FESTA DI TUTTI I SANTI (2020)

FESTA DI TUTTI I SANTI (2020)

Santa MESSA

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Doppio di 1a classe con Ottava comune. – Paramenti bianchi.

Il tempio romano di Agrippa fu dedicato, sotto Augusto, a tutti i dei pagani, perciò fu detto Pantheon. Al tempo dell’imperatore Foca, tra il 608 e il 610, Bonifacio IV Papa, vi trasportò molte ossa di martiri tolte dalle catacombe. Il 13 maggio 610 egli dedicò questa nuova basilica cristiana a « S . Maria e ai Martiri». Più tardi la festa di questa dedicazione fu solennemente celebrata e si consacrò il tempio a « Santa Maria » e a « Tutti i Santi «. E siccome esisteva in precedenza una festa per la commemorazione di tutti i Santi, celebrata in tempi diversi dalle varie chiese e poi stabilita da Gregorio IV (827-844) il 1° novembre, papa Gregorio VII trasportò in questo giorno l’anniversario della dedicazione del Panteon. La festa di Ognissanti ci ricorda il trionfo che Cristo riportò sulle antiche divinità pagane. Nel Pantheon si tiene la Stazione nel venerdì nell’Ottava di Pasqua. – Santi che la Chiesa onorò nei primi tre secoli erano tutti Martiri, e il Pantheon fu dapprima ad essi destinato: per questo la Messa di oggi è tolta dalla liturgia dei Martiri. l’Introito è quello della Messa di S. Agata, più tardi usato anche per altre feste; il Vang., l’Off., e il Com., sono tratti dal Comune dei Martiri. La Chiesa oggi ci presenta la mirabile visione del Cielo, nel quale con S. Giovanni ci mostra il trionfo dei dodicimila eletti (dodici è considerato come un numero perfetto) per ogni tribù di Israele e una grande, innumerevole folla di ogni nazione, di ogni tribù, di ogni popolo e di ogni lingua prostrata dinanzi al trono ed all’Agnello, rivestiti di bianche stole e con palme fra le mani (Ep.). Intorno al Cristo, la Vergine, gli Angeli divisi in nove cori, gli Apostoli e i Profeti’, i Martiri, imporporati del loro sangue, i Confessori, rivestiti di bianchi abiti e il coro delle caste Vergini formano, canta l’Inno dei Vespri, questo maestoso corteo. Esso si compone di tutti coloro che, qui, hanno distaccato il loro cuori dai beni della terra, miti, afflitti, giusti, misericordiosi, puri, pacifici, di fronte alle persecuzioni, per il nome di Gesù. « Rallegratevi dunque perché la vostra ricompensa sarà grande nei Cieli» dice Gesù (Vang., Com.). Fra questi milioni di giusti, che sono stati discepoli fedeli di Gesù sulla terra, si trovano numerosi nostri parenti, amici, comparrocchiani, che adorano il Signore, re dei re e corona dei santi (invit. del Matt.) e ci ottengono l’implorata abbondanza delle sue misericordie (Or.). Il sacerdozio che Gesù esercita invisibilmente sui nostri altari, dove Egli si offre a Dio, si identifica con quello che Egli esercita visibilmente in Cielo. – Gli altari della terra, sui quali si trova «l’Agnello di Dio», e quello del Cielo, ov’è l’ «Agnello immolato », sono un solo altare.: perciò la Messa ci richiama continuamente alla patria celeste. Il Prefazio unisce i nostri canti alle lodi degli Angeli, e il Communicantes ci unisce strettamente alla Vergine e ai Santi.

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]
Ps XXXII:1.
Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.

[Esultate nel Signore, o giusti: ai retti si addice il lodarLo.]

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei

 [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui nos ómnium Sanctórum tuórum mérita sub una tribuísti celebritáte venerári: quǽsumus; ut desiderátam nobis tuæ propitiatiónis abundántiam, multiplicátis intercessóribus, largiáris.
 

[O Dio onnipotente ed eterno, che ci hai concesso di celebrare con unica solennità i meriti di tutti i tuoi Santi, Ti preghiamo di elargirci la bramata abbondanza della tua propiziazione, in grazia di tanti intercessori.]

Lectio

Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli.
Apoc VII: 2-12
In diébus illis: Ecce, ego Joánnes vidi álterum Angelum ascendéntem ab ortu solis, habéntem signum Dei vivi: et clamávit voce magna quátuor Angelis, quibus datum est nocére terræ et mari, dicens: Nolíte nocére terræ et mari neque arbóribus, quoadúsque signémus servos Dei nostri in fróntibus eórum. Et audívi númerum signatórum, centum quadragínta quátuor mília signáti, ex omni tribu filiórum Israël, Ex tribu Juda duódecim mília signáti. Ex tribu Ruben duódecim mília signáti. Ex tribu Gad duódecim mília signati. Ex tribu Aser duódecim mília signáti. Ex tribu Néphthali duódecim mília signáti. Ex tribu Manásse duódecim mília signáti. Ex tribu Símeon duódecim mília signáti. Ex tribu Levi duódecim mília signáti. Ex tribu Issachar duódecim mília signati. Ex tribu Zábulon duódecim mília signáti. Ex tribu Joseph duódecim mília signati. Ex tribu Bénjamin duódecim mília signáti. Post hæc vidi turbam magnam, quam dinumeráre nemo póterat, ex ómnibus géntibus et tríbubus et pópulis et linguis: stantes ante thronum et in conspéctu Agni, amícti stolis albis, et palmæ in mánibus eórum: et clamábant voce magna, dicéntes: Salus Deo nostro, qui sedet super thronum, et Agno. Et omnes Angeli stabant in circúitu throni et seniórum et quátuor animálium: et cecidérunt in conspéctu throni in fácies suas et adoravérunt Deum, dicéntes: Amen. Benedíctio et cláritas et sapiéntia et gratiárum áctio, honor et virtus et fortitúdo Deo nostro in sǽcula sæculórum. Amen. – 

[In quei giorni: Ecco che io, Giovanni, vidi un altro Angelo salire dall’Oriente, recante il sigillo del Dio vivente: egli gridò ad alta voce ai quattro Angeli, cui era affidato l’incarico di nuocere alla terra e al mare, dicendo: Non nuocete alla terra e al mare, e alle piante, sino a che abbiamo segnato sulla fronte i servi del nostro Dio. Ed intesi che il numero dei segnati era di centoquarantaquattromila, appartenenti a tutte le tribú di Israele: della tribú di Giuda dodicimila segnati, della tribú di Ruben dodicimila segnati, della tribú di Gad dodicimila segnati, della tribú di Aser dodicimila segnati, della tribú di Nèftali dodicimila segnati, della tribú di Manasse dodicimila segnati, della tribú di Simeone dodicimila segnati, della tribú di Levi dodicimila segnati, della tribú di Issacar dodicimila segnati, della tribú di Zàbulon dodicimila segnati, della tribú di Giuseppe dodicimila segnati, della tribú di Beniamino dodicimila segnati. Dopo di questo vidi una grande moltitudine, che nessuno poteva contare, uomini di tutte le genti e tribú e popoli e lingue, che stavano davanti al trono e al cospetto dell’Agnello, vestiti con abiti bianchi e con nelle mani delle palme, che gridavano al alta voce: Salute al nostro Dio, che siede sul trono, e all’Agnello. E tutti gli Angeli che stavano intorno al trono e agli anziani e ai quattro animali, si prostrarono bocconi innanzi al trono ed adorarono Dio, dicendo: Amen. Benedizione e gloria e sapienza e rendimento di grazie, e onore e potenza e fortezza al nostro Dio per tutti i secoli dei secoli.]

Graduale

Ps XXXIII:10; 11
Timéte Dóminum, omnes Sancti ejus: quóniam nihil deest timéntibus eum.
V. Inquiréntes autem Dóminum, non defícient omni bono.

[Temete il Signore, o voi tutti suoi santi: perché nulla manca a quelli che lo temono.
V. Quelli che cercano il Signore non saranno privi di alcun bene.]

Alleluja

(Matt. XI:28)
Allelúja, allelúja – Veníte ad me, omnes, qui laborátis et oneráti estis: et ego refíciam vos. Allelúja.
[Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi: e io vi ristorerò. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt V: 1-12
“In illo témpore: Videns Jesus turbas, ascéndit in montem, et cum sedísset, accessérunt ad eum discípuli ejus, et apériens os suum, docébat eos, dicens: Beáti páuperes spíritu: quóniam ipsórum est regnum cœlórum. Beáti mites: quóniam ipsi possidébunt terram. Beáti, qui lugent: quóniam ipsi consolabúntur. Beáti, qui esúriunt et sítiunt justítiam: quóniam ipsi saturabúntur. Beáti misericórdes: quóniam ipsi misericórdiam consequéntur. Beáti mundo corde: quóniam ipsi Deum vidébunt. Beáti pacífici: quóniam fílii Dei vocabúntur. Beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam: quóniam ipsórum est regnum cælórum. Beáti estis, cum maledíxerint vobis, et persecúti vos fúerint, et díxerint omne malum advérsum vos, mentiéntes, propter me: gaudéte et exsultáte, quóniam merces vestra copiósa est in cœlis.”

[In quel tempo: Gesù, vedendo le turbe, salì sul monte, e postosi a sedere, gli si accostarono i suoi discepoli, ed Egli, aperta la bocca, gli ammaestrava dicendo: « Beati i poveri di spirito, perché loro è il regno de’ cieli. Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra. Beati coloro, che piangono, perché essi saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché  saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché  anch’essi troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati quelli che sono perseguitati per cagione della giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. Beati voi quando vi avranno vituperati e perseguitati e, mentendo, avranno detto ogni male di voi, per cagione mia. Rallegratevi e giubilate, perché grande è la mercede vostra in cielo ».]

Omelia

(Msg. G. Bonomelli: Misteri Cristiani, vol. IV,  Ed. Queriniana, Brescia 1896)

LE BEATITUDINI

Lo dissi più volte, o fratelli; i misteri della fede, tutte le grandi opere compiute da Gesù Cristo sulla terra, nella liturgia ecclesiastica sono con sapiente misura distribuite lungo il corso dell’anno e con apposite feste e rito speciale ricordate e celebrate. Questi misteri e queste opere, nelle quali si assomma la vita di Gesù Cristo e si concentra la fede nostra, si possono paragonare alle pietre miliari, dirò meglio, a monumenti superbi, che la Chiesa colloca lungo la via che dobbiamo percorrere dalla terra al cielo e ci tengono sempre viva nella mente la cara e benedetta immagine di Cristo, nostro unico Maestro e Salvatore. Questi misteri di Cristo cominciano col suo nascimento e si chiudono col suo memoriale per eccellenza, la S. Eucaristia, per la quale Egli è realmente sempre con noi. Perciò colla festa del Corpus Domini, o mistero eucaristico, parrebbe doversi chiudere la serie dei nostri Ragionamenti. Ma grand’opera di Cristo non è dessa la Chiesa? Non è forse per Lei, che Cristo ammaestra, governa e santifica gli uomini e per Lei dimora realmente in mezzo a loro? E la parte di essa più nobile, che ha compiuta l’opera sua gloriosamente, che ha toccata la meta, che già regna e si letizia con Cristo in cielo, voi lo sapete, è la sua avanguardia, è la Chiesa trionfante, è l’esercito de’ santi. Era dunque conveniente che la festa d’Ognissanti fosse l’appendice dei misteri di Cristo e la Chiesa nella sua sapienza oggi la rammenta a suoi figli. Dopo averci spiegato dinanzi la vita e il trionfo del suo Capo e Duce supremo, ci ricorda e ci mostra la vita e il trionfo di quelli tra i suoi membri e soldati, che più davvicino lo seguirono e più risplendono della sua luce e gloria in cielo. E certamente in tutto il Vangelo non poteva scegliere un tratto che meglio rispondesse al suo fine e allo spirito della festa odierna di quello che avete udito cantare nella Messa e ch’io vi ho pur ora riportato parola per parola. Sono le otto beatitudini, come si chiamano comunemente, che è quanto dire, sono le otto vie principali, vie di prova, vie di dolore, che mettono alla eterna beatitudine. Per queste camminarono animosamente sull’esempio di Cristo quelle innumerabili schiere di fratelli nostri, che oggi onoriamo e trionfano in cielo e per queste noi pure dobbiamo camminare se vogliamo giungere là dov’essi giunsero. Soggetto di questo mio primo Ragionamento sarà la chiosa breve e semplice dell’odierno Vangelo, ossia delle otto beatitudini. (….) – Videns turbas…. docebat eos – Si direbbe, che in questo discorso Gesù raccolse e condensò tutto quello che vi è di più nobile e di più elevato nella sua dottrina morale e la prima parte, che è quella delle Beatitudini, si può bene a ragione chiamare, come altri si piacque chiamarlo, il bando solenne della nuova società, lo statuto del regno di Cristo. Il mondo non aveva mai udito proclamate dottrine morali di tanta perfezione, con tanta semplicità e parsimonia di parole, con tanta sicurezza e, dirò, con tanta audacia come queste delle otto beatitudini. Nulla di più contrario al mondo giudaico e pagano e insieme nulla di più conforme ai bisogni veri delle aspirazioni generose, che hanno radice profonda nella natura umana: opposizione e conformità che sembrano una contraddizione manifesta, eppure noi sono per chi penetra bene addentro nelle viscere della natura nostra. Ma è da venire alla spiegazione dei singoli versetti del nostro Vangelo, che si possono definire gli articoli fondamentali del Codice di Gesù Cristo. Gesù, vedendo le turbe, salì sul monte, e, postosi a sedere, gli si accostarono i suoi discepoli; ed Egli, aperta la sua bocca, li ammaestrava. Gesù sale sopra di un colle prima di parlare, perché? Sembra certo che su quel monte Egli passasse la notte, pregando e al mattino le turbe cogli Apostoli si raccogliessero intorno a Lui per udire le sue parole. Sale sul monte per esser più facilmente udito e perché come l’antica legge fu bandita dalla vetta d’un monte, così da un monte fosse proclamata la nuova, compimento dell’antica. Ma quanta differenza tra la promulgazione dell’una e dell’altra! La prima legge è promulgata sul monte tra i lampi e tuoni, e solo Mosè vi sale e rimane; guai a chi si fosse avvicinato! La legge è data, ma scritta sulla pietra. La seconda è promulgata sopra un monte senza apparato di sorta, con una semplicità, che non ha l’uguale. Il legislatore siede, gli Apostoli ed il popolo gli stanno intorno pieni di rispetto, ma senz’ombra di timore, come figli intorno al padre. Gesù parla e non iscrive e la umana legge è scolpita, non sulla pietra, ma scritta nei cuori e affidatane la promulgazione ad alcuni poveri pescatori, ignari dell’altissima missione, alla quale sono chiamati. Codice più sublime, più universale e più duraturo di quello che ora da questo monte si promulga non fu, non sarà mai promulgato sulla terra, né mai nei secoli passati e ne’ futuri altro se ne promulgherà in forma più semplice, più modesta, più concisa e insieme più popolare. Di questo Codice, i tempi, gli uomini e le vicende dei popoli, il progresso e le scienze non ne cancelleranno mai una sillaba sola. Sarà immutabile come Dio e osservato da miliardi di uomini, non per il terrore incusso dalla forza materiale, ma per intima persuasione e per amore. « Beati i poveri di spirito, perché di loro è il regno de’ cieli ». È la prima sentenza, che esce dalla bocca del divino Legislatore. Indubbiamente la parola poveri in questo luogo è detta in opposizione alla parola ricchi, come se si dicesse: « Beati quelli che non sono ricchi ». Ma che dite mai, o Signore? Il mondo considera la povertà come una sventura, come un male, radice d’innumerevoli mali: la povertà trae seco la fame, la sete, una dimora disagiata, un misero vestito, un lavoro continuo e gravoso, le infermità, l’abbandono e il disprezzo degli uomini, una vita piena di privazioni e di dolori; e voi la chiamate beata? Ma dunque i ricchi non possono appartenere al vostro regno? Dunque per questo che sono ricchi sono anche perduti? Che regno sarà dunque il vostro? Chi vorrà seguirvi? Non i ricchi, perché ricchi; non i poveri, perché se non altro essi pure desiderano e fanno ogni opera per diventar ricchi. La vostra parola suonerà nel deserto o diventerà soggetto delle sterili lucubrazioni di alcuni noiosi e stravaganti filosofi. — Eppure non fu così. — Spieghiamo la sentenza, di Cristo. Allorché Egli con linguaggio sì reciso chiamò beati i poveri non intese già di indicare una condizione della vita, ma sì una disposizione dell’animo, che è chiaramente significata da quella parola spirito aggiunta alle parole beati i poveri. In altri termini Gesù Cristo disse: « Beati quelli che tengono i beni della terra e le ricchezze in quella stima, che si meritano cose sì basse, sì incerte e sì fuggevoli e che non possono appagare i bisogni troppo più alti e più nobili del cuore umano! Beati quelli che non legano alle ricchezze il loro cuore, che non pongono in esse il loro fine quasiché per esse fossero creati e collocati quaggiù sulla terra e tenendone staccato l’affetto, collo spirito si sollevano a Lui, che è ne’ cieli e che solo può essere la nostra verace felicità ». L’uman genere fu ed è diviso in due gran campi: l’uno assai ristretto di numero, il campo dei ricchi: l’altro vastissimo, quello dei poveri condannati alla fatica per un pane quasi sempre duro e scarso e tormentati da infinite privazioni. Quelli più o meno opprimono questi e questi guardano a quelli con invidia ed ira e li minacciano fieramente. È la perpetua e terribile lotta tra le due classi dei poveri e dei ricchi, che si combatte con varia fortuna attraverso ai secoli e che oggi è divenuta più feroce, perché più rabbiosa è divenuta l’avarizia e la durezza degli uni e più insofferente la povertà degli altri. Le nuove leggi e i frutti d’una civiltà certamente progredita possono forse temperare le asprezze della lotta, ma sono impotenti a farla cessare, anzi la rendono più vasta e più fiera, perché la ricchezza va sempre più accumulandosi in poche mani in forza dei progressi della scienza e l’ira dei poveri o diseredati cresce, perché in essi colla istruzione cresce il sentimento dei diritti, veri od esagerati che siano, noi cerchiamo. Cristo, rivolgendosi a tutti, ai ricchi, che abbondano e godono, ai poveri, che scarseggiano e soffrono, grida: « Beati tutti, se levando gli occhi della mente alla vita futura, al cielo, dove è la vera e stabile patria, scioglierete i vostri cuori dall’amore e dal desiderio sregolato dei beni della terra. Sciolti da questo amore sregolato voi, ricchi, smetterete la febbre di arricchire maggiormente e farete più larga, secondo giustizia e secondo carità, la parte dei poveri, e voi, poveri, limiterete i vostri desideri e le vostre esigenze e nella speranza della vera ricchezza comune troverete quella pace e quella felicità, che quaggiù è possibile ». – Il gran rimedio, che Cristo propone a tutti, ricchi e poveri, in eguale misura, è la povertà di spirito in vista della immanchevole e comune ricchezza preparata in cielo: è il recidere dagli animi tutti la malnata radice della concupiscenza, il renderci veramente liberi dall’amore soverchio, che tutti ci avvince ai beni caduchi della terra, rammentandoci, che dobbiamo esserne padroni, non servi; che sono mezzi, non fine: che possiamo usarne e non abusarne; che i ricchi possono salvarsi a patto di divenir poveri di spirito e i poveri a patto di non voler essere ricchi coi desideri smoderati. – Fratelli! Vi può essere dottrina più ragionevole e socialmente più utile e più bella di questa? Attuata nei ricchi e nei poveri, non per via di forza o di leggi, ma di persuasione, non scioglierebbe il tremendo problema, che ci affanna? Questa dottrina, rendendo tollerabile e felice la condizione nostra nella vita presente, non ci procaccerebbe la salvezza e la perfetta beatitudine nella vita futura? Non dimentichiamolo mai, o carissimi: la speranza del regno de’ cieli è il contrappeso dei mali presenti, e se perdiamo di vista quei beni lassù, ci tufferemo tutti in questi e per averli ci morderemo e sbraneremo tra noi: senza la fede e la speranza nel cielo la terra si. muterà in un campo di battaglia, dove il più forte opprimerà il più debole, e diventerà un vero inferno. – Passiamo alla seconda Beatitudine o secondo articolo del divino Statuto: « Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra ». S. Tommaso, acutamente ragionando, dimostra che tutte le passioni si riducono ad una sola, la concupiscenza: se questa cerca indebitamente la propria eccellenza, è superbia: se si getta al mangiare e al bere, è gola: se brama le ricchezze, è avarizia; se agogna i piaceri sensuali, è lussuria; se tende ai propri comodi, è accidia. Avviene talvolta che questi beni, sui quali la concupiscenza si getta come sul proprio pasto, le siano contesi e negati: allora la concupiscenza si irrita contro chi glieli contrasta e rifiuta, ed eccovi l’invidia e l’ira, che in sostanza non sono che la stessa concupiscenza considerata sotto un’altra forma e perciò a ragione essa va distinta in due modi, o parti, che la filosofia d’accordo colla teologia chiama l’una propriamente concupiscibile, l’altra irascibile: l’una che tira a sé l’oggetto amato, l’altra, che respinge chi gliene contende l’acquisto od il possesso. Gesù Cristo nella prima Beatitudine condanna la brama smodata delle ricchezze, che si vogliono come strumento o mezzo di avere tutti i piaceri e perciò rintuzza la parte concupiscibile nel suo punto capitale: nella seconda Beatitudine raffrena la irascibile, dicendo: « Beati i miti ». Chi è desso l’uomo mite? Mite è colui che ha tranquillo il cuore e dolce la parola: mite chi con dolce risposta placa l’iracondo: mite chi soffre senza lagnarsi le ingiurie e i danni ricevuti: e mite più ancora è chi si rallegra delle offese e dei danni ricevuti e coi benefici vince i malevoli e chiude la bocca ai nemici ed ai calunniatori: mite in una parola è chi perfettamente imita Colui che disse: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore ». La mitezza è il sommo grado della pazienza e della rassegnazione, è la compagna inseparabile dell’umiltà, è l’amica della mortificazione, la figlia della pace, è il fiore della modestia, è il sorriso della innocenza, è il frutto più saporoso della carità. Queste anime miti, dalla fronte sempre serena e ridente, dalla parola sempre amabile, dall’occhio sempre soave e pieno di letizia, dallo spirito sempre equanime, che sempre vincono, sempre cedendo, possederanno la terra: « Possidebunt terram ». Qual terra, o fratelli miei? La terra dei viventi, come dicono i Libri Santi; la terra che sempre verdeggia e fruttifica sotto i raggi del Sole eterno: la terra dell’ordine e della pace, che non conosce cosa siano le tempeste, il dolore ed il pianto; la terra della eredità promessa ai figli dal Padre celeste, di cui la terra promessa ai figli di Israele fu una figura, in una parola, il cielo. Possederanno la terra: « Possidebunt terram! » Qual terra ancora, o fratelli? Non v’è dubbio e la esperienza lo prova: le anime dolci, i caratteri miti, gli spiriti mansueti godono d’una pace ed una serenità di cuore, che rendono meno amare le vicende della vita: essi sono sempre tranquilli, cessano i litigi, sì frequenti tra le persone irose: la loro compagnia è cara a tutti e la loro parola è quasi sempre accolta anche dai nemici con istima e riverenza e. nelle famiglie, nel gruppo dei conoscenti, dovunque, esercitano sugli animi un impero tanto più bello ed efficace in quanto che è consentito e spesso invocato e non offende persona. Sì, sono i miti di cuore che regnano, non sui corpi, ma sugli animi e sanno volgere a lor posta le chiavi del cuore altrui: la loro parola amabile e insinuante, dice S. Giovanni Grisostomo, è come l’acqua che spegne il fuoco delle discordie ed estingue le fiamme dell’ira e dell’odio, e di loro si può dire meritamente, che posseggono la terra, hanno cioè quaggiù anticipata parte di quella mercede che piena sarà loro data in cielo: « Possidebunt terram ». Gesù prosegue e promulga il terzo articolo del suo Bando all’umanità e dice: « Beati coloro che piangono, perché saranno consolati ». Il pianto è effetto esterno e naturale del dolore per modo, che nel linguaggio comune pianto e dolore, lagrime e sofferenze hanno lo stesso significato e noi diciamo: – Quegli piange, quegli versa lagrime per dire: Quegli soffre e patisce -. È qui, se non erro, che l’insegnamento di Cristo tocca l’ultimo apice della contraddizione agli occhi della sapienza mondana. Qual cosa più contradditoria, che collocare la gioia nel dolore, la felicità nei patimenti, la beatitudine nelle pene? Sarebbe certamente manifesta contraddizione se la sentenza di Cristo si intendesse nel senso che il pianto e il dolore siano per sè stessi la gioia e la felicità: ma Gesù Cristo considera il pianto e il dolore quali mezzi per giungere alla gioia e alla felicità. Così noi possiamo dire che dolce èla medicina che ci ridona la salute, benché essa sia ostica ed amara e chiamiamo pietoso il ferro, che recide il membro cancrenoso, tuttoché cagioni acutissimo dolore. La beatitudine del patire sta, non nel patire, ma in quello che il patire a suo tempo germoglierà, cioè l’eterna mercede! Ma qui vuolsi porre ben mente ad una condizione, che Gesù Cristo non espresse in termini, ma necessariamente è sottintesa e che più innanzi sarà annunziata. Non ogni patire è seme di godere, ma sì il solo patire per la verità, per la giustizia, per amore di Dio. Quaggiù tutti soffrono in diversa misura, è vero, ma nessuno si sottrae alla tremenda legge del dolore: soffrono i buoni e soffrono i cattivi; soffre Antioco e soffrono i Maccabei: soffrono gli Imperatori Romani e soffrono gli Apostoli e i Cristiani martoriati: soffrono i nemici della Chiesa e soffre la Chiesa: soffrono gli schiavi del mondo e soffrono i figli di Dio. Forsechè di tutti egualmente possiamo dire: – Beati quelli che piangono perché saranno consolati? -. Non mai, non mai, fratelli miei. Beati sono soltanto quelli che piangono e soffrono per la virtù e per Iddio: beati sono quelli che hanno la fede e nella fede e per la fede fissano l’occhio della speranza nei beni della vita futura, premio e frutto del presente patire; beati sono quelli che soffrono con coraggio, con rassegnazione, con umiltà di cuore esolo da Dio attendono la mercede. Il vero e solo conforto di chi piange e geme sotto il fardello dei mali presenti è la promessa di Cristo, che in ragione del dolore avrà la gioia, a patto che soffra come Egli vuole e quanto Egli vuole. Togliete questa speranza sicurissima fondata sulla promessa di Cristo: chiudete sul capo degli uomini il cielo e sopprimete il di là della tomba, la seconda vita, e la terra si tramuta in un immenso tormentatorio, in un ergastolo spaventoso, perché tutti soffrirebbero senza speranza e il più saggio partito sarebbe il suicidio. Opera adunque scellerata e crudele fanno coloro, che tentano rapire al popolo la fede e colla fede la speranza d’una vita felice in cielo; essi, per quanto è da loro, lo spingono alla disperazione e renderebbero necessari e giusti tutti i più esecrandi delitti. Quanti soffriamo sulla terra, leviamo gli occhi e i cuori al cielo e teniamoci saldi come ad àncora alla promessa di Cristo: « Beati quelli che piangono, perché saranno consolati ». Passiamo al quarto articolo del nostro divino Codice: « Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati ». La giustizia! Chi non ama, chi non vuole la giustizia? Voi non troverete sulla terra un uomo solo, che non se ne professi osservatore esatto e al bisogno intrepido difensore finché se ne parla in genere e se ne ragiona in teoria: ma la cosa corre ben diversamente quando dalle regioni teoriche ed ideali si discende alla pratica e alla realtà dei fatti. Che è dunque la giustizia? La parola giustizia può significare quella virtù, che dicesi cardinale o fondamentale, per cui si rende a ciascuno ciò che gli è dovuto: può anche significare una certa equità o mitezza d’animo, che piega verso la benignità, od anche si può pigliare come il complesso di tutte le virtù. E invero assai volte nella santa Scrittura giustizia equivale a santità e giusto vuol dire uomo perfetto, uomo santo e credo che precisamente sia questo il senso della parola giustizia usato qui dal Salvatore. « Beati, egli disse, quelli che hanno fame e sete della giustizia » ; Beati cioè tutti quelli che hanno fame e sete, non del cibo e della bevanda, dei beni della terra, ma sì della virtù e della santità, che della virtù è il grado sommo! Non senza ragione Gesù Cristo adoperò questa forma di parlare sì energica: – Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia! – Non disse : beati quelli che desiderano, che amano, che cercano, che tendono, che vogliono la giustizia, ma quelli che ne hanno fame e sete per esprimere la brama e l’ardore, con cui dobbiamo volere e cercare la virtù e la santità. Il nostro non deve essere uno di quei desideri, che rimangono sterili e che si possono paragonare a quei fiori belli e vaghi a vedersi e cadono senza lasciare dietro a sé frutto alcuno: la nostra non debb’essere una di quelle volontà fiacche, che vengono meno alle prime difficoltà: che vogliono e non vogliono, che sono disposte a salire il Tabor, ma non il Calvario, che vorrebbero le rose senza le spine, che vagheggiano una virtù senza sacrifici, che amano camminare per una via piana, sparsa di fiori. No, no, grida Cristo: Bisogna aver fame e sete della giustizia. Vedete un uomo affamato dinanzi a lauta mensa, un assetato sull’orlo d’un fresco ruscello: essi non frappongono indugi: vedere quella mensa, quei cibi; vedere quell’acqua limpida che scorre a piedi, e gettarsi su quelle vivande e immergere le riarse labbra in quell’acqua per saziare la fame, che lo tormenta e spegnere la sete, che lo strugge, è la stessa cosa. Come divora quel pane e quei cibi! Come tracanna quell’acqua! Come se ne sbrama e se ne delizia! Il piacere gli apparisce tutto sul volto, sfavilla negli occhi e si comprende che null’altro vuole o desidera, che è sazio e contento ! La virtù è il banchetto per l’affamato, è il ruscello per l’assetato e la nostra vita tutta, come scrive S. Agostino, non dovrebbe essere che un incessante e cocente desiderio, uno sforzo supremo di sfamarci a quel banchetto e dissetarci a quella fonte della vita, dove ogni nostra brama sarà saziata (Tota vita boni Christiani sanctum desiderium est – Tract. 4 in Epist. S. Joannis). E di questo cibo e di questa bevanda che parlava Gesù Cristo nell’ultima cena, allorché diceva agli Apostoli: « Io vi dispongo il regno, acciocché voi mangiate e beviate alla mia mensa, nel mio regno ». (S. Luca, XXII, 29). Ma non dimentichiamo mai che l a mercede vera di questo affocato amore della giustizia, non lo dobbiamo aspettare quaggiù sulla terra, sebbene in cielo – Quoniam ipsi saturabuntur-: in cielo, dove non si avrà sete in eterno, come Gesù promise alla Samaritana – Non sitiet in æternum -. Siamo alla quinta Beatitudine : « Beati i misericordiosi, perché anch’essi troveranno misericordia ». Nella prima Beatitudine, Cristo sterpando dal cuore la maledetta radice della avarizia, che separa gli uomini e l’un l’altro li inimica, nella quinta li esorta a fondersi in una volontaria e santa eguaglianza: dopo la giustizia viene la misericordia. L’uomo ama avere più che dare fino ad agognare anche l’altrui: la giustizia segna i limiti del diritto e del dovere e la misericordia allarga anche questi a favore del poverello e Cristo fa udire queste due sentenze sublimi: « Più felice cosa è dare che ricevere » (Atti Apost. XX, 35). « Beati i misericordiosi! » La misericordia, come suona il vocabolo stesso, è un sentire in cuore la miseria altrui; è patire con chi patisce e far propria l’altrui miseria e siccome non v’è uomo che, soffrendo dolore nella propria persona, non si adoperi come meglio può a fine di rimuoverlo, così sentendo in sé il dolore altrui come proprio, è troppo naturale che s’ingegni di liberarsene e perciò la misericordia è la madre della beneficenza, è lo stimolo di tutte le opere di carità, tra le quali principalissima è la elemosina. « Beati i misericordiosi! » Beati cioè quelli, che hanno un cuor buono, tenero, pieno di compassione per chi soffre: ma non basta: e che mostrano il loro cuore compassionevole nelle opere a soccorso de’ fratelli sofferenti secondo le loro forze e le sì varie condizioni della vita. Sono ignoranti? Istruiteli o fateli istruire. Sono cattivi, perversi? Sopportateli e fraternamente correggeteli. Sono molesti? Tollerateli. Sono vacillanti, dubbiosi? Consigliateli. Sono infermi? Visitateli, assisteteli. Sono perseguitati da prepotenti? Difendeteli. Hanno fame? Nutriteli. Sono coperti di cenci, ignudi? Vestiteli. Ecco le opere della misericordia, che Gesù Cristo ricorda in altro luogo del Vangelo. E quali i motivi di queste opere della misericordia? Non uno di quelli che oggidì sono maggiormente in voga, motivi umani, che variano come variano gli uomini. L’unico recato è questo: « Quelli che useranno misericordia, a suo tempo otterranno anch’essi misericordia ». Da chi? Evidentemente da Dio, che è il padre delle misericordie, che ha per fatto a sè ciò che è fatto ai suoi minimi, che dà il cento per uno. Quale il motivo? Di ottenere tu stesso da Dio quella misericordia, che usi col fratel tuo: « Quoniam ipsi misericordiam consequentur ». « Vedi, grida S. Agostino, ciò che fa l’usuraio: egli certamente vuol dare il meno possibile e ricevere il più possibile. E questo fa tu pure. Dà poco e ricevi molto. Vedi come cresce a dismisura il tuo capitale. Dà le cose temporali e ricevi le eterne: dà la terra, ricevi il cielo » (in Ps. XXXVI). La mercede della tua misericordia operosa la devi attendere da Dio, che solo conosce l’opere e chi le fa e solo e sempre e a larghissima usura ricompensa. Ma forse si esclude che chi usa misericordia coi fratelli potrà ottenere anche qui misericordia dagli uomini? No, per fermo. Anzi, se non sempre, spesse volte vediamo che anche qui sulla terra i pietosi verso i loro simili ottengono pietà, sia perché la virtù e la bontà dell’animo guadagna i cuori anche de’ tristi, sia perché Iddio talora si compiace di premiarli anche in terra a loro conforto e ad incoraggiamento dei timidi e dei deboli. – Passiamo alla sesta Beatitudine: « Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio ». Quando, o fratelli miei, una cosa per noi è monda e pura? Quando essa è netta da qualsiasi alterazione e mischianza di cose estranee. Così pura è l’acqua, puro l’oro e l’argento quando non sono che acqua, oro ed argento. Per somiglianza si dice pura e monda l’anima, puro e mondo il cuore (che qui come in molti altri luoghi della Scrittura si piglia per la coscienza, mente e volontà), allorché è libero da colpe, è scevro da affetti estranei, che a guisa di materie eterogenee e di macchie lo imbrattano e deturpano.Fratel mio! La tua mente debb’essere simile ad un cielo limpido e sereno: allorché tu volontariamente accogli quei pensieri indegni e lasci condensarsi quei fantasmi brutti, il tuo cielo si abbuia: allora in fondo al tuo cuore fermentato affetti colpevoli e scoppia la tempesta: mente e cuore sono sossopra, tutto è turbato, come allorché sulla terra si scatena la procella. Allora il cuore, cioè la coscienza, non è più pura e l’occhio della mente, velato dalle nebbie, che si levano dal pantano dei sensi, non discerne più chiaramente la luce della verità. È dunque necessario tener sgombra la mente da queste nebbie,mondo il cuore da questi affetti terreni e sensuali, affinché possiamo sempre vedere la verità e Lui, che è fonte d’ogni verità, Iddio.« Questa beatitudine, dice S. Leone, è promessa ai puri di cuore, perché l’occhio imbrattato non può vedere il raggio della verità e ciò che rallegra l’occhio netto, tormenta l’occhio infermo e impuro. Si purghino adunque e si nettino gli occhi della mente da ogni ombra di cose terrene e da ogni immondezza della colpa affinché lo sguardo sereno si bei della sola vista di Dio » O beati, Iveramente beati i puri di cuore, i mondi d’ogni colpa, e sovra tutto le anime caste, perché  sopra di loro, come sopra specchi tersissimi, scenderà il raggio della verità e per esso risaliranno a Dio, da cui ogni verità deriva!« Beati i pacifici, è la sesta Beatitudine, perché saranno chiamati figliuoli di Dio ». Qui è da por mente alla parola greca eirenoposos che propriamente non significa gli uomini, che amano la pace e vivono in pace, ma sì quelli che procurano. la pace, pacieri e facitori di pace tra gli altri, fosse pure a costo di perderla essi stessi.La pace è la tranquillità dell’ordine e poiché Dio è lo stesso Ordine e la Causa produttrice stabile d’ogni ordine in tutti gli esseri mercé delle leggi per Lui poste, Egli è il principio della pace, anzi la stessa pace : « Deus pacis – Ipse est pax nostra ». Quelli pertanto che 1’amano e la serbano in sé, serbando l’ordine, e più quelli chela mantengono negli altri e, rotta per la ignoranza. o malizia altrui, fanno buona opera a ristabilirla, sono simili a Dio, e meritano l’onore d’essere chiamati suoi figli: « Filii Dei vocabuntur».Pur troppo questa tranquillità dell’ordine, questa pace vera e stabile raramente alberga sulla terra. Come i venti e le tempeste turbano la tranquillità dell’atmosfera, così le passioni degli individui, delle famiglie, delle società, delle nazioni rompono la pace negli individui, nelle famiglie, nelle società e nelle nazioni, e vi suscitano la guerra. Il nemico di ogni pace, il primo ribelle contro Dio, ruppe la pace tra Dio e l’uomo: il Figlio di Dio fatto uomo, col suo sangue la ristabilì e perciò Egli è salutato Principe della pace. Quelli pertanto che si adoperano, reprimendo le passioni, queste perpetue turbatrici dell’ ordine, a rimettere la pace negli individui, nelle famiglie, nella società, nelle nazioni, sono pacifici, facitori di pace e partecipano alla missione stessa di Gesù Cristo. – Ed eccoci all’ultima Beatitudine: « Beati quelli che soffrono persecuzione per la giustizia, perché di loro è il regno de’ cieli ». È egli possibile che gli uomini abbiano in odio e perseguitino la virtù e la giustizia per se stessa? Non credo. Come non si trova persona, che dica di odiare la verità, così penso che non si trovi chi dichiari di odiare e perseguitare la giustizia o la virtù, che ne è la pratica attuazione. D’altra parte la virtù e la santità per sé stessa è cosa astratta, che non si vede, né si tocca e perciò non è possibile combatterla e perseguitarla. Essa la si può odiare e perseguitare solamente in quanto si concreta e si attua e, dirò così, piglia corpo in una persona e in quanto è contraria alle passioni e come tale si presenta qual nostra nemica. Le verità sì teoriche che pratiche, che Cristo portò sulla terra, se mi è lecita la espressione, si impersonarono prima in Lui, poi negli Apostoli, poi nella Chiesa e in essa e per essa staranno fino alla fine de’ secoli. Il Verbo divino, che è la Verità sostanziale, si unì colla umana natura assunta in guisa, che con essa è una sola persona: la verità per Lui insegnata si unisce alla Chiesa per modo che ne è inseparabile; la Chiesa è come il corpo della verità e la verità ne è l’anima e come non è possibile avere comunicazione alcuna coll’anima se non per mezzo del corpo, così non possiamo afferrare la verità e per essa la vita di Cristo che per mezzo della Chiesa. Ma nell’uomo vi sono le passioni e come formidabili! Esse per natura sono nemiche della verità, come le tenebre son nemiche della luce ela morte è nemica della vita. La superbia, l’avarizia, la gola, la lussuria, l’ira, l’invidia odiano e combattono necessariamente l’umiltà, 1’ubbidienza, la fede, la carità, la temperanza, la continenza, la mortificazione, tutte le virtù, che formano la sostanza dell’insegnamento di Cristo e della sua Chiesa: la lotta adunque tra Cristo e la sua Chiesa da una parte e il mondo e i suoi seguaci dall’altra, è necessaria, è nella natura stessa delle cose. Essa cominciò in cielo tra gli Angeli fedeli e i ribelli, si portò sulla terra per opera di questi, riempirà lo spazio e i tempi e si chiuderà in quel dì, in cui Cristo compirà nella Chiesa la sua vittoria. Ecco perché Cristo predisse agli Apostoli ea tutti i seguaci suoi che sarebbero perseguitati. Né vuolsi credere che la predizione di Cristo si debba restringere ai primi secoli della Chiesa, come parve a taluni. Le parole di Cristo abbracciano tutta la vita della Chiesa, che è la continuazione della vita di Lui. Non vi è ragione, né indizio nei Libri Santi, che lo stato di guerra debba limitarsi ai primi secoli e la storia della Chiesa fino a noi ne è il commento irrefragabile: « Se hanno perseguitato me, perseguiteranno voi pure, disse Cristo ». « Tutti quelli che vogliono vivere piamente, soffriranno persecuzione » grida il suo Apostolo Paolo. Ma si rallegrino, continua Cristo : essi soffrono per la verità, per la giustizia e la mercede non può fallire. Quale mercede? Sempre la stessa: « Loro è il regno dei cieli ». Qual mercede più bella e più desiderabile? E qui Gesù Cristo, quasi compreso da un santo entusiasmo, muta la forma del suo linguaggio e lo rincalza con una forza, con una energia novella. Fin qui avea parlato in terza persona e colla sublime calma di Legislatore divino: ora rivolge il suo dire direttamente agli Apostoli e col linguaggio d’un duce supremo, che al momento della pugna si rivolge ai suoi soldati, prosegue: « Beati siete voi, quando vi avranno vituperati e perseguitati e, mentendo, avranno detto contro di voi ogni male, per cagion mia », Non dice già: Beati voi, perché sarete accolti con rispetto, ascoltati e ubbiditi come annunziatori della verità: perché sarete colmati di onori e di ricchezze e il nome vostro risuonerà glorioso dovunque: beati, perché maledetti, perseguitati, calunniati per me, per la difesa della verità e della giustizia. In tutta la storia antica cerco indarno un linguaggio simile a questo, indirizzato a poveri pescatori, ai figli del popolo! Ma vi è di più, o fratelli! Rallegratevi, giubilate, continua Cristo con una specie di santa voluttà, all’idea di patire ingiurie, calunnie e tormenti: rallegratevi e giubilate », cioè grande, senza misura sia la vostra gioia. E gli Apostoli, pochi anni dopo, ne diedero prova, allorché, come narra S. Luca, flagellati pubblicamente « se ne andavano lieti per essere fatti degni di soffrire ignominia pel nome di Gesù » (Atti Apost. V, 41). E prova ne diedero anche i semplici fedeli di Gerusalemme, che, come scrive S. Paolo, « spogliati dei loro beni, ne accettarono con gioia la rapina » (Epist. agli Ebrei, X , 34). Soffrire ingiurie, calunnie, spogliazioni, tormenti, la morte con rassegnazione e tranquillità d’animo, è d’anime generose: ma soffrire tutto questo con gioia e con tripudio, è proprio d’anime eroiche, più che umane, divine. Ma Gesù Cristo non dimentica mai che l’uomo, ancorché magnanimo e per la grazia elevato e quasi trasumanato, non può mai perdere interamente di vista se stesso e il proprio bene; la natura non consente. Egli è perciò che alle parole: « Rallegratevi, giubilate voi, che soffrite per me e per la giustizia, aggiunge: «Perché grande è la vostra mercede ne’ cieli ». Voi siete fatti per la felicità e per una felicità eterna: il dolore è inevitabile, è vero; ma non deve essere fine, sebbene mezzo alla felicità e come mezzo esso stesso diventa desiderabile, diventa un bene e nel dolore, come mezzo alla gioia, voi potete trovare la gioia. – Fratelli! Ho finito il breve commento degli otto articoli fondamentali del divino Statuto, che Cristo ha dettato alla società umana, Statuto veramente immutabile per tutta la terra, per tutti i popoli e per tutti i tempi. Una sola ed ultima osservazione, che merita tutta la vostra attenzione.  Quanti furono e quanti saranno legislatori nelle loro leggi non possono avere che due soli fini, scemare i mali, i dolori degli uomini, procurare, accrescere e assicurare loro i maggiori beni e così condurli a quella felicità, che è possibile. Ma l’opera loro è necessariamente circoscritta al tempo presente, ai mezzi materiali, ad una felicità temporaria e relativa, che può estendersi, se volete, al maggior numero, non a tutti e a ciascuno, perché troppe volte il bene di alcuni importa il male di altri. Nessuna legislazione umana, sia pure la più perfetta, può dare la vera, la piena felicità a tutti e a ciascun uomo, che la riceva. Cristo, perché Dio-Uomo, vuole che gli uomini tutti, senza eccettuarne un solo, pervengano alla vera, alla perfetta felicità, senza limiti di luoghi e di tempi. Quali i mezzi? Non la forza materiale, ma la morale: non una, partizione forzata di beni materiali eguale, che sarebbe impossibile e ingiusta, e fatta oggi, sarebbe disfatta domani: che, lasciando nel cuore degli uomini tutte le passioni, anzi solleticandole e inasprendole maggiormente, vi lascerebbe con esse il germe fatale di tutti i mali; ma, promulgando la gran legge di non amare disordinatamente questi beni, dei quali gli uomini sono sì ghiotti: intimando a tutti l’amore della giustizia, la purezza del cuore, la concordia degli animi, l’amore vicendevole, la carità operosa, la rassegnazione nelle privazioni e nella prova del dolore e a tutti quelli che osservano questo Codice l’immanchevole e adeguata retribuzione, Gesù Cristo scioglie il problema sociale, rende tollerabile e cara la vita presente, come mezzo e strumento all’acquisto della futura. Restringete tutte le speranze alla vita presente: gli uomini si gireranno tutti come affamati sulla scarsa mensa dei beni materiali e ben presto si volgeranno gli uni contro gli altri, si morderanno e si sbraneranno: dopo la presente mostrate un’altra vita, che ripara le ineguaglianze e le ingiustizie di questa e dove starà meglio e per sempre chi dei beni di quaggiù è stato più largo coi fratelli, e cesserà la lotta, e tutti gli occhi e tutti i cuori si leveranno in alto e nella speranza della futura felicità si leniranno i dolori della vita presente. Il cielo, o fratelli, è il contrappeso della terra e se togliete quello, questa si sprofonda nell’abisso. L’umana famiglia ha bisogno incessante e supremo che la voce di Cristo le ripeta la gran sentenza: « Rallegratevi e giubilate, perché grande è la vostra mercede in cielo ».

Credo … 

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Sap III:1; 2; 3
Justórum ánimæ in manu Dei sunt, et non tanget illos torméntum malítiæ: visi sunt óculis insipiéntium mori: illi autem sunt in pace, allelúja.

[I giusti sono nelle mani di Dio e nessuna pena li tocca: parvero morire agli occhi degli stolti, ma invece essi sono nella pace.]

Secreta

Múnera tibi, Dómine, nostræ devotiónis offérimus: quæ et pro cunctórum tibi grata sint honóre Justórum, et nobis salutária, te miseránte, reddántur.

[Ti offriamo, o Signore, i doni della nostra devozione: Ti siano graditi in onore di tutti i Santi e tornino a noi salutari per tua misericordia.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt V: 8-10
Beáti mundo corde, quóniam ipsi Deum vidébunt; beáti pacífici, quóniam filii Dei vocabúntur: beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam, quóniam ipsórum est regnum cœlórum.

[Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio: beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio: beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.]

Postcommunio

Orémus.
Da, quǽsumus, Dómine, fidélibus pópulis ómnium Sanctórum semper veneratióne lætári: et eórum perpétua supplicatióne muníri.

[Concedi ai tuoi popoli, Te ne preghiamo, o Signore, di allietarsi sempre nel culto di tutti Santi: e di essere muniti della loro incessante intercessione.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA DI NOVEMBRE (2020)

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA DEL MESE DI NOVEMBRE (2020)

Il mese di Novembre è il mese che la Chiesa Cattolica dedica al ricordo ed al culto dei defunti.

… Che cosa è adunque la Comunione dei Santi, per virtù della quale noi abbiamo il grande potere di soccorrere e liberare le anime del purgatorio? Udite. Ogni società si compone di individui uniti fra di loro mediante la partecipazione agli stessi interessi e l’obbedienza ad uno stesso potere. Così ad esempio noi italiani formiamo la società italiana, perché tutti abbiamo gli interessi propri della patria nostra ed obbediamo tutti allo stesso sovrano, che ci governa. Non importa, che gli uni parlino un dialetto od una lingua e gli altri ne parlino un’altra; non importa, che gli uni, ad esempio i Siciliani e i Sardi distino assai dai Liguri e dai Piemontesi, non importa, che qua da noi vi siano certi costumi, che altrove nella stessa Italia ve ne siano degli altri; sol perché tutti noi abbiamo comuni gli interessi della patria di tutti noi, che è l’Italia, perciò solo noi formiamo una vera società, la società italiana, che si distingue perciò dalla società francese, dall’inglese, dalla tedesca, e da altre, perché quelle società hanno altri interessi, che non sono i nostri, ed obbediscono ad altro capo, che non è il nostro. Così pure l’insieme di individui, che partecipano agli stessi interessi religiosi e obbedisco ad uno stesso potere religioso, per quanto appartengono a stati diversi e a diverse società civili, e per quanto siano lontanissimi tra di loro per abitazione, formano sempre tuttavia la stessa società religiosa. Così è appunto della Chiesa di Gesù Cristo, la quale è formata da tre grandi parti o famiglie. Vi ha la parte o famiglia che si vede qui in terra e che si chiama Chiesa militante, perché ancora combatte per conseguire l’eterna corona, vi ha la parte costituita dagli Angeli e dai Santi, che sono già beati in cielo, godendo il trionfo delle vittorie riportate, e chiamata perciò Chiesa trionfante, e poscia la parte costituita da quelle anime, che hanno già lasciata la terra, ma sono ancora nel purgatorio ed è chiamata Chiesa purgante.

(A. Carmagnola: IL PURGATORIO; Lib. Sales. Edit., TORINO, 1904)

QUESTE SONO LE FESTE DEL MESE DI NOVEMBRE (2020)

1 Novembre Dominica XXII Post Pentecosten I. Novembris    Semiduplex

Dominica minor *I*

                      Omnium Sanctorum    Duplex I. classis *L1*

2 Novembre Omnium Fidelium Defunctorum  –  Duplex I. classis *L1*

4 Novembre S. Caroli Episcopi et Confessoris    Duplex

6 Novembre –

I° Venerdì

7 Novembre –

I° Sabato

8 Novembre Dominica XXIII Post Pentecosten III. Novembris    Semiduplex  

                       Dominica minor *I*

                       Ss. Quatuor Coronatorum Martyrum   

9 Novembre

In Dedicatione Basilicæ Ss. Salvatoris    Duplex II. classis *L1*

10 Novembre S. Andreæ Avellini Confessoris    Duplex

11 Novembre S. Martini Episcopi et Confessoris    Duplex *L1*

12 Novembre S. Martini Papæ et Martyris    Semiduplex

13 Novembre S. Didaci Confessoris    Semiduplex

14 Novembre S. Josaphat Episcopi et Martyris    Duplex

15 Novembre Dominica VI Post Epiphaniam IV. Novembris    Semiduplex

                              Dominica minor *I*

                          S. Alberti Magni Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris  

16 Novembre S. Gertrudis Virginis    Duplex

17 Novembre S. Gregorii Thaumaturgi Episcopi et Confessoris    Duplex

18 Novembre In Dedicatione Basilicarum Ss. Apostolorum Petri et

Pauli    Duplex *L1*

19 Novembre S. Elisabeth Viduæ    Duplex

20 Novembre S. Felicis de Valois Confessoris    Duplex

21 Novembre In Præsentatione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex

22 Novembre Dominica XXIV et Ultima Post Pentecosten V.

                           Novembris –  Semiduplex Dominica minor *I*

                                  S. Cæciliæ Virginis et Martyris    Duplex

23 Novembre S. Clementis I Papæ et Martyris    Duplex

24 Novembre S. Joannis a Cruce Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

25 Novembre S. Catharinæ Virginis et Martyris  Duplex

26 Novembre S. Silvestri Abbatis    Duplex

28 Novembre Dominica I Adventus    Semiduplex I. classis *I*

30 Novembre S. Andreæ Apostoli – Duplex II. classis *L1*

LO SCUDO DELLA FEDE (133)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO XII.

I martiri più moderni mostrano la verità della Chiesa Romana.

I. Quei ladri cui non riesce l’arte di fabbricare monete false, si riducono in fine a rubar le vere. Di tale schiatta appariscono i novatori. Questi, dappoi di avere tentato in vano d’incoronar come martiri uomini di vita infamissima, che per l’ostinazione mostrata in morte son degni di supplizio, non di trionfo; tentano di togliere alla Chiesa cattolica i veri martiri, con asserir bestemmiando, che quel sangue sì bello, sparso ne’ primi secoli in tanta copia, conferma la loro pretesa riformazione. – In udir ciò, mi sovviene di quella pazza bestialità di Caligola, che mandò a troncare il capo di Giove Olimpico, e collocarlo sul busto di una sua statua, per apparire un nume in terra chi folle non arrivava ad esservi neppur uomo. Anche i novatori, per dare alla loro perfidia qualche ombra di religione, osano di affermare, sé, e non i Cattolici, essere i successori di quegli antichi Cristiani i quali fiorirono ai primi secoli della Chiesa nascente con tanta gloria; e così ancora, sé essere i veri eredi del loro spirito e della loro santità. Parvi, che un capo d’oro di tanta carità, qual fu quella de’ sacri martiri, uomini per lo più sì mortificati, prima che morti, stia bene ad un tronco di vita epicurea, qual è quella dei novatori, uomini sì nemici della castità, dell’astinenza, dell’austerità, della penitenza cristiana, che per larva han la croce, e il ventre per idolo? Inimicos crucis Christi, quorum Deus venter est (Philip. III. 18).

II. Ma poniam da banda i rimproveri, a niuno discari più, che a chi più li merita; e se i traviati non vogliono lasciarsi ridur da noi sulla buona via, non ci lasciamo almanco noi deviare dai traviati. Avranno questi forse animo di affermare, che loro siano i martiri più moderni? E come dunque volersi arrogar gli antichi, se tra gli uni e gli altri non solamente non v’è differenza alcuna, ma v’è anzi una somma conformità? (Io non ho mai potuto comprendere il perché i novatori ed i riformati ci parlino di martirio essi, che hanno pronunciato bastare la fede essa sola senza lo opere. Se a salvarmi occorre sol questo, che io creda interiormente alla parola di Dio, non è egli un dar calci alla logica il sostenere, che il martirio è una virtù cristiana, che argomenta la divinità della Religione cristiana? 0 forsechè il martirio non è un atto religioso esteriore, anzi il più sublime tra gli atti Cristiani?).

III. Chi si ponesse a sostenere, che in Roma l’antica architettura sì sia perduta, non si potrebbe convincere in miglior guisa che con alzare le piante delle moderne fabbriche, e confrontarle alle regole dell’antiche: perché, mentre sì nell’une, sì nell’altre apparissero espressamente i medesimi ornamenti, le medesime proporzioni, converrebbe di necessità confessar, che regna oggi in Roma la medesima arte di piantar fabbriche che vi regnò anticamente. All’istessa forma, mentre quelle moli eccelsissime di virtù, quali sono i martiri, si veggono alzate con una simmetria somigliante, sì negli andati secoli, sì ne’ nostri, converrà dire, che nella Chiesa Cattolica v’è un artefice stesso che le lavora, cioè lo Spirito Santo; e v’è un’arte stessa di lavorarle, che è la sua grazia. Però a restrignerci discorriamo così.

IV. Due cose si richieggono a un vero martire: la pena da lui sopportata, e le virtù praticate nel sopportarla (S. Th. 2. 2. q. 123. a. 1). Ora, a cominciar dalla pena: se andiamo in quel teatro di crudeltà che a’ nostri giorni ha tenuto aperto il Giappone, e lo tiene ancora; troveremo che i martiri di quella chiesa cedono, è vero, in questo ai martiri antichi, che non tutti sono ancora riconosciuti autenticamente per tali dalla santa Chiesa Romana, a cui tocca ammetterli: onde sol si chiamano martiri per usanza, cioè secondo il modo comune di favellare che hanno i Cattolici, avvezzi, fino da’ primi tempi, a conferire l’onore di si gran titolo a tutti coloro, cui, se fu levata la vita, fu verisimilmente levata in odio della fede di Cristo da lor protetta: che sarà il senso qui ancor seguito da noi. Del rimanente, nell’acerbità de’ tormenti la novella cristianità giapponese, più che verun’altra nazione, è ita d’appresso a’ primi eroi della cristianità già nascente: senonchè, se della giapponese mi piace di ragionare, ancora più e delle altre, è perché di questa son testimoni in buona parte gli olandesi medesimi, cioè gli eretici odierni, ne’ diari di là trasmessi in Europa: onde non si potrà sospettare d’una verità che è confermata fin dagli stessi avversari su’ loro fogli volanti.

I .

V. Dirò pertanto che il pestare la vita con le mazze ai nuovi Cristiani, il viso co’ piedi, il decapitare, il dimembrare, l’immergere nelle carni ferri roventi, lo stirare sulle cataste, il sospendere sulle croci, come tormenti volgari furono quivi disusati ben tosto da quei crudeli, affin di sostituirne dei più tremendi, quali poi furono l’ardere a fuoco lento in più ore quei generosi confessori di Cristo, affinché si consumassero a poco a poco; strappare loro con tenaglie la pelle, le membrane, i muscoli, i nervi, e dipoi così spolpati reciderli a pezzo a pezzo con coltellacci male affilati; tenerli appesi per più giorni dai piedi legati in alto, e col capo pendente dentro una fossa; segare ogni dì loro il collo interrottamente con una canna, per lo spazio talor di una settimana; sommergerli a parte a parte nell’acque bollentissime del monte TJngen, e poi levarli, perché marcissero vivi, e poi tornare a sommergerli già marciti. E perché la morte, quantunque così stentata, parca pur troppo veloce all’insaziabile crudeltà di quei fieri persecutori, scacciarli alla campagna su ‘l cuor del verno, che là stride orrendissimo, in dì nevosi, e scacciarveli ignudi, o al più coperti di alcune lacere stuoie che loro talor lasciavano per decenza, senza altro cibo che di quelle radiche amare le quali si raccogliessero in tanto ghiaccio; senza fuoco, senza tetto, senza tugurio, mercé le guardie d’intorno, che loro divietavano ogni riparo; sicché le povere madri eran ridotte ad ammassare i lor teneri figliuoletti sopra il terreno, e coprirli d’ erbe, mentre bene spesso erano tanti, che non potevano stringerli tutti al seno. E v’ha chi rimembrasi di aver mai lette in altre istorie maniere di tormentare più ree di queste?

VI. Ecco però, che nella pena non sono i moderni eroi del Giappone inferiori agli eroi degli antichi secoli. Passiamo ora alle virtù, o cagioni, o compagne di tanta pena. La corona magnifica del martirio è composta di quattro gioie del paradiso, cioè di quattro segnalate virtù, di fortezza e di pazienza nell’atto che si chiama imperato, di carità e di fede nell’imperante (S. Th. 2. 2. q. 124. a.2. ad 2). Ora per conoscer più chiara la fortezza e la pazienza di simili giapponesi, sarà buon consiglio lasciare da parte gli uomini, e favellare sol delle femmine e de’ fanciulli, in cui tali virtù appariranno tanto più prodigiose, quanto più superiori alla lor natura. La fortezza naturale richiede in prima una robustezza di membra proporzionate, e così ancor la pazienza: onde il corpo ben formato in sé, e risentito ne’ muscoli; l’età di mezzo tra la gioventù e la vecchiaia; il temperamento misto di bile e di flemma, sogliono darsi per contrassegni di prode e di poderoso. Molto alla natura anche aggiunge l’educazione; molto anche l’abito; onde riescono più forti i soldati veterani, che i nuovi: e più pazienti quei che sono allevati sulle montagne ai rigori della stagione, di quei che al piano vissero lungamente tra gli agi e tra l’abbondanza delle loro coltivazioni domestiche.

VII. Pertanto chi più lontano dalla fortezza nell’incontrare i pericoli, che una debole femminella, la quale per nessuno di questi capi può mai sperare un’indole superiore al sesso donnesco? Mulierem fortem quis inveniet? E chi ancor più lontano dalla pazienza nel sostenerli  L’istesso dicasi a proporzione dei teneri pargoletti che per l’età appena sono abili a divisare altro bene che il dilettevole, non che a preferire l’onesto (che è un bene riposto di là da’ sensi) a qualunque bene sensibile, e a preferirvelo in faccia a mille spietate carneficine. E tuttavia, perché scorgasi, che la virtù de’ Cristiani perseguitati non nasce nelle miniere della natura, ma della grazia, le femmine ed i fanciulli hanno dati, come ne’ secoli primi, cosi anche in questi, esempi di costanza i più segnalati che mai si udissero al mondo. Non mi permette la brevità di far che accennare in poche parole fatti sì ampli, che soli meriterebbonsi un gran volume: e ben anche l’hanno, mentre v’è chi con pari e pietà di spirito e perizia di stile gli trasse a luce.

VIII. Vi ha memoria di una Tecla arsa viva, con cinque suoi fìgliuolini intorno di lei, ed uno dentro di lei, mentre ne era incinta (Bart. p. 2): v’è dico memoria, che giunta al luogo del supplizio, trasse fuori un bell’abito tutto nuovo, e se ne vesti in segno di festa, e acceso il fuoco, mentre cosi struggevasi lentamente, rasciugava le lagrime ad una sua bambina di tre anni che agonizzante tenevasi in sulle braccia, e la confortava con la speranza della gloria celeste già già vicina. Una povera donna vendé una cintola, per potere col prezzo d’essa comperarsi un palo, a cui legata ardesse viva per Cristo (P. 1). Un’altra si addestrava a star forte, col prendere spesso in mano ferri roventi, con che giunse in fine ad ottenerlo, morendo anch’ella lentamente nel fuoco (P. 2). Una madre scoperse a’ persecutori una piccola sua figliuolina, perché morisse seco qual cristiana ed un’altra avvisata della sentenza già data contro di lei, fe’ coi suoi di casa una piccola processione, cantando intorno intorno inni di lode al Signore per ringraziarlo (P. 2). Una scrisse frettolosamente al marito da sé lontano invitandolo a morir seco (P. 1). Un’ altra diede al tiranno una supplica, e in essa le ragioni del non dover venire esclusa sola lei dalla morte, che in fine ella consegui (P. 1): ed una, veggendosi ucciso a un tratto il marito, corse dietro ai carnefici, addimandando una simil grazia per sé che gli era consorte, come nel talamo, cosi, e ancora più, nella fede (P. 2. p. 59).

IX. Non differente dalla generosità delle madri fu quella dei pargoletti. Un fanciullo di nove anni, corse dove poteva essere decollato, e si levò da sé le vesti dal collo, per porgerlo nudo al taglio (P. 1). Una fanciulletta d’otto anni, non potendo andare da sé, come cieca affatto, si afferrò stretta alla madre, e con essa pervenne a morir bruciata (P. 2). Uno di anni tredici finse di averne quindici per entrare nel ruolo dei condannati (P. 2. p. 503). Due fanciulli, sentenziati a morire, si misero dolcemente a consolare la vecchia zia, che essi credevano piangere di tristezza, mentre piangeva d’invidia da lei portata a chi moriva per Cristo (P. 1). Un altro di dodici anni brillò di giubilo in sulla croce, né sol brillò, ma si commosse più che poté con le gambe, come se bramasse ballarvi (P. 1). E perché il coraggio più che mai si riconosce ai pericoli repentini, chiudiamo con questo solo quello che rimarrebbemi ancora a dir di meraviglioso. Uno di cinque anni svegliato (mentre egli più soavemente dormiva) perché venisse al supplizio; senza smarrirsi chiese di subito i suoi panni di festa, e vestitosi prestamente, fu sulle braccia del carnefice stesso portato al luogo della decollazione a lui destinata: dove inginocchiatosi vicino al padre, poco fa tagliato in più pezzi, con le mani giunte, e con gli occhi levati al cielo, aspettò il colpo con un atto si generoso che il manigoldo, vinto dalla pietà, rimise in fine la scimitarra nel fodero; e perché il figliuolo, che s’era da se stesso spogliato dal mezzo in su, stava pur tuttora aspettando chi il decollasse, ottenne al fine la grazia da uno, che mal esperto non seppe né anche farlo in un colpo solo, forse perché si ammirasse più la costanza di quel bambino che seppe quivi stare imperterrito fino al terzo che lo fini (P. 1).

X. Come poi ir fuoco interiore d’una fornace comprendesi agevolmente dalle vampe accese che l’escono dalla bocca; così dalla intrepidezza del volto, dalla generosità delle parole, dalla grandezza de’ portamenti, con cui furon usi di accompagnare il loro trionfo questi che abbiam rammentati, ed altri lor simili, agevol cosa ci sarà di comprendere ancora quello che lor bolliva nel profondo del seno, cioè la fede e la carità che servivan loro di anima ad una morte sì coraggiosa; onde non resti neppur minimo luogo da dubitare, se nella cristianità giapponese abbiano i suoi fedeli imitata assai da vicino la virtù di quei grandi martiri primitivi che diedero loro norma.

II.

XI. Che diran pertanto gli eretici a queste cose? Negheran forse qualunque credito ai fatti da me narrati? Ma come, se in parte ne furon essi medesimi spettatori? Ed oltre a ciò, sono tali fatti riferiti da altri uomini di virtù tanto singolari, che per tutto quell’oro che è mai venuto sulle flotte di Olanda non s’idurrebbono a mentir lievissimamente, non che a mentire sacrilegamente in materia di religione, con rendersi però degni del fuoco eterno. Diranno, che questa intrepidezza era per verità da natura indomita, qual da noi fu notata ne’ donatisti? Ma come, se tale intrepidezza trovavasi in donne, in donzellette, e in garzoncelli, tutti innocenti, né si era trovata mai prima che tra lor s’inoltrasse la fede romana? Se questi eroi giapponesi fossero stati di quella tempra, di cui era formato quel Fermo imperadore di Roma (Vopiscus in Firmo), che prosteso sopra il terreno poteva sostenere sul petto ignudo un’incudine martellata con braccia robustissime da due fabbri, confesserei, che la tara avrebbe qualche apparenza di verità. Ma qual apparenza può averne, dove sappiam che le femmine e che i fanciulli son si cascanti, che crollano a qualunque urto, e svengono alla vista dell’altrui sangue, non che del proprio? Quei cuori dunque che non sostengono di mirare senza orrore le piaghe di un ferito, benché trattate delicatissimamente da mano medica, avran poi potuto naturalmente esultare in faccia ai tiranni, e vincere con la fermezza della loro tolleranza, la ferocità de’ loro tormentatori?

XII. Diranno, che non tutti riuscirono di costanza sì prodigiosa: ma che, se molti ressero al furore di tante persecuzioni, molti anche caddero. Sì: ma questo parimente addivenne nei tempi antichi: tanto che il numero de’ caduti costrinse i concili a formare più canoni intorno ad essi, come specialmente apparisce da s. Cipriano (L. 1. ep. 2. et 1. 3. ep. 14. 15. 16. 17. 19). Senzachè ci viene ciò di vantaggio a manifestare, che la costanza ne’ martiri è dalla grazia: onde chi manchi alla medesima grazia, rimane in fine spogliato di tal costanza, data dall’alto a guisa di vestimento che si pone a un tratto e si leva: Donec induamini virtute ex alto (Luc. XXIV, 49). E a questo fine permette Iddio le cadute, perché non attribuiscasi alla natura ciò che appartiene alla grazia, qual suo favore. Se la luna fosse piena sempre ad un modo, potrebbe credersi, che ella avesse in sé la sorgente della sua luce: ma mentre mirasi ad ora ad ora mancante, si fa palese, che quel bellissimo argento di cui si veste, non è dalle miniere a lei nate in casa; è dono del sole, o è piuttosto un imprestito fatto a tempo.

XIII. Finalmente, come un vero prodigio, quantunque solo, basterebbe a provare la verità della Religione romana; così basterebbe a provarla anche un vero martire, come quegli che non è per certo un prodigio minor degli altri, anzi di gran lunga è maggiore (Potrebbe dirsi della divinità di nostra religione ciò stesso, che della verità in generale. In quella guisa che un Vero anche solo sarebbe sufficiente a dimostrare l’insussistenza dello scetticismo, così un martire, fosse pur solo, varrebbe contro l’incredulo, o l’eretico, che impugnano la divinità del Cattolicismo.). Ora chi si avviserà, che fra tanti, di cui la Chiesa medesima ne ha modernamente colmi i suoi fasti, non se ne trovi neppur uno di vero? Sarà dunque possibile che ai Cattolici solamente riesca di fingerne innumerabili, mentre alle sette non è riuscito di fingerne mai veruno che non soggiaccia alla sua eccezione evidente? Non accade però, per non confessare l’indubitato, concedere l’impossibile. Ma questo appunto è ciò che tanto vien da me detestato in questi protervi increduli; voler i miseri faticar più per mantenere la loro incredulità, di quel che faticherebbero per deporla.

XIV. Rendansi dunque tutti alla verità conosciuta, da che più glorioso è il cederle prontamente, che il contrariarla; e si concluda, che come la vera Chiesa è stata in tutti i secoli adorna di nuovi prodigi, così in tutti i secoli è stata parimente arricchita di nuovi martiri (V. Boz. 1. 7. sig. 27): la continuazione de’ quali è tanto illustre argomento di verità, che siccome non è mai restata interrotta fino a quest’ora, così né  anche dovrà restare interrotta d’ora innanzi, ma piuttosto accresciuta ove ciò fia d’uopo, conforme appunto si è veduto seguir questi ultimi tempi, quando avendo più che mai l’eresia procurato di porre a fondo la navicella di Pietro, è accorsa la provvidenza a sostenerla anche più, con possente braccio. Nel resto fra tanti i quali si leggono ne’ moderni annali aver data la loro vita animosamente per la fede cristiana, chi sono più? I Cattolici, o riformati? Che dissi più? Neppur uno de’ riformati potrà contarvisi. Vengano pur essi dunque, e si arroghino, se si può, quello che è sì chiaro esser nostro.

FINE DEL SECONDO VOLUME.