi sono sì poche virtù e sì pochi Cristiani che compiano i loro doveri? Non è già che si ignorino questi doveri; mancan forse istruzioni? E se questo bastasse per esser salvo, se non si trattasse ancora che di dare alcune prove della sua religione, di pregare, di visitar chiese, di ascoltar messe e di esser associato a pii consorzi, si potrebbe dire che il numero dei santi è più grande che quello dei riprovati; poiché malgrado la generale corruzione del mondo, si vedono ancora molte vestigia di religione. – Ma quel che rende il numero degli eletti sì piccolo è che, coi segni esteriori di religione, regnano molti vizi tra gli uomini; si è che ve ne ha ben pochi che del Signore osservino esattamente tutti i punti della legge: or, basta di mancare ad un solo per essere riprovato. Ah! se i santi, che hanno fedelmente osservata la legge del Signore, che hanno fatto tanti sforzi, che si sono abbandonati a tanti rigori per entrare nel cielo, hanno ancora temuto di esserne esclusi; come mai Cristiani che niuna violenza si fanno per esser salvi, possono sperare di esserlo? Se almeno una vera penitenza riparasse l’innocenza perduta, vi sarebbero altrettanti eletti, quanti veri penitenti, perché la penitenza ha sempre aperto ai peccatori il seno della divina misericordia. Ma chi’l crederebbe? La vera penitenza è quasi così rara come l’innocenza. Infatti che cosa è la penitenza? È una virtù che c’induce a soddisfare alla giustizia di Dio per gli oltraggi fatti alla sua infinita maestà. Far penitenza si è detestare i peccati passati e concepirne un sì grande orrore che siamo risoluti di perder tutto, di sofferir tutto, piuttosto che di ricadervi: far penitenza si è espiare con la mortificazione delle passioni i piaceri che loro si sono permessi e far servire, come dice l’Apostolo, alla santità le membra che hanno servito all’iniquità; si è sopportar con piacere le afflizioni, i dispregi, le perdite dei beni, le malattie, i sinistri accidenti, in una parola tutto ciò che è capace di umiliare, di purificare l’uomo peccatore. Or è forse così, fratelli miei, che voi fate penitenza? Giudicatevi da voi medesimi sulla testimonianza di vostra coscienza; la vostra penitenza è ella conforme alle regole, che vi sono prescritte? Voi vi confessate, è vero, ma le vostre confessioni sono esse precedute da un sufficiente esame, accompagnate da un vivo dolore dei vostri peccati, seguite da un cambiamento di condotta? – Per essere penitente, bisogna ancora soddisfare al prossimo per i torti che gli si sono fatti nei beni, nella riputazione; lo fate voi? Si ode bensì parlare d’ingiustizie, ma quasi mai di restituzione; eppure senza di ciò non si dà vera penitenza. Da tutto quel che ho detto egli è forse difficile a comprendere che vi sono sì pochi eletti? La condotta degli uomini non ne somministra delle prove? La vostra può ella assicurarvi che sarete di questo numero? Rispondete ingenuamente, in quale stato vi trovate voi? Osereste al presente comparire con fiducia al tribunale del supremo Giudice? Possedete voi in un grado molto eminente le qualità che il padre di famiglia esigeva in coloro che faceva sedere alla sua mensa? Se questo non è, mettetevi in buono stato, seguendo le impressioni salutevoli che la verità del piccolo numero degli eletti deve produrre sopra le vostre menti e i vostri cuori.

II. Punto. Dopo quel che vi ho detto del piccolo numero degli eletti, mi sembra fratelli miei, udirvi tener il linguaggio, che tenevano altre volte gli Apostoli al Salvatore sul medesimo soggetto. Se è così difficile di salvarsi, se vi sono sì pochi eletti, chi potrà dunque sperare di esserlo ? Quis poterit salvus esse (Matth. XIX)? Tutti, fratelli miei, sì tutti; ma bisogna, aggiungerò con Gesù Cristo, fare tutti gli sforzi per entrare e camminare in questa via stretta, poiché Dio accorda a tutti le grazie necessarie: Contendite intrare per angustam portam (Luc. XIII). Da questa risposta del Redentore io cavo due conseguenze molto capaci di fare su di noi impressioni vantaggiose, che saranno il frutto della verità che annunzio. Se è possibile andar salvo, e se è per colpa sol degli uomini che vi saranno sì pochi eletti, non conviene dunque disperare di esser di questo piccol numero. Bisogna dunque portare tutte le nostre mire, dirigere tutti i nostri passi verso la celeste patria; tali sono i mezzi che dobbiamo porre in opera per assicurare la nostra predestinazione. Se il piccol numero degli eletti non venisse che dalla scelta che Dio ne avesse fatta; se non dovessero esservi sì pochi predestinati se non perché Dio ha voluto così, senz’alcun personale o imputato demerito dalla parte degli uomini, ah! vi confesso, fratelli miei, che il nostro stato sarebbe molto deplorabile. Incerti se Dio ci avesse distinti in questa scelta, noi non avremmo il coraggio d’intraprendere cosa alcuna per la salute; perché, diremmo, se Dio non vuole ch’io sia salvo, avrò bel fare, io nol sarò giammai. Quindi nascerebbe una orribil disperazione e tutti i più enormi delitti cui gli uomini s’abbandonerebbero. Tali sono le funeste, conseguenze di un errore che ricusa di riconoscere in Dio una volontà sincera di salvare tutti gli uomini. Ma lungi dalle nostre menti, fratelli miei, un pensiero sì ingiurioso alla divinità, e sì tormentoso per noi. – Io non saprei abbastanza ripeterlo; Dio vuole la salute di tutti gli uomini: Egli non ci ha creati per perderci, ma per salvarci. A questo fine ci ha Egli dato il suo Figliuolo, i suoi Sacramenti, le sue grazie e tutti gli altri aiuti necessari: di modo che si può dire che se la nostra salute non dipendesse che da Dio solo, il suo regno sarebbe sicuramente per noi, pensiero infinitamente consolante, fratelli miei, poiché niuno è di noi il quale non possa dire: Iddio mi ha apparecchiato un posto nel suo regno, Egli mi dà tutti i mezzi necessari per arrivarvi, soltanto che io sia fedele alle grazie e son sicuro di mia salute. Qualunque peccato abbia io commesso, posso ottenerne il perdono, perché Dio l’ha promesso ad ogni peccatore che sinceramente a Lui ritorna; io posso dunque sperare, finché sono sulla terra; Dio vuole ch’io abbia questa speranza, io non ho che a voler efficacemente giungere al fine che mi è proposto, ed infallibilmente l’otterrò; e se me ne allontano, non potrò dolermi che di me stesso, poiché il numero degli eletti non sarà piccolo che per sola colpa degli uomini. Tale è, fratelli miei, l’impressione salutevole e consolante che questa verità, sebbene in sé terribile, deve lasciare nelle nostre menti. – Senza fermarvi a fare vani ragionamenti sulla vostra predestinazione, sforzatevi, secondo l’avviso del principe degli Apostoli, di renderla certa con le vostre buone opere: Satagite ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis. Perciocché, in qualunque modo si consideri il mistero della predestinazione, e benché impenetrabile sia ai nostri occhi, noi dobbiamo tenere per certo, conforme ai principi della fede, che Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere, che nessuno sarà salvo se non per i suoi meriti, e che nessuno sarà riprovato fuorché per colpa sua. Or, per ciò meritare, due cose si richiedono, la grazia di Dio e la cooperazione dell’uomo. La grazia di Dio non ci manca, non manchiamo dunque noi medesimi alla grazia, e saremo predestinati; non abbiamo a temere che noi, e tutto a sperare dalla parte di Dio. Ecco un riflesso più che bastante a calmare le nostre inquietudini sulla eterna sorte. Se, malgrado queste certezze, voi siete ancora conturbati dal timore di un’eterna riprovazione; se, come il re profeta, qualche volta v’interrogate; non avrò io forse la disgrazia di essere rigettato per sempre dalla faccia del mio Dio? Le mie iniquità non mi chiuderanno esse il seno delle sue misericordie? Numquid in æternum projiciet Deus? Aut in finem misericordiam suam abscindet (Psal. LXXVI). I miei peccati, le mie continue resistenze alla grazia, non mi danno esse luogo di crederlo? E non sono io forse sicuro che se muoio nello stato in cui mi trovo, sarò del numero sgraziato di coloro che saranno sempre privi della vera luce? In tal caso che dovete voi fare per rassicurarvi? Bisogna, come lo stesso re profeta, determinarvi ad una seria conversione e prendere senz’indugio la strada che ad essa conduce: Dixi: nunc cœpi. Ah! dovete voi dire, la risoluzione è presa; io voglio, senza più aspettare, cangiar condotta, lasciar il peccato, rompere quelle illecite corrispondenze, correggermi dai miei cattivi abiti: Dixi: nunc cœpi. Non sarà già per un giorno, per un certo tempo che io osserverò il mio proponimento, ma sì per tutta la mia vita ch’io voglio unirmi a Dio in una maniera sì inviolabile che alcun oggetto creato non sarà capace di staccarmene: giacché dipende da me di essere del numero degli eletti, io vi sarò a qualunque costo, io mi farò tutta la violenza necessaria per venire a capo. Tale è l’altra salutevole conseguenza che tirar conviene dalla verità che abbiamo stabilita; ed è il secondo mezzo efficace di salute. – Ed in vero, fratelli miei, sebbene dipenda da ciascheduno di noi, con l’aiuto della grazia, l’essere del numero dei predestinati, si può sempre dire con verità che ve ne saranno pochi, perché la maggior parte degli uomini si perde di coraggio, alla vista degli ostacoli che s’incontrano nei sentieri della giustizia: non basta dunque, desiderare il cielo; è mestieri ancora fare grandi sforzi per arrivarvi. E a questo appunto i santi tutti sono determinati; testimonio ne sia il grande Apostolo, quel vaso di elezione, quell’uomo innalzato sino al terzo cielo: quantunque la sua coscienza nulla gli rimproverasse, pure non si credeva egli sicuro; e sul timore che, dopo avere predicato agli altri, non fosse riprovato egli stesso, castigava aspramente il suo corpo, portava incessantemente su di sé la mortificazione di Gesù Cristo: Castigo corpus meum, et in servitutem redigo; ne forte, quam aliis prædicaverim, ipse reprobus effìciar (I Cor. IX). Or se questo gran santo, che fu eletto da Gesù Cristo medesimo per annunziare la gloria del suo nome,se questo uomo incomparabile che aveva acquistati tanti meriti, temeva per la sua salute; e se questo sentimento onde era sempre occupato l’induceva a trattarsi aspramente, che non dobbiamo noi medesimi temere e che non dobbiamo fare, noi che siamo così lontani dalla virtù di quel grande apostolo?Gettate ancora gli occhi su quella moltitudine innumerabile di martiri che hanno amato sacrificare la vita al furore dei tiranni, piuttosto che cader nelle mani di un Dio vendicatore. Chi sostenerli poteva in sì aspre prove? Nient’altro che il timore di vedersi esclusi dal regno dei cieli. Qual altro motivo ha potuto indurre ad abitare nei deserti tanti confessori e vergini, che, per non essere esposti a perire con la folla, preferirono le austerità della penitenza a tutto ciò che il mondo può offrire di più lusinghiero nei suoi beni e piaceri? Tali sono gli effetti salutevoli che la verità del piccol numero degli eletti ha prodotto nei santi: sapevano essi che la strada che conduce al cielo è stretta e battuta da pochi; essi l’hanno costantemente seguita; hanno coraggiosamente sormontate le difficoltà che si opponevano all’eseguimento dei loro disegni. Così dovete fare voi pure, fratelli miei; voi sapete, come i santi, che per meritare la corona vi resta a percorrere una strada seminata di triboli e di spine; voi siete certi che la via che conduce alla perdizione è larga e spaziosa e battuta dal maggior numero, perché non presenta che rose e dolcezze. Da un canto vi vedete una felicità incomparabile, dall’altro una miseria senza fine: che fare? Bisogna, senza esitare, dir un eterno addio a coloro che corrono al precipizio, per camminare su quelle tracce che vanno a finire alla gloria: converrà per questo, lo confesso; sostenere molti combattimenti, domare le vostre passioni, portar incessantemente la vostra croce; ma è molto meglio salvarsi col piccol numero che perdersi con la moltitudine; e se le difficoltà vi spaventano, v’incoraggi la ricompensa. – Non apportate più dunque per scusa dei vostri disordini il gran numero di coloro che fanno come voi; mentre è questa una fatale illusione di cui servesi il demonio per perder le anime. La maggior parte lo fa, dicesi ordinariamente, posso dunque farlo ancor io. Ah! ben lungi di ragionare in tal modo, dite a voi medesimi: la maggior parte cerca i beni, gli onori, i piaceri della terra, dunque convien disprezzarli; la maggior parte fugge le croci, la povertà, le mortificazioni, la penitenza; dunque convien abbracciarle: i più sono bestemmiatori, ingiusti, maldicenti, vendicativi, voluttuosi; dunque non bisogna esser tale; se ne vedono pochi al contrario che siano umili, casti, mortificati, pazienti; bisogna dunque imitare quel piccol numero, perché egli è certo che il numero dei reprobi è il più grande. Fa d’uopo dunque; per esser salvo, conchiude s. Agostino, lasciar il gran numero per attaccarsi al piccolo: Esto de numero paucorum, si vis esse de numero salvandorum. A questo segno voi conoscerete se siete dei numero degli eletti. Volete voi ancora separarvi di più dalla folla che si perde ed assicurarvi di essere del piccolo numero che si salva? Mirate la condotta di coloro che vivono in una maniera più regolata che voi, che sono più assidui all’orazione, a frequentare i sacramenti che voi, che sono più mortificati che nol siete voi, mettetevi a confronto con tanti santi religiosi che passano i loro giorni nel ritiro, che vivono in un’intera rinuncia a tutto ciò che può lusingare le loro inclinazioni: quanti ne troverete nel medesimo vostro stato, i quali sorpassano in meriti ed in virtù? Concludete dunque così: come mai posso io sperare di essere del numero degli eletti, mentre vedo altri che hanno maggiori diritti di me, e nulladimeno temono di non esservi? Se temesi con una vita piena di buone opere, come sperare con una vita priva di virtù? Convien dunque, per assicurare la mia salute, ch’io imiti, che io superi anche in virtù coloro che menano una vita più regolata che non è la mia, poiché tra quelli che corrono nella lizza un solo è quegli che riporta il premio; bisogna ch’io raddoppi le forze per giungere al segno; giacché la porta del cielo è così stretta, convien ch’io faccia tutti i miei sforzi per entrarvi. – Se voi mettete in pratica queste utili conseguenze, il numero degli eletti, fosse ben egli ancora più piccolo che non è (ed ecco ciò che consola in questa verità), non vi dovesse essere che un solo predestinato nel mondo, sarete voi quello; il Vangelo e Gesù Cristo ci avrebbero ingannati, promettendoci la salute a queste condizioni, se noi non vi pervenissimo adempiendole; al contrario, se voi vivete nel disordine, se non fate penitenza, se morite nel peccato, benché non vi dovesse essere che un solo riprovato, voi sarete quello, e ciò per colpa vostra: Perditio tua ex te, Israel [Oseæ XIII). Ah! fratelli miei, se vi si dicesse solamente che deve esservene uno in quest’assemblea, non dovreste voi temere di esser quello? che sarebbe poi, se vi si annunciasse che ve ne sarà la metà e molto più ancora? Volete voi sapere se sarete di questo numero? Interrogate la vostra coscienza per sapere in quale stato voi siete, giudicatene da voi medesimi; se non siete in grazia di Dio, se comparite al suo giudizio senz’avere la veste nuziale, voi siete certi di essere precipitati nelle eterne tenebre. Qual cosa più capace d’indurvi; per poco che vi resti di fede, a lasciar il peccato con una sincera penitenza? Tale è il frutto che voi dovete ricavare dalle salutevoli riflessioni che abbiamo fatte sul piccolo numero degli eletti. Cominciate dunque, peccatori, sin dal giorno d’oggi, senza più tardare, la grand’opera della vostra conversione; rinnovatevi, come dice il grande Apostolo, in uno spirito di fervore, rivestendovi di Gesù Cristo, cioè, prendendolo per modello: Renovamini spiritu mentis vestræ. Sbandite dai vostri discorsi ogni parola ingiuriosa a Dio o al prossimo, per farvi regnare la verità. Se l’ira vi ha impegnati in qualche nimicizia col vostro prossimo, andate quanto prima a riconciliarvi con lui, affinché il sole non tramonti sull’ira vostra. Chi faceva ingiustizie, non ne faccia più e le ripari al più presto; anzi fatichi ancora a soccorrere l’indigente. Quanto a voi, giusti, se volete perseverare nella grazia di Dio, meditate sovente questa gran verità: Pauci electi, vi sono pochi eletti; voi troverete in essa una forte difesa contro gli assalti dei vostri nemici. Animatevi al fervore, alla pratica della virtù con queste belle parole che Gesù Cristo v’insegna: Contendite intrare per angustam portam; forzatevi di entrare nel cielo per la piccola porta. Così sia.

Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXXVII: 7
Si ambulávero in médio tribulatiónis, vivificábis me, Dómine: et super iram inimicórum meórum exténdes manum tuam, et salvum me fáciet déxtera tua. [Se cammino in mezzo alla tribolazione, Tu mi dai la vita, o Signore: contro l’ira dei miei nemici stendi la tua mano, e la tua destra mi salverà.]

Secreta

Hæc múnera, quǽsumus, Dómine, quæ óculis tuæ majestátis offérimus, salutária nobis esse concéde.

[Concedi, o Signore, Te ne preghiamo, che questi doni, da noi offerti in onore della tua maestà, ci siano salutari.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXVIII: 4-5
Tu mandásti mandáta tua custodíri nimis: útinam dirigántur viæ meæ, ad custodiéndas justificatiónes tuas.

[Tu hai ordinato che i tuoi comandamenti siano osservati con grande diligenza: fai che i miei passi siano diretti all’osservanza dei tuoi precetti.]

Postcommunio

Orémus.
Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et tuis semper fáciat inhærére mandátis.

[O Signore, l’opera medicinale del tuo sacramento ci liberi benignamente dalle nostre perversità, e ci faccia vivere sempre sinceramente fedeli ai tuoi precetti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (130)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO IX.

Il miracolo de’ miracoli, la conversione del mondo alla fede di Cristo.

I. Ciò che si è divisato fin ora, fa manifesto che le opposizioni eccitate, sì dagli ebrei contra i miracoli di Cristo, e sì dagli eretici contra i miracoli de’ fedeli veri di Cristo, non hanno finalmente nulla di fermo, salvo l’ostinazione degli avversari, che è il solito fondamento de’ loro errori. Tuttavia diamo anche loro, che i prodigi nostri restassero alquanto dubbi; come faranno non pertanto a schermirsi dalla doppia punta con cui gli assale l’acuto s. Agostino ( De Civ. Dei 1. c. 5 ) in quel suo dilemma? O il mondo ha. Ricevuta la fede cristiana mosso dalle miracolose operazioni di quei che la propagarono; e già abbiamo i miracoli contrastati dagl’invidiosi: o l’ha ricevuta senza mirare veruna di tali operazioni; ed ecco un miracolo dunque maggiore di tutti: il mondo convertito senza miracoli. E a ciò che si può rispondere?

II. A voler pertanto penetrar bene la forza di questa argomentazione, tal è la via. La religione di Cristo propone cose sì arduo a credere, sì alte allo sperare, sì difficili all’operarsi, che veggendosi quelle con evidenza e credere e sperare e operar da tanti, non può negarsi, che se ciò è succeduto senza miracoli, convien che Dio abbia interiormente supplito per altro verso. Ma questo non poteva essere se non che sollevando in modo più alto gli uomini, da sé solo, ad aderirgli, con un prodigio maggiore de’ naturali, qual era vincere la resistenza delle materie e de’ corpi (S. Th. 3. p. q.). E chi non sa che niun corpo resiste all’angelo, si che egli di sua virtù non lo possa muovere come vuole? Eppure i cuori degli uomini gli resistono (S. Th. 1. p. q. 111. art. 2). Esset autem omnibus signis mirabilius, si ad credendum tam ardua, ad sperandum tam alta, ad operandum tam difficilia, mundus absque mirabilibus signis inductus fuisset a simplicibus et ignobilibus hominibus (S. Th. contra gentes 1. 2. C. 6). Che un peso minore vinca un maggiore, non sì può conseguire mai senza macchina, dice il filosofo (In Mech. c. 1. n. 2). E questo appunto interviene nel caso nostro, dove pochi e poveri pescatori voltarono sossopra il mondo colla forza di quella leva onnipotente che loro aveva il Redentore apprestata nella sua croce. Ma per concepire giustamente la forza di questa macchina, è di necessità figurarsi al vivo tre cose: l’abisso di quel profondo ove giaceva il mondo, prima di sì ammirabile elevazione di esso alla fede: l’altezza di quel posto a cui fu elevato: e la debolezza dei predicatori evangelici impiegatisi ad elevarlo.

I.

III. Giacea dunque il genere umano in un abisso di tutte le più malvage scelleratezze, e ogni uomo non era più un piccolo mondo, ma bene un piccolo caos di confusione, tanto disordinato in tutto se stesso. Toltone un angolo della Giudea (che pure anche ella rimase offuscata frequentemente dalle tenebre dei popoli circonvicini), tutto il rimanente degli uomini dimorava in un’alta notte. In luogo del vero Dio adorava le creature: né solo le più belle, come il fuoco, il sole, le stelle, o le più benefiche, come le piante fruttuose; ma le più vili, come topi e tafani; e le più nocive, come coccodrilli, scorpioni, serpi, dragoni. Tutti questi ebbero tra le nazioni più colte, non pure dell’Egitto, ma della Grecia, anzi in Roma medesima, i loro adoratori ed i loro altari. E quel che è più, ve gli ebbero uomini peggiori ancor de’ dragoni, cioè uomini pieni di tutti i vizi, o per dir meglio ve gli ebbero fino i vizi stessi degli uomini, convertiti in tanto deità: Ipso, vitia religiosa sunt, atque non modo non vitantur, sed, etiam coluntur (Lact. 1. 1. c. 13. de falsa Rel.). Così potevasi dire allor con Lattanzio: essendosi in fine giunto, non solamente a togliere la vergogna dal volto di tutte le scelleraggini più nefande, ma a coronarle fin di raggi celesti.

IV. Né appariva speranza più di rimedio, mentre i savi stessi del gentilesimo, i quali conoscevan la falsità della lor ingannevole religione, in vece di distoglierne il volgo, ve lo immergevano più altamente, insegnando, che conveniva accomodarsi all’usanza; credere come si volea, ma vivere secondo che si vivea; e praticare quelle cerimonie sacrileghe, se non come grate al cielo, almeno come ordinate dalla consuetudine della patria: che fu appunto ciò che la penna di un Agostino rimproverò sì giustamente a quel Seneca, renduto ahi quanto colpevole, più degli altri, dal suo sapore: Colebat quod reprehendebat , agebat quod arguebat, quod culpabat adorabat (S. Aug. 1. 6. de Civ. c. 50).

V. Che se il ben credere è la prima regola del ben vivere, agevolmente s’intende quanto perversi dovean essere que’ costumi che dipendevano da una fede sì storta! Chi poteva temer di peccare sotto l’imperio di tali dei, che o non conoscevan le colpe, o invece di punirle in altrui, le ammettevano in se medesimi; e dopo avere infamati i talami con gli adulteri insolenti, le torri con gli accessi insidiosi, e le spiagge marittime fin coi ratti non condonabili ai più licenziosi corsari, ostentavano al mondo con caratteri di stelle le loro infamie descritte in cielo? Troppo era naturale il discorso, quantunque pessimo, di colui: Quod, divos decuit, cur mihi turpe putem? Ed infatti tanto erano lontani dal vergognarsi delle loro lascivie questi adoratori di numi sì svergognati, che di esse adornavano le loro solennità, di esse arricchivano i loro sacrifizi, e ad esse davano il nome di riti sacri, benché nell’abbominazione vincessero i medesimi sacrilegi. Onde potè con amaro sdegno esclamare l’istesso s. Agostino: Qualia sunt usacrilegia, si ista sunt sacra? (Libro 2. de Civ.).

VI. Ma forse che il solo popolo vile lasciò lordarsi di questo fango? Arguitelo voi da ciò che il senato di Roma decretò teatri, tempi, onori divini a una tal Flora, laidissima meretrice, in ricompensa di avere questa, morendo, lasciata al pubblico l’eredità de’ suoi beni, cioè l’avanzo infamissimo di quel prezzo che ella aveva ritratto in tanti anni dal vituperoso mercato delle sue carni. Le comete di posto nobile, quali son quelle che appaiono in mezzo al cielo, dilatano più ampiamente i loro effetti malefici sulla terra. Giudicate però quale impressione poteva fare nel mondo soggetto a Roma un esempio si reo, che gli derivava dal senato, capo del mondo.

VII. E pure mi darei qualche pace, se si fossero gli nomini contentati di peccare da uomini, senza volere superare, peccando, nella crudeltà fin le fiere. E qual fiera si trova, che incrudelisca contro i suoi parti innocenti mentre a prò loro divengono anzi le più tenere per amore quelle che sono le più rabbiose per indole? E nondimeno contra i lor parti medesimi tanto già incrudelivano i genitori, che li sacrificavano allegramente, a suono di tamburi e di trombe, dinanzi agl’idoli. Ciò che fu poi costume sì ricevuto tra le nazioni, che anche Gerusalemme, la città eletta dal cielo, più d’una volta non si vergognò d’imitarle, fino ad inzuppare di sangue il più immacolato la terra santa. Così a Lucifero era riuscito il suo secondo disegno, tanto meglio del primo: mentre non avendo egli potuto sollevar se medesimo all’ambita divinità, se n’era da sé quasi formata un’altra, con precipitare tutto il genere umano a dovergli star sotto i piedi per tutta l’eternità, quale schiavo ignobile, in un profondo di mali. Ed egli, benché tiranno, già regnava frattanto per l’universo con pace somma, mentre, da venti secoli almeno, lo possedeva senza contraddizione e senza contrasto. E certamente chi mai poteva voltare indietro la furia di sì gran piena? Quando un rio non è lontano ancor dalla fonte, può divertirsi con qualche facilità; ma come può divertirsi, quando con lungo corso tanto è cresciuto, che allaghi i campi? Un male sì universale, sì vasto, sì inveterato, pareva cambiato in natura. Onde non altro poteva il mondo aspettarsi di quel che accade nelle gravi febbri maligne, quando le viscere infiammate raddoppiano al capo i deliri, e il capo vieppiù fumante per que’ deliri accresce vicendevolmente alle viscere la lor fiamma. Voglio dire che l’intelletto, sempre più ottenebrato dalla volontà perversa, pervertiva sempre più la volontà, e la volontà l’intelletto: e l’intelletto e la volontà aumentavano insieme all’uomo il suo male, affatto insanabile senza cura miracolosa.

II.

VIII. Questo era il baratro, donde aveva il mondo a levarsi. Veggiamo ora il termine dove egli aveva da arrivare; affine di capir bene quanto sia stata grande la resistenza che in tal atto incontrata fu dalla macchina della croce, e pure fu vinta. Questo termine era il sommo della verità e della santità praticabile in su la terra. Intese Cristo di riacquistare al Padre il mondo usurpatogli dal demonio. Intese di sbandirne via tutti i vizi, in un con l’idolatria che tra loro porta corona simile a quella che gode il basilisco tra gli altri draghi. Intese di piantare una legge si bella, che il peccare fosse un amare ciò che ella vieta, e il perfezionarsi non potess’essere se non un eseguire ciò che da lei vien commesso o vien consigliato.

IX. Ora, che Cristo abbia conseguito il suo fine, ne fa ampia fede la vita singolarmente di quei primi Cristiani, chiamati giusti fino dai loro stessi persecutori. Riferisce Eusebio (In vit. Const. 1. 2. c. 49. 50), che l’oracolo delfico, al tempo di Diocleziano, ammutolì sì profondamente, che sollecitato da’ sacerdoti in più modi, non rendé infine altra risposta che questa: Che i tanti giusti turavano a lui la bocca. E i tanti giusti erano i seguaci di Cristo, come i medesimi sacerdoti spiegarono all’imperatore alterato a tal novità. Filone, celebratissimo, non pure tra’ suoi giudei, ma tra gli esterni, i  quel libro che compilò de’ primi Cristiani dì Alessandria, da lui descritti, sotto nome di Esseni, ci fa vedere la loro vita più celestiale, che umana (Baron. an. 46), e Plinio (L. 2. cp. 100), dopo un’accurata ricerca de’ lor costumi, poté scrivere a Traiano, sì avverso alla nostra fede, che ne’ Cristiani non v’era altro di male, che un affetto eccessivo al loro Maestro, da loro amato qual Dio (De Christianis: l. X, lett. 97). Queste sono testimonianze di nemici, e però tanto più autorevoli a chi ci abborre. Onde Atenagora, prima illustre filosofo, e poi più illustre martire del Signore, scrisse già francamente su i primi fogli della sua nobilissima apologia, che niun cristiano cattivo si ritrovava, se pur era vero Cristiano, e non era finto: Nullus christianus malus est, nisi hanc religionem simulanti.

X. La loro fede era sì costante, che i proconsoli e i presidenti si dichiararono presso Cesare, che essi non ritrovavano né croci, né carnefici sufficienti al numero di que’ Cristiani che nelle loro provincie si offerivano generosi alla morte (Anton. Procons. Asiæ, et Tiberius Palæst. Præfect.). La loro carità fu sì accesa, che per essa si discernevano da’ gentili: i gentili attoniti alla nobiltà di spettacolo così nuovo, andavano ogni poco fra sé dicendo: Guardate amore! Volere infino l’uno morir per l’altro: Videte, ut se invicem diligant, ut prò alterutro mori sint parati(Tert. Ap. c. 39). E la loro pudicizia fu sì evidente che più crudo supplizio per qualunque donna cristiana si reputava condannarla a’ lupanari che condannarla ai leoni: Ad lenonem damnando christianam, potius quam ad leonem, confessi estis labem pudicitiæ apud nos atrociorem omni pœna et omni morte reputari (Tert. Ap. c. ult.).

XI. E pure quanto tempo si ricercò a fare questo ammirabile cambiamento di cuori e di costumi nell’universo? Ogni macchina quanto vince di controforza, tanto è necessario che perda di celerità nell’operazione. Ma la macchina della croce non va con sì fatte regole. Quindi è, che una legge, sì ripugnante al vivere di que’ tempi, prevalse sì prestamente, che in capo al secondo secolo poté francamente scrivere Tertulliano (Anno 201. asserit. Spondan. n. 8. scriptum Apol. Tert.), che non v’era più luogo non occupato da’ seguaci di Cristo, fuori di quelli, dov’essi non si degnavano di por piede: Vestra omnia, implevimus, insulas, castella, municipia, conciliabula, castra ipsa, tribus, decurias, palatium, senatum, forum; sola vobis reliquimus tempia.

XII. Pertanto il mondo, da sentina di laidezze cambiossi in un giardino amenissimo di virtù; e la verginità raminga già dalla terra, la poté popolare sì nobilmente, che come scrive Palladio, ne’ giorni suoi, cioè sul principio del quarto secolo, il territorio di una sola città di Egitto alimentava ventimila vergini religiose, viventi tra’ mortali una vita angelica.

XIII. Eccovi il cambiamento de’ costumi, pronosticato dalle sibille sotto nome di secoli d’oro: pronunziato da’ profeti sotto l’allegoria di deserto cambiato in terreno colto: e chiaramente predetto ancora da Cristo innanzi al morire, sotto immagine di trionfo, quando assicurò i suoi fedeli, che Egli, sollevato ormai sul patibolo della croce era per tirare a sé solo tutte le genti: Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum. Chi non iscorge però in questa mutazione di giudizii, di voleri, di vita, il dito di Dio, più potentemente impiegato, che non già ne’ portenti sì celebri dell’Egitto, dove pur gli stregoni più contumaci ve l’ebbero a veder chiaro ed a confessarvelo? Digitus Dei est Me.

III.

XIV. Senonchè ci rimane a considerare anche il meglio, cioè la debolezza de’ predicatori evangelici, eletti a fare un cambiamento sì alto. Quando Archimede con le sue leve spinse in mare una nave carica, di sterminata grandezza, restò Ierone si attonito, che esclamò, non doversi più ad un tal uomo negare di credere quanto mai promettesse di voler fare: Archimedi quidlibet affirmanti credendum est (Athen. 1. 5. c. 7. Proc. 1. 2. c. 3): quasi che nell’arte di lui riconoscesse quel principe compilata una piccola onnipotenza. Ora un’onnipotenza non sognata, ma vera, converrà riconoscere certamente nella conversione del mondo, se si rimiri, quanto da sé erano inabili ad ottenerla dodici Apostoli, noveri, semplici, sconosciuti, e privi affatto d’ogni talento che li potesse rendere riguardevoli ad occhi umani. I principi grandi ad ostentazione della loro potenza prendono a fabbricare talvolta in mare, con ergervi lunghi moli ove andarvi a spasso. Ma con ciò anzi vengono a far palese, che, benché principi, non sono da più degli altri, mentre nel mare conviene che anch’essi cerchino fondo sodo, come si fa sulla terra. Iddio per contrario, non solamente sa fondar le sue fabbriche sopra l’onde, ma sa fondarle sul nulla, cioè sopra spalle sì deboli, che, invece dì sostenere l’opera con lo loro forze, abbiano bisogno di essere sostenute.

XV. E perché questa allo spirito è una contemplazione molto gioconda, figuratevi un savio della terra il quale per via si abbatta in un pescatore, solo, scalzo, negletto, qual era Pietro, quando n’andava a Roma per introintrodurvi la fé di Cristo. E quivi fate ragione, che interrogato de’ suoi disegni l’apostolo gli risponda: Venir lui alla città reina del mondo, per renderla a sé ubbidiente: piantar su quell’inclito Campidoglio un labaro trionfale, non più là apparso, e per fondare in quella regia una nuova religione, da cui sia tosto l’antica mandata in bando: aver lui in cuore di farvi adorar qual Dio un uomo di trentatré anni crocifisso novellamente nella Giudea per consiglio degli scribi, per consenso de’ sacerdoti, e per sentenza di Ponzio, presidente romano, fra due ladroni; volervi persuadere, che questo crocifisso non è più morto, ma risorto già dalla tomba, per virtù propria, ad una vita gloriosa che gode in cielo: e che dal cielo è per tornare una volta a giudicare tutto il genere umano, richiamando dalle lor ceneri a nuova vita tutti mortali, per dare loro quella pena o quel premio, che si saran meritato con le lor opere. Non contento di far lui credere a Roma questo verità puramente speculative, voler che in pratica, per amor di quest’uomo, ella si risolva a sfuggire i piaceri come nemici, ad abbracciare la povertà qual tesoro il più fortunato, e ad anteporre le ignominie e le ingiurie a tutti gli onori che prima si comperavano a sì gran costo: voler che quivi si amino tatti insieme come fratelli, e che, se mai da veruno vengano offesi, contraccambino l’odio con benevolenza, gli oltraggi con benefìzi; e che in una parola ciascun sia pronto ad abbandonare e padroni e padri e figliuoli e sposo e sorelle e quanto si possiede di bene al mondo o può possedersi, per ubbidire a questo giustiziato, di cui si parla, e per mantenere inviolabile a lui la fede: né pretender già esso di persuadere, sì strane cose a semplici femminelle: pretender di persuaderle a senatori, a consoli, a capitani, infino a monarchi, sicché si glorino d’imbrandire un giorno la spada ad onore di questo medesimo crocifisso, e credano di nobilitarsi la fronte con la sua croce più che con tutte le loro gemme orientali: pretender di persuaderle alle più scienziate accademie, ad oratori, a favoleggiatori, a filosofi, a gran politici, e a ministri di stato, usi a librare il mondo sulle lor lance; e quel ch’è più, di persuaderle ad uomini tutti immersi nelle dissoluzioni, sicché, sfangandone, curvino a questo nuovo nume lo spirito riverente, e col timore di lui tengano in briglia da ora innanzi le lor passioni scorrette.

XVI. Or che direbbe mai quel savio all’udir tali stravaganze? Credo, che da principio dileggerebbe senza dubbio l’Apostolo come stolto. Ma quando pure, per le parole replicate di questo, inclinasse a credergli, passerebbe egli attonito a domandargli, con qual apparato di ricchezza, di dottrina, di doti, di nobiltà, di compagni, di fautori, intraprendesse un’impresa sì malagevole. E però quanto crescerebbe in lui lo stupore, quando si udisse a tale istanza soggiungere dal buon Pietro, che i suoi compagni son dodici, e che col seguito di pochi altri, da loro ammessi a tal opera, si sono ripartito tutto il mondo abitato, per soggettarlo a questa novella fede: che in arnese tutti vanno sì poveri, come lui: che non pregiano altra dottrina, altre doti, che l’amore a questo medesimo crocifisso: e che quantunque siano pescatori di mestiere, e Giudei di patria, e come Giudei sappiano d’essere l’odio delle nazioni, tuttavia vengono assicurati dal loro Maestro, che pianteranno di certo una tal credenza sulle rovine del culto già universale de’ falsi Dei, e la pianteranno sì salda che tutti i tormenti inventati dalla rabbia dei Cesari in trecento anni, e ne’ secoli susseguenti, invece di svellerla, concorreranno a farle gettar più valide le radici in qualunque lato: né si guardi, tutti al pari loro essere di una lingua, perché ben sapranno usare, dovunque vadano, tuttavia le lingue di tutti, benché mai da lor non apprese.

XVII. E di fatto così è avvenuto: e se noi stupiti non ammiriamo l’evento, è perché nati in questa fede. e nutritivi, non la consideriamo più qual prodigio, ma qual cosa giustissima ad avvenire. Frattanto, ipse modus, quo eredidit mundus, incredibilior invenitur, dice a ragione sant’Agostino (De Civit. Dei 1. 21. c. 5).Se udissimo raccontare che dodici soldati di Europa, sbarcati nell’America, han soggiogata tutta quella parte di mondo, ci sembrerebbe stranissimo a dover crederlo. Ma finalmente quegl’indiani, mal esperti alla guerra, han lance di canne: onde può essere che quei pochi europei, con andar ben guerniti di qualunque arma, e di ferro e di fuoco abbiano abbattuta col timor di sé quella moltitudine che non potevano vincere con la forza. Ma fingete, che dodici indiani, vestiti alla leggera, con le lor piume, sbarcassero al tempo stesso, quale in un porto di Europa, quale in un altro, e con le loro canne in mano per aste superassero in più fazioni eserciti innumerabili di soldati nostrali i più bellicosi; chi mai penerebbe a credere che tal vittoria avvenisse, non per virtù naturale, ma sovrumana, massimamente se quegl’indiani restassero superiori, non ammazzando gli emuli, ma ammazzati? Ora tale è il caso nostro: senonché tanto egli è ancora più stravagante, quanto è più difficile vincere i cervelli e i cuori, che non i corpi. E potrà uomo di senno non confessare la legge cristiana per un lavoro che vien dall’alto? Nullus his contradixerit, nisi qui valide insanus et totus stupidus sit: come ne parve, tanti secoli fa, alla lingua d’oro di Giovanni il Grisostomo (Homilia quod Christus sit Deus). Il vincere l’audacia con la sommessione, l’astuzia con la semplicità, i re coi poveri, i fastosi con gl’ignobili, i filosofanti con gl’idioti, è un’impresa che non poteva disegnarsi da altri che da Dio solo, e da Dio solo eseguirsi. Egli solo è il padron dell’uomo, e così Egli solo può esercitare nell’intimo di lui dominio totale, piegandolo con dolcezza, a ciò ch’Egli vuole, senza punto violargli la libertà. Il diamante, benché sì duro, pure anch’egli ha le vene proprie, per cui lo sanno fendere i gioiellieri ben intendenti. Sia duro quanto si voglia il cuore degli uomini sia restio, ha le sue vene ancor esso, per cui gentilmente vi opera quel Signore che lo formò.

IV.

XVIII. Ponete ora al confronto le mutazioni che le altre sette hanno fatto ne’ lor seguaci. Socrate, Platone, Aristotile, Tullio, Seneca, Plotino, Plutarco, sono i più riveriti maestri dell’antichità. Ora qual gente essi accolsero sotto le loro insegne? Non h inno potuto neppure fare universalmente accettare quelle verità che sono scritte nel cuore umano dal dito dellanatura. Tal è. non esservi più che un Dio solo al mondo. Così credevano in loro cuore ancor essi. E pure, con tutto il loro sapere, a qual città, a qual castello, a qual infimo villaggetto arrivarono a persuadere che, lasciate il culto degl’idoli, abbracciassero quello di un solo Dio? Similmente conoscevano essi il darsi al mondo un’altissima provvidenza de’ nostri affari:l’anima esser immortale: la virtù non dover andar senza premio; il vizio non dovere andar senza pena, né solo in questo mondo, ma ancora nell’altro E pure in quanti fermamente stamparono tali dogmi? Giudicate poi che avrebbero persuaso le loro parole di quelle verità più difficoltose che sormontano tanto ogni umana capacità.

XIX. Ma che dico io de’ filosofi, i quali avevano una sapienza morta nel cuore, e non un vivo spirito di pietà; onde è che potevano fare assai più di strepito, che di scossa. Abramo, Giuseppe, Giacobbe, Mosè, e gli altri amici più intimi del Signore, ancorché da Lui ricevessero tanti oracoli, e tanti altrui fedelmente ne riportassero, poterono forse persuadere ad una intera provincia là nell’Egitto, che ella aderisse con esso loro al gran Dio da loro adorato? Né anche forse lo persuasero ad un’intera famiglia. E quantunque la legge data a Mosè sul Sinai fosse sì giusta, quantunque fossegli bandita quivi da Dio in un apparato di tant’orrore, che pareva anzi indirizzato a punir prevaricazioni, che a pubblicare precetti: quantunque all’adempimento di essa fosse il popolo scorto con una guida scesa dal cielo, la quale precedevalo ad ogni passo: quantunque fosse alimentato a meraviglia da nuvole rugiadose, da rupi serve, da ruscelli seguaci: quantunque fosse condotto per un sentiero, in cui d’ambo i lati aveva per siepe, a tenerlo in via, folto numero di prodigi; contuttociò quanto ebbe Mosè a penare per farlo stare entro i termini del dovere, sicché, non traboccassero ancor egli nelle abbominevoli usanze degli idolatri, è invece di convertire gli abitatori della terra promessa, non si lasciasse pervertire in pochi anni dai loro costumi? Tanto inferiori sono il Sinai al Calvario, la sinagoga alla Chiesa.

XX. Mi vergogno qui poi di rammemorare il sozzo Maometto. Ma, a confusione di quegli stolti i quali lo fanno andare in cocchio coi sommi legislatori. mostri un poco ancor egli la mutazione che recò al mondo la legge da lui data contro ogni legge. Dov’ella entrò, parve entrarvi subito un fuoco divoratore; sicché quella varietà di scena che si scorge intorno al Vesuvio,prima che egli vomiti le sue fiamme infernali sulle campagne, e dappoiché ve la ha vomitate, quella si scorge parimenti nei luoghi soggetti al turco. Qual paese già fecondo d’ingegni, più culto per arti, più costumato per andamenti, più fiorito per lettere, e qual anche  più venerabile por pietà, che la Grecia, e che la stessa Africa quando obbediva a Cristo? E pure, quale più selvaggio, più stolido, più ignorante che l’Africa, o che la Grecia, poiché passarono sotto il giogo ottomano? E quello che ivi ancora è più da notarsi, ciascuno avria divisato che la legge turchesca, con la molteplicità delle mogli da lei permesse, avesse a popolare i paesi dov’ella arriva, sopra ogni credere; e per contrario ella v i arreca a poco a poco un’orrenda desolazione. L’Egitto fu già tanto popoloso, che Pomponio Mela vi annoverò le città a venti migliaia: ed ora è sì scarso, che Leone Africano non gliene dà più di venti. E laddove nell’Africa, l’anno quattrocento settantuno, furono, per testimonianza di Beda, funestate da Unnerico re ariano, quattrocento trentaquattro città, con l’esilio de’ loro vescovi; ora per dotto dì Leone medesimo suo natio, non ve se ne possono contare più di quaranta, quando anche per città si passino luoghi poco degni di tanto nome (Apud Bazium 1. 15. signo 73). E l’istesso proporzionalmente si può affermare della Grecia e dell’Asia, dove l’imperio ottomano si dilatò: tantoché i turchi medesimi, ammirando la strana sterilità che portano per retaggio con esso sé le loro conquiste, son usi dire, che dove il cavallo del gran signore pone il pie non nasce più erba (Boler in relat.).

XXI. Di questa foggia sono que’ cambiamenti che le sette cagionano ne’ lor popoli, e di peggiore sono quelli che cagionano ne’ costumi, mutandoli di buoni in cattivi, di cattivi in pessimi, fino a precipitarli nell’ateismo; come appunto succede fra’ novatori, i quali, non trovando dove alla fine posare il pie, si riducono ad affermare che ciascuno può salvarsi nella sua legge: non si accorgendo i meschini, che l’approvare tutte le religioni, e il negarle tutte, sembrano due contraddizioni formali, e son due sinonimi. Ma che? Questo è l’esito degli animali nati dal putridume terminare in una corruzione maggiore di quella da cui provennero.

XXII. Tornando all’intendimento: chi non vede frattanto, che la fede di Cristo è la vera dottrina uscita dal cielo, mentre per mezzo di essa ha Dio introdotto nel mondo tanto di sapienza e tanto di santità, e ne ha sgombrato tanto di sciocchezze nelle opinioni, e tanto di sozzure nell’opere? Però, o tutta questa mutazione è succeduta a forza di gran miracoli, ed ecco la sottoscrizione che Dio vi ha aggiunto di man propria, affino di accreditarla; o è succeduta senza miracoli; ed ecco divenire un miracolo ancor maggiore quella mutazione ora detta, che, essendo sì inaspettabile e sì inaudita, è da Dio stata operata senza miracoli, e in sì breve ora, che direi esser la fede scorsa immediatamente da un polo all’altro come la luce, se ciò non fosse dir poco, mentre la luce non ha contrario veruno che le resista; ma quanti n’ebbe la fede! Sicché quale scampo ormai resta a chi non confessi, che dal modo medesimo, con cui questa si è propagata nell’universo, dà chiaramente a vedersi, ch’ella è la vera? E se è la vera, che dunque osare di levarsele contro a guisa di vipera ritta al sole, col collo gonfio di livor velenoso, che spiri morte, e con la bocca piena di spume maligne? Meglio è l’umiliarsi, e concedere nuovamente, che ci vuol più a non volere scorgere dove regni la religione sincera, che a risaperlo.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (1)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (1)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO I.

Si pongono due fondamenti principali in questa materia.

Non sicut ego volo, sed sicut tu (Matth, XXVI,39):

Non si faccia, Signore, come voglio io, ma come volete voi. Per due fini dicono i Santi che discese il Figliuolo di Dio dal cielo e si vestì della nostra carne, facendosi vero uomo: l’uno per redimerci col suo Sangue prezioso, l’altro per insegnarci colla sua dottrina la via del cielo e istruirci col suo esempio: imperciocché siccome non ci avrebbe giovato il saper la via per cui poter camminare, se fossimo rimasi legati nel carcere; così, dice S. Bernardo (D. Bern., serm., 3, in circum., Dom.), non avrebbe giovato il cavarci dal carcere, se non avessimo saputa tal via: e poiché Dio era invisibile, era necessario, che per poterlo noi vedere, seguitare e imitare, Egli si facesse visibile e si vestisse della nostra umanità: in quella guisa che il pastore si veste di un pelliccione formato della stessa delle delle pecore, acciocché queste più facilmente lo seguitino, vedendo la loro similitudine. – E S. Leone papa dice: Nisi enim esset verus Deus, non afferret remedium: nisi esset homo verus, non præberet exemplum (D. Leo P. serm. 1, (le Nat. Dom.): Se Cristo non fosse stato vero Dio, non ci avrebbe apportato il rimedio; e se non fosse stato vero uomo, non ci avrebbe dato l’esempio. L’una e l’altra di queste due cose fece Egli molto compiutamente mercé l’eccesso di quell’amore che portava agli uomini. Siccome dal canto suo fu molto copiosa la redenzione: Et copiosa apud eum redemptio (Psal. CXXIX, 7): così dal canto suo fu anche molto copioso il suo ammaestramento; perché non fu fatto solamente con parole, ma molto più abbondantemente con esempio di opere: Cœpit Jesus facere et docere, dice l’evangelista S. Luca (Act, I, l). Prima cominciò ad operare, il che fece in tutta la sua vita; e dipoi a predicare i tre ultimi anni, ovvero i due e mezzo. – Ora fra tutte le cose che c’insegnò Cristo nostro Redentore, una delle più principali si è che avessimo una piena conformità alla volontà di Dio in tutte le cose: e non solo ce lo insegnò con parole, quando insegnandoci ad orare disse: Una delle cose che avete da chiedere al vostro Padre celeste, è, Fiat voluntas tua sicut in cœlo et in terra (Matth. VI, 10): Facciasi, Signore, la volontà tua in terra siccome si fa in cielo; ma c’insegnò anche e ci confermò molto bene questa dottrina col suo esempio: perché a quest’effetto dic’Egli che scese dal cielo in terra; Descendi de cælo, non ut faciam voluntatem meam, sed voluntatem ejus qui misit me (Jo. VI, 38): Discesi dal cielo, non per fare la volontà mia, ma quella del mio Padre che mi mandò. E al tempo di compiere la grand’opera della nostra Redenzione, il giovedì dopo l’ultima Cena ritiratosi all’orto di Getsemani, ed ivi postosi in orazione, sebbene il corpo e l’appetito suo sensitivo naturalmente ricusavano la morte (onde per mostrare, ch’era vero uomo, disse: Pater mi, sì possibile est, transeat a me calix iste – Matth. XXVI, 39): Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice); nondimeno la volontà sua fu sempre molto pronta e molto desiderosa di bere il calice che il divin suo Padre gli offriva: onde soggiunse subito: No, Signore, non si faccia quello che voglio Io; ma quello che volete Voi. Per pigliar questa cosa dalla sua radice e per fondarci bene in questa conformità alla volontà di Dio, si hanno da supporre due brevi fondamenti, ma molto sostanziali, sopra de’ quali, come sopra due cardini, si ha da appoggiare e raggirare tutto questo affare. Il primo è, che il nostro profitto e perfezione consiste in questa conformità alla volontà di Dio: e quanto questa sarà maggiore e più perfetta, tanto sarà maggiore il profitto. Questo fondamento si lascia intendere facilmente; perché è cosa certa, che la perfezione essenzialmente consiste nella carità e nell’amor di Dio: e tanto sarà uno più perfetto, quanto più amerà Dio. È pieno di questa dottrina il sacro Evangelio; ne sono piene le Epistole di S. Paolo; ne sono pieni i libri de’ Santi: Hoc est maximum et prìmum mandatumCharitas est vinculum perfectionis (Ad Col, III, 14): — Major autem horum est charitas (I ad Cor. XIII, 13). La cosa più alta e più perfetta è la carità e l’amor di Dio. Ora la parte più alta e più pura di questo amore di Dio, e come la sua quint’essenza, è il conformarsi in ogni cosa alla volontà di lui e l’aver un istesso volere e non volere colla Divina Maestà Sua in tutte le cose: Eadem velle et eadem nolle, ea demum firma amicitia est, dice S. Girolamo (Hieron. ep. ad Demetr. ex Cicer. de amicitia), riportando queste parole da lui cavate da quell’antico Filosofo: L’aver un istesso volere e non volere colla cosa amata, è la vera e ferma amicizia. Dunque quanto uno sarà più conforme e più unito alla volontà di Dio, tanto sarà migliore e più perfetto. Inoltre è chiaro che non vi è cosa migliore né più perfetta che la volontà di Dio; dunque quanto più uno si conformerà e si unirà alla volontà di Dio, tanto migliore e più perfetto sarà: come saviamente arguiva lo stesso sovrallegato Filosofo: Se Dio è la cosa più perfetta che si trovi; dunque quanto più una cosa si assomiglierà a Dio, tanto sarà più perfetta. – Il secondo fondamento è, che nessuna cosa può avvenire né succedere nel mondo, se non per volontà e ordinazione di Dio: il che si ha da intendere sempre, eccettuatane la colpa e il peccato; perché di questo non è cagione né autore Dio, né può esserlo. E siccome ripugna alla natura del fuoco il raffreddare, e a quella dell’acqua il riscaldare, e a quella del sole l’oscurare; così ripugna infinitamente più all’immensa bontà dì Dio l’amare l’iniquità. Onde il profeta Abacuc disse: Mundi sunt oculi tui, ne videas malum; et respicere ad iniquitatem non poteris (Habac. 1,13.): Signore, gli occhi tuoi sono mondi, per non vedere il male; e non puoi vedere le iniquità degli uomini. Siccome tra noi, quando vogliamo significar l’odio che uno porta ad un altro, diciamo, che non lo può vedere; così dice che Dio non può vedere le iniquità degli uomini per l’abborrimento e odio grande che porta a quelle: Quoniam non Deus volens iniquitatem tu es, dice David (Ps, V, 5); e altrove: Dilexisti justitiam et odisti iniquitatem (Ps. XLIV, 8). Tutta la sacra Scrittura è piena di espressioni e di formole le quali ci mostrano quanto Dio odia il peccato; onde non può esser cagione né autor di esso. Ma, eccettuatone il peccato, tutte le altre cose e tutti i travagli e i mali di pena che avvengono in questo mondo, tutti avvengono per volontà e ordinazione di Dio. Questo fondamento è anch’esso molto certo. Non vi è fortuna nel mondo: che questo fu errore de’ Gentili. I beni che il mondo chiama di fortuna, non li dà la fortuna, che questa non vi è, ma li dà solamente Dio. Così lo dice lo Spirito santo per mezzo del Savio: Bona et mala, vita et mors, paupertas et honestas, a Deo sunt (Eccli, XI, 11): I beni e i mali, la vita e la morte, la povertà e le ricchezze, Dio è che le dà. E ancorché queste cose avvengano per mezzo d’altre cagioni seconde, è nondimeno certo, che nessuna cosa si fa in questa gran repubblica del mondo; se non per volontà e ordine di quel supremo Imperatore che la governa. Nessuna cosa avviene a caso rispetto a Dio; ogni cosa vien decretata e ordinata da lui, e ogni cosa passa per le sue mani. Tiene Egli contate tutte le ossa del tuo corpo e tutti i capelli del tuo capo; e né pur uno di essi ti sarà tolto senza ordinazione e volontà sua. Ma che dico io di quello che tocca agli uomini? Non cade un uccellino nel laccio, dice Cristo nostro Redentore nel suo Evangelio, senza disposizione e volontà di Dio: Nonne duo passeres asse væneunt: et unus ex illis non cadet super terram sine Patre vestro (Matth. X, 29)? Nemmeno una fronda di un albero si muove senza la sua volontà. Ancora delle sorti, dice il Savio: Sortes mittuntur in sinum, sed a Domino temperantur (Prov. XVI, 33): Sebbene le sorti si cavano da un bussoletto, o da un vaso, non ti pensare che escano a caso; perché escono per decreto della Divina Provvidenza, la quale così vuole e così dispone: Cecidit sors super Mahiam (Act. I, 26): Non cadde a caso la sorte sopra di Mattia; ma fu per decreto e particolare provvidenza di Dio, il quale lo volle eleggere in suo Apostolo per quella via. Arrivarono a conoscere questa verità, anche col solo lume naturale, i buoni Filosofi, e dissero, che sebbene rispetto alle cagioni seconde molte cose sono a caso, nondimeno non sono a caso rispetto alla prima cagione; ma molto di proposito e a bello studio da lei sono prevedute e ordinate: e apportano per esempio: Se un padrone mandasse un servidore in qualche luogo per qualche affare; e per un’altra strada ne mandasse un altro al medesimo luogo, o per lo stesso, o per un altro affare, senza saper l’uno dell’altro, intendendo però egli, che colà si unissero; l’incontrarsi questi due servidori rispetto ad essi sarebbe a caso, ma rispetto al padrone, che lo pretese, non sarebbe a caso, ma cosa pensata e voluta molto di proposito: così qui nel caso nostro, benché rispetto agli uomini avvengano alcune cose a caso, perché essi prima non le intendevano né vi pensavano; nondimeno rispetto a Dio non avvengono a caso, ma con consiglio e volontà sua, che così ha ordinato per i fini segreti e occulti ch’Egli sa. Quel che abbiamo da cavare da questi due fondamenti, è la conclusione , e l’assunto che abbiamo proposto, cioè, che, giacché tutte le cose che ci accadono vengono dalla mano di Dio, e tutta la nostra perfezione consiste nel conformarci alla volontà sua, le riceviamo dunque tutte come venute dalla sua mano e ci conformiamo in esse alla sua divina e santissima volontà. Non hai da ricevere cosa alcuna come venuta a caso, o per industria e per i mezzi degli uomini; perciocché questo è quello che suol cagionare grande angoscia e dolore: non ti pensare che questa o quell’altra cosa ti sia avvenuta, perché quell’altro l’abbia maneggiata; e che, se non fosse stato per la tale o tal altra circostanza, sarebbe succeduta altrimenti: non hai da far conto di questo; ma pigliare tutte le cose come venute dalla mano di Dio, per qualsivoglia via, o giro, che vengano; perché Egli è quegli che le manda per quei mezzi. – Soleva dire uno di que’ famosi Padri dell’eremo (In Vita Patr.), che non potrà l’uomo aver vero riposo né vera contentezza in questa vita, se non farà conto che in questo mondo non vi sia altri che Dio. ed Egli solo. E S. Doroteo dice, che que’ Padri antichi molto attendevano a questo esercizio, dell’assuefarsi a pigliare tutte le cose come venute dalla mano di Dio, per piccole che fossero ed in qualsivoglia maniera elleno venissero; e che con questo si conservavano in gran pace e quiete, e vivevano vita celaste (In Dototh. Doctr. 7).

CAPO II.

Si dichiara meglio il secondo fondamento.

È una verità tanto chiaramente espressa nella divina Scrittura, che tutti i travagli e mali di pena vengono dalla mano di Dio, che non vi sarebbe veru n bisogno di trattenerci in provarla, se il demonio colla sua astuzia non procurasse d’oscurarla; perché dall’altra verità pur certa che abbiamo detta, cioè non esser Dio cagione né autor del peccato, inferisce una conclusione falsa e bugiarda, facendo credere ad alcuni, che, sebbene i mali che ci vengono per mezzo di cagioni naturali e di creature irragionevoli, come l’infermità, la carestia, la sterilità, vengono dalla mano di Dio; perché in queste cose non v’è peccato né vi può essere in creature tali, non essendo capaci di esso; nondimeno il male e il travaglio che accade per colpa dell’uomo, il quale ha dato ferite, o ha rubato ad un altro, o lo ha ingiuriato, non viene dalla mano di Dio, né è guidato dalla sua ordinazione o provvidenza, ma viene dalla malizia e perversa volontà di colui; il che è un error molto grande. Dice molto bene S. Doroteo riprendendo questa cosa, e quegli insieme che non pigliano tutte le cose come venute dalla mano di Dio: Nos vero cum verbum ullum in nos dictum audimus, canes imitamur: hi enim, si quis in eos lapidem jecerit, jaciente dimisso, lapidem remordent; ita nos, Deo relicto, qui nobis tribulationes hujuscemodi ad peccatorum nostrorum purgationem procurata ad lapidem, hoc est ad proximum, currimus (D. Doroth. Doctr. 7): Vi sono alcuni, i quali, quando un altro dice qualche parola contro di essi, o fa loro qualche altro male, dimenticati di Dio, rivolgono tutta la loro ira contro il prossimo; imitando i cani, i quali mordono il sasso, e non guardano alla mano che l’ha tirato, né fanno d’essa alcun conto. Per dar il bando a quest’errore, e acciocché stiamo ben fondati nella verità cattolica, notano i Teologi, che nel peccato che l’uomo commette concorrono due cose; l’una è il moto e l’atto esteriore ch’egli fa, l’altra il disordine della volontà col quale si scosta da quello che Dio comanda. Della prima cosa è autor Dio, della seconda l’uomo. Mettiamo per esempio che un uomo venga a rissa con un altro e che lo ammazzi. Per ammazzarlo gli bisognò metter mano alla spada, alzare e maneggiare il braccio, tirar il colpo, e far altri moti naturali i quali si possono considerare da sé, senza il disordine della volontà dell’uomo che li fece per ammazzar quell’altro. Di tutti questi moti considerati in se stessi ne è cagione Iddio, ed egli li fa, come fa anche tutti gli altri effetti delle creature irragionevoli: perché siccome elleno non si possono muovere né operare senza l’attual concorso di Dio, così neanche potrebbe senza esso maneggiar l’uomo il braccio né metter mano alla spada. Oltre di questo, quegli atti naturali da se stessi non sono cattivi, perché se l’uomo li usasse per sua necessaria difesa, o in guerra giusta, o come ministro della giustizia, e in questo modo ammazzasse un altro, non peccherebbe. Ma della colpa, che è il difetto e disordine della volontà con cui l’uomo cattivo fa l’ingiuria, e di quel traviamento dalla ragione e storcimento da essa, non ne è cagione Iddio; sebbene ciò Egli permette, perché potendolo impedire, non l’impedisce pe’ suoi giusti giudizi. E dichiarano questo con ima similitudine. Si trova uno ferito nel piede, e con esso va zoppicando. La cagione del camminare col piede è la virtù e la forza motiva dell’anima; ma del zoppicare ne è cagione la ferita, e non la virtù dell’anima; così nel- l’opera che uno fa peccando, la cagione dell’opera è Dio; ma l’errare e il peccare operando è del libero arbitrio dell’uomo. Di maniera che sebbene Iddio non è né può essere cagione né autor del peccato, abbiamo nondimeno da tener per certo, che tutti i mali di pena, o vengano per mezzo di cagioni naturali e di creature irragionevoli, o vengano per mezzo di creature ragionevoli, per qualsivoglia via e in qualsivoglia modo che vengano, tutti vengono dalla mano di Dio, e per sua disposizione e provvidenza. Dio è quegli che ha maneggiata la mano di colui che t’ha percosso, e la lingua di colui che t’ha detta la parola ingiuriosa: Si erit malum in civitate, quod Dominus non fecerit (Amos III, 6)? Dice il profeta Amos: ed è piena la sacra Scrittura di questa verità, attribuendo a Dio il male che un uomo ha fatto ad un altro, e dicendo, che Dio è quegli che l’ha fatto. Nel secondo Libro dei Re, parlandosi di quel castigo che Dio diede a David per mezzo del suo figlio Assalonne, per lo peccato d’adulterio e d’omicidio che commise, dice Dio, che un tale castigo glielo avrebbe dato Egli di propria mano: Ecce ego suscitabo super te malum de domo tua, et tollam uxores tuas in oculis tuis, et dabo proximo tuo…. tu enim fecisti abscondite; ego autem factam verbum istud in conspectu omnis Israel, et in conspectus solis (II. Reg. XII. 11, 12.). Quindi è ancora, che i re empii quali per la loro superbia e crudeltà usavanotrattamenti asprissimi col popolo diDio, vengono chiamati dalla Scrittura istrumento della Divina Giustizia: Væ Assur, virga furoris mei (Isa. X, 5): Guai ad Assur, verga del mio furore. E di Ciro re de’ Persi, per mezzo del quale il Signore aveva da castigare i Caldei, dice: Cujus apprehendi dexteram (3 (lbid. XLV, 1), la cui destra mano io ho da maneggiare. Dice molto bene S. Agostino a questo proposito: Impietas eorum tamquam securis Dei facta est. Facti sunt instrumentum irati, non regnum placati. Facti enim hoc Deus, quod plerumque facit et homo. Aliquando iratus homo apprehendit virgam jacentem in medio, fortasse qualecumque sarmentum, cædìt inde fìlium suum, ac deinde projicit sarmentum. in ignem, et filio servat hæreditatem; sic aliquando Deus per malos erudii bonos (D. Àug. in Psal. LXXIII): Procede Dio con noi altri come suol procedere di qua un padre, il quale adirato col figliuolo dà di mano ad un bastone che trova alla ventura, e con esso castiga il figliuolo, gettando poi il bastone nel fuoco e facendo il figliuolo erede di tutti i suoi beni. In questa maniera, dice il Santo, è solito anche il Signore dar di mano a’ tristi e servirsene d’istrumento e di sferza per castigare i buoni. – Nelle Istorie Ecclesiastiche leggiamo, che nella distruzione di Gerusalemme veggendo Tito capitano de’ Romani, mentre passeggiava intorno alla città, i fossi pieni di teste di morti e di cadaveri, e che tutto quel paese circonvicino s’infettava per la puzza, alzò gli occhi al cielo, e a gran voce chiamò Dio per testimonio, com’egli non era cagione che si facesse tanto grande strage (Hist. Eccles. p. 1, lib. 3, c. 1). E quando quel barbaro Alarico andava a saccheggiare e distrugger Roma, gli uscì incontro un venerabile Monaco, e gli disse, che non volesse esser cagione di tanti mali, quanti si sarebbero commessi in quella giornata; ed egli rispose: Io non vo a Roma per volontà mia, ma una certa persona, la quale non so chi si sia, tutto dì mi va stimolando e mi tormenta, dicendomi: Va a Roma, e distruggi la città (Ibid. part. 2, lib. 6, cap. 2). Di maniera che abbiamo a conchiudere, che tutte queste cose vengono dalla mano di Dio, per ordine e volontà sua. E così il real profeta David, quando Semei gli diceva tanti improperii e gli tirava sassi e polvere, disse a quei che volevano di lui farne vendetta: Dominus præcepit ei, ut malediceret David: et quis est, qui audeat dicere, quare sic fecerit (II. Reg. XVI, 10)? Lasciatelo stare, ché il Signore gli ha comandato, che dica tanto male contro di me: e vuol dire, che il Signore l’ha preso per suo istrumento per affliggermi e castigarmi. Ma che gran cosa è riconoscere gli uomini per istrumenti della Giustizia e Provvidenza Divina; poiché ne sono anche istrumenti gli stessi demoni ostinati e indurati nella loro malvagità e ansiosi della nostra rovina? S. Gregorio (D. Greg. lib. 18, mor. c. 3) nota mirabilmente questa cosa sopra quello che dice la Scrittura nel primo Libro dei Re: Spiritus Domini malus arripiebat Saul (I. Reg. XVI, 23). Uno spirito maligno del Signore esagitava Saulle. Lo stesso spirito si chiama spirito del Signore e spirito maligno; maligno, per lo desiderio della sua maligna volontà; e del Signore, per dimostrarci, che era mandato da Dio per dar quel tormento a Saulle, e che Dio glielo dava per mezzo di esso: e lo dichiara ivi espressamente il Testo medesimo, dicendo: Exagitabat eum spiritus nequam, a Domino (I. Reg. XVI, 14). E per l’istessa ragione dice il Santo (D. Greg. lib. 14 mor, c. 18), che i demonii, i quali tribolano e perseguitano i giusti, sono chiamati dalla Scrittura, ladroni di Dio, come leggesi in Giob: Simul venerunt latrones ejus (Job XIX, 12): ladroni per la maligna volontà che hanno di farci male; e di Dio, per dimostrarci, che la potestà che hanno di farci male l’hanno da Dio. E così pondera molto bene S. Agostino (D. Aug. in Psal. XXXI, Job I, 21): Non dixit Job, Dominus dedit, diabolus abstulit: Non disse il santo Giob: Il Signore me lo diede, e il demonio me l’ha tolto: ma ogni cosa riferì egli subito a Dio, e disse: Il Signore me lo diede; il Signore me l’ha tolto; perché sapeva molto bene, che il demonio non può far più male di quello che gli è permesso da Dio. E proseguisce il Santo; Prorsus ad Deum tuum refer flagellum tuum; quia nec diabolus tibi aliquid facit, nisi ille permittat, qui esuper habet potestatem: Nessuno dica, il demonio m’ha fatto questo male: attribuisci pure a Dio il tuo travaglio e il tuo flagello; perciocché il demonio non può far niente, nemmeno toccarti un pelo della veste, se Dio non gliene dà licenza. Né anche ne’ porci dei Geraseni poterono entrare i demonii senza domandarne prima licenza a Cristo nostro Redentore, come narra il sacro Evangelio (Matth. VIII, 31). Come dunque toccheranno te, o ti potranno tentare, senza licenza di Dio? Quegli che senza questa non poté toccare i porci, come potrà toccare i figliuoli?

CAPO III.

De’ beni e delle utilità grandi che rinchiude in sé questa conformità alla volontà di Dio.

Il beato S. Basilio dice, che la somma della santità e perfezione della vita cristiana consiste in riconoscere, che tutte le cose, tanto grandi quanto piccole, vengono da Dio, come da primaria loro cagione, e in conformarci in esse alla sua santissima volontà. Ma acciocché possiamo meglio conoscere la perfezione e l’importanza di questa cosa, e quindi affezionarci più ad essa, e perché procuriamo di farlo con maggior diligenza, andremo dichiarando in particolare i beni e le utilità grandi che rinchiude in sé questa conformità alla volontà di Dio. Primieramente questa è quella vera e perfetta rassegnazione che magnificano tanto i Santi e tutti i Maestri della vita spirituale; e dicono, che è principio e radice d’ogni nostra pace e quiete; perché  rende l’uomo soggetto e lo mette nelle mani di Dio, come un pezzo di creta nelle mani del vasaio acciocché ne faccia quel che vuole; non volendo esser più suo, né vivere per sé, né mangiare, né dormire, né faticar per sé, ma fare ogni cosa per Dio e per piacere a Dio. Or questo opera questa conformità, che con essa si abbandona uno in tutto e per tutto alla volontà di Dio, di maniera tale che altra cosa non desidera né procura, se non che in esso s’eseguisca perfettamente la volontà divina, sì circa quello che l’istesso uomo dee fare, come circa tutto quello che gli può avvenire; e sì circa le cose prospere e di consolazione, come circa le avverse e di tribolazione. Il che piace tanto a Dio, che per questo il re David fu chiamato da esso Dio, uomo secondo il cuor suo: Inveni virum secundum cor meum, qui faciet omnes voluntates meas (Act. XIII, 22, et I. Reg. XIII, 14): perché aveva il suo cuore tanto attaccato e soggetto al cuor del Signore, e tanto pronto e disposto per qualsivoglia cosa ch’Egli avesse voluto imprimere in esso, di travaglio, o d’alleggerimento, quanto è una cera molle per ricevere qualsiasi figura o forma che se le voglia dare: che per questo egli disse una e due volte: Paratum cor meum, Deus, paratum cor meum (Psal. LVI,  et CVII, 1). Sta disposto il mio. cuore, o mio Dio, sta disposto e preparato. Secondariamente, chi avrà questa interae perfetta conformità alla volontà di Dio, avrà acquistato intera e perfetta mortificazione di tutte le sue passioni e male inclinazioni. Sappiamo bene quanto necessaria è questa mortificazione, e quanto lodata e commendata dai Santi e dalla Scrittura sacra. Ora questa mortificazione è un mezzo che necessariamente si ha da presupporre per venire ad acquistare questa conformità colla volontà di Dio. Di maniera che questo è il fine, e la mortificazione è il mezzo per conseguirlo; e il fine principale sempre suole essere più alto e più perfetto che il mezzo. Che la mortificazione sia mezzo necessario per venire ad acquistare quest’unione e intera e perfetta conformità alla volontà di Dio, si vede molto bene; poiché quello che c’impedisce questa unione e conformità è la nostra propria volontà e il nostro appetito disordinato:e così quanto più uno negherà e mortificherà la sua volontà e il suo appetito, tanto più facilmente si unirà e si conformerà alla volontà di Dio. Per unire e aggiustare un legno rozzo con un altro molto lavorato e pulito, bisogna prima lavorarlo e sgrossarlo; perché altrimenti non si potrà unire né congiungere bene coll’altro. Ora quest’effetto fa la mortificazione; ci va sgrossando,spianando e lavorando, acciocché così ci possiamo unire e congiungere conDio, conformandoci in ogni cosa alla sua divina volontà: e così quanto più uno s’andrà mortificando, tanto più s’andrà unendo e aggiustando colla volontà di Dio: e quando sarà perfettamente mortificato, arriverà a questa perfetta unione e conformità. Quindi ne viene per conseguenza un’altra cosa che può esser la terza; che questa rassegnazione e intera conformità alla volontà di Dio è il maggiore, il più accetto e aggradevole sacrificio che l’uomo possa fare di sé a Dio. Perciocché negli altri sacrifizio fferisce le cose sue, ma in questo offerisce sé medesimo; negli altri sacrifici e mortificazioni la persona si mortifica in parte; come per esempio nella temperanza, o nella modestia, o nel silenzio, o nella pazienza, offerisce a Dio una parte di sè; ma questo è un olocausto nel quale uno s’offerisce interamente e totalmente a Dio,acciocché faccia di lui tutto quello che vuole, come vuole e quando vuole, senza cavarne, eccettuarne, o riservarne per sé cosa alcuna. E così quanto è più pregevole l’uomo delle cose dell’uomo, e quanto è più pregevole il tutto della parte; tanto è più pregevole questo sacrificio che gli altri sacrifizi e le altre mortificazioni. E stima tanto Dio questa cosa, che questa è quella che Egli vuole e domanda, danoi altri. Præbe, fili mi, cor tuum mihi (Prov. XXIII, 36): Figliuolo, dammi il tuo cuore. Siccome l’astore, uccello reale, non si ciba se non di cuori; così Dio nessuna cosa prezza e stima più che il cuore: e se non gli dai questo, con nessun’altra cosa lo potrai contentare né dargli soddisfazione. Né ci domanda Egli molto, domandandoci questo; perciocché se tutto quello che Dio ha creato non basta per contentar e saziare noi altri che siamo un poco di polvere e di cenere, né resterà soddisfatto questo piccolo nostro cuore con niente meno che con Dio; come pensi tu di contentare e soddisfare Dio, non dandogli né anche tutto il tuo cuore, ma solamente una parte di esso, e riservando l’altra per te? Tu stai in un grande inganno, che il nostro cuore non si può spartire né dividere in questa maniera. Coangustatum est enim stratum, ita ut alter decidat: et pallium breve utrumque operire non potest (Isa. XXVIII, 20): Il cuore è un letto piccolo e stretto, dice il profeta Isaia; non cape in esso altro che Dio solo: e perciò la Sposa lo chiama lettuccio piccolo: In lectulo meo per noctes quæsìvi quem diligit anima mea (Gilib. abb. serm. 2 in Cant, apud Bern; Cant. III, 1): perché aveva il suo cuore talmente ristretto, che non vi capiva altro che i l suo Sposo. E chi vorrà stendere e dilatare il suo cuore per ammettervi un altro, ne scaccerà Dio. E di questo si lamenta la Maestà Sua per mezzo d’Isaia: Quia juxta me discooperuisti, et suscepisti adulterum: dilatasti cubile tuum, et pepìgisti cum eis fœdus (1(1) Isa. LVII, 8 ). Hai adulterato, ricevendo nel letto del tuo cuore qualche altro fuori del tuo Sposo; e per coprir l’adultero scopri e scacci fuori Dio. Se avessimo mille cuori, li dovremmo offrire tutti a Dio, e ci dovrebbe ancora parer poco rispetto a quello che siamo tenuti di fare verso così gran Signore, – Per la quarta cosa, come dicevamo al principio (Sup. cap. I), chi avrà questa conformità, avrà altresì perfetta carità e amor di Dio; e quanto più crescerà in essa, tanto più andrà crescendo in amor di Dio e conseguentemente nella perfezione che consiste in questa carità ed amore. Il che, oltre quel che s’è detto, si raccoglie bene da quello che ora abbiamo finito di dire; perché l’amor di Dio non consiste in parole, ma in opere: Probatio dilectionis exhibitio est operis, dice S. Gregorio (D. Greg. hom. 30, in Evang.): La prova del vero amore sono le opere: e quanto più le opere sono difficili e ci costano più, tanto maggiormente manifestano l’amore: onde l’apostolo ed evangelista S. Giovanni, volendo esprimere sì l’amor grande che Dio portò al mondo, come il grande amore che Cristo nostro Redentore portava al suo eterno Padre, dice del primo: Sic Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret (Jo, III, 16) ibid. xiv. 31): Fu tanto grande l’amore che Dio portò all’uomo, che ci diede il suo unigenito Figliuolo, acciocché patisse e morisse per noi altri; e del secondo ci riferisce come detto del medesimo Cristo: Ut cognoscat mundui, quia diligo Patrem; et sicut mandatum deditmihi Pater, sic facto; surgite; eamus hinc (idib. XIV, 31): Acciocché il mondo conosca, che io amo il mio Padre, levatevi su, e andiamcene via di qua: e l’affare per cui di là partiva era per andare a patire morte di croce. In questo mostrò egli e die testimonianza al mondo d’amare il Padre nel mettere in esecuzione il suo tanto rigoroso comandamento. Di maniera che nelle opere si dimostra l’amore, e tanto più, quanto elleno sono maggiori e più faticose. Ora questa intera conformità alla volontà di Dio, come abbiamo detto, è il maggior sacrifizio che gli possiamo fare di noi altri; perché presuppone una perfettissima mortificazione e rassegnazione colla quale uno si offerisce a Dio, e si mette totalmente nelle sue mani, acciocché faccia di lui quello che vuole. E cosi non vi è cosa nella quale uno mostri più l’amore che porta a Dio, che in questa; poiché gli dà e gli offre tutto quello che ha e tutto quello che possa mai avere e desiderare, e se più avesse e potesse, tutto pure glielo darebbe.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (2)

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (2)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (2)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE

1932

COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR + AEM. BONGIORNI, Vie. Gen.

PRINCIPALI FORMULE E PREGHIERE NECESSARIE O ASSAI UTILI PER TUTTI (*)

(*) Il Catechista procuri che gli alunni imparino a memoria queste formule e preghiere. Per coloro che devono ricevere la prima Comunione, vedasi lo speciale Catechismo.

I. – Segno della santa Croce.

Nel nome del Padre, e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia.

II. – Orazione domenicale.

Padre nostro che sei ne’ cieli,

sia santificato il tuo nome:

venga il tuo regno:

sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano;

e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo

ai nostri debitori;

e non c’indurre in tentazione,

ma liberaci dal male. Così sia.

III. – Saluto angelico.

Ave, o Maria, piena di grazia; il Signore è teco; tu

sei benedetta tra le donne, e benedetto il frutto del ventre

tuo, Gesù. –

Santa Maria, madre di Dio, prega per noi peccatori

adesso e nell’ora della nostra morte. Così sia.

IV. – Simbolo degli Apostoli.

1° Io credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo

e della terra;

2° e in Gesù Cristo, suo unico Figliuolo, Signore nostro;

3° il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine;

4° patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morto e seppellito;

5° discese all’inferno, il terzo giorno risuscitò da morte;

6° salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente;

7° di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti.

8° Credo nello Spirito Santo;

9° la Santa Chiesa cattolica, la comunione dei Santi;

10° la remissione dei peccati;

11° la risurrezione della carne;

12° la vita eterna. Amen.

V. – Salve, o Regina.

Salve, o Regina, madre di misericordia, vita, dolcezza

e speranza nostra, salve! A Te ricorriamo esuli figli

di Eva; gementi e piangenti in questa valle di lagrime, a

Te sospiriamo. Orsù, dunque, Avvocata nostra, rivolgi a

noi quegli occhi tuoi misericordiosi. E mostraci, dopo

questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del ventre tuo, o

clemente, o pietosa, o dolce Vergine Maria!

VI. – In onore della Santissima Trinità.

Gloria al Padre e al Figliuolo e allo Spirito Santo,

com’era nel principio, e ora, e sempre, e nei secoli de’ secoli. Così sia.

VII. – Orazione all’Angelo Custode.

Argelo di Dio, che sei il mio Custode, illumina, custodisci,

reggi e governa me, che Ti fui affidato dalla Pietà celeste. Così sia.

VIII. – Preghiera per i fedeli defunti.

L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Così sia.

IX. – I principali misteri della Fede.

1° Il mistero di un solo Dio in tre distinte Persone:

Padre, Figliuolo e Spirito Santo;

2° Il mistero dell’umana redenzione per mezzo della incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo, Signor Nostro, Figlio di Dio.

X. – Il Decalogo o I Comandamenti di Dio.

Io sono il Signore Dio tuo:

1° Non avrai altro Dio fuori che me.

2° Non nominare il nome di Dio invano.

3° Ricordati di santificare le feste.

4° Onora tuo padre e tua madre.

5° Non ammazzare.

6° Non commettere atti impuri.

7° Non rubare.

8° Non dire falsa testimonianza.

9° Non desiderare la donna d’altri.

10° Non desiderare la roba d’altri.

XI. – I Precetti della Chiesa.

1° Nelle domeniche ed altre feste comandate udir la Messa ed astenersi dalle opere servili.

2° Nei giorni prescritti dalla Chiesa non mangiar carne ed osservare il digiuno.

3° Confessarsi una volta l’anno almeno.

4° Comunicarsi almeno in occasione della Pasqua.

5° Sovvenire alle necessità della Chiesa e del Clero.

XII. – I Sacramenti (*)

1° Battesimo;

2° Cresima;

3° Eucaristia;

4° Penitenza;

5° Estrema Unzione:

6° Ordine;

7° Matrimonio.

(*) Gli Orientali chiamano Chrisma la Cresima e Benedizione degli infermi la Estrema Unzione, la quale dai Latini è detta anche Olio Santo.

XIII. – Atto di Fede.

Mio Dio, io credo fermamente che Voi siete un solo Dio in tre Persone distinte, Padre, Figliuolo e Spirito Santo,

che il Figliuolo, per la nostra salvezza si è incarnato, ha patito ed è morto, risuscitò da morte e darà a ciascuno, secondo i suoi meriti, o il premio in Paradiso o la pena nell’Inferno. Questo e tutto quello che insegna la Chiesa Cattolica io lo credo, perché l’avete rivelato Voi, che non potete né ingannarvi né ingannare.

XIV. – Atto di Speranza.

Mio Dio, essendo Voi onnipotente, misericordioso e fedele, spero che mi darete, per i meriti di Gesù Cristo, la vita eterna e le grazie necessarie per conseguirla, che Voi avete promesso a coloro che faranno opere buone, come, col vostro aiuto, propongo di fare.

XV. – Atto di Carità.

Mio Dio, io vi amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché Voi siete infinitamente buono ed infinitamente amabile; e per amor vostro amo il mio prossimo come me stesso e gli perdono le offese che può avermi recato.

XVI. – Atto di Contrizione.

Mio Dio, mi pento con tutto il cuore dei miei peccati, li detesto perché peccando non solo ho meritato i giusti castighi che Voi avete minacciati, ma specialmente perché ho offeso Voi sommo bene degno di essere amato sopra ogni cosa. Perciò propongo fermamente col vostro aiuto di non peccare mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato.

XVII. – I Misteri del santo Rosario.

MISTERI GAUDIOSI.

1° La beata Vergine Maria è salutata dall’Angelo.

2° La beata Vergine Maria visita santa Elisabetta.

3° Gesù Cristo nasce nella grotta di Betlemme.

4° Il fanciullo Gesù è presentato nel tempio.

5° Il fanciullo Gesù è ritrovato nel tempio fra i dottori.

MISTERI DOLOROSI.

1° Gesù Cristo prega e suda sangue nell’orto.

2° Gesù Cristo è flagellato alla colonna.

3° Gesù Cristo è coronato di spine.

4° Gesù Cristo, condannato a morte, sale il Calvario portando la croce.

5° Gesù Cristo, confitto in croce, muore alla presenza della Sua Madre.

MISTERI GLORIOSI.

1° La risurrezione di Gesù Cristo.

2° L’ascensione di Gesù Cristo.

3° La discesa dello Spirito Santo sulla beata Maria Vergine e sugli Apostoli.

4° L’assunzione della beata Vergine Maria al cielo.

5° L’incoronazione della beata Vergine Maria e la gloria degli Angeli e dei Santi.

SALVE, REGINA.

Salve, Regina, mater misericordiæ,…

LE LITANIE LAURETANE.

Kyrie, eleison.

Christe, eleison….

CATECHISMO CATTOLICO

Tutti debbono, ciascuno nella propria condizione, imparare accuratamente la dottrina cristiana e far sì che la imparino anche coloro che da lui dipendono; non vi è dottrina più importante di questa, la quale ci insegna la via della nostra salute eterna, che è il nostro ultimo fine. Che giova all’uomo guadagnare il mondo universo, se poi perde la sua anima? Qual cambio potrà egli dare per l’anima sua? (S. Matteo, cap. XVI, v. 26).

I.

CATECHISMO PER I BAMBINI IN PREPARAZIONE ALLA PRIMA COMUNIONE

A NORMA DEL DECRETO « QUAM SINGULARI » DI PlO PP. X.

Il segno della Santa Croce.

Orazione domenicale.

Ave, o Maria.

Simbolo degli Apostoli.

Atto di contrizione.

I Sacramenti (*).

(*) Attenda il catechista con ogni cura a che tutti i fanciulli pronunzino distintamente e con devozione le parole dell’orazione domenicale, del saluto angelico, del simbolo degli Apostoli e del segno della santa Croce, e che facciano bene, con ogni compostezza, il segno del Cristiano. Narri loro inoltre l’origine del Pater Noster e dell’Ave Maria, e ne esponga brevemente il significato. Non ometta di aggiungere che la Beata Vergine Maria è sì Madre di Dio, ma è anche madre nostra che ci ama tutti con materno amore. Li esorti perciò a riamare con affetto di figli questa Madre celeste, a recitare spesso, con devozione, alla mattina e alla sera specialmente, l’orazione domenicale e il saluto angelico e a segnarsi col segno della santa Croce. In quanto al simbolo degli Apostoli e all’atto di contrizione non è necessario, benché sia utilissimo, che il piccino sappia recitarli a parola prima della sua prima Comunione, purché li abbia studiati, ne conosca il senso e dopo la prima Comunione continui a studiarli fino ad impararli a memoria, preparandosi così alle successive Confessioni e Comunioni; frattanto si supplisce con ciò che è detto in fine di questo Catechismo.

D. 1. Chi ti ha creato?

R. Mi ha creato Dio.

D. 2. Chi è Dio?

R. Dio è purissimo spirito, infinito in ogni sua perfezione, che ha creato quanto esiste sia in cielo, sia in terra. (*)

(*) Adattandosi all’intelligenza degli uditori, il Catechista esponga brevemente la creazione dal nulla di tutte le cose e il fine che Dio ebbe nel creare il mondo e l’uomo. Narri la caduta degli Angeli e ingeneri nel bambino l’idea degli Angeli buoni, specie dell’Angelo custode, e dei demoni. Descriva la felicità dell’uomo nel paradiso terrestre, il peccato originale commesso dai progenitori, la sua trasmissione in tutti, eccettuata la B. V. Maria, e la sua remissione col Battesimo; e finalmente insegni come Dio nello stesso paradiso terrestre si sia degnato di promettere ad Adamo ed Eva peccatori un Redentore che è Cristo Signore.

D. 3. Perché Dio ti ha creato?

R. Dio mi ha creato per conoscerlo, amarlo, ubbidirlo e così dopo morte goderlo in Paradiso (*).

(*) Noi conosciamo Dio con l’intelligenza e per mezzo della rivelazione e lo amiamo e lo serviamo osservando fedelmente i suoi comandamenti ed anche seguendo i suoi consigli,tutte le opere cioè che gli sono gradite, sebbene da Lui non comandate.Non trascuri il Catechista di richiamare su questo l’attenzione dei fanciulli.

D. 4. Come Dio punisce coloro che lo disubbidiscono?

R. Dio punisce coloro che lo disubbidiscono con l’inferno (*).

(*) Il Catechista esponga in poche parole che cosa avverrà dell’anima in Paradiso, e che cosa nell’Inferno: che nel Paradiso l’anima, nella visione a faccia a faccia del Signore, godrà d’una perfetta e perpetua felicità, in compagnia di N. S. Gesù Cristo, della B. V. Maria e di tutti i Beati; che nell’Inferno invece essa, privata per sempre della visione beatifica di Dio, sarà tormentata col fuoco eterno e con altre indicibili pene, nella orribile compagnia di satana, degli altri demoni e dei dannati.

D. 5. Dov’è Dio?

R. Dio è in cielo, in terra, in ogni luogo.

D. 6. Dio ha principio e fine?

R. Dio non ha né principio nè fine, perchè è eterno.

D. 7. Dio conosce tutto?

R. Dio conosce tutto, anche le future azioni libere

delle creature, gli affetti del cuore, gli stessi pensieri.

D. 8. Dio è uno?

R. Dio è uno, perché una è la natura divina, ma è in tre Persone distinte, le quali si chiamano Padre, Figlio e Spirito Santo, e formano la Santissima Trinità.

D. 9. Quale Persona divina si è fatta uomo?

R. Si è fatta uomo la seconda Persona divina, cioè il Figlio di Dio.

D. 10. Come si chiama il Figlio di Dio fatto uomo?

R. Il Figlio di Dio fatto uomo si chiama Gesù Cristo.

D. 11. Come il Figlio di Dio si fece uomo?

R. Il Figlio di Dio si fece uomo, prendendo, per virtù dello Spirito Santo, corpo ed anima umana nel seno purissimo della beata Vergine Maria (*).

(*) Narri il Catechista la missione dell’Arcangelo Gabriele alla B. V. Maria, la nascita di Gesù Cristo in Betlemme, l’Epifania del Signore e la sua vita privata trascorsa per trent’anni in Nazareth. Ne tragga per i fanciulli motivo d’esempio al lavoro e all’obbedienza che si deve ai genitori.

D. 12. Perché il Figlio di Dio si fece uomo?

R. Il Figlio di Dio si fece uomo per liberarci dal peccato e così condurci in Paradiso.

D. 13. Che cosa fece Gesù Cristo per liberarci dal peccato e così condurci in Paradiso?

R. Per liberarci dal peccato e così condurci in Paradiso, Gesù Cristo patì e morì sulla croce, indi risuscitò e salì al cielo e di là verrà a giudicare i vivi e i morti (*).

(*) Il Catechista esponga brevemente il ministero della umana redenzione narrando la passione, la morte, la resurrezione ed ascensione al cielo di Gesù; ed ancora la sua venuta alla fine del mondo per il giudizio universale. Cose queste che dimostrano ad evidenza il grande amore di Dio verso gli uomini, i quali allora si devono sentire spinti ed obbligati a riamarlo con tutto il cuore.

D. 14. Che cosa sono i Sacramenti?

R. 1 Sacramenti sono mezzi istituiti da Gesù Cristo per darci la grazia.

D. 15. Quale Sacramento hai ricevuto finora?

R. Finora ho ricevuto il Sacramento del Battesimo che mi ha fatto Cristiano e mi ha reso capace di ricevere gli altri Sacramenti.

D. 16. Quali Sacramenti ora desideri ricevere?

R. Ora desidero ricevere i Sacramenti della Cresima, della Penitenza e della Eucaristia.

D. 17. Che cos’è la Cresima?

R. La Cresima è il Sacramento istituito da Gesù Cristo per donare la grazia speciale e i doni dello Spirito Santo che danno al cresimato forza e coraggio per professare e praticare la fede (*).

(*) Se l’aspirante alla santa Comunione ha già ricevuto il sacramento della Cresima, si correggano le domande 15 e 16 e si ometta la 17.

D. 18. Che cosa è la Penitenza?

R. La Penitenza è il Sacramento istituito da Gesù Cristo per rimettere i peccati commessi dopo il Battesimo.

D. 19. Che cosa si richiede per ricevere bene il sacramento della Penitenza?

R. Per ricevere bene il sacramento della Penitenza si richiede:

1° l’esame di coscienza;

2° il dolore dei peccati;

3″ il proposito di non peccare mai più;

4° l’accusa dei peccati;

5° l’adempimento della penitenza imposta dal confessore (*).

(*) Il Catechista insegni ai suoi fanciulli il modo di fare l’esame di coscienza e di confessarsi, di compiere la penitenza imposta dal confessore e di emettere il proposito di non peccare più; l’atto di contrizione si trova nella nota alla D. 25.

D. 20. Quali peccati dobbiamo accusare nel sacramento della Penitenza?

R. Nel sacramento della Penitenza dobbiamo accusare tutti i peccati mortali commessi dopo il Battesimo, ma possiamo utilmente anche accusare i peccati veniali e gli stessi mortali già ben confessati.

D. 21. Che cos’è l’Eucaristia?

R. L’Eucaristia è il Sacramento del corpo e del sangue del Signore. (*)

(*) Il Catechista potrà così esporre questo altissimo mistero di nostra fede. Nella celebrazione della Messa, prima delle parole della consacrazione, che il sacerdote celebrante pronunzia, l’ostia è semplice pane; ma dopo quelle parole essa non è più pane, ma sotto le apparenze di pane è lo stesso Gesù Cristo con la sua divinità ed umanità: altrettanto dicasi del vino. Noi dobbiamo ammettere e credere questo mistero perché Gesù Cristo ce lo manifestò apertamente e la S. Madre Chiesa l’ha sempre insegnato ed insegna tuttora. Il Signore istituì l’Eucaristia nell’ultima Cena, perché con la celebrazione della Messa fosse rinnovato e riprodotto il sacrificio della croce, perché Egli potesse rimanere tra gli uomini nascosto nel S. Tabernacolo mentre nello stesso tempo siede glorioso in cielo, ed infine per unirsi a noi nella S. Comunione. Non mai ci dovrà cadere dalla memoria sì grande pegno del divino amore; dobbiamo perciò, almeno in tutti i giorni festivi, assistere al sacrificio della Messa con la stessa comprensione e pietà come se assistessimo al sacrificio del Calvario; visitare con tutta devozione il Santissimo Sacramento conservato nel Tabernacolo, e comunicarci spesso con pietà e devozione.

D. 22. Dov’è Gesù Cristo?

R. Gesù Cristo come Dio è in ogni luogo, come Dio-Uomo è in cielo e nella santissima Eucaristia.

D. 23. Che cos’è dunque fare la Santa Comunione?

R. Fare la santa Comunione è ricevere lo stesso Gesù Cristo vivo e vero nel Sacramento Eucaristico.

D. 24. Perché desideri fare la santa Comunione?

R. Desidero fare la santa Comunione perché Gesù Cristo mi ama e perciò desidera venire in me, e anch’io amo Gesù Cristo e perciò desidero molto di riceverlo.

D. 25. Che cosa si richiede per ricevere bene il sacramento dell’Eucaristia?

R. Per ricever bene il sacramento dell’Eucaristia si richiede:

1° lo stato di grazia, cioè l’amicizia di Dio;

2° il digiuno dalla mezzanotte al momento della Comunione;

3° una diligente preparazione ed un degno ringraziamento (*).

(*) Il Catechista, dopo aver spiegato il primo e il secondo punto, insegni praticamente ai bambini e li aiuti a fare gli atti di preparazione e di ringraziamento; egli ne legga lentamente le parole, che i bambini ripeteranno. Il Cardinal Gennari, nell’opuscolo che abbiam citato nel Proemio, pone i seguenti atti:

PRIMA DELLA COMUNIONE.

Atto di fede. — O buon Gesù, credo fermamente quanto Tu mi hai insegnato per mezzo della Chiesa, e in modo speciale che T u sei vivo e vero nell’Ostia consacrata.

Atto di speranza. — Fidente nella tua bontà e nelle tue promesse, o buon Gesù, spero da Te la tua santa grazia, ogni bene e la vita eterna.

Atto di dolore. — Mi pento, o mio Dio, d’aver peccato, perché ho meritato i tuoi castighi, ma molto più perché ho offeso Te somma Bontà.

Atto di umiltà. — Ecco, Gesù buono, la tua creatura, piena di miserie e di peccati, indegna di riceverti.

Atto di desiderio. — O buon Gesù, desidero ardentemente di averti nel mio cuore: vieni, Signore, non più tardare.

DOPO LA COMUNIONE.

Atto di adorazione. — O buon Gesù, Ti adoro presente nell’anima mia, mi prostro e mi umilio dinanzi a Te, sbigottito insieme e commosso da tanta tua bontà.

Atto di ringraziamento. — O buon Gesù, come potrò mai degnamente ringraziarti? Ti offro, o Signore, le azioni della beata Vergine Maria, dei Santi e di tutte le creature che Ti amano.

D. 26. Che cosa prometterai a Gesù nel giorno della tua prima Comunione?

R. Nel giorno della mia prima Comunione prometterò a Gesù di ascoltare la Messa nei giorni festivi, di accostarmi frequentemente ai Sacramenti della Confessione e dell’Eucaristia, di frequentare l’insegnamento catechistico, di obbedire ai genitori e di fuggire i cattivi compagni.

FESTA DELLA B. V. DEL SACRATISSIMO ROSARIO (2020)

FESTA DELLA B.V. DEL ROSARIO (2020)

Dal libro dell’Ecclesiastico.
Sir XXIV:11-31

Cercai per tutto un luogo di riposo, e ho scelto di abitare nei domini del Signore.
Allora il Creatore di tutte le cose diede ordini e mi parlò, e, colui che m’ha creata, riposò nel mio tabernacolo,
E mi disse: Abita in Giacobbe, sia in Israele la tua eredità, e fra i miei eletti metti le (tue) radici.
Da principio e prima dei secoli io sono stata creata, e fino all’età all’età futura non cesserò di esistere, e ho servito nel santuario alla presenza di lui.
E così ebbi stabile dimora in Sion, e nella città santa trovai anche il mio riposo, e in Gerusalemme la mia potenza.
E misi radici in mezzo al popolo glorificato, che ha la sua eredità nei domini del mio Dio, e la mia dimora è nella riunione del santi.

Mi elevai come il cedro sul Libano, e come il cipresso sul monte di Sion:
Mi elevai come la palma in Cades, e come la pianta di rose in Gerico:
M’innalzai come un bell’olivo nei campi, e come un platano nelle piazze presso l’acque.
Mandai profumo come la cannella e il balsamo aromatico: come di mirra squisita ho spirato soave profumo;
E come storace e galbano e onice e mirra stillante e come incenso ch’esce senza incisione ho profumato la mia abitazione, e come balsamo senza mistura è l’odor mio.
Io ho disteso i miei rami come il terebinto, e i miei son rami d’onore e di grazia.

Io sono la madre del bell’amore, e dei timore, e della scienza, e della santa speranza.
In me c’è tutta la grazia della via e della verità, in me tutta la speranza della vita e della virtù.
Venite a me tutti voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti;
Poiché il mio spirito è più dolce del miele, e il mio possesso è più del favo di miele.
Il mio ricordo traverserà il corso dei secoli.
Quelli che mi mangiano, avranno sempre fame, e quelli che mi bevono, avranno sempre sete.
Chi ascolta me, non sarà confuso, e quelli che operano con me, non peccheranno.
Quelli che mi pongono in luce, avranno la vita eterna.

* * *

Allorché l’eresia degli Albigesi s’estendeva empiamente nella provincia di Tolosa mettendovi di giorno in giorno radici sempre più profonde, san Domenico, che aveva fondato allora l’ordine dei Predicatori, si applicò interamente a sradicarla. E per riuscirvi più sicuramente, implorò con assidue preghiere il soccorso della beata Vergine, la cui dignità quegli eretici attaccavano impudentemente, ed a cui è dato di distruggere tutte l’eresie nell’intero universo. Ricevuto da lei l’avviso (secondo che vuole la tradizione) di predicare ai popoli il Rosario come aiuto singolarmente efficace contro l’eresie e i vizi, stupisce vedere con qual fervore e con qual successo egli eseguì l’ufficio affidatogli. Ora il Rosario è una formula particolare di preghiera nella quale si distinguono quindici decade di salutazioni angeliche, separate dall’orazione Domenicale, e in ciascuna delle quali ricordiamo, meditandoli piamente, altrettanti misteri della nostra redenzione. Da quel tempo dunque questa maniera di pregare incominciò, grazie a san Domenico, a farsi conoscere e a spandersi. E, ch’egli ne sia l’istitutore e l’autore, lo si trova affermato non di rado nelle lettere apostoliche dei sommi Pontefici. – Da questa istituzione si salutare promanarono nel popolo cristiano innumerevoli benefici. Fra i quali si cita con ragione la vittoria, che il santissimo Pontefice Pio V e i principi cristiani infiammati da lui riportarono presso le isole Cursolari (a Lepanto) sul potentissimo despota dei Turchi. Infatti, essendo stata riportata questa vittoria il giorno medesimo in cui i confratelli del santissimo Rosario indirizzavano a Maria in tutto il mondo le consuete suppliche e le preghiere stabilite secondo l’uso, non senza ragione essa si attribuì a queste preghiere. E ciò l’attestò anche Gregorio XIII, ordinando che a ricordo di beneficio tanto singolare, in tutto il mondo si rendessero perenni azioni di grazie alla beata Vergine sotto il titolo del Rosario, in tutte le chiese che avessero un altare del Rosario, e concedendo in perpetuo in tal giorno un Ufficio di rito doppio maggiore; e altri Pontefici hanno accordato indulgenze pressoché innumerevoli a quelli che recitano il Rosario e alla confraternita di questo nome. – Clemente XI poi, stimando che anche l’insigne vittoria riportata l’anno 1716 nel regno d’Ungheria da Carlo VI, imperatore dei Romani, su l’immenso esercito dei Turchi, accadde lo stesso giorno in cui si celebrava la festa della Dedicazione di santa Maria della Neve, e quasi nel medesimo tempo che a Roma i confratelli del santissimo Rosario facendo preghiere pubbliche e solenni con immenso concorso di popolo e grande pietà indirizzavano a Dio ferventi suppliche per l’abbattimento dei Turchi e imploravano umilmente l’aiuto potente della Vergine Madre di Dio a favore dei Cristiani; perciò credé dover attribuire questa vittoria al patrocinio della stessa Vergine, come pure la liberazione, avvenuta poco dopo, dell’isola di Corcira dall’assedio parimente dei Turchi. Quindi perché restasse sempre perpetuo e grato ricordo di si insigne beneficio, estese a tutta la Chiesa la festa del santissimo Rosario da celebrarsi collo stesso rito. Benedetto XIII fece inserire tutto ciò nel Breviario Romano. Leone XIII poi, in tempi turbolentissimi per la Chiesa, e nell’orribile tempesta di mali che da lungo tempo ci opprimono, ha sovente e vivamente eccitato con reiterate lettere apostoliche tutti i fedeli del mondo a recitare spesso il Rosario di Maria, soprattutto nel mese d’Ottobre, ne ha innalzato di più la festa a rito superiore, ha aggiunto alle litanie Lauretane l’invocazione, Regina del sacratissimo Rosario, e concesso a tutta la Chiesa un Ufficio proprio per la stessa solennità. Veneriamo dunque sempre la santissima Madre di Dio con questa devozione che le è gratissima; affinché, invocata tante volte dai fedeli di Cristo colla preghiera del Rosario, dopo averci dato d’abbattere e annientare i nemici terreni, ci conceda altresì di trionfare di quelli infernali.

***

Sappiamo allora a chi conformarci e come operare: se San Domenico è riuscito a sconfiggere la peste panteista dell’eresia degli Albigesi, noi – pusillus grex – sebbene indegni, possiamo, con l’aiuto della Vergine Regina delle Vittorie e la grazia del Salvatore, debellare la pandemia panteista della setta modernista usurpante il Vaticano e la Cattedra di S. Pietro, l’apocalittica prostituta che rappresenta la somma di tutte le eresie e le diffonde a perdizione delle anime redente dal preziosissimo Sangue di Cristo. Forza fedeli del Corpo mistico! Come Davide prendiamo tra le mani la fionda del Rosario ed abbattiamo, con il sasso della fede e delle opere di carità, il gigante modernista Golia, il lupo vorace che sta là dove abita satana (Apoc. c. II) e vuole sbranare, se possibile, tutte le anime dei Cristiani. Non c’è tempo da perdere … et IPSA conteret caput tuum! 

BATTAGLIA DI LEPANTO

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: FESTA DEL SANTO ROSARIO

DELLA PRESENZA DI DIO (2)

DELLA PRESENZA DI DIO [2]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VI.

CAPO III.

Degli atti della volontà ne’ quali principalmente consiste quest’esercizio: e come abbiamo da esercitarci in essi.

S. Bonaventura nella sua mistica Teologia (D. Bonav. via 3 et in ep. 15 memorial. c. 22) dice, che gli atti della volontà coi quali in questo santo esercizio abbiamo da alzare il cuore a Dio, sono certi accesi desideri del cuore co’ quali l’anima desidera unirsi con Dio con perfetto amore; certi affetti infiammati, certi sospiri vivi delle viscere co’ quali ella chiama Dio; certi moti pii e amorosi della volontà co’ quali, come con ali spirituali, si stende ed alza in alto, e si va accostando e unendo più a Dio. Questi desiderii e affetti del cuore veementi ed accesi, sono da’ Santi chiamati aspirazioni; perché con essi l’anima s’alza a Dio, che è l’istesso che aspirare a Dio: ed anche, come dice S. Bonaventura (ubi supra), perché siccome respirando ricaviamo e tramandiamo senz’alcun altro atto deliberato il fiato dalla parte più intima del nostro corpo; così con gran prestezza e alle volte senza deliberazione, o quasi senza essa, caviamo questi accesi desiderii dall’intimo del nostro cuore. Queste aspirazioni e questi desiderii vengono dall’uomo espressi con certe brevi e frequenti orazioni che chiamano giaculatorie; Raptim jaculatas, dice S. Agostino (D. Aug. ep. ad Probam, quas est 121); perché sono come certi dardi e saette infocate ch’escono dal cuore e in un punto si lanciano e drizzano a Dio. Usavano assai queste orazioni que’ Monaci dell’Egitto, come dice Cassiano: Breves quidem, sed creberrimæ (Cass. lib. 2 de inst. renunt.); e le stimavano e ne facevano gran conto; si perché, come sono brevi, non istraccano il capo; sì anche perché si fanno con fervore e con spirito elevato, e in un punto si trovano nel cospetto di Dio; e così non danno tempo al demonio di frastornare colui che le fa, riè di mettergli nel cuore impedimento alcuno. Dice S. Agostino certe parole degne di considerazione per tutti quelli che fanno profession d’orazione: Ne illa vigilans et erecta intentìo, quæ tam necessaria est oranti, per productiores moras hebetetur (D. Aug. ep. ad Probam.); e le quali mostrano l’utilità di queste giaculatorie le quali servono acciocché quella vigilante e viva attenzione che è necessaria per orare colla dovuta riverenza e rispetto, non si vada rimettendo e perdendo, come suol avvenire nell’orazion lunga (D. Chrys. hom. 79.). Ora con queste orazioni giaculatorie procuravano que’ santi Monaci di star sempre in questo esercizio, alzando molto spesso il cuore a Dio e trattando e conversando con esso lui (Abbas Isaac collat. 10, c. 10,). Questo modo di stare alla presenza di Dio è comunemente più a proposito per noi altri, più facile e più utile. Ma bisognerà dichiarar meglio la pratica di questo esercitizio. Cassiano (Cass. coll. 10, c. 10) la mette in quel versetto, Deus, in adjutorium meum intende: Domine, ad adjuvandum me festina (Ps. LXIX, 2), che la Chiesa replica nel principio di ciascuna Ora Canonica. Se cominci qualche affare pericoloso, chiedi a Dio che t’aiuti per uscirne bene. Signore, rivolgiti in aiuto mio: Signore, non tardare ad aiutarmi. Per ogni cosa abbiamo necessità del favor del Signore, e così sempre glielo abbiamo d’andare chiedendo. E dice Cassiano, che questo versetto è meraviglioso e molto a proposito per esprimere tutti i nostri affetti in qualsisia stato e in qualsivoglia occasione, o accidente nel quale ci veggiamo; perché con esso invochiamo l’aiuto di Dio; con esso ci umiliamo e riconosciamo la nostra necessità e miseria: con esso ci alziamo su e confidiamo di esser uditi e favoriti da Dio; con esso ci accendiamo nell’amor del Signore che è il nostro rifugio e il Protettor nostro. Per quante battaglie e tentazioni ti si possono presentare, dice Cassiano, hai qui in pronto un fortissimo scudo, una corazza impenetrabile, e un muro inespugnabile: e così l’hai da portar sempre nella bocca e nel cuore; e questa ha da essere la tua continua e perpetua orazione, e il tuo camminare e star sempre alla presenza di Dio. – S. Basilio mette la pratica di questo esercizio nel prendere occasione da tutte le cose di ricordarci di Dio. Se mangi, ringrazia Dio: se ti vesti, ringrazia Dio: se esci in campagna, o vai all’orto, o al giardino, benedici Dio che l’ha creato: se guardi il cielo, se guardi il sole, e tutto il resto, loda il Creatore di ogni cosa : quando dormi, ogni volta che ti svegli, alza il cuore a Dio (D. Basil, hom. in mart. Julitam.). Altri, perché nella vita spirituale vi sono tre vie; una purgativa, che appartiene a’ Principianti; un’altra illuminativa, che appartiene a’ Proficienti; e un’altra unitiva, che appartiene a’ Perfetti; mettono tre sorte d’aspirazioni e d’orazioni giaculatorie. Alcune sono indirizzate a conseguire il perdono de’ peccati e a purgare l’anima da’ vizi e dagli affetti terreni; e queste appartengono alla via purgativa. Alcune altre sono indirizzate all’acquisto della virtù, al vincer le tentazioni, e ad incontrare di buon grado difficoltà e travagli per la virtù; e queste appartengono alla via illuminativa. Alcune altre poi sono indirizzate ad acquistar l’unione dell’anima con Dio mediante un legame di perfetto amore; e queste appartengono alla via unitiva; acciocché ciascuno s’applichi a questo esercizio proporzionatamente al suo stato e alla disposizione in cui troverassi. Ma quanto a questo, sia pur uno quanto si voglia perfetto, si può esercitare nel dolore de’ peccati, e in chieder a Dio il perdono di essi e grazia per non offenderlo mai, e sarà esercizio molto buono e molto grato a Dio. E questo tale, e quegli altresì che attende a purgar l’anima sua da’ vizi e dalle passioni disordinate, e ad acquistare le virtù, si potrà anche esercitare in atti di amor di Dio, per far questo stesso con maggiore facilità e soavità. E così tutti, in qualunque stato si trovino, possono indifferentemente per questo esercizio frequentare questi atti, dicendo: O Signore, non vi avessi mai offeso! Non permettete, Signore, che io vi offenda giammai. Morir sì, ma non peccare. Piaccia alla Divina Maestà Vostra, che più tosto io muoia ben mille volte, che mai cada in peccato mortale. Alcune altre volte può uno alzare il suo cuore a Dio, ringraziandolo de’ benefici ricevuti, così generali come particolari, o chiedendo qualche virtù; quando profonda umiltà; quando perfetta ubbidienza; quando carità; quando pazienza. Alcune altre volte può uno alzare il suo cuore a Dio con atti d’amore e di conformità alla volontà sua santissima, come dicendo: Dilectus meus mihi, et ego IIli (Cant. lI, l6): — Non mea voluntas, sed tua fiat (Luc. XXII, 42): Quid enim mihi est in cœlo? et a te quid volui super terram (Psal. LXXII, 24,)? Queste ed altre simili sono tutte buone aspirazioni ed orazioni giaculatorie, per istare sempre in questo esercizio della presenza di Dio: e le migliori e più efficaci sogliono essere quelle che il cuore mosso da Dio concepisce da se stesso, benché non sia con parole tanto eleganti e tanto ben composte come quelle che abbiamo dette. Né meno è necessario, che siano molte e diverse queste orazioni: perché una sola reiterata spesso e con grande affetto può bastare ad uno per far quest’ esercizio molti giorni e anche tutta la vita. Se ti trovi bene coll’andar dicendo sempre quelle parole dell’apostolo S. Paolo: Signore, che cosa volete ch’io faccia? o quelle della Sposa: Il mio Diletto per me, ed io per esso: o quelle del profeta David: Che cosa ho io da volere, Signore, né in cielo, né in terra se non voi (Act. IX, 6. Reliqua loc. supracit.)? non hai bisogno d’altro: trattieniti in questo, e sia questo il tuo continuo esercizio e il tuo camminare e stare alla presenza di Dio. (1)

CAPO IV.

Si dichiara anche meglio la pratica di questo esercizio, e si propone un modo di camminare  e stare alla presenza di Dio  molto facile ed utile, e di gran perfezione.

Fra le altre aspirazioni ed orazioni giaculatorie che possiamo usare è molto principale e molto a proposito per la pratica di questo esercizio quella che c’insegna l’apostolo S. Paolo nella prima Epistola a que’ di Corinto: Sive manducatis, sive bibitis, sive aliud quid facitis; omnia in gloriam Dei facile (I . ad Cor. x, 31, 1): 0 mangiate, o beviate, o facciate qualsivoglia altra cosa; ogni cosa fatela a gloria di Dio. Procurate in tutte le cose che farete, o quanto più frequentemente potrete, d’alzare il cuore a Dio, dicendo: Per voi, Signore, fo questa cosa: per darvi gusto e per piacere a Voi, perché così Voi volete. La vostra volontà, Signore, è la mia, e il vostro gusto è il mio; né ho io altro volere, né altro non volere, che quello che Voi volete, o non volete: questa è tutta la mia allegrezza, tutto il mio gusto, tutta la mia ricreazione, l’esecuzione e l’adempimento della vostra volontà, il piacere e dar gusto a Voi: né v’è altra cosa che volere, né che desiderare, né in che metter l’occhio né in cielo né in terra. Questo è un modo molto buono di camminare e star sempre alla presenza di Dio molto facile ed utile, e di gran perfezione: perché è star in un continuo esercizio d’amor di Dio. E perché in altri luoghi abbiamo toccato e per l’avvenire toccheremo di nuovo questa cosa (Sup. tract. 3, c. 8, et infra tract. 8, c 4), qui solamente voglio dire, che questo è uno de’ migliori e più utili modi di star sempre in orazione che vi siano e che possiamo usare. Né pare che vi manchi altra cosa per finire di canonizzare e di esaltare questo esercizio, che dire, che con esso staremo in quella continua orazione che Cristo nostro Redentore ricerca da noi, come abbiamo dal sacro Evangelio: Oportet semper orare, et non deficere (Luc. XVIII, 1): perciocché qual orazione può esser migliore che lo star sempre desiderando la maggior gloria ed onore di Dio, e lo starci sempre conformando alla volontà sua, non avendo altro volere, né altro non volere, che quello che vuole, o non vuole Dio, e che tutto il nostro gusto e la nostra allegrezza sia il gusto e la soddisfazione di Dio? Perciò dice un Dottore mistico ((3) D. Dìonys. Rich. lib, 1, de contempl, c. 25), e con gran ragione, che colui che persevererà diligentemente in quest’esercizio con questi affetti e desiderii interni, caverà da esso tanto frutto, che in breve tempo sentirassi mutato e cambiato il cuore, e proverà in esso particolare avversione al mondo e singolare affezione a Dio. Questo è cominciare di qua ad essere cittadini del cielo e famigliari della casa di Dio. Jam non estis hospites et advenæ; sed estis cives Sanctorum, et domestici Dei (1Ad Ephes. II,19). Questi sono quei celesti cortigiani che vide S. Giovanni che avevano il nome di Dio scritto nelle loro fronti, che è la continua memoria e presenza di Dio. Et videbunt faciem ejus, et nomen ejus in froniibus eorum (Apoc. XXII, 4.); perché la loro conversazione non è più in terra, ma in cielo: Nostra autem conversano in cœlis est (Ad Philipp, III, 20). — Non contemplantibus nobis quæ videntur, sed quæ non videntur: Quæ enim videntur, temporalia sunt; quas autem non videntur, alterna sunt (II. ad Cor. IV, 18). Bisogna però avvertire in quest’esercizio, che quando facciamo questi atti, dicendo: Per Voi, Signore, fo questa cosa, per amor vostro, e perché così Voi volete, ed altri simili; abbiamo da farli e da dirli come chi parla con Dio presente, e non come chi volge il cuore, o il pensiero, a cosa lontana da sé, o fuori di sé. Questa avvertenza è di grande importanza in questo esercizio; perché questo è propriamente camminare e stare alla presenza di Dio, e questo è quello che rende quest’esercizio facile e soave, e fa che muova e giovi più. Àncora nelle altre orazioni, quando meditiamo Cristo in croce, o alla colonna, avvertono quei che trattano d’orazione, che non abbiamo da immaginarci, che quel Mistero operossi colà in Gerusalemme e mille e tante centinaia d’anni sono; perché questo stracca più e non muove tanto; ma che dobbiamo immaginarci ogni cosa come presente, e che tutto siegua qui dinanzi a noi, figurandoci di sentire i colpi de’ flagelli e le martellate onde furono confitti i chiodi. E se facciamo la meditazione della morte, dicono, che abbiamo da immaginarci di star già per morire disperati dai medici e colla candela in mano. Quanto dunque sarà più ragionevole, che in quest’esercizio della presenza di Dio facciamo questi atti che abbiamo detti, non come chi parla con chi è assente e lontano da noi; ma come chi parla con Dio presente; poiché lo stesso esercizio lo ricerca e realmente la cosa sta così.

CAPO V.

Di alcune differenze e vantaggi che sono nel fin qui proposto esercizio della presenza di Dio relativamente ad altri che si soglion proporre.

Acciocché si possa veder meglio la perfezione e l’utilità grande di questo esercizio e modo di camminare e di stare alla presenza di Dio, del quale abbiamo ragionato, e resti con ciò la cosa meglio dichiarata, noteremo ora alcune differenze o vantaggi che trovansi in questo esercizio, rispettivamente ad alcuni altri. Primieramente, in altri esercizi che alcuni sogliono proporre di camminare e stare alla presenza di Dio, ogni cosa pare che sia in atto d’intelletto e ogni cosa pare che finisca in immaginarsi Dio presente; ma questo presuppone quest’atto d’intelletto e di fede, che Dio sia presente, e passa avanti a fare atti d’amore di Dio, e in questo consiste principalmente: e questa seconda cosa senza dubbio è migliore e più utile che la prima. Siccome nell’orazione diciamo (Supra tract. 5, cap. II.), che non ci dobbiam fermare nell’atto dell’intelletto, che è la meditazione e considerazione delle cose, ma negli atti della volontà, cioè negli affetti e desiderii della virtù e dell’imitazione di Cristo, o che questo ha da essere il frutto dell’orazione; così qui la parte principale, migliore, e più utile di quest’esercizio, sta negli atti della volontà: onde questa è la cosa nella quale abbiamo da insistere. Secondariamente, il che viene in conseguenza di quello che abbiamo detto, quest’esercizio è più facile e più soave degli altri; perché negli altri vi bisogna discorso e fatica dell’intelletto e dell’immaginativa per rappresentarci dinanzi le cose, che è quello che suole straccare e rompere il capo alle persone, e così non può durar tanto; ma in quest’altro esercizio non vi bisogna discorso, ma affetti e atti della volontà, i quali si fanno senza stanchezza; perché sebbene è vero, che vi è pur qualche atto dell’intelletto, questo però si presuppone per mezzo della Fede, senza che ci stracchiamo per farlo sì espressamente, come quando adoriamo il santissimo Sacramento, che presupponiamo per mezzo della Fede, che sta ivi Cristo Salvator nostro, tutta la nostra attenzione e occupazione si volge ad adorare, riverire, amare e chiedere grazie a quel Signore che sappiamo che sta ivi; così passa la cosa in quest’esercizio. E quindi è, che per essere più facile, potrà uno durare e perseverare in esso più lungamente; perciocché anche agli infermi, i quali non possono fare molta orazione, siamo soliti dar per consiglio, che usino d’alzare spesso il cuore a Dio con alcuni affetti e atti della volontà, essendo che questi si possono far facilmente. Onde, quando bene non avesse in sé altro vantaggio quest’esercizio, che il potersi durare e perseverare in esso più che negli altri, lo dovremmo stimare grandemente; quanto più poscia essendovi tanti vantaggi? – In terzo luogo, e questo è un punto principale e molto qui da avvertirsi, l’esercizio della presenza di Dio non è solamente per fermarci in esso, ma ci dee servire di mezzo per far bene le nostre operazioni. Perché  se ci contentassimo d’aver solamente attenzione all’essere Dio presente, e con ciò nelle nostre operazioni ci trascurassimo, e facessimo mancamenti e byd errori in esse, questa non sarebbe buona divozione, ma illusione. Sempre abbiamo da premere in questo, che quantunque teniamo fisso un occhio alla sovrana Maestà di Dio, l’altro nondimeno stia volto a far bene le opere per amor suo. E il considerare che stiamo alla presenza di Dio ci ha da servire di mezzo per far meglio e con maggior perfezione ciò che facciamo. Or questo si fa molto meglio con questo esercizio che cogli altri; perché cogli altri s’occupa assai l’intelletto in quelle figure corporali che uno si vuol rappresentare innanzi, o nei concetti che vuol ricavare dall’avere presente quel Signore che ha, e per ricavarne il buon pensiero molte volte la persona non guarda a quello che fa, e lo fa malamente; ma quest’esercizio, come in esso non vi è occupazione dell’intelletto, non impedisce punto l’esercizio delle opere, anzi aiuta assai a farle riuscire ben fatte, perché la persona le sta facendo per amor di Dio che la sta mirando; e così procura di farle in tal maniera e tanto bene, che possano comparire innanzi agli occhi di Dio, e non sia in esse cosa indegna della sua presenza. Intorno al qual punto abbiamo già di sopra spiegato (Supra tract. 2, cap. 3) come questo stesso è un altro modo molto buono, e molto utile, e proposto ancora dai Santi, di camminare e stare alla presenza di Dio : e così non istaremo qui a replicarlo.

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (1)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA E STUDIO

DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE

1932

COI TIPI DELLA SOC. ED. (L A SCUOLA)

BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR + AEM. BONGIORNI, Vie. Gen.

INDULGENZE CONCESSE A COLORO CHE INSEGNANO E IMPARANO LA DOTTRINA CRISTIANA

1. Indulgenza plenaria a tutti e singoli i fedeli i quali, per circa mezz’ora e non meno di venti minuti, insegneranno o impareranno la dottrina cristiana almeno due volte al mese, da lucrarsi nello stesso mese due volte, in giorni di loro scelta; purché veramente pentiti, confessati e comunicati, visiteranno qualche chiesa o pubblico oratorio, e vi pregando secondo l’intenzione del Romano Pontefice.

2. Indulgenza parziale di 100 giorni, da acquistarsi almeno con cuore contrito, a tutti i fedeli ogni volta che per il detto spazio di tempo, insegneranno o impareranno la dottrina cristiana.

(Decreto di S. S. Pio XI, 13 Marzo 1930).

PROEMIO

Quello che fu già il voto dei Concilii Tridentino (Sess. XXV, De Reform., Decretum de indice librorum, catechismo etc.) e Vaticano (Cfr. in Appendice I: « Schema di costituzione d’un piccolo catechismo, riformato secondo le correzioni approvate dalla congregazione generale [del Concilio Vaticano].) è oggi vivissimo desiderio comune a tutti quanti si dedicano alla diffusione della dottrina cristiana, cioè che venga pubblicato un Catechismo da usarsi nella Chiesa Universale (affinché come uno è il Signore e una la Fede, così una sia la norma e l’ordinamento comune per impartire questa Fede e per educare il popolo cristiano ai suoi religiosi doveri » (Catechismus ad Parochos, Præf., re. 8).In questi ultimi tempi questa necessità si è resa tanto più grave quanto più è cresciuta l’opportunità e la facilità di mutare domicilio. Noi nelle nostre deboli forze abbiamo procurato di venire incontro a tale desiderio componendo i catechismi che ora diamo alle stampe.I Romani Pontefici, a dir vero, solleciti sempre di diffondere nella Chiesa Universale la conoscenza della dottrina cristiana, in conformità dei voti espressi dai Padri Tridentini curarono la compilazione e — dopo averlo approvato — la pubblicazione di un catechismo dal titolo « Catechismo per i parroci secondo il decreto del Concilio Tridentino » e più brevemente « Catechismo Romano »: con l’intento di offrire ai pastori di anime un compendio che servisse loro per un proficuo insegnamento della dottrina cristiana. Senza dubbio l’utilità di quel catechismo è, nell’insegnamento catechetico, grandissima ; però, come dice il titolo stesso, è destinato principalmente ai parroci e ai catechisti per istruire i fedeli, non per l’uso diretto dei fedeli stessi: senza dire che non espone tutti gli argomenti di un catechismo. Così pure i Romani Pontefici lodarono assai il catechismo che il Santo Cardinale Bellarmino, dottissimo teologo, compose per uso dei fanciulli: parecchi testi di catechismo rispettivamente adatti alle varie età approvò e prescrisse il Papa Pio X di santa memoria, soprattutto per le diocesi della provincia romana: anche molti Vescovi in Italia e alt estero vollero provvedute le loro diocesi di catechismo proprio. Nel comporre i  nostri non abbiamo trascurato nessuno dei catechismi sopra indicati, anzi abbiamo conservato quanto in essi ci parve opportuno. – (Nella Costit. In dominico agro, 14 giugno 1761, Clemente XIII avverte che questo catechismo « fu composto con non poca fatica e diligenza, riscotendo il consenso e le lodi di tutti » e che i Romani Pontefici vi esposero la dottrina « che è comune nella Chiesa e del tutto immune da ogni pericolo di errore ». E Pio XI nella lettera Unigenitus Dei Filius del 19 Marzo 1924: « in esso [cioè nel Catechismo romano] non sapresti se ammirare di più l’abbondante e sana dottrina, oppure l’eleganza dello stile latino » . Il Catechismo tratta del Simbolo, de’ Sacramenti, del Decalogo, dell’Orazione.) –  Le classi di persone che secondo la loro età e capacità hanno bisogno d’istruzione catechistica sono tre: i bambini che per la prima volta si ammettono alla Santa Comunione (Quelli di età maggiore e ancor ignoranti della dottrina cristiana, che desiderano ricevere i Santi Sacramenti della Chiesa, imparino subito, per non ritardare troppo la Comunione, il primo catechismo e così vengano ammessi alla prima Comunione, poi il secondo catechismo, quello dei fanciulli. Per le persone in punto di morte che, ignorando la dottrina cristiana, desiderano il conforto dei Sacramenti, v. nell’Appendice III): i fanciulli che come è loro dovere attendono allo studio del catechismo: gli adulti infine che desiderano una conoscenza più completa della dottrina cattolica: di qui un triplice catechismo. Questi tre catechismi vengono raccolti in un solo volume per comodo dei catechisti, ma in seguito per l’uso di coloro ai quali sono destinati possono e debbono separarsi, sopprimendo nel primo catechismo le note che sono per utilità di chi insegna.Per i bambini che si ammettono alla Prima Comunione il Pontefice Pio X per mezzo della Congregazione dei Sacramenti nel Decreto « Quam Singulari » del giorno 8 Agosto 1910 (Append. II) stabilì a quale età cominci l’obbligo della Confessione e della Comunione e quale istruzione religiosa si richieda perché essi possano e debbano ammettersi alla Prima Comunione (vedi il terzo catechismo per gli adulti d. 262, 264) : spesso però avviene che devono ammettersi alla Prima Comunione fanciulli di età maggiore. Per tutti questi proponiamo il breve schema del catechismo (L’abbiamo, con poche modificazioni, desunto dall’opuscolo: Il Decreto Quam singulari pubblicato di ordine del Sommo Pontefice Pio Pp. X dalla S. Congregazione dei Sacramenti il dì 8 Agosto 1910, pubblicato dal R. mo Mons. Domenico Jorio, segretario della medesima Congregazione. Nel comporre questo piccolo catechismo l’autore ebbe sott’occhio l’opuscolo:« Sulla età della prima Comunione dei fanciulli. – Breve commento del Decreto Quam singulari » del Card. Gennari, che ebbe il principale incarico nel compilare il Decreto stesso e perciò ben conosceva l’indole del Decreto.). L’Ordinario, secondo la sua prudenza e lo stesso catechista dietro consiglio dell’Ordinario o del Parroco potrà apportarvi lievi aggiunte purché non si protraggavi lungo la Prima Comunione né, se si tratta di bambini, si aggravi troppo la loro mente. Nemmeno è necessario che le parole di risposta alle domande sieno mandate a memoria purché se ne comprenda bene il senso (Card. Gennari, l. c.): il catechista da parte sua spieghi brevemente e chiaramente quei punti di dottrina contenuti nelle domande che abbiano bisogno di spiegazione servendosi magari di esempi e di figure. Nessuno però si ammetta alla Prima Comunione se non dopo avere promesso al parroco di continuare lo studio del catechismo, promessa che dovrà essere confermata dai genitori o da chi ne fa le veci (Il Parroco, per consiglio del suo Ordinario, può differire la prima Comunione, per il più breve tempo possibile, a queste due condizioni, se non erriamo: 1°) che il fanciullo, dopo la prima Comunione, non frequenterà il catechismo; 2°) che il medesimo, col differirgli la prima Comunione, frequenterà il catechismo durante il tempo della dilazione. Di fatti questa breve dilazione è minor male che una monca e imperfetta cognizione del catechismo; ora, fino a che non risulti diversa la sua intenzione, la Chiesa è da supporsi che permetterà, per il bene del fanciullo, quel minor male.). – Dopo la Prima Communione, al fanciullo che in luogo di allontanarsi dalla Mensa Eucaristica dovrà frequentarla secondo il consiglio del confessore (Dice il Decreto Quam singulari : « V. Una o più volte all’anno i parroci si dieno premura di annunciare e tenere la Comunione generale dei fanciulli e ammettervi non soltanto quelli della prima Comunione, ma pure gli altri che, col consenso de’ genitori e del confessore, com’è detto sopra, la prima Comunione già l’hanno ricevuta: e per tutti si premettano alcuni giorni d’istruzione e di preparazione »), incombe l’obbligo d’imparare a gradatamente il catechismo intero in proporzione della sua capacità come stabilisce la S. Cong. I. c. n. 11 e  questo obbligo che incombe ai fanciulli ricade anche e specialmente su coloro che ne devono aver cura. (Conf. il terzo catechismo per gli adulti, d. 263). Per catechismo « intero » non s’intenda un catechismo simile al nostro per gli adulti, o per le persone colte, ma uno più breve, dove però la dottrina sia svolta in modo da bastare alla formazione cristiana dei giovani. Nel secondo catechismo noi abbiamo creduto bene di proporre le domande e le risposte con le stesse parole che nel terzo catechismo per gli adulti, affinché il giovane che volesse una conoscenza più completa della dottrina cristiana possa poi ottenerla, usando il nostro terzo catechismo. L’Ordinario potrà, se lo crederà più adatto, seguire un altro metodo, ampliare o restringere il nostro e il catechista da parte sua aggiunga spiegazioni più diffuse del domma, racconti della storia sacra e brevi esortazioni: di tutto ciò troverà esempi nel nostro terzo catechismo. E poiché per apprendere bene il catechismo si richiede da parte dei giovani una notevole e non breve applicazione è necessario che lo studio sia graduale, come avverte la stessa S. Congregazione l.c., proporzionato cioè all’età e alla capacità. Sarà compito quindi dei Vescovi di fare sì che l’insegnamento sia opportunamente adattato alle diverse classi dei giovani e sarebbe desiderabile che tali istruzioni fossero uniformi in tutte le parrocchie di una medesima lingua e nazione (Per ottenere la frequenza de’ giovani al loro catechismo, in talune parrocchie si celebra la solenne rinnovazione delle promesse battesimali. Vale a dire che i fanciulli, per almeno due anni, frequentano la scuola del catechismo: compiuta l’istruzione e subito felicemente l’esame, dopo alcuni giorni d’insegnamento e di preparazione, rinnovano con grande solennità, in giorno stabilito e ricevuta la S. Comunione, le promesse del Battesimo alla presenza de’ genitori, o di chi ne fa le veci, quali mallevadori delle promesse. Altrove si suol fare pubblica e solenne distribuzione di premi ai giovani più assidui e più meritevoli.)

Finalmente lo scopo che avemmo in mente nel compilare il terzo catechismo fu di comprendervi soltanto le dottrine che o sono dalla Chiesa definite o dalla scuola cattolica accettate o conformi alla pratica generale dei fedeli alla quale la Chiesa mai abbia fatto opposizione: che queste dottrine fossero presentate col minore numero di parole possibile senza però cessare di essere di utile aiuto ai parroci e ai catechisti e di offrire agli adulti e alle persone colte la possibilità di conoscere a sufficienza la Religione Cattolica, lasciandone ai teologi la completa spiegazione. Inoltre, se non erriamo, noi crediamo che nelle scuole di religione così opportunamente istituite nei nostri collegi il nostro catechismo possa servire di norma e per l’ordine e per il metodo e per la precisione della frase. A proposito di questo catechismo maggiore bisognerà tenere presenti le seguenti osservazioni che più o meno possono adattarsi anche al secondo catechismo per i giovani. – Vi potrà essere bisogno di confutare determinati errori, propri di alcuni paesi o regioni o per illustrare meglio la dottrina cattolica sarà necessario svilupparne con speciale larghezza alcuni punti, o aggiungervene altri o citare brani della Sacra Scrittura o storici avvenimenti locali; si faccia pure tutto questo con il permesso dei Vescovi; però in modo tale che queste aggiunte appaiano ben distinte dal nostro schema. In esso non si propone che la disciplina comune. Se con il consenso della legittima autorità, in qualche regione o diocesi, questa disciplina fosse stata modificata, queste modificazioni si stampino in fondo alla pagina e il catechista le spieghi. Trattandosi però d’indulti affatto locali basterà la spiegazione data a viva voce dal parroco o dall’insegnante. – Se il nostro catechismo verrà adottato da Chiese orientali:

a) Ogni qualvolta nella domanda si tratterà della disciplina, come p. e. nel terzo catechismo per gli adulti Capo V Dei precetti della Chiesa, d. 242 e seguenti, nella risposta si propone quanto è in vigore nella Chiesa Occidentale: se da questa la disciplina orientale differisce sarà cura degli Ordinari sostituire alle nostre domande e risposte altre domande e altre risposte che rispondano alla disciplina della propria Chiesa;

b) Similmente nel catechismo si riportano alcune tra le più comuni preghiere in uso in Occidente: anche queste naturalmente verranno sostituite da altre preghiere più note in Oriente;

c) Lo stesso dicasi per il Simbolo della Fede. Nel nostro Catechismo si riporta e si spiega il cosiddetto Simbolo degli Apostoli, mentre nella maggior parte delle Chiese Orientali e nel catechismo e nella sacra liturgia è accettato il Simbolo Niceno-Costantinopolitano che anche noi recitiamo (aggiungendo la parola Filioque) nel sacrificio della Messa. Le Chiese Orientali quindi potranno ritenere nel catechismo il proprio Simbolo, purché professino come è di dovere la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. E poiché tra l’uno e l’altro non vi è, vi potrebbe essere, differenza alcuna sostanziale, la spiegazione può essere presa dal nostro catechismo;

d) Finalmente per tralasciare il resto, la materia e la forma di alcuni Sacramenti si propone con parole diverse e dalla Chiesa Latina e dalle Chiese Orientali. Nel nostro catechismo, nel testo si propone la materia e la torma così come è accettata dalla Chiesa Latina, nelle note si indicano la materia e la forma come sono in uso nella Chiesa Orientale. Gli Ordinari orientali però seguano l’ordine inverso, cioè nel testo pongano la loro dizione e nelle note la materia e la forma come sono formulate dalla Chiesa Latina. – Poiché l’insegnamento catechistico mira non soltanto ad illuminare la mente ma e soprattutto a spronare la volontà perché la vita e i costumi si conformino ai precetti della dottrina cristiana, un catechista che o non adattasse la spiegazione alla capacità degli alunni o non li esortasse in modo opportuno al ben vivere, mancherebbe certamente al suo compito. Quelle spiegazioni ed esortazioni quindi che a guisa di esempi vengono suggerite in fondo alla pagina, il catechista, se vuole, le sviluppi e con facilità ve ne aggiunga delle sue. Sempre in fine di pagina sono citati — oltre le testimonianza dei Concili Ecumenici, dei Romani Pontefici, dei Santi Padri, delle Sacre Congregazioni Romane, del Codice di Diritto Canonico — anche i passi della Sacra Scrittura che hanno relazione alla dottrina esposta nel testo affinché il Catechista si abitui a fare uso di essa che « èutile ad insegnare, a ragionare a correggere e ad educare nella santità » (S. Paolo, II a Timot., III, 16) e perché ogni giorno cresca nel popolo la conoscenza e la venerazione per la divina parola (Le testimonianze de’ Concilii Ecumenici, de’ RomaniPontefici, de’ Santi Padri e delle Sacre Congregazioni Romane,recate nei Catechismo, si trovano raccolte in fine dopo il Catechismo.E tali testimonianze, insieme colle citazioni, frequentia pie’ di pagina, dalla S. Scrittura, son la prova più sicura chela dottrina esposta nel Catechismo non è affatto nuova e di recenteinvenzione, ma è contenuta nella S. Scrittura e nel perpetuoinsegnamento della Chiesa.). – Infine desideriamo far conoscere che questo catechismo fu approvato da una commissione speciale di Consultori della S. Congregazione del Concilio presieduta dallo stesso Cardinale Prefetto: fu esaminato da Professori di Teologia nelle Università Cattoliche, da molti Eminentissimi Cardinali e da altre dotte persone: finalmente, nella compilazione del medesimo prestarono la loro utile opera parecchi Consultori e Professori nelle Facoltà Teologiche Romane  (I Collegi Romani, de’ quali i professori ci furono larghi e cortesi d’aiuto, sono i seguenti: Università Gregoriana S. J., Collegio Angelico 0. P., Seminario Romano maggiore, Istituto Pontificio per gli Studi Orientali e Collegio Urbano per la propagazione della Fede.). Se nondimeno per la nostra pochezza fossimo incorsi in qualche espressione contraria o comunque poco conforme alla dottrina e all’intenzione della Sede Apostolica, fino da questo momento vogliamo che sia ritrattata e soppressa.

PIETRO CARD. GASPARRI.

ORDINE DEI CAPITOLI DI DOTTRINA CRISTIANA NEL TERZO CATECHISMO PER GLI ADULTI

Il Capo I tratta del Segno della Santa Croce, che è come la tessera o segno distintivo del cristiano.

Il Capo II tratta della rivelazione divina, che è quasi l’ingresso o la porta del Catechismo, perché essa ci insegna in qual modo noi possiamo conoscere Iddio e le verità eterne. Siccome però per conseguire la eterna salute dell’anima (che è l’unica cosa necessaria, essendo il nostro ultimo fine) dobbiamo innanzi tutto credere, perciò il Capo III tratta del Simbolo degli Apostoli, nel quale sono contenute le principali verità della nostra fede. E poiché alla fede dobbiamo aggiungere le opere, perciò il Capo IV tratta del Decalogo, il Capo V Dei precetti della Chiesa, il Capo VI Dei consigli evangelici. – Siccome poi per compiere tutto ciò che è detto nei sei Capi superiori, è assolutamente necessaria la divina grazia, quindi il Capo VII tratta Della grazia. La qual grazia noi possiam principalmente ottenere per mezzo dell’orazione e dei Sacramenti, perciò il Capo VIII tratterà Dell’orazione ed il Capo IX Dei Sacramenti. Ma nella stessa giustificazione noi insieme alla remissione dei peccati otteniamo e le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo, donde provengono poi le beatitudini evangeliche e i frutti dello Spirito Santo; quindi il Capo X tratta Delle virtù teologiche, delle virtù morali, dei doni dello Spirito Santo, delle beatitudini evangeliche e dei frutti dello Spirito Santo. Se non che noi, resistendo alla grazia che Dio liberalmente sempre ci concede, possiamo volontariamente violarne la legge e commetter peccato; perciò il Capo XI tratta Dei peccati. Finalmente il Capo XII tratta Dei Novissimi, poiché la meditazione dei medesimi giova moltissimo per evitare i peccati ed è consigliata dalla stessa Sacra Scrittura.

DELLA PRESENZA DI DIO (1)

DELLA PRESENZA DI DIO [1]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VI.

CAPO I .

Dell’eccellenza di questo esercizio e dei gran beni che sono in esso.

Quærite Dominum, et confìrmamini: quærite faciem ejus semper.

Ps. CIV, 4

Cercate Dio con fortezza e con perseveranza, dice il profeta David: cercate sempre la sua faccia.. La faccia del Signore dice S. Agostino che è la presenza del Signore (super Ps. CIV): e così cercare la faccia del Signore sempre, è camminar sempre alla sua presenza, volgendo il cuore a Lui con desiderio e con amore. Isichio nell’ultima Centuria [e lo apporta anche il glorioso S. Bonaventura] dice, che lo star sempre in questo esercizio della presenza di Dio, è cominciare ad esser di qua beati; perché la beatitudine dei Santi consiste in veder Dio perpetuamente, senza giammai perderlo di veduta. Or giacché in questa vita non possiamo veder Dio chiaramente, né come Egli è, perché questo è proprio dei Beati; almeno imitiamoli nel modo nostro e secondo quello che comporta la nostra fragilità, procurando di star sempre riguardando, riverendo e amando Dio. Di maniera che siccome Dio Signor nostro ci creò per avere a stare eternamente alla sua presenza nel cielo, ed ivi goderlo; cosi volle, che avessimo qui in terra un ritratto e un saggio di quella beatitudine, camminando sempre alla sua presenza, contemplandolo e riverendolo, sebbene all’oscuro: Videmus nunc per speculum in ænigmate: tunc autem facie ad faciem (I ad Cor. XIII): Adesso il veggiamo e contempliamo noi per mezzo della Fede come per mezzo di uno specchio; di poi lo vedremo alla scoperta e a faccia a faccia: Ista est meritum, illa præmium: Quella vista chiara, dice Isichio, è il premio e la gloria e beatitudine che aspettiamo; quest’altra oscura è merito per mezzo del quale abbiamo da arrivare a conseguir quella. Ma infine al modo nostro imitiamo i Beati, procurando di non perdere mai Dio di veduta nelle nostre operazioni, siccome gli Angeli santi i quali sono mandati per nostro aiuto, per nostra custodia e nostra difesa, s’occupano in tal maniera in questi ministeri in prò nostro che mai non perdono Dio di vista; come lo disse l’Angelo Raffaello a Tobia: Videbar quidem vobiscum manducare et bibere: sed ego cibo invisibili, et potu, qui ab hominibus videri non potest, utor (Tob. XII, 19): Pareva bene che io stessi mangiando e bevendo con voi altri; ma io uso un altro cibo invisibile ed un’altra bevanda che non può esser veduta dagli uomini. Stanno gli Angeli santi del continuo come nutrendosi e sostentandosi di Dio: Semper vìdent faciem Patris mei, qui in cœlis est (Matt. XVIII, 10): così noi altri sebbene mangiamo, beviamo, trattiamo e negoziamo cogli uomini, e pare che ci occupiamo e tratteniamo in questo; abbiamo nondimeno da procurare, che non sia questo il nostro cibo né il nostro trattenimento, ma un altro invisibile che gli uomini non veggono; cioè lo star sempre riguardando ed amando Dio e facendo la sua santissima volontà. – Grand’esercizio fu quello che praticarono quei Santi e Patriarchi dell’antica legge in ordine a questo punto del camminare sempre alla presenza di Dio: Providebam Dominum in conspeclu meo semper; quoniam a dextris est mihi ne commovear (Ps. XV, ). Non si contentava il reale Profeta di lodar Dio sette volte il giorno; ma sempre procurava di tenerlo presente. Era tanto continuo questo esercizio in quei Santi, che era anche comune linguaggio loro il pregiarsi di questo, soliti di spesso dire: Vivit Dominus, in cujus conspectu sto (III Re, XVII, 1; – IV. Reg. III, 14): Vive il Signore, alla cui presenza io sto. Sono grandi i beni e le utilità che risultano dal camminar sempre alla presenza di Dio, considerando, che egli ci sta guardando; e perciò lo procuravano tanto quei Santi, perché questo basta a fare, che uno sia molto ben regolato e molto composto in tutte le sue azioni. Dimmi un poco, qual è quel servo che dinanzi agli occhi del suo padrone non proceda con molta puntualità? ovvero qual servo si trova tanto sfacciato, che alla presenza del padrone non faccia quello che esso gli comanda, o ardisca di offenderlo sotto a’ suoi occhi? ovvero qual sarà quel ladro a cui basti l’animo di rubare, mentre vede, che il Giudice gli sta guardando alle mani? Ci sta guardando Dio, il quale è nostro giudice ed è onnipotente, che può far che la terra s’apra e che l’inferno inghiottisca chiunque lo fa sdegnare contro di sé, e alcune volte l’ha fatto. Or chi ardirà di muoverlo a sdegno? E così S. Agostino diceva: Quando io, Signore, considero attentamente, che mi state sempre guardando e vegliando sopra di me notte e giorno, con tanta cura, come se in cielo e in terra Voi non aveste altra creatura da governare che me solo: quando considero bene, che tutte le mie operazioni, pensieri e desideri, sono patenti e chiari dinanzi a Voi, mi riempio tutto di timore e mi copro di vergogna (c.(D. Aug. c. 14 soliloq.). Certo ci mette in grand’obbligo di viver giustamente e rettamente il considerare, che facciamo tutte le cose dinanzi agli occhi del Giudice che vede il tutto e a cui nessuna cosa si può celare. Se la presenza d’un uomo grave ci fa star composti, che farà la presenza di Dio? S. Girolamo sopra quello che Dio dice di Gerusalemme per mezzo del profeta Ezechiello, Meique oblita es (Ezech. XXII, 13), Ti sei dimenticata di me, dice: Memoria enim Dei excludit cuncta flagitia: La memoria di Dio esclude tutti i peccati. L’istesso dice sant’Ambrogio (D. Ambr. lib. de fide resurr. Tom. 4). E in un altro luogo dice S. Girolamo: Certe quando peccamus, si cogitaremus Deum videre, et esse prœsentem, numquam, quod ei dispiaceret, faceremus (4 (4) D. Hieron. Ìn Ezeeh. 8 circa illud, dicunt enim, non vldebit Dominus nos). È tanto efficace mezzo la memoria di Dio e il camminar alla presenza sua, che se considerassimo, che Dio è presente e che ci sta guardando, non ardiremmo mai di far cosa che gli dispiacesse. Alla peccatrice Taide bastò questo solo per lasciare l a sua mala vita e andarsene all’eremo a far penitenza, come abbiamo detto di sopra (tract. V.). Diceva il santo Giob: Nonne ipse considerai vias meas, et cunctos gressus meos dinumerat ((2) Job XXXI, 4)? Dio mi sta guardando come testimonio di veduta e mi va contando i passi; e chi ardirà mai di peccare né di far cosa malfatta? Per lo contrario tutto il disordine e tutta la ruina dei tristi nasce dal non ricordarsi, che Dio è presente e che gli sta guardando, secondo quello che tante volte replica la Scrittura divina in persona degli uomini cattivi: Et dixisli: Non est, qui videat me (Isa. XLVII, 10) — Non videbit novissima nostra (Jerem. XII, 4). E così lo notò san Girolamo sopra quel capo 22 di Ezechiello, ove il Profeta, riprendendo Gerusalemme di molti suoi vizi e peccati, viene a conchiudere, che la cagione di tutti essi era l’essersi dimenticata di Dio: e questa stessa cagione nota la Scrittura in molti altri luoghi, Siccome un cavallo senza freno si va a precipitare e una nave senza chi la governi si va a perdere; così levato via questo freno, l’uomo se ne va dietro a’ suoi appetiti e alle sue passioni disordinate: Non est Deus in conspectu ejus: inquinata? sunt via? illius in omni tempore (Psal. IX, 20), dice il profeta David: Non tiene Dio dinanzi a’ suoi occhi, non lo considera presente dinanzi a sé; e perciò le vie sue, cioè le sue operazioni, sono macchiate di colpa in ogni tempo. Il rimedio che il beato S. Basilio in molti luoghi dà contra tutte le tentazioni e’ travagli, e contra tutte le cose e occasioni che ci si possono presentare, è la presenza di Dio (p. Basil, in reg. brev. et in reg. fus. disput.). Onde se vuoi un mezzo breve e compendioso per acquistare la perfezione, il quale contenga e rinchiuda in sé la forza e l’efficacia di tutti gli altri mezzi, questo è desso, e per tale lo diede Dio ad Abramo: Ambula coram me, et esto perfectus (Gen. XVII, 1): Cammina alla mia presenza, e sarai perfetto.  – In questo, come in altri luoghi della sacra Scrittura, l’imperativo si piglia pel futuro, per significare l’infallibilità del successo. È cosa tanto certa, che sarai perfetto se andrai sempre riguardando Dio e se starai avvertito ch’egli ti sta guardando; che da quest’ora ti puoi tenere per tale. Perché, siccome le stelle dall’aspetto del sole che hanno presente, e in cui stanno rivolte, traggono lume per risplendere dentro e fuori di sé, e virtù per influire nella terra; così gli uomini giusti i quali sono come stelle nella Chiesa di Dio, dall’aspetto del medesimo Iddio, dal mirarlo presente, e dal volgere il loro pensiero e desiderio a Lui, traggono lume col quale nell’interiore che Dio vede risplendono con vere e sode virtù, e nell’esteriore che veggon gli uomini risplendono con ogni decenza e onestà; e ritraggono virtù e forza per edificare e santificar altri. Non è cosa nel mondo che esprima tanto propriamente la necessità che abbiamo di star sempre alla presenza di Dio, quanto questa. Guarda la dipendenza che ha la luna Dal sole, e la necessità che ha di star sempre rimpetto ad esso. La luna da sé non ha lume; ha solo quello che riceve dal sole, secondo l’aspetto col quale lo guarda; e opera nei corpi inferiori secondo il lume che riceve dal sole: e così i suoi effetti crescono te scemano secondo che ella stessa va crescendo e scemando: e quando si pone dinanzi alla luna qualche cosa che le impedisca l’aspetto e la vista del sole; subito nell’istesso punto si ecclissa e perde la sua luce, e con essa ancora gran parte dell’efficacia d’operare che aveva mediante il lume che riceveva dal sole. L’istesso accade nell’anima rispetto a Dio che è il suo sole. Perciò i Santi ci esortano a questo esercizio. S. Ambrogio e S. Bernardo trattando della continuazione e perseveranza che dee essere in noi intorno ad esso, dicono: Sicut nullum est momentum, quo homo non utatur vel fruatur Dei bonitate et misericordia; sic nullum debet esse momentum, quo eum præsentem non habeat in memoria (D. Ambr. lib. de dlgu. coni. bum. c. 2; D. Bernard, c. 8, medit.): Siccome non v’è punto né momento nel quale l’uomo non goda della bontà e misericordia di Dio; cosi non vi ha da esser punto né momento nel quale non abbia Dio presente nella sua memoria. E in un altro luogo dice S. Bernardo: In omni actu vel cogitatu suo sibi Deum adesse memoretur; et omne tempus, quo de ipso non cogitai, perdidisse se computet (D. Bern. in spec. mon.): In tutte le sue operazioni e in tutti i suoi pensieri ha da procurare il Religioso di ricordarsi, che ha Dio presente: e tutto il tempo che non pensa a Dio ha egli da tenerlo per perduto. Mai non si dimentica Dio di noi altri: sarà ben di ragione che noi altresì procuriamo di non mai dimenticarci di lui. S. Agostino sopra quelle parole del Salmo XXXI, Firmabo super te oculos meos, dice: Non a te auferam oculos meos; quia et tu non aufers a me oculos tuos (D. Aug. in Ps. XXXI, 8): Non leverò, o Signore, gli occhi miei da te; perché tu non levi mai i tuoi da me: sempre li terrò fermi e fissi in te, come faceva il Profeta: Oculi mei semper ad Dominum (Ps. XXIV, 15). S. Gregorio Nazianzeno diceva: Non tam sæpe respirare, quam Dei meminisse débemus (D. Greg. Naz. In I orat. Theol.): Tanto spesso e tanto frequente ha da esser il ricordarci di Dio, quanto il respirare, e anche più. Perché siccome ad ogni momento abbiamo necessità di respirare, per rinfrescare il cuore e per temperare il calor naturale, così abbiamo necessità di ricorrere in ogni momento a Dio coll’orazione, per raffrenare il disordinato ardore della concupiscenza che ci sta stimolando e incitando al peccare.

CAPO II.

In che cosa consiste quest’esercizio di camminar sempre alla presenza di Dio.

Per poter noi cavar maggior frutto da quest’esercizio, bisogna che dichiariamo in che cosa consiste. In due punti consiste, cioè in due atti, l’uno dell’intelletto e l’altro della volontà (Vide sapra tract. 5, c. 7). Il primo atto è dell’intelletto, poiché questo sempre si ricerca e si presuppone per qualsivoglia atto della volontà, siccome insegna la filosofia. La prima cosa dunque ha da essere il considerare coll’intelletto, che Dio è qui e in ogni luogo; che riempie tutto il mondo; e che sta tutto in tutto, e tutto in qualsivoglia parte di esso, e tutto in qualsivoglia creatura, per piccola che sia. Su questo si ha a fare un atto di fede, perché questa è una verità che la Fede ci propone per crederla: Non enim longe est ab unoquoque nostrum. In ipso enim vivirnus, et movemur, et sumus (Ex Act. XVII, 27, 28.), diceva l’apostolo san Paolo. Non avete da immaginarvi Dio come lontano da voi, o come fuori di voi; perché è dentro di voi. S. Agostino dice di se medesimo (D. Aug. lib. 10 Confess. e. 27): Signore, io cercava fuori di me quello ch’aveva dentro di me. Dentro di voi sta Egli. Più presente, più intimo e più intrinseco è Dio in me, che non sono io stesso. In Esso viviamo, ci moviamo, e abbiamo l’essere: Egli è quegli che dà vita a tutto quello che vive; e quegli che dà forza a tutto quello che opera; e quegli che dà l’essere a tutto quello che è. E s’Egli non istesse presente, mantenendo tutte le cose, tutte lascerebbero d’ essere e si ridurrebbero al niente. Considera dunque, che sei tutto pieno di Dio, e circondato da Dio, e che stai come nuotando in Dio. Quelle parole, Pieni sunt cœli et terra gloria tua (Ex Isa. VI, 3. Eccl. in Prœfat. Missæ), sono molto a proposito per questa considerazione: i cieli e la terra, o Signore, sono pieni della vostra gloria. Alcuni per attuarsi meglio in questo esercizio considerano tutto il mondo pieno di Dio, come in fatti Egli è: indi immaginano se stessi in mezzo di questo mare immenso di Dio, circondati da esso per ogni parte, in quel modo che starebbe una spugna in mezzo al mare, tutta inzuppata e piena d’acqua, e oltre di questo circondata d’acqua da tutte le bande. E non è questa cattiva similitudine rispetto al corto nostro intelletto; ma con tutto ciò ella stessa è assai debole e scarsa, e non arriva ad esprimere a sufficienza quel che diciamo; perché questa spugna in mezzo del mare se sale in alto trova fine; se cala al basso trova terra; se va da un canto all’altro trova lido; ma in Dio non troverai niuna di queste cose: Si ascenderò in cœlum,tu illie es : si descendero in infernum, ades. Si sumpsero pennas meas diluculo, et habitavero in extremis maris, etenim illuc manus tua deducet me, et tenebit me dextera tua (Psal. CXXXVIII, 8, 9, 10): S’io salirò in cielo, ivi sei tu, Signore; e se me ne calerò sino all’inferno, pur Li sei; e se prenderò alI e me ne passerò di là dal mare, colà mi condurrà e mi terrà la tua potente mano. Non vi è fine o termine in Dio, perché è immenso e infinito. Inoltre la spugna, per esser corpo, non può esser totalmente penetrata dall’acqua la quale è un altro corpo; ma noi altri siamo in tutto e per tutto penetrati da Dio il quale è puro spirito. Pur finalmente queste ed altre simili comparazioni, ancorché scarse e manchevoli, aiutano e sono a proposito per farci comprendere in qualche modo l’immensità infinita di Dio, e come Egli è presente e sta intimamente dentro di noi e in tutte le cose. [fondamentale al riguardo è l’opera di B. Froget, l’Inabitazione dello Spirito Santo in noi – ndr.]. E per questo le apporta S. Agostino (D. Aug. ep. 57 ad Dard. et lib. 7 Confessi, e. 5). » Ma è d’avvertire in questo esercizio, che per questa presenza di Dio non fa di bisogno il formarci entro di noi alcuna sensibile immagine o rappresentazione di Dio, a forza di fantasia, figurandoci, che Egli ci stia a lato, o da un’ altra banda determinata, né immaginarselo nella tale o tal altra forma o figura. Vi sono alcuni che s’immaginano di avere avanti di sé, ovvero al lato loro, Gesù Cristo nostro Redentore, che vada, o stia con essi, e gli stia sempre mirando in ciò che fanno: e in questa maniera stanno sempre alla presenza di Dio. Altri di questi s’immaginano Cristo crocifisso, che stia sempre loro dinanzi; altri se l’immaginano legato alla colonna: altri nell’orto in atto di far orazione e di sudar sangue; altri se l’immaginano in qualche altro passo della Passione, o in qualche mistero gaudioso della sua santissima Vita, secondo quello che suole più muovere ciascuno: ovvero per qualche tempo se l’immaginano in una azione e per qualche altro in un’altra. E ancora che questa sia cosa molto buona, se si sa fare; nondimeno, ordinariamente parlando, non è questo quello che più ci conviene e ci è più utile: perché tutte queste figure e immaginazioni di cose corporali straccano, e aggravano, e rompono assai la testa. Un S. Bernardo e un S. Bonaventura dovevano saper far questo d’altra maniera che noi, e vi trovavano gran facilità e quiete; e così se n’entravano in quei buchi delle Piaghe di Cristo e dentro al suo Costato, e quello era il loro ricovero, il loro rifugio e riposo, parendo loro d’udir quelle parole dello Sposo ne’ Cantici (Cant. II, 13,14): Surge, amica mea, speciosa mea, et veni, columba mea, in foraminibus petræ, in caverna maceriæ. Altre volte s’immaginavano il piè della croce piantato e conficcato nel loro cuore, e stavano ricevendo nella loro bocca con grandissima dolcezza quelle gocciole di sangue che stillavano e scorrevano come da aperti fonti dalle Piaghe del Salvatore. – Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris (Isa. XII, 3). Facevano que’ Santi queste cose molto bene, e se ne stavano benissimo; ma se tu te ne vorrai stare tutto il giorno in queste considerazioni e con questa presenza di Dio, potrà essere, che, per un giorno e per un mese che tu lo faccia, perda tutto l’anno d’orazione; perché ti ci romperai il capo. Ben si vedrà quanta ragione abbiamo d’avvertire questa cosa; poiché anche per formarci la composizione del luogo, che è uno de’ preludi dell’orazione col quale ci facciamo presenti a quello che abbiamo da meditare, immaginandoci, che realmente quella cosa si faccia ed accada allora sotto i nostri occhi, avvertono quei che trattano dell’orazione, che non ha la persona da fissare né attuar molto l’immaginazione nella figura e rappresentazione di questo cose corporali che pensa; acciocché non si rompa la testa, e per guardarsi da altri inconvenienti d’illusioni che potrebbero occorrere. Ora se per un preambolo dell’orazione che si fa in così breve spazio di tempo, e stando uno quieto e posato, senza avere altra cosa che fare, vi bisogna tanta avvertenza e circospezione; che sarà volendosi tutto il giorno, e fra le altre occupazioni, ritenere questa composizione di luogo e queste materiali rappresentazioni? Quella presenza adunque di Dio della quale trattiamo adesso, esclude tutte queste immaginazioni e considerazioni, ed è molto lontana da esse; perché ora trattiamo della presenza di Dio in quanto Dio, il quale dico primieramente che non vi è bisogno di fingerselo presente, ma solamente di crederlo, perché questo è verissimo. Cristo nostro Redentore in quanto uomo sta in cielo e nel santissimo Sacramento dell’Altare; ma non istà in ogni luogo: onde quando c’immaginiamo presente Cristo in quanto uomo, questa è un’immaginazione che noi altri fingiamo; ma in quanto Dio è qui presente, e dentro di me, e in ogni luogo, e riempie ogni cosa; Spiritus Domìni replevit orbem terrarum (Sap. 1, 7). Non abbiamo dunque bisogno di fingere quello che non è; ma di attuarci in credere quello che è. Dico in secondo luogo, che l’umanità di Cristo si può bensì immaginare e figurare coll’immaginazione, perché ha corpo e figura; ma Dio, in quanto Dio, non ci può immaginare né figurare com’Egli è; perché non ha corpo né figura, essendo puro spirito. Né anche un Angelo né la nostra propria anima possiamo immaginarci come sien fatti, perché sono spiriti; quanto meno potremo immaginarci né formarci concetto alcuno del come sia fatto Dio? – In che modo dunque abbiamo noi da considerare Iddio presente? Dico, che solamente col fare un atto di fede, presupponendo, che Dio è qui presente, poiché la Fede ce lo dice, senza voler sapere come né in che modo ciò sia: siccome dice san Paolo che faceva Moisè, il quale invisibilem tamquam videns sustinuit (ad Hebr. 1): Essendo Dio invisibile, egli lo considerava e lo teneva presente come se lo vedesse, senza voler sapere né immaginarsi come Egli fosse fatto: come quando uno sta parlando col suo amico di notte, senza voler cercare com’Egli sia fatto né ricordarsi di questo, gode unicamente e dilettasi della conversazione e presenza dell’amico che sa esser ivi presente. In questa maniera abbiamo noi da considerare Dio presente: ci basti sapere, che il nostro amico è qui presente per godere della sua presenza. Non ti fermare a voler guardare come egli sia fatto, che non ci affronterai, essendo di notte adesso per noi altri: aspetta, che si faccia giorno, e quando apparirà la mattina dell’altra vita, allora egli si manifesterà, e potremo vederlo chiaramente com’Egli è fatto: Curri apparuerit, similes et erìmus; quoniam videbimus eum sicuti est (I. Jo. V.). Per questo Dio apparve a Mosè nella nuvola e nell’oscurità: non vuole, che tu lo vegga; ma solamente che creda, ch’egli è presente. Tutto questo che abbiamo detto appartiene al primo atto dell’intelletto che si ha da presupporre. Ma bisogna avvertire, che la principal parte di questo esercizio non consiste in questo; perché non si ha da occupare solamente l’intelletto, considerando Dio presente; ma s’ha da occupare anche la volontà, desiderando e amando Dio, e unendosi con esso: e in questi atti della volontà consiste principalmente quest’esercizio. Del che tratteremo nel capo seguente.

DELLA PRESENZA DI DIO (2)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “NON MEDIOCRI”

Questa breve lettera Enciclica riguarda la fondazione di un collegio spagnolo che potesse ospitare seminaristi e chierici di quella Nazione sconvolta da tragici avvenimenti bellici e sociali che ne avevano sovvertito le istituzioni ecclesiastiche; questo per poter dare adeguata istruzione religiosa ai futuri chierici che dovevano perpetuare una tradizione cattolica tra le più luminose nel mondo fin dalla fondazione della Chiesa. Quando le forze bestiali del demonio si scatenano contro popoli ed istituzioni sociali, mirano sempre a colpire la Chiesa e le sue strutture, vero bersaglio di ogni pseudo-rivoluzione, che tutte sono la ribellione contro Dio, il suo Cristo e la sua Chiesa. Questo è avvenuto da sempre, ed oggi con maggior forza ancora si sono scatenate le forze dell’Anticristo che non solo combattono la Chiesa frontalmente senza ritegno, con regnanti e governanti indegni e blasfemi, tutti aderenti alle sette di perdizione, e dall’interno per mezzo di falsi non-chierici che affettando santità e devozione che non hanno, ingannano le masse di compiacenti illusi ed ignoranti fedeli, portandone un numero immenso nello stagno di fuoco. Il santo Padre Leone XIII, come altri sommi Pontefici nel passato e fino a Pio XII, hanno cercato di arginare questa bestia satanica – abominio della desolazione – che ha usato ogni strategia, ogni mezzo, per sbarazzarsi della sua nemica giurata, la Chiesa di Cristo, ed in particolare, del successore di Pietro e Vicario di Cristo, il Capo visibile di quella ‘‘Donna vestita di sole’’ (Apoc. XII) che minacciata dal dragone è stata portata nel deserto – la “Chiesa eclissata” di La Salette – per salvarsi dalle bestie del mare e della terra che la minacciano dall’esterno, e dalla « bestia uccisa e risorta », la falsa chiesa dell’uomo che mascherata l’ha infiltrata dall’interno. Ma tutto questo non servirà che a mostrare la natura divina della Chiesa e la forza del vero Dio-Uomo Gesù-Cristo, e le bestie, il dragone, i falsi profeti e tutti gli adepti delle conventicole infernali, compresa quella vaticana – che ne è la peggiore – finiranno nello stagno di fuoco preparato per il demonio ed i suoi adepti. Qui in caelis habitat irridebit eos… et IPSA conteret caput tuum.

NON MEDIOCRI


ENCICLICA DI PAPA LEONE XIII

Ai Vescovi della Spagna circa la Fondazione di un Collegio Romano per i Chierici Spagnoli.

Con non poca cura e vigilanza, come sapete, abbiamo cercato di salvaguardare e di accrescere la causa cattolica tra di voi fin dall’inizio del nostro mandato. In primo luogo ci siamo sforzati di rafforzare la concordia di idee tra di voi e di stimolare la feconda industria del clero. Ora, però, animati dallo stesso zelo, abbiamo rivolto la nostra attenzione al vostro giovane clero affinché, prendendo consiglio con voi, dedichiamo una certa cura alla loro formazione. – A questo scopo, promettiamo la Nostra benevolenza paterna. E giustamente: non ci dimentichiamo degli interessi del popolo spagnolo, né ignoriamo la vostra grande e costante fede di antica data e la vostra obbedienza alla Sede Apostolica. Per questo, come testimoniano i documenti storici, la reputazione della Spagna è salita a tale gloria e la Spagna è diventata un grande impero. La Spagna ci ha spesso aiutato nelle avversità; siamo, quindi, molto lieti di rispondere con affetto di spirito.

Gli Spagnoli sono degni di considerazione.

2. Il clero spagnolo è stato a lungo rinomato per il suo insegnamento religioso e per l’eleganza dei suoi scritti. Con queste arti, essi hanno promosso la causa cristiana e contribuito non poco alla reputazione del loro Paese. Certamente non mancarono uomini generosi che patrocinarono le arti e offrirono un aiuto adeguato ai tempi. Né mancava il talento per la coltivazione delle discipline teologiche e filosofiche e per le lettere. Per promuovere questi studi sappiamo quanto abbiano contribuito la liberalità dei Re cattolici e il lavoro e la perseveranza dei Vescovi. A sua volta la Sede Apostolica ha fornito ogni tipo di incentivo, essendosi sempre adoperata affinché la santità della morale cristiana fosse incrementata dalla luce della filosofia e dallo splendore delle lettere umane. Alcuni uomini straordinari vi hanno lasciato un’eredità gloriosa in questi campi. Citiamo Francesco Suarez, Giovanni Lugo, Francesco Toletus, e in particolare Francesco Ximenes. Quest’ultimo, per la guida e sotto la protezione dei Romani Pontefici, ha raggiunto una tale eminenza nell’insegnamento che ha illuminato non solo la Spagna, ma tutta l’Europa, soprattutto con la sua Bibbia poliglotta complutense. Da questi uomini i giovani sono stati istruiti con lo splendore della sapienza nella Chiesa di Dio. Essi brillavano come stelle del mattino e illuminavano gli altri sulla via della verità.(Alessandro VI nella bolla Inter cetera, 13 Aprile 1499) Da quella messe, così sapientemente e zelantemente coltivata, nacque una coorte di illustri dotti, dalla quale il Romano Pontefice e il Re cattolico scelsero gli uomini per il Concilio di Trento. Le aspettative di entrambi furono singolarmente soddisfatte. Ed è degno di nota che la Spagna abbia prodotto uomini così grandi. Perché oltre al talento naturale, c’erano a portata di mano gli strumenti e gli aiuti adeguati per perfezionare un corso di studi. Basta ricordare le grandi sedi di studio di Alcala de Henares e Salamanca. Sotto la vigilanza della Chiesa, furono questi, centri rinomati di saggezza cristiana. La loro memoria ricorda spontaneamente altri collegi che hanno offerto una sede adeguata ad uomini di grande talento e passione per la conoscenza.

Sradicamento dei seminari

3. Ma ora ci troviamo di fronte ad un recente disastro. Gli sconvolgimenti degli eventi pubblici che hanno sconvolto tutta l’Europa a partire dal secolo scorso, hanno rovesciato le istituzioni come per una tempesta e ne hanno fatte a pezzi la radice ed i rami; sia le autorità reali che quelle ecclesiastiche avevano eretto queste istituzioni per la crescita della fede e della dottrina. Quando le Università cattoliche scomparvero con i loro collegi, i seminari per i chierici languirono perché la pienezza dell’apprendimento, che proveniva dalle grandi scuole, andò via via appassendo. Inoltre, non potevano mantenere il loro antico patrimonio a causa delle guerre interne e delle sette, che di tanto in tanto azzeravano gli studi e la forza intellettuale dei cittadini.

Restauro dei seminari

4. Col tempo la Sede Apostolica intervenne e cercò seriamente, con il consenso del potere civile, di porre rimedio alle vicende ecclesiastiche che le tempeste precedenti avevano paralizzato. La preoccupazione principale era quella di ripristinare, nell’interesse privato e pubblico, i seminari diocesani, che erano stati luoghi di pietà e di erudizione. Ma sapete che questo non ha avuto successo secondo i piani. Infatti non c’erano risorse sufficienti; né il corso di studi poteva risorgere con la speranza della gloria, perché la distruzione dei Licei aveva causato la mancanza di insegnanti idonei. – Fu concordato tra le due massime autorità che in alcune province si fondassero seminari generali con il potere che dai loro laureati coloro che avevano studiato teologia in modo più completo potessero essere ammessi ai diplomi accademici secondo l’uso antico. Ma c’erano e ci sono oggi molti ostacoli. Senza l’aiuto degli ex Licei rimossi, mancano molte risorse; senza di esse il clero può aspirare solo con difficoltà al pieno e perfetto ripristino dell’erudizione. Quindi c’è la prudente opinione, che è necessario ampliare e riformare il corso degli studi nei seminari.

Educare gli studenti stranieri

5. Siamo quindi molto preoccupati per questo, soprattutto alla luce dello schema lasciatoci dai Nostri predecessori, che non hanno mai tralasciato l’opportunità di incoraggiare gli studi superiori. La notevole perspicacia dei Pontefici traspare soprattutto dal fatto che, proprio in questa città, prima fra tutte le comunità cattoliche, si siano reclutati giovani chierici dall’estero riunendoli in collegi. Si cercavano soprattutto studenti i cui Paesi non avevano adeguate opportunità di insegnamento o di istituzioni solide, dal momento che era stata respinta la vigilanza della Chiesa. A questo scopo furono istituiti molti seminari minori ai quali gli studenti stranieri si portavano per intraprendere gli studi sacri; essi intendevano usufruire di qualsiasi vantaggio che per la mente e lo spirito potessero acquisire a Roma a beneficio finale dei loro connazionali. Poiché da questi sforzi è scaturito molto di buono, anche noi abbiamo ritenuto opportuno aumentare il numero di tali collegi. Perciò abbiamo aperto il collegio per gli armeni a Roma ed uno per i boemi. Abbiamo anche riportato alla sua dignità di un tempo il collegio per i maroniti.

Seminari per gli spagnoli

6. Eravamo addolorati però nel constatare che non erano molti gli spagnoli in questo numero di studenti stranieri. Per questo motivo abbiamo pensato non solo che fosse fondato su solide fondamenta il collegio urbano per i chierici spagnoli, che le sagge fatiche dei sacerdoti pii avevano iniziato non molto tempo fa, ma che ne sarebbe stata possibile l’espansione. È nostro piacere, quindi, che tutti gli studenti della penisola spagnola e delle isole vicine, sotto il governo del Re cattolico, vi si riuniscano sotto la nostra tutela. Essi devono vivere insieme sotto la direzione di autorità scelte e dedicarsi allo studio di quei soggetti che sviluppano efficacemente i loro talenti e le loro menti. Pensiamo di donare un edificio a Roma adatto a quest’opera, un edificio che prende il nome dai suoi precedenti proprietari, i Duchi di Altemps. Esso ora appartiene a Noi e alla Sede Apostolica. È questo particolarmente adatto perché si distingue per il cimitero di S. Aniceto, Papa e Martire, le cui reliquie vi sono custodite. Si segnala anche per il fatto che vi abbia vissuto San Carlo Borromeo. Diamo quindi l’uso legale di questa dimora al collegio episcopale spagnolo, con la condizione che la usino per ricevere ed ospitare i chierici delle loro diocesi, qualora decidessero di mandarne qualcuno qui per i loro studi. Affinché questi progetti possano essere realizzati più rapidamente, e che ci sia tempo sufficiente per adattare gli edifici e fare gli altri preparativi, lasciamo che i chierici utilizzino una certa porzione adeguata della casa dell’illustre famiglia Alteria. Noi designiamo gli Arcivescovi di Toledo e di Siviglia perché trattino con Noi e con i Nostri successori tutte le questioni più importanti del collegio. Per lo stesso motivo decretiamo che chi presiede il collegio debba rendere conto per iscritto ogni anno della sua situazione finanziaria, insieme ad una relazione sulla disciplina e la condotta degli studenti al Nostro Sacro Consiglio degli studi e agli Arcivescovi summenzionati. – Ora è compito vostro assistere ed eseguire ciò che abbiamo iniziato. Fatelo con la stessa rapidità e lo stesso zelo che la questione richiede e che la vostra virtù episcopale promette. – Nel frattempo concediamo con amore la Nostra Benedizione Apostolica come testimonianza della Nostra speciale benevolenza a voi, Venerabili Fratelli, e anche al clero e ai fedeli affidati alla vostra vigilanza.

Dato a Roma, in San Pietro, il 25 ottobre 1893, sedicesimo anno del nostro Pontificato